TRIONFI, di Francesco Petrarca - pagina 2
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Que' duo che fece Amor compagni eterni,
Alcïone e Ceìce, in riva al mare
far i lor nidi a' più soavi verni;
lungo costor pensoso Esaco stare
cercando Esperia, or sopra un sasso assiso,
et or sotto acqua, et or alto volare;
e vidi la crudel figlia di Niso
fuggir volando, e correr Atalanta,
da tre palle d'or vinta e d'un bel viso;
e seco Ipomenès che fra cotanta
turba d'amanti miseri cursori
sol di vittoria si rallegra e vanta.
Fra questi fabulosi e vani amori
vidi Aci e Galatea, che 'n grembo gli era,
e Polifemo farne gran romori;
Glauco ondeggiar per entro quella schiera,
senza colei cui sola par che pregi,
nomando un'altr'amante acerba e fera;
Canente e Pico, un già de' nostri regi,
or vago augello, e chi di stato il mosse
lasciògli 'l nome e 'l real manto e i fregi.
Vidi 'l pianto d'Egeria; invece d'osse
Scilla indurarsi in petra aspra et alpestra,
che del mar ciciliano infamia fosse;
e quella che la penna da man destra,
come dogliosa e desperata scriva,
e 'l ferro ignudo tien da la sinestra;
Pigmalïon con la sua donna viva;
e mille che Castalia et Aganippe
udir cantar per la sua verde riva;
e d'un pomo beffata al fin Cidippe.
III
Era sì pieno il cor di meraviglie
ch'i' stava come l'uom che non pò dire,
e tace, e guarda pur ch'altri 'l consiglie,
quando l'amico mio: - Che fai? che mire?
che pensi? - disse - non sai tu ben ch'io
son della turba? e' mi convien seguire.
-
- Frate, - risposi - e tu sai l'esser mio,
e l'amor del saper che m'ha sì acceso
che l'opra è ritardata dal desio.
-
Et egli: - I' t'avea già tacendo inteso:
tu vuoi udir chi son quest'altri ancora.
I' tel dirò, se 'l dir non è conteso.
Vedi quel grande il quale ogni uomo onora;
egli è Pompeo, et ha Cornelia seco,
che del vil Tolomeo si lagna e plora.
L'altro più di lontan, quell'è 'l gran Greco;
né vede Egisto e l'empia Clitemestra:
or puoi veder Amor s'egli è ben cieco.
Altra fede, altro amor: vedi Ipermestra,
vedi Piramo e Tisbe inseme a l'ombra,
Leandro in mare et Ero a la finestra.
Quel sì pensoso è Ulisse, affabile ombra,
che la casta mogliera aspetta e prega,
ma Circe, amando, gliel ritene e 'ngombra.
L'altro è 'l figliuol d'Amilcare, e nol piega
in cotant'anni Italia tutta e Roma;
vil feminella in Puglia il prende e lega.
Quella che 'l suo signor con breve coma
va seguitando, in Ponto fu reina:
come in atto servil se stessa doma!
L'altra è Porzia, che 'l ferro e 'l foco affina;
quell'altra è Giulia, e duolsi del marito
ch'a la seconda fiamma più s'inchina.
Volgi in qua gli occhi al gran padre schernito,
che non si muta, e d'aver non gli 'ncresce
sette e sette anni per Rachel servito:
vivace amor che negli affanni cresce!
Vedi 'l padre di questo, e vedi l'avo
come di sua magion sol con Sara esce.
Poi vedi come Amor crudele e pravo
vince Davit e sforzalo a far l'opra
onde poi pianga in loco oscuro e cavo.
Simile nebbia par ch'oscuri e copra
del più saggio figliuol la chiara fama
e 'l parta in tutto dal Signor di sopra.
De l'altro, che 'n un punto ama e disama,
vedi Tamar ch'al suo frate Absalone
disdegnosa e dolente si richiama.
Poco dinanzi a lei vedi Sansone,
vie più forte che saggio, che per ciance
in grembo a la nemica il capo pone.
Vedi qui ben fra quante spade e lance
Amor, e 'l sonno, et una vedovetta
con bel parlar, con sue polite guance,
vince Oloferne; e lei tornar soletta
con una ancilla e con l'orribil teschio,
Dio ringraziando, a mezza notte, in fretta.
Vedi Sichem e 'l suo sangue, ch'è meschio
de la circoncisione e de la morte,
e 'l padre colto e 'l popolo ad un veschio:
questo gli ha fatto il subito amar forte.
Vedi Assuero il suo amor in qual modo
va medicando a ciò che 'n pace il porte:
da l'un si scioglie, e lega a l'altro nodo:
cotal ha questa malizia rimedio,
come d'asse si trae chiodo con chiodo.
Vuo' veder in un cor diletto e tedio,
dolce et amaro? or mira il fero Erode;
Amore e crudeltà gli han posto assedio.
Vedi com'arde in prima, e poi si rode,
tardi pentito di sua feritate,
Marïanne chiamando che non l'ode.
Vedi tre belle donne innamorate,
Procri, Artemisia con Deidamia,
et altrettante ardite e scelerate,
Semiramìs, Biblì e Mirra ria;
come ciascuna par che si vergogni
de la sua non concessa e torta via!
Ecco quei che le carte empion di sogni,
Lancilotto, Tristano e gli altri erranti,
ove conven che 'l vulgo errante agogni.
Vedi Ginevra, Isolda e l'altre amanti,
e la coppia d'Arimino che 'nseme
vanno facendo dolorosi pianti.
-
Così parlava; et io, come chi teme
futuro male e trema anzi la tromba,
sentendo già dov'altri anco nol preme,
avea color d'uom tratto d'una tomba;
quando una giovinetta ebbi dal lato,
pura assai più che candida colomba.
Ella mi prese; et io, ch'avrei giurato
difendermi d'un uom coverto d'arme,
con parole e con cenni fui legato.
E come ricordar di vero parme,
l'amico mio più presso mi si fece,
e con un riso, per più doglia darme,
dissemi entro l'orecchia: - Ormai ti lece
per te stesso parlar con chi ti piace,
ché tutti siam macchiati d'una pece.
-
Io era un di color cui più dispiace
de l'altrui ben che del suo mal, vedendo
chi m'avea preso in libertate e 'n pace;
e, come tardi dopo 'l danno intendo,
di sue bellezze mia morte facea,
d'amor, di gelosia, d'invidia ardendo.
Gli occhi dal suo bel viso non torcea,
come uom ch'è infermo e di tal cosa ingordo
ch'è dolce al gusto, a la salute è rea.
Ad ogni altro piacer cieco era e sordo,
seguendo lei per sì dubbiosi passi
ch' i' tremo ancor qualor me ne ricordo.
Da quel tempo ebbi gli occhi umidi e bassi,
e 'l cor pensoso, e solitario albergo
fonti, fiumi, montagne, boschi e sassi;
da indi in qua cotante carte aspergo
di pensieri e di lagrime e d'inchiostro,
tante ne squarcio, e n'apparecchio, e vergo;
da indi in qua so che si fa nel chiostro
d'Amor, e che si teme, e che si spera,
e, chi sa legger, ne la fronte il mostro;
e veggio andar quella leggiadra fera
non curando di me né di mie pene,
di sue vertuti e di mie spoglie altera.
Da l'altra parte, s'io discerno bene,
questo signor, che tutto 'l mondo sforza,
teme di lei, ond'io son fuor di spene;
ch'a mia difesa non ho ardir né forza,
e quello in ch'io sperava lei lusinga,
che me e gli altri crudelmente scorza.
Costei non è chi tanto o quanto stringa,
così selvaggia e rebellante suole
da le 'nsegne d'Amore andar solinga;
e veramente è fra le stelle un sole.
Un singular suo proprio portamento,
suo riso, suoi disdegni e sue parole,
le chiome accolte in oro o sparse al vento,
gli occhi, ch'accesi d'un celeste lume
m'infiamman sì ch' i' son d'arder contento...!
Chi poria 'l mansueto alto costume
aguagliar mai parlando, e la vertute,
ov'è 'l mio stil quasi al mar picciol fiume?
Nove cose e già mai più non vedute,
né da veder già mai più d'una volta,
ove tutte le lingue sarien mute.
Così preso mi trovo, et ella è sciolta;
io prego giorno e notte, o stella iniqua!
et ella a pena di mille uno ascolta.
Dura legge d'Amor! ma benché obliqua,
servar convensi, però ch'ella aggiunge
di cielo in terra, universale, antiqua.
Or so come da sé 'l cor si disgiunge,
e come sa far pace, guerra e tregua,
e coprir suo dolor quand'altri il punge;
e so come in un punto si dilegua
e poi si sparge per le guance il sangue,
se paura o vergogna aven che 'l segua;
so come sta tra' fiori ascoso l'angue,
come sempre tra due si vegghia e dorme,
come senza languir si more e langue;
so de la mia nemica cercar l'orme
e temer di trovarla, e so in qual guisa
l'amante ne l'amato si trasforme;
so fra lunghi sospiri e brevi risa
stato, voglia, color cangiare spesso;
viver, stando dal cor l'alma divisa;
so mille volte il dì ingannar me stesso;
so, seguendo 'l mio foco ovunque e' fugge,
arder da lunge ed agghiacciar da presso;
so come Amor sovra la mente rugge,
e come ogni ragione indi discaccia,
e so in quante maniere il cor si strugge;
so di che poco canape s'allaccia
un'anima gentil quand'ella è sola
e non v'è chi per lei difesa faccia;
so com'Amor saetta e come vola,
e so com'or minaccia et or percote,
come ruba per forza e come invola,
e come sono instabili sue rote,
le mani armate, e gli occhi avolti in fasce,
sue promesse di fé come son vote,
come nell'ossa il suo foco si pasce
e ne le vene vive occulta piaga,
onde morte e palese incendio nasce.
Insomma so che cosa è l'alma vaga,
rotto parlar con subito silenzio,
che poco dolce molto amaro appaga,
di che s'ha il mel temprato con l'assenzio
IV
Poscia che mia fortuna in forza altrui
m'ebbe sospinto, e tutti incisi i nervi
di libertate ov'alcun tempo fui,
io, ch'era più salvatico che i cervi,
ratto domesticato fui con tutti
i miei infelici e miseri conservi;
e le fatiche lor vidi e i lor frutti,
per che torti sentieri e con qual arte
a l'amorosa greggia eran condutti.
Mentre io volgeva gli occhi in ogni parte
s' i' ne vedessi alcun di chiara fama
o per antiche o per moderne carte,
vidi colui che sola Euridice ama,
lei segue a l'inferno e, per lei morto,
con la lingua già fredda anco la chiama.
Alceo conobbi, a dir d'Amor sì scorto,
Pindaro, Anacreonte, che rimesse
ha le sue muse sol d'Amore in porto;
Virgilio vidi, e parmi ch'egli avesse
compagni d'alto ingegno e da trastullo,
di quei che volentier già 'l mondo lesse:
l'uno era Ovidio e l'altro era Catullo,
l'altro Properzio, che d'amor cantaro
fervidamente, e l'altro era Tibullo.
Una giovene Greca a paro a paro
coi nobili poeti iva cantando,
et avea un suo stil soave e raro.
Così, or quinci or quindi rimirando,
vidi gente ir per una verde piaggia
pur d'amor volgarmente ragionando.
Ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo,
che di non esser primo par ch' ira aggia;
ecco i duo Guidi che già fur in prezzo,
Onesto Bolognese, e i Ciciliani,
che fur già primi e quivi eran da sezzo,
Sennuccio e Franceschin, che fur sì umani
come ogni uom vide; e poi v'era un drappello
di portamenti e di volgari strani:
fra tutti il primo Arnaldo Danïello,
gran maestro d'amor, ch'a la sua terra
ancor fa onor col suo dir strano e bello;
eranvi quei ch'Amor sì leve afferra,
l'un Piero e l'altro e 'l men famoso Arnaldo,
e quei che fur conquisi con più guerra:
i' dico l'uno e l'altro Raimbaldo
che cantò pur Beatrice e Monferrato,
e 'l vecchio Pier d'Alvernia con Giraldo,
Folco, que' ch'a Marsilia il nome ha dato
et a Genova tolto, et a l'estremo
cangiò per miglior patria abito e stato,
Giaufrè Rudel, ch'usò la vela e 'l remo
a cercar la sua morte, e quel Guiglielmo
che per cantare ha 'l fior de' suoi dì scemo,
Amerigo, Bernardo, Ugo e Gauselmo;
e molti altri ne vidi a cui la lingua
lancia e spada fu sempre e targia ed elmo.
E poi conven che 'l mio dolor distingua,
volsimi a' nostri, e vidi 'l buon Tomasso,
ch'ornò Bologna et or Messina impingua.
O fugace dolcezza! o viver lasso!
Chi mi ti tolse sì tosto dinanzi,
senza 'l qual non sapea mover un passo?
dove se' or, che meco eri pur dianzi?
Ben è 'l viver mortal, che sì n'aggrada,
sogno d'infermi e fola di romanzi.
Poco era fuor de la comune strada,
quando Socrate e Lelio vidi in prima:
con lor più lunga via conven ch'io vada.
O qual coppia d'amici! che né 'n rima
poria né 'n prosa ornar assai né 'n versi,
se, come dee, virtù nuda si stima.
Con questi duo cercai monti diversi,
andando tutti tre sempre ad un giogo;
a questi le mie piaghe tutte apersi;
da costor non mi pò tempo né luogo
divider mai, siccome io spero e bramo,
infino al cener del funereo rogo;
con costor colsi 'l glorïoso ramo,
onde forse anzi tempo ornai le tempie
in memoria di quella ch'io tanto amo.
Ma pur di lei, che 'l cor di pensier m'empie,
non potei coglier mai ramo né foglia,
sì fur le sue radici acerbe et empie;
onde benché talor doler mi soglia
com'uom ch'è offeso, quel che con questi occhi
vidi m'è fren che mai più non mi doglia:
materia di coturni e non di socchi
veder preso colui ch'è fatto deo
da tardi ingegni rintuzzati e sciocchi:
ma prima vo' seguir che di noi feo,
e poi dirò quel che d'altrui sostenne:
opra non mia, d'Omero ovver d'Orfeo.
Seguimmo il suon delle purpuree penne
de' volanti corsier per mille fosse,
fin che nel regno di sua madre venne;
né rallentate le catene o scosse,
ma straccati per selve e per montagne,
tal che nessun sapea 'n qual mondo fosse.
Giace oltra ove l'Egeo sospira e piagne
un'isoletta delicata e molle
più d'altra che 'l sol scalde o che 'l mar bagne;
nel mezzo è un ombroso e chiuso colle
con sì soavi odor, con sì dolci acque,
ch'ogni maschio pensier de l'alma tolle.
Questa è la terra che cotanto piacque
a Venere, e 'n quel tempo a lei fu sagra
che 'l ver nascoso e sconosciuto giacque;
et anco è di valor sì nuda e magra,
tanto ritien del suo primo esser vile,
che par dolce a' cattivi et a' buoni agra.
Or quivi triunfò il signor gentile
di noi e degli altri tutti ch' ad un laccio
presi avea dal mar d'India a quel di Tile:
pensieri in grembo e vanitadi in braccio,
diletti fuggitivi e ferma noia,
rose di verno, a mezza state il ghiaccio,
dubbia speme davanti e breve gioia,
penitenzia e dolor dopo le spalle:
sallo il regno di Roma e quel di Troia.
E rimbombava tutta quella valle
d'acque e d'augelli, et eran le sue rive
bianche, verdi, vermiglie, perse e gialle;
rivi correnti di fontane vive
al caldo tempo su per l'erba fresca,
e l'ombra spessa, e l'aure dolci estive;
poi, quand'è 'l verno e l'aer si rinfresca,
tepidi soli, e giuochi, e cibi, et ozio
lento, che i semplicetti cori invesca.
Era ne la stagion che l'equinozio
fa vincitor il giorno, e Progne riede
con la sorella al suo dolce negozio.
O di nostre fortune instabil fede!
In quel loco e 'n quel tempo et in quell'ora
che più largo tributo agli occhi chiede,
triunfar volse que' che 'l vulgo adora:
e vidi a qual servaggio et a qual morte,
a quale strazio va chi s'innamora.
Errori e sogni et imagini smorte
eran d'intorno a l'arco triunfale,
e false opinïoni in su le porte,
e lubrico sperar su per le scale,
e dannoso guadagno, ed util danno,
e gradi ove più scende chi più sale;
stanco riposo e riposato affanno,
chiaro disnore e gloria oscura e nigra,
perfida lealtate e fido inganno,
sollicito furor e ragion pigra:
carcer ove si ven per strade aperte,
onde per strette a gran pena si migra;
ratte scese a l'entrare, a l'uscir erte;
dentro, confusïon turbida e mischia
di certe doglie e d'allegrezze incerte.
Non bollì mai Vulcan, Lipari od Ischia,
Strongoli o Mongibello in tanta rabbia:
poco ama sé chi 'n tal gioco s'arrischia.
In così tenebrosa e stretta gabbia
rinchiusi fummo, ove le penne usate
mutai per tempo e la mia prima labbia;
e 'ntanto, pur sognando libertate,
l'alma, che 'l gran desio fea pronta e leve,
consolai col veder le cose andate.
Rimirando er'io fatto al sol di neve
tanti spirti e sì chiari in carcer tetro,
quasi lunga pittura in tempo breve,
che 'l più va inanzi, e l'occhio torna a dietro
TRIUMPHUS PUDICITIE
Trionfo della Pudicizia
Quando ad un giogo ed in un tempo quivi
dòmita l'alterezza degli dèi
e degli uomini vidi al mondo divi,
i' presi esempio de' lor stati rei,
facendo mio profitto l'altrui male
in consolar i casi e i dolor mei;
ché s'io veggio d'un arco e d'uno strale
Febo percosso e 'l giovene d'Abido,
l'un detto deo, l'altro uom puro mortale,
e veggio ad un lacciuol Giunone e Dido,
ch'amor pio del suo sposo a morte spinse,
non quel d'Enea com'è 'l publico grido,
non mi debb'io doler s'altri mi vinse
giovene, incauto, disarmato e solo.
E se la mia nemica Amor non strinse,
non è ancor giusta assai cagion di duolo,
ché in abito il rividi ch'io ne piansi,
sì tolte gli eran l'ali e 'l gire a volo.
Non con altro romor di petto dansi
duo leon feri, o duo folgori ardenti
che cielo e terra e mar dar loco fansi,
ch'i' vidi Amor con tutti suo' argomenti
mover contra colei di ch'io ragiono,
e lei presta assai più che fiamme o venti.
Non fan sì grande e sì terribil sòno
Etna qualor da Encelado è più scossa,
Scilla e Caribdi quando irate sono,
che via maggiore in su la prima mossa
non fosse del dubbioso e grave assalto,
ch'i' non cre' che ridir sappia né possa.
Ciascun per sé si ritraeva in alto
per veder meglio, e l'orror de l'impresa
i cori e gli occhi avea fatti di smalto.
Quel vincitor che primo era a l'offesa,
da man dritta lo stral, da l'altra l'arco,
e la corda a l'orecchia avea già stesa.
Non corse mai sì levemente al varco
d'una fugace cerva un leopardo
libero in selva o di catene scarco,
che non fosse stato ivi lento e tardo;
tanto Amor pronto venne a lei ferire
ch'al volto à le faville ond'io tutto ardo.
Combattea in me co la pietà il desire,
ché dolce m'era sì fatta compagna,
duro a vederla in tal modo perire.
Ma vertù che da' buon non si scompagna
mostrò a quel punto ben come a gran torto
chi abbandona lei d'altrui si lagna,
ché già mai schermidor non fu sì accorto
a schifar colpo, né nocchier sì presto
a volger nave dagli scogli in porto,
come uno schermo intrepido et onesto
subito ricoverse quel bel viso
dal colpo, a chi l'attende, agro e funesto.
Io era al fin cogli occhi e col cor fiso,
sperando la vittoria ond'esser sòle,
e di non esser più da lei diviso.
Come chi smisuratamente vole,
ch'ha scritte, inanzi ch'a parlar cominci,
negli occhi e ne la fronte le parole,
volea dir io: - Signor mio, se tu vinci
legami con costei, s'io ne son degno;
né temer che già mai mi scioglia quinci! -,
quand'io 'l vidi pien d'ira e di disdegno
sì grave, ch'a ridirlo sarien vinti
tutti i maggior, non che 'l mio basso ingegno;
ché già in fredda onestate erano estinti
i dorati suoi strali accesi in fiamma
d'amorosa beltate e 'n piacer tinti.
Non ebbe mai di vero valor dramma
Camilla e l'altre andar use in battaglia
con la sinistra sola intera mamma,
non fu sì ardente Cesare in Farsaglia
contra 'l genero suo, com'ella fue
contra colui ch'ogni lorica smaglia.
Armate eran con lei tutte le sue
chiare Virtuti (o gloriosa schiera!)
e teneansi per mano a due a due.
Onestate e Vergogna a la fronte era,
nobile par de le vertù divine
che fan costei sopra le donne altera;
Senno e Modestia a l'altre due confine,
Abito con Diletto in mezzo 'l core,
Perseveranza e Gloria in su la fine;
Bella Accoglienza, Accorgimento fore,
Cortesia intorno intorno e Puritate,
Timor d'infamia e Desio sol d'onore,
Penser canuti in giovenile etate,
e, la concordia ch'è sì rara al mondo,
v'era con Castità somma Beltate.
Tal venia contr'Amore e 'n sì secondo
favor del cielo e de le ben nate alme,
che de la vista e' non sofferse il pondo.
Mille e mille famose e care salme
torre gli vidi, e scuotergli di mano
mille vittorïose e chiare palme.
Non fu 'l cader di subito sì strano
dopo tante vittorie ad Aniballe
vinto a la fin dal giovine Romano;
non giacque sì smarrito ne la valle
di Terebinto quel gran Filisteo
a cui tutto Israel dava le spalle,
al primo sasso del garzon ebreo;
né Ciro in Scizia, ove la vedova orba
la gran vendetta e memorabil feo.
Com'uom ch'è sano e 'n un momento ammorba,
che sbigottisce e duolsi, o colto in atto
che vergogna con man dagli occhi forba,
cotale era egli, e tanto a peggior patto,
che paura e dolor, vergogna et ira
eran nel volto suo tutte ad un tratto.
Non freme così 'l mar quando s'adira,
non Inarime allor che Tifeo piagne,
non Mongibel s'Encelado sospira.
Passo qui cose glorïose e magne
ch'io vidi e dir non oso: a la mia donna
vengo et a l'altre sue minor compagne.
Ell'avea in dosso, il dì, candida gonna,
lo scudo in man che mal vide Medusa.
D'un bel dïaspro er' ivi una colonna,
a la qual d'una in mezzo Lete infusa
catena di diamante e di topazio,
che s'usò fra le donne, oggi non s'usa,
legarlo vidi, e farne quello strazio
che bastò ben a mille altre vendette;
ed io per me ne fui contento e sazio.
I' non poria le sacre e benedette
vergini ch'ivi fur chiudere in rima,
non Calliope e Clio con l'altre sette;
ma d'alquante dirò che 'n su la cima
son di vera onestate; infra le quali
Lucrezia da man destra era la prima,
l'altra Penelopè: queste gli strali
avean spezzato e la faretra a lato
a quel protervo, e spennachiato l'ali.
Verginia appresso e 'l fero padre armato
di disdegno e di ferro e di pietate,
ch'a sua figlia et a Roma cangiò stato,
l'una e l'altra ponendo in libertate;
poi le Tedesche che con aspra morte
servaron lor barbarica onestate;
Judith ebrea, la saggia, casta e forte,
e quella Greca che saltò nel mare
per morir netta e fuggir dura sorte.
Con queste e con certe altre anime chiare
triunfar vidi di colui che pria
veduto avea del mondo triunfare.
Fra l'altre la vestal vergine pia
che baldanzosamente corse al Tibro,
e per purgarsi d'ogni fama ria
portò del fiume al tempio acqua col cribro;
poi vidi Ersilia con le sue Sabine,
schiera che del suo nome empie ogni libro;
poi vidi, fra le donne pellegrine,
quella che per lo suo diletto e fido
sposo, non per Enea, volse ire al fine
(taccia 'l vulgo ignorante); io dico Dido,
cui studio d'onestate a morte spinse,
non vano amor com'è 'l publico grido.
Al fin vidi una che si chiuse e strinse
sovra Arno per servarsi; e non le valse,
ché forza altrui il suo bel penser vinse.
Era 'l trionfo dove l'onde salse
percoton Baia, ch'al tepido verno
giuns'e a man destra in terra ferma salse.
Indi, fra monte Barbaro et Averno,
l'antichissimo albergo di Sibilla
lassando, se n'andar dritto a Literno.
In così angusta e solitaria villa
era il grand'uom che d'Affrica s'appella,
perché prima col ferro al vivo aprilla.
Qui de l'ostile onor l'alta novella,
non scemato cogli occhi, a tutti piacque,
e la più casta v'era la più bella.
Né 'l trionfo non suo seguire spiacque
a lui che, se credenza non è vana,
sol per trionfi e per imperi nacque.
Così giugnemmo alla città sovrana,
nel tempio pria che dedicò Sulpizia
per spegner ne la mente fiamma insana.
Passammo al tempio poi di Pudicizia,
ch'accende in cor gentil oneste voglie,
non di gente plebeia ma di patrizia.
Ivi spiegò le glorïose spoglie
la bella vincitrice, ivi depose
le sue vittorïose e sacre foglie;
e 'l giovene Toscan che non ascose
le belle piaghe che 'l fer non sospetto,
del comune nemico in guardia pose
con parecchi altri (e fummi 'l nome detto
d'alcun di lor, come mia scorta seppe)
ch'avean fatto ad Amor chiaro disdetto:
fra gli altri vidi Ippolito e Joseppe.
TRIUMPHUS MORTIS
Trionfo della Morte
I
Quella leggiadra e glorïosa donna,
ch'è oggi ignudo spirto e poca terra
e fu già di valor alta colonna,
tornava con onor da la sua guerra,
allegra, avendo vinto il gran nemico,
che con suo' ingegni tutto 'l mondo atterra,
non con altr'arme che col cor pudico
e d'un bel viso e de' pensieri schivi,
d'un parlar saggio e d'onestate amico.
Era miracol novo a veder ivi
rotte l'arme d'Amore, arco e saette,
e tal morti da lui, tal presi e vivi.
La bella donna e le compagne elette,
tornando da la nobile vittoria,
in un bel drappelletto ivan ristrette.
Poche eran, perché rara è vera gloria;
ma ciascuna per sé parea ben degna
di poema chiarissimo e d'istoria.
Era la lor vittorïosa insegna
in campo verde un candido ermellino,
ch'oro fino e topazi al collo tegna.
Non uman veramente, ma divino
lor andar era e lor sante parole:
beato s'è qual nasce a tal destino.
Stelle chiare pareano; in mezzo, un sole
che tutte ornava e non togliea lor vista;
di rose incoronate e di viole.
E come gentil cor onore acquista,
così venia quella brigata allegra,
quando vidi un'insegna oscura e trista:
et una donna involta in veste negra,
con un furor qual io non so se mai
al tempo de' giganti fusse a Flegra,
si mosse e disse: - O tu, donna, che vai
di gioventute e di bellezze altera,
e di tua vita il termine non sai,
io son colei che sì importuna e fera
chiamata son da voi, e sorda e cieca
gente a cui si fa notte inanzi sera.
Io ho condotto al fin la gente greca
e la troiana, a l'ultimo i Romani,
con la mia spada la qual punge e seca,
e popoli altri barbareschi e strani;
e giugnendo quand'altri non m'aspetta,
ho interrotti mille penser vani.
Or a voi, quando il viver più diletta,
drizzo il mio corso inanzi che Fortuna
nel vostro dolce qualche amaro metta.
-
- In costor non hai tu ragione alcuna,
ed in me poca; solo in questa spoglia
(rispose quella che fu nel mondo una).
Altri so che n'avrà più di me doglia,
la cui salute dal mio viver pende;
a me fia grazia che di qui mi scioglia.
-
Qual è chi 'n cosa nova gli occhi intende,
e vede ond'al principio non s'ac
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