SATIRE, di Ludovico Ariosto - pagina 4
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Io non uccido, io non percuoto o pungo,
50 io non do noia altrui, se ben mi dolgo
che da chi meco è sempre io mi dilungo:
perciò non dico né a difender tolgo
che non sia fallo il mio; ma non sì grave
che di via più non me perdoni il volgo.
55 Con manco ranno il volgo, non che lave
maggior macchia di questa, ma sovente
titolo al vizio di virtù dato have.
Ermilïan sì del danaio ardente
come d'Alessio il Gianfa, e che lo brama
60 ogni ora, in ogni loco, da ogni gente,
né amico né fratel né se stesso ama,
uomo d'industria, uomo di grande ingegno,
di gran governo e gran valor si chiama.
Gonfia Rinieri, et ha il suo grado a sdegno;
65 esser gli par quel che non è, e più inanzi
che in tre salti ir non può si mette il segno.
Non vuol che in ben vestire altro lo avanzi;
spenditor, scalco, falconiero, cuoco,
vuol chi lo scalzi, chi gli tagli inanzi.
70 Oggi uno e diman vende un altro loco;
quel che in molti anni acquistar gli avi e i patri
getta a man piene, e non a poco a poco.
Costui non è chi morda o che gli latri,
ma liberal, magnanimo si noma
75 fra li volgar giudici oscuri et atri.
Solonnio di facende sì gran soma
tolle a portar, che ne saria già morto
il più forte somier che vada a Roma.
Tu 'l vedi in Banchi, alla dogana, al porto,
80 in Camera apostolica, in Castello,
da un ponte all'altro a un volgier d'occhi sorto.
Si stilla notte e dì sempre il cervello,
come al Papa ognor dia freschi guadagni
con novi dazii e multe e con balzello.
85 Gode fargli saper che se ne lagni
e dica ognun che all'util del padrone
non riguardi parenti né compagni.
Il popul l'odia, et ha di odiar ragione,
se di ogni mal che la città flagella
90 gli è ver ch'egli sia il capo e la cagione.
E pur grande e magnifico se appella,
né senza prima discoprirsi il capo
il nobile o il plebeo mai gli favella.
Laurin si fa de la sua patria capo,
95 et in privato il publico converte;
tre ne confina, a sei ne taglia il capo;
comincia volpe, indi con forze aperte
esce leon, poi c'ha 'l popul sedutto
con licenze, con doni e con offerte:
100 l'iniqui alzando, e deprimendo in lutto
li buoni, acquista titolo di saggio,
di furti, stupri e d'omicidi brutto.
Così dà onore a chi dovrebbe oltraggio,
né sa da colpa a colpa scerner l'orbo
105 giudizio, a cui non mostra il sol mai raggio;
e stima il corbo cigno e il cigno corbo;
se sentisse ch'io amassi, faria un viso
come mordesse allora allora un sorbo.
Dica ogniun come vuole, e siagli aviso
110 quel che gli par: in somma ti confesso
che qui perduto ho il canto, il gioco, il riso.
Questa è la prima; ma molt'altre appresso
e molt'altre ragion posso allegarte,
che da le dee m'ha tolto di Permesso.
115 Già mi fur dolci inviti a empir le carte
li luoghi ameni di che il nostro Reggio,
il natio nido mio, n'ha la sua parte.
Il tuo Mauricïan sempre vagheggio,
la bella stanza, il Rodano vicino,
120 da le Naiade amato ombroso seggio,
il lucido vivaio onde il giardino
si cinge intorno, il fresco rio che corre,
rigando l'erbe, ove poi fa il molino;
non mi si può de la memoria tòrre
125 le vigne e i solchi del fecondo Iaco,
la valle e il colle e la ben posta tórre.
Cercando or questo et or quel loco opaco,
quivi in più d'una lingua e in più d'un stile
rivi traea sin dal gorgoneo laco.
130 Erano allora gli anni miei fra aprile
e maggio belli, ch'or l'ottobre dietro
si lasciano, e non pur luglio e sestile.
Ma né d'Ascra potrian né di Libetro
l'amene valli, senza il cor sereno,
135 far da me uscir iocunda rima o metro.
Dove altro albergo era di questo meno
convenïente a i sacri studi, vuoto
d'ogni iocundità, d'ogni orror pieno?
La nuda Pania tra l'Aurora e il Noto,
140 da l'altre parti il giogo mi circonda
che fa d'un Pellegrin la gloria noto.
Questa è una fossa, ove abito, profonda,
donde non muovo piè senza salire
del silvoso Apennin la fiera sponda.
145 O stiami in Ròcca o voglio all'aria uscire,
accuse e liti sempre e gridi ascolto,
furti, omicidii, odi, vendette et ire;
sì che or con chiaro or con turbato volto
convien che alcuno prieghi, alcun minacci,
150 altri condanni, altri ne mandi assolto;
ch'ogni dì scriva et empia fogli e spacci,
al Duca or per consiglio or per aiuto,
sì che i ladron, c'ho d'ogni intorno, scacci.
Déi saper la licenzia in che è venuto
155 questo paese, poi che la Pantera,
indi il Leon l'ha fra gli artigli avuto.
Qui vanno li assassini in sì gran schiera
ch'un'altra, che per prenderli ci è posta,
non osa trar del sacco la bandiera.
160 Saggio chi dal Castel poco si scosta!
Ben scrivo a chi più tocca, ma non torna
secondo ch'io vorrei mai la risposta.
Ogni terra in se stessa alza le corna,
che sono ottantatre, tutte partite
165 da la sedizïon che ci soggiorna.
Vedi or se Appollo, quando io ce lo invite,
vorrà venir, lasciando Delfo e Cinto,
in queste grotte a sentir sempre lite.
Dimandar mi potreste chi m'ha spinto
170 dai dolci studi e compagnia sì cara
in questo rincrescevol labirinto.
Tu déi saper che la mia voglia avara
unqua non fu, ch'io solea star contento
di quel stipendio che traea a Ferrara;
175 ma non sai forse come uscì poi lento,
succedendo la guerra, e come volse
il Duca che restasse in tutto spento.
Fin che quella durò, non me ne dolse;
mi dolse di veder che poi la mano
180 chiusa restò, ch'ogni timor si sciolse.
Tanto più che l'ufficio di Melano,
poi che le leggi ivi tacean fra l'armi,
bramar gli affitti suoi mi facea invano.
Ricorsi al Duca: «O voi, signor, levarmi
185 dovete di bisogno, o non vi incresca
ch'io vada altra pastura a procacciarmi».
Grafagnini in quel tempo, essendo fresca
la lor rivoluzion, che spinto fuori
avean Marzocco a procacciar d'altra ésca,
190 con lettere frequenti e imbasciatori
replicavano al Duca, e facean fretta
d'aver lor capi e lor usati onori.
Fu di me fatta una improvisa eletta,
o forse perché il termine era breve
195 di consigliar chi pel miglior si metta,
o pur fu appresso il mio signor più leve
il bisogno de' sudditi che il mio,
di ch'obligo gli ho quanto se gli deve.
Obligo gli ho del buon voler, più ch'io
200 mi contenti del dono, il quale è grande,
ma non molto conforme al mio desio.
Or se di me a questi omini dimande,
potrian dir che bisogno era di asprezza,
non di clemenzia, all'opre lor nefande.
205 Come né in me, così né contentezza
è forse in lor; io per me son quel gallo
che la gemma ha trovata e non l'apprezza.
Son come il Veneziano, a cui il cavallo
di Mauritania in eccellenzia buono
210 donato fu dal re di Portogallo;
il qual, per aggradir il real dono,
non discernendo che mistier diversi
volger temoni e regger briglie sono,
sopra vi salse, e cominciò a tenersi
215 con mani al legno e co' sproni alla pancia:
«Non vuo'» seco dicea «che tu mi versi.»
Sente il cavallo pungersi, e si lancia;
e 'l buon nocchier più allora preme e stringe
lo sprone al fianco, aguzzo più che lancia,
220 e di sangue la bocca e il fren gli tinge:
non sa il cavallo a chi ubedire, o a questo
che 'l torna indietro, o a quel che l'urta e spinge;
pur se ne sbriga in pochi salti presto.
Rimane in terra il cavallier col fianco,
225 co la spalla e col capo rotto e pesto.
Tutto di polve e di paura bianco
si levò al fin, dal re mal satisfatto,
e lungamente poi si ne dolse anco.
Meglio avrebbe egli, et io meglio avrei fatto,
230 egli il ben del cavallo, io del paese,
a dir: «O re, o signor, non ci sono atto;
sie pur a un altro di tal don cortese».
SATIRA V
A MESSER ANNIBALE MALEGUCIO
Da tutti li altri amici, Annibale, odo,
fuor che da te, che sei per pigliar moglie:
mi duol che 'l celi a me, che 'l facci lodo.
Forse mel celi perché alle tue voglie
5 pensi che oppor mi debbia, come io danni,
non l'avendo tolta io, s'altri la toglie.
Se pensi di me questo, tu te inganni:
ben che senza io ne sia, non però accuso
se Piero l'ha, Martin, Polo e Giovanni.
10 Mi duol di non l'avere, e me ne iscuso
sopra varii accidenti che lo effetto
sempre dal buon voler tennero escluso;
ma fui di parer sempre, e così detto
l'ho più volte, che senza moglie a lato
15 non puote uomo in bontade esser perfetto.
Né senza si può star senza peccato;
che chi non ha del suo, fuor accattarne,
mendicando o rubandolo, è sforzato;
e chi s'usa a beccar de l'altrui carne,
20 diventa giotto, et oggi tordo o quaglia,
diman fagiani, uno altro dì vuol starne;
non sa quel che sia amor, non sa che vaglia
la caritade: e quindi avien che i preti
sono sì ingorda e sì crudel canaglia.
25 Che lupi sieno e che asini indiscreti
mel dovreste saper dir voi da Reggio,
se già il timor non vi tenesse cheti.
Ma senza che 'l dicate, io me ne aveggio;
de la ostinata Modona non parlo,
30 che, tutto che stia mal, merta star peggio.
Pigliala, se la vuoi; fa, se déi farlo;
e non voler, come il dottor Buonleo,
alla estrema vecchiezza prolungarlo.
Quella età più al servizio di Lieo
35 che di Vener conviensi: si dipinge
giovane fresco, e non vecchio, Imeneo.
Il vecchio, allora che 'l desir lo spinge,
di sé prosume e spera far gran cose;
si sganna poi che al paragon si stringe.
40 Non voglion rimaner però le spose
nel danno; sempre ci è mano adiutrice
che soviene alle pover' bisognose.
E se non fosse ancor, pur ognun dice
che gli è così: non pòn fuggir la fama,
45 più che del ver, del falso relatrice,
la qual patisce mal chi l'onor ama;
ma questa passïon debole e nulla,
verso un'altra maggior, ser Iorio chiama.
«Peggio è» dice «vedersi un ne la culla,
50 e per casa giocando ir duo bambini,
e poco prima nata una fanciulla:
et esser di sua età giunto a' confini,
e non aver che doppo sé lor mostri
la via del bene, e non li fraudi e uncini.»
55 Pigliala, e non far come alcuni nostri
gentiluomini fanno, e molti féro,
ch'or giaccion per le chiese e per li chiostri
di mai non la pigliar fu il lor pensiero,
per non aver figliuoli che far pezzi
60 debbian di quel che a pena basta intiero.
Quel che acerbi non fér, maturi e mézzi
fan poi con biasmo: truovan ne le ville
e ne le cucine anco a chi far vezzi.
Nascono figli e crescon le faville,
65 et al fin, pusillanimi e bugiardi,
s'inducono a sposar villane e ancille,
perché i figli non restino bastardi.
Quindi è falsificato di Ferrara
in gran parte il buon sangue, se ben guardi;
70 quindi la gioventù vedi sì rara
che le virtudi e li bei studi, e molta
che degli avi materni i stili impara.
Cugin, fai bene a tòr moglier; ma ascolta:
pensaci prima; non varrà poi dire
75 di non, s'avrai di sì detto una volta.
In questo il mio consiglio proferire
ti vuo', e mostrar, se ben non lo richiedi,
quel che tu déi cercar, quel che fuggire.
Tu ti ridi di me forse, e non vedi
80 come io ti possa consigliar, ch'avuto
non ho in tal nodo mai collo né piedi.
Non hai, quando dui giocano, veduto
che quel che sta a vedere ha meglio spesso
ciò che s'ha a far, che 'l giocator, saputo?
85 Se tu vedi che tocchi, o vada appresso
il segno il mio parer, dàgli il consenso;
se non, riputal sciocco, e me con esso.
Ma prima ch'io ti mostri altro compenso,
t'avrei da dir che, se amorosa face
90 ti fa pigliar moglier, che segui il senso.
Ogni virtude è in lei, s'ella ti piace:
so ben che né orator latin, né greco,
saria a dissuadertilo efficace.
Io non son per mostrar la strada a un cieco;
95 ma se tu il bianco e il rosso e il ner comprendi,
essamina il consiglio ch'io te arreco.
Tu che vuoi donna, con gran studio intendi
qual sia stata e qual sia la madre, e quali
sien le sorelle, s'all'onore attendi.
100 S'in cavalli, se 'n boi, se 'n bestie tali
guardian le razze, che faremo in questi,
che son fallaci più ch'altri animali?
Di vacca nascer cerva non vedesti,
né mai colomba d'aquila, né figlia
105 di madre infame di costumi onesti.
Oltre che il ramo al ceppo s'assimiglia,
il dimestico essempio, che le aggira
pel capo sempre, ogni bontà sgombiglia.
Se la madre ha duo amanti, ella ne mira
110 a quattro e a cinque, e spesso a più di sei,
et a quanti più può la rete tira:
e questo per mostrar che men di lei
non è leggiadra, e non le fur del dono
de la beltà men liberali i dèi.
115 Saper la balia e le compagne è buono:
se appresso il padre sia nodrita o in corte,
al fuso, all'ago, o pur in canto e in suono.
Non cercar chi più dote, o chi ti porte
titoli e fumi e più nobil parenti
120 che al tuo aver si convenga e alla tua sorte;
ché difficil sarà, se non ha venti
donne poi dietro e staffieri e un ragazzo
che le sciorini il cul, tu la contenti.
Vorrà una nana, un bufoncello, un pazzo,
125 e compagni da tavola e da giuoco
che tutto il dì la tengano in solazzo.
Né tòr di casa il piè, né mutar loco
vorrà senza carretta; ben ch'io stimi,
fra tante spese, questa spesa poco:
130 che se tu non la fai, che sei de' primi
e di sangue e d'aver ne la tua terra,
non la faràn già quei che son degli imi.
E se matina e sera ondeggiando erra
con cavalli a vettura la Giannicca
135 che farà chi del suo li pasce e ferra?
Ma se l'altre n'han dui, ne vuol la ricca
quattro; se le compiaci, più che 'l conte
Rinaldo mio la te aviluppa e ficca;
se le contrasti, pon la pace a monte,
140 e come Ulisse al canto, tu l'orecchia
chiudi a pianti, a lamenti, a gridi et onte;
ma non le dir oltraggio, o t'apparecchia
cento udirne per uno, e che ti punga
più che punger non suol vespe né pecchia.
145 Una che ti sia ugual teco si giunga,
che por non voglia in casa nuove usanze,
né più del grado aver la coda lunga.
Non la vuo' tal che di bellezze avanze
l'altre, e sia in ogni invito, e sempre vada
150 capo di schiera per tutte le danze.
Fra bruttezza e beltà truovi una strada
dove è gran turba, né bella né brutta,
che non t'ha da spiacer, se non te aggrada.
Che quindi esce, a man ritta truova tutta
155 la gente bella, e dal contrario canto
quanta bruttezza ha il mondo esser ridutta.
Quinci più sozze, e poi più sozze quanto
tu vai più inanzi; e quindi truovi i visi
più di bellezza e più tenere il vanto.
160 S'ove déi tòr la tua vuoi ch'io te avisi,
o ne la strada, o a man ritta nei campi
dirò, ma non di là troppo divisi.
Non ti scostar, non ir dove tu inciampi
in troppo bella moglie, sì che ognuno
165 per lei d'amor e di desire avampi.
Molti la tenteranno, e quando ad uno
repugni, o a dui, o a tre, non star in speme
che non ne debbia aver vittoria alcuno.
Non la tòr brutta; che torresti insieme
170 perpetua noia; medïocre forma
sempre lodai, sempre dannai le estreme.
Sia di buona aria, sia gentil, non dorma
con gli occhi aperti; che più l'esser sciocca
d'ogni altra ria deformità deforma.
175 Se questa in qualche scandalo trabocca,
lo fa palese, in modo che dà sopra
li fatti suoi facenda ad ogni bocca.
L'altra, più saggia, si conduce all'opra
secretamente, e studia, come il gatto,
180 che la immondizia sua la terra copra.
Sia piacevol, cortese, sia d'ogni atto
di superbia nimica, sia gioconda,
non mesta mai, non mai col ciglio attratto.
Sia vergognosa; ascolti e non risponda
185 per te dove tu sia; né cessi mai,
né mai stia in ozio; sia polita e monda.
De dieci anni o di dodici, se fai
per mio consiglio, fia di te minore;
di pare o di più età non la tòr mai:
190 perché passando, come fa, il megliore
tempo e i begli anni in lor prima che in noi,
ti parria vecchia, essendo anco tu in fiore.
Però vorrei che 'l sposo avesse i suoi
trent'anni, quella età che 'l furor cessa
195 presto al voler, presto al pentirse poi.
Tema Dio, ma che udir più d'una messa
voglia il dì non mi piace; e vuo' che basti
s'una o due volte l'anno si confessa.
Non voglio che con gli asini che basti
200 non portano abbia pratica, né faccia
ogni dì tórte al confessore e pasti.
Voglio che se contenti de la faccia
che Dio le diede, e lassi il rosso e il bianco
alla signora del signor Ghinaccia.
205 Fuor che lisciarsi, uno ornamento manco
d'altra ugual gentildonna ella non abbia;
liscio non vuo', né tu credo il vogli anco.
Se sapesse Erculan dove le labbia
pon quando bacia Lidia, avria più a schivo
210 che se baciasse un cul marzo di scabbia.
Non sa che 'l liscio è fatto col salivo
de le giudee che 'l vendon; né con tempre
di muschio ancor perde l'odor cattivo.
Non sa che con la merda si distempre
215 di circoncisi lor bambini il grasso
d'orride serpi che in pastura han sempre.
Oh quante altre spurcizie a dietro lasso,
di che s'ungono il viso, quando al sonno
se acconcia il steso fianco, e il ciglio basso!
220 Sì che quei che le baciano, ben ponno
con men schivezza e stomachi più saldi
baciar lor anco a nuova luna il conno.
Il sollimato e gli altri unti ribaldi,
di che ad uso del viso empion gli armari,
225 fan che sì tosto il viso lor s'affaldi;
o che i bei denti, che già fur sì cari,
lascian la bocca fetida e corrotta,
o neri e pochi restano, e mal pari.
Segua le poche, e non la volgar frotta;
230 né sappia far la tua bianco né rosso,
ma sia del filo e de la tela dotta.
Se tal la truovi, consigliar ti posso
che tu la prenda; se poi cangia stile,
e che se tiri alcun galante adosso,
235 o faccia altra opra enorme, e che simìle
il frutto, in tempo del ricor, non esca
ai molti fior ch'avea mostrato aprile;
de la tua sorte, e non di te t'incresca,
che per indiligenza e poca cura
240 gusti diverso all'apetito l'ésca.
Ma chi va cieco a prenderla a ventura,
o chi fa peggio assai, che la conosce,
e pur la vuol, sia quanto voglia impura,
se poi pentito si batte le cosce,
245 altro che sé non de' imputar del fallo,
né cercar compassion de le sue angosce.
Poi ch'io t'ho posto assai bene a cavallo,
ti voglio anco mostrar come lo guidi,
come spinger lo déi, come fermallo.
250 Tolto che moglie avrai, lascia li nidi
degli altri, e sta sul tuo; che qualche augello,
trovandol senza te, non vi si annidi.
Falle carezze, et amala con quello
amor che vuoi ch'ella ami te; aggradisci,
255 e ciò che fa per te paiati bello.
Se pur tal volta errasse, l'ammonisci
sanza ira, con amore; e sia assai pena
che la facci arrossir senza por lisci.
Meglio con la man dolce si raffrena
260 che con forza il cavallo, e meglio i cani
le lusinghe fan tuoi che la catena.
Questi animal, che son molto più umani,
corregger non si dén sempre con sdegno,
né, al mio parer, mai con menar de mani.
265 Ch'ella ti sia compagna abbi disegno;
non come in comperata per tua serva
reputa aver in lei dominio e regno.
Cerca di sodisfarle ove proterva
non sia la sua domanda, e, compiacendo,
270 quanto più amica puoi te la conserva.
Che tu la lasci far non te commendo,
senza saputa tua, ciò ch'ella vuole;
che mostri non fidarti anco riprendo.
Ire a conviti e publiche carole
275 non le vietar, né, alli suoi tempi, a chiese,
dove ridur la nobiltà si suole:
gli adùlteri né in piazza né in palese,
ma in case de vicini e de commatri,
balie e tal genti, han le lor reti tese.
280 Abbile sempre, ai chiari tempi e agli atri,
dietro il pensier, né la lasciar di vista:
che 'l bel rubar suol far gli uomini latri.
Studia che compagnia non abbia trista:
a chi ti vien per casa abbi avvertenza,
285 che fuor non temi, e dentro il mal consista;
ma studia farlo cautamente, senza
saputa sua; che si dorria a ragione
s'in te sentisse questa diffidenza.
Lievale quanto puoi la occasïone
290 d'esser puttana, e pur se avien che sia,
almen che ella non sia per tua cagione.
Io non so la miglior di questa via
che già t'ho detta, per schivar che in preda
ad altri la tua donna non se dia.
295 Ma s'ella n'avrà voglia, alcun non creda
di ripararci: ella saprà ben come
far ch'al suo inganno il tuo consiglio ceda.
Fu già un pittor, Galasso era di nome,
che dipinger il diavolo solea
300 con bel viso, begli occhi e belle chiome;
né piei d'augel né corna gli facea,
né facea sì leggiadro né sì adorno
l'angel da Dio mandato in Galilea.
Il diavol, riputandosi a gran scorno
305 se fosse in cortesia da costui vinto,
gli apparve in sogno un poco inanzi il giorno,
e gli disse in parlar breve e succinto
ch'egli era, e che venia per render merto
de l'averlo sì bel sempre dipinto;
310 però lo richiedesse, e fosse certo
di subito ottener le sue domande,
e di aver più che non se gli era offerto.
Il meschin, ch'avea moglie d'admirande
bellezze, e ne vivea geloso, e n'era
315 sempre in sospetto et in angustia grande,
pregò che gli mostrasse la maniera
che s'avesse a tener, perché il marito
potesse star sicur de la mogliera.
Par che 'l diavolo allor gli ponga in dito
320 uno annello, e ponendolo gli dica:
«Fin che ce 'l tenghi, esser non puoi tradito».
Lieto ch'omai la sua senza fatica
potrà guardar, si sveglia il mastro, e truova
che 'l dito alla moglier ha ne la fica.
325 Questo annel tenga in dito, e non lo muova
mai chi non vuol ricevere vergogna
da la sua donna; e a pena anco gli giova,
pur ch'ella voglia, e farlo si dispogna.
SATIRA VI
A MESSER PIETRO BEMBO
Bembo, io vorrei, come è il commun disio
de' solliciti padri, veder l'arti
che essaltan l'uom, tutte in Virginio mio;
e perché di esse in te le miglior parti
5 veggio, e le più, di questo alcuna cura
per l'amicizia nostra vorrei darti.
Non creder però ch'esca di misura
la mia domanda, ch'io voglia tu facci
l'ufficio di Demetrio o di Musura
10 (non si dànno a' par tuoi simili impacci),
ma sol che pensi e che discorri teco,
e saper dagli amici anco procacci
s'in Padova o in Vinegia è alcun buon greco,
buono in scïenzia e più in costumi, il quale
15 voglia insegnarli, e in casa tener seco.
Dottrina abbia e bontà, ma principale
sia la bontà: che, non vi essendo questa,
né molto quella alla mia estima vale.
So ben che la dottrina fia più presta
20 a lasciarsi trovar che la bontade:
sì mal l'una ne l'altra oggi s'inesta.
O nostra male aventurosa etade,
che le virtudi che non abbian misti
vizii nefandi si ritrovin rade!
25 Senza quel vizio son pochi umanisti
che fe' a Dio forza, non che persüase,
di far Gomorra e i suoi vicini tristi:
mandò fuoco da ciel, ch'uomini e case
tutto consumpse; et ebbe tempo a pena
30 Lot a fugir, ma la moglier rimase.
Ride il volgo, se sente un ch'abbia vena
di poesia, e poi dice: «È gran periglio
a dormir seco e volgierli la schiena».
Et oltra questa nota, il peccadiglio
35 di Spagna gli dànno anco, che non creda
in unità del Spirto il Padre e il Figlio.
Non che contempli come l'un proceda
da l'altro o nasca, e come il debol senso
ch'uno e tre possano essere conceda;
40 ma gli par che non dando il suo consenso
a quel che approvan gli altri, mostri ingegno
da penetrar più su che 'l cielo immenso.
Se Nicoletto o fra Martin fan segno
d'infedele o d'eretico, ne accuso
45 il saper troppo, e men con lor mi sdegno:
perché, salendo lo intelletto in suso
per veder Dio, non de' parerci strano
se talor cade giù cieco e confuso.
Ma tu, del qual lo studio è tutto umano
50 e son li tuoi suggetti i boschi e i colli,
il mormorar d'un rio che righi il piano,
cantar antiqui gesti e render molli
con prieghi animi duri, e far sovente
di false lode i principi satolli,
55 dimmi, che truovi tu che sì la mente
ti debbia aviluppar, sì tòrre il senno,
che tu non creda come l'altra gente?
Il nome che di apostolo ti denno
o d'alcun minor santo i padri, quando
60 cristiano d'acqua, e non d'altro ti fenno,
in Cosmico, in Pomponio vai mutando;
altri Pietro in Pïerio, altri Giovanni
in Iano o in Iovïan va riconciando;
quasi che 'l nome i buon giudici inganni,
65 e che quel meglio t'abbia a far poeta
che non farà lo studio de molti anni.
Esser tali dovean quelli che vieta
che sian ne la republica Platone,
da lui con sì santi ordini discreta;
70 ma non fu tal già Febo, né Anfïone,
né gli altri che trovaro i primi versi,
che col buon stile, e più con l'opre buone,
persuasero gli uomini a doversi
ridurre insieme, e abandonar le giande
75 che per le selve li traean dispersi;
e fér che i più robusti, la cui grande
forza era usata alli minori tòrre
or mogli, or gregge et or miglior vivande,
si lasciaro alle leggi sottoporre,
80 e cominciar, versando aratri e glebe,
del sudor lor più giusti frutti accòrre.
Indi i scrittor féro all'indotta plebe
creder ch'al suon de le soavi cetre
l'un Troia e l'altro edificasse Tebe;
85 e avesson fatto scendere le petre
dagli alti monti, et Orfeo tratto al canto
tigri e leon da le spelonche tetre.
Non è, s'io mi coruccio e grido alquanto
più con la nostra che con l'altre scole,
90 ch'in tutte l'altre io non veggio altretanto,
d'altra correzïon che di parole
degne; né del fallir de' suoi scolari,
non pur Quintilïano è che si duole.
Ma se degli altri io vuo' scoprir gli altari,
95 tu dirai che rubato e del Pistoia
e di Petro Aretino abbia gli armari.
Degli altri studi onor e biasmo, noia
mi dà e piacer, ma non come s'io sento
che viva il pregio de' poeti e moia.
100 Altrimenti mi dolgo e mi lamento
di sentir riputar senza cervello
il biondo Aonio e più leggier che 'l vento,
che se del dottoraccio suo fratello
odo il medesmo, al quale un altro pazzo
105 donò l'onor del manto e del capello.
più mi duol ch'in vecchiezza voglia il guazzo
Placidïan, che gioven dar soleva,
e che di cavallier torni ragazzo,
che di sentir che simil fango aggreva
110 il mio vicino Andronico, e vi giace
già settant'anni, e ancor non se ne lieva.
Se mi è detto che Pandaro è rapace,
Curio goloso, Pontico idolatro,
Flavio biastemator, via più mi spiace
115 che se per poco prezzo odo Cusatro
dar le sentenzie false, o che col tòsco
mastro Battista mescole il veratro;
o che quel mastro in teologia ch'al tósco
mesce il parlar fachin si tien la scroffa,
120 e già n'ha dui bastardi ch'io conosco;
né per saziar la gola sua gaglioffa
perdona a spesa, e lascia che di fame
langue la madre e va mendica e goffa;
poi lo sento gridar, che par che chiame
125 le guardie, ch'io digiuni e ch'io sia casto,
e che quanto me stesso il prossimo ame.
Ma gli error di questi altri così il basto
di miei pensier non gravano, che molto
lasci il dormir o perder voglia un pasto.
130 Ma per tornar là donde io mi son tolto,
vorrei che a mio figliuolo un precettore
trovassi meno in questi vizii involto,
che ne la propria lingua de l'autore
gli insegnasse d'intender ciò che Ulisse
135 sofferse a Troia e poi nel lungo errore,
ciò che Apollonio e Euripide già scrisse,
Sofocle, e quel che da le morse fronde
par che poeta in Ascra divenisse,
e quel che Galatea chiamò da l'onde,
140 Pindaro, e gli altri a cui le Muse argive
donar sì dolci lingue e sì faconde.
Già per me sa ciò che Virgilio scrive,
Terenzio, Ovidio, Orazio, e le plautine
scene ha vedute, guaste e a pena vive.
145 Omai può senza me per le latine
vestigie andar a Delfi, e de la strada
che monta in Elicon vedere il fine;
ma perché meglio e più sicur vi vada,
desidero ch'egli abbia buone scorte,
150 che sien de la medesima contrada.
Non vuol la mia pigrizia o la mia sorte
che del tempio di Apollo io gli apra in Delo,
come gli fei nel Palatin, le porte.
Ahi lasso! quando ebbi al pegàseo melo
155 l'età disposta, che le fresche guancie
non si vedeano ancor fiorir d'un pelo,
mio padre mi cacciò con spiedi e lancie,
non che con sproni, a volger testi e chiose,
e me occupò cinque anni in quelle ciancie.
160 Ma poi che vide poco fruttüose
l'opere, e il tempo invan gittarsi, dopo
molto contrasto in libertà mi pose.
Passar venti anni io mi truovavo, et uopo
aver di pedagogo: che a fatica
165 inteso avrei quel che tradusse Esopo.
Fortuna molto mi fu allora amica
che mi offerse Gregorio da Spoleti,
che ragion vuol ch'io sempre benedica.
Tenea d'ambe le lingue i bei secreti,
170 e potea giudicar se meglior tuba
ebbe il figliuol di Venere o di Teti.
Ma allora non curai saper di Ecuba
la rabbiosa ira, e come Ulisse a Reso
la vita a un tempo e li cavalli ruba;
175 ch'io volea intender prima in che avea offeso
Enea Giunon, che 'l bel regno da lei
gli dovesse d'Esperia esser conteso;
che 'l saper ne la lingua de li Achei
non mi reputo onor, s'io non intendo
180 prima il parlar de li latini miei.
Mentre l'uno acquistando, e diferrendo
vo l'altro, l'Occasion fuggì sdegnata,
poi che mi porge il crine, et io nol prendo
Mi fu Gregorio da la sfortunata
185 Duchessa tolto, e dato a quel figliuolo
a chi avea il zio la signoria levata.
Di che vendetta, ma con suo gran duolo,
vide ella tosto, ahimè!, perché del fallo
quel che peccò non fu punito solo.
190 Col zio il nipote (e fu poco intervallo)
del regno e de l'aver spogliati in tutto,
prigioni andar sotto il dominio gallo.
Gregorio a' prieghi d'Isabella indutto
fu a seguir il discepolo, là dove
195 lasciò, morendo, i cari amici in lutto.
Questa iattura e l'altre cose nove
che in quei tempi successeno, mi féro
scordar Talia et Euterpe e tutte nove.
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
200 drieto a Marta bisogna ch'io rivolga,
ch'io muti in squarci et in vacchette Omero;
truovi marito e modo che si tolga
di casa una sorella, e un'altra appresso,
e che l'eredità non se ne dolga;
205 coi piccioli fratelli, ai quai successo
ero in luogo di padre, far l'uffizio
che debito e pietà avea commesso;
a chi studio, a chi corte, a chi essercizio
altro proporre, e procurar non pieghi
210 da le virtudi il molle animo al vizio.
Né questo è sol che alli miei studii nieghi
di più avanzarsi, e basti che la barca,
perché non torni a dietro, al lito leghi;
ma si truovò di tanti affanni carca
215 allor la mente mia, ch'ebbi desire
che la cocca al mio fil fésse la Parca.
Quel, la cui dolce compagnia nutrire
solea i miei studi, e stimulando inanzi
con dolce emulazion solea far ire,
220 il mio parente, amico, fratello anzi
l'anima mia, non mezza non, ma intiera,
senza ch'alcuna parte me ne avanzi,
morì, Pandolfo, poco dopo: ah fera
scossa ch'avesti allor, stirpe Arïosta,
225 di ch'egli un ramo, e forse il più bello, era!
In tanto onor, vivendo, t'avria posta,
ch'altra a quel né in Ferrara né in Bologna,
onde hai l'antiqua origine, s'accosta.
Se la virtù dà onor, come vergogna
230 il vizio, si potea sperar da lui
tutto l'onor che buono animo agogna.
Alla morte del padre e de li dui
sì cari amici, aggiunge che dal giogo
del Cardinal da Este oppresso fui;
235 che da la creazione insino al rogo
di Iulio, e poi sette anni anco di Leo,
non mi lasciò fermar molto in un luogo,
e di poeta cavallar mi feo:
vedi se per le balze e per le fosse
240 io potevo imparar greco o caldeo!
Mi maraviglio che di me non fosse
come di quel filosofo, a chi il sasso
ciò che inanzi sapea dal capo scosse.
Bembo, io ti prego insomma, pria che 'l passo
245 chiuso gli sia, che al mio Virginio porga
la tua prudenza guida, che in Parnasso,
ove per tempo ir non seppi io, lo scorga.
SATIRA VII
A MESSER BONAVENTURA PISTOFILO
DUCALE SECRETARIO
Pistofilo, tu scrivi che, se appresso
papa Clemente imbasciator del Duca
per uno anno o per dui voglio esser messo,
ch'io te ne avisi, acciò che tu conduca
5 la pratica; e proporre anco non resti
qualche viva cagion che me vi induca:
che lungamente sia stato de questi
Medici amico, e conversar con loro
con gran dimestichezza mi vedesti,
10 quando eran fuorusciti, e quando fòro
rimessi in stato, e quando in su le rosse
scarpe Leone ebbe la croce d'oro;
che, oltre che a proposito assai fosse
del Duca, estimi che tirare a mio
15 utile e onor potrei gran pòste e grosse;
che più da un fiume grande che da un rio
posso sperar di prendere, s'io pesco.
Or odi quanto acciò ti rispondo io.
Io te rengrazio prima, che più fresco
20 sia sempre il tuo desir in essaltarmi,
e far di bue mi vogli un barbaresco;
poi dico che pel fuoco e che per l'armi
a servigio del Duca in Francia e in Spagna
e in India, non che a Roma, puoi mandarmi:
25 ma per dirmi ch'onor vi si guadagna
e facultà, ritruova altro cimbello,
se vuoi che l'augel caschi ne la ragna.
Perché, quanto all'onor, n'ho tutto quello
ch'io voglio: assai mi può parer ch'io veggio
30 a più di sei levarmisi il capello,
perché san che talor col Duca seggio
a mensa, e ne riporto qualche grazia
se per me o per li amici gli la chieggio.
E se, come d'onor mi truovo sazia
35 la mente, avessi facultà a bastanza,
il mio desir si fermeria, ch'or spazia.
Sol tanta ne vorrei, che viver sanza
chiederne altrui mi fésse in libertade,
il che ottener mai più non ho speranza,
40 poi che tanti mie' amici podestade
hanno avuto di farlo, e pur rimaso
son sempre in servitude e in povertade.
Non vuo' più che colei che fu del vaso
de l'incauto Epimeteo a fuggir lenta
45 mi tiri come un bufalo pel naso.
Quella ruota dipinta mi sgomenta
ch'ogni mastro di carte a un modo finge:
tanta concordia non credo io che menta.
Quel che le siede in cima si dipinge
50 uno asinello: ognun lo enigma intende,
senza che chiami a interpretarlo Sfinge.
Vi si vede anco che ciascun che ascende
comincia a inasinir le prime membre,
e resta umano quel che a dietro pende.
55 Fin che de la speranza mi rimembre,
che coi fior venne e con le prime foglie,
e poi fuggì senza aspettar settembre
(venne il dì che la Chiesa fu per moglie
data a Leone, e che alle nozze vidi
60 a tanti amici miei rosse le spoglie;
venne a calende, e fuggì inanzi agli idi),
fin che me ne rimembr, esser non puote
che di promessa altrui mai più mi fidi.
La sciocca speme alle contrade ignote
65 salì del ciel, quel dì che 'l Pastor santo
la man mi strinse, e mi baciò le gote;
ma, fatte in pochi giorni poi di quanto
potea ottener le esperïenze prime,
quanto andò in alto, in giù tornò altretanto.
70 Fu già una zucca che montò sublime
in pochi giorni tanto, che coperse
a un pero suo vicin l'ultime cime.
Il pero una matina gli occhi aperse,
ch'avea dormito un lungo sonno, e visti
75 li nuovi frutti sul capo sederse,
le disse: «Che sei tu? come salisti
qua su? dove eri dianzi, quando lasso
al sonno abandonai questi occhi tristi?».
Ella gli disse il nome, e dove al basso
80 fu piantata mostrolli, e che in tre mesi
quivi era giunta accelerando il passo.
«Et io» l'arbor soggiunse «a pena ascesi
a questa altezza, poi che al caldo e al gielo
con tutti i vènti trenta anni contesi.
85 Ma tu che a un volger d'occhi arrivi in cielo,
rendite certa che, non meno in fretta
che sia cresciuto, mancherà il tuo stelo.»
Così alla mia speranza, che a staffetta
mi trasse a Roma, potea dir chi avuto
90 pei Medici sul capo avea la cetta
o ne l'essilio avea lor sovenuto,
o chi a riporlo in casa o chi a crearlo
leon d'umil agnel gli diede aiuto.
Chi avesse avuto lo spirito di Carlo
95 Sosena allora, avria a Lorenzo forse
detto, quando sentì duca chiamarlo;
et avria detto al duca di Namorse,
al cardinal de' Rossi et al Bibiena
(a cui meglio era esser rimaso a Torse),
100 e detto a Contessina e a Madalena,
alla nora, alla socera, et a tutta
quella famiglia d'allegrezza piena:
«Questa similitudine fia indutta
più propria a voi, che come vostra gioia
105 tosto montò, tosto sarà distrutta:
tutti morrete, et è fatal che muoia
Leone appresso, prima che otto volte
torni in quel segno il fondator di Troia».
Ma per non far, se non bisognan, molte
110 parole, dico che fur sempre poi
l'avare spemi mie tutte sepolte.
Se Leon non mi diè, che alcun de' suoi
mi dia, non spero; cerca pur questo amo
coprir d'altr'ésca, se pigliar me vuoi.
115 Se pur ti par ch'io vi debbia ire, andiamo;
ma non già per onor né per ricchezza:
questa non spero, e quel di più non bramo.
Più tosto di' ch'io lascierò l'asprezza
di questi sassi, e questa gente inculta,
120 simile al luogo ove ella è nata e avezza;
e non avrò qual da punir con multa,
qual con minaccie, e da dolermi ogni ora
che qui la forza alla ragione insulta.
Dimmi ch'io potrò aver ozio talora
125 di riveder le Muse, e con lor sotto
le sacre frondi ir poetando ancora.
Dimmi che al Bembo, al Sadoletto, al dotto
Iovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida
potrò ogni giorno, e al Tibaldeo, far motto;
130 tòr di essi or uno e quando uno altro guida
pei sette Colli, che, col libro in mano,
Roma in ogni sua parte mi divida.
«Qui» dica «il Circo, qui il Foro romano,
qui fu Suburra, e questo è il sacro clivo;
135 qui Vesta il tempio e qui il solea aver Iano.»
Dimmi ch'avrò, di ciò ch'io leggo o scrivo,
sempre consiglio, o da latin quel tòrre
voglia o da tósco, o da barbato argivo.
Di libri antiqui anco mi puoi proporre
140 il numer grande, che per publico uso
Sisto da tutto il mondo fe' raccorre.
Proponendo tu questo, s'io ricuso
l'andata, ben dirai che triste umore
abbia il discorso razional confuso.
145 Et io in risposta, come Emilio, fuore
porgerò il piè, e dirò: «Tu non sa' dove
questo calciar mi prema e dia dolore».
Da me stesso mi tol chi mi rimove
da la mia terra, e fuor non ne potrei
150 viver contento, ancor che in grembo a Iove.
E s'io non fossi d'ogni cinque o sei
mesi stato uno a passeggiar fra il Domo
e le due statue de' Marchesi miei,
da sì noiosa lontananza domo
155 già sarei morto, o più di quelli macro
che stan bramando in purgatorio il pomo.
Se pur ho da star fuor, mi fia nel sacro
campo di Marte senza dubbio meno
che in questa fossa abitar duro et acro.
160 Ma se 'l signor vuol farmi grazia a pieno,
a sé mi chiami, e mai più non mi mandi
più là d'Argenta, o più qua del Bondeno.
Se perché amo sì il nido mi dimandi,
io non te lo dirò più volentieri
165 ch'io soglia al frate i falli miei nefandi;
che so ben che diresti: «Ecco pensieri
d'uom che quarantanove anni alle spalle
grossi e maturi si lasciò l'altro ieri!».
Buon per me ch'io me ascondo in questa valle,
170 né l'occhio tuo può correr cento miglia
a scorger se le guancie ho rosse o gialle;
che vedermi la faccia più vermiglia,
ben che io scriva da lunge, ti parrebbe,
che non ha madonna Ambra né la figlia,
175 o che 'l padre canonico non ebbe
quando il fiasco del vin gli cadde in piazza,
che rubò al frate, oltre li dui che bebbe.
S'io ti fossi vicin, forse la mazza
per bastonarmi piglieresti, tosto
180 che m'udissi allegar che ragion pazza
non mi lasci da voi viver discosto.
- FINE -
...
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