SATIRE, di Ludovico Ariosto - pagina 6
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Esser tali dovean quelli che vieta
che sian ne la republica Platone,
da lui con sì santi ordini discreta;
70 ma non fu tal già Febo, né Anfïone,
né gli altri che trovaro i primi versi,
che col buon stile, e più con l'opre buone,
persuasero gli uomini a doversi
ridurre insieme, e abandonar le giande
75 che per le selve li traean dispersi;
e fér che i più robusti, la cui grande
forza era usata alli minori tòrre
or mogli, or gregge et or miglior vivande,
si lasciaro alle leggi sottoporre,
80 e cominciar, versando aratri e glebe,
del sudor lor più giusti frutti accòrre.
Indi i scrittor féro all'indotta plebe
creder ch'al suon de le soavi cetre
l'un Troia e l'altro edificasse Tebe;
85 e avesson fatto scendere le petre
dagli alti monti, et Orfeo tratto al canto
tigri e leon da le spelonche tetre.
Non è, s'io mi coruccio e grido alquanto
più con la nostra che con l'altre scole,
90 ch'in tutte l'altre io non veggio altretanto,
d'altra correzïon che di parole
degne; né del fallir de' suoi scolari,
non pur Quintilïano è che si duole.
Ma se degli altri io vuo' scoprir gli altari,
95 tu dirai che rubato e del Pistoia
e di Petro Aretino abbia gli armari.
Degli altri studi onor e biasmo, noia
mi dà e piacer, ma non come s'io sento
che viva il pregio de' poeti e moia.
100 Altrimenti mi dolgo e mi lamento
di sentir riputar senza cervello
il biondo Aonio e più leggier che 'l vento,
che se del dottoraccio suo fratello
odo il medesmo, al quale un altro pazzo
105 donò l'onor del manto e del capello.
più mi duol ch'in vecchiezza voglia il guazzo
Placidïan, che gioven dar soleva,
e che di cavallier torni ragazzo,
che di sentir che simil fango aggreva
110 il mio vicino Andronico, e vi giace
già settant'anni, e ancor non se ne lieva.
Se mi è detto che Pandaro è rapace,
Curio goloso, Pontico idolatro,
Flavio biastemator, via più mi spiace
115 che se per poco prezzo odo Cusatro
dar le sentenzie false, o che col tòsco
mastro Battista mescole il veratro;
o che quel mastro in teologia ch'al tósco
mesce il parlar fachin si tien la scroffa,
120 e già n'ha dui bastardi ch'io conosco;
né per saziar la gola sua gaglioffa
perdona a spesa, e lascia che di fame
langue la madre e va mendica e goffa;
poi lo sento gridar, che par che chiame
125 le guardie, ch'io digiuni e ch'io sia casto,
e che quanto me stesso il prossimo ame.
Ma gli error di questi altri così il basto
di miei pensier non gravano, che molto
lasci il dormir o perder voglia un pasto.
130 Ma per tornar là donde io mi son tolto,
vorrei che a mio figliuolo un precettore
trovassi meno in questi vizii involto,
che ne la propria lingua de l'autore
gli insegnasse d'intender ciò che Ulisse
135 sofferse a Troia e poi nel lungo errore,
ciò che Apollonio e Euripide già scrisse,
Sofocle, e quel che da le morse fronde
par che poeta in Ascra divenisse,
e quel che Galatea chiamò da l'onde,
140 Pindaro, e gli altri a cui le Muse argive
donar sì dolci lingue e sì faconde.
Già per me sa ciò che Virgilio scrive,
Terenzio, Ovidio, Orazio, e le plautine
scene ha vedute, guaste e a pena vive.
145 Omai può senza me per le latine
vestigie andar a Delfi, e de la strada
che monta in Elicon vedere il fine;
ma perché meglio e più sicur vi vada,
desidero ch'egli abbia buone scorte,
150 che sien de la medesima contrada.
Non vuol la mia pigrizia o la mia sorte
che del tempio di Apollo io gli apra in Delo,
come gli fei nel Palatin, le porte.
Ahi lasso! quando ebbi al pegàseo melo
155 l'età disposta, che le fresche guancie
non si vedeano ancor fiorir d'un pelo,
mio padre mi cacciò con spiedi e lancie,
non che con sproni, a volger testi e chiose,
e me occupò cinque anni in quelle ciancie.
160 Ma poi che vide poco fruttüose
l'opere, e il tempo invan gittarsi, dopo
molto contrasto in libertà mi pose.
Passar venti anni io mi truovavo, et uopo
aver di pedagogo: che a fatica
165 inteso avrei quel che tradusse Esopo.
Fortuna molto mi fu allora amica
che mi offerse Gregorio da Spoleti,
che ragion vuol ch'io sempre benedica.
Tenea d'ambe le lingue i bei secreti,
170 e potea giudicar se meglior tuba
ebbe il figliuol di Venere o di Teti.
Ma allora non curai saper di Ecuba
la rabbiosa ira, e come Ulisse a Reso
la vita a un tempo e li cavalli ruba;
175 ch'io volea intender prima in che avea offeso
Enea Giunon, che 'l bel regno da lei
gli dovesse d'Esperia esser conteso;
che 'l saper ne la lingua de li Achei
non mi reputo onor, s'io non intendo
180 prima il parlar de li latini miei.
Mentre l'uno acquistando, e diferrendo
vo l'altro, l'Occasion fuggì sdegnata,
poi che mi porge il crine, et io nol prendo
Mi fu Gregorio da la sfortunata
185 Duchessa tolto, e dato a quel figliuolo
a chi avea il zio la signoria levata.
Di che vendetta, ma con suo gran duolo,
vide ella tosto, ahimè!, perché del fallo
quel che peccò non fu punito solo.
190 Col zio il nipote (e fu poco intervallo)
del regno e de l'aver spogliati in tutto,
prigioni andar sotto il dominio gallo.
Gregorio a' prieghi d'Isabella indutto
fu a seguir il discepolo, là dove
195 lasciò, morendo, i cari amici in lutto.
Questa iattura e l'altre cose nove
che in quei tempi successeno, mi féro
scordar Talia et Euterpe e tutte nove.
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
200 drieto a Marta bisogna ch'io rivolga,
ch'io muti in squarci et in vacchette Omero;
truovi marito e modo che si tolga
di casa una sorella, e un'altra appresso,
e che l'eredità non se ne dolga;
205 coi piccioli fratelli, ai quai successo
ero in luogo di padre, far l'uffizio
che debito e pietà avea commesso;
a chi studio, a chi corte, a chi essercizio
altro proporre, e procurar non pieghi
210 da le virtudi il molle animo al vizio.
Né questo è sol che alli miei studii nieghi
di più avanzarsi, e basti che la barca,
perché non torni a dietro, al lito leghi;
ma si truovò di tanti affanni carca
215 allor la mente mia, ch'ebbi desire
che la cocca al mio fil fésse la Parca.
Quel, la cui dolce compagnia nutrire
solea i miei studi, e stimulando inanzi
con dolce emulazion solea far ire,
220 il mio parente, amico, fratello anzi
l'anima mia, non mezza non, ma intiera,
senza ch'alcuna parte me ne avanzi,
morì, Pandolfo, poco dopo: ah fera
scossa ch'avesti allor, stirpe Arïosta,
225 di ch'egli un ramo, e forse il più bello, era!
In tanto onor, vivendo, t'avria posta,
ch'altra a quel né in Ferrara né in Bologna,
onde hai l'antiqua origine, s'accosta.
Se la virtù dà onor, come vergogna
230 il vizio, si potea sperar da lui
tutto l'onor che buono animo agogna.
Alla morte del padre e de li dui
sì cari amici, aggiunge che dal giogo
del Cardinal da Este oppresso fui;
235 che da la creazione insino al rogo
di Iulio, e poi sette anni anco di Leo,
non mi lasciò fermar molto in un luogo,
e di poeta cavallar mi feo:
vedi se per le balze e per le fosse
240 io potevo imparar greco o caldeo!
Mi maraviglio che di me non fosse
come di quel filosofo, a chi il sasso
ciò che inanzi sapea dal capo scosse.
Bembo, io ti prego insomma, pria che 'l passo
245 chiuso gli sia, che al mio Virginio porga
la tua prudenza guida, che in Parnasso,
ove per tempo ir non seppi io, lo scorga.
SATIRA VII
A MESSER BONAVENTURA PISTOFILO
DUCALE SECRETARIO
Pistofilo, tu scrivi che, se appresso
papa Clemente imbasciator del Duca
per uno anno o per dui voglio esser messo,
ch'io te ne avisi, acciò che tu conduca
5 la pratica; e proporre anco non resti
qualche viva cagion che me vi induca:
che lungamente sia stato de questi
Medici amico, e conversar con loro
con gran dimestichezza mi vedesti,
10 quando eran fuorusciti, e quando fòro
rimessi in stato, e quando in su le rosse
scarpe Leone ebbe la croce d'oro;
che, oltre che a proposito assai fosse
del Duca, estimi che tirare a mio
15 utile e onor potrei gran pòste e grosse;
che più da un fiume grande che da un rio
posso sperar di prendere, s'io pesco.
Or odi quanto acciò ti rispondo io.
Io te rengrazio prima, che più fresco
20 sia sempre il tuo desir in essaltarmi,
e far di bue mi vogli un barbaresco;
poi dico che pel fuoco e che per l'armi
a servigio del Duca in Francia e in Spagna
e in India, non che a Roma, puoi mandarmi:
25 ma per dirmi ch'onor vi si guadagna
e facultà, ritruova altro cimbello,
se vuoi che l'augel caschi ne la ragna.
Perché, quanto all'onor, n'ho tutto quello
ch'io voglio: assai mi può parer ch'io veggio
30 a più di sei levarmisi il capello,
perché san che talor col Duca seggio
a mensa, e ne riporto qualche grazia
se per me o per li amici gli la chieggio.
E se, come d'onor mi truovo sazia
35 la mente, avessi facultà a bastanza,
il mio desir si fermeria, ch'or spazia.
Sol tanta ne vorrei, che viver sanza
chiederne altrui mi fésse in libertade,
il che ottener mai più non ho speranza,
40 poi che tanti mie' amici podestade
hanno avuto di farlo, e pur rimaso
son sempre in servitude e in povertade.
Non vuo' più che colei che fu del vaso
de l'incauto Epimeteo a fuggir lenta
45 mi tiri come un bufalo pel naso.
Quella ruota dipinta mi sgomenta
ch'ogni mastro di carte a un modo finge:
tanta concordia non credo io che menta.
Quel che le siede in cima si dipinge
50 uno asinello: ognun lo enigma intende,
senza che chiami a interpretarlo Sfinge.
Vi si vede anco che ciascun che ascende
comincia a inasinir le prime membre,
e resta umano quel che a dietro pende.
55 Fin che de la speranza mi rimembre,
che coi fior venne e con le prime foglie,
e poi fuggì senza aspettar settembre
(venne il dì che la Chiesa fu per moglie
data a Leone, e che alle nozze vidi
60 a tanti amici miei rosse le spoglie;
venne a calende, e fuggì inanzi agli idi),
fin che me ne rimembr, esser non puote
che di promessa altrui mai più mi fidi.
La sciocca speme alle contrade ignote
65 salì del ciel, quel dì che 'l Pastor santo
la man mi strinse, e mi baciò le gote;
ma, fatte in pochi giorni poi di quanto
potea ottener le esperïenze prime,
quanto andò in alto, in giù tornò altretanto.
70 Fu già una zucca che montò sublime
in pochi giorni tanto, che coperse
a un pero suo vicin l'ultime cime.
Il pero una matina gli occhi aperse,
ch'avea dormito un lungo sonno, e visti
75 li nuovi frutti sul capo sederse,
le disse: «Che sei tu? come salisti
qua su? dove eri dianzi, quando lasso
al sonno abandonai questi occhi tristi?».
Ella gli disse il nome, e dove al basso
80 fu piantata mostrolli, e che in tre mesi
quivi era giunta accelerando il passo.
«Et io» l'arbor soggiunse «a pena ascesi
a questa altezza, poi che al caldo e al gielo
con tutti i vènti trenta anni contesi.
85 Ma tu che a un volger d'occhi arrivi in cielo,
rendite certa che, non meno in fretta
che sia cresciuto, mancherà il tuo stelo.»
Così alla mia speranza, che a staffetta
mi trasse a Roma, potea dir chi avuto
90 pei Medici sul capo avea la cetta
o ne l'essilio avea lor sovenuto,
o chi a riporlo in casa o chi a crearlo
leon d'umil agnel gli diede aiuto.
Chi avesse avuto lo spirito di Carlo
95 Sosena allora, avria a Lorenzo forse
detto, quando sentì duca chiamarlo;
et avria detto al duca di Namorse,
al cardinal de' Rossi et al Bibiena
(a cui meglio era esser rimaso a Torse),
100 e detto a Contessina e a Madalena,
alla nora, alla socera, et a tutta
quella famiglia d'allegrezza piena:
«Questa similitudine fia indutta
più propria a voi, che come vostra gioia
105 tosto montò, tosto sarà distrutta:
tutti morrete, et è fatal che muoia
Leone appresso, prima che otto volte
torni in quel segno il fondator di Troia».
Ma per non far, se non bisognan, molte
110 parole, dico che fur sempre poi
l'avare spemi mie tutte sepolte.
Se Leon non mi diè, che alcun de' suoi
mi dia, non spero; cerca pur questo amo
coprir d'altr'ésca, se pigliar me vuoi.
115 Se pur ti par ch'io vi debbia ire, andiamo;
ma non già per onor né per ricchezza:
questa non spero, e quel di più non bramo.
Più tosto di' ch'io lascierò l'asprezza
di questi sassi, e questa gente inculta,
120 simile al luogo ove ella è nata e avezza;
e non avrò qual da punir con multa,
qual con minaccie, e da dolermi ogni ora
che qui la forza alla ragione insulta.
Dimmi ch'io potrò aver ozio talora
125 di riveder le Muse, e con lor sotto
le sacre frondi ir poetando ancora.
Dimmi che al Bembo, al Sadoletto, al dotto
Iovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida
potrò ogni giorno, e al Tibaldeo, far motto;
130 tòr di essi or uno e quando uno altro guida
pei sette Colli, che, col libro in mano,
Roma in ogni sua parte mi divida.
«Qui» dica «il Circo, qui il Foro romano,
qui fu Suburra, e questo è il sacro clivo;
135 qui Vesta il tempio e qui il solea aver Iano.»
Dimmi ch'avrò, di ciò ch'io leggo o scrivo,
sempre consiglio, o da latin quel tòrre
voglia o da tósco, o da barbato argivo.
Di libri antiqui anco mi puoi proporre
140 il numer grande, che per publico uso
Sisto da tutto il mondo fe' raccorre.
Proponendo tu questo, s'io ricuso
l'andata, ben dirai che triste umore
abbia il discorso razional confuso.
145 Et io in risposta, come Emilio, fuore
porgerò il piè, e dirò: «Tu non sa' dove
questo calciar mi prema e dia dolore».
Da me stesso mi tol chi mi rimove
da la mia terra, e fuor non ne potrei
150 viver contento, ancor che in grembo a Iove.
E s'io non fossi d'ogni cinque o sei
mesi stato uno a passeggiar fra il Domo
e le due statue de' Marchesi miei,
da sì noiosa lontananza domo
155 già sarei morto, o più di quelli macro
che stan bramando in purgatorio il pomo.
Se pur ho da star fuor, mi fia nel sacro
campo di Marte senza dubbio meno
che in questa fossa abitar duro et acro.
160 Ma se 'l signor vuol farmi grazia a pieno,
a sé mi chiami, e mai più non mi mandi
più là d'Argenta, o più qua del Bondeno.
Se perché amo sì il nido mi dimandi,
io non te lo dirò più volentieri
165 ch'io soglia al frate i falli miei nefandi;
che so ben che diresti: «Ecco pensieri
d'uom che quarantanove anni alle spalle
grossi e maturi si lasciò l'altro ieri!».
Buon per me ch'io me ascondo in questa valle,
170 né l'occhio tuo può correr cento miglia
a scorger se le guancie ho rosse o gialle;
che vedermi la faccia più vermiglia,
ben che io scriva da lunge, ti parrebbe,
che non ha madonna Ambra né la figlia,
175 o che 'l padre canonico non ebbe
quando il fiasco del vin gli cadde in piazza,
che rubò al frate, oltre li dui che bebbe.
S'io ti fossi vicin, forse la mazza
per bastonarmi piglieresti, tosto
180 che m'udissi allegar che ragion pazza
non mi lasci da voi viver discosto.
- FINE -
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