[Pagina precedente]...re, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima. Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che abitava il piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente:
- Che cos'hai, mio caro casigliano?
- Sono malato, Marmottina mia, molto malato... e malato d'una malattia che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso?
- Un pochino.
- Senti dunque se per caso avessi la febbre.
La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso di Pinocchio gli disse sospirando:
- Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!...
- Cioè?
- Tu hai una gran brutta febbre!...
- E che febbre sarebbe?
- E' la febbre del somaro.
- Non la capisco questa febbre! - rispose il burattino, che l'aveva pur troppo capita.
- Allora te la spiegherò io, - soggiunse la Marmottina. - Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più burattino, né un ragazzo...
- E che cosa sarò?
- Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l'insalata al mercato.
- Oh! Povero me! Povero me! - gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt'e due gli orecchi, e tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro.
- Caro mio, - replicò la Marmottina per consolarlo, - che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.
- Ma davvero è proprio così? - domandò singhiozzando il burattino.
- Purtroppo è cosi! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!
- Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!...
- E chi è questo Lucignolo!...
- Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore... ma Lucignolo mi disse: "Perché vuoi annoiarti a studiare? Perché vuoi andare alla scuola? Vieni piuttosto con me, nel Paese dei Balocchi: lì non studieremo più: lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri".
- E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno?
- Perché?... Perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio... e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonato quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!... E a quest'ora non sarei più un burattino... ma sarei invece un ragazzino a modo, come ce n'è tanti! Oh!... ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta!
E fece l'atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d'asino, e vergognandosi di mostrarli al pubblico, che cosa inventò?... Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso.
Poi uscì: e si dette a cercar Lucignolo dappertutto. Lo cercò nelle strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l'aveva veduto.
Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta bussò.
- Chi è? - domandò Lucignolo di dentro.
- Sono io! - rispose il burattino.
- Aspetta un poco, e ti aprirò.
Dopo mezz'ora la porta si aprì: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.
Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentì quasi consolarsi e pensò subito dentro di sé:
"Che l'amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?..."
E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:
- Come stai, mio caro Lucignolo?
- Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano.
- Lo dici proprio sul serio?
- E perché dovrei dirti una bugia?
- Scusami, amico: e allora perché tieni in capo codesto berretto di cotone che ti cuopre tutti gli orecchi?
- Me l'ha ordinato il medico, perché mi sono fatto male a questo ginocchio. E tu, caro burattino, perché porti codesto berretto di cotone ingozzato fin sotto il naso?
- Me l'ha ordinato il medico, perche mi sono sbucciato un piede.
- Oh! povero Pinocchio!...
- Oh! povero Lucignolo!...
A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura.
Finalmente il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse al suo compagno:
- Levami una curiosità , mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi?
- Mai!... E tu?
- Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio, che mi fa spasimare.
- Ho lo stesso male anch'io.
- Anche tu?... E qual è l'orecchio che ti duole?
- Tutt'e due. E tu?
- Tutt'e due. Che sia la medesima malattia?
- Ho paura di sì?
- Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?
- Volentieri! Con tutto il cuore.
- Mi fai vedere i tuoi orecchi?
- Perché no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.
- No: il primo devi essere tu.
- No, carino! Prima tu, e dopo io!
- Ebbene, - disse allora il burattino, - facciamo un patto da buoni amici.
- Sentiamo il patto.
- Leviamoci tutt'e due il berretto nello stesso tempo: accetti?
- Accetto.
- Dunque attenti!
E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:
- Uno! Due! Tre!
Alla parola tre! i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in aria.
E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera. Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutt'e due dalla medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.
E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul più bello del ridere, Lucignolo tutt'a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando colore, disse all'amico:
- Aiuto, aiuto, Pinocchio!
- Che cos'hai?
- Ohimè. Non mi riesce più di star ritto sulle gambe.
- Non mi riesce più neanche a me, - gridò Pinocchio, piangendo e traballando.
E mentre dicevano così, si piegarono tutt'e due carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro, brizzolato di nero.
Ma il momento più brutto per què due sciagurati sapete quando fu? Il momento più brutto e più umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino.
Non l'avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini: e ragliando sonoramente, facevano tutt'e due coro: j-a, j-a, j-a.
In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:
- Aprite! Sono l'Omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, o guai a voi!
Diventato un ciuchino vero, è portato a vendere, e lo compra il direttore di una compagnia di pagliacci per insegnargli a ballare e a saltare i cerchi; ma una sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro, per far con la sua pelle un tamburo.
Vedendo che la porta non si apriva, l'Omino la spalancò con un violentissimo calcio: ed entrato che fu nella stanza, disse col suo solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo:
- Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti alla voce. E per questo eccomi qui.
A tali parole, i due ciuchini rimasero mogi mogi, colla testa giù, con gli orecchi bassi e con la coda fra le gambe.
Da principio l'Omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata fuori la striglia, cominciò a strigliarli perbene.
E quando a furia di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe loro la cavezza e li condusse sulla piazza del mercato, con la speranza di venderli e di beccarsi un discreto guadagno.
E i compratori, difatti, non si fecero aspettare.
Lucignolo fu comprato da un contadino, a cui era morto il somaro il giorno avanti, e Pinocchio fu venduto al direttore di una compagnia di pagliacci e di saltatori di corda, il quale lo comprò per ammaestrarlo e per farlo poi saltare e ballare insieme con le altre bestie della compagnia.
E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l'Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva una fisionomia tutta latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel Paese dei Balocchi, perché passassero tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiare mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s'impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e sui mercati. E così in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario.
Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so, per altro, che Pinocchio andò incontro fin dai primi giorni a una vita durissima e strapazzata.
Quando fu condotto nella stalla, il nuovo padrone gli empì la greppia di paglia: ma Pinocchio, dopo averne assaggiata una boccata, la risputò.
Allora il padrone, brontolando, gli empì la greppia di fieno: ma neppure il fieno gli piacque.
- Ah! non ti piace neppure il fieno? - gridò il padrone imbizzito. - Lascia fare, ciuchino bello, che se hai dei capricci per il capo, penserò io a levarteli!...
E a titolo di correzione, gli affibbiò subito una frustata nelle gambe.
Pinocchio dal gran dolore, cominciò a piangere e a ragliare, e ragliando, disse:
- J-a, j-a, la paglia non la posso digerire!...
- Allora mangia il fieno! - replicò il padrone che intendeva benissimo il dialetto asinino.
- J-a, j-a, il fieno mi fa dolere il corpo!...
- Pretenderesti, dunque, che un somaro, par tuo, lo dovessi mantenere a petti di pollo e cappone in galantina? - soggiunse il padrone arrabbiandosi sempre più e affibbiandogli una seconda frustata.
A quella seconda frustata Pinocchio, per prudenza, si chetò subito e non disse altro.
Intanto la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase solo: e perché erano molte ore che non aveva mangiato cominciò a sbadigliare dal grande appetito. E, sbadigliando, spalancava una bocca che pareva un forno.
Alla fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po' di fieno: e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi e lo tirò giù.
- Questo fieno non è cattivo, - poi disse dentro di sé, - ma quanto sarebbe stato meglio che avessi continuato a studiare!... A quest'ora, invece di fieno, potrei mangiare un cantuccio di pan fresco e una bella fetta di salame!... Pazienza!
La mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella greppia un altro po' di fieno; ma non lo trovò perché l'aveva mangiato tutto nella notte.
Allora prese una boccata di paglia tritata: ma in quel mentre che la masticava si dovè accorgere che il sapore della paglia tritata non somigliava punto né al risotto alla milanese né ai maccheroni alla napoletana.
- Pazienza! - ripetè, continuando a masticare. - Che almeno la mia disgrazia possa servire di lezione a tutti i ragazzi disobbedienti e che non hanno voglia di studiare. Pazienza!... pazienza!
- Pazienza un corno! - urlò il padrone, entrando in quel momento nella stalla. - Credi forse, mio bel ciuchino, ch'io ti abbia comprato unicamente per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato perché tu lavori e perché tu mi faccia guadagnare molti quattri...
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