NUOVI POEMETTI, di Giovanni Pascoli - pagina 4
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E il frate udì, fissando i milïoni
d'astri, il vagito d'un agnello sperso
la tra le grandi costellazïoni
nella profondità dell'Universo...
II
E il dubbio entrò nel cuore tristo e pio.
"Che sei tu, Terra, perché in te si sveli
tutto il mistero, e vi s'incarni Dio?
O Terra, l'uno tu non sei, che i Cieli
sian l'altro! Non, del tuo Signor, sei l'orto
con astri a fiori, e lunghi sguardi a steli!
Noi ti sappiamo.
Non sei, Terra, il porto
del mare in cui gli eterni astri si cullano...
un astro sei, senza più luce, morto:
foglia secca d'un gruppo cui trastulla
il vento eterno in mezzo all'infinito:
scheggia, grano, favilla, atomo, nulla!"
Così pensava: al sommo del suo dito
giungeva allora da una stella il raggio
che da più di mille anni era partito.
E vide una fiammella in un villaggio
lontano, a quelle di lassù confusa:
udì lontano un dolce suon selvaggio.
Laggiù da una capanna semichiusa
veniva il suono per la notte pura,
il dolce suono d'una cornamusa.
E risonava tutta la pianura
d'uno scalpiccio verso la capanna:
forse pastori dalla lor pastura.
E il frate al suono dell'agreste canna
ripensò quelle tante pecorelle
che il pastor buono non di lor s'affanna:
tra i fuochi accesi stanno in pace, quelle,
sicure là su la montagna bruna;
e il pastor buono al lume delle stelle
quaggiù ne cerca intanto una, sol una...
III
"Sei tu quell'una, tu quell'una, o Terra!
Sola, del santo monte, ove s'uccida,
dove sia l'odio, dove sia la guerra;
dove di tristi lagrime s'intrida
il pan di vita! Tu non sei che pianto
versato in vano! Sangue sei, che grida!
E tu volesti Dio per te soltanto:
volesti che scendesse sconosciuto
nell'alta notte dal suo monte santo.
Tu lo volesti in forma d'un tuo bruto
dal mal pensiero: e in una croce infame
l'alzasti in vista del suo cielo muto".
In cielo e in terra tremulo uno sciame
era di luci.
Andavano al lamento
della zampogna, e fasci avean di strame.
Ma il frate, andando, con un pio sgomento
toccava appena la rea terra, appena
guardava il folgorìo del firmamento:
quella nebbia di mondi, quella rena
di Soli sparsi intorno alla Polare
dentro la solitudine serena.
Ognun dei Soli nel tranquillo andare
traeva seco i placidi pianeti
come famiglie intorno al focolare:
oh! tutti savi, tutti buoni, queti,
persino ignari, colassù, del male,
che no, non s'ama, anche se niun lo vieti.
Sonava la zampogna pastorale.
E Dio scendea la cerula pendice
cercando in fondo dell'abisso astrale
la Terra, sola rea, sola infelice.
LA VERTIGINE
Si racconta di un fanciullo che aveva
perduto il senso della gravità...
I
Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore.
Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell'eterno vento;
voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all'erbe dell'aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.
Oh! voi non siete il bosco, che s'afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d'altrettanto non va su, sotterra!
Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s'effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.
Eternamente il mar selvaggio l'onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.
Ma voi...
Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;
che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell'oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!
Ma quando il capo e l'occhio vi si piega
giù per l'abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega...?
Allora io, sempre, io l'una e l'altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d'erba, per l'orror del vano!
a un nulla, qui, per non cadere in cielo!
II
Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,
su quell'immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!
Su quell'immenso baratro tu passi
correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,
con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.
Io veglio.
In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio.
Mi fissa di laggiù coi tondi
occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:
se mi si svella, se mi si sprofondi
l'essere, tutto l'essere, in quel mare
d'astri, in quel cupo vortice di mondi!
veder d'attimo in attimo più chiare
le costellazïoni, il firmamento
crescere sotto il mio precipitare!
precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso.
sprofondar d'un millennio ogni momento!
di là da ciò che vedo e ciò che penso,
non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;
forse, giù giù, via via, sperar...
che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,
di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!
IL PRIGIONIERO
Prendi, infelice, il tuo dolore in pace!
"Perché?" Tu, perché gridi, urti la porta?
"Perché dolore è più dolor, se tace".
Se lo nascondi, frutterà.
Sopporta,
attendi, spera...
"O vanità! Non spero.
Non credo".
Eppure...
"Dio non è!" Che importa?
C'è del mistero intorno a te...
"Mistero?
Io non lo vedo".
Ciò che tu non vedi,
o prigioniero, è un altro prigioniero;
e un altro e un altro.
Hanno nei ceppi i piedi...
"Anch'io".
Presto la morte, ora catene!
"Anch'io".
Dunque tu sai, dunque tu credi.
Non li destare! "Io, dormo forse?" Ebbene?
Se vuoi parlare, parla sì, ma piano;
canta, se vuoi, ciò che dal cuor ti viene:
canta, ma un dolce canto, esile, vano,
che su la piuma delle sue parole
li porti in collo al loro amor lontano:
cantalo quello che nel cuor ti duole!
piangano anch'essi, ma dormendo ancora!
Chi piange in sogno, è giunto a ciò che vuole,
è giunto alfine a tutto ciò che implora
invano.
Canta: e l'anima pugnace
tua placherai.
Ritroverà l'aurora
anche te forse addormentato in pace.
I FILUGELLI
CANTO PRIMO
I
Con chi partisci quell'esigua messe?
La deve qualche luccioletta avere,
che ti fa lume? o il ragno, che ti tesse?
o la formica? Le formiche nere
t'han fatto il mucchio, che somiglia un poggio?
E mezzo devi il grano del podere,
e lo misuri: e il tuo ditale è il moggio.
II
T'han fatto, o Rosa, le formiche il mucchio.
Ora partisci, benché sia d'aprile;
San Marco, appunto; quando il gelso è in succhio.
E il tuo grano è una polvere sottile
e sembra nato tutto in una zolla...
Lo tribbiò il grillo dentro il suo cortile,
e la vanessa ventilò la lolla.
III
Te lo tribbiò le lunghe sere il grillo
trillando acuto...
Oppur codesto grano
tu l'hai mietuto al regamo e al serpillo?
O scosso t'hai nel cavo della mano
l'urna del fiore dell'oblio, del fiore
del dolce sonno? Vi s'udiva un vano
scrosciar di pioggia in un lontano albore...
IV
E tu vuoi dunque seminare il sogno
del rosso fiore? Non è tardi? È molto
che cadde il fiore al melo ed al cotogno.
Fiorisce il grano già da te sepolto.
Pendono ai rami i pomi verdi e lazzi.
Fiorisce l'uva; e dal ciliegio folto
pendono bianche le ciliege a mazzi.
V
Ma tu ti sganci il candido corsetto,
o bionda Rosa.
Fuori è chiaro il sole,
e due colombi tubano sul tetto
Ti slacci il busto.
Odore di vïole
bianche è nell'orto.
Oh! lascia come prima.
Bello è come è.
Non altro fior ci vuole.
Ci son due bocci ch'hanno il rosso in cima.
VI
Non chiudere entro il bianco petto, o Rosa,
il fior del sonno.
Non la notte e il giorno
costì si veglia e mai non si riposa?
Ma senti a un tratto scalpicciare intorno
alla tua casa...
Ora le lievi trine
tu lieve agganci, ed il corsetto adorno
richiudi, a un grido delle tue vicine.
VII
Chiamano: Rosa! A doppio le campane
suonano.
Andate! Va con l'altre a schiera:
prega da Dio la cara pace e il pane.
Peregrinando suoni la preghiera
per campi e selve, e per le vigne e gli orti.
Ristate, o litanie di primavera,
avanti a croci, qua e là, di morti!
VIII
Appiedi, o Rosa, delle vecchie croci
prega anche tu: che venga alle su' ore
il grano e l'uva, e le gioconde noci
e le castagne; per il dolce amore
tuo, per quei morti, che non sai chi sono...
Prega! Pregate che sfiorisca il fiore,
che il bello passi ma che lasci il buono.
IX
Ai morti ignoti hanno pensato, ed anche
al seme chiuso che lor è sul cuore,
covato già da due lievi ale bianche...
E vanno via le vergini canore
e il canto lor si perde nella valle.
Cantano lontanando: Non si muore!
E poi: Lo sanno insino le farfalle!...
CANTO SECONDO
I
Nati! Son nati nel tuo petto i semi!
Ah! che son bruchi, squallidi di pelo,
neri, infiniti! Ma tu già non temi.
Tu cauta e pia nel piccolo suo telo,
in un paniere, adagi il tuo tesoro;
e su vi spargi lievemente un velo
di foglie trite e di germogli d'oro.
II
Ché savio il gelso come se c'intenda,
ha messo a tempo.
Ed ora ogni quattro ore
tu recherai la piccola profenda,
al lor presepe, nell'ugual tepore
della tua stanza; ed essi pasceranno.
Ma ecco, un dì, non toccano più fiore:
noia li prende; alzano il capo, e stanno.
III
Dormono.
Or tu non romperai quel sogno
che forse fanno.
Non portar più frasca;
ché non d'altro che d'aria hanno bisogno.
Un giorno; e par che il gregge tuo rinasca.
Par nuovo.
E tu gli porgi qualche cima
fresca a cui salga il nuovo gregge, e pasca;
e lo tramuti dal panier di prima.
IV
Cerca tre volte tanta una canestra:
prendi i germogli con sur ogni foglia
appeso una branco, e ponili giù destra.
Tre volte tanto mangiano.
E tu spoglia
per loro i rami e spicca verdi i germi.
Mangino.
In capo de' sei dì la voglia
del cibo è queta: alzano il capo, e fermi!
V
Dormono.
Il corpo a qualche cosa attorno
hanno legato con sottili bave
come di seta; e dormono un gran giorno.
Alfine ecco si svolgono dal grave
sonno, rifatti.
Ed ecco a cento a cento
li cogli a un ramo, poni giù soave
in una stuoia il tuo cresciuto armento.
VI
Tre volte tanto brucano foraggio
così cresciuti.
Ma tre volte tanto
verdeggia il gelso al puro sol di maggio.
Due rose aperte tu porrai da un canto.
Sognino nella stanza solitaria
d'essere in Cina, i bachi, e per incanto
errar sui gelsi tra il color dell'aria!
VII
Dormono...
Ebbene: tristo sogno è il loro.
Ma no: vegliano, e sembrano, all'aspetto,
in doglia grande od a crudel lavoro.
Non vedi come il torvo capo eretto
per tutto un giorno dondolano stanchi?
Póntano i pie' di dietro, alzano il petto,
e di sé stessi escono puri e bianchi.
VIII
Ora in tre stuoie li porrai, né ora
più dalle rame sgrapperai le fronde.
Porgi la rama florida, che odora.
Non le hai deposte ancora, eccole monde.
Ma tu gli alunni muterai dal primo
letto, più volte, o almeno all'ultimo, onde
l'ultimo sonno non s'invii sul fimo.
IX
Dormono...
O Rosa, siediti; ché giova.
Dormono alfin la grossa i filugelli
che tu tenesti, nel tuo seno, in cova.
Ma tu mondi olivagnoli, e fastelli
scuoti, di cesti; vieni e vai; ti spicci,
ti studi, entri, esci, apri, alzi, e sui castelli
tacita e grave stendi altri cannicci...
CANTO TERZO
I
Or sì, conviene ai gelsi bianchi, ai mori,
dare il pennato e portar foglia a fasci,
con fruscìo grande e il fresco odor di fuori!
Ma su le prime indugi un po'; né lasci
che il gregge impingui, e se ne perda il frutto:
attenta, accorta, a man a man li pasci
più largamente, fin che indulgi il tutto.
II
Ed ecco allora, nell'opaca loggia
piena di verde, uno scrosciare uguale,
un grosso allegro strepito di pioggia.
Sembra l'oscurità d'un temporale
che fa fuggire con le falci in pugno
le villanelle...
Invece le cicale
cantano al sole, al nuovo sol di giugno.
III
Canta, nel sole immersa, la calandra
che inebbria il cielo.
Tu tra i tuoi castelli
nella fresca ombra vegli sulla mandra.
Di quando in quando vengono i fratelli
portando rami striduli a bracciate:
entra con loro il canto degli uccelli,
entra con loro il soffio dell'estate.
IV
Ma sazi alfine i tuoi voraci allievi,
or l'uno or l'altro, lasciano la foglia.
Erano pigri, agili sono e lievi.
Vagano spinti da non so qual voglia.
Talvolta alcuno qua e là s'arresta.
Sembrano ciechi che da soglia a soglia
vadano tentennando con la testa.
V
Tu sai, tu vegli: a tempo tu facesti
nella tua selva, o Rosa, quando c'eri
pei primi funghi, irsute stipe e cesti.
Rami d'ulivi, anche di meli e peri,
anche di viti, tu serbasti insieme,
e, quali alberi, piccoli ma veri,
gambi di rape, dopo colto il seme.
VI
Di questi rami ed alberi minori
alzi in un tiepido angolo tranquillo
un bosco secco senza foglie e fiori.
- Che rifiorisca? - par che rida il grillo.
Non ride il ragno: egli fa pur le tele!
Né l'ape ch'ama il regamo e il serpillo:
tutto può darsi; ella fa pure il miele!
VII
Vanno inquïeti, contro lor costume.
Qual monta i ritti, qual s'appende al muro.
Traspare il corpo se si spera al lume.
Più nulla è in loro, che non sia futuro.
Par che la bocca un fil di luce aneli.
Il verme è mondo, il verme è tutto puro...
O Rosa, è puro, e cerca ove si celi.
VIII
Prendili, o Rosa, con le rosee dita:
portali al bosco.
Dentro pochi giorni
l'arida selva rivedrai fiorita.
Vai dal castello al bosco, poi ritorni
dal bosco lieta al tuo castello: lieta,
che l'un si vuoti e l'altro già s'adorni
di biondi grandi bozzoli di seta.
IX
Non più castelli, o Rosa: altro non resta
che il bosco brullo.
Or tu siedi romita,
pensi all'amore, un po' lieta un po' mesta.
Dal bosco morto viene un'infinita
romba nel gran silenzio sonnolento.
Tra le sue rame odi un ansar di vita...
le già sue foglie odi stormire al vento.
LA MIETITURA
TRA LE SPIGHE
I
Il grano biondo sussurrava al vento.
Qualche fior rosso, qualche fior celeste,
tra i gambi secchi sorridea contento.
Pendeano li agli e le cipolle in reste.
S'udian, mutata alfin la voce in gola,
cantar galletti, altieri delle creste.
Tessea le spighe dello spigo a spola
la cara madre, per i suoi rotelli
del banco grande e per le sue lenzuola.
Fioria la zucca, arsivano i piselli,
nell'orto.
Le ciliege erano andate:
per San Giovanni avevano i giannelli.
C'erano già le mele dell'estate,
c'erano le susine di San Pietro.
Fatte via via più lunghe le giornate,
il sole, stanco, ritornava indietro.
II
E biondo al vento mormorava il grano.
Fiorivano le snelle spadacciole
tra i gambi gialli; e non sapean, che in vano.
C'era un bisbiglio come di parole.
E l'intendea la lodola che in tanto
aveva lì la giovinetta prole.
Tardi avea fatto il nido, lì da un canto.
Oh! ella amava il sole più che il nido!
Chissà? voleva far lassù, col canto!
Or sui piccini udiva già lo strido
della falciola; e li ammonìa di stare
accovacciati senza dare un grido.
Diceva: - Chiotte, contro terra, o care!
che non si mova un bruscolo, uno stelo!
V'ho fatte color terra: altro non pare,
così, che terra, o nate per il cielo! -
III
E il grano al vento strepitava; e disse
il padre al figlio: "Mieteremo.
Vedi:
verdino è, sì, ma non vorrei patisse.
Ché il grano dice: - Io sto ritto, e tu siedi.
Qui temo l'acqua, e il vento mi dà briga.
Altronde, o presto o tardi, o steso o in piedi,
se il gambo è secco seccherà la spiga -".
TERRA E CIELO
I
E disse poi, con tutti i figli attorno,
appiè d'un melo, carico di mele:
"Sì: mieteremo sull'aprir del giorno.
La terra è buona: dura, ma fedele;
ma è una barca, il sole per timone,
e bianche e nere nuvole per vele.
Ci vuole il cielo: tutto a sua stagione;
e freddo, caldo, dolce, aspro, ci vuole,
e i lampi e i tuoni e il fumido acquazzone.
Il grano, in prima, ebbe due barbe sole,
quando escì fuori, un solo gambo in tutto.
Venne la neve: - Ah! vuoi goderti il sole?
No! Soffri un po'! Metti altre barbe! Frutto
non vien da seme che non sia già morto! -
Die' retta il grano.
Marzo venne asciutto.
Guai se i miei campi li prendea per l'orto!
II
Si sa: marzo va secco, il gran fa cesto.
Il gran, per uno pallido e sottile,
più ciuffi mise, quanto più fu pesto.
Talliva.
Allora sopravvenne aprile
con le dolci acque.
I giorni erano belli,
ma e' passava con il suo barile.
Passava in alto, tra un cantar d'uccelli,
con una gonfia nuvoletta nera...
E il gran fece il cannello, anzi i cannelli.
Doglia di verno, gioia a primavera!
Tanti cannelli, tante spighe, nate
d'un chicco solo; e questo chicco ov'era?
Non c'era più.
Restare, a che? Pensate.
Il grano in tanto chiuso nello stelo,
dentro le verdi lolle accartocciate,
fioriva.
Unita era la Terra e il Cielo.
III
Fioriva il grano.
Erano in casa, i fiori,
con l'uscio chiuso, e nuovi della vita
mescean celati i loro dolci amori.
Alfin la spiga aperse con due dita
l'uscio, e guardò stringendo a sé la veste.
Ma come vide al Ciel la Terra unita,
anch'ella uscì, ma con un vel di reste.
E LAVORO
I
E il grano è bello.
Ma non fu soltanto
la terra e il cielo, fu la nostra mano.
Chi prega è santo, ma chi fa, più santo.
E prima scelsi il seme del mio grano
tra il grano mio.
Grani più duri e grossi
o più gentili non cercai lontano.
Altri grani, altre terre, ed altri fossi
ed altri conci.
Il grano da sementa
non lo tribbiai né macchinai, ma scossi.
Quando fu tempo, presi calce, spenta
da me, non vecchia; tal che, non appena
l'acqua la bagni, bulica e fermenta.
Ne feci latte, e in una cesta piena
v'immersi il grano, che un po' sempre molle,
quando sentii la lunga cantilena
di grilli e rane, sparsi sulle zolle.
II
Né lavorato avevo a fondo: a fondo
avevo sì, ma pel granturco d'anno.
Il grano è meglio, e però vien secondo.
Sta pago il grano a quello che gli dànno.
Vuol sì la terra trita, ma non trita
tanto, ché, anzi, gli sarebbe a danno.
Non diedi al grano, che mi dà la vita,
nemmeno il concio.
Poco o nulla e' chiede
per far la spiga bella e ben granita.
Gli basta un po' del troppo che si diede
al formentone, che scialacqua e, grande
com'è, non pensa al piccoletto erede.
Ad ogni acquata egli s'innalza e spande,
si sogna d'essere albero, fa vanti
e sfoggi, e vuole intorno a sé ghirlande
di zucche e di fagioli rampicanti...
III
Dov'e' lasciò, grossi, pel fuoco, i gambi,
io questo grano seminai; non fitto;
e un sol governo valse per entrambi.
E visse e crebbe, pesto giallo afflitto...
Ma, or vedete: e' non s'alletta e sta.
È bello.
Per tenere il capo ritto
giova la cara buona povertà!
IL PANE
I
Date la pietra a falci ed a frullane,
o cari figli! spruzzolate l'aia
con acqua pura! Ché ritorna il pane.
Viene dai campi tratto a noi da paia
di vaccherelle, a l'aie bianche ov'erra
odor di fiori e odor di concimaia.
Fategli festa: ei viene di sotterra,
e sé dà cibo a quei che l'hanno ucciso,
il figlio pio del Cielo e della Terra!
Siete suoi figli; e, dopo che al sorriso
di vostra madre, di tra le sue stesse
mammelle sante, avete a lui sorriso.
Lo stringevate, che non vi cadesse,
con le due mani, ancora gronchie, al core,
dandogli un bacio.
Egli le sue promesse
attiene, e per noi nasce e per noi muore.
II
Fategli festa.
Era finito il grano...
il grano vecchio.
Or quello ch'è più in cera,
noi sceglieremo e batteremo a mano.
Il meglio, il fiore dell'annata intera,
noi manderemo subito al molino;
che l'abbia a giorno e che lo renda a sera.
L'affioreremo.
Vuo' lo staccio fino.
Prepareremo il lievito, ch'è quello
che il nonno in casa ritrovò bambino.
Sia buono il pane, ma non sia men bello:
meglio che un brutto pan di fiore approvo
un bel colombo fatto di cruschello.
Sia ben levato e pieno come un ovo,
e col suo sale; buono anche da solo.
Sia questo primo pane di gran nuovo
per te, mia figlia, che mi prendi il volo.
III
Ma da' la pietra alla tua falce, o Rosa.
Mieti con gli altri.
Mieterai più lenta
nei dì che passi tra fanciulla e sposa;
nei dì che il cuore sembra che si penta
di far le spighe che per ciò son nate...
Mieti anche tu.
Nelle tue carni ei senta
l'odor del grano e della grande estate".
LA MESSE
I
I due fratelli con le due sorelle,
stringendo il grano e le lunate falci,
mietean le spighe e ne facean mannelle.
Torceano spighe, per legar, non salci.
E le stendeano.
O vite, così stese
le carezzavi con l'ombrìa dei tralci.
L'erbe così, mentre fiorian, sorprese,
moriano al sole; onde alle bestie grata
si fa la paglia come fien maggese.
Passava il padre tutta la giornata
pei solchi, e ritte le mannelle in croce
ponea, se l'erba già vedea seccata.
Seguian nel campo l'opera veloce
lieti i fratelli e le sorelle accanto.
Ma non si udiva, o Rosa, la tua voce.
Un canto, sì, di lodoletta, o un pianto.
II
In ogni campo alzarono due tonde
mete di spighe.
Posero per prime
quattro mannelle, le più grosse e bionde.
Posero il calcio in terra, alto le cime;
e poi, con le altre sopra quelle e intorno,
fecero una gran cupola sublime.
Mietean tre giorni.
Sul finir del giorno,
era finita.
Placida la sera,
erano i cuori placidi al ritorno.
"Il grano è bello, e, di verdugio ch'era,
secco sin troppo.
Con quel sole, ha sete.
Oggi la spiga ci parea leggiera"
diceva il babbo, e soggiungea: "Vedrete!
Il gran che il sole ora ha stremato e franto,
poi si rifà la notte nelle mete,
e s'enfia e s'empie, e peserà più tanto".
III
Nere le mete: solo qualche lampo
facean le paglie, come se un tesoro
fosse disperso qua e là nel campo.
Diceano i grilli grazie mille in coro
a chi, tagliato, per lor agio, il grano,
gittò poi l'arma...
La falciola d'oro
brillava in cielo e ricadea lontano.
I SEMI
I
L'alba sul monte e l'ombra nella valle.
I vermi chiusi ne' ben fatti avelli,
piccole mummie rinascean farfalle.
Le spose uscian da' bozzoli più belli,
candide e gravi.
Col frullar dell'ale
movean ver loro i brevi maschi snelli.
La savia madre il letto nuzïale
bianco lor tese.
Ognuno andava in traccia
d'una compagna all'opera immortale.
E venne Rosa dalle bianche braccia
nella stanzetta del fecondo rito.
Recava in grembo i bei rotelli e l'accia.
Rosa ristié vedendo già fiorito
di semi d'oro, tanti semi, il panno.
Pensava: - Allora avrò l'anello al dito,
non ci sarò, quando rinasceranno...
II
Sentiva tonfi e scrosci come pioggia
che sferzi i vetri.
Il primo fior del grano
scotean laggiù nella sonante loggia.
Prendeva il babbo una mannella in mano
e la battea, voltandola, più volte,
forte e con garbo, sur un banco piano.
Secche, bell'aspre, già per prime colte,
eran le spighe, e con tre colpi a sesto
davano fuori il grano lor, disciolte.
Pioveano i chicchi.
A Rosa vie più mesto
si fece il cuore.
Ah! che il desio rimane
addietro, spesso, e il tempo va più lesto!
Capì la madre che pensava al pane
delle sue nozze, pallida e sgomenta;
e disse, volti gli occhi in là: "Stamane
scuotono il grano, ma della sementa..."
III
E nelle braccia si trovò piangente
l'una dell'altra.
"Oh! quello che più costa,
figlia, è la gioia: oh! non si dà per niente!"
"Se ho fatto male, non l'ho fatto apposta!
Lascia ch'io resti qui con te, ch'io stia
in un cantuccio, ma con te, nascosta...
Non mi mandare, o dolce madre, via!..."
IL CORREDO
I
"Non io ti mando.
È un altro che ti manda.
Fa quel ch'io feci, che per te fu bene.
Va col tuo velo e con la tua ghirlanda.
Te la faremo d'astri e di verbene;
di rose, resti, e per un po', tu sola.
Va col corredo quale a te perviene.
Frullare il fuso e correre la spola
facesti assai! La tela, che tessesti!
Quante coperte e paia di lenzuola!
Tutte son tue; che, quando là ti desti
nei primi giorni, prima che sia giorno,
pensi che i più, degli anni tuoi, son questi.
Ti sentirai l'odor di casa attorno,
il buon odor di spigo e di cotogno,
e di tua mamma; ed ecco di ritorno
sarai, tra noi, se dopo dormi, in sogno.
II
Facesti assai correre l'ago e il fuso,
la spola e i ferri.
Il bene, si ritrova.
Hai quel ch'è d'uso, ed anche più, che d'uso.
Senza pensarci, ad una casa nuova
tu provvedevi: tu, per quella, in piazza
la seta e i polli tu portasti e l'uova.
Per quella i teli stavano alla guazza
ed alla luna.
Dice il babbo, o Rosa:
- Ricca da sposa, oprante da ragazza.
-
Ora, il primo anno, o figlia mia, riposa!
Godi, che n'hai, le calze, e le gonnelle
e le tovaglie a spina, a riso, a rosa.
Per me l'hai fatte, e sono così belle!
La madre tua le dona a te...
Ma pensa!
Quando i tuoi vecchi un giorno le ciambelle
ti porteranno, ne ornerai la mensa".
III
Così diceva; ma di tanto in tanto
le si arrochiva e si spengea la voce.
Assieme allora elle faceano un pianto.
Come è qui tutto, insino i fiori, a croce!
La madre altrove la condusse, un banco
le aperse, nuovo, lucido, di noce.
"È tuo, con tutto il suo tesoro bianco".
IL SALUTO
I
E il giorno avanti le sue nozze in fiore
rivide, errando per il colle e il piano,
ciò ch'ella amava, e che non era amore.
E salutò coi cenni della mano
la vigna verde che gli dava il vino,
il campo grande che gli dava il grano;
e il melograno rosso e il biancospino
della sua siepe, e il campo così smorto,
in cui fiorì come un bel cielo il lino:
ciò ch'era morto e ciò ch'era risorto,
ciò che nasceva e che moriva al sole,
la selva, il prato, l'oliveta e l'orto.
Di fiori, c'era un alto girasole,
nell'orto, e qualche zinia ed astro in boccia.
Tutto era colto...
A lei con l'ali sole
corse, tra un rotto pigolio, la chioccia.
II
Salutò l'aia, il pozzo, a tutte l'ore
gemente e fresco, e la sua casa oh! tanto
e tanto amata! ma non era amore;
la cameretta, il letto a due, col Santo
che v'era in cima.
Il capo sulla sponda,
piangeva, ed ecco udiva un altro pianto.
"Oh! ella aspetta sempre che risponda
il vitellino!" Era, quel pianto, un muglio.
Un muglio sì, ma era la sua Bionda!
Scese, e facea per lei qualche cerfuglio
e qualche frasca.
Ecco un ronzio sonoro.
Era uno sciame che sciamava in luglio.
Ronzare udiva quello sciame d'oro,
e la sua mucca riudì mugliare.
Rondini udiva cinguettare in coro,
venute al nido sopra il vento e il mare.
III
Ed il domani baciò Nando e Dore
che scappò, il babbo a cui ballava il mento;
che amava, oh! quanto! ma non era amore.
Ei disse: "Gioia dentro, lume spento".
Baciò la madre, che la benedisse;
e Violetta, col suo viso attento,
tacita, grave, le pupille fisse.
IL CHIÙ
I
- Addio! - La notte, troppo grande il letto
era a Viola.
Stava dal suo canto,
con incrociate le due mani al petto;
ma non dormiva.
Non aveva pianto.
Dicea di quando in quando una preghiera.
Dormir, sognare, non volea; ché tanto...
non c'era più! Perché sognar che c'era?
non saper più, ma per un poco, appena,
ch'era partita al rosseggiar di sera?
La notte in cielo risplendea serena:
tra cielo e terra un murmure, uno spesso
palpito, l'onda d'un'assidua lena.
E Violetta si chiedea sommesso
dov'era quella che non c'era più.
Col dolce verso sempre mai lo stesso
le rispondeva di lontano il chiù.
II
Splendea lassù la gran luce di Sirio.
Recava odor di fiori pésti il vento.
- Ell'era andata a chi sa qual martirio!
Ora, dov'era? A lume acceso o spento?
Buon che le mise al collo, nell'aspetto,
quella sua croce piccola d'argento!
Ella doveva ora vegliar nel letto
sola con lui! senza sperare aiuto! -
Viola i panni si stringea sul petto.
- Che cosa avrebbe egli da lei voluto?
Qual piaga dare tenera e mortale
a quelle carni bianche, di velluto?
Qual pianto fa di quel ch'è ora, e quale
rimpianto mai di quel ch'un giorno fu!...
-
Col mesto verso eternamente uguale
le rispondeva di lontano il chiù.
III
Quando cantò la prima capinera
nel puro cielo d'ambra e di viola,
dormiva, sciolta la gran chioma nera.
Dormiva forte, stretta alle lenzuola;
e se sognò, non ricordò, che cosa.
Si levò tardi.
E come te, Viola,
anche i tuoi vecchi.
E tu più tardi, o Rosa.
LE DUE AQUILE
I
La rupe è là con altre rupi intorno,
alta, nell'immobilità del gelo.
Talor vi ruota all'apparir del giorno
una grande ombra che vien giù dal cielo.
II
La rupe un giorno par che muova, il ghiaccio
sembra che crocchi e crepiti, fin ch'esce
tristo un fil d'acqua da un sottil crepaccio.
Al sordo e cupo fremere si mesce
ora un bisbiglio ed un gorgoglio lene.
Con l'ali aperte scende l'ombra, cresce
all'improvviso, e grande sta.
- Che avviene? -
III
E l'uccellaccio posa sopra il ciglio
dell'alta rupe; e sente che s'abbassa
la rupe sotto l'uno e l'altro artiglio.
Tacito va, tacito viene, passa
con le grandi ali.
Tronchi d'agrifoglio
e d'oleastro porta getta ammassa.
Ora il bisbiglio e il fievole gorgoglio
si fa rumore, giù di balza in balza,
divien fracasso, giù da scoglio a scoglio...
Tutta s'apre la fulva aquila, s'alza...
IV
S'alza a vedere; tra le nubi e i venti
s'adagia in cielo.
Nelle valli brune
vede gettarsi i botri ed i torrenti.
Vanno con un feroce urlo comune,
chi qua chi là.
Scendono ciechi al piano,
portano massi, travi, alberi, cune.
Hanno la cupa voce d'uragano
e di valanga; ed il fragor con loro
rapido va, ma non è mai lontano.
Fuor dalle nubi, risplendente d'oro,
l'aquila ruota, remeggiando lenta,
sopra il terrestre vortice sonoro.
E s'alza ancora ed alto un grido avventa,
atroce, per le vane plaghe sole.
Tre volte grida, e sta tre volte intenta
all'eco forse che ne mandi il sole.
V
Amore! amore! amore! Ecco apparita
sopra le nubi, immobile su l'ale,
tremando in cuor lo squillo della vita,
tremando in cuore il palpito immortale
della sua vita, l'altra aquila.
S'alza
lenta, e ricorda a man a man che sale.
Ricorda tutto, e presso lui già sbalza,
e insieme precipitano al profondo,
prèdansi a furia; l'anno e l'ora incalza:
vuole due grandi aquile nuove il mondo!
VI
Amore! amore! Or egli tra lo scroscio
delle cascate s'inabissa a piombo,
artiglia il daino, lacera il camoscio;
e brani rossi porta, e sul rimbombo
delle valanghe suona aspro il suo grido
di sangue e morte, che poi frena: il rombo
solo dell'ale ode il solingo nido.
VII
Amore! Ed ella cova.
Il capo eretto
e gli occhi fissi, lunghi giorni e notti.
Col rostro adunco ora si spiuma il petto,
sprimaccia il covo.
Sente gli aquilotti...
LA PIADA
I
Il vento come un mostro ebbro mugliare
udii notturno.
Errava non veduto
tra i monti, e poi s'urtava al casolare
piccolo, ed in un lungo ululo acuto
fuggiva ai boschi, e poi tornava ancora
più ebbro, con suoi gridi aspri di muto.
L'udii tutta la notte, ed all'aurora,
non più.
Dormii.
Sognai, su la mattina,
che la pace scendeva a chi lavora.
Or vedo: scende.
Scende: era divina
l'anima.
Il cielo tutto a terra cade
col bianco polverìo d'una rovina.
Non un'orma.
Vanite anche le strade.
La terra è tutto un solo mare a onde
bianche, di porche ov'erano le biade.
Resta il mio casolare unico, donde
esploro in vano.
Non c'è più nessuno.
E solo a me che chiamo, ecco risponde
il pigolio d'un passero digiuno.
II
Sul liscio faggio danzi corra voli,
Maria, lo staccio! Siamo soli al mondo:
facciamo il pane che si fa da soli!
Voli lo staccio e treppichi giocondo,
vaporando il suo bianco alito fino,
che si depone sul tuo capo biondo.
O lieve staccio, io t'amo.
Il tuo destino
somiglia al mio: tener la crusca; il fiore,
spargerlo puro per il tuo cammino.
E fai codesto con un tuo rumore
lieto, in cadenza: semplice, ma bello
per l'orecchio del pio lavoratore.
Ma triste, sotto mezzodì, per quello
del viandante, che rasenta i triti
limitari del lungo paesello:
ch'ode un danzar segreto, ode tra i diti
di donna sola, in ogni casa, andare
te, casalingo cembalo, che inviti
lo sciame errante al tacito alveare.
III
Taci, querulo passero: t'invito.
Sempre diventa il tuo gridìo più fioco:
taci: or ora imbandisco il mio convito.
Il poco è molto a chi non ha che il poco:
io sull'aròla pongo, oltre i sarmenti,
i gambi del granturco, abili al fuoco.
Io li riposi già per ciò.
Ma lenti
sono alla fiamma: e i canapugli spargo
che la maciulla gramolò tra i denti.
Nulla gettai di quello che non largo
mi rese il campo: la mia man raccoglie
anche i fuscelli per il mio letargo.
Serbo per il mio verno anche le foglie
aride.
Del granturco, ecco via via
mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.
Ciò che secca e che cade e che s'oblia,
io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore
si stacca triste e che poi fa che sia
morbido il sonno, il giorno che si muore.
IV
Il mio povero mucchio arde e già brilla:
pian piano appoggio sopra due mattoni
il nero testo di porosa argilla.
Maria, nel fiore infondi l'acqua e poni
il sale; dono di te, Dio; ma pensa!
l'uomo mi vende ciò che tu ci doni.
Tu n'empi i mari, e l'uomo lo dispensa
nella bilancia tremula: le lande
tu ne condisci, e manca sulla mensa.
Ma tu, Maria, con le tue mani blande
domi la pasta e poi l'allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglio, e grande
come la luna; e sulle aperte mani
tu me l'arrechi, e me l'adagi molle
sul testo caldo, e quindi t'allontani.
Io, la giro, e le attizzo con le molle
il fuoco sotto, fin che stride invasa
dal calor mite, e si rigonfia in bolle:
e l'odore del pane empie la casa.
V
Chi picchia all'uscio? Tu forse, Aasvero,
che ancor cammini per la terra vana,
arida foglia per un cimitero?
Chi picchia all'uscio?...
E fioca una campana
suona...
Chi suona? Forse un vecchio prete,
restato a guardia della tomba umana?
È solo; e ancora a mezzodì ripete
l'Angelus, ed a rincasare invita,
morti, voi, che sotterra ora mietete.
Socchiudo l'uscio.
- Antica ombra smarrita,
che in cerca erri del corpo; ultima foglia,
che stridi ancora dove fu la vita;
qual vento t'ha portato alla mia soglia,
vecchio ramingo, ultima foglia morta
d'albero immenso che non più germoglia?
Ma tu sei vivo: hai fame! E qui ti porta
necessità.
Sei vivo: soffri! Vivo
sei: piangi! Ed ecco, dunque, apro la porta:
entra, fratello; ché ancor io...
sì, vivo.
-
VI
Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco
l'azimo antico degli eroi, che cupi
sedeano all'ombra della nave in secco
(si levarono grandi sulle rupi
l'aquile; e nella macchia era tra i rovi
un inquieto guaiolar di lupi...):
il pane della povertà, che trovi
tu, reduce aratore, esca veloce,
che sol s'intrise all'apparir dei bovi:
il pane dell'umanità, che cuoce
in mezzo a tutti, sopra l'ara, e intorno
poi si partisce in forma della croce:
il pane della libertà, che il forno
sdegna venale; cui partisci, o padre,
tu, nelle più soavi ore del giorno:
ognuno in cerchio mangia le sue quadre;
più, i più grandi, e assai forse nessuno;
o forse n'ebbe più che assai la madre,
cui n'avanza da darne un po' per uno.
VII
Azimo santo e povero dei mesti
agricoltori, il pane del passaggio
tu sei, che s'accompagna all'erbe agresti;
il pane, che, verrà tempo e nel raggio
del cielo, sulla terra alma, gli umani
lavoreranno nel calendimaggio.
Ché porranno quel dì su gli altipiani
le tende, e nel comune attendamento
l'arte ognun ciberà delle sue mani.
Ecco il gran fuoco, che s'accende al vento
di primavera.
Ma in disparte, gravi,
sulla palma le bianche onde del mento,
parlano i vecchi di non so che schiavi
d'altri e di sé: ma sembrano parole
sepolte, dei lontani avi degli avi.
Guardano poi la prole della prole
seder concorde, e, con le donne loro
e i loro figli, in terra sotto il sole,
frangere in pace il pane del lavoro.
GLI EMIGRANTI NELLA LUNA
CANTO PRIMO
Il brodiag e lo studente
I
Mancava ormai la legna e l'acquavite.
Non venne il sonno e ritornò la fame.
Disse un brodiag ai contadini: "Udite?"
Si lisciava la gran barba di rame
senza parlare, e si togliea tra il pelo
le foglie secche e qualche fil di strame.
Quelli aprivano gli occhi color cielo,
zuppi di sogno.
"Il vento!" disse: "il vento
del nord! Quest'anno tarderà lo sgelo!"
E l'isba scricchiolò con un lamento
lungo ad un urto.
Alzò le spalle un vecchio
senza levare dalle palme il mento.
Gli altri alla romba porsero l'orecchio.
"Hai pane, tu," ghignò il brodiag "tu, fieno!
legna nel canto! latte anche nel secchio!"
"Che farci?" disse il vecchio.
"Olio, non meno!..."
Il lume un po' guizzò palpitò sfrisse,
si spense.
Il vecchio disse: "Olio, nemmeno".
Che farci! Serrò gli occhi.
Altro non disse.
Ecco e s'empiva l'abituro d'una
pallida nebbia.
Ché via via men fisse
vanian le stelle all'alba della luna.
II
E la luna calante batté gialla
sull'impannata.
Netta, senza brume,
stava, sul liscio mar di neve a galla.
L'immensa taiga biancheggiava al lume.
Qualche betulla nuda, qualche cono
d'abete, e solchi d'ombra d'un gran fiume.
E si levò tra quelle genti un suono
dolce di voce: "Il giovine straniero
giunto tra noi, che parla a noi, ch'è buono...
egli sa tutto; vede anche il pensiero
chiuso nei cuori...
egli leggeva un giorno
un libro, il libro che ci dice il vero...
La Luna, dice, è un'altra Terra, attorno
a questa Terra.
E ci si va.
C'è gente
che v'andò, che ne parla, ora, al ritorno..."
La giovinetta voce piovea lente
le sue parole.
Balenava un raggio
or qua or là da due pupille attente.
E il contadino e il boscaiol selvaggio
e donne e bimbi nella solitaria
capanna, udian la storia del passaggio
a quella luna, per il mar dell'aria.
III
Scrollò la testa, il vecchio, e disse: "Fole!
L'uomo non vola, o garrula ghiandaia,
come gli uccelli e come le parole!
L'acqua ci può.
Sul fiume va l'alzaia,
non già per aria.
L'aria è aria; nulla.
Ma l'acqua è cosa, quando pur traspaia.
Fole da dire sotto una betulla,
d'estate, a sera..." Ed ella disse: "Allora
le nuvole?..." E il brodiag: "Ecco, fanciulla!
Terra e lombrichi vede chi lavora
le terra.
C'è nel mondo altro, che il grano!
Il sole cade; e l'uomo fa l'aurora!
Uno bisbiglia; e l'ode uno lontano
le mille miglia! I carri vanno a torma,
da sé, con un fragore d'uragano!
E c'è chi vola senza lasciar l'orma.
Sì! Sì...
come la nuvola che batte
nella luna, e si ragna e si deforma..."
Le sue parole in un chiaror di latte
passavano, nel loro alitar su.
Come nuvole presto fatte e sfatte
le rimirava l'umile tribù.
CANTO SECONDO
Com'è la luna
Scórsero i giorni, anche le notti; e il vento
soffiò più forte, e si levò la luna
più tardi, e il fuoco morto e il lume spento
s'era più presto: un'altra notte, e una
pallida nebbia errò su padri e figli
non sazi.
Ma la madre era digiuna.
Destò la luna i languidi sbadigli
degli altri: a lei si rifletté su gli occhi
umidi e lustri sotto i curvi cigli.
Si scaldavano un poco ora i marmocchi
a lei.
L'ultimo, in terra, il capo ciondo-
loni via via le urtava ai due ginocchi.
Ella parlò: "Se fosse qui quel biondo
grande...
Ma egli prese la bisaccia
vuota; e chi sa, dov'ora è mai, del mondo?
Io gli avrei detto: Non è lei che ghiaccia
i fossi e i fiumi? Non è lei che imbeve
del suo biancore i lunghi teli e l'accia?
Non fa la brina e il gelo essa? Ci deve
far così freddo! tra le stelle sole,
liscie, lustranti! Quel biancore è neve..."
"No, mamma," disse la fanciulla: "è il Sole!"
II
E la tribù guardò nel cielo.
Quella?
Dunque piena di sole essa trascorre,
di notte, come una più grande stella?
Una piccola Terra, or sulla torre,
or sull'abete...
Ma quell'ombre? Monti,
quelle ombre, rupi valli greppi forre...
rughe: le rughe delle vecchie fronti.
Ma ella, dunque, è vecchia calva ossuta,
senza verde di frondi, acqua di fonti?
E la fanciulla disse: "Io l'ho veduta.
In un suo libro.
Egli sapea contare
i monti e i mari.
Io l'ascoltava muta.
C'è il Mare di Serenità.
C'è il Mare
di Nubi.
Anche, di Pioggie e di Tempeste.
Un altro Mare senza l'acque amare.
C'è la Palude delle Nebbie meste.
C'è anche un Seno, a goccia a goccia pieno
di guazza dalla grande alba celeste.
E c'è il Lago dei Sogni.
Anche c'è il Seno
delle Iridi: tanti alti archi di porte
nel cielo: un infinito arcobaleno.
Vicino ai Sogni, il Lago della Morte".
III
Anche la morte? e dunque anche i viventi?
"No! no! nessuno.
Chi v'andò, discese.
In terra avea del bene e le sue genti".
Dunque nessuno...
O tacito paese
sopra le nubi, o isola del cielo,
che fiorisci e sfiorisci d'ogni mese!
Il sole ha fatto colassù lo sgelo!
Gli stagni son coperti ora dei gigli
d'acqua, a fior d'acqua sopra il lungo stelo.
Si sommergono gli alberi vermigli
dentro la cilestrina acqua dei laghi.
L'aria è fiorita dall'odor dei tigli.
E rossi e gialli spuntano tra gli aghi
d'abeti e pini, che nessun calpesta,
fiori, bocche di lupi, occhi di draghi...
Al dolce vento trema la foresta.
Dalla foresta vengono col vento
lontane voci di campane a festa...
Vi s'ode ancora un palpito più lento,
un tuffo molle a quando a quando, un va
e vieni: ondeggiamento sonnolento,
lassù, nel Mare di Serenità.
CANTO TERZO
In sogno
Scórsero i giorni; ancor le notti, a una
a una, sempre più stellate e scure;
e più tarda e più vana era la luna.
Ma quelli in sogno ecco prendean la scure
avanti l'alba.
Erano, chi tra un denso
nebbione, chi su ventilate alture.
Chi s'arrestava avanti un mare immenso,
chi camminava, lungo un colonnato
d'enormi pini, tra l'odor d'incenso.
E non vedeva che a sé stesso il fiato
cerulo, ognuno, e s'ascoltava il gemito
arido, nel silenzio inabitato.
A pini e cerri i pionieri estremi
davan la scure per la lor capanna
e i nuovi aratri, e per la nave e i remi.
Quella, in un poggio, il tetto avea di canna
fiorita ancora.
Questa, umida ancora,
nereggiava sotto alte iridi, in panna.
Ma tristi gli emigranti erano! Allora
uno di tronchi costruì l'altare.
E saliva un soave inno, all'aurora,
dallo scosceso Caucaso lunare.
II
Due, la fanciulla e il giovane che amava,
ecco non più si videro.
Interrotte
n'erano l'orme a un tondo orlo di lava.
Vicino al Lago, essi, dei Sogni, in grotte
azzurre, orlate d'ellera e vilucchio,
vivean felici.
V'era anche la notte,
presso quel Lago! Era lor letto un mucchio
d'alghe e di felci; e li addormiva il vago
sogno dell'acque e il fievole risucchio.
Presso il Lago dei Sogni, c'era il Lago
dei Morti; e niuno ardìa venirci.
Alfine
erano soli.
Il loro cuor fu pago.
E i morti? Ebbene, anime pellegrine
anch'esse, anch'esse giunte là dal lido
terrestre, buone e tacite vicine...
non s'udiva che un loro esile strido
di notte, come già sotto le gronde
a notte buia il pigolìo d'un nido:
lo strido, ch'uno chiama uno risponde,
allor che spunta dalle cime, ed erra
nel cielo azzurro, e tremola sull'onde
azzurre, come un grande astro, la Terra.
III
Tutti felici! V'era solo Dio
lassù.
Poneano nel lor campo un sasso,
poneano un segno al lor canotto: È mio!
Ma non premeva le lor vie, che il passo
di miti renne.
Il lor tranquillo mare
solo sentiva remigar lo svasso.
Le donne al Mare senza l'acque amare
soleano andare all'acqua; ma lontano
gli uomini in pace le sentian cantare.
La vecchia fame li rodea...
ma il grano
c'era, ma gialle non avea le reste;
ma già prendeano le falciole in mano.
Il vecchio freddo li pungea...
la veste
c'era: in dosso alle renne era tuttora.
La legna c'era, ma nelle foreste.
E non c'è dì senz'alba, e l'alba è l'ora
più bella; e senza fiore non c'è frutto,
e il fiore è bello, il fiore è il più che odora.
Ed è bello ogni boccio, anche s'è brutto...
Sì; ma il lor mondo, più vicino al dì,
era una falce, un'unghia, un filo...
e tutto
in una luminosa alba vanì.
CANTO QUARTO
Ritorno in sogno
Ed il lor sogno anche vanì dai cuori.
E si sparsero intorno, come i cani
dopo una morte: vagolano fuori,
fiutano cento miglia oggi, domani
piangono all'uscio.
Quella madre a Dio
tendeva, sola, dentro sé, le mani.
Ma c'era, ahimè! tanto piagnucolìo
di madri, al mondo! che potean soltanto
dire, d'un po' di carne viva: È mio!
Il cielo alfine si velò, poi franto
giù si versò.
L'acqua s'udia cadere
col suono ora d'un canto, ora d'un pianto.
Non c'erano nel mondo albe né sere.
C'era un silenzio fatto di frastuono
nei giorni oscuri, nelle notti nere.
Ed ecco che rimbombò lungo un tuono
allegro, apparve in fondo al cielo un fioco
raggio di sole, un suo sorriso buono.
E su la terra non restò per poco
che un luminoso sgocciolìo sonoro;
e poi, tra i cirri e i cumoli di fuoco,
un filo, un'unghia, era una falce d'oro!
II
Scórsero i giorni; ella cresceva: ed ecco
l'un dopo l'altro scesero a trovare
la lor capanna e la lor nave in secco.
L'erba cresceva sopra il limitare.
Lungo il lido la nave intarmoliva.
Là sui monti funghito era l'altare.
Chi stava in monte, ora scendeva in riva
del mare.
Chi vivea presso lo stagno,
ora cercava una sorgente viva.
E ciascuno s'urtava al suo compagno.
Taciti, prima; e quindi alcuno disse:
"Va, mosca!" e l'altro ribatté: "Va, ragno!"
Al Mare Dolce s'accendean le risse
stridule, acute.
V'accorrean dai monti,
l'ascie nei tronchi abbandonando infisse,
gli uomini, calmi e gravi in viso, e pronti,
nel cuore, a tutto.
Uno dicea sereno
il viso: "O donna, mancheranno fonti!
Prendi l'orciuolo e va per acqua al Seno
della Rugiada!" Era sparita intanto
la luna; e folgorava egli un baleno
d'odio a colui che gli tremava accanto.
III
E malcontenti erravano già tutti
lassù, notturni, nell'odor del sole
che apriva i fiori e maturava i frutti.
E questi invece si mettea per gole
nere di monti, e quegli ambiva rade,
nei grandi mari, inesplorate e sole.
E quegli, andando per anguste strade,
vedeva un altro, di rincontro, al varco.
Si vedeano con truci occhi di spade...
E questi cauto s'allestìa lo sbarco
tra giunchi e biodi, quando, ecco un burchiello
venir, piccolo e nero, sotto un arco
d'iride...
Ognuno fuggì via dal bello
e scese tra le nebbie, alla Palude.
Ma vi trovava l'ombra del fratello.
E da per tutto s'incontrava, rude,
in quella donna con la sua sommessa
voce, con quelle creature ignude.
In poco tempo il lor dolore messa
avea la sua radice anche su lì;
e quella Terra era già vecchia anch'essa:
soffriva ognuno ciò che già soffrì.
CANTO QUINTO
L'altra faccia lunare
Crescea la luna.
Ognuno già per ogni
plaga passava come a lui straniera.
Ognuno al Lago ora pensò, dei Sogni.
Forse la morte non temean, tant'era
la lor tristezza.
E il Lago era pur bello
con le bianche ninfee di primavera!
Ivi abbracciato al dolce oblìo gemello
era il ricordo.
Ivi cantava un nido,
da sé, partito ch'era già l'uccello.
Cantava il cuore, ora, da sé, col grido
d'allora, a notte! E ve l'udian cantare
i soli morti assisi lungo il lido.
Ed era il Lago ora nel lume, e chiare
fiorian le schiume.
Ecco, una luce scialba
si diffondea nel Caucaso lunare.
E dalle grotte orlate di vitalba
videro, i due, rifulgere le accette
lassù, nel monte, tra il chiaror dell'alba.
S'udiva per le valli e per le strette
l'arido scroscio delle foglie morte...
I lor compagni erano sulle vette,
volti ai Laghi dei Sogni e della Morte!
II
E si levò tra quelle genti un suono
dolce di voce.
Usciva allor da un velo
rado la luna pendula, dal cono
d'un abete.
Una nebbia, un ragnatelo
di luce scialba tremolò su crani
lustri, su cenci e bioccoli di pelo;
e rifulsero allora occhi lontani,
zuppi di sogno, e bocche aperte a un alto
ululo.
Il pugno si stringean le mani.
Videro tutti là, di soprassalto,
quella fanciulla, con le braccia in croce,
bianca sul liscio lago di cobalto.
Ella parlava timida e veloce.
Quello che ammansa, quello che consola,
pioveva dalla giovinetta voce.
"Io l'ho veduta.
Corre sempre, vola,
passa.
Ma mentre va, che non mai posa,
a noi non volge che una parte sola.
Vediamo, noi, nel cielo azzurro o rosa,
sempre quelle montagne, sempre quelle
paludi.
Sempre.
Ma di là? Che cosa
è mai di là, verso le grandi stelle?"
III
E la luna fu mezza.
Erano tutti
di là.
Ciascuno avea varcato un nero
cerchio di monti, un bianco orlo di flutti.
Ciascuno andava per un suo sentiero.
Movean lassù per il paese vuoto,
silenzïoso come il lor pensiero.
Movean pensosi; e cancellava il moto
l'orme sue stesse; per l'eternamente
non visto, per l'eternamente ignoto;
là, dove il tutto rifiorìa dal niente,
libero, dove s'adempìa perenne
un sogno, sogno del buon Dio dormente.
C'era anche il pane.
E c'erano le renne
placide, il latte, il fuoco: tutto! Oh! molto
pensava il vecchio: ma di là non venne.
Oh! la sua Terra! Egli torceva il volto.
Veder la Terra gli era assai; ché infine
e' non doveva ch'esservi sepolto.
Oh! pur dal fascio, ch'era, lì, di spine,
all'appressarsi dell'oscurità,
veder la Terra rosseggiar sul crine
delle montagne e dileguar di là!
CANTO SESTO
In cerca della guida
Più che mezza la luna era, e più ore
restava su, tra l'iridato alone,
e le notti imbevea del suo pallore.
E sonava il fragor d'un acquazzone,
sempre: era il fiume che la terra brulla
fendea, cantando la sua gran canzone.
Rimpennava ogni tiglio, ogni betulla.
Era la primavera, era lo sgelo.
E, una sera, uno esclamò: "Fanciulla!
Dov'è colui che sa le vie del cielo?
La luna è là.
Le cose ormai son fatte".
Ciascuno attese.
Anche quel vecchio, anelo...
"Oh! no! Restiamo! O madre che si batte
perch
...
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