NUOVI POEMETTI, di Giovanni Pascoli - pagina 6
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III
Così diceva; ma di tanto in tanto
le si arrochiva e si spengea la voce.
Assieme allora elle faceano un pianto.
Come è qui tutto, insino i fiori, a croce!
La madre altrove la condusse, un banco
le aperse, nuovo, lucido, di noce.
"È tuo, con tutto il suo tesoro bianco".
IL SALUTO
I
E il giorno avanti le sue nozze in fiore
rivide, errando per il colle e il piano,
ciò ch'ella amava, e che non era amore.
E salutò coi cenni della mano
la vigna verde che gli dava il vino,
il campo grande che gli dava il grano;
e il melograno rosso e il biancospino
della sua siepe, e il campo così smorto,
in cui fiorì come un bel cielo il lino:
ciò ch'era morto e ciò ch'era risorto,
ciò che nasceva e che moriva al sole,
la selva, il prato, l'oliveta e l'orto.
Di fiori, c'era un alto girasole,
nell'orto, e qualche zinia ed astro in boccia.
Tutto era colto...
A lei con l'ali sole
corse, tra un rotto pigolio, la chioccia.
II
Salutò l'aia, il pozzo, a tutte l'ore
gemente e fresco, e la sua casa oh! tanto
e tanto amata! ma non era amore;
la cameretta, il letto a due, col Santo
che v'era in cima.
Il capo sulla sponda,
piangeva, ed ecco udiva un altro pianto.
"Oh! ella aspetta sempre che risponda
il vitellino!" Era, quel pianto, un muglio.
Un muglio sì, ma era la sua Bionda!
Scese, e facea per lei qualche cerfuglio
e qualche frasca.
Ecco un ronzio sonoro.
Era uno sciame che sciamava in luglio.
Ronzare udiva quello sciame d'oro,
e la sua mucca riudì mugliare.
Rondini udiva cinguettare in coro,
venute al nido sopra il vento e il mare.
III
Ed il domani baciò Nando e Dore
che scappò, il babbo a cui ballava il mento;
che amava, oh! quanto! ma non era amore.
Ei disse: "Gioia dentro, lume spento".
Baciò la madre, che la benedisse;
e Violetta, col suo viso attento,
tacita, grave, le pupille fisse.
IL CHIÙ
I
- Addio! - La notte, troppo grande il letto
era a Viola.
Stava dal suo canto,
con incrociate le due mani al petto;
ma non dormiva.
Non aveva pianto.
Dicea di quando in quando una preghiera.
Dormir, sognare, non volea; ché tanto...
non c'era più! Perché sognar che c'era?
non saper più, ma per un poco, appena,
ch'era partita al rosseggiar di sera?
La notte in cielo risplendea serena:
tra cielo e terra un murmure, uno spesso
palpito, l'onda d'un'assidua lena.
E Violetta si chiedea sommesso
dov'era quella che non c'era più.
Col dolce verso sempre mai lo stesso
le rispondeva di lontano il chiù.
II
Splendea lassù la gran luce di Sirio.
Recava odor di fiori pésti il vento.
- Ell'era andata a chi sa qual martirio!
Ora, dov'era? A lume acceso o spento?
Buon che le mise al collo, nell'aspetto,
quella sua croce piccola d'argento!
Ella doveva ora vegliar nel letto
sola con lui! senza sperare aiuto! -
Viola i panni si stringea sul petto.
- Che cosa avrebbe egli da lei voluto?
Qual piaga dare tenera e mortale
a quelle carni bianche, di velluto?
Qual pianto fa di quel ch'è ora, e quale
rimpianto mai di quel ch'un giorno fu!...
-
Col mesto verso eternamente uguale
le rispondeva di lontano il chiù.
III
Quando cantò la prima capinera
nel puro cielo d'ambra e di viola,
dormiva, sciolta la gran chioma nera.
Dormiva forte, stretta alle lenzuola;
e se sognò, non ricordò, che cosa.
Si levò tardi.
E come te, Viola,
anche i tuoi vecchi.
E tu più tardi, o Rosa.
LE DUE AQUILE
I
La rupe è là con altre rupi intorno,
alta, nell'immobilità del gelo.
Talor vi ruota all'apparir del giorno
una grande ombra che vien giù dal cielo.
II
La rupe un giorno par che muova, il ghiaccio
sembra che crocchi e crepiti, fin ch'esce
tristo un fil d'acqua da un sottil crepaccio.
Al sordo e cupo fremere si mesce
ora un bisbiglio ed un gorgoglio lene.
Con l'ali aperte scende l'ombra, cresce
all'improvviso, e grande sta.
- Che avviene? -
III
E l'uccellaccio posa sopra il ciglio
dell'alta rupe; e sente che s'abbassa
la rupe sotto l'uno e l'altro artiglio.
Tacito va, tacito viene, passa
con le grandi ali.
Tronchi d'agrifoglio
e d'oleastro porta getta ammassa.
Ora il bisbiglio e il fievole gorgoglio
si fa rumore, giù di balza in balza,
divien fracasso, giù da scoglio a scoglio...
Tutta s'apre la fulva aquila, s'alza...
IV
S'alza a vedere; tra le nubi e i venti
s'adagia in cielo.
Nelle valli brune
vede gettarsi i botri ed i torrenti.
Vanno con un feroce urlo comune,
chi qua chi là.
Scendono ciechi al piano,
portano massi, travi, alberi, cune.
Hanno la cupa voce d'uragano
e di valanga; ed il fragor con loro
rapido va, ma non è mai lontano.
Fuor dalle nubi, risplendente d'oro,
l'aquila ruota, remeggiando lenta,
sopra il terrestre vortice sonoro.
E s'alza ancora ed alto un grido avventa,
atroce, per le vane plaghe sole.
Tre volte grida, e sta tre volte intenta
all'eco forse che ne mandi il sole.
V
Amore! amore! amore! Ecco apparita
sopra le nubi, immobile su l'ale,
tremando in cuor lo squillo della vita,
tremando in cuore il palpito immortale
della sua vita, l'altra aquila.
S'alza
lenta, e ricorda a man a man che sale.
Ricorda tutto, e presso lui già sbalza,
e insieme precipitano al profondo,
prèdansi a furia; l'anno e l'ora incalza:
vuole due grandi aquile nuove il mondo!
VI
Amore! amore! Or egli tra lo scroscio
delle cascate s'inabissa a piombo,
artiglia il daino, lacera il camoscio;
e brani rossi porta, e sul rimbombo
delle valanghe suona aspro il suo grido
di sangue e morte, che poi frena: il rombo
solo dell'ale ode il solingo nido.
VII
Amore! Ed ella cova.
Il capo eretto
e gli occhi fissi, lunghi giorni e notti.
Col rostro adunco ora si spiuma il petto,
sprimaccia il covo.
Sente gli aquilotti...
LA PIADA
I
Il vento come un mostro ebbro mugliare
udii notturno.
Errava non veduto
tra i monti, e poi s'urtava al casolare
piccolo, ed in un lungo ululo acuto
fuggiva ai boschi, e poi tornava ancora
più ebbro, con suoi gridi aspri di muto.
L'udii tutta la notte, ed all'aurora,
non più.
Dormii.
Sognai, su la mattina,
che la pace scendeva a chi lavora.
Or vedo: scende.
Scende: era divina
l'anima.
Il cielo tutto a terra cade
col bianco polverìo d'una rovina.
Non un'orma.
Vanite anche le strade.
La terra è tutto un solo mare a onde
bianche, di porche ov'erano le biade.
Resta il mio casolare unico, donde
esploro in vano.
Non c'è più nessuno.
E solo a me che chiamo, ecco risponde
il pigolio d'un passero digiuno.
II
Sul liscio faggio danzi corra voli,
Maria, lo staccio! Siamo soli al mondo:
facciamo il pane che si fa da soli!
Voli lo staccio e treppichi giocondo,
vaporando il suo bianco alito fino,
che si depone sul tuo capo biondo.
O lieve staccio, io t'amo.
Il tuo destino
somiglia al mio: tener la crusca; il fiore,
spargerlo puro per il tuo cammino.
E fai codesto con un tuo rumore
lieto, in cadenza: semplice, ma bello
per l'orecchio del pio lavoratore.
Ma triste, sotto mezzodì, per quello
del viandante, che rasenta i triti
limitari del lungo paesello:
ch'ode un danzar segreto, ode tra i diti
di donna sola, in ogni casa, andare
te, casalingo cembalo, che inviti
lo sciame errante al tacito alveare.
III
Taci, querulo passero: t'invito.
Sempre diventa il tuo gridìo più fioco:
taci: or ora imbandisco il mio convito.
Il poco è molto a chi non ha che il poco:
io sull'aròla pongo, oltre i sarmenti,
i gambi del granturco, abili al fuoco.
Io li riposi già per ciò.
Ma lenti
sono alla fiamma: e i canapugli spargo
che la maciulla gramolò tra i denti.
Nulla gettai di quello che non largo
mi rese il campo: la mia man raccoglie
anche i fuscelli per il mio letargo.
Serbo per il mio verno anche le foglie
aride.
Del granturco, ecco via via
mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.
Ciò che secca e che cade e che s'oblia,
io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore
si stacca triste e che poi fa che sia
morbido il sonno, il giorno che si muore.
IV
Il mio povero mucchio arde e già brilla:
pian piano appoggio sopra due mattoni
il nero testo di porosa argilla.
Maria, nel fiore infondi l'acqua e poni
il sale; dono di te, Dio; ma pensa!
l'uomo mi vende ciò che tu ci doni.
Tu n'empi i mari, e l'uomo lo dispensa
nella bilancia tremula: le lande
tu ne condisci, e manca sulla mensa.
Ma tu, Maria, con le tue mani blande
domi la pasta e poi l'allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglio, e grande
come la luna; e sulle aperte mani
tu me l'arrechi, e me l'adagi molle
sul testo caldo, e quindi t'allontani.
Io, la giro, e le attizzo con le molle
il fuoco sotto, fin che stride invasa
dal calor mite, e si rigonfia in bolle:
e l'odore del pane empie la casa.
V
Chi picchia all'uscio? Tu forse, Aasvero,
che ancor cammini per la terra vana,
arida foglia per un cimitero?
Chi picchia all'uscio?...
E fioca una campana
suona...
Chi suona? Forse un vecchio prete,
restato a guardia della tomba umana?
È solo; e ancora a mezzodì ripete
l'Angelus, ed a rincasare invita,
morti, voi, che sotterra ora mietete.
Socchiudo l'uscio.
- Antica ombra smarrita,
che in cerca erri del corpo; ultima foglia,
che stridi ancora dove fu la vita;
qual vento t'ha portato alla mia soglia,
vecchio ramingo, ultima foglia morta
d'albero immenso che non più germoglia?
Ma tu sei vivo: hai fame! E qui ti porta
necessità.
Sei vivo: soffri! Vivo
sei: piangi! Ed ecco, dunque, apro la porta:
entra, fratello; ché ancor io...
sì, vivo.
-
VI
Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco
l'azimo antico degli eroi, che cupi
sedeano all'ombra della nave in secco
(si levarono grandi sulle rupi
l'aquile; e nella macchia era tra i rovi
un inquieto guaiolar di lupi...):
il pane della povertà, che trovi
tu, reduce aratore, esca veloce,
che sol s'intrise all'apparir dei bovi:
il pane dell'umanità, che cuoce
in mezzo a tutti, sopra l'ara, e intorno
poi si partisce in forma della croce:
il pane della libertà, che il forno
sdegna venale; cui partisci, o padre,
tu, nelle più soavi ore del giorno:
ognuno in cerchio mangia le sue quadre;
più, i più grandi, e assai forse nessuno;
o forse n'ebbe più che assai la madre,
cui n'avanza da darne un po' per uno.
VII
Azimo santo e povero dei mesti
agricoltori, il pane del passaggio
tu sei, che s'accompagna all'erbe agresti;
il pane, che, verrà tempo e nel raggio
del cielo, sulla terra alma, gli umani
lavoreranno nel calendimaggio.
Ché porranno quel dì su gli altipiani
le tende, e nel comune attendamento
l'arte ognun ciberà delle sue mani.
Ecco il gran fuoco, che s'accende al vento
di primavera.
Ma in disparte, gravi,
sulla palma le bianche onde del mento,
parlano i vecchi di non so che schiavi
d'altri e di sé: ma sembrano parole
sepolte, dei lontani avi degli avi.
Guardano poi la prole della prole
seder concorde, e, con le donne loro
e i loro figli, in terra sotto il sole,
frangere in pace il pane del lavoro.
GLI EMIGRANTI NELLA LUNA
CANTO PRIMO
I
Mancava ormai la legna e l'acquavite.
Non venne il sonno e ritornò la fame.
Disse un brodiag ai contadini: "Udite?"
Si lisciava la gran barba di rame
senza parlare, e si togliea tra il pelo
le foglie secche e qualche fil di strame.
Quelli aprivano gli occhi color cielo,
zuppi di sogno.
"Il vento!" disse: "il vento
del nord! Quest'anno tarderà lo sgelo!"
E l'isba scricchiolò con un lamento
lungo ad un urto.
Alzò le spalle un vecchio
senza levare dalle palme il mento.
Gli altri alla romba porsero l'orecchio.
"Hai pane, tu," ghignò il brodiag "tu, fieno!
legna nel canto! latte anche nel secchio!"
"Che farci?" disse il vecchio.
"Olio, non meno!..."
Il lume un po' guizzò palpitò sfrisse,
si spense.
Il vecchio disse: "Olio, nemmeno".
Che farci! Serrò gli occhi.
Altro non disse.
Ecco e s'empiva l'abituro d'una
pallida nebbia.
Ché via via men fisse
vanian le stelle all'alba della luna.
II
E la luna calante batté gialla
sull'impannata.
Netta, senza brume,
stava, sul liscio mar di neve a galla.
L'immensa taiga biancheggiava al lume.
Qualche betulla nuda, qualche cono
d'abete, e solchi d'ombra d'un gran fiume.
E si levò tra quelle genti un suono
dolce di voce: "Il giovine straniero
giunto tra noi, che parla a noi, ch'è buono...
egli sa tutto; vede anche il pensiero
chiuso nei cuori...
egli leggeva un giorno
un libro, il libro che ci dice il vero...
La Luna, dice, è un'altra Terra, attorno
a questa Terra.
E ci si va.
C'è gente
che v'andò, che ne parla, ora, al ritorno..."
La giovinetta voce piovea lente
le sue parole.
Balenava un raggio
or qua or là da due pupille attente.
E il contadino e il boscaiol selvaggio
e donne e bimbi nella solitaria
capanna, udian la storia del passaggio
a quella luna, per il mar dell'aria.
III
Scrollò la testa, il vecchio, e disse: "Fole!
L'uomo non vola, o garrula ghiandaia,
come gli uccelli e come le parole!
L'acqua ci può.
Sul fiume va l'alzaia,
non già per aria.
L'aria è aria; nulla.
Ma l'acqua è cosa, quando pur traspaia.
Fole da dire sotto una betulla,
d'estate, a sera..." Ed ella disse: "Allora
le nuvole?..." E il brodiag: "Ecco, fanciulla!
Terra e lombrichi vede chi lavora
le terra.
C'è nel mondo altro, che il grano!
Il sole cade; e l'uomo fa l'aurora!
Uno bisbiglia; e l'ode uno lontano
le mille miglia! I carri vanno a torma,
da sé, con un fragore d'uragano!
E c'è chi vola senza lasciar l'orma.
Sì! Sì...
come la nuvola che batte
nella luna, e si ragna e si deforma..."
Le sue parole in un chiaror di latte
passavano, nel loro alitar su.
Come nuvole presto fatte e sfatte
le rimirava l'umile tribù.
CANTO SECONDO
Com'è la luna
Scórsero i giorni, anche le notti; e il vento
soffiò più forte, e si levò la luna
più tardi, e il fuoco morto e il lume spento
s'era più presto: un'altra notte, e una
pallida nebbia errò su padri e figli
non sazi.
Ma la madre era digiuna.
Destò la luna i languidi sbadigli
degli altri: a lei si rifletté su gli occhi
umidi e lustri sotto i curvi cigli.
Si scaldavano un poco ora i marmocchi
a lei.
L'ultimo, in terra, il capo ciondo-
loni via via le urtava ai due ginocchi.
Ella parlò: "Se fosse qui quel biondo
grande...
Ma egli prese la bisaccia
vuota; e chi sa, dov'ora è mai, del mondo?
Io gli avrei detto: Non è lei che ghiaccia
i fossi e i fiumi? Non è lei che imbeve
del suo biancore i lunghi teli e l'accia?
Non fa la brina e il gelo essa? Ci deve
far così freddo! tra le stelle sole,
liscie, lustranti! Quel biancore è neve..."
"No, mamma," disse la fanciulla: "è il Sole!"
II
E la tribù guardò nel cielo.
Quella?
Dunque piena di sole essa trascorre,
di notte, come una più grande stella?
Una piccola Terra, or sulla torre,
or sull'abete...
Ma quell'ombre? Monti,
quelle ombre, rupi valli greppi forre...
rughe: le rughe delle vecchie fronti.
Ma ella, dunque, è vecchia calva ossuta,
senza verde di frondi, acqua di fonti?
E la fanciulla disse: "Io l'ho veduta.
In un suo libro.
Egli sapea contare
i monti e i mari.
Io l'ascoltava muta.
C'è il Mare di Serenità.
C'è il Mare
di Nubi.
Anche, di Pioggie e di Tempeste.
Un altro Mare senza l'acque amare.
C'è la Palude delle Nebbie meste.
C'è anche un Seno, a goccia a goccia pieno
di guazza dalla grande alba celeste.
E c'è il Lago dei Sogni.
Anche c'è il Seno
delle Iridi: tanti alti archi di porte
nel cielo: un infinito arcobaleno.
Vicino ai Sogni, il Lago della Morte".
III
Anche la morte? e dunque anche i viventi?
"No! no! nessuno.
Chi v'andò, discese.
In terra avea del bene e le sue genti".
Dunque nessuno...
O tacito paese
sopra le nubi, o isola del cielo,
che fiorisci e sfiorisci d'ogni mese!
Il sole ha fatto colassù lo sgelo!
Gli stagni son coperti ora dei gigli
d'acqua, a fior d'acqua sopra il lungo stelo.
Si sommergono gli alberi vermigli
dentro la cilestrina acqua dei laghi.
L'aria è fiorita dall'odor dei tigli.
E rossi e gialli spuntano tra gli aghi
d'abeti e pini, che nessun calpesta,
fiori, bocche di lupi, occhi di draghi...
Al dolce vento trema la foresta.
Dalla foresta vengono col vento
lontane voci di campane a festa...
Vi s'ode ancora un palpito più lento,
un tuffo molle a quando a quando, un va
e vieni: ondeggiamento sonnolento,
lassù, nel Mare di Serenità.
CANTO TERZO
In sogno
Scórsero i giorni; ancor le notti, a una
a una, sempre più stellate e scure;
e più tarda e più vana era la luna.
Ma quelli in sogno ecco prendean la scure
avanti l'alba.
Erano, chi tra un denso
nebbione, chi su ventilate alture.
Chi s'arrestava avanti un mare immenso,
chi camminava, lungo un colonnato
d'enormi pini, tra l'odor d'incenso.
E non vedeva che a sé stesso il fiato
cerulo, ognuno, e s'ascoltava il gemito
arido, nel silenzio inabitato.
A pini e cerri i pionieri estremi
davan la scure per la lor capanna
e i nuovi aratri, e per la nave e i remi.
Quella, in un poggio, il tetto avea di canna
fiorita ancora.
Questa, umida ancora,
nereggiava sotto alte iridi, in panna.
Ma tristi gli emigranti erano! Allora
uno di tronchi costruì l'altare.
E saliva un soave inno, all'aurora,
dallo scosceso Caucaso lunare.
II
Due, la fanciulla e il giovane che amava,
ecco non più si videro.
Interrotte
n'erano l'orme a un tondo orlo di lava.
Vicino al Lago, essi, dei Sogni, in grotte
azzurre, orlate d'ellera e vilucchio,
vivean felici.
V'era anche la notte,
presso quel Lago! Era lor letto un mucchio
d'alghe e di felci; e li addormiva il vago
sogno dell'acque e il fievole risucchio.
Presso il Lago dei Sogni, c'era il Lago
dei Morti; e niuno ardìa venirci.
Alfine
erano soli.
Il loro cuor fu pago.
E i morti? Ebbene, anime pellegrine
anch'esse, anch'esse giunte là dal lido
terrestre, buone e tacite vicine...
non s'udiva che un loro esile strido
di notte, come già sotto le gronde
a notte buia il pigolìo d'un nido:
lo strido, ch'uno chiama uno risponde,
allor che spunta dalle cime, ed erra
nel cielo azzurro, e tremola sull'onde
azzurre, come un grande astro, la Terra.
III
Tutti felici! V'era solo Dio
lassù.
Poneano nel lor campo un sasso,
poneano un segno al lor canotto: È mio!
Ma non premeva le lor vie, che il passo
di miti renne.
Il lor tranquillo mare
solo sentiva remigar lo svasso.
Le donne al Mare senza l'acque amare
soleano andare all'acqua; ma lontano
gli uomini in pace le sentian cantare.
La vecchia fame li rodea...
ma il grano
c'era, ma gialle non avea le reste;
ma già prendeano le falciole in mano.
Il vecchio freddo li pungea...
la veste
c'era: in dosso alle renne era tuttora.
La legna c'era, ma nelle foreste.
E non c'è dì senz'alba, e l'alba è l'ora
più bella; e senza fiore non c'è frutto,
e il fiore è bello, il fiore è il più che odora.
Ed è bello ogni boccio, anche s'è brutto...
Sì; ma il lor mondo, più vicino al dì,
era una falce, un'unghia, un filo...
e tutto
in una luminosa alba vanì.
CANTO QUARTO
Ritorno in sogno
Ed il lor sogno anche vanì dai cuori.
E si sparsero intorno, come i cani
dopo una morte: vagolano fuori,
fiutano cento miglia oggi, domani
piangono all'uscio.
Quella madre a Dio
tendeva, sola, dentro sé, le mani.
Ma c'era, ahimè! tanto piagnucolìo
di madri, al mondo! che potean soltanto
dire, d'un po' di carne viva: È mio!
Il cielo alfine si velò, poi franto
giù si versò.
L'acqua s'udia cadere
col suono ora d'un canto, ora d'un pianto.
Non c'erano nel mondo albe né sere.
C'era un silenzio fatto di frastuono
nei giorni oscuri, nelle notti nere.
Ed ecco che rimbombò lungo un tuono
allegro, apparve in fondo al cielo un fioco
raggio di sole, un suo sorriso buono.
E su la terra non restò per poco
che un luminoso sgocciolìo sonoro;
e poi, tra i cirri e i cumoli di fuoco,
un filo, un'unghia, era una falce d'oro!
II
Scórsero i giorni; ella cresceva: ed ecco
l'un dopo l'altro scesero a trovare
la lor capanna e la lor nave in secco.
L'erba cresceva sopra il limitare.
Lungo il lido la nave intarmoliva.
Là sui monti funghito era l'altare.
Chi stava in monte, ora scendeva in riva
del mare.
Chi vivea presso lo stagno,
ora cercava una sorgente viva.
E ciascuno s'urtava al suo compagno.
Taciti, prima; e quindi alcuno disse:
"Va, mosca!" e l'altro ribatté: "Va, ragno!"
Al Mare Dolce s'accendean le risse
stridule, acute.
V'accorrean dai monti,
l'ascie nei tronchi abbandonando infisse,
gli uomini, calmi e gravi in viso, e pronti,
nel cuore, a tutto.
Uno dicea sereno
il viso: "O donna, mancheranno fonti!
Prendi l'orciuolo e va per acqua al Seno
della Rugiada!" Era sparita intanto
la luna; e folgorava egli un baleno
d'odio a colui che gli tremava accanto.
III
E malcontenti erravano già tutti
lassù, notturni, nell'odor del sole
che apriva i fiori e maturava i frutti.
E questi invece si mettea per gole
nere di monti, e quegli ambiva rade,
nei grandi mari, inesplorate e sole.
E quegli, andando per anguste strade,
vedeva un altro, di rincontro, al varco.
Si vedeano con truci occhi di spade...
E questi cauto s'allestìa lo sbarco
tra giunchi e biodi, quando, ecco un burchiello
venir, piccolo e nero, sotto un arco
d'iride...
Ognuno fuggì via dal bello
e scese tra le nebbie, alla Palude.
Ma vi trovava l'ombra del fratello.
E da per tutto s'incontrava, rude,
in quella donna con la sua sommessa
voce, con quelle creature ignude.
In poco tempo il lor dolore messa
avea la sua radice anche su lì;
e quella Terra era già vecchia anch'essa:
soffriva ognuno ciò che già soffrì.
CANTO QUINTO
L'altra faccia lunare
Crescea la luna.
Ognuno già per ogni
plaga passava come a lui straniera.
Ognuno al Lago ora pensò, dei Sogni.
Forse la morte non temean, tant'era
la lor tristezza.
E il Lago era pur bello
con le bianche ninfee di primavera!
Ivi abbracciato al dolce oblìo gemello
era il ricordo.
Ivi cantava un nido,
da sé, partito ch'era già l'uccello.
Cantava il cuore, ora, da sé, col grido
d'allora, a notte! E ve l'udian cantare
i soli morti assisi lungo il lido.
Ed era il Lago ora nel lume, e chiare
fiorian le schiume.
Ecco, una luce scialba
si diffondea nel Caucaso lunare.
E dalle grotte orlate di vitalba
videro, i due, rifulgere le accette
lassù, nel monte, tra il chiaror dell'alba.
S'udiva per le valli e per le strette
l'arido scroscio delle foglie morte...
I lor compagni erano sulle vette,
volti ai Laghi dei Sogni e della Morte!
II
E si levò tra quelle genti un suono
dolce di voce.
Usciva allor da un velo
rado la luna pendula, dal cono
d'un abete.
Una nebbia, un ragnatelo
di luce scialba tremolò su crani
lustri, su cenci e bioccoli di pelo;
e rifulsero allora occhi lontani,
zuppi di sogno, e bocche aperte a un alto
ululo.
Il pugno si stringean le mani.
Videro tutti là, di soprassalto,
quella fanciulla, con le braccia in croce,
bianca sul liscio lago di cobalto.
Ella parlava timida e veloce.
Quello che ammansa, quello che consola,
pioveva dalla giovinetta voce.
"Io l'ho veduta.
Corre sempre, vola,
passa.
Ma mentre va, che non mai posa,
a noi non volge che una parte sola.
Vediamo, noi, nel cielo azzurro o rosa,
sempre quelle montagne, sempre quelle
paludi.
Sempre.
Ma di là? Che cosa
è mai di là, verso le grandi stelle?"
III
E la luna fu mezza.
Erano tutti
di là.
Ciascuno avea varcato un nero
cerchio di monti, un bianco orlo di flutti.
Ciascuno andava per un suo sentiero.
Movean lassù per il paese vuoto,
silenzïoso come il lor pensiero.
Movean pensosi; e cancellava il moto
l'orme sue stesse; per l'eternamente
non visto, per l'eternamente ignoto;
là, dove il tutto rifiorìa dal niente,
libero, dove s'adempìa perenne
un sogno, sogno del buon Dio dormente.
C'era anche il pane.
E c'erano le renne
placide, il latte, il fuoco: tutto! Oh! molto
pensava il vecchio: ma di là non venne.
Oh! la sua Terra! Egli torceva il volto.
Veder la Terra gli era assai; ché infine
e' non doveva ch'esservi sepolto.
Oh! pur dal fascio, ch'era, lì, di spine,
all'appressarsi dell'oscurità,
veder la Terra rosseggiar sul crine
delle montagne e dileguar di là!
CANTO SESTO
In cerca della guida
Più che mezza la luna era, e più ore
restava su, tra l'iridato alone,
e le notti imbevea del suo pallore.
E sonava il fragor d'un acquazzone,
sempre: era il fiume che la terra brulla
fendea, cantando la sua gran canzone.
Rimpennava ogni tiglio, ogni betulla.
Era la primavera, era lo sgelo.
E, una sera, uno esclamò: "Fanciulla!
Dov'è colui che sa le vie del cielo?
La luna è là.
Le cose ormai son fatte".
Ciascuno attese.
Anche quel vecchio, anelo...
"Oh! no! Restiamo! O madre che si batte
perché ci nutra! O madre che si lascia
se non dà pane, dopo dato il latte!"
"Dov'è?" chiedeva con segreta ambascia
la trista madre.
Che darebbe or ella
ai bimbi, a cena? il ferro, ormai, dell'ascia?
"Dov'è?" Splendeva una solinga stella
presso la luna, per il gran deserto
del cielo.
"Dove?" "Sì, dov'è, sorella?"
"Dov'è? Cerchiamo.
In qualche luogo è certo".
II
Si sparsero dall'alba di quel giorno,
come da quercia morta aride foglie
a una ventata che le sparge intorno.
Stavano, come indifferenti, a soglie
di vecchie case, ad ascoltar lì, gronchi,
l'uomo gridare e sfaccendar la moglie.
Battean le selve; il frullo dei bofonchi
parea parole: erano péste i picchi
dei picchi verdi sui marciti tronchi.
Sedean sopra le pietre nei crocicchi,
guardando i carri; con pupille fisse
seguendo al passo i contadini e i ricchi.
Non c'era più! Non c'era più! Ma disse
alcuno: "Forse...
se per suo costume
quello straniero sol a notte uscisse?"
E per le lande errarono nel lume
di luna, tutti, per le selve rare,
lunghesso il verde scintillìo del fiume.
Videro alcuni un uomo in mezzo a un mare
di luce, nero, e diedero la voce...
Ed era il vecchio che volea restare;
sopra un sepolcro, a' piedi d'una croce.
III
E scórse un giorno.
E spuntò, grande grande,
la luna piena, e per il ciel si mosse.
Risplendean l'acque, risplendean le lande.
Come di giorno.
Un giorno senza rosse
luci, né voci; il giorno d'un riverso
silenzïoso, che nessun più fosse.
Per vero, intorno, qualche cane sperso
urlava a lupo.
Al colmo era la luna,
sola soletta in mezzo all'universo.
E nella terra errava quella bruna
compagnia d'ombre.
Elle tendean le braccia.
Avean lassù tutta la lor fortuna!
E case e terre! E persa avean la traccia
della lor guida! E videro uno spetro,
lontano, col bastone e la bisaccia.
Corsero.
Corse, coi marmocchi dietro,
la madre.
E come furono di paro...
era il brodiag.
Egli si fermò, tetro.
La grande barba risplendeva al chiaro
di luna...
"Guida, esso non c'è, sii tu!
La luna è pronta..." Oh! come rise amaro!
Rideva; e i cani urlavano vie più.
I DUE ALBERI
I
Vento dei Santi, il giorno si raccoglie
già per morire; e tu su' due gemelli
alberi soffi, e stacchi lor le foglie.
Ora le tocchi appena, ora le svelli:
quali cadono a una a una, quali
partono a branchi, come vol d'uccelli.
Tutta una fuga, quando tu li assali,
si fa nel cielo, e in terra, fra le zolle,
un fruscìo grande, un vano tremor d'ali:
stridono e vanno, girano in un folle
vortice, frullano inquïete attorno,
calano con un abbandono molle.
A volte sembra muovano al ritorno,
a sbalzi...
Ma, tu le riprendi, e porti
con te, via.
Tutte son cadute e il giorno
è morto: tu lo sai, vento dei Morti!
II
Viene col vento un canto di preghiera
e di tristezza, e vanno via le foglie
con lui, stridendo in mezzo alla bufera:
"Noi di noi siamo le fugaci spoglie:
la nostra vita è sempre là dov'era.
Il vento in vano all'albero ci toglie:
là rinverzicheremo a primavera".
Col vento via le vane foglie vanno;
gemono, mentre intorno si fa sera.
"Non torneremo al rifiorir dell'anno:
noi ce n'andiamo avvolte nell'oblìo.
Non fu la vita che un fugace inganno.
L'albero è morto.
Addio per sempre! Addio!"
È morto il giorno, ed anche muor la sera,
ed anche muore il canto tristo e pio.
E il cielo splende su la terra nera.
III
Il vento trova la sua strada ingombra
di foglie e stelle.
Gli alberi, sparito
e l'uno e l'altro.
Io vedo una grande ombra.
Ne vedo un solo.
All'animo lo addito,
l'albero solo.
Spunta da un velame
di nebbia eterna, ed empie l'Infinito.
Protende le invisibili sue rame
cui sono appesi d'ogni parte i mondi.
Si crolla ad un grande alito il fogliame;
e d'un perenne tremolìo le frondi
lustrano ardenti.
Alcuna cade e brilla
giù per gli abissi ceruli, profondi.
Io, sotto la corona, che sfavilla,
dell'Universo, odo, smarrito assòrto,
uno stridìo.
Forse una foglia oscilla
ancora a un ramo dell'albero morto.
LA VENDEMMIA
CANTO PRIMO
- Una vendemmia fa, così, piacere!
Nemmeno un chicco marcio nella pigna.
- E tutte pigne, salde fisse nere.
- Uva d'alberi, e pare uva di vigna.
- Ma qui ci son d'agosto le cicale
da levar gli occhi! qui la vite alligna!
- Porta il bigoncio.
- È pieno.
- Avessi l'ale!
Avessi l'ale d'una rondinella!
Il nido lo farei nel tuo guanciale.
- Guarda: la vespa vuole la più bella.
- L'ape fa il miele, eppur le basta un fiore,
fior di trifoglio, fior di lupinella.
- Ha fatto buono all'uva lo stridore
di tutta estate.
- Ciò che fa per l'una,
non fa per l'altro.
- Ora, contava l'ore.
"Qua le canestre, donne".
- O bella bruna!
Quando nascesti, in cielo una campana
sonava sola, al lume della luna.
- Questa la stenderete sull'altana:
è troppo bella per andar nel tino.
- Ma anche quello è come vin di grana!
- Non ci fu pioggie, non ci fu lo strino.
- Portate bere.
Molto all'uva aggrada
sentirsi in viso l'alito del vino.
- Pigia il bigoncio un po'.
- "Sono in istrada,
E che mi dài, che mi conviene andare?"
"Un bacio in bocca, perché tu non vada".
- La paradisa ha pigne lunghe e chiare,
e tutti d'oro sono i chicchi, e hanno
il sole dentro, il sole che traspare.
- Rigo, di tutte queste qui, si fanno
cipelle, acché, tu con la moglie accanto,
ne mangi all'alba, il primo dì dell'anno.
L'uva vuol dire il buono, il bello, il tanto.
E porta bene, o Rigo.
- Ho contro, io sento,
fin le finestre, e quando passo e canto,
si chiudono da loro senza vento.
II
Così staccavi la dolce uva, alfine,
co' tuoi vicini, ché i vicini sono
mezzo parenti, e con le tue vicine,
o Rigo.
Il tempo era da un pezzo al buono,
e la vendemmia si cocea matura
anche a bacìo; quando sentisti un tuono.
Dicesti: il bello è bello, ma non dura.
E vendemmiasti.
Ed era un giorno asciutto,
si scivolava per la grande asprura,
cupo di vespe era un ronzìo per tutto,
calda era l'uva e, nei bigonci ancora,
rendeva già l'odor del mosto e il flutto.
La gente era venuta sull'aurora
quando la guazza o la nebbietta inerte
vapora in cielo, e il cielo si colora.
Allor le donne ascesero per l'erte,
parlando basso, e recideano a prova
le pigne con le piccole ugne esperte.
Le recideano al nodo che si trova
a mezzo il gambo.
Le galline intorno
bandian l'annunzio, ad or ad or, dell'ova.
Ma crebbe il vario favellìo col giorno.
Montava, per tagliare le pinzane,
un giovinetto sul pioppo e sull'orno.
Cantava poi, quand'erano lontane
le donne, quando in una sua cestella
portava il vino Violetta e il pane.
Ell'era in casa della sua sorella
da un mese e più; ma stava per tornare
a casa sua, più pallida e più bella.
"C'è tempo:" Rigo alla gentil comare
diceva "addietro è là da voi la vite.
Poi verrò io: non c'è di mezzo il mare".
Era un piacere rivederle unite
le due sorelle al solito lavoro!
Ma quelle sere, nell'ottobre mite,
anche si dava che piangean tra loro.
III
Erano quella sera alla finestra.
Salìano gli uni coi bigonci pieni,
l'altre scendean con vuota la canestra.
Parlavano nel lungo va e vieni,
alto, ché in loro anche parlava il vino.
"Si vuol finire, prima che si ceni".
"Non resta che il filare qui vicino.
Saranno due bigonci o tre; ma un poco,
perché li tenga, vuol pigiato il tino".
Il cielo già si colorava in fuoco.
Al colmo tino il giovinetto snello
si lanciò su, come a provar per gioco.
Stette sull'orlo un poco in piedi, bello,
raggiante tutto del suo bel domani,
a braccia spante, simile a un uccello.
Poi si chinò, s'apprese con le mani
all'orlo, e dentro, fra le pigne frante
tuffò le gambe e sul crosciar dei grani.
Il rosso mosto risalì spumante
sopra i garretti; ed ei girava a tondo
premendo coi calcagni e con le piante.
E il sole rosso illuminava il biondo
vendemmiatore; ed ecco, da un remoto
canto del cielo un tintinnìo giocondo.
Uno, dal cielo, accompagnava il moto
dei piedi suoi, di su quei rosei fiocchi,
picchiando in furia sur un bronzo vuoto...
L'altro moveva rapidi i ginocchi
sul rosso mosto, anche movea la testa
ben in cadenza, il sole in mezzo agli occhi.
Ma era un suono di campane a festa.
E quei pigiava; quando, all'improvviso,
Rosa lassù, Rosa, già muta e mesta,
si levò su, molle di pianto il viso,
con un singhiozzo, e Violetta, china
a guardar fuori immersa in un sorriso
si volse bianca, e mormorò: Rosina!
CANTO SECONDO
I
"Rosina! L'hai promesso anche stamane...
Non pianger più!" Ma Rosa pianse ancora,
tra il suono a festa delle due campane.
"O Violetta, mi pareva or ora
fosse la gloria per un angiolino...
oh! come quando...
Fu dopo l'aurora.
Sentii parlare ed un odor vicino.
Avean qualche garofano e viola:
una ghirlanda per il mio bambino.
E c'era il prete, il prete con la stola.
- Ma tutto ha qui! le robe sue ben fatte,
la sua cunella con le sue lenzuola,
e un petto ancora pieno del suo latte!
II
Non vuol venire.
È tristo, che fa pena.
Oh! come è tristo! In vero è così poco
che ride un poco! Ci ha imparato appena! -
Ricordo un giorno lo sfasciavo, al fuoco,
e lo guardavo.
Ei tese il dito a un occhio.
Lo vide lustro, gli pareva un gioco,
chi sa? vedeva un altro bel rabocchio
lì dentro.
E io me lo tenea lontano,
lo patullavo in alto d'in ginocchio,
gli prendea la manina nella mano,
e la scoteva, gli facea le rise;
ed ecco, anch'egli si provò pian piano,
fece bel bello le fossette, e rise.
III
Rise.
M'avea riconosciuta: ero io:
la mamma, ahimè!...
Prima, diceva al seno,
con gli occhi e con le due manine, È mio!
Dopo, ero sua, tutta, né più né meno.
E, se vagiva e se piangeva, al suono
della mia voce si facea sereno.
Com'era savio! Come savio e buono!
A volte, quando era a dormir di giorno,
entravo, udito un grido, un tonfo, un tuono...
S'è desto? Nulla.
Qualche mosca intorno
ai vetri...
Alzavo il velo della culla.
Sul guancialino coi belli orli a giorno,
ridea tra sé, guardando in alto, a nulla.
IV
Oh! non a nulla! Egli rideva, io penso,
con gli angioletti.
Io ci sentii l'odore
di gigli, a volte; o un vago odor d'incenso.
Nella sua stanza essi venian nell'ore
calde che i bimbi dormono.
Alla gola
uno lo vellicava con un fiore;
e tutti attorno alla cunella sola
facean i giochi, ed e' guardava attento,
come lassù si canta e suona e vola:
scoteano i loro cembali d'argento,
battean sui loro tamburelli vani...
Entravo, e via sparivano col vento:
rideva esso, annaspando con le mani.
V
Ma poi...
piangeva.
Mi si fece bianco
e stento, e quando lo attaccavo al petto,
succhiava un poco e poi pareva stanco.
Non mi voleva.
E quasi avea dispetto
della sua mamma.
Quante n'ho cantate,
di ninnenanne, senza toccar letto!
Me lo ninnavo in collo le nottate
intere al fresco, uscendo con lui fuori
al lucciolìo dell'odorosa estate.
Pensavo ai mesi ch'ebbi in me due cuori...
Come piangeva or l'uno e l'altro, accanto!
E tra quella allegria di grilli mori
come passava triste ora quel pianto!
VI
- Ma che vuoi dunque? Andar con loro? E ch'io
ti lasci andare? A me tu lo domandi?
Per me t'ho fatto! - Eppure un giorno, addio!
- Hai pianto e pianto a ciò che ti rimandi
donde sei sceso.
Ora ti lascio alfine! -
Restò con gli occhi aperti fissi grandi.
Gli misi la cuffietta con le trine;
la sua camicia, la sua vesticciola,
gli misi i fiori nelle sue manine.
L'accomodavo senza far parola,
quando d'un tratto udii parlar da basso.
Gli misi le scarpine con la suola
nova, pulita...
O Dio, nemmeno un passo!
VII
La terra, non l'avean toccata ancora!
oh! i miei piedini!...
I bimbi della scuola
venner coi fiori un po' dopo l'aurora.
E c'era il prete, il prete con la stola.
Era pronto il bambino, era vestito.
Quando sonò la gloria alla chiesuola...
Che scampanìo festoso ed infinito!
L'angiolo andava a gli angioli, a cui tanto
avea sorriso tacito e romito.
E va, va pure, piccolo mio santo...
Cos'è la mamma? E che può darti? Il petto
e un po' di latte; il cuore, un cuore affranto;
e poi, cos'altro? Oh! niente, angiolo eletto.
VIII
Va dunque, e tu, veglia su lei, su loro.
E cosa ha fatto ella per te? T'ha fatte
due camicine: non un gran lavoro!
Lassù quell'uomo batte batte batte
sulle campane...
Io guardo il bimbo, muto
con gli occhi aperti, gli occhi ancor di latte...
Ah! che capii, che non avea voluto,
che non voleva! Quel gran pianto, oh! era,
che non voleva, e mi chiedeva aiuto!
Nella cassina stava lì, di cera,
con le manine che facean Gesù,
con gli occhi aperti sino da ier sera:
guardava...
- O mamma, che non mi vuoi più! -
IX
Piangea più forte, ma s'alzò smarrita.
Sentiva, dentro, un rodere, un discreto
grattar all'uscio, all'uscio della vita;
ma così piano, ma così segreto,
così lontano...
Avea tre mesi appena...
Era già buio, e tutto era già cheto.
L'uva era colta, e si dovea far cena.
PIETOLE
Sacro all'Italia esule.
I
Siede, adagiato sotto la corona
d'un ampio faggio, il dorso ad una siepe,
il contadino.
E piena d'api i fiori,
la siepe manda un lieve suo sussurro.
Splendono intorno e fiumi e laghi al sole,
al vento glauche fremono le spighe.
Ad ora ad ora un muglio di giovenchi
cupo, e un tremulo ringhio di polledri;
e tubar rauche qua e là colombe,
e gemebonde tortori sull'olmo.
Quegli ripete aspre parole ai pioppi,
ai lunghi pioppi dondolanti in fila.
E dice:
- I am Italian
I am hungry...
-
I pioppi a lui rispondono, col canto
d'un rusignolo ch'ha sui rami ognuno,
l'un dopo l'altro; e lontanando il canto
va sino al Mincio ed al ceruleo Po.
II
Ché nell'autunno è per lasciare i campi,
il campagnolo, e dire addio per sempre
alla sua verde Pietole.
Ché fugge
la Patria; dove, e' non lo sa per ora.
Qual sia per lui, de' quattro venti, ancora
e' non lo sa; né lo sa meglio il vento,
il lieve vento ch'ora sulla palma
gli sfiora e sfoglia crepitando un libro
da portar seco nel cammino ignoto.
Ora a quel vento e' cómpita cantando
strane parole a chieder pane e fuoco,
acqua e lavoro, oltr'alpi ed oltre mare,
sotto altro sole...
- Ich bin Italiener
Ich bin hungrig...
-
A quelle voci strane
dalle verdi acque echeggiano le rane
con la querela sempre ugual, ch'eterna-
mente gracidano gracidano...
III
- Soy Italiano
Tengo hambre...
-
Ed ecco
brilla nei tardi avvolgimenti il Mincio,
cinto d'un orlo tenero di canne;
s'irida, come d'un sorriso, il lago.
Leva tra i biodi la giovenca il muso
e fiuta l'aria con le froge larghe;
né più dismette di tubar su l'olmo
la tortore e la querula colomba.
Risuona tutta la campagna intorno
d'allegri ringhi e cupi mugli lunghi.
E di lontano ora vien su crescendo
la melodia de' rusignoli in coro,
quasi canoro aereo ruscello,
nel quale, piane, guazzano le rane.
Bombisce a un tratto e palpita la siepe,
e, fatto sciame, volano via l'api
come un'oscura nuvola.
Ché tu,
IV
tu sopra vieni; e ti si fanno incontro
tutte, dai florei pascoli e dai bugni,
l'api con suon d'avene e di campestri
buccine e franto strepere di trombe;
ecco e piegare al tuo passaggio i pioppi,
i lunghi pioppi, con l'ondulamento
d'opre che a tondo menino le falci;
ecco e fiottare al tuo passaggio i campi
d'orzo e di grano, come ad un fecondo
soffio, in un lustro tremolìo di reste;
e impazïenti a te muggir le stalle
chiuse; dall'aie a te squittir la forza
fida dei cani; a te, dal pingue concio,
rosso plaudir, battendo l'ale, il gallo:
perché tu vieni ai dolci campi, ai noti
fiumi, ritorni al tuo natio villaggio,
alla tua gente ed alla tua tribù,
V
VIRGILIO! O tu, cui partorì la madre
nei campi, al sole, dentro un solco aperto
dal curvo aratro per il pio frumento;
o tu, che avesti per gemello un pioppo
che si levò su tutti gli altri al cielo,
sì che ai suoi rami si stessean le nubi:
appiè del dio, chiuso nell'aureo musco,
venìan le incinte, e i loro blandi voti
s'unìan lassù col pigolìo dei nidi:
o tu cui l'arnie, di cucite scorze
o di tessuti lenti vinchi, all'ombra
dell'oleastro, persuadeano il sonno
col grave rombo, quando a te tra i fiori
era la cuna: fiori d'ulivella,
timbra e serpillo che lontano odora,
e di viole scese a bere al fonte,
al fonte che scivola molle e va;
VI
ritorni al luogo, donde già vedesti
passar cacciato dalle sue maggesi
il contadino; che annestati i peri,
piantato vigna, seminato il grano
avea per altri, e che non più, tornando
al regno suo cinto di siepe viva,
alla sua reggia dal colmigno a piote,
vedrebbe ormai, che qualche grama spiga:
passava avendo siepe e campi in cuore,
e l'abituro, e si parava innanzi
poche sue capre, e ne traeva a mano
una che addietro si volgea belando;
che avea lasciato due gemelli addietro
ah! su la ghiara: ed il pastore andava;
ed era l'ora del ritorno a casa
e della cena; e dai tuguri il fumo
salìa nella crescente oscurità.
VII
VIRGILIO, e tu, di tra i pastori uscito,
vedesti intorno lo squallor dei campi
abbandonati, e non più messi, e date
le curve falci al fonditor di spade,
e tolto il coltro all'imporrito aratro:
l'aratro nuovo tu facesti, d'olmo
piegato a forza, e l'erpice e la treggia,
ed intessesti le crinelle e i valli;
e nella nuova primavera, al primo
tiepido soffio, gli anelanti bovi
spingesti al solco, e nereggiava il suolo
al vostro tergo, e si bruniva attrito
lo scabro e roggio vomere.
La strada
così segnavi ai campagnoli ignari,
l'opere e i giorni, ed imparare, in prima,
la dura terra, ed osservar nel cielo
la luna e il sole, e il volo delle gru.
VIII
Ritorni ai campi, o già dei campi uscito,
uscito in riva all'infecondo mare;
in cui vedesti gli esuli del fato
venir col fuoco tratto fuor dal fuoco,
venire in cerca dell'antica madre.
Una indugiava, delle stelle in fuga;
una splendea tra il rosso dell'aurora.
ITALIA! ITALIA! udivi tu gridare
di su le prue, tra l'ànsito del mare.
Sul tremolante rosseggiar dell'onde,
nere venìan le navi.
E c'era a poppa
d'una un gran vecchio che libava il vino,
con gli occhi al cielo.
Ed in un verde prato
pascean, drizzando ad or ad or le orecchie,
quattro cavalli d'un candor di neve.
ITALIA! E il mare col sussurro eterno
montava su, ridiscendeva giù...
IX
O madre grande d'ogni messe, o grande
madre d'eroi! D'oro e d'incenso abbondi,
nessuna terra è più di lei ferace.
Qui piene spighe, qui rigoglio d'uve,
qui pingui ulivi, qui fecondi armenti.
Il bel cavallo qui le zampe al trotto
scambia a test'alta; qui con lenta possa
muovono i bianchi bovi trionfali.
Pascon, la guerra e la vittoria, insieme!
Qui tiepide aure e il fiore d'ogni mese.
Eppur non tigri, non leoni, o l'erba
che buona sembra a cogliere, che uccide;
né il serpe striscia in terra lungo, e s'alza
ravvolto a spire...
E quanta opera d'uomo!
Quante massiccie acropoli sui monti!
E quanti fiumi specchiano le grandi
mura di preromulee città!
X
I suoi due mari? dove il Po travolge
lo scintillìo de' ghiacciai su l'Alpi,
e dove il sacro Tevere conduce
l'acque di neri sotterranei laghi?
E i grandi laghi? così grande alcuno,
che come un mare si ribella al vento?
E i tanti porti? E nelle vene il rame
ebbe e l'argento; ebbe già l'oro: ha il ferro.
Ha questa terra una gagliarda stirpe
d'uomini, i Marsi, la genìa Sabella
aspra dal sole, i Liguri indomati
dalla fortuna.
Questa terra al mondo
diede gli eroi: gli uomini pronti al fato,
duri alla guerra, i Deci ed i Camilli...
Eppur la terra è del buon Dio di pace,
del buon fuggiasco ignoto Dio, la terra
della giustizia e della libertà!
XI
- Soy Italiano
Tengo hambre...
-
E Roma
tu la vedesti quando ancor non era.
L'acque del sacro Tevere la nave
saliva, all'ombra tremula, solcando
nel liscio specchio la boscaglia verde.
Sul mezzodì videro un colle sparso
di pochi tetti; ma quel dì la gente
cingea col re, lunghesso il fiume, un'ara,
l'ara più grande.
Ed in due cori i Salii,
giovani e vecchi, avendo al capo rami
di pioppo bianco, dissero un lor canto,
tripudïando, al domator dei mostri
e della morte, ad Ercole sereno,
al vïandante pacificatore,
armato appena d'un fortuito tronco
d'albero.
Ercole nudo, Ercole solo,
figlio del cielo, ma né dio né re.
XII
E il re pastore e il povero senato
davano incensi all'ara, un tempo e sempre
massima.
E il re del grande Pallantèo
scotean dal sonno i passeri annidati
sotto la stoppia della sua capanna.
Erano scorta, al re per via, due cani.
Pascean nel Foro e nelle vie di Roma
mandre di bovi ad or ad or mugghianti;
ed echeggiava il Campidoglio ai mugghi.
Ed era tutto una silvestre macchia
il Campidoglio, e ruderi, tra i bronchi,
grandi giacean d'una città distrutta.
Roma era morta, e ancor dovea, l'eterna,
sorgere al sole; ancor dovea d'un muro
cingere, Roma, i sette colli, il Lazio,
l'Italia, l'Alpi, i mari ed i deserti,
tutte le genti e l'orbe intiero, a sé.
XIII
Ma il contadino legge sempre al vento
le rauche carte, e lungo sé non vede
VIRGILIO, a cui fremon le messi, e i pioppi
paion falciare mollemente in aria.
Ed egli parla, non inteso all'uomo
suo paesano; l'odono le miti
giovenche intorno e i fervidi polledri.
O forse l'uomo udir non può, che sopra
ora gli ronza più che prima, d'api
tornate ai fiori, la pasciuta siepe;
e d'ogni pioppo ora risuona il canto
d'un rusignolo; il dolce e triste canto
ch'e' fa notturno, e che somiglia al pianto.
E il migratore cómpita presago
a campi e nubi le sue voci strane;
e quatte quatte nelle placide acque
strepono or qua, le vecchie rane, or là.
XIV
Dice VIRGILIO: "Oh! troppo fortunati
agricoltori, cui la madre terra
latta da sé, come una buona madre!
Giusta è la terra e non ti nega il cibo,
la madre, mai: se il grano è poco, l'uva
è tanta: è sempre di qualcosa, annata.
Poi, c'è la pace, e le gioconde feste,
e il sonnellino sotto un olmo, al canto
delle cicale, al mormorìo dell'acque.
Tu non sei ricco ed accallato hai l'uscio,
sempre, di casa, e la gallina becca
nell'atrio tuo; non hai tappeti e bronzi,
e non odora, l'aia tua, d'amomo:
ma il bimbo ricco, in casa tua, s'invoglia
di tutto, e tutto ammira, e tutto chiede,
il pane, il pomo, il latte, l'uovo; e sente
che il buono e il tutto è quello che non ha.
XV
Cerchino gli altri il pallido oro e il plauso
vertiginoso e lascino la soglia
trita dai loro, e migrino: tu resta.
Tu con l'aratro i piccoli nepoti
nutri, e la Patria, e tieni gli occhi in alto,
perché tu segui a mano a mano il sole.
Viene l'inverno, e tu godi il fruttato,
frangi le ulive e affumi quel secondo
orto ch'è il porco che mangiò la ghianda.
La notte, vegli, appunti faci, o tessi
valletti e cesti; e la tua moglie canta,
tra l'alternar dei pettini e dei licci.
Oppure schiuma, più vicina, al fuoco,
con una foglia l'onde che traboccano,
entro il paiuolo tremulo, del mosto.
O notti! O vita dolce assai, ch'ha sempre
amor la notte, come sole il dì!
XVI
E perché migri? e perché fuggi? Grande
assai non t'è questo tuo verde campo?
Non ha la siepe, che lo fa più grande
perché più tuo? Mugliano i bovi, i galli
cantano, l'api ronzano.
Qui tutto
avrei passato, io, senza gloria, il tempo!
Qui, la giustizia, che tornava al cielo,
sostò, lasciando una parola in terra:
- Non l'uno il troppo ed abbia l'altro il poco!
Pace abbia il cuor dell'uomo e non lo muova
il ricco all'astio ed il mendico al pianto! -
Va coi vicini, poi ch'è festa, e steso
con lor su l'erba, e col cratere in mezzo,
bevi giocondo...
Vissero nei campi
i forti antichi popoli; l'aratro
il solco eterno disegnò di Roma;
l'ITALIA detta dai giovenchi, è qui".
XVII
- I am Italian
I am hungry...
-
All'ombra
VIRGILIO siede, non a lui veduto;
ed in quel core egli ode la querela
del fuggitivo suo pastore antico.
"Non anche dunque al lor levante primo
vennero gli astri e ricominciò l'anno
dell'Universo? E non ne diede il segno
a cieli e terre un fievole vagito?
Non ritornò la Vergine? Non prese
dunque a regnare, luce e vita, il Sole?"
VIRGILIO pensa che il vicin suo gramo
fugge dai campi, oh! non a lui, no, dolci,
ch'egli ha solcato con servile aratro
e bovi d'altri, per il pane e il sale.
"Dunque non è ricominciato il regno
del Dio latino, di quel Dio che giusto
semina e miete? E Roma non è più?"
XVIII
O buon profeta! o anima immortale
di nostra gente! La Saturnia terra
torni a chi l'ama, a chi la vanga ed ara!
Rieda a' suoi posti il migratore, e parco
alcuni scabri iugeri redima,
come il tuo vecchio Cilice, e vi pianti
la sua casetta, e viti ed arnie e fiori,
grano per casa, e fieno pei giovenchi,
e pei nepoti il molto cauto ulivo!
Tu sei con noi: la voce tua che suona
mista di trilli, di ronzii, di mugli,
dal cielo annunzia il nuovo tempo umano.
Per tutto ondeggia, senza reste, il grano,
il miele sgorga dalle cave quercie,
e pende l'uva dagl'incolti pruni.
ITALIA! ITALIA!...
Ed altri eroi son nati,
e sarà, tutto, ciò che ancor non fu.
...
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