MYRICAE, di Giovanni Pascoli - pagina 4
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XVI
O VANO SOGNO
Al camino, ove scoppia la mortella
tra la stipa, o ch'io sogno, o veglio teco:
mangio teco radicchio e pimpinella.
Al soffiar delle raffiche sonanti,
l'aulente fieno sul forcon m'arreco,
e visito i miei dolci ruminanti:
poi salgo, e teco - O vano sogno! Quando
nella macchia fiorisce il pan porcino,
lo scolaro i suoi divi ozi lasciando
spolvera il badïale calepino:
chioccola il merlo, fischia il beccaccino;
anch'io torno a cantare in mio latino.
Scilp: i passeri neri su lo spalto
corrono, molleggiando.
Il terren sollo
rade la rondine e vanisce in alto:
vitt.
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videvitt.
Per gli uni il casolare,
l'aia, il pagliaio con l'aereo stollo;
ma per l altra il suo cielo ed il suo mare.
Questa, se gli olmi ingiallano la frasca,
cerca i palmizi di Gerusalemme:
quelli, allor che la foglia ultima casca,
restano ad aspettar le prime gemme.
Dib dib bilp bilp: e per le nebbie rare,
quando alla prima languida dolciura
l'olmo già sogna di rigermogliare,
lasciano a branchi la città sonora
e vanno, come per la mietitura,
alla campagna, dove si lavora.
Dopo sementa, presso l'abituro
il casereccio passero rimane;
e dal pagliaio, dentro il cielo oscuro
saluta le migranti oche lontane.
Fischia un grecale gelido, che rade:
copre un tendone i monti solitari:
a notte il vento rugge, urla: poi cade.
E tutto è bianco e tacito al mattino:
nuovo: e dai bianchi e muti casolari
il fumo sbalza, qua e là turchino.
La neve! (Videvitt: la neve? il gelo?
ei di voi, rondini, ride:
bianco in terra, nero in cielo
v'è di voi chi vide .
.
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vide .
.
.
videvitt?)
La neve! Allora, poi che il cibo manca,
alla città dai mille campanili
scendono, alla città fumida e bianca;
a mendicare.
Dalla lor grondaia
spiano nelle chiostre e nei cortili
la granata o il grembiul della massaia.
Tornano quindi ai campi, a seminare
veccia e saggina coi villani scalzi,
e - videvitt - venuta d'oltremare
trovano te che scivoli, che sbalzi,
rondine, e canti; ma non sai la gioia
-scilp- della neve, il giorno che dimoia.
NOZZE
a G.V
Dava moglie la Rana al suo figliolo.
Or con la pace vostra, o raganelle,
suon lo chiese ad un cantor del brolo.
Egli cantò: la cobbola giuliva
parve un picchierellar trito di stelle
nel ciel di sera, che ne tintinniva.
Le campagne addolcì quel tintinnio
e i neri boschi fumiganti d'oro.
tiò tiò tiò tiò tiò tiò tiò tiò tiò
torotorotorotorotíx
torotorotorotorolililíx
È notte: ancora in un albor di neve
sale quest'inno come uno zampillo;
quando la Rana chiede, quanto deve:
se quattro chioccioline, o qualche foglia
d'appio o voglia un mazzuolo di serpillo,
o voglia un paio di bachi, o ciò che voglia.
Oh! rispos'egli: nulla al Rosignolo,
nulla tu devi delle sue cantate:
ei l'ha per nulla e dà per nulla: solo,
si l'ascoltate e poi non gracidate.
Al lume della luna ogni ranocchia
gracidò: Quanta spocchia, quanta spocchia!
LE GIOIE DEL POETA
I
IL MAGO
«Rose al verziere, rondini al verone!»
Dice, e l'aria alle sue dolci parole
sibila d'ali, e l'irta siepe fiora.
Altro il savio potrebbe; altro non vuole;
pago se il ciel gli canta e il suol gli odora;
suoi.
nunzi manda alla nativa aurora,
a biondi capi intreccia sue corone.
II
IL MIRACOLO
Vedeste, al tocco suo, morte pupille!
Vedeste in cielo bianchi lastricati
con macchie azzurre tra le lastre rare;
bianche le fratte, bianchi erano i prati,
queto fumava un bianco casolare,
sfogliava il mandorlo ali di farfalle.
Vedeste l'erba lucido tappeto,
e sulle pietre il musco smeraldino;
tremava il verde ciuffo del canneto,
sbocciava la ninfea nell'acquitrino,
tra rane verdi e verdi raganelle.
Vedeste azzurro scendere il ruscello
fuori dei monti, fuor delle foreste,
e quelle creste, aereo castello,
tagliare in cielo un lembo piu celeste:
era colore di viola il colle.
Vedeste in mezzo a nuvole di cloro
rossa raggiar la fuga de' palazzi
lungo la ripa, ed il tramonto d'oro
dalle vetrate vaporare a sprazzi,
a larghi fasci, a tremule scintille.
Dormono i corvi dentro i lecci oscuri
qualche fiaccola va pei cimiteri;
dentro i palazzi, dentro gli abituri,
al buio, accanto ai grandi letti neri,
dormono nere e piccole le culle.
III
IN ALTO
Nel ciel dorato rotano i rondoni.
Avessi al cor, come ali, così lena!
Pur l'amerei la negra terra infida,
sol per la gioia di toccarla appena,
fendendo al ciel non senza acute strida.
Ora quel cielo sembra che m'irrida,
mentre vado così, grondon grondoni.
IV
GLORIA
-Al santo monte non verrai, Belacqua?-
Io non verrò: l'andare in su che porta?
e là non s'apre che al pregar la porta,
e qui star dietro il sasso a me non duole,
ed ascoltare le cicale al sole,
V
CONTRASTO
I
Io prendo un po' di silice e di quarzo:
lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:
ve' la fiala come un dì di marzo,
azzurra e grigia, torbida e serena!
Un cielo io faccio con un po' di rena
e un po' di fiato.
Ammira: io son l'artista.
II
Io vo per via guardando e riguardando,
solo, soletto, muto, a capo chino:
prendo un sasso, tra mille, a quando a quando:
lo netto, arroto, taglio, lustro, affino:
chi mi sia, non importa: ecco un rubino;
vedi un topazio; prendi un'ametista.
VI
LA VITE E IL CAVOLO
Dal glauco e pingue cavolo si toglie
e fugge all'olmo la pampinea vite,
ed a sé, tra le branche inaridite,
tira il puniceo strascico di foglie.
Pace, o pampinea vite ! Aureo s'accoglie
il sol nel lungo tuo grappolo mite;
aurea la gioia, e dentro le brunite
coppe ogni cura in razzi d'oro scioglie.
Ma, nobil vite, alcuna gloria è spesso
pur di quel gramo, se per lui l'oscuro
paiol borbotta con suo lieve scrollo;
e il core allegra al pio villan, che d'esso
trova odorato il tiepido abituro,
mentre a' fumanti buoi libera il collo.
FINESTRA ILLUMINATA
I
a A.
B.
Otto...
nove...
anche un tocco: e lenta scorre
l'ora; ed un altro...
un altro.
Uggiola un cane.
Un chiù singhiozza da non so qual torre.
È mezzanotte.
Un doppio suon di pesta
s'ode, che passa.
C'è per vie lontane
un rotolìo di carri che s'arresta
di colpo.
Tutto è chiuso, senza forme,
senza colori, senza vita.
Brilla,
sola nel mezzo alla città che dorme,
una finestra, come una pupilla
II
UN GATTO NERO
aperta.
Uomo che vegli nella stanza
illuminata, chi ti fa vegliare?
Tu cerchi un Vero.
Il tuo pensier somiglia
un mare immenso: nell'immenso mare,
una conchiglia; dentro la conchiglia,
una perla: la vuoi.
Vecchio, un gran bosco
nevato, ai primi languidi scirocchi,
per la tua faccia.
Un gatto nero, un fosco
viso di sfinge, t'apre i suoi verdi occhi...
III
DOPO?
Forse è una buona vedova.
.
.
Quand'ella
facea l'imbastitura e il sopramano,
venne il suo bimbo e chiese la novella.
Venne ai suoi piedi: ella contò del Topo,
del Mago .
.
.
Alla costura, egli, pian piano,
l'ultima volta le sussurrò, Dopo?
Dopo tanto, c'è sempre qualche occhiello.
Il topo è morto, s'è smarrito il mago.
Il bimbo dorme sopra lo sgabello,
tra le ginocchia, al ticchettio dell'ago.
IV
UN RUMORE .
.
.
Una fanciulla.
.
.
La tua mano vola
sopra la carta stridula: s'impenna:
gli occhi cercano intorno una parola.
E la parola te la dà la muta
lampada che sussulta: onde la penna
la via riprende scricchiolando arguta.
St! un rumore .
.
.
ai labbri ti si porta
la penna, un piede dondola .
.
.
Che cosa?
Nulla: un tarlo, un brandir lieve di porta .
.
Oh! mamma dorme, e sogna .
.
.
che sei sposa.
V
POVERO DONO
Getta quell'arma che t'incanta.
Spera
l'ultima volta.
Aspetta ancora, aspetta
che il gallo canti per la città nera.
Il gallo canta, fuggono le larve.
Fuggirà, fuggirà la maledetta
maga che con fatali occhi t'apparve.
Verrà tua madre morta, col suo mesto
viso, col mormorìo della sua prece.
.
.
ti pregherà che tu lo serbi questo
povero dono ch'ella un dì ti fece!
VI
UN RONDINOTTO
È ben altro.
Alle prese col destino
veglia un ragazzo che con gesti rari
fila un suo lungo penso di latino.
Il capo ad ora ad ora egli solleva
dalla catasta dei vocabolari,
come un galletto garrulo che beva.
Povero bimbo! di tra i libri via
appare il bruno capo tuo, scompare;
come d'un rondinotto, quando spia
se torna mamma e porta le zanzare.
VII
SOGNO D'OMBRA
Rantolo d'avo, rantolo d'infante.
Par l'uno il cigolìo d'un abbaino
a cui percuota l'aquilone errante:
l'altro e come a fior d'acqua un improvviso
vanir di bolla, donde un cerchiolino
s'apre ogni volta e scivola nel viso.
Vissero.
Quanto? le pupille fisse
chiedono.
Uno la gente di sua gente
vide; l'altro, non sé.
Ma l'uno visse
quello che l'altro: un sogno d'ombra, un niente.
VIII
MISTERO
Vergine .
.
.
bianca sopra il bianco letto,
ti prese il sonno a mezzo la preghiera?
Tu hai le mani in croce sopra il petto.
Ti prese tra i due ceri e le corone
quel sonno? in mezzo agli Ave della sera?
Tu dici ancora quella orazïone.
Tieni il rosario tra le mani pie.
Non muove i labbri un tremito leggiero?
Ma non scorrono più le avemarie,
e tu contemplerai sempre un mistero.
IX
VAGITO
Mammina .
.
.
bianca sopra il letto bianco
tu dormi.
Chi sul volto ti compose
quel dolor pago e quel sorriso stanco ?
Tu dormi: intorno al languido origliere
tutto biancheggia.
Intorno a te le cose
fanno piccoli cenni di tacere.
E tutto albeggia e tutto tace.
Il fine
è questo, è questo il cominciar d'un rito?
Di tra un silenzio candido di trine
parla il mistero in suono di vagito.
SOLITUDINE
I
Da questo greppo solitario io miro
passare un nero stormo, un aureo sciame;
mentre sul capo al soffio di un sospiro
ronzano i fili tremuli di rame.
È sul mio capo un'eco di pensiero
lunga, né so se gioia o se martoro;
e passa l'ombra dello stormo nero,
e passa l'ombra dello sciame d'oro.
II
Sono città che parlano tra loro,
città nell'aria cerula lontane;
tumultuanti d'un vocìo sonoro,
di rote ferree e querule campane.
Là, genti vanno irrequïete e stanche,
cui falla il tempo, cui l'amore avanza
per lungi, e l'odio.
Qui, quell'eco ed anche
quel polverio di ditteri, che danza.
III
Parlano dall'azzurra lontananza
nei giorni afosi, nelle vitree sere;
e sono mute grida di speranza
e di dolore, e gemiti e preghiere.
.
.
Qui quel ronzìo.
Le cavallette sole
stridono in mezzo alla gramigna gialla;
i moscerini danzano nel sole;
trema uno stelo sotto una farfalla.
CAMPANE A SERA
Odi, sorella, come note al core
quelle nel vespro tinnule campane
empiono l'aria quasi di sonore
grida lontane ?
A quel tumulto aereo risponde
dal cuore un fioco scampanìo, sì lieve,
come stormeggi, dietro macchie fonde,
candida pieve.
Forse una pieve ne' cilestri monti
la sagra annunzia ad ogni casolare,
onde si fece a' placidi tramonti
lungo parlare;
ed or, sospeso il ticchettio dell'ago,
guardano donne verso la marina,
seguendo un fiocco di bambagia, vago,
che vi s'ostina.
Grandi occhi, sotto grandi archi di ciglia,
guardano il cielo, empiendosi di raggi,
là dove l'aria allumina vermiglia
boschi di faggi.
Voci soavi, voi tinnite a festa
da così strana e cupa lontananza,
che là si trova il desiderio, e resta
qua la speranza.
Io mi rivedo in un branchetto arguto
di biondi eguali su per l'Appennino
opaco d'elci: o snelle, vi saluto,
torri d'Urbino!
Vi riconosco, o due sottili torri,
vi riconosco, o memori Cesane
folte di lazzi cornïoli i borri
e d'avellane.
Vaga lo stuolo delle rosee bocche
pe' clivi, e sparge nella via maestra
messe di fiordalisi e l'auree ciocche
della ginestra.
Nella via bianca il novo drappo svaria
coi rosolacci e le sottili felci;
e par che attenda, nella solitaria
ombra dell'elci;
pare che attenda nella via tranquilla,
sotto quest'ampio palpito sonoro,
uno dai neri monti su cui brilla
porpora e oro.
ELEGIE
I
LA FELICITÀ
Quando, all'alba, dall'ombra s'affaccia,
discende le lucide scale
e vanisce; ecco dietro la traccia
d'un fievole sibilo d'ale,
io la inseguo per monti, per piani,
nel mare, nel cielo: già in cuore
io la vedo, già tendo le mani,
già tengo la gloria e l'amore.
Ahi! ma solo al tramonto m'appare,
su l'orlo dell'ombra lontano,
e mi sembra in silenzio accennare
lontano, lontano, lontano.
La via fatta, il trascorso dolore,
m'accenna col tacito dito:
improvvisa, con lieve stridore,
discende al silenzio infinito.
II
SORELLA
a Maria
Io non so se più madre gli sia
la mesta sorella o più figlia:
ella dolce ella grave ella pia,
corregge conforta consiglia.
A lui preme i capelli, l'abbraccia
pensoso, gli dice, Che hai?
a lui cela sul petto la faccia
confusa, gli dice, Non sai?
Ella serba nel pallido viso,
negli occhi che sfuggono intorno,
ah! per quando egli parte il sorriso,
le lagrime per il ritorno.
Per l'assente la madia che odora,
serbò la vivanda più buona;
e lo accoglie lo sguardo che ignora,
col bacio che sa, ma perdona.
Ella cuce: nell'ombra romita
non s'ode che l'ago e l'anello;
ecco, l'ago fra le agili dita
ripete, Stia caldo, sia bello!
Ella prega: un lungo alito d'ave-
marie con un murmure lene...
ella prega; ed un'eco soave
ripete, Sia buono, stia bene!
III
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.
Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
IV
L'ANELLO
Nella mano sua benedicente
l'anello brillava lontano.
Egli alzò quella mano, morente:
di caldo s'empì quella mano..
O mio padre, di sangue! L'anello
lo tenne sul cuore mia madre...
O mia madre! Poi l'ebbe il fratello
mio grande...
o mio piccolo padre!
Nel suo gracile dito il tesoro
raggiò di benedizïone.
Una macchia avea preso quell'oro,
di ruggine, presso il castone...
O mio padre, di sangue! Una sera,
la macchia volevi lavare,
o fratello? che pianto fu ! t'era
caduto l'anello nel mare.
E nel mare è rimasto; nel fondo
del mare che grave sospira;
una stella dal cielo profondo
nel mare profondo lo mira.
Quella macchia ! S'adopra a lavarla
il mare infinito; ma in vano.
E la stella che vede, ne parla
al cielo infinito; ah! in vano.
V
AGONIA DI MADRE
Muore.
Sfugge alla morta pupilla
già il bimbo che geme al suo piede:
ode un suono lontano di squilla:
son due .
.
.
gli occhi, grave, apre: vede.
Uno piange, ma l'altro sorride
d'un bianco sorriso di cieco.
Ella guarda, ella pensa: lo vide
così: quando? e ha come l'eco
d'un gran pianto nel cuore, la traccia
di lagrime morte negli occhi.
Ah! ricordano un peso le braccia,
ricordano un peso i ginocchi,
grave.
Due sono i bimbi: uno piange;
ma dorme il più piccolo ancora:
ella versa dal cuor che si frange,
le lagrime d'ora e d'allora.
- Dormi, o angelo - o angelo, déstati,
destati - mormora il cuore.
Tra la culla e una bara s'arresta
la mano sua, rigida.
Muore.
Il suo primo, il suo morto è sparito
con lei che nell'ombra lo reca:
piange l'altro; ella n'ode il vagito
col bianco stupore di cieca.
VI
LAPIDE
Dietro spighe di tasso barbasso,
tra un rovo, onde un passero frulla
improvviso, si legge in un sasso:
QUI DORME PIA GIGLI FANCIULLA.
Radicchiella dall'occhio celeste,
dianto di porpora, sai,
sai, vilucchio, di Pia? la vedeste,
libellule tremule, mai ?
Ella dorme.
Da quando raccoglie
nel cuore il soave oblio? Quante
oh! le nubi passate, le foglie
cadute, le lagrime piante;
quanto, o Pia, si morì da che dormi
tu! Pura di vite create
a morire, tu, vergine, dormi,
le mani sul petto incrociate.
Dormi, vergine, in pace: il tuo lene
respiro nell'aria lo sento
assonare al ronzio delle andrene,
coi brividi brevi del vento.
Lascia argentei il cardo al leggiero
tuo alito i pappi suoi come
il morente alla morte un pensiero,
vago, ultimo: l'ombra d'un nome.
IDA E MARIA
O mani d'oro, le cui tenui dita
menano i tenui fili ad escir fiori
dal bianco bisso, e sì, che la fiorita
sembra che odori;
o mani d'oro, che leggiere andando,
rigasi il lin, miracolo a vederlo,
qual seccia arata nell'autunno, quando
chioccola il merlo;
o mani d'oro, di cui l'opra alterna
sommessamente suona senza posa,
mentre vi mira bionde la lucerna
silenzïosa:
or m'apprestate quel che già chiedevo
funebre panno, o tenui mani d'oro,
però che i morti chiamano e ch'io devo
esser con loro.
Ma non sia raso stridulo, non sia
puro amïanto; sia di que' sinceri
teli, onde grevi a voi lasciò la pia
madre i forzieri;
teli, a cui molte calcole sonare
udì San Mauro e molte alate spole:
un canto a tratti n'emergea di chiare,
lente parole:
teli, che a notte biancheggiar sul fieno
vidi con occhio credulo d'incanti,
ne' prati al plenilunio sereno
riscintillanti .
IN CAMPAGNA
I
IL VECCHIO DEI CAMPI
Al sole, al fuoco, sue novelle ha pronte
il bianco vecchio dalla faccia austera,
che si ricorda, solo ormai, del ponte,
quando non c'era.
Racconta al sole (i buoi fumidi stanno,
fissando immoti la sua lenta fola)
come far sacca si dové, quell'anno,
delle lenzuola.
Racconta al fuoco (sfrigola bel bello
un ciocco d'olmo in tanto che ragiona),
come a far erba uscisse con Rondello
Buovo d'Antona.
II
NELLA MACCHIA
Errai nell'oblio della valle
tra ciuffi di stipe fiorite,
tra quercie rigonfie di galle;
errai nella macchia più sola,
per dove tra foglie marcite
spuntava l'azzurra vïola;
errai per i botri solinghi:
la cincia vedeva dai pini:
sbuffava i suoi piccoli ringhi
argentini.
Io siedo invisibile e solo
tra monti e foreste: la sera
non freme d'un grido, d'un volo.
Io siedo invisibile e fosco;
ma un cantico di capinera
si leva dal tacito bosco.
E il cantico all'ombre segrete
per dove invisibile io siedo,
con voce di flauto ripete,
Io ti vedo!
III
IL BOVE
Al rio sottile, di tra vaghe brume,
guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano
che fugge, a un mare sempre più lontano
migrano l'acque d'un ceruleo fiume;
ingigantisce agli occhi suoi, nel lume
pulverulento, il salice e l'ontano;
svaria su l'erbe un gregge a mano a mano,
e par la mandra dell'antico nume:
ampie ali aprono imagini grifagne
nell'aria; vanno tacite chimere,
simili a nubi, per il ciel profondo;
il sole immenso, dietro le montagne
cala, altissime: crescono già, nere,
l'ombre più grandi d'un più grande mondo.
IV
LA DOMENICA DELL'ULIVO
Hanno compiuto in questo dì gli uccelli
il nido (oggi è la festa dell'ulivo)
di foglie secche, radiche, fuscelli;
quel sul cipresso, questo su l'alloro,
al bosco, lungo il chioccolo d'un rivo,
nell'ombra mossa d'un tremolìo d'oro.
E covano sul musco e sul lichene
fissando muti il cielo cristallino,
con improvvisi palpiti, se viene
un ronzio d'ape, un vol di maggiolino.
V
VESPRO
Dal cielo roseo pullula una stella.
Una campana parla della cosa
col suo grave dan dan dalla badia;
onde tra i pioppi tinti in color rosa
suona un continuo scalpicciar per via:
passa una lunga e muta compagnia
con fasci di trifoglio e lupinella.
Una fanciulla cuce ed accompagna,
cantarellando, dalla nera altana,
un canto che s'alzò dalla campagna,
quando nel cielo tacque la campana:
s'alzò da un olmo solo in una piana,
da un olmo nero che da sé stornella.
VI
CANZONE D 'APRILE
Fantasma tu giungi,
tu parti mistero.
Venisti, o di lungi?
ché lega già il pero,
fiorisce il cotogno
laggiù.
Di cincie e fringuelli
risuona la ripa.
Sei tu tra gli ornelli,
sei tu tra la stipa?
Ombra! anima! sogno!
sei tu .
.
.
?
Ogni anno a te grido
con palpito nuovo.
Tu giungi: sorrido;
tu parti: mi trovo
due lagrime amare
di più.
Quest'anno .
.
.
oh! quest'anno,
la gioia vien teco:
già l'odo, o m'inganno,
quell'eco dell'eco;
già t'odo cantare
Cu .
.
.
cu.
VII
ALBA
Odoravano i fior di vitalba
per via, le ginestre nel greto;
alïavano prima dell'alba
le rondini nell'uliveto.
Alïavano mute con volo
nero, agile, di pipistrello;
e tuttora gemea l'assïolo,
che già spincionava il fringuello.
Tra i pinastri era l'alba che i rivi
mirava discendere giù:
guizzò un raggio, soffio su gli ulivi;
virb...
disse una rondine; e fu
giorno: un giorno di pace e lavoro,
che l'uomo mieteva il suo grano,
e per tutto nel cielo sonoro
saliva un cantare lontano.
VIII
DALL'ARGINE
Posa il meriggio su la prateria.
Non ala orma ombra nell'azzurro e verde.
Un fumo al sole biancica; via via
fila e si perde.
Ho nell'orecchio un turbinìo di squilli,
forse campani di lontana mandra;
e, tra l'azzurro penduli, gli strilli
della calandra.
IX
IL PASSERO SOLITARIO
Tu nella torre avita,
passero solitario,
tenti la tua tastiera,
come nel santuario
monaca prigioniera
l'organo, a fior di dita;
che pallida, fugace,
stupì tre note, chiuse
nell'organo, tre sole,
in un istante effuse,
tre come tre parole
ch'ella ha sepolte, in pace.
Da un ermo santuario
che sa di morto incenso
nelle grandi arche vuote,
di tra un silenzio immenso
mandi le tue tre note,
spirito solitario.
X
STOPPIA
Dov'è, campo, il brusìo della maretta
quando rabbrividivi ai libeccioli?
Ti resta qualche fior d'erba cornetta,
i fioralisi, i rosolacci soli.
E nel silenzio del mattino azzurro
cercano in vano il solito sussurro;
mentre nell'aia, là, del contadino
trebbiano nel silenzio del mattino.
Dov'è, campo, il tuo mare ampio e tranquillo,
col tenue vel di reste, ai pleniluni?
Pei nudi solchi trilla trilla il grillo,
lucciole vanno per i solchi bruni.
E nella sera, con ansar di lampo,
cercano il grano nel deserto campo;
mentre tuttora, là, dalla riviera
romba il mulino nella dolce sera.
XI
L'ASSIUOLO
Dov'era la luna? ché il cielo
notava in un'alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù .
.
.
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com'eco d'un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù .
.
.
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d'argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s'aprono più? .
.
.);
e c'era quel pianto di morte.
.
.
chiù .
.
.
XII
TEMPORALE
Un bubbolìo lontano.
.
.
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un'ala di gabbiano.
XIII
DOPO L'ACQUAZZONE
Passò strosciando e sibilando il nero
nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,
luccica; un fresco odor dal cimitero
viene, di bosso.
Presso la chiesa; mentre la sua voce
tintinna, canta, a onde lunghe romba;
ruzza uno stuolo, ed alla grande croce
tornano a bomba.
Un vel di pioggia vela l'orizzonte;
ma il cimitero, sotto il ciel sereno,
placido olezza: va da monte a monte
l'arcobaleno.
XIV
PIOGGIA
Cantava al buio d'aia in aia il gallo.
E gracidò nel bosco la cornacchia:
il sole si mostrava a finestrelle.
Il sol dorò la nebbia della macchia,
poi si nascose; e piovve a catinelle.
Poi tra il cantare delle raganelle
guizzò sui campi un raggio lungo e giallo.
Stupìano i rondinotti dell'estate
di quel sottile scendere di spille:
era un brusìo con languide sorsate
e chiazze larghe e picchi a mille a mille;
poi singhiozzi, e gocciar rado di stille:
di stille d'oro in coppe di cristallo.
XV
SERA D'OTTOBRE
Lungo la strada vedi su la siepe
ridere a mazzi le vermiglie bacche:
nei campi arati tornano al presepe
tarde le vacche.
Vien per la strada un povero che il lento
passo tra foglie stridule trascina:
nei campi intuona una fanciulla al vento:
Fiore di spina! .
.
.
XVI
ULTIMO CANTO
Solo quel campo, dove io volga lento
l'occhio, biondeggia di pannocchie ancora,
e il solicello vi si trascolora.
Fragile passa fra' cartocci il vento:
uno stormo di passeri s'invola:
nel cielo è un gran pallore di viola.
Canta una sfogliatrice a piena gola:
Amor comincia con canti e con suoni
e poi finisce con lacrime al cuore.
XVII
IL PICCOLO BUCATO
Come tetra la sizza che combatte
gli alberi brulli e fa schioccar le rame
secche, e sottile fischia tra le fratte !
Sur una fratta (o forse è un biancor d'ale ?)
un corredino ride in quel marame:
fascie, bavagli, un piccolo guanciale.
Ad ogni soffio del rovaio, che romba,
le fascie si disvincolano lente;
e da un tugurio triste come tomba
giunge una nenia, lunga, pazïente.
XVIII
NOVEMBRE
Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile.
È l'estate,
fredda, dei morti.
PRIMAVERA
I
IL FIUME
Fiume che là specchiasti un casolare
co' suoi rossi garofani, qua mura
d'erme castella, e tremula verzura;
eccoti giunto al fragoroso mare:
ed ecco i flutti verso te balzare
su dall'interminabile pianura,
in larghe file; e nella riva oscura
questa si frange, e in quella in alto appare;
tituba e croscia.
E là, donde tu lieto,
di sasso in sasso, al piè d'una betulla,
sgorghi sonoro tra le brevi sponde;
a un po' d'auretta scricchiola il canneto,
fruscia il castagno, e forse una fanciulla
sogna a quell'ombre, al mormorìo dell'onde.
II
LO STORNELLO
- Sospira e piange, e bagna le lenzuola
la bella figlia, quando rifà il letto,-
tale alcuno comincia un suo rispetto:
trema nell'aurea notte ogni parola;
e sfiora i bossi, quasi arguta spola,
l'aura con un bruire esile e schietto:
- e si rimira il suo candido petto,
e le rincresce avere a dormir sola.-
Solo, là dalla siepe, è il casolare;
nel casolare sta la bianca figlia;
la bianca figlia il puro ciel rimira.
Lo vuole, a stella a stella, essa contare;
ma il ciel cammina, e la brezza bisbiglia,
e quegli canta, e il cuor piange e sospira.
III
LA PIEVE
Giorno d'arrivi il tuo, san Benedetto:
ecco una prima rondine che svola.
E trova i pioppi nella valle sola,
la grande pieve, il nido piccoletto.
Razzano i vetri; l'occhio del coretto
nereggia sotto un ciuffo di vïola:
ecco la cigolante banderuola,
gli embrici roggi del loquace tetto.
E di saluti sonano le gronde
e il chiuso, dove il cielo è vaporato
da un rosseggiar di peschi e d'albicocchi.
E la rondine stridula risponde
alïando con lievi ombre: sul prato
le segue un cane co' fuggevoli occhi.
IV
IN CHIESA
Sciama con un ronzio d'api la gente
dalla chiesetta in sul colle selvaggio;
e per la sera limpida di maggio
vanno le donne, a schiera, lente lente;
e passano tra l'alta erba stridente,
e pare una fiorita il lor passaggio:
le attende a valle tacito il villaggio
con le capanne chiuse e sonnolente.
Ma la chiesetta ancor nell'alto svaria
tra le betulle, e il tetto d'un intenso
rossor sfavilla nel silenzio alpestre.
Il rombo delle pie laudi nell'aria
palpita ancora; un lieve odor d'incenso
sperdesi tra le mente e le ginestre.
GERMOGLIO
La scabra vite che il lichene ingromma
come di gialla ruggine, germoglia:
spuntar vidi una, lucida di gomma,
piccola foglia.
Al sol che brilla in mezzo a gli umidicci
solchi anche l'olmo screpolato muove:
medita, il vecchio, rame, pei viticci
nuovi, pur nuove:
cui tremolando cercano coi lenti
viticci i tralci a foglie color rame,
mentre su loro tremolano ai venti
anche le rame.
Da qual profonda cavità m'ha scosso
il canto dell'aereo cuculo?
fiorisce a spiga per le prode il rosso
pandicuculo?
È del fior d'uva questa ambra che sento
o una lieve traccia di vïole?
dove si vede il grappolo d'argento
splendere al sole?
grappolo verde e pendulo, che invaia
alle prime acque fumide d'agosto,
quando il villano sente sopra l'aia
piovere mosto:
mosto che cupo brontola e tra nere
ombre sospira e canta San Martino,
allor che singultando nel bicchiere
sdrucciola vino;
vino che rosso avanti il focolare
brilla, al fischiare della tramontana,
che giunge come un fragoroso mare
e s'allontana
simile a sogno: quando su le strade
volano foglie cui persegue il cuore
simili a sogno; quando tutto cade,
stingesi, e muore.
Muore? Anche un sogno, che sognai! Germoglia
la scabra vite che il lichene ingromma:
spunta da un nodo una lanosa foglia
molle di gomma.
DOLCEZZE
I
BENEDIZIONE
E' la sera: piano piano
passa il prete pazïente,
salutando della mano
ciò che vede e ciò che sente.
Tutti e tutto il buon piovano
benedice santamente;
anche il loglio, là, nel grano;
qua, ne' fiori, anche il serpente.
Ogni ramo, ogni uccellino
sì del bosco e sì del tetto,
nel passare ha benedetto;
anche il falco, anche il falchetto
nero in mezzo al ciel turchino,
anche il corvo, anche il becchino,
poverino,
che lassù nel cimitero
raspa raspa il giorno intiero.
II
CON GLI ANGIOLI
Erano in fiore i lilla e l'ulivelle;
ella cuciva l'abito di sposa:
né l'aria ancora aprìa bocci di stelle,
né s'era chiusa foglia di mimosa;
quand'ella rise; rise, o rondinelle
nere, improvvisa: ma con chi? di cosa?
rise, così, con gli angioli; con quelle
nuvole d'oro, nuvole di rosa.
III
IL MENDICO
Presso il rudere un pezzente
cena tra le due fontane:
pane alterna egli col pane,
volti gli occhi all'occidente.
Fa un incanto nella mente:
carne è fatto, ecco, l'un pane.
Tra il gracchiare delle rane
sciala il mago sapïente.
Sorge e beve alle due fonti:
chiara beve acqua nell'una,
ma nell'altra un dolce vino.
Giace e guarda: sopra i monti
sparge il lume della luna;
getta l'arti al ciel turchino,
baldacchino
di mirabile lavoro,
ch'ei trapunta a stelle d'oro.
IV
MARE
M'affaccio alla finestra, e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l'onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l'acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d'argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?
V
A NANNA
Come un rombo d'arnia suona
tra il cricchiar della mortella.
Nonna, è detta la corona:
nonna, or dì la tua novella.
Ella dice, ell'è pur buona,
la più lunga, la più bella:
- Sola (o Dio: bubbola e tuona!)
sola va la reginella.
Ecco un lume, una stellina,
ma lontanamente, appare.
Via, conviene andare andare.
Va e va.- Ma ciondolare
già comincia una testina;
due sonnecchiano; cammina
che cammina,
e le son tutte arrivate:
sono in collo delle fate.
VI
IL PICCOLO ARATORE
Scrive.
.
.
(la nonna ammira): ara bel bello,
guida l'aratro con la mano lenta;
semina col suo piccolo marrello:
il campo è bianco, nera la sementa.
D'inverno egli ara: la sementa nera
d'inverno spunta, sfronza a primavera;
fiorisce, ed ecco il primo tuon di Marzo
rotola in aria, e il serpe esce dal balzo.
VII
IL PICCOLO MIETITORE
Legge .
.
.
(la nonna ammira): ecco il campetto
bianco di grano nero in lunghe righe:
esso tutt'occhi, con il suo falsetto
a una a una miete quelle spighe;
miete, e le spighe restano pur quelle;
miete e lega coi denti le mannelle;
e le mannelle di tra i denti suoi
parlano .
.
.
come noi, meglio di noi.
VIII
NOTTE
Siedon fanciulle ad arcolai ronzanti,
e la lucerna i biondi capi indora:
i biondi capi, i neri occhi stellanti,
volgono alla finestra ad ora ad ora:
attendon esse a cavalieri erranti
che varcano la tenebra sonora?
Parlan d'amor, di cortesie, d'incanti:
così parlando aspettano l'aurora.
TRISTEZZE
I
PAESE NOTTURNO
Capanne e stolli ed alberi alla luna
sono, od un tempio dell'antico Anubi,
fosca rovina? Stampano una bruna
orma le nubi
su la campagna, e più profonda e piena
la notte preme le macerie strane,
chiuse allo sguardo, dove alla catena
uggiola un cane.
Ecco la falce d'oro all'orizzonte:
due nere guglie a man a man dipinge,
indi non so che candido.
Una fronte
bianca di sfinge?
II
RAMMARICO
Chi questo nuovo pianto in cuor mi pone ?
Verso occidente, o dolce madre Aurora,
da te lontano la mia vita è corsa.
Il cielo s'alza e tutto trascolora;
passano stelle e stelle in lenta corsa;
emerge dall'azzurro la grand'Orsa,
e sta nell'arme fulgido Orïone.
Come più lieta la tua vista, quando
un poco accenni delle rosee dita;
e la greggia s'avvia scampanellando,
esce il bifolco e rauco i bovi incìta,
Canta lassù la lodola - apparita
ecco Giulietta, e piange, al suo balcone!-
III
SOGNO
Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa.
Nulla era mutato
Stanco tornavo, come da un vïaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.
Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un'angoscia muta.
- Mamma?-È là che ti scalda un po' di cena-
Povera mamma! e lei, non l'ho veduta.
IV
I GATTICI
E vi rivedo, o gattici d'argento,
brulli in questa giornata sementina:
e pigra ancor la nebbia mattutina
sfuma dorata intorno ogni sarmento.
Gia vi schiudea le gemme questo vento
che queste foglie gialle ora mulina;
e io che al tempo allor gridai, Cammina,
ora gocciare il pianto in cuor mi sento.
Ora, le nevi inerti sopra i monti,
e le squallide pioggie, e le lunghe ire
del rovaio che a notte urta le porte,
e i brevi dì che paiono tramonti.
infiniti, e il vanire e lo sfiorire,
e i crisantemi, il fiore della morte.
V
LA SIEPE
Qualche bacca sui nudi ramicelli
del biancospino trema nel viale
gelido: il suol rintrona, andando, quale
per tardi passi il marmo degli avelli.
Le pasce il piccol re, re degli uccelli
ed altra gente piccola e vocale.
S'odono a sera lievi frulli d'ale,
via, quando giunge un volo di monelli.
Anch'io; ricordo, ma passò stagione;
quelle bacche a gli uccelli della frasca
invidiavo, e le purpuree more;
e l'ala, i cieli, i boschi, la canzone:
i boschi antichi, ove una foglia casca,
muta, per ogni battito di cuore.
VI
IL NIDO
Dal selvaggio rosaio scheletrito
penzola un nido.
Come, a primavera,
ne prorompeva empiendo la riviera
il cinguettio del garrulo convito!
Or v'è sola una piuma, che all'invito
del vento esita, palpita leggiera;
qual sogno antico in anima severa,
fuggente sempre e non ancor fuggito:
e già l'occhio dal cielo ora si toglie;
dal cielo dove un ultimo concento
salì raggiando e dileguò nell'aria;
e si figge alla terra, in cui le foglie
putride stanno, mentre a onde il vento
piange nella campagna solitaria.
VII
IL PONTE
La glauca luna lista l'orizzonte
scopre i campi nella notte occulti
e il fiume errante.
In suono di singulti
l'onda si rompe al solitario ponte.
Dove il mar, che lo chiama? e dove il fonte,
ch'esita mormorando tra i virgulti?
il fiume va con lucidi sussulti
al mare ignoto dall'ignoto monte.
Spunta la luna: a lei sorgono intenti
gli alti cipressi dalla spiaggia triste,
movendo insieme come un pio sussurro.
Sostano, biancheggiando, le fluenti
nubi, a lei volte, che salìan non viste
le infinite scalèe del tempio azzurro.
VIII
AL FUOCO
Dorme il vecchio avanti i ciocchi.
Sogna un nuvolo di bimbi,
che cinguetta.
Il ceppo al foco
russa roco.
Dorme anch'esso.
A tutti i nocchi
sogna grappoli e corimbi.
Rosei pendono nell'aria
solitaria.
Bianchi i bimbi tra il fogliame,
su su, a quel roseo sorriso
vanno.
Il ceppo occhi di brace
apre, e tace.
Ecco pendulo lo sciame
dal grande albero improvviso,
su su.
Il vecchio nel cor teme,
guarda e geme.
Ogni bimbo al suo fiore alza
la mano e.
.
.
scivola e va.
Sbarra il ceppo la pupilla:
crocchia e brilla.
E il vegliardo, al crocchiar, balza
nella rotta oscurità.
Gira lento gli occhi.
Solo!
solo! solo!
IX
IL LAMPO
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.
X
IL TUONO
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì.
Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.
XI
LONTANA
Cantare, il giorno, ti sentii: felice?
Cantavi; la tua voce era lontana:
lontana come di stornellatrice
per la campagna frondeggiante e piana.
Lontana sì, ma io sentia nel cuore
che quel lontano canto era d'amore:
ma sì lontana, che quel dolce canto,
dentro, nel cuore, mi moriva in pianto.
XII
I CIECHI
Siedono lungo il fosso, al solleone,
fuor dello stormeggiante paesello.
Passa un trotto via via tra il polverone,
una pesta, un alterco, uno stornello:
e da terra una grave salmodia
si leva, una preghiera, al lor cospetto.
- Il nostro pane - gemono via via:
il nostro, il nostro: tu, Gesù, l'hai detto.
XIII
DALLA SPIAGGIA
I
C'è sopra il mare tutto abbonacciato
il tremolare quasi d'una maglia:
in fondo in fondo un ermo colonnato,
nivee colonne d'un candor che abbaglia:
una rovina bianca e solitaria,
là dove azzurra è l'acqua come l'aria:
il mare nella calma dell'estate
ne canta tra le sue larghe sorsate.
II
O bianco tempio che credei vedere
nel chiaro giorno, dove sei vanito?
Due barche stanno immobilmente nere,
due barche in panna in mezzo all'infinito.
E le due barche sembrano due bare
smarrite in mezzo all'infinito mare;
e piano il mare scivola alla riva
e ne sospira nella calma estiva.
XIV
NOTTE DI NEVE
Pace! grida la campana,
ma lontana, fioca.
Là
un marmoreo cimitero
sorge, su cui l'ombra tace:
e ne sfuma al cielo nero
un chiarore ampio e fugace.
Pace! pace! pace! pace!
nella bianca oscurità.
XV
NEVICATA
Nevica: l'aria brulica di bianco;
la terra è bianca; neve sopra neve:
gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco:
cade del bianco con un tonfo lieve.
E le ventate soffiano di schianto
e per le vie mulina la bufera:
passano bimbi: un balbettio di pianto;
passa una madre: passa una preghiera.
XVI
NOTTE DOLOROSA
Si muove il cielo, tacito e lontano:
la terra dorme, e non la vuol destare;
dormono l'acque, i monti, le brughiere.
Ma no, ché sente sospirare il mare,
gemere sente le capanne nere:
v'è dentro un bimbo che non può dormire:
piange; e le stelle passano pian piano.
XVII
NOTTE Dl VENTO
Allora sentii che non c'era,
che non ci sarebbe mai più...
La tenebra vidi più nera,
più lugubre udii la bufera...
uuh...uuuh...uuuh...
Venia come un volo di spetri,
gridando ad ogni émpito più:
un fragile squillo di vetri
seguiva quelli ululi tetri...
uuh...uuuh...uuuh...
Oh! solo nell'ombra che porta
quei gridi...
(chi passa laggiù?)
Ohl solo nell'ombra già morta
per sempre...
(chi batte alla porta?)
uuh...uuuh...uuuh...
XVIII
LA BAIA TRANQUILLA
Getta l'ancora, amor mio:
non un'onda in questa baia.
Quale assiduo sciacquìo
fanno l'acque tra la ghiaia!
Vien dal lido solatìo,
vien di là dalla giuncaia,
lungo vien come un addio,
un cantar di marinaia.
Tra le vetrici e gli ontani
vedi un fiume luccicare;
uno stormo di gabbiani
nel turchino biancheggiare;
e sul poggio, più lontani,
i cipressi neri stare.
Mare ! mare!
dolce là, dal poggio azzurro,
il tuo urlo e il tuo sussurro.
IL BACIO DEL MORTO
I
È tacito, è grigio il mattino;
la terra ha un odore di funghi;
di gocciole è pieno il giardino.
Immobili tra la leggiera
caligine gli alberi: lunghi
lamenti di vaporïera.
I solchi ho nel cuore, i sussulti,
d'un pianto sognato: parole,
sospiri avanzati ai singulti:
un solco sul labbro, che duole.
II
Chi sei, che venisti, coi lieti
tuoi passi, da me nella notte?
Non so; non ricordo: piangevi.
Piangevi: io sentii per il viso
mio piangere fredde, dirotte,
le stille dall'occhio tuo fiso
su me: io sentii che accostavi
le labbra al mio labbro a baciarmi;
e invano volli io levar gravi
le palpebre: gravi: due marmi.
III
Chi sei? donde vieni? presente
tuttora? mi vedi? mi sai?
e lacrimi tacitamente ?
Chi sei ? Trema ancora la porta.
Certo eri di quelli che amai,
ma forse non so che sei morta.
.
.
Né so come un'ombra d'arcano,
tra l'umida nebbia leggiera,
io senta in quel lungo lontano
saluto di vaporiera.
LA NOTTE DEI MORTI
I
La casa è serrata; ma desta:
ne fuma alla luna il camino.
Non filano o torcono: è festa.
Scoppietta il castagno, il paiolo
borbotta.
Sul desco c'è il vino,
cui spilla il capoccio da solo.
In tanto essi pregano al lume
del fuoco: via via la corteccia
schizza arida...
Mormora il fiume
con rotto fragore di breccia...
II
È forse (io non odo: non sento
che il fiume passare, portare
quel murmure al mare) d'un lento
vegliardo la tremula voce
che intuona il rosario, e che pare
che venga da sotto una croce,
da sotto un gran peso; da lunge
Quei poveri vecchi bisbigli
sonora una romba raggiunge
col trillo dei figli de' figli.
III
Oh! i morti! Pregarono anch'essi,
la notte dei morti, per quelli
che tacciono sotto i cipressi.
Passarono...
O cupo tinnito
di squille dagli ermi castelli!
o fiume dall'inno infinito!
Passarono...
Sopra la luna
che tacita sembra che chiami,
io vedo passare un velo, una
breve ombra, ma bianca, di sciami.
I DUE CUGINI
I
Si amavano i bimbi cugini
Pareva, un incontro di loro,
l' incontro di due lucherini:
volavano.
Nell' abbracciarsi
i tòcchi cadevano, e l'oro
mescevano i riccioli sparsi.
Poi l'uno appassì come rosa
che in boccio appassisce nell'orto;
ma l'altra la piccola sposa
rimase del piccolo morto.
II
Tu piccola sposa, crescesti:
man mano intrecciavi i capelli,
man mano allungavi le vesti.
Crescevi sott'occhi che negano
ancora; ed i petali snelli
cadevano: il fiore già lega.
Ma l'altro non crebbe.
Dal mite
suo cuore, ora, senza perché,
fioriscono le margherite
e i non ti scordare di me.
III
Ma tu .
.
.
ma tu l'ami.
Lo vedi,
lo chiami.
La senti da lunge
la fretta dei taciti piedi .
.
.
Tu l'ami, egli t'ama tuttora;
ma egli col capo non giunge
al seno tuo nuovo, che ignora.
Egli esita: avanti la pura
tua fronte ricinta d'un nimbo,
piangendo l'antica sventura
tentenna il suo capo di bimbo.
PLACIDO
I
Io dissi a quel vecchio, «Dove?» Io
cercava un fanciullo mio buono,
smarrito: il mio Placido: mio!
Cercavo quelli occhi (...
un cipresso?)
co' quali chiedeva perdono
di vivere, d'esserci anch'esso.
Cercavo.
Ero giunto.
Era quello
per certo il paese azzurrino
suo: monti, una selva, un castello,
poi monti: più su, San Marino.
Il
Nel chiuso (...
una croce?) noi soli
tre s'era: non c'era altro fiore
che l'oro di due girasoli.
Nel chiuso non c'era altra voce,
rammento, che il cupo stridore
d'un fuco ronzante a una croce;
e qualche fruscio di virgulto
al passo del vecchio, che aveva
le chiavi; e d'un tratto, un singulto
di lei: di Maria, che piangeva.
III
E in fine, guardandosi attorno,
«Qui» disse quell'uomo.
A Sogliano
la torre sonò mezzogiorno.
Stridevano gli usci, i camini
fumavano tutti: lontano
s'udiva un vocio di bambini.
E lui? «Qui» mi disse: «non vede?»
Io vidi: tra il grigio becchino
e noi, vidi un nero, al mio piede,
di terra ah! scavata il mattino!
TRAMONTI
I
LA SIRENA
La sera, fra il sussurrìo lento
dell'acqua che succhia la rena,
dal mare nebbioso un lamento
si leva: il tuo canto, o Sirena.
E sembra che salga, che salga,
poi rompa in un gemito grave.
E l'onda sospira tra l'alga,
e passa una larva di nave:
un'ombra di nave che sfuma
nel grigio, ove muore quel grido;
che porta con sé, nella bruma,
dei cuori che tornano al lido:
al lido che fugge, che scese
già nella caligine, via;
che porta via tutto, le chiese
che suonano l'avemaria,
le case che su per la balza
nel grigio traspaiono appena,
e l'ombra del fumo che s'alza
tra forse il brusìo della cena.
II
PIANO E MONTE
Il disco, grandissimo, pende
rossastro in un latte d'opale:
e intaglia le case ed accende
i lecci nel nero viale;
che fumano, come foreste,
di polvere gialla e vermiglia:
s'annuvola in rosa e celeste
quel botro color di conchiglia.
Qua lampi di vetri, qua lente
cantate, qua grida confuse:
là placido il muto orïente
nell'ombra dei monti si chiuse.
Si vedono opache le vette,
è pace e silenzio tra i monti:
un breve squittir di civette,
un murmure lungo di fonti:
via via con fragore interrotto
si serra la casa tranquilla:
è chiusa: nel bianco salotto
la tacita lampada brilla.
IL CUORE DEL CIPRESSO
I
O cipresso, che solo e nero stacchi
dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto
irto ,di cardi e stridulo di biacchi:
in te sovente, al tempo delle more,
odono i bimbi un pispillìo secreto,
come d'un nido che ti sogni in cuore.
L'ultima cova.
Tu canti sommesso
mentre s'allunga l'ombra taciturna
nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,
ella ricerchi tra que' bronchi un'urna.
II
Più brevi i giorni, e l'ombra ogni dì meno
s'indugia e cerca, irrequieta, al sole;
e il sole è freddo e pallido il sereno.
L'ombra, ogni sera prima, entra nell'ombra:
nell'ombra ove le stelle errano sole.
E il rovo arrossa e con le spine ingombra
tutti i sentieri, e cadono già roggie
le foglie intorno (indifferente oscilla
l'ermo cipresso), e già le prime pioggie
fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.
III
E il tuo nido? il tuo nido?...
Ulula forte
il vento e t'urta e ti percuote a lungo:
tu sorgi, e resti; simile alla Morte.
E il tuo cuore? il tuo cuore?...
Orrida trebbia
l'acqua i miei vetri, e là ti vedo lungo,
di nebbia nera tra la grigia nebbia.
E il tuo sogno? La terra ecco scompare:
la neve, muta a guisa del pensiero,
cade.
Tra il bianco e tacito franare
tu stai, gigante immobilmente nero.
ALBERI E FIORI
I
FIOR D'ACANTO
a Egisto Cecchi
Fiore di carta rigida, dentato
petali di fini aghi, che snello
sorgi dal cespo, come un serpe alato
da un capitello;
fiore che ringhi dai diritti scapi
con bocche tue di piccoli ippogrifi;
fior del Poeta! industrïa te d'api
schifa, e tu schifi.
L'ape te sdegna, piccola e regale;
ma spesso io vidi l'ape legnaiola
celare il corpo che riluce, quale
nera viola,
dentro il tuo duro calice, e rapirti
non so che buono, che da te pur viene
come le viti di tra i sassi e i mirti
di tra l'arene.
Lo sa la figlia del pastor, che vuoto
un legno fende e lieta pasce quanto
miele le giova: il tuo nettare ignoto,
fiore d'acanto.
II
NEL GIARDINO
Nel mio giardino, là nel canto oscuro
dove ora il pettirosso tintinnìa
col gelsomino rampicante al muro,
c'è la gaggìa;
e or che ottobre dentro la vermiglia
foresta il marzo rende morto al suolo,
e sembra marzo, come rassomiglia
bacca a bocciuolo,
alba a tramonto; nelle tenui trine
l'una si stringe, al roseo vespro, quando
l'altro i suoi fiori, candide stelline,
apre, alitando;
ed al sospiro dell'avemaria,
quando nel bosco dalle cime nude
il dì s'esala, il cuore in una pia
ombra si chiude;
e l'anima in quell'ombra di ricordi
apre corolle che imbocciar non vide;
e l'ombra di fior d'angelo e di fior di
spina sorride.
III
NEL PARCO
a Mario Racah
Certo il signore, e la chiomata moglie,
partì pe' campi, ché già il tordo zirla:
muto, tra un'ampia musica di foglie
(dolce sentirla
d'autunno, a tarda notte, se il libeccio
soffia con lunghi fremiti sonori),
muto è il palazzo.
S'ode un cicaleccio
di tra gli allori ;
un cicaleccio donde acuti appelli
s'alzano come strilli di piviere:
il gatto è fuori: ruzzano i monelli
del giardiniere.
Torvo, aggrondato, il candido palazzo
formicolare a' piedi suoi li mira;
e sì n'echeggia un cupo, a quel rombazzo,
battito d'ira;
ma non s'adira il giovinetto alloro,
il leccio, il pioppo tremulo ed il lento
salice: a prova corrono con loro;
cantano al vento.
IV
ROSA DI MACCHIA
Rosa di macchia, che dall'irta rama
ridi non vista a quella montanina,
che stornellando passa e che ti chiama
rosa canina;
se sottil mano i fiori tuoi non coglie,
non ti dolere della tua fortuna:
le invidïate rose centofoglie
colgano a una
a una: al freddo sibilar del vento
che l'arse foglie a una a una stacca,
irto il rosaio dondolerà lento
senza una bacca;
ma tu di bacche brillerai nel lutto
del grigio inverno; al rifiorir dell'anno
i fiori nuovi a qualche vizzo frutto
sorrideranno:
e te, col tempo, stupirà cresciuta
quella che all'alba svolta già leggiera
col suo stornello, e risalirà muta,
forse, una sera.
V
PERVINCA
So perché sempre ad un pensier di cielo
misterïoso il tuo pensier s'avvinca,
sì come stelo tu confondi a stelo,
vinca pervinca;
io ti coglieva sotto i vecchi tronchi
nella foresta d'un convento oscura,
o presso l'arche
...
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