MYRICAE, di Giovanni Pascoli - pagina 5
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su l'orlo dell'ombra lontano,
lontano, lontano, lontano.
La via fatta, il trascorso dolore,
m'accenna col tacito dito:
improvvisa, con lieve stridore,
discende al silenzio infinito.
II
SORELLA
a Maria
la mesta sorella o più figlia:
ella dolce ella grave ella pia,
corregge conforta consiglia.
A lui preme i capelli, l'abbraccia
pensoso, gli dice, Che hai?
a lui cela sul petto la faccia
confusa, gli dice, Non sai?
Ella serba nel pallido viso,
negli occhi che sfuggono intorno,
ah! per quando egli parte il sorriso,
le lagrime per il ritorno.
Per l'assente la madia che odora,
serbò la vivanda più buona;
col bacio che sa, ma perdona.
Ella cuce: nell'ombra romita
non s'ode che l'ago e l'anello;
ecco, l'ago fra le agili dita
Ella prega: un lungo alito d'ave-
marie con un murmure lene...
ella prega; ed un'eco soave
ripete, Sia buono, stia bene!
III
X AGOSTO
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.
Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
IV
L'ANELLO
Nella mano sua benedicente
l'anello brillava lontano.
Egli alzò quella mano, morente:
di caldo s'empì quella mano..
O mio padre, di sangue! L'anello
lo tenne sul cuore mia madre...
O mia madre! Poi l'ebbe il fratello
mio grande...
o mio piccolo padre!
Nel suo gracile dito il tesoro
raggiò di benedizïone.
Una macchia avea preso quell'oro,
di ruggine, presso il castone...
O mio padre, di sangue! Una sera,
la macchia volevi lavare,
o fratello? che pianto fu ! t'era
caduto l'anello nel mare.
E nel mare è rimasto; nel fondo
del mare che grave sospira;
una stella dal cielo profondo
nel mare profondo lo mira.
Quella macchia ! S'adopra a lavarla
il mare infinito; ma in vano.
E la stella che vede, ne parla
al cielo infinito; ah! in vano.
V
AGONIA DI MADRE
Muore.
Sfugge alla morta pupilla
già il bimbo che geme al suo piede:
ode un suono lontano di squilla:
son due .
.
.
gli occhi, grave, apre: vede.
Uno piange, ma l'altro sorride
d'un bianco sorriso di cieco.
Ella guarda, ella pensa: lo vide
così: quando? e ha come l'eco
d'un gran pianto nel cuore, la traccia
di lagrime morte negli occhi.
Ah! ricordano un peso le braccia,
ricordano un peso i ginocchi,
grave.
Due sono i bimbi: uno piange;
ma dorme il più piccolo ancora:
ella versa dal cuor che si frange,
le lagrime d'ora e d'allora.
- Dormi, o angelo - o angelo, déstati,
destati - mormora il cuore.
Tra la culla e una bara s'arresta
la mano sua, rigida.
Muore.
Il suo primo, il suo morto è sparito
piange l'altro; ella n'ode il vagito
col bianco stupore di cieca.
VI
LAPIDE
Dietro spighe di tasso barbasso,
tra un rovo, onde un passero frulla
improvviso, si legge in un sasso:
QUI DORME PIA GIGLI FANCIULLA.
Radicchiella dall'occhio celeste,
dianto di porpora, sai,
sai, vilucchio, di Pia? la vedeste,
libellule tremule, mai ?
Ella dorme.
Da quando raccoglie
nel cuore il soave oblio? Quante
oh! le nubi passate, le foglie
cadute, le lagrime piante;
quanto, o Pia, si morì da che dormi
tu! Pura di vite create
a morire, tu, vergine, dormi,
le mani sul petto incrociate.
Dormi, vergine, in pace: il tuo lene
respiro nell'aria lo sento
assonare al ronzio delle andrene,
coi brividi brevi del vento.
Lascia argentei il cardo al leggiero
tuo alito i pappi suoi come
il morente alla morte un pensiero,
vago, ultimo: l'ombra d'un nome.
IDA E MARIA
O mani d'oro, le cui tenui dita
menano i tenui fili ad escir fiori
dal bianco bisso, e sì, che la fiorita
sembra che odori;
o mani d'oro, che leggiere andando,
rigasi il lin, miracolo a vederlo,
qual seccia arata nell'autunno, quando
chioccola il merlo;
o mani d'oro, di cui l'opra alterna
sommessamente suona senza posa,
mentre vi mira bionde la lucerna
silenzïosa:
or m'apprestate quel che già chiedevo
funebre panno, o tenui mani d'oro,
però che i morti chiamano e ch'io devo
esser con loro.
Ma non sia raso stridulo, non sia
puro amïanto; sia di que' sinceri
teli, onde grevi a voi lasciò la pia
madre i forzieri;
teli, a cui molte calcole sonare
udì San Mauro e molte alate spole:
un canto a tratti n'emergea di chiare,
lente parole:
teli, che a notte biancheggiar sul fieno
vidi con occhio credulo d'incanti,
ne' prati al plenilunio sereno
riscintillanti .
IN CAMPAGNA
I
IL VECCHIO DEI CAMPI
il bianco vecchio dalla faccia austera,
che si ricorda, solo ormai, del ponte,
quando non c'era.
Racconta al sole (i buoi fumidi stanno,
fissando immoti la sua lenta fola)
come far sacca si dové, quell'anno,
delle lenzuola.
Racconta al fuoco (sfrigola bel bello
un ciocco d'olmo in tanto che ragiona),
come a far erba uscisse con Rondello
Buovo d'Antona.
II
NELLA MACCHIA
Errai nell'oblio della valle
tra ciuffi di stipe fiorite,
tra quercie rigonfie di galle;
errai nella macchia più sola,
per dove tra foglie marcite
spuntava l'azzurra vïola;
errai per i botri solinghi:
la cincia vedeva dai pini:
sbuffava i suoi piccoli ringhi
argentini.
Io siedo invisibile e solo
tra monti e foreste: la sera
non freme d'un grido, d'un volo.
Io siedo invisibile e fosco;
ma un cantico di capinera
si leva dal tacito bosco.
E il cantico all'ombre segrete
per dove invisibile io siedo,
con voce di flauto ripete,
Io ti vedo!
III
Al rio sottile, di tra vaghe brume,
guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano
che fugge, a un mare sempre più lontano
migrano l'acque d'un ceruleo fiume;
ingigantisce agli occhi suoi, nel lume
pulverulento, il salice e l'ontano;
svaria su l'erbe un gregge a mano a mano,
e par la mandra dell'antico nume:
ampie ali aprono imagini grifagne
nell'aria; vanno tacite chimere,
simili a nubi, per il ciel profondo;
il sole immenso, dietro le montagne
cala, altissime: crescono già, nere,
l'ombre più grandi d'un più grande mondo.
IV
LA DOMENICA DELL'ULIVO
Hanno compiuto in questo dì gli uccelli
il nido (oggi è la festa dell'ulivo)
di foglie secche, radiche, fuscelli;
quel sul cipresso, questo su l'alloro,
al bosco, lungo il chioccolo d'un rivo,
nell'ombra mossa d'un tremolìo d'oro.
E covano sul musco e sul lichene
fissando muti il cielo cristallino,
con improvvisi palpiti, se viene
un ronzio d'ape, un vol di maggiolino.
V
VESPRO
Dal cielo roseo pullula una stella.
Una campana parla della cosa
col suo grave dan dan dalla badia;
onde tra i pioppi tinti in color rosa
suona un continuo scalpicciar per via:
passa una lunga e muta compagnia
con fasci di trifoglio e lupinella.
Una fanciulla cuce ed accompagna,
cantarellando, dalla nera altana,
un canto che s'alzò dalla campagna,
quando nel cielo tacque la campana:
s'alzò da un olmo solo in una piana,
da un olmo nero che da sé stornella.
VI
CANZONE D 'APRILE
Fantasma tu giungi,
tu parti mistero.
Venisti, o di lungi?
ché lega già il pero,
fiorisce il cotogno
laggiù.
Di cincie e fringuelli
risuona la ripa.
Sei tu tra gli ornelli,
sei tu tra la stipa?
Ombra! anima! sogno!
sei tu .
.
.
?
Ogni anno a te grido
con palpito nuovo.
Tu giungi: sorrido;
tu parti: mi trovo
due lagrime amare
di più.
Quest'anno .
.
.
oh! quest'anno,
la gioia vien teco:
già l'odo, o m'inganno,
quell'eco dell'eco;
già t'odo cantare
Cu .
.
.
cu.
VII
Odoravano i fior di vitalba
per via, le ginestre nel greto;
alïavano prima dell'alba
le rondini nell'uliveto.
Alïavano mute con volo
nero, agile, di pipistrello;
e tuttora gemea l'assïolo,
che già spincionava il fringuello.
Tra i pinastri era l'alba che i rivi
mirava discendere giù:
guizzò un raggio, soffio su gli ulivi;
virb...
disse una rondine; e fu
giorno: un giorno di pace e lavoro,
che l'uomo mieteva il suo grano,
e per tutto nel cielo sonoro
saliva un cantare lontano.
VIII
Ho nell'orecchio un turbinìo di squilli,
IX
IL PASSERO SOLITARIO
passero solitario,
tenti la tua tastiera,
come nel santuario
monaca prigioniera
l'organo, a fior di dita;
che pallida, fugace,
stupì tre note, chiuse
nell'organo, tre sole,
in un istante effuse,
tre come tre parole
ch'ella ha sepolte, in pace.
Da un ermo santuario
che sa di morto incenso
nelle grandi arche vuote,
di tra un silenzio immenso
mandi le tue tre note,
spirito solitario.
X
STOPPIA
Dov'è, campo, il brusìo della maretta
quando rabbrividivi ai libeccioli?
Ti resta qualche fior d'erba cornetta,
i fioralisi, i rosolacci soli.
E nel silenzio del mattino azzurro
cercano in vano il solito sussurro;
mentre nell'aia, là, del contadino
trebbiano nel silenzio del mattino.
Dov'è, campo, il tuo mare ampio e tranquillo,
col tenue vel di reste, ai pleniluni?
Pei nudi solchi trilla trilla il grillo,
lucciole vanno per i solchi bruni.
E nella sera, con ansar di lampo,
cercano il grano nel deserto campo;
mentre tuttora, là, dalla riviera
romba il mulino nella dolce sera.
XI
L'ASSIUOLO
notava in un'alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù .
.
.
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com'eco d'un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù .
.
.
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d'argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s'aprono più? .
.
.);
e c'era quel pianto di morte.
.
.
chiù .
.
.
XII
TEMPORALE
Un bubbolìo lontano.
.
.
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un'ala di gabbiano.
XIII
DOPO L'ACQUAZZONE
Passò strosciando e sibilando il nero
nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,
luccica; un fresco odor dal cimitero
viene, di bosso.
Presso la chiesa; mentre la sua voce
tintinna, canta, a onde lunghe romba;
ruzza uno stuolo, ed alla grande croce
tornano a bomba.
Un vel di pioggia vela l'orizzonte;
ma il cimitero, sotto il ciel sereno,
placido olezza: va da monte a monte
l'arcobaleno.
XIV
il sole si mostrava a finestrelle.
poi si nascose; e piovve a catinelle.
Poi tra il cantare delle raganelle
guizzò sui campi un raggio lungo e giallo.
Stupìano i rondinotti dell'estate
di quel sottile scendere di spille:
era un brusìo con languide sorsate
e chiazze larghe e picchi a mille a mille;
XV
Lungo la strada vedi su la siepe
ridere a mazzi le vermiglie bacche:
nei campi arati tornano al presepe
tarde le vacche.
Vien per la strada un povero che il lento
passo tra foglie stridule trascina:
nei campi intuona una fanciulla al vento:
Fiore di spina! .
.
.
XVI
ULTIMO CANTO
Solo quel campo, dove io volga lento
l'occhio, biondeggia di pannocchie ancora,
e il solicello vi si trascolora.
Fragile passa fra' cartocci il vento:
uno stormo di passeri s'invola:
nel cielo è un gran pallore di viola.
Canta una sfogliatrice a piena gola:
Amor comincia con canti e con suoni
e poi finisce con lacrime al cuore.
XVII
IL PICCOLO BUCATO
Come tetra la sizza che combatte
gli alberi brulli e fa schioccar le rame
secche, e sottile fischia tra le fratte !
Sur una fratta (o forse è un biancor d'ale ?)
un corredino ride in quel marame:
fascie, bavagli, un piccolo guanciale.
Ad ogni soffio del rovaio, che romba,
le fascie si disvincolano lente;
e da un tugurio triste come tomba
giunge una nenia, lunga, pazïente.
XVIII
NOVEMBRE
Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile.
È l'estate,
fredda, dei morti.
PRIMAVERA
I
IL FIUME
Fiume che là specchiasti un casolare
co' suoi rossi garofani, qua mura
d'erme castella, e tremula verzura;
eccoti giunto al fragoroso mare:
ed ecco i flutti verso te balzare
su dall'interminabile pianura,
in larghe file; e nella riva oscura
questa si frange, e in quella in alto appare;
tituba e croscia.
E là, donde tu lieto,
di sasso in sasso, al piè d'una betulla,
sgorghi sonoro tra le brevi sponde;
a un po' d'auretta scricchiola il canneto,
fruscia il castagno, e forse una fanciulla
sogna a quell'ombre, al mormorìo dell'onde.
II
LO STORNELLO
- Sospira e piange, e bagna le lenzuola
la bella figlia, quando rifà il letto,-
tale alcuno comincia un suo rispetto:
trema nell'aurea notte ogni parola;
e sfiora i bossi, quasi arguta spola,
l'aura con un bruire esile e schietto:
- e si rimira il suo candido petto,
e le rincresce avere a dormir sola.-
Solo, là dalla siepe, è il casolare;
nel casolare sta la bianca figlia;
la bianca figlia il puro ciel rimira.
Lo vuole, a stella a stella, essa contare;
ma il ciel cammina, e la brezza bisbiglia,
e quegli canta, e il cuor piange e sospira.
III
LA PIEVE
Giorno d'arrivi il tuo, san Benedetto:
ecco una prima rondine che svola.
E trova i pioppi nella valle sola,
la grande pieve, il nido piccoletto.
Razzano i vetri; l'occhio del coretto
nereggia sotto un ciuffo di vïola:
ecco la cigolante banderuola,
gli embrici roggi del loquace tetto.
E di saluti sonano le gronde
e il chiuso, dove il cielo è vaporato
da un rosseggiar di peschi e d'albicocchi.
E la rondine stridula risponde
alïando con lievi ombre: sul prato
le segue un cane co' fuggevoli occhi.
IV
IN CHIESA
Sciama con un ronzio d'api la gente
dalla chiesetta in sul colle selvaggio;
e per la sera limpida di maggio
vanno le donne, a schiera, lente lente;
e passano tra l'alta erba stridente,
e pare una fiorita il lor passaggio:
le attende a valle tacito il villaggio
con le capanne chiuse e sonnolente.
Ma la chiesetta ancor nell'alto svaria
tra le betulle, e il tetto d'un intenso
rossor sfavilla nel silenzio alpestre.
Il rombo delle pie laudi nell'aria
palpita ancora; un lieve odor d'incenso
sperdesi tra le mente e le ginestre.
GERMOGLIO
La scabra vite che il lichene ingromma
come di gialla ruggine, germoglia:
spuntar vidi una, lucida di gomma,
piccola foglia.
Al sol che brilla in mezzo a gli umidicci
solchi anche l'olmo screpolato muove:
medita, il vecchio, rame, pei viticci
nuovi, pur nuove:
cui tremolando cercano coi lenti
viticci i tralci a foglie color rame,
mentre su loro tremolano ai venti
anche le rame.
Da qual profonda cavità m'ha scosso
il canto dell'aereo cuculo?
fiorisce a spiga per le prode il rosso
pandicuculo?
o una lieve traccia di vïole?
dove si vede il grappolo d'argento
splendere al sole?
grappolo verde e pendulo, che invaia
alle prime acque fumide d'agosto,
quando il villano sente sopra l'aia
piovere mosto:
mosto che cupo brontola e tra nere
ombre sospira e canta San Martino,
allor che singultando nel bicchiere
sdrucciola vino;
vino che rosso avanti il focolare
brilla, al fischiare della tramontana,
che giunge come un fragoroso mare
e s'allontana
simile a sogno: quando su le strade
volano foglie cui persegue il cuore
simili a sogno; quando tutto cade,
stingesi, e muore.
Muore? Anche un sogno, che sognai! Germoglia
la scabra vite che il lichene ingromma:
spunta da un nodo una lanosa foglia
molle di gomma.
DOLCEZZE
I
BENEDIZIONE
E' la sera: piano piano
passa il prete pazïente,
salutando della mano
ciò che vede e ciò che sente.
Tutti e tutto il buon piovano
benedice santamente;
anche il loglio, là, nel grano;
qua, ne' fiori, anche il serpente.
Ogni ramo, ogni uccellino
sì del bosco e sì del tetto,
nel passare ha benedetto;
anche il falco, anche il falchetto
nero in mezzo al ciel turchino,
anche il corvo, anche il becchino,
poverino,
che lassù nel cimitero
raspa raspa il giorno intiero.
II
CON GLI ANGIOLI
Erano in fiore i lilla e l'ulivelle;
ella cuciva l'abito di sposa:
né l'aria ancora aprìa bocci di stelle,
né s'era chiusa foglia di mimosa;
quand'ella rise; rise, o rondinelle
nere, improvvisa: ma con chi? di cosa?
rise, così, con gli angioli; con quelle
nuvole d'oro, nuvole di rosa.
III
IL MENDICO
Presso il rudere un pezzente
cena tra le due fontane:
pane alterna egli col pane,
volti gli occhi all'occidente.
Fa un incanto nella mente:
carne è fatto, ecco, l'un pane.
Tra il gracchiare delle rane
sciala il mago sapïente.
Sorge e beve alle due fonti:
chiara beve acqua nell'una,
ma nell'altra un dolce vino.
Giace e guarda: sopra i monti
sparge il lume della luna;
getta l'arti al ciel turchino,
baldacchino
di mirabile lavoro,
ch'ei trapunta a stelle d'oro.
IV
MARE
M'affaccio alla finestra, e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l'onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l'acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d'argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?
V
A NANNA
Come un rombo d'arnia suona
tra il cricchiar della mortella.
Nonna, è detta la corona:
nonna, or dì la tua novella.
Ella dice, ell'è pur buona,
la più lunga, la più bella:
- Sola (o Dio: bubbola e tuona!)
sola va la reginella.
Ecco un lume, una stellina,
ma lontanamente, appare.
Via, conviene andare andare.
Va e va.- Ma ciondolare
già comincia una testina;
due sonnecchiano; cammina
che cammina,
e le son tutte arrivate:
sono in collo delle fate.
VI
IL PICCOLO ARATORE
Scrive.
.
.
(la nonna ammira): ara bel bello,
guida l'aratro con la mano lenta;
semina col suo piccolo marrello:
il campo è bianco, nera la sementa.
D'inverno egli ara: la sementa nera
d'inverno spunta, sfronza a primavera;
fiorisce, ed ecco il primo tuon di Marzo
rotola in aria, e il serpe esce dal balzo.
VII
IL PICCOLO MIETITORE
Legge .
.
.
(la nonna ammira): ecco il campetto
bianco di grano nero in lunghe righe:
esso tutt'occhi, con il suo falsetto
a una a una miete quelle spighe;
miete, e le spighe restano pur quelle;
miete e lega coi denti le mannelle;
e le mannelle di tra i denti suoi
parlano .
.
.
come noi, meglio di noi.
VIII
NOTTE
Siedon fanciulle ad arcolai ronzanti,
e la lucerna i biondi capi indora:
i biondi capi, i neri occhi stellanti,
volgono alla finestra ad ora ad ora:
attendon esse a cavalieri erranti
che varcano la tenebra sonora?
Parlan d'amor, di cortesie, d'incanti:
così parlando aspettano l'aurora.
TRISTEZZE
I
PAESE NOTTURNO
Capanne e stolli ed alberi alla luna
sono, od un tempio dell'antico Anubi,
fosca rovina? Stampano una bruna
orma le nubi
su la campagna, e più profonda e piena
la notte preme le macerie strane,
chiuse allo sguardo, dove alla catena
uggiola un cane.
Ecco la falce d'oro all'orizzonte:
due nere guglie a man a man dipinge,
indi non so che candido.
Una fronte
bianca di sfinge?
II
RAMMARICO
Chi questo nuovo pianto in cuor mi pone ?
Verso occidente, o dolce madre Aurora,
da te lontano la mia vita è corsa.
Il cielo s'alza e tutto trascolora;
passano stelle e stelle in lenta corsa;
emerge dall'azzurro la grand'Orsa,
e sta nell'arme fulgido Orïone.
Come più lieta la tua vista, quando
un poco accenni delle rosee dita;
e la greggia s'avvia scampanellando,
esce il bifolco e rauco i bovi incìta,
Canta lassù la lodola - apparita
ecco Giulietta, e piange, al suo balcone!-
III
Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa.
Nulla era mutato
Stanco tornavo, come da un vïaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.
Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un'angoscia muta.
- Mamma?-È là che ti scalda un po' di cena-
Povera mamma! e lei, non l'ho veduta.
IV
brulli in questa giornata sementina:
e pigra ancor la nebbia mattutina
sfuma dorata intorno ogni sarmento.
Gia vi schiudea le gemme questo vento
che queste foglie gialle ora mulina;
e io che al tempo allor gridai, Cammina,
ora gocciare il pianto in cuor mi sento.
Ora, le nevi inerti sopra i monti,
e le squallide pioggie, e le lunghe ire
del rovaio che a notte urta le porte,
e i brevi dì che paiono tramonti.
infiniti, e il vanire e lo sfiorire,
e i crisantemi, il fiore della morte.
V
LA SIEPE
Qualche bacca sui nudi ramicelli
del biancospino trema nel viale
gelido: il suol rintrona, andando, quale
per tardi passi il marmo degli avelli.
Le pasce il piccol re, re degli uccelli
ed altra gente piccola e vocale.
S'odono a sera lievi frulli d'ale,
via, quando giunge un volo di monelli.
Anch'io; ricordo, ma passò stagione;
quelle bacche a gli uccelli della frasca
invidiavo, e le purpuree more;
e l'ala, i cieli, i boschi, la canzone:
i boschi antichi, ove una foglia casca,
muta, per ogni battito di cuore.
VI
IL NIDO
Dal selvaggio rosaio scheletrito
ne prorompeva empiendo la riviera
il cinguettio del garrulo convito!
Or v'è sola una piuma, che all'invito
del vento esita, palpita leggiera;
qual sogno antico in anima severa,
fuggente sempre e non ancor fuggito:
e già l'occhio dal cielo ora si toglie;
dal cielo dove un ultimo concento
salì raggiando e dileguò nell'aria;
e si figge alla terra, in cui le foglie
putride stanno, mentre a onde il vento
piange nella campagna solitaria.
VII
IL PONTE
La glauca luna lista l'orizzonte
scopre i campi nella notte occulti
e il fiume errante.
In suono di singulti
l'onda si rompe al solitario ponte.
Dove il mar, che lo chiama? e dove il fonte,
ch'esita mormorando tra i virgulti?
il fiume va con lucidi sussulti
al mare ignoto dall'ignoto monte.
Spunta la luna: a lei sorgono intenti
gli alti cipressi dalla spiaggia triste,
movendo insieme come un pio sussurro.
Sostano, biancheggiando, le fluenti
nubi, a lei volte, che salìan non viste
le infinite scalèe del tempio azzurro.
VIII
AL FUOCO
Dorme il vecchio avanti i ciocchi.
Sogna un nuvolo di bimbi,
che cinguetta.
Il ceppo al foco
russa roco.
Dorme anch'esso.
A tutti i nocchi
sogna grappoli e corimbi.
Rosei pendono nell'aria
solitaria.
Bianchi i bimbi tra il fogliame,
su su, a quel roseo sorriso
vanno.
Il ceppo occhi di brace
apre, e tace.
Ecco pendulo lo sciame
dal grande albero improvviso,
su su.
Il vecchio nel cor teme,
guarda e geme.
Ogni bimbo al suo fiore alza
la mano e.
.
.
scivola e va.
Sbarra il ceppo la pupilla:
crocchia e brilla.
E il vegliardo, al crocchiar, balza
nella rotta oscurità.
Gira lento gli occhi.
Solo!
solo! solo!
IX
IL LAMPO
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.
X
IL TUONO
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì.
Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.
XI
LONTANA
Cantare, il giorno, ti sentii: felice?
Cantavi; la tua voce era lontana:
lontana come di stornellatrice
per la campagna frondeggiante e piana.
Lontana sì, ma io sentia nel cuore
che quel lontano canto era d'amore:
ma sì lontana, che quel dolce canto,
dentro, nel cuore, mi moriva in pianto.
XII
I CIECHI
Siedono lungo il fosso, al solleone,
fuor dello stormeggiante paesello.
Passa un trotto via via tra il polverone,
una pesta, un alterco, uno stornello:
e da terra una grave salmodia
si leva, una preghiera, al lor cospetto.
- Il nostro pane - gemono via via:
il nostro, il nostro: tu, Gesù, l'hai detto.
XIII
DALLA SPIAGGIA
I
C'è sopra il mare tutto abbonacciato
il tremolare quasi d'una maglia:
in fondo in fondo un ermo colonnato,
nivee colonne d'un candor che abbaglia:
una rovina bianca e solitaria,
là dove azzurra è l'acqua come l'aria:
il mare nella calma dell'estate
ne canta tra le sue larghe sorsate.
II
O bianco tempio che credei vedere
nel chiaro giorno, dove sei vanito?
Due barche stanno immobilmente nere,
due barche in panna in mezzo all'infinito.
E le due barche sembrano due bare
smarrite in mezzo all'infinito mare;
e piano il mare scivola alla riva
e ne sospira nella calma estiva.
XIV
NOTTE DI NEVE
Pace! grida la campana,
ma lontana, fioca.
Là
un marmoreo cimitero
sorge, su cui l'ombra tace:
e ne sfuma al cielo nero
un chiarore ampio e fugace.
Pace! pace! pace! pace!
nella bianca oscurità.
XV
NEVICATA
Nevica: l'aria brulica di bianco;
la terra è bianca; neve sopra neve:
gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco:
cade del bianco con un tonfo lieve.
E le ventate soffiano di schianto
e per le vie mulina la bufera:
passano bimbi: un balbettio di pianto;
passa una madre: passa una preghiera.
XVI
NOTTE DOLOROSA
Si muove il cielo, tacito e lontano:
la terra dorme, e non la vuol destare;
dormono l'acque, i monti, le brughiere.
Ma no, ché sente sospirare il mare,
gemere sente le capanne nere:
v'è dentro un bimbo che non può dormire:
piange; e le stelle passano pian piano.
XVII
NOTTE Dl VENTO
Allora sentii che non c'era,
che non ci sarebbe mai più...
La tenebra vidi più nera,
più lugubre udii la bufera...
uuh...uuuh...uuuh...
Venia come un volo di spetri,
gridando ad ogni émpito più:
un fragile squillo di vetri
seguiva quelli ululi tetri...
uuh...uuuh...uuuh...
Oh! solo nell'ombra che porta
quei gridi...
(chi passa laggiù?)
Ohl solo nell'ombra già morta
per sempre...
(chi batte alla porta?)
uuh...uuuh...uuuh...
XVIII
LA BAIA TRANQUILLA
Getta l'ancora, amor mio:
non un'onda in questa baia.
Quale assiduo sciacquìo
fanno l'acque tra la ghiaia!
Vien dal lido solatìo,
vien di là dalla giuncaia,
lungo vien come un addio,
un cantar di marinaia.
Tra le vetrici e gli ontani
vedi un fiume luccicare;
uno stormo di gabbiani
nel turchino biancheggiare;
e sul poggio, più lontani,
i cipressi neri stare.
Mare ! mare!
dolce là, dal poggio azzurro,
il tuo urlo e il tuo sussurro.
IL BACIO DEL MORTO
I
È tacito, è grigio il mattino;
la terra ha un odore di funghi;
di gocciole è pieno il giardino.
Immobili tra la leggiera
caligine gli alberi: lunghi
lamenti di vaporïera.
I solchi ho nel cuore, i sussulti,
d'un pianto sognato: parole,
sospiri avanzati ai singulti:
un solco sul labbro, che duole.
II
Chi sei, che venisti, coi lieti
tuoi passi, da me nella notte?
Non so; non ricordo: piangevi.
Piangevi: io sentii per il viso
mio piangere fredde, dirotte,
le stille dall'occhio tuo fiso
su me: io sentii che accostavi
le labbra al mio labbro a baciarmi;
e invano volli io levar gravi
le palpebre: gravi: due marmi.
III
Chi sei? donde vieni? presente
tuttora? mi vedi? mi sai?
e lacrimi tacitamente ?
Chi sei ? Trema ancora la porta.
Certo eri di quelli che amai,
ma forse non so che sei morta.
.
.
Né so come un'ombra d'arcano,
tra l'umida nebbia leggiera,
io senta in quel lungo lontano
saluto di vaporiera.
LA NOTTE DEI MORTI
I
La casa è serrata; ma desta:
ne fuma alla luna il camino.
Non filano o torcono: è festa.
Scoppietta il castagno, il paiolo
borbotta.
Sul desco c'è il vino,
cui spilla il capoccio da solo.
In tanto essi pregano al lume
del fuoco: via via la corteccia
schizza arida...
Mormora il fiume
con rotto fragore di breccia...
II
È forse (io non odo: non sento
che il fiume passare, portare
quel murmure al mare) d'un lento
vegliardo la tremula voce
che intuona il rosario, e che pare
che venga da sotto una croce,
da sotto un gran peso; da lunge
Quei poveri vecchi bisbigli
sonora una romba raggiunge
col trillo dei figli de' figli.
III
Oh! i morti! Pregarono anch'essi,
la notte dei morti, per quelli
che tacciono sotto i cipressi.
Passarono...
O cupo tinnito
di squille dagli ermi castelli!
o fiume dall'inno infinito!
Passarono...
Sopra la luna
che tacita sembra che chiami,
io vedo passare un velo, una
breve ombra, ma bianca, di sciami.
I DUE CUGINI
I
Si amavano i bimbi cugini
Pareva, un incontro di loro,
l' incontro di due lucherini:
volavano.
Nell' abbracciarsi
i tòcchi cadevano, e l'oro
mescevano i riccioli sparsi.
Poi l'uno appassì come rosa
che in boccio appassisce nell'orto;
ma l'altra la piccola sposa
rimase del piccolo morto.
II
Tu piccola sposa, crescesti:
man mano intrecciavi i capelli,
man mano allungavi le vesti.
Crescevi sott'occhi che negano
ancora; ed i petali snelli
cadevano: il fiore già lega.
Ma l'altro non crebbe.
Dal mite
suo cuore, ora, senza perché,
fioriscono le margherite
e i non ti scordare di me.
III
Ma tu .
.
.
ma tu l'ami.
Lo vedi,
lo chiami.
La senti da lunge
la fretta dei taciti piedi .
.
.
Tu l'ami, egli t'ama tuttora;
ma egli col capo non giunge
al seno tuo nuovo, che ignora.
Egli esita: avanti la pura
tua fronte ricinta d'un nimbo,
piangendo l'antica sventura
tentenna il suo capo di bimbo.
PLACIDO
I
Io dissi a quel vecchio, «Dove?» Io
cercava un fanciullo mio buono,
smarrito: il mio Placido: mio!
Cercavo quelli occhi (...
un cipresso?)
co' quali chiedeva perdono
di vivere, d'esserci anch'esso.
Cercavo.
Ero giunto.
Era quello
per certo il paese azzurrino
suo: monti, una selva, un castello,
poi monti: più su, San Marino.
Il
Nel chiuso (...
una croce?) noi soli
tre s'era: non c'era altro fiore
che l'oro di due girasoli.
Nel chiuso non c'era altra voce,
rammento, che il cupo stridore
d'un fuco ronzante a una croce;
e qualche fruscio di virgulto
al passo del vecchio, che aveva
le chiavi; e d'un tratto, un singulto
di lei: di Maria, che piangeva.
III
E in fine, guardandosi attorno,
«Qui» disse quell'uomo.
A Sogliano
la torre sonò mezzogiorno.
Stridevano gli usci, i camini
fumavano tutti: lontano
s'udiva un vocio di bambini.
E lui? «Qui» mi disse: «non vede?»
Io vidi: tra il grigio becchino
e noi, vidi un nero, al mio piede,
di terra ah! scavata il mattino!
TRAMONTI
I
LA SIRENA
dell'acqua che succhia la rena,
dal mare nebbioso un lamento
si leva: il tuo canto, o Sirena.
E sembra che salga, che salga,
poi rompa in un gemito grave.
E l'onda sospira tra l'alga,
e passa una larva di nave:
un'ombra di nave che sfuma
nel grigio, ove muore quel grido;
che porta con sé, nella bruma,
dei cuori che tornano al lido:
al lido che fugge, che scese
già nella caligine, via;
che porta via tutto, le chiese
che suonano l'avemaria,
le case che su per la balza
nel grigio traspaiono appena,
e l'ombra del fumo che s'alza
tra forse il brusìo della cena.
II
PIANO E MONTE
Il disco, grandissimo, pende
rossastro in un latte d'opale:
e intaglia le case ed accende
i lecci nel nero viale;
che fumano, come foreste,
di polvere gialla e vermiglia:
s'annuvola in rosa e celeste
quel botro color di conchiglia.
Qua lampi di vetri, qua lente
cantate, qua grida confuse:
là placido il muto orïente
nell'ombra dei monti si chiuse.
Si vedono opache le vette,
è pace e silenzio tra i monti:
un breve squittir di civette,
un murmure lungo di fonti:
via via con fragore interrotto
si serra la casa tranquilla:
è chiusa: nel bianco salotto
la tacita lampada brilla.
IL CUORE DEL CIPRESSO
I
O cipresso, che solo e nero stacchi
dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto
irto ,di cardi e stridulo di biacchi:
in te sovente, al tempo delle more,
odono i bimbi un pispillìo secreto,
come d'un nido che ti sogni in cuore.
L'ultima cova.
Tu canti sommesso
mentre s'allunga l'ombra taciturna
nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,
ella ricerchi tra que' bronchi un'urna.
II
Più brevi i giorni, e l'ombra ogni dì meno
s'indugia e cerca, irrequieta, al sole;
e il sole è freddo e pallido il sereno.
L'ombra, ogni sera prima, entra nell'ombra:
nell'ombra ove le stelle errano sole.
E il rovo arrossa e con le spine ingombra
tutti i sentieri, e cadono già roggie
le foglie intorno (indifferente oscilla
l'ermo cipresso), e già le prime pioggie
fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.
III
E il tuo nido? il tuo nido?...
Ulula forte
il vento e t'urta e ti percuote a lungo:
tu sorgi, e resti; simile alla Morte.
E il tuo cuore? il tuo cuore?...
Orrida trebbia
l'acqua i miei vetri, e là ti vedo lungo,
di nebbia nera tra la grigia nebbia.
E il tuo sogno? La terra ecco scompare:
la neve, muta a guisa del pensiero,
cade.
Tra il bianco e tacito franare
tu stai, gigante immobilmente nero.
ALBERI E FIORI
I
FIOR D'ACANTO
a Egisto Cecchi
Fiore di carta rigida, dentato
petali di fini aghi, che snello
sorgi dal cespo, come un serpe alato
da un capitello;
fiore che ringhi dai diritti scapi
con bocche tue di piccoli ippogrifi;
fior del Poeta! industrïa te d'api
schifa, e tu schifi.
L'ape te sdegna, piccola e regale;
ma spesso io vidi l'ape legnaiola
celare il corpo che riluce, quale
nera viola,
dentro il tuo duro calice, e rapirti
non so che buono, che da te pur viene
come le viti di tra i sassi e i mirti
di tra l'arene.
Lo sa la figlia del pastor, che vuoto
un legno fende e lieta pasce quanto
miele le giova: il tuo nettare ignoto,
fiore d'acanto.
II
NEL GIARDINO
Nel mio giardino, là nel canto oscuro
dove ora il pettirosso tintinnìa
col gelsomino rampicante al muro,
c'è la gaggìa;
e or che ottobre dentro la vermiglia
foresta il marzo rende morto al suolo,
e sembra marzo, come rassomiglia
bacca a bocciuolo,
alba a tramonto; nelle tenui trine
l'una si stringe, al roseo vespro, quando
l'altro i suoi fiori, candide stelline,
apre, alitando;
ed al sospiro dell'avemaria,
quando nel bosco dalle cime nude
il dì s'esala, il cuore in una pia
ombra si chiude;
e l'anima in quell'ombra di ricordi
apre corolle che imbocciar non vide;
e l'ombra di fior d'angelo e di fior di
spina sorride.
III
NEL PARCO
a Mario Racah
Certo il signore, e la chiomata moglie,
partì pe' campi, ché già il tordo zirla:
muto, tra un'ampia musica di foglie
(dolce sentirla
d'autunno, a tarda notte, se il libeccio
soffia con lunghi fremiti sonori),
muto è il palazzo.
S'ode un cicaleccio
di tra gli allori ;
un cicaleccio donde acuti appelli
s'alzano come strilli di piviere:
il gatto è fuori: ruzzano i monelli
del giardiniere.
Torvo, aggrondato, il candido palazzo
formicolare a' piedi suoi li mira;
e sì n'echeggia un cupo, a quel rombazzo,
battito d'ira;
ma non s'adira il giovinetto alloro,
il leccio, il pioppo tremulo ed il lento
salice: a prova corrono con loro;
cantano al vento.
IV
ROSA DI MACCHIA
Rosa di macchia, che dall'irta rama
ridi non vista a quella montanina,
che stornellando passa e che ti chiama
rosa canina;
se sottil mano i fiori tuoi non coglie,
non ti dolere della tua fortuna:
le invidïate rose centofoglie
colgano a una
a una: al freddo sibilar del vento
che l'arse foglie a una a una stacca,
irto il rosaio dondolerà lento
senza una bacca;
ma tu di bacche brillerai nel lutto
del grigio inverno; al rifiorir dell'anno
i fiori nuovi a qualche vizzo frutto
sorrideranno:
e te, col tempo, stupirà cresciuta
quella che all'alba svolta già leggiera
col suo stornello, e risalirà muta,
forse, una sera.
V
PERVINCA
So perché sempre ad un pensier di cielo
misterïoso il tuo pensier s'avvinca,
sì come stelo tu confondi a stelo,
vinca pervinca;
io ti coglieva sotto i vecchi tronchi
nella foresta d'un convento oscura,
o presso l'arche, tra vilucchi e bronchi,
lungo la mura.
Solo tra l'arche errava un cappuccino;
pareva spettro da quell'arche uscito,
bianco la barba e gli occhi d'un turchino
vuoto, infinito;
come il tuo fiore: e io credea vedere
occhi di cielo, dallo sguardo fiso,
più d'anacoreti, allo svoltar, tra nere
ombre, improvviso;
e il bosco alzava, al palpito del vento,
una confusa e morta salmodia,
mentre squillava, grave, dal convento
l'avemaria.
VI
IL DITTAMO
Dittamo nato all'umile finestra,
donde pel Corpusdomini sorrisi
alla soave tra fior di ginestra
e fiordalisi
processïone; io so di te, che immensa
virtù possiedi ne' chiomanti capi,
cespo lanoso ed olezzante, mensa
ricca dell'api.
Te, con la freccia tremolante al dosso,
cerca nei monti il daino selvaggio,
farmaco certo - di lui segue un rosso
rigo il vïaggio -
Dittamo blando per la mia ferita
l'avete, o balze degli aerei monti,
dove nell'alto piange la romita
culla dei fonti ?
Bianche ai dirupi pendono le capre;
l'aquila passa nera e solitaria;
sibila l'erba inaridita; s'apre,
sotto il piè, l'aria.
VII
EDERA FIORITA
ad Ettore Toci
Quando, di maggio, tu le dolci sere
imbalsamavi co' tuoi fiori, ornello
(era un sussurro alle finestre nere
del paesello!);
non ti rincrebbe d'un infermo arbusto
che, mosso anch'egli da dolcezza estiva,
con le sue foglie, come cuori, al fusto
lento saliva.
Non ti rincrebbe.
Ed ora che gelata
la tramontana soffia, e che traspare
già dalle porte chiuse la fiammata
del focolare;
ora che il verno spoglia le foreste
e le tue foglie per le vie disperde;
o vecchio ornello, te ricopre e veste
l'edera verde.
Sui rami nudi i fiori suoi ti pone,
tra verdi e gialli, piccoli, com'era
la tua fiorita morta: illusïone
di primavera.
VIII
VIOLE D'INVERNO
- D'onde, o vecchina, queste vïolette
serene come un lontanar di monti
nel puro occaso ? Poi che il gelo ha strette
tutte le fonti ;
il gelo brucia dalle stelle, o nonna,
ogni foglia, ogni radica, ogni zolla -
- Tiepida, sappi, lungo la Corsonna
geme una polla.
Là noi sciacquiamo il candido bucato
nell'onda calda in mezzo a nevi e brine;
e il poggio è pieno di vïole, e il prato
di pratelline -
Ah! .
.
.
ma, poeta, non ancor nel pio
tuo cuore è l'onda che discioglie il gelo ?
non è la polla, calda nell'oblio
freddo del cielo?
Ché sempre, se ti agghiaccia la sventura,
se l'odio altrui ti spoglia e ti desola,
spunta, al tepor dell'anima tua pura,
qualche vïola.
IX
IL CASTAGNO
a Francesco Pellegrini
I
Quando sfioriva e rinverdiva il melo,
quando s'apriva il fiore del cotogno,
il greppo, azzurro, somigliava un cielo
visto nel sogno;
brullo io te vidi; e già per ogni ripa
erano colte tutte le vïole,
e tu lasciavi ai cesti ed alla stipa
tutto il tuo sole;
e, pio castagno, i rami dalla bruma
ancora appena e dal nevischio vivi,
a mano a mano d'una lieve spuma
verde coprivi.
Ma poi, vedendo sotto il fascio greve
le montanine tergersi la fronte,
tu che le sai da quando per la neve
scendono il monte,
ecco, pietoso tu di lor, tessesti
lungo i torrenti, all'orlo dei burroni,
una fredda ombra, che gemé di mesti
cannareccioni.
II
E qualche cosa già nell'aspro cardo
chiuso ascondevi, come l'avo buono
che nell'irsuta mano cela un tardo
facile dono.
Ai primi freddi, quando il buon villano
rinumerò tutti i suoi bimbi al fuoco;
e con lui lungamente il tramontano
brontolò roco;
e tu quei cardi, in mezzo alle procelle,
spargesti sopra l'erica ingiallita,
e li schiudevi per pietà di quelle
povere dita
Tutti spargesti i cardi irti e le fronde
fragili, e tutto portò via festante
la grama turba.
Nudo con le monde
rame, o gigante,
stavi, e vedevi tu la vite e il melo
vestiti d'oro e porpora al riflesso
già delle nevi, e per lo scialbo cielo
nero il cipresso.
III
Per te i tuguri sentono il tumulto
or del paiolo che inquïeto oscilla;
per te la fiamma sotto quel singulto
crepita e brilla:
tu, pio castagno, solo tu, l'assai
doni al villano che non ha che il sole;
tu solo il chicco, il buon di più, tu dai
alla sua prole;
ha da te la sua bruna vaccherella
tiepido il letto e non desìa la stoppia;
ha da te l'avo tremulo la bella
fiamma che scoppia.
Scoppia con gioia stridula la scorza
de' rami tuoi, co' frutti tuoi la grata
pentola brontola.
Il vento fa forza
nell'impannata.
Nevica su le candide montagne,
nevica ancora.
Lieto è l'avo, e breve
augura, e dice: Tante più castagne,
quanta più neve.
X
IL PESCO
a Adolfo Cipriani
Penso a Livorno, a un vecchio cimitero
di vecchi morti; ove a dormir con essi
niuno più scende; sempre chiuso; nero
d'alti cipressi.
Tra i loro tronchi che mai niuno vede,
di là dell'erto muro e delle porte
ch'hanno obliato i cardini, si crede
morta la Morte,
anch'essa.
Eppure, in un bel dì d'Aprile,
sopra quel nero vidi, roseo, fresco,
vivo, dal muro sporgere un sottile
ramo di pesco.
Figlio d'ignoto nòcciolo, d'allora
sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?
ed ora invidii i mandorli che indora
l'alba negli orti?
od i cipressi, gracile e selvaggio,
dimenticàti, col tuo riso allieti,
tu trovatello in un eremitaggio
d'anacoreti?
XI
CANZONE DI NOZZE
ad Enrico Bemporad
Guardi la vostra casa sopra un rivo,
sopra le stipe, sopra le ginestre;
ed entri l'eco d'un gorgheggio estivo
dalle finestre.
Dolce dormire con nel sogno il canto
dell'usignuolo! E sian sotto la gronda
rondini nere.
Dolce avere accanto
chi vi risponda,
sul far dell'alba, quando voi direte
pian piano: È vero che non s'è più soli?
Sì: si, diranno, vero ver...
Che liete
grida! che voli!
sul far dell'alba, quando tutto ancora
sembra dormir dietro le imposte unite!
Sembra, e non è.Voi sì, forse, in quell'ora,
madri, dormite.
Sognate biondo: nelle vostre teste
non un fil bianco: bianche, nel giardino,
sono, sì, quelle ch'ora vi tendeste,
fascie di lino.
XII
I GIGLI
Nel mio villaggio, dietro la Madonna
dell'acqua, presso a molti pii bisbigli,
sorgono sopra l'esile colonna
verde i miei gigli:
miei, ché a deporne i tuberi in quel canto
del suo giardino fu mia madre mesta.
D'altri è il giardino: di mia madre (è tanto!...)
nulla piú resta.
Sono tanti anni!...
Ma quei gigli ogni anno
escono ancora a biancheggiar tra folti
cesti d'ortica; ed ora...
ora saranno
forse già còlti.
Forse già sono su l'altar, lì presso,
a chieder acqua, or ch'è mietuto il grano,
per il granturco: e nel pregar sommesso
meridïano,
guardando i gigli, alcuna ebbe un fugace
ricordo; e chiede che Maria mi porti
nella mia casa, per morirvi in pace
presso i miei morti
COLLOQUIO
I
Brulli i pioppi nell'aria di vïola
sorgono sopra i lecci, sfavillando
come oro: sopra il tetto della scuola
si sfrangia un orlo a fiocchi rosei; quando,
lieve come un sospiro, entra; poi sola,
bianca, le mani al cuore, ristà, ansando;
gira gli occhi - dov'è la famigliuola? -
e ha sui labbri il suo sorriso blando;
ma piange.
Oh: sì: son quello: il tuo Giovanni...
un po' mutato.
O madre seppellita,
che gli altri lasci, oggi, per me; parliamo.
Io devo dirti cosa da molti anni
chiusa dentro.
E non piangere.
La vita
che tu mi desti - o madre, tu ! - non l'amo.
II
Non piangere.
È uno sforzo così mesto
viverla senza te questa tua vita!
ad ogni gioia è tanto dolor questo
subito ricordar te, seppellita!
Dai sogni, oh! brevi, della gioia desto
io mi ritrovo a piangere infinita-
mente con te: morire! così presto!
partire, o madre, come sei partita!
Tu non dovevi.
Con quelli occhi in pianto!
con quella bimba che parlava appena!
Dovevi, o madre pia, dirlo a Dio padre,
che non potevi; e ti lasciasse; e in tanto
te la guarisse Dio quella tua vena
che ci si ruppe nel tuo cuore, o madre!
III
Non piangere.
.
.
Sarebbe così bello
questo mondo odorato di mistero!
sarebbe la tua via come un sentiero
con l'erba intatta, all'ombra dell'ornello.
E nuova tu saresti anche all'amello,
anche al frullo d'un passero ciarliero!
Ma rasentando il muto cimitero,
ti fermeresti pallida al cancello .
.
.
E io direi del sonno delle larve
che sognano ali, e delle siepi tetre
ch'hanno nel sonno grappoli di fiori.
Pianger ti lascierei di ciò che sparve;
indi sorrideremmo anche alle pietre
bianche, là, tra cipressi e sicomori.
IV
Ma .
.
.
ma tu piangi come non ti vidi
piangere mai, nel dolce viso attento.
Ma se lo so, con che dolce lamento
chiedevi al cielo e con che fiochi gridi
che ti lasciasse! Quali madri i nidi
lasciano soli pigolare al vento ?
S'era per mamma, t'avrei qui; lo sento:
viva; lo so: perdonami; sorridi.
Ma se lo so: fioccava senza fine;
e tu, tra i ceri, con la morte accanto,
sentendo gli urli della tramontana,
parlavi, ancora, delle due bambine
cui non potevi, non potevi, in tanto,
cucire i piccoli abiti di lana.
V
Ma sì: la vita mia (non piangere!) ora
non è poi tanto sola e tanto nera:
cantò la cingallegra in su l'aurora,
cantava a mezzodì la capinera.
I canarini cantano la sera
per la mia cena piccola e canora:
poi nell'orto vedessi a primavera
come il ciclame e l'ulivella odora!
I gerani vedrai, messi al coperto
dal gelo: qualche foglia ha la cedrina,
ricordi ? l'erba che piaceva a te .
.
.
Sorridi? a questo sbatter d'usci ? È certo
Ida tua che sfaccenda, oggi, in cucina.
E Maria? Maria prega, oggi, per me.
IN CAMMINO
Siede sopra una pietra del cammino,
a notte fonda, nel nebbioso piano:
e tra la nebbia sente il pellegrino
le foglie secche stridere pian piano:
il cielo geme, immobile, lontano,
e l'uomo pensa: Non sorgerò più.
Pensa: un occhiata quale passeggero,
vana, ha gettata a passeggero in via,
è la sua vita, e impresse nel pensiero
l'orma che lascia il sogno che s'oblia;
un'orma lieve, che non sa se sia
spento dolore o gioia che non fu.
Ed ecco - quasi sopra la sua tomba
siede, tra l'invisibile caduta -
passa uno squillo tremulo di tromba
che tra la nebbia, nel passar, saluta;
squillo che viene d'oltre l'ombra muta,
d'oltre la nebbia: di più su: più su,
dove serene brillano le stelle
sul mar di nebbia, sul fumoso mare
in cui t'allunghi in pallide fiammelle
tu, lento Carro, e tu, Stella polare,
passano squilli come di fanfare,
passa un nero triangolo di gru.
Tra le serene costellazïoni
vanno e la nebbia delle lande strane;
vanno incessanti a tiepidi valloni,
a verdi oasi, ad isole lontane,
a dilagate cerule fiumane,
vanno al misterïoso Timbuctù.
Sono passate .
.
.
Ma la testa alzava
dalla sua pietra intento il pellegrino
a quella voce, e tra la nebbia cava
riprese il suo bordone e il suo destino:
tranquillamente seguitò il cammino
dietro lo squillo che vanìa laggiù.
ULTIMO SOGNO
ferrei, moventi verso l'infinito
tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi...
un silenzio improvviso.
Ero guarito.
Era spirato il nembo del mio male
in un alito.
Un muovere di ciglia;
e vidi la mia madre al capezzale:
io la guardava senza meraviglia.
Libero!...
inerte sì, forse, quand'io
le mani al petto sciogliere volessi:
ma non volevo.
Udivasi un fruscio
quasi d'un fiume che cercasse il mare
inesistente, in un immenso piano:
io ne seguiva il vano sussurrare,
sempre lo stesso, sempre più lontano.
- Fine -
...
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