LE DONNE CURIOSE, di Carlo Goldoni - pagina 5
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Discorrono d'interessi, ed io mi sono preso l'ardire d'incomodarvi di nuovo.
ROS.
Meritereste ch'io vi voltassi le spalle.
FLOR.
Perché, signora? Che cosa vi ho fatto?
ROS.
Non mi volete dire la verità.
FLOR.
E siam qui sempre! Pagherei assaissimo, che poteste cogli occhi vostri assicurarvi della mia sincerità.
ROS.
Potete farlo quando volete.
FLOR.
Come?
ROS.
Introducendomi di nascosto.
FLOR.
Voi ardirete di venir sola?
ROS.
No, verrò colla serva.
FLOR.
Per un simile luogo, la serva non è compagnia che basti.
ROS.
Verrà mia madre.
Se voi la pregherete, verrà.
FLOR.
Rosaura, compatitemi.
Ve l'ho detto altre volte.
I miei amici non vogliono donne; ed io non deggio...
ROS.
E voi non dovete disgustarli per me.
Vedo che di essi più che di me vi preme, ed ecco il fondamento di credervi un menzognero, un infido.
FLOR.
Orsù, Rosaura, per darvi una prova dell'amor mio, tralascierò d'andarvi.
Così sarete contenta.
ROS.
Mi darete ad intendere di non andarvi, ma vi anderete.
FLOR.
No, vi prometto, non vi anderò.
ROS.
Non mi basta.
FLOR.
Vi confermerò la promessa col giuramento.
ROS.
Non voglio giuramenti, voglio una sicurezza maggiore.
FLOR.
Chiedetela.
ROS.
Mi promettete di darmela?
FLOR.
Sì, quando ella da me dipenda.
ROS.
Ditemi...
Ma badate bene di non mentire.
FLOR.
Non son capace.
ROS.
Avete voi le chiavi, come hanno gli altri?
FLOR.
Le chiavi di che?
ROS.
Delle porte di quella casa, dove non possono entrar le donne?
FLOR.
Sì, le ho, non posso negarlo.
ROS.
Questa è la sicurezza che pretendo da voi.
Datemi quelle chiavi.
FLOR.
Ma...
queste chiavi...
nelle vostre mani...
ROS.
Ecco la bella sincerità! Ecco il fondamento delle vostre promesse, dei giuramenti vostri!
FLOR.
Non vedete, che s'io volessi ingannarvi, potrei darvi le chiavi, ed unirmi poscia con un amico per essere non ostante introdotto?
ROS.
Non credo che vogliate mendicar i mezzi per essere mentitore.
Mancandovi le chiavi, vi manca, secondo me, l'eccitamento maggiore.
Florindo, se mi amate, fatemi la finezza di depositarle nelle mie mani.
FLOR.
Ah Rosaura, voi mi volete indurre ad una cosa, che per molti titoli non mi conviene.
ROS.
Avete voi intenzione di andar in quel luogo, sì o no?
FLOR.
Certamente, vi prometto di no.
ROS.
Che difficoltà dunque avete a lasciarmi le chiavi?
FLOR.
Vi dirò...
queste chiavi...
se passassero in altre mani, potrebbero produrre degli sconcerti.
ROS.
Vi prometto sull'onor mio, che non esciranno dalle mie mani.
Siete ora contento? Mi fareste l'ingiuria di dubitare di me? Vorrei vedere anche questa.
FLOR.
Cara Rosaura, dispensatemi.
ROS.
No certamente.
Ecco l'ultima intimazione ch'io faccio al vostro cuore.
O fidatemi quelle chiavi, o non pensate più all'amor mio.
Se mi pento, se vi perdono, prego il cielo che mi fulmini, che m'incenerisca.
FLOR.
Basta, basta, non più.
Tenete: eccole, non mi atterrite di più.
ROS.
Nelle mie mani saran sicure.
FLOR.
Vi prego, non mi rendete ridicolo co' miei amici.
ROS.
Non dubitate, son contenta così.
FLOR.
Guardate, se veramente vi amo!
ROS.
Sì, lo credo; compatitemi se ho dubitato.
FLOR.
Quando posso sperare di farvi mia?
ROS.
Quando volete voi; quando vuole mio padre.
FLOR.
Volo a dirglielo, se vi contentate.
ROS.
Sì, ditegli che la tempesta è finita, che torna il sole.
FLOR.
Cara, mi consolate.
ROS.
Io sono più consolata di voi.
Queste chiavi mi danno il maggior piacere del mondo.
FLOR.
Per qual motivo, mia cara?
ROS.
Perché con queste mi assicuro del vostro amore.
(E con esse mi assicurerò forse di quel segreto, che mi fa vivere in una perpetua curiosità).
(da sé, parte)
FLOR.
Gran cosa è l'amore! Tutto si fa, quando si vuol bene.
Quelle chiavi le ho date a Rosaura colla maggior pena del mondo.
Ma se le ho dato l'arbitrio della mia vita, posso anche fidarle le chiavi di una semplice conversazione.
(parte)
SCENA DODICESIMA
Strada con porta, che introduce nel casino della conversazione.
PANTALONE esce dalla porta, e chiude.
PANT.
Xe squasi notte, e Brighella no vien.
Bisognerà che vaga mi a proveder le candele de cera, e che le fazza portar.
SCENA TREDICESIMA
LEANDRO e detto.
LEAN.
Servo, signor Pantalone.
PANT.
Amicizia.
LEAN.
Amicizia.
(si abbracciano)
PANT.
Questo xe el nostro saludo.
No se fa altre cerimonie.
LEAN.
Va benissimo.
Tutti i complimenti sono caricature.
PANT.
Sì ben; se usa dir per civiltà delle parole, senza pensar al significato, senza intender, co le se dise, quel che le voggia dir.
Per esempio, servitor umilissimo vuol dir me dichiaro de esser so servitor; ma se ghe domandè un servizio che no ghe comoda, el ve dise de no; e po el sior umilissimo ve tratta e ve parla con un boccon de superbia, che fa atterrir.
Patron reverito xe l'istesso.
I dà del patron a uno che no i se degna de praticar.
LEAN.
Signor Pantalone, un mio amico vorrebbe essere della nostra conversazione.
PANT.
Xelo galantomo?
LEAN.
Certamente.
PANT.
A pian co sto certamente.
Dei galantomeni de nome ghe ne xe assae, de fatti ghe ne xe manco.
Che prove gh'aveu che el sia un galantomo?
LEAN.
Io l'ho sempre veduto trattare con persone civili.
PANT.
No basta.
In tutte le conversazion civili, tutti no xe galantomeni, e col tempo i se descoverze.
LEAN.
È nato bene.
PANT.
No xe la nascita che fazza el galantomo, ma le bone azion.
LEAN.
È uomo che spende generosamente.
PANT.
Anca questa la xe una rason equivoca: bisogna véder se quel che el spende xe tutto soo.
LEAN.
Io poi non so i di lui interessi.
PANT.
Donca no ve podè impegnar che el sia galantomo.
LEAN.
In questa maniera, signor Pantalone, avremo tutti in sospetto, e non praticheremo nessuno.
PANT.
No, caro amigo, intendème ben.
No digo che abbiemo da sospettar de tutti senza rason, e che no abbiemo da praticar se no quelli che conossemo galantomeni con rason; anzi avemo debito de onestà de creder tutti da ben, se no gh'avessimo prove in contrario.
Quelli però che più che tanto no se cognosse, i se pratica con qualche riserva; no se ghe crede tutto, i se prova, i se esamina con delicatezza, e se col tempo e coll'esperienza se trova un galantomo da senno, se pol dir con costanza de aver trovà un bel tesoro.
LEAN.
Io questo che vi propongo lo credo onoratissimo, ma non posso essere mallevadore per lui.
PANT.
N'importa, lo proveremo: se el sarà oro el luserà.
SCENA QUATTORDICESIMA
BRIGHELLA e detti.
BRIGH.
Èla ella, sior padron?
PANT.
Sì, son mi.
Tanto ti sta?
BRIGH.
Son pien de roba, che no me posso mover.
PANT.
Astu tolto candele de cera?
BRIGH.
Sior no, non ho avù tempo.
PANT.
Adesso anderò mi a ordinarle dal nostro spizier.
E vu, co podè, andè a torle.
(a Brighella)
BRIGH.
Sior sì; metto zo sta roba, e vado subito.
Son pien per tutto, no so come far a avrir.
PANT.
Caro sior Leandro, la ghe averza la porta.
LEAN.
Volentieri.
(apre)
BRIGH.
Ho speranza stassera de farme onor.
PANT.
Distu da senno?
BRIGH.
La vederà che boccon de cena.
PANT.
Bravo, gh'ho a caro.
BRIGH.
Ma i se n'incorzerà in ti conti.
(entra)
PANT.
N'importa.
Co xe ben fatto, spendo volentiera.
LEAN.
Signor Pantalone, posso dunque dire all'amico che venga?
PANT.
Chi xelo? Cossa gh'alo nome?
LEAN.
È un certo Flamminio Malduri.
PANT.
Benissimo, lo proponeremo.
Sentiremo cossa che dise i altri.
LEAN.
Vorrei condurlo alla cena.
PANT.
La lo mena; sul fatto se rissolverà.
LEAN.
Vado a ritrovarlo.
Spero che resterete contento.
Amicizia.
(parte)
PANT.
Amicizia.
Mi no gh'ho altra premura, che de véder in te la nostra compagnia zente onesta, de buon cuor, amorosa, che in t'una occasion sappia soccorrer un amigo.
Tutti a sto mondo gh'avemo bisogno un dell'altro, e i xe tanto pochi quelli che fazza ben per bon cuor, che a trovarghene xe più difficile d'un terno al lotto.
(parte)
SCENA QUINDICESIMA
ELEONORA col zendale alla bolognese.
ELEON.
L'ora è avanzata.
Voglio vedere se mi riesce il colpo.
Quella è la porta, e queste sono le chiavi.
Se posso entrare, nascondermi, e vedere senz'esser veduta mi chiarirò d'ogni cosa.
E se sarò scoperta, che cosa mi potranno fare? Dove va mio marito, vi posso andare, ancor io; anzi tutti mi loderanno.
Se vado, non vado per altro fine che per questo.
Voglio bene al marito, e voglio sapere dove va e che cosa fa: sì, lo voglio sapere.
Tante volte gli ho detto: lo saprò.
Voglio poter dire una volta: l'ho saputo.
Non sento nessuno, adesso mi provo.
(mette la chiave nella serratura)
SCENA SEDICESIMA
BRIGHELLA di casa, e detta.
BRIGH.
Chi è là? (apre l'uscio, ed Eleonora spaventata si ritira)
ELEON.
Povera me! Ho perduto le chiavi.
(parte lasciando le chiavi)
BRIGH.
Una donna? Colle chiave? Corro dal me padron.
(chiude la porta, leva le chiavi, e parte)
SCENA DICIASSETTESIMA
CORALLINA vestita da uomo e BEATRICE col zendale alla bolognese.
BEAT.
Altro che dire non entran donne! Hai veduto? Quella che è uscita, è una donna.
(avendo osservato Eleonora)
COR.
Assolutamente vi è qualche porcheria.
BEAT.
Presto, entriamo anche noi, e vediamo se ve ne sono altre.
COR.
Andiamo; ecco la chiave.
Ma zitto...
sento gente.
BEAT.
Non vorrei che fossimo scoperte prima d'entrare.
Entrate che siamo, non m'importa.
Quando abbiamo saputo ogni cosa, che ci scoprano pure, ma se ci vedono qui...
COR.
Ritiratevi.
BEAT.
E tu non vieni?
COR.
Io son vestita da uomo.
È sera; non mi conosceranno.
BEAT.
Bada bene non m'ingannare.
COR.
Fidatevi di me.
BEAT.
Ti aspetto in questo vicolo.
(si ritira)
COR.
(Ho del coraggio, ma tremo un poco).
(da sé)
SCENA DICIOTTESIMA
PANTALONE e dette.
PANT.
(Una donna colle chiave? la voleva andar drento? Coss'è sta cossa? Chi èlo el poco de bon, che colle donne vol ruvinar la nostra povera compagnia! Vedo uno là: che el sia dei nostri?) (osservando Corallina)
COR.
(Mi pare quello che chiamano Pantalone).
(da sé)
PANT.
Amicizia.
(forte verso Corallina)
COR.
(Che dice d'amicizia?) (da sé, non rilevando il gergo)
PANT.
(O che nol ghe sente, o che nol xe della compagnia).
(da sé) Amicizia.
(s'accosta a Corallina, ripetendo il termine)
COR.
Sì signore.
(alterando la voce)
PANT.
(Nol xe della conversazion.
Ma cossa falo in sti contorni?) (da sé)
COR.
(Non vorrei essere scoperta).
(da sé)
PANT.
Cossa fala qua, patron? Aspettela qualchedun? (a Corallina)
COR.
Aspetto un amico.
PANT.
L'aspetta un amico? (fa il falsetto, imitando la voce di Corallina) (O che l'è un musico, o che l'è una donna).
(da sé)
COR.
(È meglio ch'io me ne vada).
(da sé)
PANT.
(Vôi véder cossa xe sto negozio).
(da sé) La diga patron, chi aspettela?
COR.
Niente, signore, la riverisco.
(vuol partire)
PANT.
Xela fursi anca ella uno de quei della compagnia de sti galantomeni?
COR.
Sì signore.
PANT.
Mo perché donca, co ghe digo amicizia, no me rispondela amicizia?
COR.
Ah sì, non vi avevo inteso.
Amicizia.
PANT.
(Eh, la xe una donna; cossa diavolo xe sto negozio!) Perché no vala drento? (a Corallina)
COR.
Aspettava il signor Ottavio.
PANT.
Tutti gh'ha le so chiave.
No la le gh'ha ella?
COR.
Oh sì signore, le ho ancor io.
PANT.
La lassa véder mo.
COR.
Che serve? le ho.
PANT.
Co no la le mostra, xe brutto segno.
COR.
Eccole.
(fa vedere le chiavi)
PANT.
Via donca, la resta servida: la vaga in casa.
COR.
Andate voi, che or ora verrò ancor io.
PANT.
Mi gh'ho un pochetto da far.
Vago in t'un servizio e po torno.
La vaga ella.
COR.
Farò come comandate.
PANT.
(Vôi ben véder dove va a finir sto negozio).
(da sé)
COR.
Va ella? o vado io?
PANT.
La vaga pur ella.
Amicizia.
COR.
Amicizia.
PANT.
(Nell'accostarsele, afferra le chiavi in mano a Corallina)
COR.
Come, signore? (si difende)
PANT.
Chi v'ha dà ste chiave? Chi seu? Cossa voleu?
COR.
Amicizia.
PANT.
Colle donne no vôi amicizia.
COR.
Sono scoperta.
Aiutami, gambetta.
(parte correndo)
PANT.
A rotta de collo! Ti gh'ha rason, che no gh'ho voggia de correr.
Come xelo sto negozio? Do mue de chiave fora de man? Ste chiave in man de do donne? Donne introdotte in te la nostra conversazion? A monte tutto; fogo a tutto; no ghe ne vôi più saver.
(entra in casa, e chiude)
SCENA DICIANNOVESIMA
OTTAVIO e LELIO
LEL.
Ho piacere d'avervi trovato.
Ho perso le chiavi, e non so dove e non so dir come; appunto stavo in attenzione di qualche amico che aprisse.
OTT.
Vi servirò io.
Ma, caro amico, tenetene conto di quelle chiavi.
Il povero signor Pantalone di quando in quando, se si perdono, le fa mutare.
LEL.
Eh! ho un sospetto in testa.
OTT.
Di che?
LEL.
Ho paura che me le abbia prese mia moglie; se ciò è vero, da galantuomo, le do un ricordo per tutto il tempo di vita sua.
OTT.
Oibò, non v'inquietate.
Soffritela, se potete, e se non potete, mandatela al suo paese.
LEL.
Se sapeste quanto mi ha fatto arrabbiare con un maladetto lo saprò.
OTT.
Oh via, andiamo.
SCENA VENTESIMA
FLORINDO e detti.
OTT.
Oh, ecco un altro camerata.
Amicizia.
LEL.
Amicizia.
FLOR.
Amicizia.
Appunto veniva in traccia di voi.
OTT.
Sì, andiamo insieme.
FLOR.
No, cercavo appunto di voi per far le mie scuse, e pregarvi di farle col signor Pantalone.
Questa sera non vengo.
OTT.
No? Per qual causa?
LEL.
Tant'e tanto, se non venite, pagherete la vostra parte.
FLOR.
Sì, pagherò: è giusto.
OTT.
Diteci almeno il perché non venite.
FLOR.
Ho un affar di premura.
Questa sera non posso.
OTT.
Oh via, ho capito.
Non viene, perché ha paura.
LEL.
Ve lo ha proibito la sposa?
FLOR.
Non me lo ha proibito: ma posso far meno per soddisfarla?
OTT.
Bravo, genero.
Io vi lodo, che siate compiacente con mia figliuola, ma voglio darvi un avvertimento: non vi lasciate prender la mano sì di buon'ora, perché poi ve ne pentirete.
Le donne dicono volentieri quella bella parola voglio; e quando si fa loro buona una volta, non la tralasciano più.
FLOR.
Non so che dire.
Questa volta ho dovuto fare così; un'altra volta poi...
OTT.
Oh via, regolatevi con prudenza.
Amico Lelio, andiamo, e lasciamo in pace questo povero innamorato.
(cerca la chiave)
LEL.
Eh amico, quando sarete ammogliato, vedrete il bel divertimento! Se vi tocca una moglie come la mia, volete star fresco.
OTT.
Che chiavi sono queste?
LEL.
Non sono le vostre chiavi?
OTT.
Oibò.
Ora me ne accorgo; Corallina, nel darmi le chiavi, ha errato.
Questa è quella della cantina, e questa è quella della dispensa.
Come diavolo le aveva io in tasca di quell'altro vestito? Non la so capire.
LEL.
Come faremo a entrare? Bisognerà battere.
OTT.
Ci favorirà il signor Florindo.
Ci darà egli le sue.
FLOR.
Mi dispiace...
ch'io non le ho.
OTT.
Oh bellissima!
LEL.
Che cosa ne avete fatto?
FLOR.
Sapendo che io non veniva questa sera, le ho serrate nel mio burrò.
OTT.
Vedete, egli è un giovine di garbo; custodisce le chiavi, non le perde come fate voi.
(a Lelio)
LEL.
E voi le lasciate in balìa delle donne.
OTT.
Questo è un bel caso: tutti tre senza chiavi.
LEL.
Bisogna battere.
OTT.
Sì, battiamo.
(battono)
SCENA VENTUNESIMA
PANTALONE esce di casa, e detti.
PANT.
Coss'è, siori, no le gh'ha chiave?
LEL.
Io l'ho perduta.
OTT.
Ed io l'ho lasciata in casa.
PANT.
Le varda mo, ghe saravele qua le soe?
LEL.
Corpo di bacco! Ecco le mie.
OTT.
Oh bella! Ecco le mie.
PANT.
Le impara a custodirle.
Le impara meggio a mantegnir la parola; e le se vergogna de prostituir el decoro alle lusinghe, alle curiosità delle donne.
(entra)
LEL.
Come! Che dite? Cospetto! Cospettonaccio! Mia moglie l'ammazzerò.
(entra)
OTT.
(Fa varie ammirazioni colle chiavi ed entra)
SCENA VENTIDUESIMA
FLORINDO solo.
FLOR.
Che imbrogli sono mai questi? Fra quelle chiavi vi sarebbero mai le due che ho dato a Rosaura? No, perché essi due le hanno per le loro riconosciute; e poi Rosaura capace non sarà di tradirmi.
Certamente queste donne ardono di volontà di sapere...
Vedo gente...
Colui colla lanterna è Arlecchino.
Vi è una donna in zendale con lui; che sia forse la signora Beatrice, in traccia di suo marito? Vuò rimpiattarmi ed osservare.
(si ritira)
SCENA VENTITREESIMA
ROSAURA in zendale alla bolognese, ARLECCHINO con lanterna da mano, FLORINDO ritirato.
ROS.
Vieni con me, non aver paura.
ARL.
Ma mi, siora, in sta sorte de contrabbandi me trema le budelle in corpo.
ROS.
Insegnami solamente dov'è la porta di quella casa che già ti ho detto.
ARL.
La porta l'è quella lì.
ROS.
Tu ci sarai stato dentro più volte.
ARL.
Sigura.
Ghe vago squasi ogni dì.
ROS.
Vorrei entrare ancor io.
ARL.
Oh, siora no; donne femene no ghe ne va.
ROS.
È notte; non si sente nessuno.
Possiamo entrare con libertà; e poi sappi che vi è mia madre, e vi posso andare ancor io.
ARL.
Se batto, i vien a avrir, i me vede con una donna, e i me regala de bastonade.
ROS.
Senti.
Ho le chiavi.
ARL.
Avì le chiave? Chi ve l'ha dade?
ROS.
Me le ha date mio padre: eccole.
Apriremo da noi, senza che nessuno se ne accorga.
Vi è niente colà da nascondersi?
ARL.
Gh'è un camerin...
ma...
no l'è mo a proposito.
ROS.
Presto, presto, andiamo.
ARL.
Corpo del diavolo...
no vorria...
ROS.
Tieni le chiavi, apri.
ARL.
Basta.
Avro, e me la sbigno(2).
(mette le chiavi nell'uscio)
FLOR.
Lascia a me queste chiavi.
(le prende)
ARL.
La se comoda, che l'è padron.
ROS.
Come! Così mantenete la vostra parola? Mi promettete di non venire, e poi venite al casino?
FLOR.
Ah ingrata! Così voi mi serbate la fede? Mi carpite le chiavi, mi giurate di custodirle, e le impiegate in tal uso?
ROS.
Vi ho promesso che escite non sarebbero dalle mie mani.
FLOR.
Promesse accorte, con animo d'ingannare.
Ma chi non sa che sia fede, non merita che a lui si serbi.
Giacché voi mi avete insegnato ad operare a capriccio, mi valerò de' vostri barbari documenti; ed ora sugli occhi vostri anderò in quel luogo medesimo, dove non volevate ch'io andassi.
ROS.
Ah no, caro Florindo...
FLOR.
Tacete; se non mi amate, non meritate di essere compatita; e se mi amate, vi serva di regola e di castigo la pena che giustamente provate.
(apre ed entra)
SCENA VENTIQUATTRESIMA
ROSAURA ed ARLECCHINO
ROS.
Oimè! Arlecchino.
ARL.
Signora.
ROS.
Mi vien male.
ARL.
Forti.
Mi no gh'ho alter che un poco de moccolo de lanterna.
ROS.
Mi sento morire.
ARL.
Aiuto, gh'è nissun?
SCENA VENTICINQUESIMA
BEATRICE, ELEONORA, CORALLINA, da varie parti; e detti.
ELEON.
Che c'è?
COR.
Che cosa è stato?
BEAT.
Figliuola mia.
ROS.
Signora madre, veniva in traccia di voi.
BEAT.
Ed io veniva in traccia di te.
ARL.
E mi andava a scarpioni (3).
SCENA VENTISEIESIMA
BRIGHELLA colle candele di cera, e detti.
BRIGH.
Coss'è sto negozio? A st'ora? Coss'è sto mercà de donne?
COR.
Brighella, eccoci qui: una, due, tre e quattro.
Siamo quattro femmine disperate.
ARL.
E mi che fa cinque.
BRIGH.
Ma desperade per cossa? Fursi per curiosità de saver quel che se fa là drento?
COR.
Non è curiosità, ma volontà rabbiosissima di sapere.
BEAT.
Mi preme di mio marito.
ELEON.
Voglio sapere di mio marito.
ROS.
Vo' sapere che fa il mio sposo.
COR.
Ed io non ho né parenti, né amici, ma ho certo naturale, che vorrei sapere tutti li fatti di questo mondo.
ARL.
Da resto po, no se pol dir che le sia curiose.
BRIGH.
Signore, le se ferma un tantin.
(Ste donne vol far nasser dei despiaseri; adesso ghe remedierò mi).
(da sé) Vorle vegnir là drento?
COR.
Oh, il ciel volesse!
BEAT.
Pagherei cento scudi.
BRIGH.
Zitto.
Le lassa far a mi, che da galantomo le voggio sodisfar.
BEAT.
Ma come?
BRIGH.
Se fidele de mi?
COR.
Sì Brighella è uomo d'onore.
Fo io la sicurtà per lui.
BRIGH.
Arlecchin, ti ti sa dov'è la porta che referisse in cantina.
ARL.
Cussì no la savessio! Ho portà tante volte la legna.
BRIGH.
Tiò sta chiave.
Averzi quella porta che va nella stradella; condusile drento con quella lanterna, e po serra, e vien per de qua, che te aspetto.
BEAT.
Ah Brighella, non ci tradire.
BRIGH.
Me maraveggio: le se fida de mi.
COR.
Finalmente siamo quattro donne; non abbiamo paura né di venti, né di trenta uomini.
ARL.
Le favorissa, le vegna con mi, che averò l'onor de far la figura de condottier.
(parte)
BEAT.
Rosaura, andiamo.
Già che ci siete, non so che dire.
(parte)
ROS.
Non ci sarei, s'ella non mi avesse dato l'esempio.
(parte)
ELEON.
O in un modo, o nell'altro, purché veda, sarò contenta.
(parte)
COR.
Caro Brighella, fateci veder tutto: non già per curiosità, ma così per divertimento.
(parte)
SCENA VENTISETTESIMA
BRIGHELLA solo.
BRIGH.
Sta volta me togo un arbitrio, che no so come el me passerà, ma fazzo per far ben, e spero de far ben.
Ste donne le son indiavolade; ognuna l'è capace de precipitar la casa, el marido, e tutti quei de sto logo.
Se me riesce quel che m'è vegnù in tel pensier, spero che i mi padroni sarà contenti, le donne disingannade; e mi averò la gloria d'aver contribuido alla pase comun, al comun contento de tutti, e alla sussistenza de un logo, dove anca mi ghe cavo el mio profitto, e vivo da galantomo.
Perché al dì d'oggi, co se g'ha un tocco de pan, bisogna sfadigarse, suar e strologar per mantegnirselo fin che se pol.
(parte)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera nel casino della conversazione, con varie porte.
ROSAURA, BEATRICE, ELEONORA, CORALLINA e BRIGHELLA
BRIGH.
Le vegna con mi, e no le se indubita gnente.
Le metterò in t'un logo, dove senza esser viste le vederà.
BEAT.
Che luogo è quello dove ci volete mettere?
BRIGH.
Una camera scura dove no ghe va nissun.
COR.
Che sia la camera del tesoro?
BRIGH.
Siora sì, gh'è el tesoro da ingrassar i campi.
ELEON.
Vi sono i fornelli?
BRIGH.
No, la veda: i fornelli xe in cusina.
BEAT.
Qual è la camera del giuoco?
BRIGH.
Qualche volta i zoga qua colla dama.
ROS.
Colla dama, eh? Sì, sì, vi ho capito.
Si divertono colle donne.
BRIGH.
Le vederà con che donne che i se diverte.
Le so donne le son le bottiglie.
COR.
Le bottiglie, o le pentoline?
BRIGH.
Pentoline? Pignatelle? Da cossa far?
COR.
Per far le stregherie, per cavar il tesoro.
BRIGH.
Sì, sì, brava, la dise ben.
Presto, presto, le se retira, che sento zente, e le varda ben, le staga zitte, no le fazza sussurro.
ROS.
(Se vedo donne, non mi tengono le catene).
(da sé, entra)
BEAT.
(Se mio marito giuoca, vado a strappargli le carte di mano).
(entra)
ELEON.
(Voglio rompere tutti i loro lambicchi).
(entra)
COR.
(Se cavano il tesoro, ne voglio anch'io la mia parte).
(entra)
BRIGH.
Per sincerar ste donne curiose, no gh'è altro remedio che farle véder coi propri occhi...
Vien i patroni, vado a finir de parecchiar la cena.
Se la invenzion va ben, son el primo omo del mondo.
Se la va mal, pazienza.
Co l'intenzion l'è bona, se compatisse chi falla.
(parte)
SCENA SECONDA
PANTALONE, OTTAVIO, LELIO e FLORINDO
LEL.
Ella è così senz'altro.
Mia moglie mi ha levate di tasca furtivamente le chiavi.
PANT.
Chi sa che no la fusse quella che in abito da omo zirava qua intorno?
LEL.
Mia moglie da uomo? Non crederei.
Abiti che le vadan bene, in casa non ve ne sono.
PANT.
La sarà stada donca quella in zendà, che ha trovà Brighella colle chiave, in atto de avrir.
LEL.
Se ciò è vero, se colei me l'ha fatta, giuro al cielo, la fo morire sotto un bastone.
OTT.
No, amico, non tanta furia.
LEL.
Siete qui voi colla vostra flemma.
OTT.
Lasciatemi dir due parole.
Voi siete stato burlato da vostra moglie, io dalla mia, ed il signor Florindo da quella che sarà sua.
Consideriamo un poco il motivo di questo loro trasporto.
O provien dall'amore che hanno per noi, e non ce ne possiamo dolere; o proviene da un difetto di natura, chiamato curiosità, e dobbiamo compatire il loro temperamento.
Chi nasce con dei difetti, merita compassione.
L'uomo saggio deve procurar di correggerli senza scandalizzarsi.
Ma sappiate, amico, che non è l'ira quella che produca le correzioni, ma la ragione.
Battete la moglie dieci anni, vent'anni, diverrà sempre peggio.
Onde una delle due, o correggerla con amore, o non curarla con indifferenza.
PANT.
Sior Ottavio dise benissimo, el parla da omo de garbo e da filosofo vero; ma mi gh'ho un'altra regola, che me par più segura, e che ho imparà a mie spese.
Dalle donne ghe stago lontan, e in fatti ho procurà de far sta union de omeni senza donne, e donne qua no ghe n'ha da vegnir.
E ve prego, cari amici, custodì le chiave; che se le donne ve tol le chiave, avè persa affatto la libertà.
FLOR.
Io sono stato il più debole, il più pazzo di tutti.
Confesso la mia insensatezza.
Ho date io medesimo le chiavi in deposito alla signora Rosaura, né mi sarei mai creduto ch'ella mi potesse tradire...
OTT.
Via, non andate in collera.
Amore accieca.
Ha acciecato voi nel dargliele, ha acciecato lei nel servirsene.
Col tempo ci vedrete meglio.
Verrà pur troppo quel tempo, che voi non le renderete conto dei vostri passi, ed ella non curerà saper dove andiate.
SCENA TERZA
LEANDRO e detti.
LEAN.
Amicizia.
(tutti fanno con lui il solito complimento) Signor Pantalone, avete detto nulla a questi signori di quel compagno che vi ho proposto?
PANT.
Cossa diseli, patroni, xeli contenti che recevemo sto nostro camerada?
OTT.
Chi è? Come si chiama?
LEAN.
Egli è il signor Flamminio Malduri.
Lo conoscete?
OTT.
Io no.
LEL.
Lo conosco io.
È galantuomo.
Merita esser ammesso nella vostra conversazione.
PANT.
Bon.
Co do lo cognosse, el se pol recever.
Cossa diseli?
OTT.
Io son contentissimo.
FLOR.
Ed io pure.
LEAN.
Posso dunque farlo passare.
PANT.
Mo l'aspetta un pochetto.
L'avemio da far vegnir cussì colle man a scorlando? Sto liogo ne costa dei bezzi assae; nu avemo speso, e avemo fatto quel che avemo fatto, xe ben giusto che chi entra novello, abbia da pagar qualcossa.
Cossa ghe par?
LEAN.
Questi è un uomo generoso, soccomberà volentieri ad ogni convenienza.
PANT.
Femo cussì, che el paga la cena de sta sera.
Ah? dighio mal?
LEL.
Dite benissimo.
Può pagar meno per entrare in una simile compagnia?
FLOR.
Per me darò la mia parte.
PANT.
Gnente, sior Florindo, no femo miga per sparagnar la parte.
Semo tutti omeni che un felippo non ne descomoda.
Se fa per un poco de chiasso, per un poco de allegria.
Cossa diseu, sior Leandro?
LEAN.
Va benissimo, ed ora con questo patto lo introduco senz'altro.
(parte)
PANT.
Più che semo, più stemo allegri.
Oh, m'ho desmentegà de domandarghe una cossa.
LEL.
Che cosa?
PANT.
Se sto sior el xe maridà.
Da qua avanti no solo no voggio donne, ma gnanca omeni maridai.
FLOR.
Perché, signore?
PANT.
E gnanca sposi.
FLOR.
Ma perché?
PANT.
Perché no i sa custodir le chiave.
SCENA QUARTA
LEANDRO, FLAMMINIO e detti.
LEAN.
Amicizia.
PANT.
Amicizia.
Gh'aveu insegnà el complimento? (a Leandro)
FLAMM.
Servo di lor signori.
PANT.
Che servo? Amicizia.
(abbracciandolo)
FLAMM.
Amicizia.
(tutti fanno lo stesso) Mi ha detto l'amico Leandro, che lor signori si degnano favorirmi...
PANT.
Che degnar? Che favorir? Sti termini da nu i xe bandii.
Bona amicizia, e gnente altro.
FLAMM.
Son qui disposto a soccombere a quanto sarà necessario.
PANT.
Gnente.
Co l'ha pagà una cena, l'ha fenio tutto, e quel che stassera la fa ella, un'altra volta farà un altro novizzo, e cussì se se diverte, e se gode.
FLAMM.
Se mi credete abile a supplire a qualche incombenza, mi troverete disposto a tutto.
PANT.
Qua no ghe xe maneggi, no ghe xe affari, tutto el daffar consiste in provéder ben da magnar, ben da bever, e devertirse.
FLAMM.
Eppure si dice che qui fra di voi altri abbiate diverse inspezioni, diverse incombenze, alle quali si arriva col tempo.
PANT.
Oibò, freddure.
Chiaccole della zente, alzadure d'inzegno de quelli che no volemo in te la nostra conversazion, i quali mettendone in vista per qualcossa de grando, i ne vorave precipitar.
LEAN.
Queste cose gliele ho dette ancor io, e non me le ha egli volute credere.
OTT.
Sì, tutto il mondo è persuaso che la nostra unione abbia qualche mistero.
Questo è un effetto della superbia degli uomini, li quali vergognandosi di non sapere, danno altrui ad intendere tutto quello che lor suggerisce la fantasia stravolta, sconsigliata e maligna.
LEL.
A tavola questa sera vedrete tutte le nostre maggiori incombenze.
Chi trincia, chi canta, chi dice delle barzellette, e chi applica seriosamente a mangiar di tutto, la qual carica, indegnamente, è la mia.
FLOR.
Saprete che qui non è permesso alle donne l'intervenirvi.
FLAMM.
È vero, ed esse appunto sono quelle che fanno assai mormorare di voi e dicono che vi è dell'arcano.
PANT.
Coss'è sto arcano? Qua no se fa scondagne, no se dise mal de nissun, né se offende nissun.
Ecco qua i capitoli della nostra conversazion.
Sentì se i pol esser più onesti, sentì se ghe xe bisogno de segretezza.
1.
"Che non si riceva in compagnia persona che non sia onesta, civile e di buoni costumi".
2.
"Che ciascheduno possa divertirsi a suo piacere in cose lecite e oneste, virtuose e di buon esempio".
3.
"Che si facciano pranzi e cene in compagnia, però con sobrietà e moderatezza; e quello che eccedesse nel bevere, e si ubbriacasse, per la prima volta sia condannato a pagar il pranzo o la cena che si sarà fatta, e la seconda volta sia scacciato dalla compagnia".
4.
"Che ognuno debba pagare uno scudo per il mantenimento delle cose necessarie, cioè mobili, lumi, servitù, libri e carta ecc.".
5.
"Che sia proibita per sempre la introduzion delle donne, acciò non nascano scandali, dissensioni, gelosie e cose simili".
6.
"Che l'avanzo del denaro che non si spendesse, vada in una cassa in deposito, per soccorrere qualche povero vergognoso".
7.
"Che se qualcheduno della compagnia caderà in qualche disgrazia, senza intacco della sua riputazione, sia assistito dagli altri, e difeso con amore fraterno".
8.
"Chi commetterà qualche delitto o qualche azione indegna, sarà scacciato dalla compagnia".
9.
(E questo el xe el più grazioso, el più comodo de tutti).
"Che sieno bandite le cerimonie, i complimenti, le affettazioni: chi vuol andar, vada, chi vuol restar, resti, e non vi sia altro saluto, altro complimento che questo: amicizia, amicizia".
Cossa ghe par? Èla una compagnia adorabile?
FLAMM.
Sempre più mi consolo di esservi stato ammesso.
SCENA QUINTA
BRIGHELLA e detti.
BRIGH.
Signori, co le comanda, è in tavola.
(parte)
PANT.
Andemo.
FLAMM.
Favorite.
(fa cenno che vada prima)
PANT.
Vedeu? Queste le xe freddure contra el capitolo ultimo.
Chi xe più vicini alla porta va fora prima dei altri.
Senza complimenti.
Amicizia.
(parte)
FLAMM.
Oh bella cosa! Oh bellissima cosa! (parte)
LEL.
Andiamo, amici.
La rabbia che ho avuto con mia moglie, mi ha fatto venire un appetito terribile.
(parte)
OTT.
Io mangio sempre bene ugualmente, perché rido di tutto, e non m'inquieto mai.
(parte)
FLOR.
Io non posso dire così.
Amo Rosaura, e peno rammentandomi d'averla disgustata.
Ella lo ha meritato, ma il mio cuor mi rimprovera di averla troppo villanamente trattata.
(parte)
SCENA SESTA
BEATRICE, ROSAURA, ELEONORA e CORALLINA
ELEON.
Avete veduto?
BEAT.
Avete sentito?
COR.
In fatti, chi mi ha detto del tesoro, non ha fallato.
ROS.
Come non ha fallato? Il tesoro dov'è?
COR.
Ecco lì.
(accenna la porta dove sono entrati gli uomini) Una buona tavola, allegra e di buon cuore, è il più bel tesoro del mondo.
ELEON.
Povero mio marito! Si diverte, non fa alcun male.
BEAT.
Mi pareva impossibile che Ottavio giocasse.
ROS.
Florindo è un giovane savio e dabbene, ma mi ha rimproverata con troppa crudeltà.
COR.
Vostro danno, signora, dovevate fidarvi di lui, e non mostrare tanta curiosità.
ROS.
Me ne ha fatto venir volontà la signora madre.
BEAT.
Io non l'ho fatto per curiosità, l'ho fatto per impegno.
ELEON.
Anch'io per un puntiglio.
BEAT.
E che sia la verità, andiamo a casa, che non vuò veder altro.
ELEON.
Sì, andiamo, signora Beatrice, che non paia che vogliamo vedere i fatti degli altri.
ROS.
Oh Dio! Chi sa se Florindo mi vorrà più bene! Vorrei vedere se mangia, o se sta malinconico.
BEAT.
Via, via, basta così.
(s'avvia per partire)
COR.
Aspettate un momento, vedrò io se il signor Florindo mangia o non mangia.
(va a spiare alla porta)
ELEON.
Eh via, che non istà bene spiare alle porte.
BEAT.
Andiamo, andiamo.
COR.
Oh che bella tavola! Oh che bella cosa!
BEAT.
In quanti sono? (torna indietro)
COR.
(Guarda) In sei.
ELEON.
Mangiano? (s'accosta)
COR.
Diluviano.
ROS.
Florindo mangia? (fa lo stesso)
COR.
Discorre.
BEAT.
Egli fa così.
Mangia adagio, e parla sempre.
ELEON.
E mio marito?
COR.
Oh se vedeste!
ELEON.
Che cosa?
COR.
Che bel pasticcio!
ELEON.
Come? (corre al buco della chiave)
BEAT.
Pasticcio di che? (corre anch'essa per vedere)
ELEON.
Via, signora, ci sono prima io.
(guarda dal bucolino)
BEAT.
Spicciatevi, voglio veder ancor io.
(ad Eleonora)
ROS.
(E poi diranno ch'io son curiosa!) (da sé)
ELEON.
Oh bello!
BEAT.
Lasciatemi vedere.
(fa andar via Eleonora, e guarda)
COR.
Questa fessura non la do a nessuno.
BEAT.
Oh bella cosa! (guardando)
ROS.
Ed io niente.
BEAT.
Bevono.
ELEON.
Chi? Voglio vedere.
ROS.
Voglio veder ancor io.
BEAT.
Venite qui.
(a Rosaura, dandole luogo)
ROS.
Florindo beve.
ELEON.
E Lelio?
ROS.
Taglia un pollo.
ELEON.
Voglio vederlo.
(tira via Rosaura con forza)
COR.
Presto, presto, ritiriamoci.
(si scosta)
ELEON.
Perché?
COR.
Arlecchino viene verso la porta.
BEAT.
Che cosa fa Arlecchino?
COR.
Serve in tavola.
BEAT.
Voglio vederlo...
(s'accosta all'uscio)
SCENA SETTIMA
ARLECCHINO dalla porta, con un tondo in mano con delle paste sfogliate; e dette.
ARL.
(Entrando s'incontra in Beatrice, e resta sospeso)
BEAT.
Zitto.
(ad Arlecchino)
ARL.
Cossa feu qua?
ELEON.
Zitto.
ARL.
Se i ve vede, poverette vu.
COR.
Bada bene, non dir nulla.
ARL.
Per mi no parlo.
Vag a metter via ste bagattelle, e po torno.
COR.
Che cosa sono?
ARL.
Quattro sfoiade: i mi incerti.
COR.
Lascia un po' vedere.
(ne prende una)
ARL.
Bon! Comodève.
COR.
Oh com'è buona!
BEAT.
Lascia sentire.
(ne prende un'altra)
ARL.
Padrona.
ELEON.
Con licenza.
(ne prende anch'essa una)
ARL.
Senza cerimonie.
ROS.
Ed io niente?
ARL.
Se la comanda, la toga questa.
ROS.
Per sentirla.
(prende la pasta sfogliata)
ARL.
Cussì ho destrigà el piatto presto.
Torno a oselar (4).
COR.
Portami qualche cosa di buono.
ARL.
Andè via, siora, che se i ve vede...
BEAT.
Non dir niente.
ARL.
Non parlo.
(entra e chiude la porta)
BEAT.
Andiamo via, prima d'essere scoperte.
ELEON.
Sì, sarà meglio.
ROS.
Andiamo, che il signor Florindo non abbia motivo un'altra volta di rimproverarmi.
COR.
Un'occhiatina, e vengo.
(corre alla porta)
BEAT.
Via, curiosa!
COR.
Oh bello! (guardando)
BEAT.
Che cosa c'è di bello? (torna verso la porta)
COR.
Il deser.
ELEON.
Il deser? (verso la porta)
ROS.
Con i lumi?
COR.
Bello, di cristallo, coi fiori.
Pare un giardino.
BEAT.
Voglio vedere.
ELEON.
Voglio vedere.
ROS.
Ancor io.
(tutte s'accostano e sforzano per vedere, onde si spalanca la porta ed escono)
SCENA OTTAVA
PANTALONE, OTTAVIO, LELIO, FLORINDO, LEANDRO, FLAMMINIO, alcuni con salviette, alcuni con lumi; e dette.
PANT.
Coss'è sto negozio?
LEL.
Eh, giuro a Bacco...
(contro Eleonora)
OTT.
Fermatevi: prudenza, moderazione.
(a Lelio)
PANT.
Come xele qua ste patrone? Chi le ha menade? Chi le ha introdotte?
SCENA ULTIMA
BRIGHELLA e detti.
BRIGH.
Sior padron, son qua mi.
Siori, son causa mi; le abbia la bontà de ascoltarme; se merito castigo, le me castiga, se merito premio, le fazza quel che le vol.
OTT.
V'ho capito.
Brighella le ha introdotte per disingannarle, perché non sospettino male di noi: è egli vero?
BRIGH.
Signor sì, le ho introdotte per questo.
Una diseva che qua se zoga, e se rovina le case; l'altra che vien donne cattive, e se maltratta la reputazion; una voleva che se fasse el lapis philosophorum; l'altra, che se cavasse un tesoro.
Ste cosse in bocca delle donne le impeniva in poco tempo el paese, e per levarghele dalla testa, el dir no bastava, el criar giera gnente e no remediava.
Bisognava sincerarle, bisognava che co i so occhi, colle so orecchie le vedesse, le sentisse, e le se cavasse dal cuor sta maledetta curiosità.
Le ha visto, le ha sentìo, no le sospetterà più, no le sarà più curiose.
Mi l'ho introdotte, mi l'ho fatto per ben, e spero che da sta mia invenzion ghe ne deriva del ben.
PANT.
No so cossa dir.
Ti t'ha tolto una libertà granda; ti ha disobbedio el mio comando; ti meriteressi che te cazzasse subito via de qua.
Ma se xe vero che sincerade ste donne le abbia da lassar in pase i so omeni, e lassar in quiete sto nostro liogo, te perdono, te lodo, e te prometto un regalo.
BRIGH.
Cosa disele, patrone, èle sincerade?
BEAT.
Io non aveva bisogno di vedere, per assicurarmi della prudenza di mio marito.
OTT.
Perché dunque siete venuta?
BEAT.
Per contentare mia figlia.
FLOR.
La signora Rosaura non mi crede?
ROS.
Le male lingue mi facevano dubitare, ma io era certissima della vostra fede.
LEL.
E voi, signora consorte carissima, l'avete voluto sostenere quel vostro indegnissimo lo saprò.
ELEON.
Via, marito, non vi è più pericolo ch'io dica lo saprò.
LEL.
Perché avete saputo.
COR.
Cari signori, compatiteci: alfin siamo donne.
Quel sentir a dire: là dentro non possono andar le donne, è lo stesso che metterci in desiderio d'andarvi.
E per me, se dicessero: in fondo d'un pozzo vi è una cosa che non si ha da sapere che cosa sia, mi farei calar giù sin alla gola, per cavarmi una tale curiosità.
PANT.
La curiosità ve l'avè cavada.
Seu contente?
ELEON.
Per me son contentissima.
Caro marito, non vi tormenterò più.
LEL.
Se avrete giudizio, sarà meglio per voi.
BEAT.
Siete in collera, signor Ottavio?
OTT.
Niente, consorte mia, niente.
Conosco il sesso, lo compatisco.
Niente.
ROS.
E voi, signor Florindo?
FLOR.
Scordatevi de' miei trasporti, ch'io mi scorderò di ogni vostro vano sospetto.
OTT.
Le mie chiavi come diavolo le avete avute?
COR.
Niente, signore, con una chicchera di caffè.
OTT.
Ah galeotta! Ora me ne ricordo.
E voi che volevate ch'io mi levassi il vestito? (a Beatrice)
BEAT.
Compatitemi.
PANT.
Via, a monte tutto.
Sarale più curiose?
BEAT.
Non v'è pericolo.
ELEON.
Io no, sicuro.
ROS.
Né men io certamente.
COR.
Oh, mai più curiosità, mai più.
PANT.
Donca le se quieta, le se consola, e le vaga tutte a bon viazo.
Qua no volemo donne.
Le ha sentìo el perché.
Le ne fazza sta grazia, le vaga via.
BEAT.
Andiamo?
ELEON.
Che dite, signora Rosaura?
ROS.
Bisognerà andare.
PANT.
Mo via, cossa fale che no le va?
COR.
Io vi dirò, signore, muoiono di volontà di veder quel bel deser.
ELEON.
Sì, e tutte quelle belle camere.
BEAT.
Via, giacché ci siamo.
ROS.
Questa volta, e non più.
PANT.
Da resto po no le sarà più curiose.
Andemo, sodisfemole, femoghe véder tutto.
E po? no le sarà più curiose.
Questo xe un mal, che dalla testa no gh'el podemo levar.
Basta ben che de nu le sia sincerade, che el nostro modo de viver el sia giustificà, e che le ne lassa gòder in pase tra de nu, senza pettegolezzi, la nostra onoratissima conversazion.
Amicizia.
TUTTI Amicizia, amicizia.
Fine della Commedia
NOTE:
(1) Vuol dire potabile e dice uno sproposito.
(2) È una parola in gergo, che vuol dire fuggo via
(3) Dice che andava a caccia di scorpioni, per dire una facezia.
(4) A uccellare, a buscar qualche cosa.
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