[Pagina precedente]...ià di ravviare i lavori: i padroni pensavano già a cercare e a caparrare operai, e in quell'arti principalmente dove il numero n'era stato scarso anche prima del contagio, com'era quella della seta. Renzo, senza fare il lezioso, promise (salve però le debite approvazioni) al cugino di rimettersi al lavoro, quando verrebbe accompagnato, a stabilirsi in paese. S'occupò intanto de' preparativi più necessari: trovò una casa più grande; cosa divenuta pur troppo facile e poco costosa; e la fornì di mobili e d'attrezzi, intaccando questa volta il tesoro, ma senza farci un gran buco, ché tutto era a buon mercato, essendoci molta più roba che gente che la comprassero.
Dopo non so quanti giorni, ritornò al paese nativo, che trovò ancor più notabilmente cambiato in bene. Trottò subito a Pasturo; trovò Agnese rincoraggita affatto, e disposta a ritornare a casa quando si fosse; di maniera che ce la condusse lui: né diremo quali fossero i loro sentimenti, quali le parole, al rivedere insieme que' luoghi.
Agnese trovò ogni cosa come l'aveva lasciata. Sicché non poté far a meno di non dire che, questa volta, trattandosi d'una povera vedova e d'una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli.
- E l'altra volta, - soggiungeva, - che si sarebbe creduto che il Signore guardasse altrove, e non pensasse a noi, giacché lasciava portar via il povero fatto nostro; ecco che ha fatto vedere il contrario, perché m'ha mandato da un'altra parte di bei danari, con cui ho potuto rimettere ogni cosa. Dico ogni cosa, e non dico bene; perché il corredo di Lucia che coloro avevan portato via bell'e nuovo, insieme col resto, quello mancava ancora; ma ecco che ora ci viene da un'altra parte. Chi m'avesse detto, quando io m'arrapinavo tanto a allestir quell'altro: tu credi di lavorar per Lucia: eh povera donna! lavori per chi non sai: sa il cielo, questa tela, questi panni, a che sorte di creature anderanno indosso: quelli per Lucia, il corredo davvero che ha da servire per lei, ci penserà un'anima buona, la quale tu non sai né anche che la sia in questo mondo.
Il primo pensiero d'Agnese fu quello di preparare nella sua povera casuccia l'alloggio il più decente che potesse, a quell'anima buona: poi andò in cerca di seta da annaspare; e lavorando ingannava il tempo.
Renzo, dal canto suo, non passò in ozio que' giorni già tanto lunghi per sé: sapeva far due mestieri per buona sorte; si rimise a quello del contadino. Parte aiutava il suo ospite, per il quale era una gran fortuna l'avere in tal tempo spesso al suo comando un'opera, e un'opera di quell'abilità ; parte coltivava, anzi dissodava l'orticello d'Agnese, trasandato affatto nell'assenza di lei. In quanto al suo proprio podere, non se n'occupava punto, dicendo ch'era una parrucca troppo arruffata, e che ci voleva altro che due braccia a ravviarla. E non ci metteva neppure i piedi; come né anche in casa: ché gli avrebbe fatto male a vedere quella desolazione; e aveva già preso il partito di disfarsi d'ogni cosa, a qualunque prezzo, e d'impiegar nella nuova patria quel tanto che ne potrebbe ricavare.
Se i rimasti vivi erano, l'uno per l'altro, come morti resuscitati, Renzo, per quelli del suo paese, lo era, come a dire, due volte: ognuno gli faceva accoglienze e congratulazioni, ognuno voleva sentir da lui la sua storia. Direte forse: come andava col bando? L'andava benone: lui non ci pensava quasi più, supponendo che quelli i quali avrebbero potuto eseguirlo, non ci pensassero più né anche loro: e non s'ingannava. E questo non nasceva solo dalla peste che aveva fatto monte di tante cose; ma era, come s'è potuto vedere anche in vari luoghi di questa storia, cosa comune a que' tempi, che i decreti, tanto generali quanto speciali, contro le persone, se non c'era qualche animosità privata e potente che li tenesse vivi, e li facesse valere, rimanevano spesso senza effetto, quando non l'avessero avuto sul primo momento; come palle di schioppo, che, se non fanno colpo, restano in terra, dove non dà nno fastidio a nessuno. Conseguenza necessaria della gran facilità con cui li seminavano que' decreti. L'attività dell'uomo è limitata; e tutto il di più che c'era nel comandare, doveva tornare in tanto meno nell'eseguire. Quel che va nelle maniche, non può andar ne' gheroni.
Chi volesse anche sapere come Renzo se la passasse con don Abbondio, in quel tempo d'aspetto, dirò che stavano alla larga l'uno dall'altro: don Abbondio, per timore di sentire intonar qualcosa di matrimonio: e, al solo pensarci, si vedeva davanti agli occhi don Rodrigo da una parte, co' suoi bravi, il cardinale dall'altra, co' suoi argomenti: Renzo, perché aveva fissato di non parlargliene che al momento di concludere, non volendo risicare di farlo inalberar prima del tempo, di suscitar, chi sa mai? qualche difficoltà , e d'imbrogliar le cose con chiacchiere inutili. Le sue chiacchiere, le faceva con Agnese. - Credete voi che verrà presto? - domandava l'uno. - Io spero di sì, - rispondeva l'altro: e spesso quello che aveva data la risposta, faceva poco dopo la domanda medesima. E con queste e con simili furberie, s'ingegnavano a far passare il tempo, che pareva loro più lungo, di mano in mano che n'era più passato.
Al lettore noi lo faremo passare in un momento tutto quel tempo, dicendo in compendio che, qualche giorno dopo la visita di Renzo al lazzeretto, Lucia n'uscì con la buona vedova; che, essendo stata ordinata una quarantina generale, la fecero insieme, rinchiuse nella casa di quest'ultima; che una parte del tempo fu spesa in allestire il corredo di Lucia, al quale, dopo aver fatto un po' di cerimonie, dovette lavorare anche lei; e che, terminata che fu la quarantina, la vedova lasciò in consegna il fondaco e la casa a quel suo fratello commissario; e si fecero i preparativi per il viaggio. Potremmo anche soggiunger subito: partirono, arrivarono, e quel che segue; ma, con tutta la volontà che abbiamo di secondar la fretta del lettore, ci son tre cose appartenenti a quell'intervallo di tempo, che non vorremmo passar sotto silenzio; e, per due almeno, crediamo che il lettore stesso dirà che avremmo fatto male.
La prima, che, quando Lucia tornò a parlare alla vedova delle sue avventure, più in particolare, e più ordinatamente di quel che avesse potuto in quell'agitazione della prima confidenza, e fece menzione più espressa della signora che l'aveva ricoverata nel monastero di Monza, venne a sapere di costei cose che, dandole la chiave di molti misteri, le riempiron l'animo d'una dolorosa e paurosa maraviglia. Seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d'atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s'era ravveduta, s'era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo. Chi volesse conoscere un po' più in particolare questa trista storia, la troverà nel libro e al luogo che abbiam citato altrove, a proposito della stessa persona (Ripam. Hist. Pat., Dec. V, Lib. VI, Cap. III.).
L'altra cosa è che Lucia, domandando del padre Cristoforo a tutti i cappuccini che poté vedere nel lazzeretto, sentì, con più dolore che maraviglia, ch'era morto di peste.
Finalmente, prima di partire, avrebbe anche desiderato di saper qualcosa de' suoi antichi padroni, e di fare, come diceva, un atto del suo dovere, se alcuno ne rimaneva. La vedova l'accompagnò alla casa, dove seppero che l'uno e l'altra erano andati tra que' più. Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch'era stato dotto, l'anonimo ha creduto d'estendersi un po' più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto.
Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de' più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all'ultimo, quell'opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.
- In rerum natura, - diceva, - non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l'uno né l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all'altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da' venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al tatto; e questo contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all'altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all'altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dà nno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d'esantemi, d'antraci...?
- Tutte corbellerie, - scappò fuori una volta un tale.
- No, no, - riprese don Ferrante: - non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell'e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.
Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l'autorità d'un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l'errore di que' medici non consisteva già nell'affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.
- La c'è pur troppo la vera cagione, - diceva; - e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell'altra così in aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s'è sentito dire che l'influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l'influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là , e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de' corpi terreni, potesse impedir l'effetto virtuale de' corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de' cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire, come u...
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