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solletico:la quale affezzione è tutta nostra, e non punto della mano; e parmi che gravemente errerebbe chi volesse dire, la mano, oltre al moto ed al toccamento, avere in sé un'altra facoltà diversa da queste, cioè il solleticare, sì che il solletico fusse un accidente che risedesse in lei. Un poco di carta o una penna, leggiermente fregata sopra qualsivoglia parte del corpo nostro, fa, quanto a sé, per tutto la medesima operazione, ch'è muoversi e toccare; ma in noi, toccando tra gli occhi, il naso, e sotto le narici, eccita una titillazione quasi intollerabile, ed in altra parte a pena si fa sentire. Or quella titillazione è tutta di noi, e non della penna, e rimosso il corpo animato e sensitivo, ella non è più altro che un puro nome. Ora, di simile e non maggiore essistenza credo io che possano esser molte qualità che vengono attribuite a i corpi naturali, come sapori, odori, colori ed altre.
Un corpo solido, e, come si dice, assai materiale, mosso ed applicato a qualsivoglia parte della mia persona, produce in me quella sensazione che noi diciamo tatto, la quale, se bene occupa tutto il corpo, tuttavia pare che principalmente risegga nelle palme delle mani, e più ne i polpastrelli delle dita, co' quali noi sentiamo piccolissime differenze d'aspro, liscio, molle e duro, che con altre parti del corpo non così bene le distinguiamo; e di queste sensazioni altre ci sono più grate, altre meno, secondo la diversità delle figure de i corpi tangibili, lisce o scabrose, acute o ottuse, dure o cedenti: e questo senso, come più materiale de gli altri e ch'è fatto dalla solidità della materia, par che abbia riguardo all'elemento della terra. E perché di questi corpi alcuni si vanno continuamente risolvendo in particelle minime, delle quali altre, come più gravi dell'aria, scendono al basso, ed altre, più leggieri, salgono ad alto; di qui forse nascono due altri sensi, mentre quelle vanno a ferire due parti del corpo nostro assai più sensitive della nostra pelle, che non sente l'incursioni di materie tanto sottili tenui e cedenti: e quei minimi che scendono, ricevuti sopra la parte superiore della lingua, penetrando, mescolati colla sua umidità , la sua sostanza, arrecano i sapori, soavi o ingrati, secondo la diversità de' toccamenti delle diverse figure d'essi minimi, e secondo che sono pochi o molti, più o men veloci; gli altri, che accendono, entrando per le narici, vanno a ferire in alcune mammillule che sono lo strumento dell'odorato, e quivi parimente son ricevuti i lor toccamenti e passaggi con nostro gusto o noia, secondo che le lor figure son queste o quelle, ed i lor movimenti, lenti o veloci, ed essi minimi, pochi o molti. E ben si veggono providamente disposti, quanto al sito, la lingua e i canali del naso: quella, distesa di sotto per ricevere l'incursioni che scendono; e questi, accommodati per quelle che salgono: e forse all'eccitar i sapori si accommodano con certa analogia i fluidi che per aria discendono, ed a gli odori gl'ignei che ascendono. Resta poi l'elemento dell'aria per li suoni: i quali indifferentemente vengono a noi dalle parti basse e dall'alte e dalle laterali, essendo noi costituiti nell'aria, il cui movimento in se stessa, cioè nella propria regione, è egualmente disposto per tutti i versi; e la situazion dell'orecchio è accommodata, il più che sia possibile, a tutte le positure di luogo; ed i suoni allora son fatti, e sentiti in noi, quando (senz'altre qualità sonore o transonore) un frequente tremor dell'aria, in minutissime onde increspata, muove certa cartilagine di certo timpano ch'è nel nostro orecchio. Le maniere poi esterne, potenti a far questo increspamento nell'aria, sono moltissime; le quali forse si riducono in gran parte al tremore di qualche corpo che urtando nell'aria l'increspa, e per essa con gran velocità si distendono l'onde, dalla frequenza delle quali nasce l'acutezza del suono, e la gravità dalla rarità . Ma che ne' corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via gli orecchi le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell'animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l'ascelle e la pelle intorno al naso. E come a i quattro sensi considerati à nno relazione i quattro elementi, così credo che per la vista, senso sopra tutti gli altri eminentissimo, abbia relazione la luce, ma con quella proporzione d'eccellenza qual è tra 'l finito e l'infinito, tra 'l temporaneo e l'instantaneo, tra 'l quanto e l'indivisibile, tra la luce e le tenebre. Di questa sensazione e delle cose attenenti a lei io non pretendo d'intenderne se non pochissimo, e quel pochissimo per ispiegarlo, o per dir meglio per adombrarlo in carte, non mi basterebbe molto tempo, e però lo pongo in silenzio.
E tornando al primo mio proposito in questo luogo, avendo già veduto come molte affezzioni, che sono reputate qualità risedenti ne' soggetti esterni, non à nno veramente altra essistenza che in noi, e fuor di noi non sono altro che nomi, dico che inclino assai a credere che il calore sia di questo genere, e che quelle materie che in noi producono e fanno sentire il caldo, le quali noi chiamiamo con nome generale
fuoco,siano una moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità ; li quali, incontrando il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità , e che il lor toccamento, fatto nel lor passaggio per la nostra sostanza e sentito da noi, sia l'affezzione che noi chiamiamo
caldo,grato o molesto secondo la moltitudine e velocità minore o maggiore d'essi minimi che ci vanno pungendo e penetrando, sì che grata sia quella penetrazione per la quale si agevola la nostra necessaria insensibil traspirazione, molesta quella per la quale si fa troppo gran divisione e risoluzione nella nostra sostanza: sì che in somma l'operazion del fuoco per la parte sua non sia altro che, movendosi, penetrare colla sua massima sottilità tutti i corpi, dissolvendogli più presto o più tardi secondo la moltitudine e velocità degl'ignicoli e la densità o rarità della materia d'essi corpi; de' quali corpi molti ve ne sono de' quali, nel lor disfacimento, la maggior parte trapassa in altri minimi ignei, e va seguitando la risoluzione fin che incontra materie risolubili. Ma che oltre alla figura, moltitudine, moto, penetrazione e toccamento, sia nel fuoco altra qualità , e che questa sia caldo, io non lo credo altrimenti; e stimo che questo sia talmente nostro, che, rimosso il corpo animato e sensitivo, il calore non resti altro che un semplice vocabolo. Ed essendo che questa affezzione si produce in noi nel passaggio e toccamento de' minimi ignei per la nostra sostanza, è manifesto che quando quelli stessero fermi, la loro operazion resterebbe nulla: e così veggiamo una quantità di fuoco, ritenuto nelle porosità ed anfratti di un sasso calcinato, non ci riscaldare, ben che lo tegniamo in mano, perch'ei resta in quiete; ma messo il sasso nell'acqua, dov'egli per la di lei gravità ha maggior propensione di muoversi che non aveva nell'aria, ed aperti di più i meati dall'acqua, il che non faceva l'aria, scappando i minimi ignei ed incontrando la nostra mano, la penetrano, e noi sentiamo il caldo.
Perché, dunque, ad eccitare il caldo non basta la presenza de gl'ignicoli, ma ci vuol il lor movimento ancora, quindi pare a me che non fusse se non con gran ragione detto, il moto esser causa di calore. Questo è quel movimento per lo quale s'abbruciano le frecce e gli altri legni e si liquefà il piombo e gli altri metalli, mentre i minimi del fuoco, mossi o per se stessi con velocità , o, non bastando la propria forza, cacciati da impetuoso vento de' mantici, penetrano tutti i corpi, e di quelli alcuni risolvono in altri minimi ignei volanti, altri in minutissima polvere, ed altri liquefanno e rendono fluidi come acqua. Ma presa questa proposizione nel sentimento commune, sì che mossa una pietra, o un ferro, o legno, ei s'abbia a riscaldare, l'ho ben per una solenne vanità . Ora, la confricazione e stropicciamento di due corpi duri, o col risolverne parte in minimi sottilissimi e volanti, o coll'aprir l'uscita a gl'ignicoli contenuti, gli riduce finalmente in moto, nel quale incontrando i nostri corpi e per essi penetrando e scorrendo, e sentendo l'anima sensitiva nel lor passaggio i toccamenti, sente quell'affezzione grata o molesta, che noi poi abbiamo nominata
caldo,
bruciore o
scottamento.E forse mentre l'assottigliamento e attrizione resta e si contiene dentro a i minimi quanti, il moto loro è temporaneo, e la lor operazione calorifica solamente; che poi arrivando all'ultima ed altissima risoluzione in atomi realmente indivisibili, si crea la luce, di moto o vogliamo dire espansione e diffusione instantanea, e potente per la sua, non so s'io debba dire sottilità , rarità , immaterialità , o pure altra condizion diversa da tutte queste ed innominata, potente, dico, ad ingombrare spazii immensi.
Io non vorrei, Illustrissimo Signore, inavvertentemente ingolfarmi in un oceano infinito, onde io non potessi poi ridurmi in porto; né vorrei, mentre procuro di rimuovere una dubitazione, dar causa al nascerne cento, sì come temo che anco in parte possa essere occorso per questo poco che mi sono scostato da riva: però voglio riserbarmi ad altra occasion più opportuna.
49. "Dum Galilæus de fulgore illo agit, qui, luminosis corporibus circumfusus, eminus spectantibus ab ipso luminoso corpore non distinguitur, ait primo, illum in oculi superficie per refractionem radiorum in insidente humore fieri, non autem circa astrum aut flammam revera consistere; addit secundo, aërem illuminari non posse; tertio vero, corpora luminosa si per tubum conspiciantur, larga illa radiatione spoliari. Porro ad harum propositionum veritatem investigandam, illud quod secundo loco positum est, primo est a nobis expendendum, hoc est an illuminari aër possit: ex hoc enim reliqua pendere videntur.
Qua in quæstione supponendum, primum, ex opticis ac physicis est, lumen non videri nisi terminatum; terminari autem non posse, nisi corpore aliquo opaco; perspicuum enim, qua perspicuum est, lucem non terminat, sed liberum eidem transitum præbet: secundum, aërem purum ac sincerum maxime perspicuum esse, minusque proinde aptum ad lumen terminandum; aërem vero impurum, multisque vaporibus admixtum, et lucem terminare et remittere ad oculum posse. Et quidem huius secundæ suppositionis prima pars ab omnibus, atque a Galilæo ipso, ultro conceditur: pars autem altera multis probatur experimentis.
Aurora enim in Solis exortu, atque in occasu crepuscula, satis indicant, impurum aërem illuminari posse; idem testantur coronæ, aræ, parelia, aliaque huiusmodi quæ ex aëre crassiori fiunt. Fateri hoc etiam videtur Galilæus in
Nuncio Sidereo,ubi circa Lunam vaporosum quemdam orbem ei qui Terræ circumfunditur non absimilem, statuit, quem a Sole illuminari asserit; quod de Ioviali etiam orbe videtur affirmare. Præterea, si quis Lunam post alicuius domus tectum adhuc latitantem, cum proxime emersura est, observet, maximam aëris partem eiusdem Lunæ lumine illustratam, quasi lunarem auroram, prius intuebitur; fulgorem autem hunc magis ac magis crescere comperiet, quo propior exortui Luna fuerit. Ridiculum autem esset affirmare auroram, crepuscula, aliosque huiusmodi splendores, in insidente oculis humore per refractionem gigni. Quid enim? dum Lunam ac Solem, altius provectos, brevi inclusos gyro intueor, siccioribus ne oculis sum, quam cum eosdem postea, horizonti proximos, in orbem ampliorem extensos aspicio? Satis igitur ex his patet, aërem impurum ac mixtum illuminari posse; quod etiam ratione pervincitur. Cum enim lumen terminetur ab eo quod aliquam...
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