IL RITORNO DALLA VILLEGGIATURA, di Carlo Goldoni - pagina 3
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Prego il cielo che la virtù del legame operi meglio per l'avvenire.
GIACINTA: Sì, così ha da essere, e così sarà.
Io prendo il signor Leonardo come un marito che mi è stato destinato dal cielo, che mi è dato dal padre.
So ch'io devo rispettarlo ed amarlo.
Circa al rispetto, farò il mio dovere; e circa all'amore, farò tutto quel ch'io potrò.
BRIGIDA: Perdoni, proponendosi ella di volerlo sì ben rispettare, non farà dunque né più né meno di quello ch'egli vorrà.
GIACINTA: Sì, ma il rispetto ha da esser reciproco.
S'io ho del rispetto per lui, egli ne ha d'avere per me.
Non ha perciò da trattarmi villanamente, e da tenermi in conto di schiava.
BRIGIDA: (Eh! già; vuol rispettare il marito, ma vorrà fare a suo modo).
GIACINTA: È molto che quel temerario di Guglielmo non abbia ancora tentato di farmi una visita.
BRIGIDA: S'egli venisse, m'immagino ch'ella non lo vorrebbe ricevere.
GIACINTA: Perché non l'ho da ricevere? Perché ho da usare questa viltà di mostrar paura di lui? Non ho da esser padrona di me medesima? Non avrò bastante virtù per vederlo e trattarlo con indifferenza? Sono stata debole, è vero; ma in tre giorni ch'io non lo tratto, ho avuto campo di ravvedermi, e di fortificarmi lo spirito e il cuore.
Bisogna pur ch'io mi avvezzi a ritrovarmi con esso lui, come mi ho da ritrovare con tanti altri.
Ha da esser marito di mia cognata.
Poco o molto, dobbiamo essere qualche volta insieme.
Che cosa direbbe il mondo, se io sfuggissi la di lui vista? No, no, vo' principiare per tempo ad accostumarmi a trattarlo come se mai non lo avessi né amato, né conosciuto; e son capace di farlo, ed ho coraggio di farlo, e vedrai tu stessa con che bravura, con che spirito, mi darà l'animo di eseguirlo.
BRIGIDA: E se il signor Leonardo non volesse ch'ella lo trattasse?
GIACINTA: Il signor Leonardo sarebbe un pazzo.
Perché non ha da voler che io pratichi un suo cognato?
BRIGIDA: Non sa ella quanto è sottile la gelosia?
GIACINTA: Il signor Leonardo sa che gelosie non ne voglio.
BRIGIDA: Ma per altro, diciamola qui fra noi, ha avuto qualche motivo d'averne.
GIACINTA: Quello che è stato, è stato.
Ha avuto la soddisfazione che Guglielmo dia parola di sposar sua sorella, e la sposerà, e ciò gli deve bastare.
Finalmente Guglielmo è un giovane onesto e civile, ed io sono una donna d'onore; e sarebbe una temerità il pensare diversamente.
BRIGIDA: (Può dir quel che vuole, io non mi persuaderò mai che la piaga sia risanata).
SCENA SESTA
Servitore e le suddette.
SERVITORE: Signora, è qui il signor Guglielmo che le vorrebbe far riverenza.
BRIGIDA: (Veggiamo un poco la sua bravura).
GIACINTA: (Oimè! che mai vuol dire questo gran foco che improvvisamente m'accende?).
BRIGIDA: (Oh! come vien rossa la poverina!).
GIACINTA: (Eh! coraggio ci vuole.
Superiamola quest'indegna passione).
Venga pure, è padrone.
SERVITORE (parte.)
BRIGIDA: Coraggio, signora padrona.
GIACINTA: Perché coraggio? A che mi vai tu insinuando il coraggio? Di che cosa ho d'aver timore? (Eccolo.
Oh cieli? tremo tutta, la passion mi tradisce ed il valore mi manca).
Brigida, un improvviso dolor di stomaco mi obbliga a ritirarmi.
Ricevi tu il signor Guglielmo, e digli che mi perdoni...
(Ah! mi ucciderei colle mie mani).
(Parte.)
SCENA SETTIMA
Brigida, poi Guglielmo.
BRIGIDA: Gran virtù, gran coraggio! Eh poverina! è donna anch'ella, è di carne e d'ossa come le altre.
GUGLIELMO: Dov'è la signora Giacinta?
BRIGIDA: Perdoni, signore, mi ha imposto di far le sue scuse.
GUGLIELMO: Mi ha pur detto il servitore ch'ella era qui.
BRIGIDA: C'era, per verità; ma l'ha chiamata il suo signor padre.
(Se gli dico che ha mal di stomaco, non lo crede, è una magra scusa).
GUGLIELMO: Aspetterò il suo comodo.
BRIGIDA: Scusi.
Che cosa vuole da lei?
GUGLIELMO: Ho da renderne conto a voi? Vo' fare il mio debito, riverirla, consolarmi del suo ritorno.
Ecco quello ch'io voglio; ed ecco soddisfatta la vostra curiosità.
BRIGIDA: Bene, signore.
Io rappresenterò alla padrona le di lei finezze, e sarà come se le avesse ricevute in persona.
GUGLIELMO: Non mi è permesso il vederla?
BRIGIDA: Non mancherà tempo.
È ancora stanca dal viaggio.
GUGLIELMO: Questo è un insulto che mi vien fatto.
Sono un uomo d'onore, e non credo di meritarlo.
BRIGIDA: Caro signor mio, prenda la cosa come le pare; io non so che dirle.
(Voglio veder io di rompere quest'amicizia, se posso).
GUGLIELMO: Dite alla signora Giacinta che io sono lo sposo della signora Vittoria.
BRIGIDA: Credo ch'ella lo sappia, senza ch'io glielo dica.
GUGLIELMO: E se non avessi questo carattere, non sarei venuto ad incomodarla.
BRIGIDA: In virtù di questo carattere, avrà tempo di vederla e di rivederla, e di dirle tutto quello che vuole.
GUGLIELMO: Voi dunque non le volete dir niente?
BRIGIDA: Niente affatto, con sua buona licenza.
GUGLIELMO: C'è in casa il signor Filippo?
BRIGIDA: Io non lo so, signore.
GUGLIELMO: Come dite di non saperlo, se poco fa mi diceste ch'egli ha chiamato la signora Giacinta?
BRIGIDA: E se io gli ho detto che ha chiamato la signora Giacinta, perché mi domanda se c'è?
GUGLIELMO: Per dir la verità, voi siete particolare.
BRIGIDA: Perdoni...
ho qualche cosa anch'io per il capo...
(Ha ragion da una parte; il zelo mi trasporta un po' troppo).
SCENA OTTAVA
Leonardo e detti.
LEONARDO: (Come! Guglielmo qui? Appena giunta Giacinta).
BRIGIDA: (Ecco il signor Leonardo.
E questo diavolo di Guglielmo non ha voluto andarsene).
LEONARDO: Dov'è la signora Giacinta? (A Brigida.)
BRIGIDA: È di là col suo signor padre.
(A Leonardo.)
GUGLIELMO: Amico.
(Salutando Leonardo.)
LEONARDO: Schiavo suo.
(A Guglielmo, bruscamente.) Domandatele se mi è permesso di riverirla.
(A Brigida.)
BRIGIDA: Sì, signore, la servo.
Perdoni: Paolino non è ancor ritornato?
LEONARDO: No, non è ancor ritornato.
BRIGIDA: Compatisca.
Quando ritornerà?
LEONARDO: Volete andare, o non volete andare?
BRIGIDA: Vado, vado.
(Oh! quest'è bella! Preme anche a me quanto possa premere a loro).
(Parte.)
LEONARDO: Siete molto sollecito a venir a complimentare la signora Giacinta.
GUGLIELMO: Fo il mio dovere.
LEONARDO: Non siete né sì attento, né sì polito verso la vostra sposa.
GUGLIELMO: Favorite dirmi in che cosa ho mancato.
LEONARDO: Non mi fate parlare.
GUGLIELMO: Se non parlerete, sarà impossibile ch'io vi capisca.
LEONARDO: L'avete veduta la signora Giacinta?
GUGLIELMO: Non signore.
Volea riverirla, e non mi è stato ancora permesso.
A voi non sarà negato l'accesso; onde vi supplico, col mezzo vostro, far ch'io possa esercitar con lei il mio dovere.
LEONARDO: Signor Guglielmo, quando pensate voi di concludere le nozze con mia sorella?
GUGLIELMO: Caro amico, io non credo che un matrimonio fra due persone civili s'abbia a formare senza le debite convenienze.
LEONARDO: Ma perché intanto si differisce di sottoscrivere il nuzial contratto?
GUGLIELMO: Questo può farsi qualunque volta vi piaccia.
LEONARDO: Facciamolo dentro d'oggi.
GUGLIELMO: Benissimo...
LEONARDO: Favorite di andar dal notaro a renderlo di ciò avvisato.
GUGLIELMO: Bene.
Andrò ad avvisarlo.
LEONARDO: Ma andate subito, se lo volete trovare in casa.
GUGLIELMO: Sì, vado subito.
Vi prego di pormi a' piedi della signora Giacinta; dirle ch'era venuto per un atto del mio rispetto.
(Convien dissimulare.
Non son contento s'io non le parlo ancora una volta).
(Parte.)
SCENA NONA
Leonardo, poi Brigida.
LEONARDO: Costui è d'un carattere che non arrivo ancora a comprendere.
Mi dà motivo di sospettare, e poi mi fa talvolta pentire de' miei sospetti.
La premura ch'egli ha di veder Giacinta, pare un po' caricata; ma se fosse reo di qualche indegna passione, non ardirebbe di parlar con me come parla, ed esibirsi ad accelerare il contratto con mia sorella.
BRIGIDA: Signore, la mia padrona la riverisce, la ringrazia della sua attenzione, e la supplica di perdono se questa mattina non può ricevere le di lei grazie, perché sta poco bene, ed ha bisogno di riposare.
LEONARDO: È a letto la signora Giacinta?
BRIGIDA: Non è a letto veramente, ma è sdraiata sul canapè.
Le duole il capo, e non può sentire a parlare.
LEONARDO: E non mi è permesso di vederla, di riverirla, e di sentire da lei medesima il suo incomodo?
BRIGIDA: Così m'ha detto, e così le dico.
LEONARDO: Bene.
Ditele che mi dispiace il suo male, che ne prevedo la causa, e che dal canto mio cercherò di contribuire alla sua salute.
(Con isdegno.)
BRIGIDA: Signore, non pensasse mai...
LEONARDO: Andate, e ditele quel che v'ho detto.
(Come sopra.)
BRIGIDA: (Ha ragione, per verità, ha ragione.
È cieca affatto, e la sua gran virtù se n'è andata in fumo).
(Parte.)
SCENA DECIMA
Leonardo, poi il Servitore.
LEONARDO: Sì, merito questo, e merito ancor di peggio.
Dovea avvedermene prima d'ora, ch'ella non ha per me né amore, né stima, né gratitudine.
Sono perdute le mie attenzioni; è vana la mia speranza, e guai a me se io arrivassi a sposarla.
Ho dunque da perderla? Ho da metterla in libertà, perché poi con mio scorno, e con disonore della mia casa, si vegga ella sposar Guglielmo, e quell'indegno burlarsi di me, e dell'impegno contratto con mia sorella? No, non lo sperino certamente.
Saprò scordarmi di quest'ingrata, ma non soffrirò vilmente l'insulto.
Troverò la maniera di vendicarmi.
Mi vendicherò ad ogni costo.
A costo di perdermi, di precipitarmi.
Sono in disordine, è vero, ma ho tanto ancora da potermi prendere una soddisfazione.
Vo' far vedere al mondo che ho spirito, che ho sentimento d'onore.
Sì, perfida, sì, amico traditore, mi vendicherò, me la pagherete.
SERVITORE: Signore, un di lei servo ha portata per lei questa lettera.
LEONARDO: E dov'è costui?
SERVITORE: Mi ha domandato se ella c'era.
Gli ho detto che sì.
Mi ha dato la lettera, ed è partito.
LEONARDO: Bene, bene.
Non occorr'altro.
(Legge la lettera piano.)
SERVITORE: (È molto in collera questo signore.
Ma anche la padrona è furente.
Sono andati in campagna con allegria, e sono tornati col diavolino pel capo).
(Parte.)
SCENA UNDICESIMA
LEONARDO (solo): Povero me! Che sento! Che lettera è questa che mi scrive Paolino! Sequestrati i beni miei di campagna? Sequestrati i mobili del palazzino? Sino la biancheria, le posate e l'argenteria che mi fu prestata? Paolino medesimo arrestato in campagna per ordine della giustizia? Questa è l'ultima mia rovina, la riputazione è perduta.
Piena ancora di gente è la villeggiatura di Montenero.
Che diranno di me i villeggianti? Quale strapazzo si farà colà del mio nome? Che serve ch'io abbia figurato sinora con tanto sfarzo e con tanto lustro, se ora si scoprono le mie miserie, e sarà condannata la mia ambizione? Ah! questo colpo mi avvilisce, mi atterra.
Giacinta, Guglielmo, si burleranno anch'essi di me.
Qual vendetta vo' io meditando contro di loro? Chi è il nemico maggiore ch'io abbia fuor di me stesso? Io sono il pazzo, lo stolido, il nemico di me medesimo.
(Parte.)
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Camera di Leonardo.
LEONARDO (solo): Io non so che mi fare.
Penso, e i miei tristi pensieri, anziché suggerirmi il rimedio, mi spingono alla disperazione.
Io non so più in Livorno come sussistere, e non ho il modo e non ho il coraggio di allontanarmi.
Che dirà di me la signora Giacinta? Come potrò io pretendere dal signor Filippo la di lui figliuola e gli ottomila scudi di dote nello stato miserabile in cui ora sono? Povero me! Fra le mie disgrazie non cessa ancora di tormentarmi l'amore.
Oh cieli! Ecco il signor Fulgenzio.
Arrossisco in vederlo; mi ricordo delle sue ammonizioni, de' suoi consigli, e so d'averne abusato.
SCENA SECONDA
Fulgenzio e il suddetto.
FULGENZIO: (Eccolo qui il pazzo, il prodigo, l'infatuato).
LEONARDO: Riverisco il mio carissimo signor Fulgenzio.
FULGENZIO: Servitor suo.
(Sostenuto.) Si è divertito bene in campagna?
LEONARDO: Caro signore, non mi parlate più di campagna.
Le ho concepito un odio sì grande, che non andrei più a villeggiare per tutto l'oro del mondo.
FULGENZIO: Sì, il proponimento è buono.
Il male è che l'avete fatto un po' tardi.
LEONARDO: È meglio tardi che mai.
FULGENZIO: Basta che si sia in tempo, e che il proponimento non nasca dall'impotenza, piuttosto che dalla volontà di far bene.
(Con caldo.)
LEONARDO: Io non credo di essere in tal precipizio...
FULGENZIO: E che cosa vi resta per essere rovinato più di quello che siete? Volete vendere a me pure lucciole per lanterne? Mi maraviglio di voi.
Mi maraviglio che abbiate avuto il coraggio d'imbarazzare un galantuomo della mia sorte a chiedere per voi una fanciulla in isposa.
Voi sapevate lo stato vostro, e chiamasi un tradimento, una baratteria bella e buona.
Ma dal canto mio ci rimedierò: farò sapere al signor Filippo la verità; faccia poi egli quel che vuole, me ne vo' lavare le mani, e faccio un solenne proponimento di non imbarazzarmi mai più.
LEONARDO: Ah! signor Fulgenzio, per amor del cielo, non mi mettete all'ultima disperazione.
Giacché sapete lo stato mio, movetevi a compassione di me.
Io sono in circostanze lagrimose, che non mi resta alcun angolo in cui sperare di rifugiarmi, sarò costretto ad abbandonarmi alla più disperata risoluzione.
Senza roba, senza credito, senza amici, senza assistenza, la vita non mi serve che di rossor, che di pena.
Assistetemi, signor Fulgenzio, assistetemi; sono sull'orlo del precipizio, non fate che termini la mia casa con una tragedia, con uno spettacolo della mia persona.
FULGENZIO: Se foste mio figliuolo, vorrei rompervi l'ossa di bastonate.
Ecco il linguaggio de' vostri pari: sono disperato, voglio strozzarmi, voglio affogarmi.
A me poco dovrebbe premere, perché non ho verun interesse con voi.
Ma son uomo, sento l'umanità, ho compassione di tutti; meritate di essere abbandonato, ma non ho cuore di abbandonarvi.
LEONARDO: Ah! il cielo vi benedica.
Salvate un uomo, salvate una desolata famiglia.
Liberatemi dal rossore, dalla miseria, dalla folla de' creditori.
FULGENZIO: Ma che credete? Ch'io voglia rovinar me per aiutar voi? Ch'io voglia pagarvi i debiti, perché ne facciate degli altri?
LEONARDO: No, signor Fulgenzio, non ne farò più.
FULGENZIO: Io non vi credo un zero.
LEONARDO: In che consistono dunque le esibizioni che finora mi avete fatte?
FULGENZIO: Consistono in volermi adoperare per voi con dei buoni uffizi verso di vostro zio Bernardino, con delle buone parti verso chi ha più il modo di me, e qualche maggior obbligazione di soccorrervi nelle vostre disgrazie.
E se impiego per voi il tempo, i passi, e le parole, e i consigli, faccio più ancora di quello che mi s'aspetta.
LEONARDO: Signore, io sono nelle vostre mani; ma con mio zio Bernardino non si farà niente.
FULGENZIO: E perché non si farà niente?
LEONARDO: Perché è sordido, avaro, e non darebbe un quattrino, chi l'appiccasse; e poi ha una maniera così insultante, che non si può tollerare.
FULGENZIO: Sia come esser si voglia, si ha da far questo passo, si ha da principiare da qui per andare innanzi.
Se non v'aiuta lo zio, chi volete voi che lo faccia?
LEONARDO: È vero, non so negarlo; tutto quello che dite, è verissimo.
FULGENZIO: Venite dunque con me.
LEONARDO: Sì, vengo, ma ci vengo malissimo volentieri.
(In atto di partire.)
SCENA TERZA
Vittoria in abito di gala, e detti.
VITTORIA: Una parola, signor Leonardo.
LEONARDO: Ditela presto, ch'io non ho tempo da trattenermi.
VITTORIA: Voleva dirvi se volevate venir con me dalla signora Giacinta.
LEONARDO: Ci verrei volentieri, ma presentemente non posso.
Andateci voi.
Sappiatemi dire come sta, come vi riceve, come parla di me, e in quale disposizione si trovi rispetto ai nostri sponsali.
VITTORIA: Voi non l'avete ancora veduta?
LEONARDO: No, non l'ho potuta ancora vedere.
FULGENZIO: (Sollecitatevi, signor Leonardo).
LEONARDO: Eccomi.
(A Fulgenzio.)
VITTORIA: Caro fratello, se principiate a diminuire le attenzioni per lei, sapete com'ella è, vi resta pochissimo da sperare.
LEONARDO: Signor Fulgenzio, mezz'ora prima o mezz'ora dopo, mi pare sia lo stesso.
FULGENZIO: (Vostro zio va a pranzo per tempo, e dopo pranzo è solito di dormire).
(A Leonardo.)
LEONARDO: (Non perdiamo tempo dunque).
(A Fulgenzio.)
VITTORIA: S'ella mi domanda di voi, s'ella si lamenta che non mostrate premura di rivederla, che cosa volete ch'io le dica per iscusarvi?
LEONARDO: (Non si potrebbe differire a andar dallo zio dopo desinare.).
(A Fulgenzio.)
FULGENZIO: (Volete un'altra volta vedervi la casa piena di creditori?).
LEONARDO: (Cospetto! sarebbe per me una nuova disperazione).
FULGENZIO: (Andiamo.
Liberatevi da quest'affanno di cuore).
VITTORIA: Stupisco, signor fratello, che dopo quel che è accaduto in villa usiate tanta freddezza in una cosa che vi dovrebbe interessare all'estremo.
LEONARDO: (Ah! sì: Vittoria non dice male.
È pericolosa l'indifferenza.
Giacinta non mostra per me grand'amore, e tutto le potrebbe servir di pretesto).
FULGENZIO: (O venite, o vi pianto).
(A Leonardo.)
LEONARDO: (Un momento per carità).
(A Fulgenzio.)
VITTORIA: (Ehi! Ricordatevi di quella visita che ha fatto la signora Giacinta alla gastalda di Montenero).
(A Leonardo.)
LEONARDO: (Oh malizioso rimprovero che mi trafigge!).
Signor Fulgenzio, non potreste andar voi dallo zio Bernardino, e parlargli, ed intendere...
FULGENZIO: Ho capito! buon giorno a vossignoria.
(In atto di partire.)
LEONARDO: No, trattenetevi; verrò con voi.
(Dovunque mi volga, non ravviso che scogli, che tempeste, che precipizi).
Andate, dite alla signora Giacinta...
non so che risolvere...
ditele quel che vi pare.
Andiamo.
(A Fulgenzio.) Son fuori di me; non so quel che mi voglia.
S'accrescono i miei timori, le mie angustie, le mie crudeli disperazioni.
(Parte con Fulgenzio.)
SCENA QUARTA
Vittoria, poi Guglielmo e Ferdinando.
VITTORIA: È insolentissimo questo vecchio.
Ma nello stato in cui siamo, convien credere che mio fratello abbia bisogno di lui, e convien soffrirlo.
Oh, oh, ecco il signor Guglielmo! È tempo che si degni di favorirmi.
Ma c'è con lui quello sguaiato di Ferdinando.
Pare che Guglielmo lo faccia a posta.
Pare ch'egli fugga l'incontro di esser meco da solo a sola.
Quest'è segno di poco amore.
Sempre più si aumentano i miei sospetti.
FERDINANDO: (Ma, caro amico, ho i miei affari: io non mi posso trattener lungamente).
(A Guglielmo.)
GUGLIELMO: (Scusatemi.
La visita sarà breve.
Ho necessità di parlarvi).
(A Ferdinando.) (Giacché ci ho da venire per mio malanno, la compagnia d'un terzo mi giova).
(Da sé.)
VITTORIA: (Hanno de' gran segreti que' due signori).
FERDINANDO: M'inchino alla signora Vittoria.
VITTORIA: Signore, che mai vuol dire ch'ella con tanta bontà mi frequenta le di lei grazie? (A Ferdinando.)
FERDINANDO: Sono qui in compagnia dell'amico.
VITTORIA: Ha paura a venir solo il signor Guglielmo?
GUGLIELMO: Signora, scusatemi.
Fin ch'io non ho l'onore di essere vostro sposo, parmi che il decoro vostro esiga questo rispetto.
FERDINANDO: Ma, signori miei, quando si concludono le vostre nozze?
VITTORIA: Quando piacerà al gentilissimo signor Guglielmo.
GUGLIELMO: Signora, sapete meglio di me che un matrimonio non si può concludere su due piedi.
FERDINANDO: Avete fatta ancora la scritta?
VITTORIA: Signor no, non ha ancora trovato il tempo per eseguire questa gran cosa che si fa in un momento, e che dovea esser fatta al nostro arrivo in Livorno.
GUGLIELMO: Non mi è ancora riuscito di poter avere il notaro.
FERDINANDO: E che bisogno ci è di notaro? Tali scritture si fanno anche privatamente.
Mi era esibito di servirvi io a Montenero; e lo posso far qui, se volete.
VITTORIA: Se si contenta il signor Guglielmo.
GUGLIELMO: Per verità, il signor Leonardo mi ha incaricato di rintracciar il notaro.
L'ho già veduto, e siamo in concerto ch'ei si ritrovi qui questa sera.
Non mi pare che gli si abbia a fare una malagrazia, e che dalla mattina alla sera vi sia quest'estrema necessità per anticipare.
VITTORIA: Via, via, quando si ha da far questa sera...
FERDINANDO: Io credo che la signora Vittoria di già lo sapesse che si doveva in oggi sottoscrivere questa scritta.
VITTORIA: Perché credete voi ch'io il sapessi?
FERDINANDO: Perché si è vestita da sposa.
VITTORIA: No, v'ingannate.
Sono vestita un poco decentemente per far visita alla signora Giacinta.
GUGLIELMO: Volete andar ora dalla signora Giacinta?
VITTORIA: Sì, certo; giacché l'ho da far questa ceremonia, me ne vo' spicciare immediatamente.
GUGLIELMO: Andate sola?
VITTORIA: Voleva che venisse con me mio fratello; ma i suoi affari non gliel'hanno permesso.
GUGLIELMO: Vi servirò io, se lo comandate.
VITTORIA: Oh! signor Guglielmo, la ringrazio della bontà che ha per me; questa è la prima volta ch'io la ritrovo meco così gentile.
No, no, signore, non le voglio dar quest'incomodo.
(Ironicamente.)
FERDINANDO: (Ora principia la visita a divertirmi).
GUGLIELMO: Signora, scusatemi.
Io credo che l'andarvi insieme non sia che bene.
Sono in debito anch'io di far un simil dovere col signor Filippo e colla signora Giacinta; e se mi accompagno con voi, non ne dovreste essere malcontenta.
VITTORIA: Mi ricordo il vostro saggio riflesso.
Finché non siete mio sposo, non è conveniente che ci veggano andar insieme.
FERDINANDO: Dice bene; parla prudentemente.
Andate voi a sollecitare il notaio.
Io avrò l'onor di servirla dalla signora Giacinta.
VITTORIA: Non sarebbe mal fatto che al mio ritorno, fra un'ora al più, vi ritrovassi qui col notaio.
(A Guglielmo.)
GUGLIELMO: E volete andare col signor Ferdinando?
VITTORIA: Sì, andrò con lui, per non andar sola.
GUGLIELMO: Con lui vi piace, e con me vi dispiace?
FERDINANDO: Io mi esibisco per far piacere ad entrambi.
VITTORIA: Con lui non posso essere criticata.
(A Guglielmo.)
GUGLIELMO: Sì, signora, ho capito.
Il mio cattivo temperamento v'annoia.
Il signor Ferdinando è spiritoso e brillante.
Principiate assai di buon'ora a farmi comprendere che io devo essere un marito poco felice.
Parliamoci chiaro, signora: se io vi dispiaccio, siete ancora in libertà di risolvere.
VITTORIA: Se non avessi amore per voi non m'inquieterei per la vostra freddezza, e non vi darei tanti stimoli per sollecitare la scritta.
GUGLIELMO: Dite d'amarmi, e in faccia mia preferite un altro?
FERDINANDO: Ehi! amico, sareste per avventura di me geloso?
VITTORIA: Non credo mai che vi venissero in capo di tai pensieri.
(A Guglielmo.)
GUGLIELMO: Io non penso fuor di ragione; e mi persuado di quel ch'io vedo.
VITTORIA: Signor Guglielmo, parlatemi con sincerità.
GUGLIELMO: Io non vi posso parlare in miglior modo di quel che vi faccio.
Dicovi che questo è un torto che voi mi fate, e che non mi credeva di meritarlo.
VITTORIA: (Mi ama dunque più di quello ch'io supponeva).
FERDINANDO: Signori, se io ho da esser d'incomodo, me ne vado immediatamente.
GUGLIELMO: No, no, restate pure; e servite la signora Vittoria.
VITTORIA: No, caro signor Guglielmo, non prendete la cosa in sinistra parte.
Vi chiedo scusa se ho potuto spiacervi.
Vi amo colla maggior tenerezza del mondo.
Ho da essere vostra sposa, e da voi solo vogl'io dipendere.
Verrò con voi dalla signora Giacinta.
Tralascierò d'andarvi, se pur piace.
GUGLIELMO: Il nostro debito ci sprona egualmente a quest'atto di convenienza.
VITTORIA: Andiamoci dunque immediatamente.
Scusi, signor Ferdinando, s'io non mi prevalgo delle sue grazie.
FERDINANDO: Si serva pure.
Per me sono indifferente.
GUGLIELMO: Il signor Ferdinando favorirà di venir con noi.
VITTORIA: Ma non c'è bisogno...
GUGLIELMO: Sì, signora, ce n'è bisogno per quella massima di onestà, di decoro, che io ho suggerita, e che voi avete approvata.
FERDINANDO: Sicché dunque io ho da servire di comodino.
VITTORIA: Ah! signor Guglielmo, se è ver che mi amate...
GUGLIELMO: Via, andiamo, prima che si avvicini l'ora del pranzo.
VITTORIA: Eccomi pronta, come vi piace.
GUGLIELMO: Amico, favorite la signora Vittoria.
(A Ferdinando.)
FERDINANDO: Volete ch'io le dia braccio? (A Guglielmo.)
GUGLIELMO: Sì, fateci quest'onore.
VITTORIA: E perché non lo fate voi?
GUGLIELMO: So le mie convenienze, signora.
Mi basta di non essere maltrattato.
VITTORIA: Ma, io certamente...
GUGLIELMO: Signora, un poco più di rassegnazione: vi prego di lasciarvi servire.
VITTORIA: Obbedisco.
(Principio ad essere un po' più contenta).
(Dà la mano a Ferdinando.)
FERDINANDO: (Per dire la verità, mi fanno fare certe figure...
Basta; mi consolo che al pasto nuziale ci avrà da essere la mia posata).
(Parte con Vittoria.)
GUGLIELMO: (Quanto mai ho dovuto fingere e faticare, per cogliere l'opportunità di rivedere Giacinta).
(Parte.)
SCENA QUINTA
Camera in casa di Bernardino.
Bernardino in veste da camera all'antica, e Pasquale servitore; poi Fulgenzio.
BERNARDINO: Chi è che mi vuole? Chi mi domanda? (A Pasquale.)
PASQUALE: È il signor Fulgenzio che desidera riverirla.
BERNARDINO: Padrone, padrone.
Venga il signor Fulgenzio, padrone.
FULGENZIO: Riverisco il signor Bernardino.
BERNARDINO: Buon giorno, il mio caro amico.
Che fate? State bene? È tanto che non vi vedo.
FULGENZIO: Grazie al cielo sto bene, quanto è permesso ad un uomo avanzato che principia a sentire gli acciacchi della vecchiaia.
BERNARDINO: Fate come fo io, non ci abbadate.
Qualche male si ha da soffrire; ma chi non ci abbada, lo sente meno.
Io mangio quand'ho fame, dormo quando ho sonno, mi diverto quando ne ho volontà.
E non bado; non bado.
E a che cosa s'ha da badare? Ah, ah, ah, è tutt'uno! non ci s'ha da badare.
(Ridendo.)
FULGENZIO: Il cielo vi benedica: voi avete un bellissimo temperamento.
Felici quelli che sanno prendere le cose come voi le prendete.
BERNARDINO: È tutt'uno, è tutt'uno.
Non ci s'ha da badare.
(Ridendo.)
FULGENZIO: Sono venuto ad incomodarvi per una cosa di non lieve rimarco.
BERNARDINO: Caro signor Fulgenzio, sono qui, siete padrone di me.
FULGENZIO: Amico, io vi ho da parlare del signor Leonardo vostro nipote.
BERNARDINO: Del signor marchesino? Che fa il signor marchesino? Come si porta il signor marchesino?
FULGENZIO: Per dir la verità, non ha avuto molto giudizio.
BERNARDINO: Non ha avuto giudizio? Eh capperi! Mi pare che abbia più giudizio di noi.
Noi fatichiamo per vivere stentatamente; ed ei gode, scialacqua, tripudia, sta allegramente: e vi pare ch'ei non abbia giudizio?
FULGENZIO: Capisco che voi lo dite per ironia, e che nell'animo vostro lo detestate, lo condannate.
BERNARDINO: Oh! io non ardisco d'entrare nella condotta dell'illustrissimo signor marchesino Leonardo.
Ho troppo rispetto per lui, per il suo talento, per i suoi begli abiti gallonati.
(Ironico.)
FULGENZIO: Caro amico, fatemi la finezza, parliamo un poco sul serio.
BERNARDINO: Sì, anzi; parliamo pure sul serio.
FULGENZIO: Vostro nipote è precipitato.
BERNARDINO: È precipitato? È caduto forse di sterzo? I cavalli del tiro a sei hanno forse levato la mano al cocchiere?
FULGENZIO: Voi ridete, e la cosa non è da ridere.
Vostro nipote ha tanti debiti, che non sa da qual parte scansarsi.
BERNARDINO: Oh! quando non c'è altro mal, non è niente.
I debiti non faranno sospirar lui, faranno sospirare i suoi creditori.
FULGENZIO: E se non vi è più roba, né credito, come farà egli a vivere?
BERNARDINO: Niente; non è niente.
Vada un giorno per uno da quelli che hanno mangiato da lui, e non gli mancherà da mangiare.
FULGENZIO: Voi continuate sul medesimo tuono, e pare che vi burliate di me.
BERNARDINO: Caro il signor Fulgenzio, sapete quanta amicizia, quanta stima ho per voi.
FULGENZIO: Quand'è così, ascoltatemi come va, e rispondetemi in miglior maniera.
Sappiate che il signor Leonardo ha una buona occasione per maritarsi.
BERNARDINO: Me ne consolo, me ne rallegro.
FULGENZIO: Ed è per avere ottomila scudi di dote.
BERNARDINO: Me ne rallegro, me ne consolo.
FULGENZIO: Ma se non si rimedia alle sue disgrazie, non averà la figlia, e non averà la dote.
BERNARDINO: Eh! un uomo come lui? Batte un piè per terra, e saltano fuori i quattrini da tutte le parti.
FULGENZIO: (Or ora perdo la sofferenza.
Me l'ha detto il signor Leonardo).
Io vi dico che vostro nipote è in rovina.
(Sdegnato.)
BERNARDINO: Sì eh? Quando lo dite, sarà così.
(Fingendo serietà.)
FULGENZIO: Ma si potrebbe rimettere facilmente.
BERNARDINO: Benissimo, si rimetterà.
FULGENZIO: Però ha bisogno di voi.
BERNARDINO: Oh! questo poi non può essere.
FULGENZIO: E si raccomanda a voi.
BERNARDINO: Oh il signor marchesino! è impossibile.
FULGENZIO: È così, vi dico, si raccomanda alla vostra bontà, al vostro amore.
E se non temessi che lo riceveste male, ve lo farei venire in persona a far un atto di sommissione, e a domandarvi perdono.
BERNARDINO: Perdono? Di che mi vuol domandare perdono? Che cosa mi ha egli fatto da domandarmi perdono? Eh! mi burlate: io non merito queste attenzioni; a me non si fanno di tali uffizi.
Siamo amici, siamo parenti.
Il signor Leonardo? Oh! il signor Leonardo mi scusi, non ha da far con me queste ceremonie.
FULGENZIO: Se verrà da voi, l'accoglierete con buon amore?
BERNARDINO: E perché non l'ho da ricevere con buon amore?
FULGENZIO: Se mi permettete dunque, lo farò venire.
BERNARDINO: Padrone, quando vuole; padrone.
FULGENZIO: Quand'è così, ora lo chiamo, e lo fo venire.
BERNARDINO: E dov'è il signor Leonardo?
FULGENZIO: È di là in sala, che aspetta.
BERNARDINO: In sala, che aspetta? (Con qualche maraviglia.)
FULGENZIO: Lo farò venire, se vi contentate.
BERNARDINO: Sì, padrone; fatelo venire.
FULGENZIO: (Sentendo lui, può essere che si muova.
Per me mi è venuto a noia la parte mia).
(Parte.)
SCENA SESTA
Bernardino, poi Fulgenzio e Leonardo, poi Pasquale.
BERNARDINO: Ah, ah, il buon vecchio! se l'ha condotto con lui.
Ha attaccato egli la breccia, e poi ha il corpo di riserva per invigorire l'assalto.
FULGENZIO: Ecco qui il signor Leonardo.
LEONARDO: Deh! scusatemi, signor zio...
BERNARDINO: Oh! signor nipote, la riverisco; che fa ella? Sta bene? Che fa la sua signora sorella? Che fa la mia carissima nipotina? Si sono bene divertiti in campagna? Sono tornati con buona salute? Se la passano bene? Sì, via, me ne rallegro infinitamente.
LEONARDO: Signore, io non merito di esser da voi ricevuto con tanto amore, quanto ne dimostrano le cortesi vostre parole; onde ho ragion di temere, che con eccessiva bontà vogliate mascherare i rimproveri che a me sono dovuti.
BERNARDINO: Che dite eh? Che bel talento che ha questo giovane! Che maniera di dire! che bel discorso! (A Fulgenzio.)
FULGENZIO: Tronchiamo gl'inutili ragionamenti.
Sapete quel che vi ho detto.
Egli ha estremo bisogno della bontà vostra, e si raccomanda a voi caldamente.
BERNARDINO: Che possa...
in quel ch'io posso...
se mai potessi...
LEONARDO: Ah! signor zio...
(Col cappello in mano.)
BERNARDINO: Si copra.
LEONARDO: Pur troppo la mia mala condotta...
BERNARDINO: Metta il suo cappello in capo.
LEONARDO: Mi ha ridotto agli estremi.
BERNARDINO: Favorisca.
(Mette il cappello in testa a Leonardo.)
LEONARDO: E se voi non mi prestate soccorso...
BERNARDINO: Che ora abbiamo? (A Fulgenzio.)
FULGENZIO: Badate a lui, se volete.
(A Bernardino.)
LEONARDO: Deh! signor zio amatissimo...
(Si cava il cappello.)
BERNARDINO: Servitor umilissimo.
(Si cava la berretta.)
LEONARDO: Non mi voltate le spalle.
BERNARDINO: Oh! non farei questa mal'opera per tutto l'oro del mondo.
(Colla berretta in mano.)
LEONARDO: L'unica mia debolezza è stata la troppa magnifica villeggiatura.
(Sta col cappello in mano.)
BERNARDINO: Con licenza.
(Si pone la berretta.) Siete stati in molti quest'anno? Avete avuto divertimento?
LEONARDO: Tutte pazzie, signore; lo confesso, lo vedo, e me ne pento di tutto cuore.
BERNARDINO: È egli vero che vi fate sposo?
LEONARDO: Così dovrebbe essere, e ottomila scudi di dote potrebbono ristorarmi.
Ma se voi non mi liberate da qualche debito...
BERNARDINO: Sì, ottomila scudi sono un bel danaro.
FULGENZIO: La sposa è figliuola del signor Filippo Ganganelli.
BERNARDINO: Buono, lo conosco, è un galantuomenone; è un buon villeggiante; uomo allegro, di buon umore.
Il parentado è ottimo, me ne rallegro infinitamente.
LEONARDO: Ma se non rimedio a una parte almeno delle mie disgrazie...
BERNARDINO: Vi prego di salutare il signor Filippo per parte mia.
LEONARDO: Se non rimedio, signore, alle mie disgrazie...
BERNARDINO: E ditegli che me ne congratulo ancora con esso lui.
LEONARDO: Signore, voi non mi abbadate.
BERNARDINO: Sì, signore, sento che siete lo sposo, e me ne consolo.
LEONARDO: E non mi volete soccorrere?...
BERNARDINO: Che cosa ha nome la sposa?
LEONARDO: Ed avete cuore d'abbandonarmi?
BERNARDINO: Oh! che consolazione ch'io ho nel sentire che il mio signor nipote si fa sposo.
LEONARDO: La ringrazio della sua affettata consolazione, e non dubiti che non verrò ad incomodarla mai più.
BERNARDINO: Servitore umilissimo.
LEONARDO: (Non ve l'ho detto? Mi sento rodere; non la posso soffrire).
(A Fulgenzio, e parte.)
BERNARDINO: Riverisco il signor nipote.
FULGENZIO: Schiavo suo.
(A Bernardino, con sdegno.)
BERNARDINO: Buondì, il mio caro signor Fulgenzio.
FULGENZIO: Se sapeva così, non veniva ad incomodarvi.
BERNARDINO: Siete padroni di giorno, di notte, a tutte le ore.
FULGENZIO: Siete peggio d'un cane.
BERNARDINO: Bravo, bravo.
Evviva il signor Fulgenzio.
FULGENZIO: (Lo scannerei colle mie proprie mani).
(Parte.)
BERNARDINO: Pasquale?
PASQUALE: Signore.
BERNARDINO: In tavola.
(Parte.)
SCENA SETTIMA
Camera in casa di Filippo.
Giacinta e Brigida, poi il Servitore.
BRIGIDA: No, signora, non occorre dire: dirò, farò, così ha da essere, così voglio fare.
In certi incontri non siamo padrone di noi medesime.
GIACINTA: E che sì, che in un altro incontro non mi succederà più quello che mi è succeduto?
BRIGIDA: Prego il cielo che così sia, ma ne dubito.
GIACINTA: Ed io ne son sicurissima.
BRIGIDA: E donde può ella trarre una tal sicurezza?
GIACINTA: Senti: convien dire che il cielo mi vuol aiutare.
Nell'agitazione in cui era, per cercare di divertirmi ho preso un libro.
L'ho preso a caso, ma cosa più a proposito non mi potea venir alle mani; è intitolato: Rimedi per le malattie dello spirito.
Fra le altre cose ho imparato questa: Quand'uno si trova occupato da un pensiere molesto, ha da cercar d'introdurre nella sua mente un pensier contrario.
Dice che il nostro cervello è pieno d'infinite cellule, dove stan chiusi e preparati più e diversi pensieri.
Che la volontà può aprire e chiudere queste cellule a suo piacere, e che la ragione insegna alla volontà a chiuder questa e ad aprire quell'altra.
Per esempio, s'apre nel mio cervello la celletta che mi fa pensare a Guglielmo, ho da ricorrere alla ragione, e la ragione ha da guidare la volontà ad aprire de' cassettini ove stanno i pensieri del dovere, dell'onestà, della buona fama; oppure se questi non s'incontrano così presto, basta anche fermarsi in quelli delle cose più indifferenti, come sarebbe a dire d'abiti, di manifatture, di giochi di carte, di lotterie, di conversazioni, di tavole, di passeggi e di cose simili; e se la ragione è restia, e se la volontà non è pronta, scuoter la macchina, moversi violentemente, mordersi le labbra, ridere con veemenza, finché la fantasia si rischiari, si chiuda la cellula del rio pensiero, e s'apra quella cui la ragione addita ed il buon voler ci presenta.
BRIGIDA: Mi dispiace non saper leggere; vorrei pregarla mi permettesse poter anch'io leggere un poco su questo libro.
GIACINTA: Hai tu pure de' pensieri che ti molestano?
BRIGIDA: Ne ho uno, signora, che non mi lascia mai, né men quando dormo.
GIACINTA: Dimmi qual è, che può essere ch'io t'insegni qual cellula devi aprire per discacciarlo.
BRIGIDA: Egli è, signora mia, per confessarle la verità, ch'io sono innamoratissima di Paolino, ch'ei mi ha dato speranza di sposarmi; ed ora è a Montenero per servizio del suo padrone, e non si sa quando possa tornare.
GIACINTA: Eh! Brigida, questo tuo pensiere non è sì cattivo, né può essere sì molesto, che tu abbia d'affaticarti per discacciarlo.
Il partito non isconviene né a te, né a lui.
Non ci vedo ostacoli al tuo matrimonio; basta che, senza chiudere la cellula dell'amore, tu apra quella della speranza.
BRIGIDA: Per dir la verità, mi pare che tutte e due sieno ben aperte.
SERVITORE: Signora, vengono per riverirla la signora Vittoria, il signor Ferdinando ed il signor Guglielmo.
GIACINTA: (Oimè!).
Niente, niente, vengano.
Son padroni.
SERVITORE (parte.)
BRIGIDA: Eccoci al caso, signora padrona.
GIACINTA: Sì, ho piacere di trovarmi nell'occas
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