DECAMERON, di Giovanni Boccaccio - pagina 54
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La giovane donna, che tutto questo sapeva e vedeva, occultamente un suo servidore mandò a Palermo e imposegli che il bel Gerbino da sua parte salutasse e gli dicesse come ella in fra pochi dì era per andarne in Granata; per che ora si parrebbe se così fosse valente uomo come si diceva e se cotanto l'amasse quanto più volte significato l'avea.
Costui, a cui imposta fu, ottimamente fe'l'ambasciata e a Tunisi ritornossi.
Gerbino questo udendo e sappiendo che il re Guiglielmo suo avolo data avea la sicurtà al re di Tunisi, non sapeva che farsi; ma pur, da amor sospinto, avendo le parole della donna intese e per non parer vile, andatosene a Messina, quivi prestamente fece due galee sottili armare, e messivi su di valenti uomini, con esse sopra la Sardigna n'andò, avvisando quindi dovere la nave della donna passare.
Né fu di lungi l'effetto al suo avviso; per ciò che pochi dì quivi fu stato, che la nave con poco vento non guari lontana al luogo dove aspettandola riposto s'era sopravenne.
La qual veggendo Gerbino, a' suoi compagni disse:
- Signori, se voi così valorosi siete come io vi tegno, niun di voi senza aver sentito o sentire amore credo che sia, senza il quale, sì come io meco medesimo estimo, niun mortal può alcuna virtù o bene in sé avere; e se innamorati stati siete o sete, leggier cosa vi fia comprendere il mio disio.
Io amo, e amor m'indusse a darvi la presente fatica; e ciò che io amo nella nave che qui davanti ne vedete dimora, la quale, insieme con quella cosa che io più disidero, è piena di grandissime ricchezze, le quali, se valorosi uomini siete, con poca fatica, virilmente combattendo, acquistar possiamo.
Della qual vittoria io non cerco che in parte mi venga se non una donna, per lo cui amore i'muovo l'arme; ogni altra cosa sia vostra libera mente infin da ora.
Andiamo adunque, e bene avventurosa mente assagliamo la nave; Iddio, alla nostra impresa favorevole, senza vento prestarle la ci tien ferma.
Non erano al bel Gerbino tante parole bisogno, per ciò che i messinesi che con lui erano, vaghi della rapina, già con l'animo erano a far quello di che il Gerbino gli confortava con le parole.
Per che, fatto un grandissimo romore nella fine del suo parlare che così fosse, le trombe sonarono; e prese l'armi, dierono de' remi in acqua e alla nave pervennero.
Coloro che sopra la nave erano, veggendo di lontan venir le galee, non potendosi partire, s'apprestarono alla difesa.
Il bel Gerbino, a quella pervenuto, fe'comandare che i padroni di quella sopra le galee mandati fossero, se la battaglia non voleano.
I saracini, certificati chi erano e che domandassero, dissero sé essere contro alla fede lor data dal re da loro assaliti; e in segno di ciò mostrarono il guanto del re Guiglielmo e del tutto negaron di mai, se non per battaglia vinti, arrendersi o cosa che sopra la nave fosse lor dare.
Gerbino, il qual sopra la poppa della nave veduta aveva la donna troppo più bella assai che egli seco non estimava, infiammato più che prima, al mostrar del guanto rispose che quivi non avea falconi al presente perché guanto v'avesse luogo; e per ciò, ove dar non volesser la donna, a ricever la battaglia s'apprestassero.
La qual senza più attendere, a saettare e a gittar pietre l'un verso l'altro fieramente incominciarono, e lungamente con danno di ciascuna delle parti in tal guisa combatterono.
Ultimamente, veggendosi Gerbino poco util fare, preso un legnetto che di Sardigna menato aveano, e in quel messo fuoco, con amendue le galee quello accostò alla nave.
Il che veggendo i saracini e conoscendo sé di necessità o doversi arrendere o morire, fatto sopra coverta la figliola del re venire, che sotto coverta piagnea, e quella menata alla proda della nave e chiamato il Gerbino, presente agli occhi suoi lei gridante mercé e aiuto svenarono, e in mar gittandola dissono:
- Togli, noi la ti diamo qual noi possiamo e chente la tua fede l'ha meritata.
Gerbino, veggendo la crudeltà di costoro, quasi di morir vago, non curando di saetta né di pietra, alla nave si fece accostare; e quivi su, malgrado di quanti ve n'eran, montato, non altramenti che un leon famelico nell'armento di giuvenchi venuto or questo or quello svenando prima co' denti e con l'unghie la sua ira sazia che la fame, con una spada in mano or questo or quel tagliando de' saracini crudelmente molti n'uccise Gerbino; e, già crescente il fuoco nella accesa nave, fattone a' marinari trarre quello che si potè per appagamento di loro, giù se ne scese con poco lieta vittoria de' suoi avversari avere acquistata.
Quindi, fatto il corpo della bella donna ricoglier di mare, lungamente e con molte lagrime il pianse, e in Cicilia tornandosi, in Ustica, piccioletta isola quasi a Trapani dirimpetto, onorevolmente il fe'sepellire, e a casa più doloroso che altro uomo si tornò.
Il re di Tunisi, saputa la novella, suoi ambasciadori di nero vestiti al re Guiglielmo mandò, dogliendosi della fede che gli era stata male osservata, e raccontarono il come.
Di che il re Guiglielmo turbato forte, né vedendo via da poter lor giustizia negare (ché la dimandavano), fece prendere il Gerbino; ed egli medesimo, non essendo alcun de' baron suoi che con prieghi da ciò si sforzasse di rimuoverlo, il condannò nella testa e in sua presenzia gliele fece tagliare, volendo avanti senza nepote rimanere che esser tenuto re senza fede.
Adunque così miseramente in pochi giorni i due amanti, senza alcun frutto del loro amore aver sentito, di mala morte morirono, com'io v'ho detto.
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Novella Quinta
I fratelli dell'Isabetta uccidon l'amante di lei; egli l'apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato.
Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.
Finita la novella d'Elissa, e alquanto dal re commendata, a Filomena fu imposto che ragionasse; la quale, tutta piena di compassione del misero Gerbino e della sua donna, dopo un pietoso sospiro incominciò.
La mia novella, graziose donne, non sarà di genti di sì alta condizione, come costoro furono de' quali Elissa ha raccontato, ma ella per avventura non sarà men pietosa; e a ricordarmi di quella mi tira Messina poco innanzi ricordata, dove l'accidente avvenne.
Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il qual fu da San Gimignano, e avevano una lor sorella chiamata Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano.
E avevano oltre a ciò questi tre fratelli in uno lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva, il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte l'Isabetta guatato, avvenne che egli le 'ncominciò stranamente a piacere.
Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, incominciò a porre l'animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l'uno all'altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.
E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare che una notte, andando l'Isabetta là dove Lorenzo dormiva, che il maggior de' fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse.
Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò.
Poi, venuto il giorno, a' suoi fratelli ciò che veduto avea la passata notte dell'Isabetta e di Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d'infignersi del tutto d'averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel qua le essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso.
E in tal disposizion dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano avvenne che, sembianti faccendo d'andare fuori della città a diletto tutti e tre, seco menarono Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se ne accorse.
E in Messina tornati dieder voce d'averlo per lor bisogne mandato in alcun luogo; il che leggiermente creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo attorno usati.
Non tornando Lorenzo, e l'Isabetta molto spesso e sollicitamente i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente, che l'uno de' fratelli le disse:
- Che vuol dir questo? Che hai tu a fare di Lorenzo, ché tu ne domandi così spesso? Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene.
Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava, e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e, senza punto rallegrarsi, sempre aspettando si stava.
Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava, ed essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo l'apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e parvele che egli dicesse:
- O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t'attristi, e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l'ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m'uccisono.
E disegnatole il luogo dove sotterrato l'aveano, le disse che più nol chiamasse né l'aspettasse, e disparve.
La giovane destatasi, e dando fede alla visione, amaramente pianse.
Poi la mattina levata, non avendo ardire di dire al cuna cosa a' fratelli, propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l'era paruto.
E avuta la licenza d'andare alquanto fuor della terra a diporto, in compagnia d'una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto potè là se n'andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto; per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione.
Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse potuto volentieri tutto il corpo n'avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma, veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che potè gli spiccò dallo 'mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata e la terra sopra l'altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si partì e tornossene a casa sua.
Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille baci dandole in ogni parte.
Poi prese un grande e un bel testo, di questi nei quali si pianta la persa o il bassilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo, e poi messovi su la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano, e quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d'aranci o delle sue lagrime non inaffiava giammai; e per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto vagheggiato l'avea, sopr'esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il bassilico bagnava, piagnea.
Il bassilico, sì per lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v'era, divenne bellissimo e odorifero molto.
E servando la giovane questa maniera del continuo, più volte da' suoi vicini fu veduta.
Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro:
- Noi ci siamo accorti, che ella ogni dì tiene la cotal maniera.
Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da lei fecer portar via questo testo.
Il quale, non ritrovandolo ella, con grandissima instanzia molte volte richiese; e non essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella infermità domandava.
I giovani si maravigliavan forte di questo addimandare e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancor sì consumata che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei esser quella di Lorenzo.
Di che essi si maravigliaron forte e temettero non questa cosa si risapesse; e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono, se n'andarono a Napoli.
La giovane non restando di piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì; e così il suo disavventurato amore ebbe termine.
Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcuno che compuose quel la canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:
Quale esso fu lo malo cristiano,
che mi furò la grasta, ecc.
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Novella Sesta
L'Andreuola ama Gabriotto; raccontagli un sogno veduto ed egli a lei un altro; muorsi di subito nelle sue braccia; mentre che ella con una sua fante alla casa di lui nel portano, son prese dalla signoria, ed ella dice come l'opera sta; il podestà la vuole sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente trovata fa liberare; la quale, del tutto rifiutando di star più al mondo, si fa monaca.
Quella novella, che Filomena aveva detta, fu alle donne carissima, per ciò che assai volte avevano quella canzone udita cantare né mai avevan potuto, per domandarne, sapere qual si fosse la cagione per che fosse stata fatta.
Ma, avendo il re la fine di quella udita, a Panfilo impose che allo ordine andasse dietro.
Panfilo allora disse:
Il sogno nella precedente novella raccontato mi dà materia di dovervene raccontare una nella quale di due si fa menzione, li quali di cosa che a venire era, come quello di cosa intervenuta, furono, e appena furon finiti di dire da coloro che veduti gli aveano, che l'effetto seguì d'amenduni.
E però, amorose donne, voi dovete sapere che general passione è di ciascuno che vive il veder varie cose nel sonno, le quali, quantunque a colui che dorme, dormendo, tutte paian verissime, e desto lui, alcune vere, alcune verisimili, e parte fuori d'ogni verità iudichi, nondimeno molte esserne avvenute.
si truovano
Per la qual cosa molti a ciascun sogno tanta fede prestano quanta presterieno a quelle cose le quali vegghiando vedessero; e per li lor sogni stessi s'attristano e s'allegrano secondo che per quegli o temono o sperano.
E in contrario son di quegli che niuno ne credono se non poi che nel premostrato pericolo si veggono.
De' quali né l'uno né l'altro commendo, per ciò che né sempre son veri né ogni volta falsi.
Che essi non sien tutti veri, assai volte può ciascun di noi aver conosciuto; e che essi tutti non sien falsi, già di sopra nella novella di Filomena s'è dimostrato e nella mia, come davanti dissi, intendo di dimostrarlo.
Per che giudico che nel virtuosamente vivere e operare di niuno contrario sogno a ciò si dee temere, né per quello lasciare i buoni proponimenti; nelle cose perverse e malvagie, quantunque i sogni a quelle paiano favorevoli e con seconde dimostrazioni chi gli vede confortino, niuno se ne vuol credere; e così nel contrario a tutti dar piena fede.
Ma vegniamo alla novella.
Nella città di Brescia fu già un gentile uomo chiamato messer Negro da Ponte Carraro, il quale, tra più altri figliuoli, una figliuola avea nominata Andreuola, giovane e bella assai e senza marito, la qual per ventura d'un suo vicino, ch'avea nome Gabriotto, s'innamorò, uomo di bassa condizione ma di laudevoli costumi pieno e della persona bello e piacevole; e coll'opera e collo aiuto della fante della casa operò tanto la giovane, che Gabriotto non solamente seppe sé esser dalla Andreuola amato, ma ancora in un bel giardino del padre di lei più e più volte a diletto dell'una parte e dell'altra fu menato.
E acciò che niuna cagione mai, se non morte, potesse questo lor dilettevole amor separare, marito e moglie segretamente divennero.
E così furtivamente gli lor congiugnimenti continuando, avvenne che alla giovane una notte dormendo parve in sogno vedere sé essere nel suo giardino con Gabriotto, e lui con grandissimo piacer di ciascuno tener nelle sue braccia; e mentre che così dimoravan, le pareva veder del corpo di lui uscire una cosa oscura e terribile, la forma della quale essa non poteva conoscere, e parevale che questa cosa prendesse Gabriotto e mal grado di lei con maravigliosa forza gliele strappasse di braccio e con esso ricoverasse sotterra, né mai più riveder potesse né l'uno né l'altro.
Di che assai dolore e inestimabile sentiva, e per quello si destò; e desta, come che lieta fosse veggendo che non così era come sognato avea, nondimeno l'entrò del sogno veduto paura.
E per questo, volendo poi Gabriotto la seguente notte venir da lei, quanto potè s'ingegnò di fare che la sera non vi venisse; ma pure, il suo voler vedendo, acciò che egli d'altro non sospecciasse, la seguente notte nel suo giardino il ricevette.
E avendo molte rose bianche e vermiglie colte, per ciò che la stagione era, con lui a piè d'una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era, a starsi se n'andò.
E quivi, dopo grande e assai lunga festa insieme avuta, Gabriotto la domandò qual fosse la cagione per che la venuta gli avea il dì dinanzi vietata.
La giovane, raccontandogli il sogno da lei la notte davanti veduto e la suspezione presa di quello, gliele contò.
Gabriotto udendo questo se ne rise, e disse che grande sciocchezza era porre ne'sogni alcuna fede, per ciò che o per soperchio di cibo o per mancamento di quello avvenieno, ed esser tutti vani si vedeano ogni giorno; e appresso disse:
- Se io fossi voluto andar dietro a' sogni, io non ci sarei venuto, non tanto per lo tuo quanto per uno che io altressì questa notte passata ne feci, il qual fu, che a me pareva essere in una bella e dilettevol selva e in quella andar cacciando e aver presa una cavriuola tanto bella e tanto piacevole quanto alcuna altra se ne vedesse giammai; e pareami che ella fosse più che la neve bianca, e in brieve spazio divenisse sì mia dimestica, che punto da me non si partiva tuttavia.
A me pareva averla sì cara che, acciò che da me non si partisse, le mi pareva nella gola aver messo un collar d'oro, e quella con una catena d'oro tener colle mani.
E appresso questo mi pareva che, riposandosi questa cavriuola una volta e tenendomi il capo in seno, uscisse non so di che parte una veltra nera come carbone, affamata e spaventevole molto nella apparenza, e verso me se ne venisse; alla quale niuna resistenza mi parea fare; per che egli mi pareva che ella mi mettesse il muso in seno nel sinistro lato, e quello tanto rodesse che al cuor perveniva, il quale pareva che ella mi strappasse per portarsel via.
Di che io sentiva sì fatto dolore che il mio sonno si ruppe, e desto colla mano subitamente corsi a cercarmi il lato se niente v'avessi; ma mal non trovandomi, mi feci beffe di me stesso che cercato v'avea.
Ma che vuol questo per ciò dire? De' così fatti e de' più spaventevoli assai n'ho già veduti, né per ciò cosa del mondo più né meno me n'è intervenuto; e per ciò lasciagli andare e pensiamo di darci buon tempo.
La giovane, per lo suo sogno assai spaventata, udendo questo divenne troppo più; ma, per non esser cagione d'alcuno sconforto a Gabriotto, quanto più potè la sua paura nascose.
E come che con lui, abbracciandolo e baciandolo alcuna volta e da lui essendo abbracciata e baciata, si sollazzasse, suspicando e non sappiendo che, più che l'usato spesse volte il riguardava nel volto, e talvolta per lo giardin riguardava se alcuna cosa nera vedesse venir d'alcuna parte.
E in tal maniera dimorando, Gabriotto, gittato un gran sospiro, l'abbracciò e disse:
- Ohimè, anima mia, aiutami, ché io muoio; - e così detto, ricadde in terra sopra l'erba del pratello.
Il che veggendo la giovane e lui caduto ritirandosi in grembio, quasi piagnendo disse:
- O signor mio dolce, o che ti senti tu?
Gabriotto non rispose, ma ansando forte e sudando tutto, dopo non guari spazio passò della presente vita.
Quanto questo fosse grave e noioso alla giovane, che più che sé l'amava, ciascuna sel dee poter pensare.
Ella il pianse assai e assai volte in vano il chiamò; ma poi che pur s'accorse lui del tutto esser morto, avendolo per ogni parte del corpo cercato e in ciascuna trovandol freddo, non sappiendo che far né che dirsi, così lagrimosa come era e piena d'angoscia andò la sua fante a chiamare, la quale di questo amor consapevole era, e la sua miseria e il suo dolore le dimostrò.
E poi che miseramente insieme alquanto ebber pianto sopra il morto viso di Gabriotto disse la giovane alla fante:
- Poi che Iddio m'ha tolto costui, io non intendo di più stare in vita; ma prima che io ad uccider mi venga, vorre'io che noi prendessimo modo convenevole a servare il mio onore e il segreto amor tra noi stato, e che il corpo, del quale la graziosa anima s'è partita, fosse sepellito.
A cui la fante disse:
- Figliuola mia, non dir di volerti uccidere, per ciò che, se tu l'hai qui perduto, uccidendoti, anche nell'altro mondo il perderesti, per ciò che tu n'andresti in inferno, là dove io son certa che la sua anima non è andata per ciò che buon giovane fu; ma molto meglio è a confortarti e pensare d'aiutare con orazioni e con altro bene l'anima sua, se forse per alcun peccato commesso n'ha bisogno.
Del sepellirlo è il modo presto qui in questo giardino, il che niuna persona saprà giammai, per ciò che niun sa ch'egli mai ci venisse; e se così non vuogli, mettianlo qui fuori del giardino e lascianlo stare; egli sarà domattina trovato e portatone a casa sua e fatto sepellire da' suoi parenti.
La giovane, quantunque piena fosse d'amaritudine e continuamente piagnesse, pure ascoltava i consigli della sua fante; e alla prima parte non accordatasi, rispose alla seconda dicendo:
- Già Dio non voglia che così caro giovane e cotanto da me amato e mio marito, io sofferi che a guisa d'un cane sia sepellito o nella strada in terra lasciato.
Egli ha avute le mie lagrime, e in quanto io potrò egli avrà quelle de' suoi parenti; e già per l'animo mi va quello che noi abbiamo in ciò a fare.
E prestamente per una pezza di drappo di seta, la quale aveva in un suo forziere, la mandò; e venuta quella, in terra distesala, su il corpo di Gabriotto vi posero, e postagli la testa sopra uno origliere e con molte lagrime chiusigli gli occhi e la bocca, e fattagli una ghirlanda di rose e tutto dattorno delle rose che colte avevano empiutolo, disse alla fante:
- Di qui alla porta della sua casa ha poca via; e per ciò tu e io, così come acconcio l'abbiamo, quivi il porteremo e dinanzi ad essa il porremo.
Egli non andrà guari di tempo che giorno fia, e sarà ricolto; e come che questo a' suoi niuna consolazion sia, pure a me, nelle cui braccia egli è morto, sarà un piacere.
E così detto, da capo con abbondantissime lagrime sopra il viso gli si gittò e per lungo spazio pianse.
La qual, molto dalla fante sollicitata, per ciò che il giorno se ne veniva, dirizzatasi, quello anello medesimo col quale da Gabriotto era stata sposata del dito suo trattosi, il mise nel dito di lui, con pianto dicendo:
- Caro mio signore, se la tua anima ora le mie lagrime vede, e niun conoscimento o sentimento dopo la partita di quella rimane a' corpi, ricevi benignamente l'ultimo dono di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; - e questo detto, tramortita addosso gli ricadde.
E dopo alquanto risentita e levatasi, colla fante insieme preso il drappo sopra il quale il corpo giaceva, con quello del giardino uscirono e verso la casa di lui si dirizzaro.
E così andando, per caso avvenne che dalla famiglia del podestà, che per caso andava a quella ora per alcuno accidente, furon trovate e prese col morto corpo.
L'Andreuola, più di morte che di vita disiderosa, conosciuta la famiglia della signoria, francamente disse:
- Io conosco chi voi siete e so che il volermi fuggire niente monterebbe; io son presta di venir con voi davanti alla signoria e che ciò sia di raccontarle; ma niuno di voi sia ardito di toccarmi, se io obbediente vi sono, né da questo corpo alcuna cosa rimuovere, se da me non vuole essere accusato.
Per che, senza essere da alcun tocca, con tutto il corpo di Gabriotto n'andò in palagio.
La qual cosa il podestà sentendo, si levò, e lei nella camera avendo, di ciò che intervenuto era s'informò; e fatto da certi medici riguardare se con veleno o altramenti fosse stato il buono uomo ucciso, tutti affermarono del no; ma che alcuna posta vicina al cuore gli s'era rotta, che affogato l'avea.
Il qual ciò udendo e sentendo costei in piccola cosa esser nocente, s'ingegnò di mostrar di donarle quello che vender non le poteva, e disse, dove ella a' suoi piaceri acconsentir si volesse, la libererebbe.
Ma non valendo quelle parole, oltre ad ogni convenevolezza, volle usar la forza.
Ma l'Andreuola, da sdegno accesa e divenuta fortissima, virilmente si difese, lui con villane parole e altiere ributtando indietro.
Ma, venuto il dì chiaro e queste cose essendo a messer Negro contate, dolente a morte, con molti de' suoi amici a palagio n'andò, e quivi d'ogni cosa dal podestà infornato, dolendosi domandò che la figliuola gli fosse renduta.
Il podestà, volendosi prima accusare egli della forza che fare l'avea voluta che egli da lei accusato fosse, lodando prima la giovane e la sua constanzia, per approvar quella venne a dire ciò che fatto avea; per la qual cosa, vedendola di tanta buona fermezza, sommo amore l'avea posto, e, dove a grado a lui, che suo padre era, e a lei fosse, non ostante che marito avesse avuto di bassa condizione, volentieri per sua donna la sposerebbe.
In questo tempo che costoro così parlavano, l'Andreuola venne in cospetto del padre e piagnendo gli si gittò innanzi e disse:
- Padre mio, io non credo che bisogni che io la istoria del mio ardire e della mia sciagura vi racconti, ché son certa che udita l'avete e sapetela; e per ciò, quanto più posso, umilmente perdono vi domando del fallo mio, cioè d'avere senza vostra saputa chi più mi piacque marito preso.
E questo perdono non vi domando perché la vita mi sia perdonata, ma per morire vostra figliuola e non vostra nimica; - e così piagnendo gli cadde a' piedi.
Messer Negro, che antico era oramai e uomo di natura benigno e amorevole, queste parole udendo cominciò a piagnere, e piagnendo levò la figliuola teneramente in piè, e disse:
- Figliuola mia, io avrei avuto molto caro che tu avessi avuto tal marito quale a te secondo il parer mio si convenia; e se tu l'avevi tal preso quale egli ti piacea, questo doveva anche a me piacere; ma l'averlo occultato della tua poca fidanza mi fa dolere, e più ancora vedendotel prima aver perduto che io l'abbia saputo.
Ma pur, poi che così è, quello che io per contentarti, vivendo egli, volentieri gli avrei fatto, cioè onore sì come a mio genero, facciaglisi alla morte; - e volto a' figliuoli e a' suo'parenti, comandò loro che le esequie s'apparecchiassero a Gabriotto grandi e onorevoli.
Eranvi in questo mezzo concorsi i parenti e le parenti del giovane, che saputa avevano la novella, e quasi donne e uomini quanti nella città n'erano.
Per che, posto nel mezzo della corte il corpo sopra il drappo della Andreuola e con tutte le sue rose, quivi non solamente da lei e dalle parenti di lui fu pianto, ma pubblicamente quasi da tutte le donne della città e da assai uomini; e non a guisa di plebeio ma di signore, tratto della corte pubblica, sopra gli omeri de' più nobili cittadini con grandissimo onore fu portato alla sepoltura.
Quindi dopo alquanti dì, seguitando il podestà quello che addomandato avea, ragionandolo messer Negro alla figliuola, niun cosa ne volle udire; ma, volendole in ciò compiacere il padre, in un monistero assai famoso di santità essa e la sua fante monache si renderono e onestamente poi in quello per molto tempo vissero.
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Novella Settima
La Simona ama Pasquino; sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a' denti una foglia di salvia e muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a' denti, similmente si muore.
Panfilo era della sua novella diliberato, quando il re, nulla compassion mostrando all'Andreuola, riguardando Emilia, sembianti le fe' che a grado li fosse che essa a coloro che detto aveano, dicendo, si continuasse.
La quale, senza al cuna dimora fare, incominciò.
Care compagne, la novella detta da Panfilo mi tira a doverne dire una in niuna altra cosa alla sua simile, se non che, come l'Andreuola nel giardino perdè l'amante, e così colei di cui dir debbo; e similmente presa, come l'Andreuola fu, non con forza né con virtù, ma con morte inoppinata si diliberò dalla corte.
E come altra volta tra noi è stato detto, quantunque Amor volentieri le case de' nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo 'mperio di quelle de' poveri, anzi in quelle sì alcuna volta le sue forze dimostra, che come potentissimo signore da' più ricchi si fa temere.
Il che, ancora che non in tutto, in gran parte apparirà nella mia novella, con la qual mi piace nella nostra città rientrare, della quale questo dì, diverse cose diversamente parlando, per diverse parti del mondo avvolgendoci, cotanto allontanati ci siamo.
Fu adunque, non è gran tempo, in Firenze una giovane assai bella e leggiadra secondo la sua condizione, e di povero padre figliuola, la quale ebbe nome Simona; e quantunque le convenisse colle proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare e filando lana sua vita reggesse, non fu per ciò di sì povero animo che ella non ardisse a ricevere amore nella sua mente, il quale con gli atti e colle parole piacevoli d'un giovinetto di non maggior peso di lei, che dando andava per un suo maestro lanaiuolo lana a filare, buona pezza mostrato aveva di volervi entrare.
Ricevutolo adunque in sé col piacevole aspetto del giovane che l'amava, il cui nome era Pasquino, forte disiderando e non attentando di far più avanti, filando, ad ogni passo di lana filata che al fuso avvolgeva mille sospiri più cocenti che fuoco gittava, di colui ricordandosi che a filar gliele aveva data.
Quegli dall'altra parte molto sollicito divenuto che ben si filasse la lana del suo maestro, quasi quella sola che la Simona filava, e non alcuna altra, tutta la tela dovesse compiere, più spesso che l'altra era sollicitata.
Per che, l'un sollicitando e all'altra giovando d'esser sollicitata, avvenne che l'un più d'ardir prendendo che aver non solea e l'altra molto della paura e della vergogna cacciando che d'avere era usata, insieme a' piaceri comuni si congiunsono.
Li quali tanto all'una parte e all'altra aggradirono che, non che l'un dall'altro aspettasse d'esser invitato a ciò, anzi a dovervi essere si faceva incontro l'uno all'altro invitando.
E così questo lor piacere continuando d'un giorno in uno altro e sempre più nel continuare accendendosi, avvenne che Pasquino disse alla Simona che del tutto egli voleva che ella trovasse modo di poter venire ad un giardino, là dove egli menar la voleva, acciò che quivi più adagio e con men sospetto potessero essere insieme.
La Simona disse che le piaceva; e, dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare che andar voleva alla perdonanza a San Gallo, con una sua compagna chiamata la Lagina al giardino statole da Pasquino insegnato se n'andò.
Dove lui insieme con un suo compagno, che Puccino avea nome, ma era chiamato lo Stramba, trovò; e quivi fatto uno amorazzo nuovo tra lo Stramba e la Lagina, essi a far de' lor piaceri in una parte del giardin si raccolsero, e lo Stramba e la Lagina lasciarono in un'altra.
Era in quella parte del giardino, dove Pasquino e la Simona andati se ne erano, un grandissimo e bel cesto di salvia; a piè della quale postisi a sedere e gran pezza sollazzatosi insieme, e molto avendo ragionato d'una merenda che in quello orto ad animo riposato intendevan di fare, Pasquino, al gran cesto della salvia rivolto, di quella colse una foglia e con essa s'incominciò a stropicciare i denti e le gengie, dicendo che la salvia molto bene gli nettava d'ogni cosa che sopr'essi rimasa fosse dopo l'aver mangiato.
E poi che così alquanto fregati gli ebbe, ritornò in sul ragionamento della merenda, della qual prima diceva.
Né guari di spazio perseguì ragionando, che egli s'incominciò tutto nel viso a cambiare, e appresso il cambiamento non istette guari che egli perde la vista e la parola, e in brieve egli si morì.
Le quali cose la Simona veggendo, cominciò a piagnere e a gridare e a chiamar lo Stramba e la Lagina.
Li quali prestamente là corsi, e veggendo Pasquino non solamente morto, ma già tutto enfiato e pieno d'oscure macchie per lo viso e per lo corpo divenuto, subitamente gridò lo Stramba:
- Ahi malvagia femina, tu l'hai avvelenato.
E fatto il romor grande, fu da molti, che vicini al giardino abitavano, sentito.
Li quali, corsi al romore e trovando costui morto ed enfiato, e udendo lo Stramba dolersi e accusare la Simona che con inganno avvelenato l'avesse, ed ella, per lo dolore del subito accidente che il suo amante tolto avesse, quasi di sé uscita, non sappiendosi scusare, fu reputato da tutti che così fosse come lo Stramba diceva.
Per la qual cosa presala, piagnendo ella sempre forte, al palagio del podestà ne fu menata.
Quivi, prontando lo Stramba e l'Atticciato e 'l Malagevole, compagni di Pasquino che sopravenuti erano, un giudice, senza dare indugio alla cosa, si mise ad esaminarla del fatto; e non potendo comprendere costei in questa cosa avere operata malizia né esser colpevole, volle, lei presente, vedere il morto corpo e il luogo e 'l modo da lei raccontatogli, per ciò che per le parole di lei nol comprendeva assai bene.
Fattola adunque senza alcuno tumulto colà menare dove ancora il corpo di Pasquino giaceva gonfiato come una botte, ed egli appresso andatovi, maravigliatosi del morto, lei domandò come stato era.
Costei, al cesto della salvia accostatasi e ogni precedente istoria avendo raccontata, per pienamente darli ad intendere il caso sopravenuto, così fece come Pasquino aveva fatto, una di quelle foglie di salvia fregatasi a' denti.
Le quali cose mentre che per lo Stramba e per lo Atticciato e per gli altri amici e compagni di Pasquino sì come frivole e vane in presenzia del giudice erano schernite, e con più istanzia la sua malvagità accusata, niuna altra cosa per lor domandandosi se non che il fuoco fosse di così fatta malvagità punitore, la cattivella, che dal dolore del perduto amante e dalla paura della dimandata pena dallo Stramba ristretta stava, per l'aversi la salvia fregata a' denti in quel medesimo accidente cadde che prima caduto era Pasquino, non senza gran maraviglia di quanti eran presenti.
O felici anime, alle quali in un medesimo dì addivenne il fervente amore e la mortal vita terminare! E più felici, se insieme ad un medesimo luogo n'andaste! E felicissime, se nell'altra vita s'ama, e voi v'amate come di qua faceste! Ma molto più felice l'anima della Simona innanzi tratto, quanto è al nostro giudicio, che vivi dietro a lei rimasi siamo, la cui innocenzia non patì la fortuna che sotto la testimonianza cadesse dello Stramba e dell'Atticciato e del Malagevole, forse scardassieri o più vili uomini, più onesta via trovandole con pari sorte di morte al suo amante a svilupparsi dalla loro infamia e a seguitar l'anima tanto da lei amata del suo Pasquino.
Il giudice, quasi tutto stupefatto dello accidente insieme con quanti ve n'erano, non sappiendo che dirsi, lungamente soprastette; poi, in miglior senno rivenuto, disse:
- Mostra che questa salvia sia velenosa, il che della salvia non suole avvenire.
Ma acciò che ella alcuno altro offender non possa in simil modo, taglisi infino alle radici e mettasi nel fuoco.
La qual cosa colui che del giardino era guardiano in presenza del giudice faccendo, non prima abbattuto ebbe il gran cesto in terra, che la cagione della morte de' due miseri amanti apparve.
Era sotto il cesto di quella salvia una botta di maravigliosa grandezza, dal cui venenifero fiato avvisarono quella salvia esser velenosa divenuta.
Alla qual botta non avendo alcuno ardire d'appressarsi, fattale d'intorno una stipa grandissima, quivi insieme colla salvia l'arsero, e fu finito il processo di messer lo giudice sopra la morte di Pasquino cattivello.
Il quale insieme con la sua Simona, così enfiati come erano, dallo Stramba e dallo Atticciato e da Guccio Imbratta e dal Malagevole furono nella chiesa di San Paolo sepelliti, della quale per avventura eran popolani.
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Novella Ottava
Girolamo ama la Salvestra; va, costretto da' prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala maritata; entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa, nuore la Salvestra allato a lui.
Aveva la novella d'Emilia il fine suo, quando per comandamento del re Neifile così cominciò.
Alcuni al mio giudicio, valorose donne, sono, li quali più che l'altre genti si credon sapere, e sanno meno; e per questo non solamente a' consigli degli uomini, ma ancora contra la natura delle cose presummono d'opporre il senno loro; della quale presunzione già grandissimi mali sono avvenuti e alcun bene non se ne vide giammai.
E per ciò che tra l'altre naturali cose quella che meno riceve consiglio o operazione in contrario è amore, la cui natura è tale che più tosto per sé medesimo consumar si può che per avvedimento alcuno tor via, m'è venuto nello animo di narrarvi una novella d'una donna la quale, mentre che ella cercò d'esser più savia che a lei non si apparteneva e che non era e ancora che non sosteneva la cosa in che studiava mostrare il senno suo, credendo dello innamorato cuore trarre amore, il quale forse v'avevano messo le stelle, pervenne a cacciare ad una ora amore e l'anima del corpo al figliuolo.
Fu adunque nella nostra città, secondo che gli antichi raccontano, un grandissimo mercatante e ricco, il cui nome fu Leonardo Sighieri, il quale d'una sua donna un figliuolo ebbe chiamato Girolamo, appresso la natività del quale, acconci i suoi fatti ordinatamente, passò di questa vita.
I tutori del fanciullo, insieme con la madre di lui, bene e lealmente le sue cose guidarono.
Il fanciullo crescendo co' fanciulli degli altri suoi vicini, più che con alcuno altro della contrada con una fanciulla del tempo suo, figliuola d'un sarto, si dimesticò.
E venendo più crescendo l'età, l'usanza si convertì in amore tanto e sì fiero, che Girolamo non sentiva ben se non tanto quanto costei vedeva; e certo ella non amava men lui che da lui amata fosse.
La madre del fanciullo, di ciò avvedutasi, molte volte ne gli disse male e nel gastigò.
E appresso co' tutori di lui, non potendosene Girolamo rimanere, se ne dolfe; e come colei che si credeva per la gran ricchezza del figliuolo fare del pruno un mel rancio, disse loro:
- Questo nostro fanciullo, il quale appena ancora non ha quattordici anni, è sì innamorato d'una figliuola d'un sarto nostro vicino, che ha nome la Salvestra, che, se noi dinanzi non gliele leviamo, per avventura egli la si prenderà un giorno, senza che alcuno il sappia, per moglie, e io non sarò mai poscia lieta; o egli si consumerà per lei se ad altri la vedrà maritare; e per ciò mi parrebbe che, per fuggir questo, voi il doveste in alcuna parte mandare lontano di qui ne'servigi del fondaco; per ciò che, dilungandosi da veder costei, ella gli uscirà dello animo e potrengli poscia dare alcuna giovane ben nata per moglie.
I tutori dissero che la donna parlava bene e che essi ciò farebbero al lor potere; e fattosi chiamare il fanciullo nel fondaco, gl'incominciò l'uno a dire assai amorevolmente:
- Figliuol mio, tu se'oggimai grandicello; egli è ben fatto che tu incominci tu medesimo a vedere de' fatti tuoi; per che noi ci contenteremmo molto che tu andassi a stare a Parigi alquanto, dove gran parte della tua ricchezza vedrai come si traffica, senza che tu diventerai molto migliore e più costumato e più da bene là che qui non faresti, veggendo quei signori e quei baroni e que'gentili uomini che vi sono assai e de' lor costumi apprendendo; poi te ne potrai qui venire.
Il garzone ascoltò diligentemente e in brieve rispose niente volerne fare, per ciò che egli credeva così bene come un altro potersi stare a Firenze.
I valenti uomini, udendo questo, ancora con più parole il riprovarono; ma, non potendo trarne altra risposta, alla madre il dissero.
La quale fieramente di ciò adirata, non del non volere egli andare a Parigi, ma del suo innamoramento, gli disse una gran villania; e poi, con dolci parole raumiliandolo, lo 'ncominciò a lusingare e a pregare dolcemente che gli dovesse piacere di far quello che volevano i suoi tutori; e tanto gli seppe dire che egli acconsentì di dovervi andare a stare uno anno e non più; e così fu fatto.
Andato adunque Girolamo a Parigi fieramente innamorato, d'oggi in domane ne verrai, vi fu due anni tenuto.
Donde più innamorato che mai tornatosene, trovò la sua Salvestra maritata ad un buon giovane che faceva le trabacche, di che egli fu oltre misura dolente.
Ma pur, veggendo che altro esser non poteva, s'ingegnò di darsene pace; e spiato là dove ella stesse a casa, secondo l'usanza de' giovani innamorati incominciò a passare davanti a lei, credendo che ella non avesse lui dimenticato, se non come egli aveva lei.
Ma l'opera stava in altra guisa; ella non si ricordava di lui se non come se mai non lo avesse veduto; e, se pure alcuna cosa se ne ricordava, sì mostrava il contrario.
Di che in assai piccolo spazio di tempo il giovane s'accorse, e non senza suo grandissimo dolore.
Ma nondimeno ogni cosa faceva che poteva, per rientrarle nello animo; ma niente parendogli adoperare, si dispose, se morir ne dovesse, di parlarle esso stesso.
E da alcuno vicino informatosi come la casa di lei stesse, una sera che a vegghiare erano ella e 'l marito andati con lor vicini, nascosamente dentro v'entrò, e nella camera di lei dietro a teli di trabacche che tesi v'erano si nascose, e tanto aspettò che, tornati costoro e andatisene al letto, sentì il marito di lei addormentato, e là se n'andò dove veduto aveva che la Salvestra coricata s'era, e postale la sua mano sopra il petto, pianamente disse:
- O anima mia, dormi tu ancora?
La giovane, che non dormiva, volle gridare, ma il giovane prestamente disse:
- Per Dio, non gridare, ché io sono il tuo Girolamo.
Il che udendo costei, tutta tremante disse:
- Deh, per Dio, Girolamo, vattene; egli è passato quel tempo che alla nostra fanciullezza non si disdisse l'essere innamorati; io sono, come tu vedi, maritata; per la qual cosa più non sta bene a me d'attendere ad altro uomo che al mio marito; per che io ti priego per solo Iddio che tu te ne vada; ché se mio marito ti sentisse, pogniamo che altro male non ne seguisse, sì ne seguirebbe che mai in pace né in riposo con lui viver potrei, dove ora amata da lui in bene e in tranquillità con lui mi dimoro.
Il giovane, udendo queste parole, sentì noioso dolore; e ricordatole il passato tempo e 'l suo amore mai per distanzia non menomato, e molti prieghi e promesse grandissime mescolate, niuna cosa ottenne.
Per che, disideroso di morire, ultimamente la pregò che in merito di tanto amore ella sofferisse che egli allato a lei si coricasse, tanto che alquanto riscaldar si potesse, ché era agghiacciato aspettandola; promettendole che né le direbbe alcuna cosa né la toccherebbe e, come un poco riscaldato fosse, se n'andrebbe.
La Salvestra, avendo un poco compassion di lui, con le condizioni date da lui il concedette.
Coricossi adunque il giovine allato a lei senza toccarla; e raccolto in un pensiere il lungo amor portatole e la presente durezza di lei e la perduta speranza, diliberò di più non vivere; e ristretti in sé gli spiriti, senza alcun motto fare, chiuse le pugna, allato a lei si morì.
E dopo alquanto spazio la giovane maravigliandosi della sua contenenza, temendo non il maritò si svegliasse, cominciò a dire:
- Deh, Girolamo, ché non te ne vai tu?
Ma non sentendosi rispondere, pensò lui essere addormentato; per che, stesa oltre la mano acciò che si svegliasse, il cominciò a tentare, e toccandolo il trovò come ghiaccio freddo, di che ella si maravigliò forte; e toccandolo con più forza e sentendo che egli non si movea, dopo più ritoccarlo cognobbe che egli era morto; di che oltre modo dolente, stette gran pezza senza saper che farsi.
Alla fine prese consiglio di volere in altrui persona tentar quello che il marito dicesse da farne; e destatolo, quello che presenzialmente a lei avvenuto era, disse essere ad un'altra intervenuto, e poi il domandò, se a lei avvenisse, che consiglio ne prenderebbe.
Il buono uomo rispose che a lui parrebbe che colui che morto fosse si dovesse chetamente riportare a casa sua e quivi lasciarlo, senza alcuna malavoglienza alla donna portarne, la quale fallato non gli pareva ch'avesse.
Allora la giovane disse:
- E così convien fare a noi; - e presagli la mano, gli fece toccare il morto giovane.
Di che egli tutto smarrito si levò su e, acceso un lume, senza entrare colla moglie in altre novelle, il morto corpo de' suoi panni medesimi rivestito e senza alcuno indugio, aiutandolo la sua innocenzia, levatoselo in su le spalle, alla porta della casa di lui nel portò e quivi il pose e lasciollo stare.
E venuto il giorno, e veduto costui davanti all'uscio suo morto, fu fatto il romor grande, e spezialmente dalla madre; e cerco per tutto e riguardato, e non trovatoglisi né piaga né percossa alcuna, per li medici generalmente fu creduto lui di dolore esser morto così come era.
Fu adunque questo corpo portato in una chiesa, e quivi venne la dolorosa madre con molte altre donne parenti e vicine, e sopra lui cominciarono dirottamente, secondo l'usanza nostra, a piagnere e a dolersi.
E mentre il corrotto grandissimo si facea, il buono uomo, in casa cui morto era, disse alla Salvestra:
- Deh ponti alcun mantello in capo e va a quella chiesa dove Girolamo è stato recato e mettiti tra le donne, e ascolterai quello che di questo fatto si ragiona, e io farò il simigliante tra gli uomini, acciò che noi sentiamo se alcuna cosa contro a noi si dicesse.
Alla giovane, che tardi era divenuta pietosa, piacque, sì come a colei che morto disiderava di veder colui a cui vivo non avea voluto d'un sol bacio piacere, e andovvi.
Maravigliosa cosa è a pensare quanto sieno difficili ad investigare le forze d'Amore! Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la miseria l'aperse, e l'antiche fiamme risuscitatevi tutte subitamente mutò in tanta pietà, come ella il viso morto vide, che sotto 'l mantel chiusa, tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al corpo fu pervenuta; e quivi, mandato fuori uno altissimo strido, sopra il morto giovane si gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per ciò che prima nol toccò che, come al giovane il dolore la vita aveva tolta, così a costei tolse.
Ma poi che, riconfortandola le donne e dicendole che su si levasse alquanto, non conoscendola ancora, e poi che ella non si levava, levar volendola e immobile trovandola, pur sollevandola, ad una ora lei esser la Salvestra e morta conobbero.
Di che tutte le donne che quivi erano, vinte da doppia pietà, ricominciarono il pianto assai maggiore.
Sparsesi fuor della chiesa tra gli uomini la novella, la quale pervenuta agli orecchi del marito di lei, che tra loro era, senza ascoltare consolazione o conforto da alcuno, per lungo spazio pianse.
E poi ad assai di quegli che v'erano raccontata la istoria stata la notte di questo giovane e della moglie, manifestamente per tutti si seppe la cagione della morte di ciascuno, il che a tutti dolfe.
Presa adunque la morta giovane e lei così ornata come s'acconciano i corpi morti, sopra quel medesimo letto allato al giovane la posero a giacere, e quivi lungamente pianta, in una medesima sepoltura furono sepelliti amenduni; e loro, li quali Amor vivi non aveva potuto congiugnere, la morte congiunse con inseparabile compagnia.
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Novella Nona
Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita.
Essendo la novella di Neifile finita, non senza aver gran compassion messa in tutte le sue compagne, il re, il qual non intendeva di guastare il privilegio di Dioneo, non essendovi altri a dire, incominciò.
Emmisi parata dinanzi, pietose donne, una novella alla qual, poi che così degli infortunati casi d'amore vi duole, vi converrà non meno di compassione avere che alla passata, per ciò che da più furono coloro a' quali ciò che io dirò avvenne, e con più fiero accidente che quegli de' quali è parlato.
Dovete adunque sapere che, secondo che raccontano i provenzali, in Provenza furon già due nobili cavalieri, de' quali ciascuno e castella e vassalli aveva sotto di sé, e aveva l'uno nome messer Guiglielmo Rossiglione e l'altro messer Guiglielmo Gardastagno; e per ciò che l'uno e l'altro era prod'uomo molto nell'arme, s'amavano assai e in costume avean d'andar sempre ad ogni torniamento o giostra o altro fatto d'arme insieme e vestiti d'una assisa.
E come che ciascun dimorasse in un suo castello e fosse l'un dall'altro lontano ben diece miglia, pur avvenne che, avendo messer Guiglielmo Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie, messer Guiglielmo Guardastagno fuor di misura, non ostante l'amistà e la compagnia che era tra loro, s'innamorò di lei e tanto, or con uno atto e or con uno altro fece, che la donna se n'accorse; e conoscendolo per valorosissimo cavaliere, le piacque, e cominciò a porre amore a lui, in tanto che niuna cosa più che lui disiderava o amava, né altro attendeva che da lui esser richiesta; il che non guari stette che avvenne, e insieme furono e una volta e altra, amandosi forte.
E men discretamente insieme usando, avvenne che il marito se n'accorse e forte ne sdegnò, in tanto che il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio convertì; ma meglio il seppe tener nascoso che i due amanti non avevano saputo tenere il loro amore, e seco diliberò del tutto d'ucciderlo.
Per che, essendo il Rossiglione in questa disposizione, sopravenne che un gran torneamento si bandì in Francia, il che il Rossiglione incontanente significò al Guardastagno, e mandogli a dire che, se a lui piacesse, da lui venisse e insieme diliberrebbono se andar vi volessono e come.
Il Guardastagno lietissimo rispose che senza fallo il dì seguente andrebbe a cenar con lui.
Il Rossiglione, udendo questo, pensò il tempo esser venuto di poterlo uccidere; e armatosi il dì seguente con alcuno suo famigliare montò a cavallo, e forse un miglio fuori del suo castello in un bosco si ripose in agguato, donde doveva il Guardastagno passare; e avendolo per un buono spazio atteso, venir lo vide disarmato con due famigliari appresso disarmati, sì come colui che di niente da lui si guardava; e come in quella parte il vide giunto dove voleva, fellone e pieno di mal talento con una lancia sopra mano gli uscì addosso gridando:
- Traditor, tu se'morto; - e il così dire e il dargli di questa lancia per lo petto fu una cosa.
Il Guardastagno, sena potere alcuna difesa fare o pur dire una parola, passato di quella lancia, cadde e poco appresso morì.
I suoi famigliari, senza aver conosciuto chi ciò fatto s'avesse, voltate le teste de' cavalli, quanto più poterono si fuggirono verso il castello del lor signore.
Il Rossiglione, smontato, con un coltello il petto del Guardastagno aprì e colle proprie mani il cuor gli trasse, e quel fatto avviluppare in un pennoncello di lancia, comandò ad un de' suoi famigliari che nel portasse; e avendo a ciascun comandato che niun fosse tanto ardito che di questo facesse parola, rimontò a cavallo, ed essendo già notte al suo castello se ne tornò.
La donna, che udito aveva il Guardastagno dovervi esser la sera a cena e con disidero grandissimo l'aspettava, non vedendol venire si maravigliò forte e al marito disse:
- E come è così, messere, che il Guardastagno non è venuto?
A cui il marito disse:
- Donna, io ho avuto da lui che egli non ci può essere di qui domane; - di che la donna un poco turbatetta rimase.
Il Rossiglione, smontato, si fece chiamare il cuoco e gli disse:
- Prenderai quel cuor di cinghiare e fa'che tu ne facci una vivandetta la migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in una scodella d'argento.
Il cuoco, presolo e postavi tutta l'arte e tutta la sollicitudine sua, minuzzatolo e messevi di buone spezie assai, ne fece uno manicaretto troppo buono.
Messer Guiglielmo, quando tempo fu, con la sua donna si mise a tavola.
La vivanda venne, ma egli per lo malificio da lui commesso, nel pensiero impedito, poco mangiò.
Il cuoco gli mandò il manicaretto, il quale egli fece porre davanti alla donna, sé mostrando quella sera svogliato, e lodogliele molto.
La donna, che svogliata non era, ne cominciò a mangiare e parvele buono; per la qual cosa ella il mangiò tutto.
Come il cavaliere ebbe veduto che la donna tutto l'ebbe mangiato, disse:
- Donna, chente v'è paruta questa vivanda?
La donna rispose:
- Monsignore, in buona fè ella m'è piaciuta molto.
- Se m'aiti Iddio, - disse il cavaliere - io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v'è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque.
La donna, udito questo, alquanto stette; poi disse:
- Come? Che cosa è questa che voi m'avete fatta mangiare?
Il cavalier rispose:
- Quello che voi avete mangiato è stato veramente il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno, il qual voi come disleal femina tanto amavate; e sappiate di certo ch'egli è stato desso, per ciò che io con queste mani gliele strappai, poco avanti che io tornassi, del petto.
La donna, udendo questo di colui cui ella più che altra cosa amava, se dolorosa fu non è da domandare; e dopo al quanto disse:
- Voi faceste quello che disleale e malvagio cavalier dee fare; ché se io, non sforzandomi egli, l'avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare.
Ma unque a Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d'un così valoroso e così cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada.
E levata in piè, per una finestra la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si lasciò cadere.
La finestra era molto alta da terra, per che, come la donna cadde, non solamente morì, ma quasi tutta si disfece.
Messer Guiglielmo, vedendo questo, stordì forte, e parvegli aver mal fatto; e temendo egli de' paesani e del conte di Proenza, fatti sellare i cavalli, andò via.
La mattina seguente fu saputo per tutta la contrada come questa cosa era stata: per che da quegli del castello di messer Guiglielmo Guardastagno e da quegli ancora del castello della donna con grandissimo dolore e pianto furono i due corpi ricolti e nella chiesa del castello medesimo della donna in una medesima sepoltura fur posti, e sopr'essa scritti versi significanti chi fosser quegli che dentro sepolti v'erano e il modo e la cagione della lor morte.
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Novella Decima
La moglie d'un medico per morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due usurai se ne portano in casa.
Questi si sente, è preso per ladro; la fante della donna racconta alla signoria sé averlo esso nell'arca dagli usurieri imbolata, laond'egli scampa dalle forche e i prestatori d'avere l'arca furata sono condannati in denari.
Solamente a Dioneo, avendo già il re fatto fine al suo dire, restava la sua fatica, il quale, ciò conoscendo, e già dal re essendogli imposto, incominciò.
Le miserie degli infelici amori raccontate, non che a voi, donne, ma a me hanno già contristati gli occhi e 'l petto, per che io sommamente disiderato ho che a capo se ne venisse.
Ora, lodato sia Iddio, che finite sono (salvo se io non volessi a questa malvagia derrata fare una mala giunta, di che Iddio mi guardi), senza andar più dietro a così dolorosa materia, da alquanto più lieta e migliore incomincerò, forse buono indizio dando a ciò che nella seguente giornata si dee ragionare.
Dovete adunque sapere, bellissime giovani, che ancora non è gran tempo che in Salerno fu un grandissimo medico in cirugia, il cui nome fu maestro Mazzeo della Montagna, il quale, già all'ultima vecchiezza vicino, avendo presa per moglie una bella e gentil giovane della sua città, di nobili vestimenti e ricchi e d'altre gioie e tutto ciò che ad una donna può piacere meglio che altra della città teneva fornita; vero è che ella il più del tempo stava infreddata, sì come colei che nel letto era mal dal maestro tenuta coperta.
Il quale, come messer Ricciardo di Chinzica, di cui dicemmo, alla sua insegnava le feste, così costui a costei mostrava che il giacere con una donna una volta si penava a ristorar non so quanti dì, e simili ciance; di che ella vivea pessimamente contenta.
E, sì come savia e di grande animo, per potere quello da casa risparmiare, si dispose di gittarsi alla strada e voler logorar dello altrui; e più e più giovani riguardati, nella fine uno ne le fu all'animo, nel quale, ella pose tutta la sua speranza, tutto il suo animo e tutto il ben suo.
Di che il giovane accortosi, e piacendogli forte, similmente in lei tutto il suo amor rivolse.
Era costui chiamato Ruggieri d'Aieroli, di nazion nobile ma di cattiva vita e di biasimevole stato, in tanto che parente né amico lasciato s'avea che ben gli volesse o che il volesse vedere; e per tutto Salerno di ladronecci o d'altre vilissime cattività era infamato, di che la donna poco curò, piacendole esso per altro, e con una sua fante tanto ordinò che insieme furono.
E poi che alquanto diletto preso ebbero, la donna gli cominciò a biasimare la sua passata vita e a pregarlo che, per amor di lei, di quelle cose si rimanesse; e a dargli materia di farlo lo incominciò a sovvenire quando d'una quantità di denari e quando d'un'altra.
E in questa maniera perseverando insieme assai discretamente, avvenne che al medico fu messo tra le mani uno in fermo, il quale aveva guasta l'una delle gambe; il cui difetto avendo il maestro veduto, disse a' suoi parenti che, dove un osso fracido il quale aveva nella gamba non gli si cavasse, a costui si convenia del tutto o tagliare tutta la gamba o morire; e a trargli l'osso potrebbe guerire, ma che egli altro che per morto nol prenderebbe; a che accordatisi co loro a' quali apparteneva, per così gliele diedero.
Il medico, avvisando che l'infermo senza essere adoppiato non sosterrebbe la pena né si lascerebbe medicare, dovendo attendere in sul vespro a questo servigio, fe'la mattina d'una sua certa composizione stillare una acqua la qua e l'avesse, bevendola, tanto a far dormire quanto esso avvisava di doverlo poter penare a curare; e quella fattasene venire a casa, in una finestra della sua camera la pose, senza dire ad alcuno ciò che si fosse.
Venuta l'ora del vespro, dovendo il maestro andare a costui, gli venne un messo da certi suoi grandissimi amici d'Amalfi, che egli non dovesse lasciar per cosa alcuna che incontanente là non andasse, per ciò che una gran zuffa stata v'era, di che molti v'erano stati fediti.
Il medico, prolungata nella seguente mattina la cura del la gamba, salito in su una barchetta, n'andò a Amalfi; per la qual cosa la donna, sappiendo lui la notte non dover tornare a casa, come usata era, occultamente si fece venire Ruggieri e nella sua camera il mise, e dentro il vi serrò in fino a tanto che certe altre persone della casa s'andassero a dormire.
Standosi adunque Ruggieri nella camera e aspettando la donna, avendo o per fatica il dì durata o per cibo salato che mangiato avesse o forse per usanza una grandissima sete, gli venne nella finestra veduta questa guastadetta d'acqua la qua le il medico per lo 'nfermo aveva fatta e, credendola acqua da bere, a bocca postalasi, tutta la bevve; né stette guari che un gran sonno il prese e fussi addormentato.
La donna, come prima potè, nella camera se ne venne, e trovato Ruggieri dormendo lo 'ncominciò a tentare e a dire con sommessa voce che su si levasse; ma questo era niente; egli non rispondea né si movea punto.
Per che la donna alquanto turbata con più forza il sospinse dicendo:
- Leva su, dormiglione, ché, se tu volevi dormire, tu te ne dovevi andare a casa tua e non venir qui.
Ruggieri, così sospinto cadde a terra d'una cassa sopra la quale era, né altra vista d'alcun sentimento fece che avrebbe fatto un corpo morto.
Di che la donna, alquanto spaventata, il cominciò a voler rilevare e a menarlo più forte e a prenderlo per lo naso e a tirarlo per la barba; ma tutto era nulla: egli aveva a buona caviglia legato l'asino.
Per che la donna cominciò a temere non fosse morto; ma pure ancora gli 'ncominciò a strignere agramente le carni e a cuocerlo con una candela accesa, ma niente era; per che ella, che medica non era, come che medico fosse il marito, senza alcun fallo lui credette morto.
Per che, amandolo sopra ogni altra cosa come facea, se fu dolorosa non è da domandare; e non osando fare romore, tacitamente sopra di lui cominciò a piagnere e a dolersi di così fatta disavventura.
Ma dopo alquanto, temendo la donna di non aggiugnere al suo danno vergogna, pensò che senza alcun indugio da trovare era modo come lui morto si traesse di casa; né a ciò sappiendosi consigliare, tacitamente chiamò la sua fante, e la sua disavventura mostratale, le chiese consiglio.
La fante, maravigliandosi forte e tirandolo ancora ella e strignendolo, e senza sentimento vedendolo, quel disse che la donna dicea, cioè veramente lui esser morto, e consigliò che da metterlo fuor di casa era.
A cui la donna disse:
- E dove il potrem noi porre, che egli non si suspichi, domattina quando veduto sarà, che di qua entro sia stato tratto?
A cui la fante rispose:
- Madonna, io vidi questa sera al tardi dirimpetto al la bottega di questo legnaiuolo nostro vicino una arca non troppo grande, la quale, se 'l maestro non l'ha riposta in casa, verrà troppo in concio a' fatti nostri, per ciò che dentro ve 'l potrem mettere e dargli due o tre colpi d'un coltello, e lasciarlo stare.
Chi in quella il troverà non so perché più di qua entro che d'altronde vi sel creda messo; anzi si crederà, per ciò che malvagio giovane è stato, che, andando a fare alcun male, da alcuno suo nimico sia stato ucciso e poi messo nell'arca.
Piacque alla donna il consiglio della fante, fuor che di dargli alcuna fedita, dicendo che non le potrebbe per cosa del mondo sofferir l'animo di ciò fare; e mandolla a vedere se quivi fosse l'arca dove veduta l'avea; la qual tornò e disse di sì.
La fante adunque, che giovane e gagliarda era, dalla donna aiutata, sopra le spalle si pose Ruggieri, e andando la donna innanzi a guardar se persona venisse, venute al l'arca, dentro vel misero, e richiusala, il lasciarono stare.
Erano di quei dì alquanto più oltre tornati in una casa due giovani, li quali prestavano ad usura, e volenterosi di guadagnare assai e di spender poco, avendo bisogno di masserizie, il dì davanti avean quella arca veduta, e insieme posto che, se la notte vi rimanesse, di portarnela in casa loro.
E venuta la mezza notte, di casa usciti, trovandola, senza entrare in altro ragguardamento, prestamente, ancora che lor gravetta paresse, ne la portarono in casa loro e allogaronla allato ad una camera dove lor femine dormivano senza curarsi di acconciarla troppo appunto allora; e lasciatala stare, se n'andarono a dormire.
Ruggieri, il quale grandissima pezza dormito avea, e già aveva digesto il beveraggio e la virtù di quel consumata, essendo vicino a matutin, si destò; e, come che rotto fosse il sonno, e'sensi avessero la loro virtù recuperata, pur gli rimase nel cerebro una stupefazione, la quale non solamente quella notte ma poi parecchi dì il tenne stordito; e aperti gli occhi e non veggendo alcuna cosa e sparte le mani in qua e in là, in questa arca trovandosi, cominciò a smemorare e a dir seco: - Che è questo? Dove sono io? Dormo io, o son desto? Io pur mi ricordo che questa sera io venni nella camera della mia donna, e ora mi pare essere in una arca.
Questo che vuol dire? Sarebbe il medico tornato o altro accidente sopravenuto, per lo quale la donna dormendo io, qui m'avesse nascoso? Io il credo, e fermamente così sarà.
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E per questo cominciò a star cheto e ad ascoltare se alcuna cosa sentisse; e così gran pezza dimorato, stando anzi a disagio che no nell'arca che era piccola, e dogliendogli il lato in sul quale era, in su l'altro volger vogliendosi, sì destramente il fece che, dato delle reni nell'un de' lati della arca, la quale non era stata posta sopra luogo iguali, la fe'piegare e appresso cadere, e cadendo fece un gran romore, per lo quale le femine che ivi allato dormivano si destarono ed ebber paura, e per paura tacettono.
Ruggieri per lo cader dell'arca dubitò forte, ma sentendola per lo cadere aperta, volle avanti, se altro avvenisse, esserne fuori che starvi dentro.
E tra che egli non sapeva dove si fosse, e una cosa e un'altra, cominciò ad andar brancolando per la casa, per sapere se scala o porta trovasse donde andar se ne potesse.
Il qual brancolare sentendo le femine che deste erano, cominciarono a dire: - Chi è là? - Ruggieri, non conoscendo la voce non rispondea; per che le femine cominciarono a chiamare i due giovani, li quali, per ciò che molto vegghiato aveano, dormivan forte né sentivano d'alcuna di queste cose niente.
Laonde le femine, più paurose divenute, levatesi e fattesi a certe finestre, cominciarono a gridare: - Al ladro, al ladro.
- Per la qual cosa per diversi luoghi più de' vicini, chi su per lo tetto e chi per una parte e chi per un'altra, corsono ed entrar nella casa; e i giovani similmente, desti a questo romore, si levarono.
E Ruggieri (il qual quivi vedendosi, quasi di sé per maraviglia uscito, né da qual parte fuggir si dovesse o potesse vedea) preso dierono nelle mani della famiglia del rettore della terra, la qual quivi già era al romor corsa; e davanti al rettore menatolo, per ciò che malvagissimo era da tutti tenuto, senza indugio messo al martorio, confessò nella casa de' prestatori essere per imbolare entrato; per che il rettor pensò di doverlo senza troppo indugio fare impiccar per la gola.
La novella fu la mattina per tutto Salerno che Ruggieri era stato preso ad imbolare in casa de' prestatori; il che la donna e la sua fante udendo, di tanta maraviglia e di sì nuova fur piene, che quasi eran vicine di far credere a sé medesime che quello che fatto avevan la notte passata non l'avesser fatto ma avesser sognato di farlo; e oltre a questo del pericolo nel quale Ruggieri era la donna sentiva sì fatto dolore, che quasi n'era per impazzare.
Non guari appresso la mezza terza, il medico tornato da Amalfi domandò che la sua acqua gli fosse recata, per ciò che medicare voleva il suo infermo; e trovandosi la guasta detta vota, fece un gran romore che niuna cosa in casa sua durar poteva in istato.
La donna, che da altro dolore stimolata era, rispose adirata dicendo:
- Che direste voi, maestro, d'una gran cosa, quando d'una guastadetta d'acqua versata fate sì gran romore? Non se ne truova egli più al mondo?
A cui il maestro disse:
- Donna, tu avvisi che quella fosse acqua chiara; non è così, anzi era una acqua lavorata da far dormire; - e contolle per che cagion fatta l'avea.
Come la donna ebbe questo udito, così s'avvisò che Ruggieri quella avesse beuta e per ciò loro fosse paruto morto, e disse:
- Maestro, noi nol sapavamo, e per ciò rifatevi dell'altra.
Il maestro, veggendo che altro esser non poteva, fece far della nuova.
Poco appresso la fante che per comandamento della donna era andata a saper quello che di Ruggier si dicesse, tornò e dissele:
- Madonna, di Ruggier dice ogn'uom male, né, per quello che io abbia potuto sentire, amico né parente alcuno è che per aiutarlo levato si sia o si voglia levare; e credesi per fermo che domane lo straticò il farà impiccare.
E oltre a questo vi vo'dire una nuova cosa, che egli mi pare aver compreso come egli in casa de' prestatori pervenisse, e udite come: voi sapete bene il legnaiuolo dirimpetto al quale era l'arca dove noi il mettemmo; egli era testé con uno, di cui mostra che quell'arca fosse, alla maggior quistion del mondo; ché colui domandava i denari della arca sua, e il maestro rispondeva che egli non aveva venduta l'arca, anzi gli era la notte stata imbolata.
Al quale colui diceva: - Non è così, anzi l'hai venduta alli due giovani prestatori, sì come essi stanotte mi dissero, quando io in casa loro la vidi allora che fu preso Ruggieri.
- A cui il legnaiuolo disse: - Essi mentono, per ciò che mai io non la vende'loro, ma essi que sta notte passata me l'avranno imbolata; andiamo a loro.
- E sì se ne andarono di concordia a casa i prestatori, e io me ne son qui venuta.
E, come voi potete vedere, io comprendo che in cotal guisa Ruggieri, la dove trovato fu, trasportato fosse; ma come quivi risuscitasse, non so vedere io.
La donna allora comprendendo ottimamente come il fatto stava, disse alla fante ciò che dal medico udito avea, e pregolla che allo scampo di Ruggieri dovesse dare aiuto, sì co me colei che, volendo, ad una ora poteva Ruggieri scampare e servar l'onor di lei.
La fante disse:
- Madonna, insegnatemi come, e io farò volentieri ogni cosa.
La donna, sì come colei alla quale istrignevano i cintolini, con subito consiglio avendo avvisato ciò che da fare era, ordinatamente di quello la fante informò.
La quale primieramente se n'andò al medico, e piagnendo gli 'ncominciò a dire:
- Messere, a me conviene domandarvi perdono d'un gran fallo, il quale verso di voi ho commesso.
Disse il maestro:
- E di che?
E la fante, non restando di lagrimar, disse:
- Messere, voi sapete che giovane Ruggieri d'Aieroli sia, al quale, piacendogli io, tra per paura e per amore mi convenne uguanno divenire amica; e sappiendo egli iersera non ci eravate, tanto mi lusingò che io in casa vostra nella mia camera a dormire meco il menai, e avendo egli sete né io avendo ove più tosto ricorrere o per acqua o per vino, non volendo che la vostra donna, la quale in sala era, mi vedesse, ricordandomi che nella vostra camera una guastadetta d'acqua aveva veduta, corsi per quella e sì gliele diedi bere e la guastada riposi donde levata l'avea, di che io truovo che voi in casa un gran romor n'avete fatto.
E certo io confesso che io feci male; ma chi è colui che alcuna volta mal non faccia? Io ne son molto dolente d'averlo fatto; non pertanto, per questo, e per quello che poi ne seguì, Ruggieri n'è per perdere la persona; per che io quanto più posso vi priego che voi mi perdoniate e mi diate licenzia che io vada ad aiutare, in quello che per me si potrà, Ruggieri.
Il medico udendo costei, con tutto che ira avesse, motteggiando rispose:
- Tu te n'hai data la perdonanza tu stessa, per ciò che, dove tu credesti questa notte un giovane avere che molto bene il pelliccion ti scotesse, avesti un dormiglione; e per ciò va procaccia la salute del tuo amante, e per innanzi ti guarda di più in casa non menarlo, ché io ti pagherei di questa volta e di quella.
Alla fante per la prima broccata parendo aver ben procacciato, quanto più tosto potè se n'andò alla prigione dove Ruggieri era, e tanto il prigionier lusingò che egli la lasciò a Ruggieri favellare.
La quale, poi che informato l'ebbe di ciò che rispondere dovesse allo straticò, se scampar volesse, tanto fece che allo straticò andò davanti.
Il quale, prima che ascoltare la volesse, per ciò che fresca e gagliarda era, volle una volta attaccare l'uncino alla cristianella di Dio, ed ella, per essere meglio udita, non ne fu punto schifa; e dal macinio levatasi, disse:
- Messere, voi avete qui Ruggieri d'Aieroli preso per ladro, e non è così il vero.
E cominciatosi dal capo, gli contò la storia infino alla fine, come ella, sua amica, in casa il medico menato l'avea e come gli avea data bere l'acqua adoppiata non conoscendola, e come per morto l'avea nell'arca messo; e appresso que sto, ciò che tra 'l maestro legnaiuolo e il signor della arca aveva udito gli disse, per quella mostrandogli come in casa i prestatori fosse pervenuto Ruggieri.
Lo straticò, veggendo che leggier cosa era a ritrovare se ciò fosse vero, prima il medico domandò se vero fosse dell'acqua e trovò che così era stato; e appresso fatti richiedere il legnaiuolo e colui di cui stata era l'arca e'prestatori, dopo molte novelle trovò li prestatori la notte passata aver l'arca imbolata e in casa messalasi.
Ultimamente mandò per Ruggieri, e domandatolo dove la sera dinanzi albergato fosse, rispose che dove albergato si fosse non sapeva, ma ben si ricordava che andato era ad albergare con la fante del maestro Mazzeo, nella camera della quale aveva bevuto acqua per gran sete ch'avea; ma che poi di lui stato si fosse, se non quando in casa i prestatori destandosi s'era trovato in una arca, egli non sapeva.
Lo straticò, queste cose udendo e gran piacer pigliandone, e alla fante e a Ruggieri e al legnaiuolo e a' prestatori più volte ridir le fece.
Alla fine, cognoscendo Ruggieri essere innocente, condannati i prestatori che imbolata avevan l'arca in diece once, liberò Ruggieri.
Il che quanto a lui fosse caro, niun ne domandi; e alla sua donna fu carissimo oltre misura.
La qual poi con lui insieme e colla cara fante, che dare gli aveva voluto delle coltella, più volte rise ed ebbe festa, il loro amore e il loro sollazzo sempre continuando di bene in meglio; il che vorrei che così a me avvenisse, ma non d'esser messo nell'arca.
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Conclusione
Se le prime novelle li petti delle vaghe donne avevan contristati questa ultima di Dioneo le fece ben tanto ridere, e spezialmente quando disse lo straticò aver l'uncino attaccato che essi si poterono della compassione avuta dell'altre ristorare.
Ma veggendo il re che il sole cominciava a farsi giallo e il termine della sua signoria era venuto, con assai piacevoli parole alle belle donne si scusò di ciò che fatto avea, cioè daver fatto ragionare di materia così fiera come è quel la della infelicità degli amanti; e fatta la scusa, in piè si levò e della testa si tolse la laurea, e aspettando le donne a cui porre la dovesse piacevolmente sopra il capo biondissimo della Fiammetta la pose, dicendo
- Io pongo a te questa corona sì come a colei la quale meglio, dell'aspra giornata di oggi, che alcuna altra, con quella di domane queste nostre compagne racconsolar saprai.
La Fiammetta li cui capelli eran crespi, lunghi e d'oro e sopra li candidi e dilicati omeri ricadenti, e il viso ritondetto con un colore vero di bianchi gigli e di vermiglie rose mescolati tutto splendido, con due occhi in testa che parevano d'un falcon pellegrino e con una boccuccia piccolina, li cui labbri parevan due rubinetti, sorridendo rispose:
- Filostrato, e io la prendo volentieri; e acciò che meglio t'avveggi di quello che fatto hai, infino da ora voglio e comando che ciascun s'apparecchi di dovere domane ragionare di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse.
La qual proposizione a tutti piacque.
Ed essa, fattosi il siniscalco venire, e delle cose opportune con lui insieme avendo disposto, tutta la brigata, da seder levandosi, per infino all'ora della cena lietamente licenziò.
Costoro adunque, parte per lo giardino, la cui bellezza non era da dover troppo tosto rincrescere, e parte verso le mulina che fuor di quel macinavano, e chi qua e chi là, a prender secondo i diversi appetiti diversi diletti si diedono infino all'ora della cena.
La qual venuta, tutti raccolti, come usati erano, appresso della bella fonte con grandissimo piacere e ben serviti cenarono.
E da quella levatisi, come usati erano, al danzare e al cantar si diedono, e menando Filomena la danza, disse la reina:
- Filostrato, io non intendo deviare da' miei passati, ma, sì come essi hanno fatto, così intendo che per lo mio comandamento si canti una canzone; e per ciò che io son certa che tali sono le tue canzoni chenti sono le tue novelle, acciò che più giorni che questo non sieno turbati da' tuoi infortuni, vogliamo che una ne dichi qual più ti piace.
Filostrato rispose che volentieri; e senza indugio in cotal guisa cominciò a cantare:
Lagrimando dimostro
quanto si dolga con ragione il core
d'esser tradito sotto fede Amore.
Amore, allora che primieramente
ponesti in lui colei per cui sospiro,
senza sperar salute,
sì piena la mostrasti di virtute,
che lieve reputava ogni martiro,
che per te nella mente,
ch'è rimasa dolente,
fosse venuto; ma il mio errore
ora conosco, e non senza dolore.
Fatto m'ha conoscente dello 'nganno
vedermi abbandonato da colei,
in cui sola sperava;
ch'allora ch'i' più esser mi pensava
nella sua grazia e servidore a lei,
senza mirare al danno
del mio futuro affanno,
m'accorsi lei aver l'altrui valore
dentro raccolto, e me cacciato fore.
Com'io conobbi me di fuor cacciato,
nacque nel core un pianto doloroso,
che ancor vi dimora,
e spesso maladico il giorno e l'ora
che pria m'apparve il suo viso amoroso
d'alta biltate ornato,
e più che mai 'nfiammato.
La fede mia, la speranza e l'ardore
va bestemmiando l'anima che more.
Quanto 'l mio duol senza conforto sia,
signor, tu ' puoi sentir, tanto ti chiamo
con dolorosa voce:
e dicoti che tanto e sì mi cuoce,
che per minor martir la morte bramo.
Venga dunque, e la mia
vita crudele e ria
termini col suo colpo, e 'l mio furore;
ch'ove ch'io vada, il sentirò minore.
Null'altra via, niuno altro conforto
mi resta più che morte alla mia doglia.
Dallami dunque omai;
pon fine, Amor, con essa alli miei guai,
e 'l cor di vita sì misera spoglia.
Deh fallo, poi ch'a torto
m'è gioi tolta e diporto.
Fa'costei lieta, morend'io, signore,
come l'hai fatta di nuovo amadore.
Ballata mia, se alcun non t'appara,
io non men curo, per ciò che nessuno,
com'io, ti può cantare.
Una fatica sola ti vo'dare,
che tu ritruovi Amore, e a lui sol uno,
quanto mi sia discara
la trista vita amara
dimostri a pien, pregandol che 'n migliore
porto ne ponga per lo suo onore.
Dimostrarono le parole di questa canzone assai chiaro qual fosse l'animo di Filostrato, e la cagione; e forse più dichiarato l'avrebbe l'aspetto di tal donna nella danza era, se le tenebre della sopravvenuta notte il rossore nel viso di lei venuto non avesser nascoso.
Ma poi che egli ebbe a quella posta fine, molte altre cantate ne furono infino a tanto che l'ora dell'andare a dormire sopravenne; per che, comandandolo la reina, ciascuno alla sua camera si raccolse.
Finisce la quarta giornata del Decameron.
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Quinta Giornata
Introduzione alla quinta giornata
Novella prima
Cimone amando divien savio, ed Efigenia sua donna rapisce in mare; è messo in Rodi in prigione, onde Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Efigenia e Cassandra nelle lor nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a casa loro son richiamati.
Novella seconda
Gostanza ama Martuccio Gomito, la quale, udendo che morto era, per disperata sola si mette in una barca, la quale dal vento fu trasportata a Susa; ritruoval vivo in Tunisi, palesaglisi, ed egli grande essendo col re per consigli dati, sposatala, ricco con lei in Lipari se ne torna.
Novella terza
Pietro Boccamazza si fugge con l'Agnolella; truova ladroni; la giovane fugge per una selva, ed è condotta ad un castello; Pietro è preso e delle mani de' ladroni fugge, e dopo alcuno accidente, capita a quel castello dove l'Agnolella era, e sposatala con lei se ne torna a Roma.
Novella quarta
Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola, la quale egli sposa, e col padre di lei rimane in buona pace.
Novella quinta
Guidotto da Cremona lascia a Giacomin da Pavia una fanciulla, e muorsi; la quale Giannol di Severino e Minghino di Mingole amano in Faenza; azzuffansi insieme; riconoscesi la fanciulla esser sirocchia di Giannole, e dassi per moglie a Minghino.
Novella sesta
Gian di Procida trovato con una giovane amata da lui, e stata data al re Federigo, per dovere essere arso con lei è legato ad un palo; riconosciuto da Ruggieri de Loria, campa e divien marito di lei.
Novella settima
Teodoro, innamorato della Violante figliuola di messere Amerigo suo signore, la 'ngravida ed è alle forche condannato; alle quali frustandosi essendo menato, dal padre riconosciuto e prosciolto, prende per moglie la Violante.
Novella ottava
Nastagio degli Onesti, amando una de' Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato.
Vassene, pregato da' suoi, a Chiassi; quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani.
Invita i parenti suoi e quella donna amata da lui ad un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare; e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio.
Novella nona
Federigo degli Alberighi ama e non è amato e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la quale, ciò sappiendo, mutata d'animo, il prende per marito e fallo ricco.
Novella decima
Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d'Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d'Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo cognosce lo 'nganno della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza.
Conclusione della quinta giornata
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Introduzione
Incomincia la quinta giornata nella quale, sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse.
Era già l'oriente tutto bianco e li surgenti raggi per tutto il nostro emisperio avevan fatto chiaro, quando Fiammetta da' dolci canti degli uccelli, li quali la prima ora del giorno su per gli albuscelli tutti lieti cantavano, incitata, su si levò, e tutte l'altre e i tre giovani fece chiamare; e con soave passo a' campi discesa, per l'ampia pianura su per le rugiadose erbe, infino a tanto che alquanto il sol fu alzato, con la sua compagnia, d'una cosa e d'altra con lor ragionando, diportando s'andò.
Ma, sentendo che già i solar raggi si riscaldavano, verso la loro stanza volse i passi; alla qual pervenuti, con ottimi vini e con confetti il leggiere affanno avuto fè ristorare, e per lo dilettevole giardino infino all'ora del mangiare si diportarono.
La qual venuta, essendo ogni cosa dal discretissimo siniscalco apparecchiata, poi che alcuna stampita e una ballatetta o due furon cantate, lietamente, secondo che alla reina piacque, si misero a mangiare.
E quello ordinatamente e con letizia fatto, non dimenticato il preso ordine del danzare, e con gli sturmenti e con le canzoni alquante danzette fecero.
Appresso alle quali, infino a passata l'ora del dormire la reina licenziò ciascheduno; de' quali alcuni a dormire andarono e altri al loro sollazzo per lo bel giardino si rimasero.
Ma tutti, un poco passata la nona, quivi, come alla reina piacque, vicini alla fonte secondo l'usato modo si ragunarono.
Ed essendosi la reina a seder posta pro tribunali, verso Panfilo riguardando, sorridendo a lui impose che principio desse alle felici novelle.
Il quale a ciò volentier si dispose, e così disse.
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Novella Prima
Cimone amando divien savio, ed Efigenia sua donna rapisce in mare; è messo in Rodi in prigione, onde Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Efigenia e Cassandra nelle lor nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a casa loro son richiamati.
Molte novelle, dilettose donne, a dover dar principio a così lieta giornata come questa sarà, per dovere essere da me raccontate mi si paran davanti; delle quali una più nell'animo me ne piace, per ciò che per quella potrete comprendere non solamente il felice fine per lo quale a ragionare incominciamo, ma quanto sien sante, quanto poderose e di quanto ben piene le forze d'Amore, le quali molti, senza saper che si dicano, dannano e vituperano a gran torto: il che, se io non erro, per ciò che innamorate credo che siate, molto vi dovrà esser caro.
Adunque (sì come noi nelle antiche istorie de' cipriani abbiam già letto) nell'isola di Cipri fu uno nobilissimo uomo, il quale per nome fu chiamato Aristippo, oltre ad ogn'altro paesano di tutte le temporali cose ricchissimo; e se d'una cosa sola non lo avesse la fortuna fatto dolente, più che altro si potea contentare.
E questo era che egli, tra gli altri suoi figliuoli, n'aveva uno il quale di grandezza e di bellezza di corpo tutti gli altri giovani trapassava, ma quasi matto era e di perduta speranza, il cui vero nome era Galeso; ma, per ciò che mai né per fatica di maestro né per lusinga o battitura del padre, o ingegno d'alcuno altro, gli s'era potuto mettere nel capo né lettera né costume alcuno, anzi con la voce grossa e deforme e con modi più convenienti a bestia che ad uomo, quasi per ischerno da tutti era chiamato Cimone, il che nella lor lingua sonava quanto nella nostra Bestione.
La cui perduta vita il padre con gravissima noia portava; e già essendosi ogni speranza a lui di lui fuggita, per non aver sempre davanti la cagione del suo dolore, gli comandò che alla villa n'andasse e quivi co' suoi lavoratori si dimorasse; la qual cosa a Cimone fu carissima, per ciò che i costumi e l'usanze degli uomini grossi gli eran più a grado che le cittadine.
Andatosene adunque Cimone alla villa, e quivi nelle cose pertinenti a quella esercitandosi, avvenne che un giorno, passato già il mezzo dì, passando egli da una possessione ad un'altra con un suo bastone in collo, entrò in un boschetto il quale era in quella contrada bellissimo, e, per ciò che del mese di maggio era, tutto era fronzuto; per lo quale andando s'avvenne, sì come la sua fortuna il vi guidò, in un pratello d'altissimi alberi circuito, nell'un de' canti del quale era una bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato dormire una bellissima giovane con un vestimento in dosso tanto sottile, che quasi niente delle candide carni nascondea, ed era solamente dalla cintura in giù coperta d'una coltre bianchissima e sottile; e a' piè di lei similmente dormivano due femine e uno uomo, servi di questa giovane.
La quale come Cimone vide, non altramenti che se mai più forma di femina veduta non avesse, fermatosi sopra il suo bastone, senza dire alcuna cosa, con ammirazione grandissima la incominciò intentissimo a riguardare.
E nel rozzo petto, nel quale per mille ammaestramenti non era alcuna impressione di cittadinesco piacere potuta entrare, sentì destarsi un pensiero il quale nella materiale e grossa mente gli ragionava costei essere la più bella cosa che giammai per alcuno vivente veduta fosse.
E quinci cominciò a distinguer le parti di lei, lodando i capelli, li quali d'oro estimava, la fronte, il naso e la bocca, la gola e le braccia, e sommamente il petto, poco ancora rilevato; e di lavoratore, di bellezza subitamente giudice divenuto, seco sommamente disiderava di veder gli occhi, li quali essa, da alto sonno gravati, teneva chiusi; e per vedergli, più volte ebbe volontà di destarla.
Ma, parendogli oltre modo più bella che l'altre femine per addietro da lui vedute, dubitava non fosse alcuna dea; e pur tanto di sentimento avea, che egli giudicava le divine cose esser di più reverenza degne che le mondane, e per questo si riteneva, aspettando che da sé medesima si svegliasse; e come che lo 'ndugio gli paresse troppo, pur, da non usato piacer preso, non si sapeva partire.
Avvenne adunque che dopo lungo spazio la giovane, il cui nome era Efigenia, prima che alcun de' suoi si risentì, e levato il capo e aperti gli occhi, e veggendosi sopra il suo bastone appoggiato star davanti Cimone, si maravigliò forte e disse:
- Cimone, che vai tu a questa ora per questo bosco cercando?
Era Cimone, sì per la sua forma e sì per la sua rozzezza e sì per la nobiltà e ricchezza del padre, quasi noto a ciascun del paese.
Egli non rispose alle parole d'Efigenia alcuna cosa; ma come gli occhi di lei vide aperti, così in quegli fiso cominciò a guardare, seco stesso parendogli che da quegli una soavità si movesse, la quale il riempisse di piacere mai da lui non provato.
Il che la giovane veggendo, cominciò a dubitare non quel suo guardar così fiso movesse la sua rusticità ad alcuna cosa che vergogna le potesse tornare; per che, chiamate le sue femine, si levò su dicendo:
- Cimone, rimanti con Dio.
A cui allora Cimon rispose:
- Io ne verrò teco.
E quantunque la giovane sua compagnia rifiutasse, sempre di lui temendo, mai da sé partir nol potè infino a tanto che egli non l'ebbe infino alla casa di lei accompagnata; e di quindi n'andò a casa il padre, affermando sé in niuna guisa più in villa voler ritornare: il che quantunque grave fosse al padre e a' suoi, pure il lasciarono stare, aspettando di veder qual cagion fosse quella che fatto gli avesse mutar consiglio.
Essendo adunque a Cimone nel cuore, nel quale niuna dottrina era potuta entrare, entrata la saetta d'Amore per la bellezza d'Efigenia, in brevissimo tempo, d'uno in altro pensiero pervenendo, fece maravigliare il padre e tutti i suoi e ciascuno altro che il conoscea.
Egli primieramente richiese il padre che il facesse andare di vestimenti e d'ogni altra cosa ornato come i fratelli di lui andavano; il che il padre contentissimo fece.
Quindi usando co' giovani valorosi e udendo i modi i quali a' gentili uomini si convenieno, e massimamente agli innamorati, prima, con grandissima ammirazione d'ognuno, in assai brieve spazio di tempo non solamente le prime lettere apparò, ma valorosissimo tra'filosofanti divenne; e appresso questo (essendo di tutto ciò cagione l'amore il quale ad Efigenia portava) non solamente la rozza voce e rustica in convenevole e cittadina ridusse, ma di canto divenne maestro e di suono, e nel cavalcare e nelle cose belliche, così marine come di terra, espertissimo e feroce divenne.
E in brieve (acciò che io non vada ogni particular cosa delle sue virtù raccontando) egli non si compiè il quarto anno dal dì del suo primiero innamoramento, che egli riuscì il più leggiadro e il meglio costumato e con più particulari virtù che altro giovane alcuno che nell'isola fosse di Cipri.
Che dunque, piacevoli donne, diremo di Cimone? Certo niuna altra cosa se non che l'alte virtù dal cielo infuse nella valorosa anima fossono da invidiosa Fortuna in picciolissima parte del suo cuore con legami fortissimi legate e racchiuse, li quali tutti Amor ruppe e spezzò, sì come molto più potente di lei; e come eccitatore degli addormentati ingegni, quelle da crudele obumbrazione offuscate con la sua forza sospinse in chiara luce, apertamente mostrando di che luogo tragga gli spiriti a lui suggetti e in quale gli conduca co' raggi suoi.
Cimone adunque, quantunque, amando Efigenia, in alcune cose, sì come i giovani amanti molto spesso fanno, trasandasse, nondimeno Aristippo considerando che Amor l'avesse di montone fatto tornare uomo, non solo pazientemente il sostenea, ma in seguir ciò in tutti i suoi piaceri il confortava.
Ma Cimone, che d'esser chiamato Galeso rifiutava, ricordandosi che così da Efigenia era stato chiamato, volendo onesto fine porre al suo disio, più volte fece tentare Cipseo padre d'Efigenia che lei per moglie gli dovesse dare; ma Cipseo rispose sempre sé averla promessa a Pasimunda nobile giovane rodiano, al quale non intendeva venirne meno.
Ed essendo delle pattovite nozze d'Efigenia venuto il tempo, e il marito mandato per lei, disse seco Cimone: - Ora è tempo di mostrare, o Efigenia, quanto tu sii da me amata.
Io son per te divenuto uomo, e se io ti posso avere, io non dubito di non divenire più glorioso che alcuno iddio; e per certo io t'avrò o io morrò.
- E così detto, tacitamente alquanti nobili giovani richiesti che suoi amici erano, e fatto segretamente un legno armare con ogni cosa opportuna a battaglia navale, si mise in mare, attendendo il legno sopra il quale Efigenia trasportata doveva essere in Rodi al suo marito.
La quale, dopo molto onor fatto dal padre di lei agli amici del marito, entrata in mare, verso Rodi dirizzaron la proda e andar via.
Cimone, il qual non dormiva, il dì seguente col suo legno gli sopraggiunse, e d'in su la proda a quegli che sopra il legno d'Efigenia erano forte gridò:
- Arrestatevi, calate le vele, o voi aspettate d'esser vinti e sommersi in mare.
Gli avversari di Cimone avevano l'armi tratte sopra coverta e di difendersi s'apparecchiavano; per che Cimone, dopo le parole preso un rampicone di ferro, quello sopra la poppa de' rodiani, che via andavano forte, gittò, e quella alla proda del suo legno per forza congiunse, e fiero come un leone, senza altro seguito d'alcuno aspettare sopra la nave de' rodian saltò, quasi tutti per niente gli avesse; e spronandolo Amore, con maravigliosa forza fra'nimici con un coltello in mano si mise, e or questo e or quello ferendo, quasi pecore gli abbattea.
Il che, vedendo i rodiani, gittando in terra l'armi, quasi ad una voce tutti si cofessarono prigioni.
Alli quali Cimon disse:
- Giovani uomini, né vaghezza di preda né odio che io abbia contra di voi mi fece partir di Cipri a dovervi in mezzo mare con armata mano assalire.
Quello che mi mosse è a me grandissima cosa ad avere acquistata, e a voi è assai
leggiere a concederlami con pace; e ciò è Efigenia, da me sopra ogn'altra cosa amata, la quale non potendo io avere dal padre di lei come amico e con pace, da voi come nemico e con l'armi m'ha costretto Amore ad acquistarla; e per ciò intendo io d'esserle quello che esser le dovea il vostro Pasimunda; datelami, e andate con la grazia d'Iddio.
I giovani, li quali più forza che liberalità costrignea, piagnendo Efigenia a Cimon concedettono.
Il quale vedendola piagnere disse:
- Nobile donna, non ti sconfortare, io sono il tuo Cimone, il quale per lungo amore t'ho molto meglio meritata d'avere, che Pasimunda per promessa fede.
Tornossi adunque Cimone (lei già avendo sopra la sua nave fatta portare, senza alcuna altra cosa toccare de' rodiani) a' suoi compagni, e loro lasciò andare.
Cimone adunque, più che altro uomo contento dello acquisto di così cara preda, poi che alquanto di tempo ebbe posto in dover lei piagnente racconsolare, diliberò co' suoi compagni non essere da tornare in Cipri al presente; per che, di pari diliberazion di tutti, verso Creti (dove quasi ciascuno e massimamente Cimone, per antichi parentadi e novelli e per molta amistà si credevano insieme con Efigenia esser si curi) dirizzaron la proda della lor nave.
Ma la Fortuna, la quale assai lietamente l'acquisto della donna aveva conceduto a Cimone, non stabile, subitamente in tristo e amaro pianto mutò la inestimabile letizia dello 'nnamorato giovane.
Egli non erano ancora quattro ore compiute poi che Cimone li rodiani aveva lasciati, quando, sopravegnente la notte, la quale Cimone più piacevole che alcuna altra sentita giammai aspettava, con essa insieme surse un tempo fierissimo e tempestoso, il quale il cielo di nuvoli e 'l mare di pestilenziosi venti riempiè; per la qual cosa né poteva alcun veder che si fare o dove andarsi, né ancora sopra la nave tenersi a dovere fare alcun servigio.
Quanto Cimone di ciò si dolesse, non è da domandare.
Egli pareva che gl'iddii gli avessero conceduto il suo disio, acciò che più noia gli fosse il morire, del quale senza esso prima si sarebbe poco curato.
Dolevansi similmente i suoi compagni, ma sopra tutti si doleva Efigenia, forte piagnendo e ogni percossa dell'onda temendo; e nel suo pianto aspramente maladiceva l'amor di Cimone e biasimava il suo ardire, affermando per niuna altra cosa quella tempestosa fortuna esser nata, se non perché gl'iddii non volevano che colui, il quale lei contra li lor piaceri voleva aver per isposa, potesse del suo presuntuoso disiderio godere, ma vedendo lei prima morire, egli appresso miseramente morisse.
Con così fatti lamenti e con maggiori, non sappiendo che farsi i marinari, divenendo ognora il vento più forte, senza sapere o conoscere dove s'andassero, vicini all'isola di Rodi pervennero; né conoscendo per ciò che Rodi si fosse quella, con ogni ingegno, per campar le persone, si sforzarono di dovere in essa pigliar terra, se si potesse.
Alla qual cosa la Fortuna fu favorevole, e loro perdusse in un piccolo seno di mare, nel quale poco avanti a loro li rodiani stati da Cimon lasciati erano colla lor nave pervenuti.
Né prima s'accorsero sé esser all'isola di Rodi pervenuti che, surgendo l'aurora e alquanto rendendo il cielo più chiaro, si videro forse per una tratta d'arco vicini alla nave il giorno davanti da lor lasciata.
Della qual cosa Cimone senza modo dolente, temendo non gli avvenisse quello che gli avvenne, comandò che ogni forza si mettesse ad uscir quindi, e poi dove alla Fortuna piacesse gli trasportasse; per ciò che in alcuna parte peggio che quivi esser non poteano.
Le forze si misero grandi a dovere di quindi uscire, ma invano: il vento potentissimo poggiava in contrario, in tanto che, non che essi del piccolo seno uscir potessero, ma, o volessero o no, gli sospinse alla terra.
Alla quale come pervennero, dalli marinari rodiani della lor nave discesi furono riconosciuti.
De' quali prestamente alcun corse ad una villa ivi vicina dove i nobili giovani rodiani n'erano andati, e loro narrò quivi Cimone con Efigenia sopra la lor nave per fortuna, sì come loro, essere arrivati.
Costoro udendo questo, lietissimi, presi molti degli uomini della villa, prestamente furono al mare; e Cimone che, già co' suoi disceso, aveva preso consiglio di fuggire in alcuna selva ivi vicina, e 'nsieme tutti con Efigenia furon presi e alla villa menati.
E di quindi, venuto dalla città Lisimaco, appo il quale quello anno era il sommo maestrato de' rodiani, con grandissima compagnia d'uomini d'arme, Cimone è suoi compagni tutti ne menò in prigione, sì come Pasimunda, al quale le novelle eran venute, aveva, col senato di Rodi dolendosi, ordinato.
In così fatta guisa il misero e innamorato Cimone perdè la sua Efigenia poco davanti da lui guadagnata, senza altro averle tolto che alcun bacio.
Efigenia da molte nobili donne di Rodi fu ricevuta e riconfortata, sì del dolore avuto della sua presura e sì della fatica sostenuta del turbato mare; e appo quelle stette infino al giorno diterminato alle sue nozze.
A Cimone e a' suoi compagni, per la libertà il dì davanti data a' giovani rodiani, fu donata la vita, la qual Pasimunda a suo poter sollicitava di far lor torre, e a prigion perpetua fur dannati; nella quale, sì come si può credere, dolorosi stavano e senza speranza mai d'alcun piacere.
Pasimunda quanto poteva l'apprestamento sollicitava delle future nozze; ma la Fortuna, quasi pentuta della subita ingiuria fatta a Cimone, nuovo accidente produsse per la sua salute.
Aveva Pasimunda un fratello minor di tempo di lui, ma non di virtù, il quale avea nome Ormisda, stato in lungo trattato di dover torre per moglie una nobile giovane e bella della città, chiamata Cassandra, la quale Lisimaco sommamente amava; ed erasi il matrimonio per diversi accidenti più volte frastornato.
Ora, veggendosi Pasimunda per dovere con grandissima festa celebrare le sue nozze, pensò ottimamente esser fatto, se in questa medesima festa, per non tornar più alle spese e al festeggiare, egli potesse far che Ormisda similmente menasse moglie; per che co' parenti di Cassandra ricominciò le parole e perdussele ad effetto; e insieme egli e 'l fratello con loro diliberarono che quello medesimo dì che Pasimunda menasse Efigenia, quello Ormisda menasse Cassandra.
La qual cosa sentendo Lisimaco, oltre modo gli dispiacque, per ciò che si vedeva della sua speranza privare, la quale portava che, se Ormisda non la prendesse, fermamente doverla avere egli.
Ma, sì come savio, la noia sua dentro tenne nascosa; e cominciò a pensare in che maniera potesse impedire che ciò non avesse effetto; né alcuna via vide possibile, se non il rapirla.
Questo gli parve agevole per lo uficio il quale aveva, ma troppo più disonesto il reputava che se l'uficio non avesse avuto; ma in brieve, dopo lunga diliberazione, l'onestà diè luogo ad amore, e prese per partito, che che avvenir ne dovesse, di rapir Cassandra.
E pensando della compagnia che a far questo dovesse avere e dell'ordine che tener dovesse, si ricordò di Cimone, il quale co' suoi compagni in prigione avea, e imaginò niun altro compagno migliore né più fido dover potere avere che Cimone in questa cosa.
Per che la seguente notte occultamente nella sua camera il fe'venire, e cominciogli in cotal guisa favellare:
- Cimone, così come gl'iddii sono ottimi e liberali donatori delle cose agli uomini, così sono sagacissimi provatori delle lor virtù, e coloro li quali essi truovano fermi e costanti a tutti i casi, sì come più valorosi, di più alti meriti fanno degni.
Essi hanno della tua virtù voluta più certa esperienza che quella che per te si fosse potuta mostrare dentro a' termini della casa del padre tuo, il quale io conosco abondantissimo di ricchezze; e prima con le pugnenti sollicitudini d'amore, da insensato animale, sì come io ho inteso, ti recarono ad essere uomo; poi con dura fortuna e al presente con noiosa prigione voglion vedere se l'animo tuo si muta da quello ch'era quando poco tempo lieto fosti della guadagnata preda.
Il quale, se quel medesimo è che già fu, niuna cosa tanto lieta ti prestarono quanto è quella che al presente s'apparecchiano a donarti; la quale, acciò che tu l'usate forze ripigli e divenghi animoso, io intendo di dimostrarti.
Pasimunda, lieto della tua disaventura e sollicito procuratore della tua morte, quanto può s'affretta di celebrare le nozze della tua Efigenia, acciò che in quelle goda della preda la qual prima lieta Fortuna t'avea conceduta e subitamente turbata ti tolse.
La qual cosa quanto ti debba dolere, se così ami come io credo, per me medesimo il cognosco, al quale pari ingiuria alla tua in un medesimo giorno Ormisda suo fratello s'apparecchia di fare a me di Cassandra, la quale io sopra tutte l'altre cose amo.
E a fuggire tanta ingiuria e tanta noia della Fortuna, niuna via ci veggio da lei essere stata lasciata aperta, se non la virtù de' nostri animi e delle nostre destre, nelle quali aver ci convien le spade, e farci far via, a te alla seconda rapina e a me alla prima delle due nostre donne; per che, se la tua, non vo' dir libertà, la qual credo che poco senza la tua donna curi, ma la tua donna t'è cara di riavere, nelle tue mani, volendo me alla mia impresa seguire, l'hanno posta gl'iddii.
Queste parole tutto feciono lo smarrito animo ritornare in Cimone e, senza troppo rispetto prendere alla risposta, disse:
- Lisimaco, né più forte né più fido compagno di me puoi avere a così fatta cosa, se quello me ne dee seguire che tu ragioni; e per ciò quello che a te pare che per me s'abbia a fare, impollomi, e vederati con maravigliosa forza seguire.
Al quale Lisimaco disse:
- Oggi al terzo dì le novelle spose entreranno primieramente nelle case de' lor mariti, nelle quali tu co' tuoi compagni armato, e io con alquanti miei né quali io mi fido assai, in sul far della sera entreremo, e quelle del mezzo de' conviti rapite, ad una nave, la quale io ho fatta segretamente apprestare, ne meneremo, uccidendo chiunque ciò contrastare presummesse.
Piacque l'ordine a Cimone, e tacito infino al tempo posto si stette in prigione.
Venuto il giorno delle nozze, la pompa fu grande e magnifica, e ogni parte della casa de' due fratelli fu di lieta festa ripiena.
Lisimaco, ogni cosa opportuna avendo apprestata, Cimone e i suoi compagni e similmente i suoi amici, tutti sotto i vestimenti armati, quando tempo gli parve, avendogli prima con molte parole al suo proponimento accesi, in tre parti divise, delle quali cautamente l'una mandò al porto, acciò che niun potesse impedire il salire sopra la nave quando bisognasse, e con l'altre due alle case di Pasimunda venuti, una ne lasciò alla porta, acciò che alcun dentro non gli potesse rinchiudere o a loro l'uscita vietare, e col rimanente insieme con Cimone montò su per le scale.
E pervenuti nella sala dove le nuove spose con molte altre donne già a tavola erano per mangiare assettate, arditamente, fattisi innanzi e gittate le tavole in terra, ciascun prese la sua, e nelle braccia de' compagni messala, comandarono che alla nave apprestata le menassero di presente.
Le novelle spose cominciarono a piagnere e a gridare, e il simigliante l'altre donne e i servidori, e subitamente fu ogni cosa di romore e di pianto ripieno.
Ma Cimone e Lisimaco è lor compagni, tirate le spade fuori, senza alcun contasto, data loro da tutti la via, verso le scale se ne vennero; e quelle scendendo, occorse loro Pasimunda, il quale con un gran bastone in mano al romor traeva, cui animosamente Cimone sopra la testa ferì, e ricisegliele ben mezza, e morto sel fece cadere a' piedi.
Allo aiuto del quale correndo il misero Ormisda, similmente da un de' colpi di Cimone fu ucciso; e alcuni altri che appressar si vollono, da' compagni di Lisimaco e di Cimone fediti e ributtati in dietro furono.
Essi, lasciata piena la casa di sangue e di romore e di pianto e di tristizia, senza alcuno impedimento, stretti insieme con la lor rapina alla nave pervennero; sopra la quale messe le donne e saliti essi tutti e i lor compagni, essendo già il lito pien di gente armata che alla riscossa delle donne venia, dato de' remi in acqua, lieti andaron pe' fatti loro.
E pervenuti in Creti, quivi da molti e amici e parenti lietamente ricevuti furono, e sposate le donne e fatta la festa grande, lieti della loro rapina goderono.
In Cipri e in Rodi furono i romori è turbamenti grandi e lungo tempo per le costoro opere.
Ultimamente, interponendosi e nell'un luogo e nell'altro gli amici e i parenti di costoro, trovaron modo che, dopo alcuno essilio, Cimone con Efigenia lieto si tornò in Cipri, e Lisimaco similmente con Cassandra ritornò in Rodi, e ciascun lietamente con la sua visse lungamente contento nella sua terra.
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Novella Seconda
Gostanza ama Martuccio Gomito, la quale, udendo che morto era, per disperata sola si mette in una barca, la quale dal vento fu trasportata a Susa; ritruoval vivo in Tunisi, palesaglisi, ed egli grande essendo col re per consigli dati, sposatala, ricco con lei in Lipari se ne torna.
La reina, finita sentendo la novella di Panfilo, poscia che molto commendata l'ebbe, ad Emilia impose che una dicendone seguitasse; la quale così cominciò.
Ciascun si dee meritamente dilettare di quelle cose alle quali egli vede i guiderdoni secondo le affezioni seguitare; e per ciò che amare merita più tosto diletto che afflizione a lungo andare, con molto mio maggior piacere, della presente materia parlando, ubbidirò la reina, che della precedente non feci il re.
Dovete adunque, dilicate donne, sapere, che vicin di Cicilia è una isoletta chiamata Lipari, nella quale, non è ancora gran tempo, fu una bellissima giovane chiamata Gostanza, d'assai orrevoli genti dell'isola nata.
Della quale un giovane che dell'isola era, chiamato Martuccio Gomito, assai leggiadro e costumato e nel suo mestiere valoroso, s'innamorò.
La qual sì di lui similmente s'accese, che mai bene non sentiva se non quanto il vedeva.
E disiderando Martuccio d'averla per moglie, al padre di lei la fece addimandare; il quale rispose lui esser povero e per ciò non volergliele dare.
Martuccio, sdegnato di vedersi per povertà rifiutare, con certi suoi amici e parenti armato un legnetto, giurò di mai in Lipari non tornare se non ricco.
E quindi partitosi, corseggiando cominciò a costeggiare la Barberia, rubando ciascuno che meno poteva di lui; nella qual cosa assai gli fu favorevole la fortuna, se egli avesse saputo por modo alle felicità sue.
Ma, non bastandogli d'essere egli è suoi compagni in brieve tempo divenuti ricchissimi, mentre che di trasricchire cercavano, avvenne che da certi di legni saracini, dopo lunga difesa, co' suoi compagni fu preso e rubato, e di loro la maggior parte dà saracini mazzerati e isfondolato il legno, esso menato a Tunisi fu messo in prigione e in lunga miseria guardato.
In Lipari tornò, non per uno o per due, ma per molte e diverse persone, la novella che tutti quelli che con Martuccio erano sopra il legnetto erano stati annegati.
La giovane, la quale senza misura della partita di Martuccio era stata dolente, udendo lui con gli altri esser morto, lungamente pianse, e seco dispose di non voler più vivere; e non sofferendole il cuore di sé medesima con alcuna violenza uccidere, pensò nuova necessità dare alla sua morte; e uscita segretamente una notte di casa il padre e al porto venutasene, trovò per ventura alquanto separata dall'altre navi una navicella di pescatori, la quale (per ciò che pure allora smontati n'erano i signori di quella) d'albero e di vela e di remi la trovò fornita.
Sopra la quale prestamente montata e co' remi alquanto in mar tiratasi, ammaestrata alquanto dell'arte marinaresca, sì come generalmente tutte le femine in quella isola sono, fece vela e gittò via i remi e il timone, e al vento tutta si commise avvisando dover di necessità avvenire o che il vento barca senza carico e senza governator rivolgesse, o ad alcuno scoglio la percotesse e rompesse, di che ella, eziandio se campar volesse, non potesse, ma di necessità annegasse.
E avviluppatasi la testa in un mantello, nel fondo della barca piagnendo si mise a giacere.
Ma tutto altramenti addivenne che ella avvisato non avea; per ciò che, essendo quel vento che traeva tramontana, e questo assai soave, e non essendo quasi mare, e ben reggente la barca, il seguente dì alla notte che su montata v'era, in sul vespro ben cento miglia sopra Tunisi ad una piaggia vicina ad una città chiamata Susa ne la portò.
La giovane d'essere più in terra che in mare niente sentiva, sì come colei che mai per alcuno accidente da giacere non avea il capo levato né di levare intendeva.
Era allora per avventura, quando la barca ferì sopra il lito, una povera feminetta alla marina, la quale levava dal sole reti di suoi pescatori; la quale, vedendo la barca, si maravigliò come colla vela piena fosse lasciata percuotere in terra.
E pensando che in quella i pescatori dormissono, andò alla barca, e niuna altra persona che questa giovane vi vide; la quale essalei che forte dormiva, chiamò molte volte, e alla fine fattala risentire e allo abito conosciutala che cristiana era, parlando latino la domandò come fosse che ella quivi in quella barca così soletta fosse arrivata.
La giovane, udendo la favella latina, dubitò non forse altro vento l'avesse a Lipari ritornata; e subitamente levatasi in piè riguardò attorno, e non conoscendo le contrade e veggendosi in terra, domandò la buona femina dove ella fosse.
A cui la buona femina rispose:
- Figliuola mia, tu se'vicina a Susa in Barberia.
Il che udito la giovane, dolente che Iddio non l'aveva voluto la morte mandare, dubitando di vergogna e non sappiendo che farsi, a piè della sua barca a seder postasi, cominciò a piagnere.
La buona femina, questo vedendo, ne le prese pietà, e tanto la pregò, che in una sua capannetta la menò, e quivi tanto la lusingò che ella le disse come quivi arrivata fosse; per che, sentendola la buona femina essere ancor digiuna, suo pan duro e alcun pesce e acqua l'apparecchiò, e tanto la pregò ch'ella mangiò un poco.
La Gostanza appresso domandò chi fosse la buona femina che così latin parlava; a cui ella disse che da Trapani era e aveva nome Carapresa; e quivi serviva certi pescatori cristiani.
La giovane, udendo dire Carapresa, quantunque dolente fosse molto, e non sappiendo ella stessa che cagione a ciò la si movesse, in sé stessa prese buono agurio d'aver questo nome udito, e cominciò a sperar senza saper che e alquanto a cessare il disiderio della morte; e, senza manifestar chi si fosse né donde, pregò caramente la buona femina che per l'amor di Dio avesse misericordia della sua giovanezza e che alcuno consiglio le desse per lo quale ella potesse fuggire che villania fatta non le fosse.
Carapresa udendo costei, a guisa di buona femina, lei nella capannetta lasciata, prestamente raccolte le sue reti, a lei ritornò, e tutta nel suo mantello stesso chiusala, in Susa con seco la menò, e quivi pervenuta le disse:
- Gostanza, io ti menerò in casa d'una bonissima donna saracina, alla quale io fo molto spesso servigio di sue bisogne, ed ella è donna antica e misericordiosa; io le ti raccomanderò quanto io potrò il più, e certissima sono che ella ti riceverà volentieri e come figliuola ti tratterà, e tu, con lei stando, t'ingegnerai a tuo potere, servendola, d'acquistar la grazia sua insino a tanto che Iddio ti mandi miglior ventura; - e come ella disse così fece.
La donna, la qual vecchia era oramai, udita costei, guardò la giovane nel viso e cominciò a lagrimare, e presala le baciò la fronte, e poi per la mano nella sua casa ne la menò, nella quale ella con alquante altre femine dimorava senza alcuno uomo, e tutte di diverse cose lavoravano di lor mano, di seta, di palma, di cuoio diversi lavorii faccendo.
De' quali la giovane in pochi dì apparò a fare alcuno, e con loro insieme cominciò a lavorare; e in tanta grazia e buono amore venne della buona donna e dell'altre, che fu maravigliosa cosa; e in poco spazio di tempo, mostrandogliele esse, il lor linguaggio apparò.
Dimorando adunque la giovane in Susa, essendo già stata a casa sua pianta per perduta e per morta, avvenne che, essendo re di Tunisi uno che si chiamava Mariabdela, un giovane di gran parentado e di molta potenza, il quale era in Granata, dicendo che a lui il reame di Tunisi apparteneva, fatta grandissima moltitudine di gente, sopra il re di Tunisi se ne venne per cacciarlo del regno.
Le quali cose venendo ad orecchie a Martuccio Gomito in prigione, il qual molto bene sapeva il barbaresco, e udendo che il re di Tunisi faceva grandissimo sforzo a sua difesa, disse ad un di quegli li quali lui è suoi compagni guardavano:
- Se io potessi parlare al re, e'mi dà il cuore che io gli darei un consiglio, per lo quale egli vincerebbe la guerra sua.
La guardia disse queste parole al suo signore, il quale al re il rapportò incontanente.
Per la qual cosa il re comandò che Martuccio gli fosse menato, e domandato da lui che consiglio il suo fosse, gli rispose così:
- Signor mio, se io ho bene, in altro tempo che io in queste vostre contrade usato sono, riguardato alla maniera la qual tenete nelle vostre battaglie, mi pare che più con arcieri che con altro quelle facciate; e per ciò, ove si trovasse modo che agli arcieri del vostro avversario mancasse il saettamento è vostri n'avessero abbondevolmente, io avviso che la vostra battaglia si vincerebbe.
A cui il re disse:
- Senza dubbio, se cotesto si potesse fare, io mi crederrei esser vincitore.
Al quale Martuccio disse:
- Signor mio, dove voi vogliate, egli si potrà ben fare, e udite come.
A voi convien far fare corde molto più sottili agli archi de' vostri arcieri, che quelle che per tutti comunalmente s'usano; e appresso far fare saettamento, le cocche del quale non sieno buone se non a queste corde sottili; e questo convien che sia sì segretamente fatto, che il vostro avversario nol sappia, per ciò che egli ci troverebbe modo.
E la cagione per che io dico questo è questa.
Poi che gli arcieri del vostro nimico avranno il suo saettamento saettato e i vostri il suo, sapete che di quello che i vostri saettato avranno converrà, durando la battaglia, che i vostri nimici ricolgano, e a' nostri converrà ricoglier del loro; ma gli avversari non potranno il saettamento saettato dà vostri adoperare, per le picciole cocche che non riceveranno le corde grosse, dove a' vostri avverrà il contrario del saettamento de' nimici, per ciò che la sottil corda riceverà ottimamente la saetta che avrà larga cocca; e così i vostri saranno di saettamento copiosi, dove gli altri n'avranno difetto.
Al re, il quale savio signore era, piacque il consiglio di Martuccio; e interamente seguitolo, per quello trovò la sua guerra aver vinta; laonde sommamente Martuccio venne nella sua grazia, e per conseguente in grande e ricco stato.
Corse la fama di queste cose per la contrada; e agli orecchi della Gostanza pervenne Martuccio Gomito esser vivo, il quale lungamente morto aveva creduto; per che l'amor di lui, già nel cuor di lei intiepidito, con subita fiamma si riaccese e divenne maggiore, e la morta speranza suscitò.
Per la qual cosa alla buona donna con cui dimorava interamente ogni suo accidente aperse, e le disse sé disiderare d'andare a Tunisi, acciò che gli occhi saziasse di ciò che gli orecchi con le ricevute voci fatti gli avean disiderosi.
La quale il suo disiderio le lodò molto, e come sua madre stata fosse, entrata in una barca, con lei insieme a Tunisi andò, dove con la Gostanza in casa d'una sua parente fu ricevuta onorevolmente.
Ed essendo con lei andata Carapresa, la mandò a sentire quello che di Martuccio trovar potesse; e trovato lui esser vivo e in grande stato, e rapportogliele, piacque alla gentil donna di volere essere colei che a Martuccio significasse quivi a lui esser venuta la sua Gostanza.
E andatasene un dì là dove Martuccio era, gli disse:
- Martuccio, in casa mia è capitato un tuo servidore che vien da Lipari, e quivi ti vorrebbe segretamente parlare; e per ciò, per non fidarmene ad altri, sì come egli ha voluto, io medesima tel sono venuta a significare.
Martuccio la ringraziò, e appresso lei alla sua casa se n'andò.
Quando la giovane il vide, presso fu che di letizia non morì, e non potendosene tenere, subitamente con le braccia aperte gli corse al collo e abbracciollo, e per compassione de' passati infortuni e per la presente letizia, senza potere alcuna cosa dire, teneramente cominciò a lagrimare.
Martuccio, veggendo la giovane, alquanto maravigliandosi soprastette, e poi sospirando disse:
- O Gostanza mia, or se'tu viva? Egli è buon tempo che io intesi che tu perduta eri, né a casa nostra di te alcuna cosa si sapeva; - e questo detto, teneramente lagrimando l'abbracciò e baciò.
La Gostanza gli raccontò ogni suo accidente, e l'onore che ricevuto avea dalla gentil donna con la quale dimorata era.
Martuccio, dopo molti ragionamenti da lei partitosi, al re suo signore n'andò e tutto gli raccontò, cioè i suoi casi e quegli della giovane, aggiugnendo che, con sua licenzia, intendeva secondo la nostra legge di sposarla.
Il re si maravigliò di queste cose; e fatta la giovane venire, e da lei udendo che così era come Martuccio aveva detto, disse:
- Adunque l'hai tu per marito molto ben guadagnato.
E fatti venire grandissimi e nobili doni, parte a lei ne diede e parte a Martuccio, dando loro licenzia di fare intra sé quello che più fosse a grado a ciascheduno.
Martuccio onorata molto la gentil donna con la quale la Gostanza dimorata era e ringraziatala di ciò che in servigio di lei aveva adoperato e donatile doni quali a lei si confaceano e accomandatala a Dio, non senza molte lagrime dalla Gostanza si partì.
E appresso con licenzia del re sopra un legnetto montati, e con loro Carapresa, con prospero vento a Lipari ritornarono, dove fu sì grande la festa che dir non si potrebbe giammai.
Quivi Martuccio la sposò e grandi e belle nozze fece, e poi appresso con lei insieme in pace e in riposo lungamente goderono del loro amore.
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Novella Terza
Pietro Boccamazza si fugge con l'Agnolella; truova ladroni; la giovane fugge per una selva, ed è condotta ad un castello; Pietro è preso e delle mani de' ladroni fugge, e dopo alcuno accidente, capita a quel castello dove l'Agnolella era, e sposatala con lei se ne torna a Roma.
Niuno ne fu tra tutti che la novella d'Emilia non commendasse; la qual conoscendo la reina esser finita, volta ad Elissa, che ella continuasse le 'mpose.
La quale, d'ubbidire disiderosa, incominciò.
A me, vezzose donne, si para dinanzi una malvagia notte da due giovanetti poco discreti avuta; ma, per ciò che ad essa seguitarono molti lieti giorni, sì come conforme al nostro proposito, mi piace di raccontarla.
In Roma, la quale, come è oggi coda, così già fu capo del mondo, fu un giovane, poco tempo fa, chiamato Pietro Boccamazza, di famiglia tra le romane assai onorevole, il quale s'innamorò d'una bellissima e vaga giovane chiamata Agnolella, figliuola d'uno ch'ebbe nome Gigliuozzo Saullo, uomo plebeio ma assai caro a' romani.
E amandola, tanto seppe operare, che la giovane cominciò non meno ad amar lui che egli amasse lei.
Pietro, da fervente amor costretto, e non parendogli più dover sofferire l'aspra pena che il disiderio che avea di costei gli dava, la domandò per moglie.
La qual cosa come i suoi parenti seppero, tutti furono a lui e biasimarongli forte ciò che egli voleva fare; e d'altra parte fecero dire a Gigliuozzo Saullo che a niun partito attendesse alle parole di Pietro, per ciò che, se 'l facesse, mai per amico né per parente l'avrebbero.
Pietro, veggendosi quella via impedita per la qual sola si credeva potere al suo disio pervenire, volle morir di dolore; e se Gigliuozzo l'avesse consentito, contro al piacere di quanti parenti avea, per moglie la figliuola avrebbe presa; ma pur si mise in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avrebbe effetto; e per interposita persona sentito che a grado l'era, con lei si convenne di doversi con lui di Roma fuggire.
Alla qual cosa dato ordine, Pietro una mattina per tempissimo levatosi, con lei insieme montò a cavallo, e presero il cammin verso Alagna, là dove Pietro aveva certi amici de' quali esso molto si confidava; e così cavalcando, non avendo spazio di far nozze, per ciò che temevano d'esser seguitati, del loro amore andando insieme ragionando, alcuna volta l'un l'altro baciava.
Ora avvenne che, non essendo a Pietro troppo noto il cammino, come forse otto miglia da Roma dilungati furono, dovendo a man destra tenere, si misero per una via a sinistra.
Né furono guari più di due miglia cavalcati, che essi si videro vicini ad un castelletto, del quale, essendo stati veduti, subitamente uscirono da dodici fanti.
E già essendo loro assai vicini, la giovane gli vide, per che gridando disse:
- Pietro, campiamo, ché noi siamo assaliti; - e come seppe, verso una selva grandissima volse il suo ronzino; e tenendogli gli sproni stretti al corpo, attenendosi all'arcione, il ronzino, sentendosi pugnere, correndo per quella selva ne la portava.
Pietro, che più al viso di lei andava guardando che al cammino, non essendosi tosto come lei de fanti che venieno avveduto, mentre che egli senza vedergli ancora andava guardando donde venissero, fu da loro sopraggiunto e preso e fatto del ronzino smontare; e domandato chi egli era, e avendol detto, costor cominciaron fra loro ad aver consiglio e a dire: - Questi è degli amici de' nimici nostri; che ne dobbiam fare altro, se non torgli quei panni e quel ronzino e impiccarlo per dispetto degli Orsini ad una di queste querce? - Ed essendosi tutti a questo consiglio accordati, avevano a Pietro comandato che si spogliasse.
Il quale spogliandosi, già del suo male indovino, avvenne che un guato di ben venticinque fanti subitamente uscì addosso a costoro gridando: - Alla morte, alla morte! - Li quali soprappresi da questo, lasciato star Pietro, si volsero alla lor difesa; ma, veggendosi molti meno che gli assalitori, cominciarono a fuggire, e costoro a seguirgli.
La qual cosa Pietro veggendo, subitamente prese le cose sue e salì sopra il suo ronzino e cominciò quanto poteva a fuggire per quella via donde aveva veduto che la giovane era fuggita.
Ma, non vedendo per la selva né via né sentiero, né pedata di caval conoscendovi, poscia che a lui parve esser sicuro e fuor delle mani di coloro che preso l'aveano e degli altri ancora da cui quegli erano stati assaliti, non ritrovando la sua giovane, più doloroso che altro uomo, cominciò a piagnere e ad andarla or qua or là per la selva chiamando; ma niuna persona gli rispondeva, ed esso non ardiva a tornare addietro, e andando innanzi non conosceva dove arrivar si dovesse; e d'altra parte delle fiere che nelle selve sogliono abitare aveva ad una ora di sé stesso paura e della sua giovane, la qual tuttavia gli pareva vedere o da orso o da lupo strangolare.
Andò adunque questo Pietro sventurato tutto il giorno per questa selva gridando e chiamando, a tal ora tornando indietro che egli si credeva innanzi andare; e già, tra per lo gridare e per lo piagnere e per la paura e per lo lungo digiuno, era sì vinto, che più avanti non poteva.
E vedendo la notte sopravvenuta, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, trovata una grandissima quercia, smontato del ronzino a quella il legò, e appresso, per non essere dalle fiere divorato la notte, su vi montò; e poco appresso levatasi la luna e 'l tempo essendo chiarissimo, non avendo Pietro ardir d'addormentarsi per non cadere (come che, perché pure agio avuto n'avesse, il dolore né i pensieri che della sua giovane avea non l'avrebbero lasciato); per che egli, sospirando e piagnendo e seco la sua disaventura maladicendo, vegghiava.
La giovane fuggendo, come davanti dicemmo, non sappiendo dove andarsi, se non come il suo ronzino stesso dove più gli pareva ne la portava, si mise tanto fra la selva, che ella non poteva vedere il luogo donde in quella entrata era; per che, non altramenti che avesse fatto Pietro, tutto 'l dì, ora aspettando e ora andando, e piagnendo e chiamando e della sua sciagura dolendosi, per lo salvatico luogo s'andò avvolgendo.
Alla fine, veggendo che Pietro non venia, essendo già vespro, s'abbattè ad un sentieruolo, per lo qual messasi e seguitandolo il ronzino, poi che più di due miglia fu cavalcata, di lontano si vide davanti una casetta, alla quale essa come più tosto potè se n'andò, e quivi trovò un buono uomo attempato molto con una sua moglie che similmente era vecchia.
Li quali, quando la videro sola, dissero:
- O figliuola, che vai tu a questa ora così sola faccendo per questa contrada?
La giovane piagnendo rispose che aveva la sua compagnia nella selva smarrita, e domandò come presso fosse ad Alagna.
A cui il buono uomo rispose:
- Figliuola mia, questa non è la via d'andare ad Alagna, egli ci ha delle miglia più di dodici.
Disse allora la giovane:
- E come ci sono abitanze presso da potere albergare?
A cui il buono uomo rispose:
- Non ci sono in niun luogo sì presso, che tu di giorno vi potessi andare.
Disse la giovane allora:
- Piacerebbev'egli, poi che altrove andar non posso, di qui ritenermi per l'amor di Dio istanotte?
Il buono uomo rispose:
- Giovane, che tu con noi ti rimanga per questa sera n'è caro; ma tuttavia ti vogliam ricordare che per queste contrade e di dì e di notte e d'amici e di nemici vanno di male brigate assai, le quali molte volte ne fanno di gran dispiaceri e di gran danni; e se per isciagura, essendoci tu, ce ne venisse alcuna, e veggendoti bella e giovane come tu sé, è ti farebbono dispiacere e vergogna, e noi non te ne potremmo aiutare.
Vogliantelo aver detto, acciò che tu poi, a se questo avvenisse, non ti possi di noi ramaricare.
La giovane, veggendo che l'ora era tarda, ancora che le parole del vecchio la spaventassero, disse:
- Se a Dio piacerà, egli ci guarderà e voi e me di questa noia, la quale, se pur m'avvenisse, è molto men male essere dagli uomini straziata, che sbranata per li boschi dalle fiere.
E così detto, discesa del suo ronzino, se n'entrò nella casa del povero uomo, e quivi con essoloro di quello che avevano poveramente cenò, e appresso tutta vestita in su un lor letticello con loro insieme a giacer si gittò, né in tutta la notte di sospirare né di piagnere la sua sventura e quella di Pietro, del quale non sapea che si dovesse sperare altro che male, non rifinò.
Ed essendo già vicino al matutino, ella sentì un gran calpestio di gente andare; per la qual cosa, levatasi, se n'andò in una gran corte, che la piccola casetta di dietro a sé avea, e vedendo dall'una delle parti di quella molto fieno, in quello s'andò a nascondere, acciò che, se quella gente quivi venisse, non fosse così tosto trovata.
E appena di nasconder compiuta s'era, che coloro, che una gran brigata di malvagi uomini era, furono alla porta della piccola casa, e fattosi aprire e dentro entrati e trovato il ronzino della giovane ancora con tutta la sella domandarono chi vi fosse.
Il buono uomo, non vedendo la giovane, rispose:
- Niuna persona ci è altro che noi; ma questo ronzino, a cui che fuggito si sia, ci capitò iersera, e noi cel mettemmo in casa, acciò che i lupi nol manicassero.
- Adunque, - disse il maggior della brigata - sarà egli buon per noi, poi che altro signor non ha.
Sparti adunque costoro tutti per la piccola casa, parte n'andò nella corte, e poste giù lor lance e lor tavolacci, avvenne che uno di loro, non sappiendo altro che farsi, gittò la sua lancia nel fieno e assai vicin fu ad uccidere la nascosa giovane ed ella a palesarsi, per ciò che la lancia le venne allato alla sinistra poppa, tanto che col ferro le stracciò de' vestimenti, laonde ella fu per mettere un grande strido temendo d'esser fedita; ma ricordandosi là dove era, tutta riscossasi, stette cheta.
La brigata chi qua e chi là, cotti lor cavretti e loro altra carne, e mangiato e bevuto, s'andarono pe' fatti loro, e menaronsene il ronzino della giovane.
Ed essendo già dilungati alquanto, il buono uomo cominciò a domandar la moglie:
- Che fu della nostra giovane che iersera ci capitò, che io veduta non la ci ho poi che noi ci levammo?
La buona femina rispose che non sapea, e andonne guatando.
La giovane, sentendo coloro esser partiti, uscì del fieno; di che il buono uomo forte contento, poi che vide che alle mani di coloro non era venuta, e faccendosi già dì, le disse:
- Omai che il dì ne viene, se ti piace, noi t'accompagneremo infino ad un castello che è presso di qui cinque miglia, e sarai in luogo sicuro; ma converratti venire a piè, per ciò che questa mala gente che ora di qui si parte, se n'ha menato il ronzin tuo.
La giovane, datasi pace di ciò, gli pregò per Dio che al castello la menassero; per che entrati in via, in su la mezza terza vi giunsero.
Era il castello di uno degli Orsini, lo quale si chiamava Liello di Campo di Fiore, e per ventura v'era una sua donna, la qual bonissima e santa donna era; e veggendo la giovane, prestamente la riconobbe e con festa la ricevette, e ordinatamente volle sapere come quivi arrivata fosse.
La giovane gliele contò tutto.
La donna, che cognoscea similmente Pietro, sì come amico del marito di lei, dolente fu del caso avvenuto; e udendo dove stato fosse preso, s'avvisò che morto fosse stato.
Disse adunque alla giovane:
- Poi che così è che di Pietro tu non sai, tu dimorerai qui meco infino a tanto che fatto mi verrà di potertene sicuramente mandare a Roma.
Pietro, stando sopra la quercia quanto più doloroso esser potea, vide in sul primo sonno venir ben venti lupi, li quali tutti, come il ronzin videro, gli furon dintorno.
Il ronzino sentendogli, tirata la testa, ruppe le cavezzine e cominciò a volersi fuggire; ma essendo intorniato e non potendo, gran pezza co' denti e co' calci si difese; alla fine da loro atterrato e strozzato fu e subitamente sventrato, e tutti pascendosi, senza altro lasciarvi che l'ossa, il divorarono e andar via.
Di che Pietro, al qual pareva del ronzino avere una compagnia e un sostegno delle sue fatiche, forte sbigottì e imaginossi di non dover mai di quella selva potere uscire.
Ed essendo già vicino al dì, morendosi egli sopra la quercia di freddo, sì come quegli che sempre dattorno guardava, si vide innanzi forse un miglio un grandissimo fuoco; per che, come fatto fu il dì chiaro, non senza paura della quercia disceso, verso là si dirizzò, e tanto andò che a quello pervenne; dintorno al quale trovò pastori che mangiavano e davansi buon tempo, dà quali esso per pietà fu raccolto.
E poi che egli mangiato ebbe e fu riscaldato, contata loro la sua disaventura e come quivi solo arrivato fosse, gli domandò se in quelle parti fosse villa o castello, dove egli andar potesse.
I pastori dissero che ivi forse a tre miglia era un castello di Liello di Campo di Fiore, nel quale al presente era la donna sua; di che Pietro contentissimo gli pregò che alcuno di loro infino al castello l'accompagnasse, il che due di loro fecero volentieri.
Al quale pervenuto Pietro, e quivi avendo trovato alcun suo conoscente, cercando di trovar modo che la giovane fosse per la selva cercata, fu da parte della donna fatto chiamare; il quale incontanente andò a lei, e vedendo con lei l'Agnolella, mai pari letizia non fu alla sua.
Egli si struggeva tutto d'andarla ad abbracciare, ma per vergogna, la quale avea della donna, lasciava.
E se egli fu lieto assai, la letizia della giovane vedendolo non fu minore.
La gentil donna, raccoltolo e fattogli festa, e avendo da lui ciò che intervenuto gli era udito, il riprese molto di ciò che contro al piacer de' parenti suoi far voleva.
Ma, veggendo che egli era pure a questo disposto e che alla giovane aggradiva, disse: - In che m'affatico io? Costor s'amano, costor si conoscono, ciascuno è parimente amico del mio marito, e il lor desiderio è onesto; e credo che egli piaccia a Dio, poi che l'uno dalle forche ha campato, e l'altro dalla lancia, e amenduni dalle fiere selvatiche; e però facciasi.
- E a loro rivolta disse:
- Se pure questo v'è all'animo di volere essere moglie e marito insieme, e a me; facciasi, e qui le nozze s'ordinino alle spese di Liello; la pace poi tra voi è vostri parenti farò io ben fare.
Pietro lietissimo, e l'Agnolella più, quivi si sposarono; e come in montagna si potè, la gentil donna fè loto onorevoli nozze, e quivi i primi frutti del loro amore dolcissimamente sentirono.
Poi, ivi a parecchi dì, la donna insieme con loro, montati a cavallo e bene accompagnati, se ne tornarono a Roma; dove, trovati forte turbati i parenti di Pietro di ciò che fatto aveva, con loro in buona pace il ritornò; ed esso con molto riposo e piacere con la sua Agnolella infino alla lor vecchiezza si visse.
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Novella Quarta
Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola, la quale egli sposa, e col padre di lei rimane in buona pace.
Tacendosi Elissa, le lode ascoltando dalle sue compagne date alla sua novella, impose la reina a Filostrato che alcuna ne dicesse egli; il quale ridendo incominciò.
Io sono stato da tante di voi tante volte morso, perché io materia da crudeli ragionamenti e da farvi piagner v'imposi, che a me pare, a volere alquanto questa noia ristorare, esser tenuto di dover dire alcuna cosa per la quale io alquanto vi faccia ridere; e per ciò uno amore, non da altra noia che di sospiri e d'una brieve paura con vergogna mescolata, a lieto fin pervenuto, in una novelletta assai piccola intendo di raccontarvi.
Non è adunque, valorose donne, gran tempo passato che in Romagna fu un cavaliere assai da bene e costumato, il qual fu chiamato messer Lizio da Valbona, a cui per ventura vicino alla sua vecchiezza una figliuola nacque d'una sua donna chiamata madonna Giacomina, la quale oltre ad ogn'altra della contrada, crescendo, divenne bella e piacevole; e per ciò che sola era al padre e alla madre rimasa, sommamente da loro era amata e avuta cara e con maravigliosa diligenza guardata, aspettando essi di far di lei alcun gran parentado.
Ora usava molto nella casa di messer Lizio, e molto con lui si riteneva, un giovane bello e fresco della persona, il quale era de' Manardi da Brettinoro, chiamato Ricciardo, del quale niun'altra guardia messer Lizio o la sua donna prendevano, che fatto avrebbon d'un lor figliuolo.
Il quale, una volta e altra veggendo la giovane bellissima e leggiadra, e di laudevoli maniere e costumi e già da marito, di lei fieramente s'innamorò, e con gran diligenza il suo amore teneva occulto.
Del quale avvedutasi la giovane, senza schifar punto il colpo, lui similmente cominciò ad amare; di che Ricciardo fu forte contento.
E avendo molte volte avuta voglia di doverle alcuna parola dire, e dubitando taciutosi, pure una, preso tempo e ardire, le disse:
- Caterina, io ti priego che tu non mi facci morire amando.
La giovane rispose subito:
- Volesse Iddio che tu non facessi più morir me.
Questa risposta molto di piacere e d'ardire aggiunse a Ricciardo, e dissele :
- Per me non istarà mai cosa che a grado ti sia, ma a te sta il trovar modo allo scampo della tua vita e della mia.
La giovane allora disse:
- Ricciardo, tu vedi quanto io sia guardata, e per ciò da me non so veder come tu a me ti potessi venire; ma, se tu sai veder cosa che io possa senza mia vergogna fare, dillami, e io la farò.
Ricciardo, avendo più cose pensato, subitamente disse:
- Caterina mia dolce, io non so alcuna via veder, se già tu non dormissi o potessi venire in su 'l verone che è presso al giardino di tuo padre, dove se io sapessi che tu di notte fossi, senza fallo io m'ingegnere' di venirvi, quantunque molto alto sia.
A cui la Caterina rispose:
- Se quivi ti dà il cuore di venire, io mi credo ben far sì che fatto mi verrà di dormirvi.
Ricciardo disse di sì.
E questo detto, una volta sola si baciarono alla sfuggita, e andar via.
Il dì seguente, essendo già vicino alla fine di maggio, la giovane cominciò davanti alla madre a ramaricarsi che la passata notte per lo soperchio caldo non aveva potuto dormire.
Disse la madre:
- O figliuola, che caldo fu egli? Anzi non fu egli caldo veruno
A cui la Caterina disse:
- Madre mia, voi dovreste dire - a mio parere, - e forse vi direste il vero; ma voi dovreste pensare quanto sieno più calde le fanciulle che le donne attempate.
La donna disse allora:
- Figliuola mia, così è il vero; ma io non posso far caldo e freddo a mia posta, come tu forse vorresti.
I tempi si convengon pur sofferir fatti come le stagioni gli danno; forse quest'altra notte sarà più fresco, e dormirai meglio.
- Ora Iddio il voglia, - disse la Caterina - ma non suole essere usanza che, andando verso la state, le notti si vadan rinfrescando.
- Dunque, - disse la donna - che vuoi tu che si faccia?
Rispose la Caterina:
- Quando a mio padre e a voi piacesse, io farei volentieri fare un letticello in su 'l verone che è allato alla sua camera e sopra il suo giardino, e quivi mi dormirei, e udendo cantare l'usignuolo, e avendo il luogo più fresco, molto meglio starei che nella vostra camera non fo.
La madre allora disse:
- Figliuola, confortati; io il dirò a tuo padre, e come egli vorrà così faremo.
Le quali cose udendo messer Lizio dalla sua donna, per ciò che vecchio era e da questo forse un poco ritrosetto, disse:
- Che rusignuolo è questo a che ella vuol dormire? Io la farò ancora addormentare al canto delle cicale.
Il che la Caterina sappiendo, più per isdegno che per caldo, non solamente la seguente notte non dormì, ma ella non lasciò dormire la madre, pur del gran caldo dolendosi.
Il che avendo la madre sentito, fu la mattina a messer Lizio e gli disse:
- Messer, voi avete poco cara questa giovane.
Che vi fa egli perché ella sopra quel veron si dorma? Ella non ha in tutta notte trovato luogo di caldo, e oltre a ciò maravigliatevi voi perché egli le sia in piacere l'udir cantar l'usignuolo, che è una fanciullina? I giovani son vaghi delle cose simiglianti a loro.
Messer Lizio udendo questo disse:
- Via, faccialevisi un letto tale quale egli vi cape, e fallo fasciar dattorno d'alcuna sargia, e dormavi, e oda cantar l'usignuolo a suo senno.
La giovane, saputo questo, prestamente vi fece fare un letto; e dovendovi la sera vegnente dormire, tanto attese che ella vide Ricciardo, e fecegli un segno posto tra loro, per lo quale egli intese ciò che far si dovea.
Messer Lizio, sentendo la giovane essersi andata al letto, serrato uno uscio che della sua camera andava sopra 'l verone, similmente s'andò a dormire.
Ricciardo, come d'ogni parte sentì le cose chete, con lo aiuto d'una scala salì sopra un muro, e poi d'in su quel muro appiccandosi a certe morse d'un altro muro, con gran fatica e pericolo, se caduto fosse, pervenne in sul verone, dove chetamente con grandissima festa dalla giovane fu ricevuto; e dopo molti baci si coricarono insieme, e quasi per tutta la notte diletto e piacer presono l'un dell'altro, molte volte faccendo cantar l'usignuolo.
Ed essendo le notti piccole e il diletto grande, e già al giorno vicino (il che essi non credevano), e sì ancora riscaldati e sì dal tempo e sì dallo scherzare, senza alcuna cosa addosso s'addormentarono, avendo a Caterina col destro braccio abbracciato sotto il collo Ricciardo, e con la sinistra mano presolo per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nominare.
E in cotal guisa dormendo, senza svegliarsi, sopravenne il giorno, e messer Lizio si levò; e ricordandosi la figliuola dormire sopra 'l verone, chetamente l'uscio aprendo disse:
- Lasciami vedere come l'usignuolo ha fatto questa notte dormir la Caterina.
E andato oltre, pianamente levò alta la sargia della quale il letto era fasciato e Ricciardo e lei vide ignudi e scoperti dormire abbracciati nella guisa di sopra mostrata; e avendo ben conosciuto Ricciardo, di quindi s'uscì, e andonne alla camera della sua donna e chiamolla, dicendo:
- Su tosto, donna, lievati e vieni a vedere, ché tua figliuola è stata sì vaga dell'usignuolo che ella è stata tanto alla posta che ella l'ha preso e tienlosi in mano.
Disse la donna:
- Come può questo essere?
Disse messer Lizio:
- Tu il vedrai se tu vien tosto.
La donna, affrettatasi di vestire, chetamente seguitò messer Lizio, e giunti amenduni al letto e levata la sargia, potè manifestamente vedere madonna Giacomina come la figliuola avesse preso e tenesse l'usignuolo, il quale ella tanto disiderava d'udir cantare.
Di che la donna, tenendosi forte di Ricciardo ingannata, volle gridare e dirgli villania; ma messer Lizio le disse:
- Donna, guarda che per quanto tu hai caro il mio amore tu non facci motto, ché in verità, poscia che ella l'ha preso, egli sì sarà suo.
Ricciardo è gentile uomo e ricco giovane; noi non possiamo aver di lui altro che buon parentado; se egli si vorrà a buon concio da me partire, egli converra che primieramente la sposi; sì ch'egli si troverrà aver messo l'usignuolo nella gabbia sua e non nell'altrui.
Di che la donna racconsolata, veggendo il marito non esser turbato di questo fatto, e considerando che la figliuola aveva avuta la buona notte ed erasi ben riposata e aveva l'usignuolo preso, si tacque.
Né guari dopo queste parole stettero, che Ricciardo si svegliò, e veggendo che il giorno era chiaro, si tenne morto, e chiamò la Caterina, dicendo:
- Ohimè, anima mia, come faremo, ché il giorno è venuto e hammi qui colto?
Alle quali parole messer Lizio, venuto oltre e levata la sargia, rispose:
- Farete bene
Quando Ricciardo li vide, parve che gli fosse il cuor del corpo strappato e levatosi a sedere in sul letto disse:
- Signor mio, io vi cheggio mercé per Dio.
Io conosco, sì come disleale e malvagio uomo, aver meritato morte, e per ciò fate di me quello che più vi piace.
Ben vi priego io, se esser può, che voi abbiate della mia vita mercè, e che io non muoia.
A cui messer Lizio disse:
- Ricciardo, questo non meritò l'amore il quale io ti portava e la fede la quale io aveva in te; ma pur, poi che così è e a tanto fallo t'ha trasportato la giovanezza, acciò che tu tolga a te la morte e a me la vergogna, prima che tu ti muova, sposa per tua legittima moglie la Caterina, acciò che, come ella è stata questa notte tua, così sia mentre ella viverà; e in questa guisa puoi e la mia pace e la tua salvezza acquistare; e ove tu non vogli così fare, raccomanda a Dio l'anima tua.
Mentre queste parole si dicevano, la Caterina lasciò l'usignuolo, e ricopertasi, cominciò fortemente a piagnere e a pregare il padre che a Ricciardo perdonasse; e d'altra parte pregava Ricciardo che quel facesse che messer Lizio volea, acciò che con sicurtà e lungo tempo potessono insieme di così fatte notti avere.
Ma a ciò non furono troppi prieghi bisogno; per ciò che d'una parte la vergogna del fallo commesso e la voglia dello emendare, e d'altra la paura del morire e il disiderio dello scampare, e oltre a questo l'ardente amore e l'appetito del possedere la cosa amata, liberamente e senza alcuno indugio gli fecer dire sé esser apparecchiato a far ciò che a messer Lizio piaceva.
Per che messer Lizio, fattosi prestare a madonna Giacomina uno de' suoi anelli, quivi, senza mutarsi, in presenzia di loro Ricciardo per sua moglie sposò la Caterina.
La qual cosa fatta, messer Lizio e la donna partendosi dissono:
- Riposatevi oramai, ché forse maggior bisogno n'avete che di levarvi.
Partiti costoro, i giovani si rabbracciarono insieme, e non essendo più che sei miglia camminati la notte, altre due anzi che si levassero ne camminarono, e fecer fine alla prima giornata.
Poi levati, e Ricciardo avuto più ordinato ragionamento con messer Lizio, pochi dì appresso, sì come si convenia, in presenzia degli amici e de' parenti da capo sposò la giovane, e con gran festa se ne la menò a casa, e fece onorevoli e belle nozze, e poi con lei lungamente in pace e in consolazione uccellò agli usignuoli e di dì e di notte quanto gli piacque.
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Novella Quinta
Guidotto da Cremona lascia a Giacomin da Pavia una fanciulla, e muorsi; la quale Giannol di Severino e Minghino di Mingole amano in Faenza; azzuffansi insieme; riconoscesi la fanciulla esser sirocchia di Giannole, e dassi per moglie a Minghino.
Aveva ciascuna donna, la novella dell'usignolo ascoltando, tanto riso, che ancora, quantunque Filostrato ristato fosse di novellare, non per ciò esse di ridere si potevan tenere.
Ma pur, poi che alquanto ebber riso, la reina disse :
- Sicuramente, se tu ieri ci affliggesti, tu ci hai oggi tanto dileticate, che niuna meritamente più di te si dee ramaricare.
E avendo a Neifile le parole rivolte, le 'mpose che novellasse; la quale lietamente così cominciò a parlare.
Poi che Filostrato ragionando in Romagna è intrato, a me per quella similmente gioverà d'andare alquanto spaziandomi col mio novellare.
Dico adunque che già nella città di Fano due lombardi abitarono, de' quali l'un fu chiamato Guidotto da Cremona e l'altro Giacomin da Pavia, uomini omai attempati e stati nella lor gioventudine quasi sempre in fatti d'arme e soldati.
Dove, venendo a morte Guidotto, e niuno figliuolo avendo né altro amico o parente di cui più si fidasse che di Giacomin facea, una sua fanciulla d'età forse di dieci anni, e ciò che egli al mondo avea, molto de' suoi fatti ragionatogli, gli lasciò, e morissi.
Avvenne in questi tempi che la città di Faenza, lungamente in guerra e in mala ventura stata, alquanto in miglior disposizion ritornò, e fu a ciascun che ritornar vi volesse libarerete conceduto il potervi tornare; per la qual cosa Giacomino, che altra volta dimorato v'era, e piacendogli la stanza, là con ogni sua cosa si tornò, e seco ne menò la fanciulla lasciatagli da Guidotto, la quale egli come propria figliuola amava e trattava.
La quale crescendo divenne bellissima giovane quanto alcuna altra che allora fosse nella città; e così come era bella, era costumata e onesta.
Per la qual cosa da diversi fu cominciata a vagheggiare, ma sopra tutti due giovani assai leggiadri e da bene igualmente le posero grandissimo amore, in tanto che per gelosia insieme si 'ncominciarono ad avere in odio fuor di modo: e chiamavasi l'un Giannole di Severino, e l'altro Minghino di Mingole.
Né era alcuno di loro, essendo ella d'età di quindici anni, che volentieri non l'avesse per moglie presa, se dà suoi parenti fosse stato sofferto; per che, veggendolasi per onesta cagione vietare, ciascuno a doverla, in quella guisa che meglio potesse, avere, si diede a procacciare.
Aveva Giacomino in casa una fante attempata e un fante che Crivello aveva nome, persona sollazzevole e amichevole assai; col quale Giannole dimesticatosi molto, quando tempo gli parve, ogni suo amore discoperse, pregandolo che a dovere il suo disidero ottenere gli fosse favorevole, gran cose se ciò facesse promettendogli.
Al quale Crivello disse:
- Vedi, in questo io non potrei per te altro adoperare se non che quando Giacomino andasse in alcuna parte a cenare, metterti là dove ella fosse, per ciò che, volendole io dir parole per te, ella non mi starebbe mai ad ascoltare.
Questo s'el ti piace, io il ti prometto, e farollo; fa tu poi, se tu sai, quello che tu creda che bene stea.
Giannole disse che più non volea, e in questa concordia rimase.
Minghino d'altra parte aveva dimesticata la fante, e con lei tanto adoperato che ella avea più volte ambasciate portate alla fanciulla, e quasi del suo amore l'aveva accesa; e oltre a questo gli aveva promesso di metterlo con lei, come avvenisse che Giacomino per alcuna cagione da sera fuori di casa andasse.
Avvenne adunque, non molto tempo appresso queste parole, che, per opera di Crivello, Giacomino andò con un suo amico a cenare; e fattolo sentire a Giannole, compose con lui che, quando un certo cenno facesse, egli venisse e troverrebbe l'uscio aperto.
La fante d'altra parte, niente di questo sappiendo, fece sentire a Minghino che Giacomino non vi cenava, e gli disse che presso della casa dimorasse sì, che quando vedesse un segno ch'ella farebbe, egli venisse ed entrassesene dentro.
Venuta la sera, non sappiendo i due amanti alcuna cosa l'un dell'altro, ciascun, sospettando dell'altro, con certi compagni armati a dovere entrare in tenuta andò.
Minghino co' suoi, a dovere il segno aspettare, si ripose in casa d'un suo amico vicino della giovine; Giannole co' suoi alquanto dalla casa stette lontano.
Crivello e la fante, non essendovi Giacomino, s'ingegnavano di mandare l'un l'altro via.
Crivello diceva alla fante:
- Come non ti vai tu a dormire oramai? Che ti vai tu pure avviluppando per casa?
E la fante diceva a lui:
- Ma tu perché non vai per signorto? Che aspetti tu oramai qui, poi hai cenato?
E così l'uno non poteva l'altro far mutare di luogo.
Ma Crivello, conoscendo l'ora posta con Giannole esser venuta, disse seco: - Che curo io di costei? Se ella non istarà cheta, ella potrà aver delle sue; - e fatto il segno posto andò ad aprir l'uscio, e Giannole prestamente venuto con due compagni andò dentro, e trovata la giovane nella sala la presono per menarla via.
La giovane cominciò a resistere e a gridar forte, e la fante similmente.
Il che sentendo Minghino, prestamente co' suoi compagni là corse; e veggendo la giovane già fuori dell'uscio tirare, tratte le spade fuori, gridarono tutti:
- Ahi traditori, voi siete morti; la cosa non andrà così: che forza è questa?; - e questo detto, gl'incominciarono a ferire.
E d'altra parte la vicinanza uscita fuori al romore e con lumi e con arme, cominciarono questa cosa a biasimare e ad aiutar Minghino.
Per che, dopo lunga contesa, Minghino tolse la giovane a Giannole, e rimisela in casa di Giacomino.
Né prima si partì la mischia che i sergenti del capitan della terra vi sopraggiunsero e molti di costoro presero; e fra gli altri furono presi Minghino e Giannole e Crivello, e in prigione menatine.
Ma poi racquetata la cosa, e Giacomino essendo tornato; e, di questo accidente molto malinconoso, essaminando come stato fosse e trovato che in niuna cosa la giovane aveva colpa, alquanto si diè più pace, proponendo seco, acciò che più simil caso non avvenisse, di doverla come più tosto potesse maritare.
La mattina venuta, i parenti dell'una parte e dell'altra avendo la verità del fatto sentita e conoscendo il male che a' presi giovani ne poteva seguire, volendo Giacomino quello adoperare che ragionevolmente avrebbe potuto, furono a lui, e con dolci parole il pregarono che alla ingiuria ricevuta dal poco senno de' giovani non guardasse tanto, quanto all'amore e alla benivolenza la quale credevano che egli a loro che il pregavano portasse, offerendo appresso sé medesimi e i giovani che il male avevan fatto ad ogni ammenda che a lui piacesse di prendere.
Giacomino, il qual de' suoi dì assai cose vedute avea ed era di buon sentimento, rispose brievemente:
- Signori, se io fossi a casa mia come io sono alla vostra, mi tengo io sì vostro amico, che né di questo né d'altro io non farei se non quanto vi piacesse; e oltre a questo più mi debbo a' vostri piaceri piegare in quanto voi a voi medesimi avete offeso, per ciò che questa giovane, forse come molti stimano, non è da Cremona né da Pavia, anzi è faentina, come che io né ella né colui da cui io l'ebbi non sapessimo mai di cui si fosse figliuola; per che; di quello che pregate tanto sarà per me fatto, quanto me ne imporrete.
I valenti uomini, udendo costei esser di Faenza, si maravigliarono; e rendute grazie a Giacomino della sua liberale risposta, il pregarono che gli piacesse di dover lor dire come costei alle mani venuta gli fosse, e come sapesse lei esser faentina.
A'quali Giacomin disse:
- Guidotto da Cremona fu mio compagno e amico, e venendo a morte mi disse che quando questa città da Federigo Imperatore fu presa, andataci a ruba ogni cosa, egli entrò co' suoi compagni in una casa, e quella trovò di roba piena esser dagli abitanti abbandonata, fuor solamente da questa fanciulla, la quale d'età di due anni o in quel torno, lui sagliente su per le scale chiamò padre; per la qual cosa a lui venuta di lei compassione, insieme con tutte le cose della casa seco ne la portò a Fano, e quivi morendo, con ciò che egli avea costei mi lasciò, imponendomi che, quando tempo fosse, io la maritassi e quello che stato fosse suo le dessi in dota; e venuta nell'età da marito, non m'è venuto fatto di poterla dare a persona che mi piaccia; fare' 'l volentieri, anzi che altro caso simile a quel di ier sera me n'avvenisse.
Era quivi intra gli altri un Guiglielmino da Medicina, che con Guidotto era stato a questo fatto, e molto ben sapeva la cui casa stata fosse quella che Guidotto avea rubata; e vedendolo ivi tra gli altri, gli s'accostò e disse:
- Bernabuccio, odi tu ciò che Giacomin dice?
Disse Bernabuccio:
- Sì; e testé vi pensava più, per ciò ch'io mi ricordo che in quegli rimescolamenti io perdei una figlioletta di quella età che Giacomin dice.
A cui Guiglielmino disse:
- Per certo questa è dessa, per ciò ch'io mi trovai già in parte ove io udii a Guidotto divisare dove la ruberia avesse.
fatta, e conobbi che la tua casa era stata; è per ciò rammemorati se ad alcun segnale riconoscer la credessi, e fanne cercare, ché tu troverrai fermamente che ella è tua figliuola.
Per che, pensando Bernabuccio, si ricordò lei dovere avere una margine a guisa d'una crocetta sopra l'orecchia sinistra, stata d'una nascenza che fatta gli avea poco davanti a quello accidente tagliare; per che, senza alcuno indugio pigliare, accostatosi a Giacomino che ancora era quivi, il pregò che in casa sua il menasse e veder gli facesse questa giovane.
Giacomino il vi menò volentieri, e lei fece venire dinanzi da lui.
La quale come Bernabuccio vide, così tutto il viso della madre di lei, che ancora bella donna era, gli parve vedere; ma pur, non stando a questo, disse a Giacomino che di grazia voleva da lui poterle un poco levare i capelli sopra la sinistra orecchia; di che Giacomino fu contento.
Bernabuccio, accostatosi a lei che vergognosamente stava, levati colla man dritta i capelli, la croce vide; laonde, veramente conoscendo lei esser la sua figliuola, teneramente cominciò a piagnere e ad abbracciarla, come che ella si contendesse; e volto a Giacomin disse:
- Fratel mio, questa è mia figliuola; la mia casa fu quella che fu da Guidotto rubata, e costei nel furor subito vi fu dentro dalla mia donna e sua madre dimenticata, e infino a qui creduto abbiamo che costei, nella casa che mi fu quel dì stesso arsa, ardesse.
La giovane, udendo questo e vedendolo uomo attempato e dando alle parole fede e da occulta virtù mossa, sostenendo li suoi abbracciamenti, con lui teneramente cominciò a piagnere.
Bernabuccio di presente mandò per la madre di lei e per altre sue parenti e per le sorelle e per li fratelli di lei, e a tutti mostratala e narrando il fatto, dopo mille abbracciamenti fatta la festa grande, essendone Giacomino forte contento, seco a casa sua ne la menò.
Saputo questo il capitano della città, che valoroso uomo era, e conoscendo che Giannole, cui preso tenea, figliuolo era di Bernabuccio e fratel carnale di costei, avvisò di volersi del fallo commesso da lui mansuetamente passare; e intromessosi in queste cose con Bernabuccio e con Giacomino, insieme a Giannole e a Minghino fece far pace; e a Minghino, con gran piacer di tutti i suoi parenti, diede per moglie la giovane, il cui nome era Agnesa, e con loro insieme liberò Crivello e gli altri che impacciati v'erano per questa cagione.
E Minghino appresso lietissimo fece le nozze belle e grandi, e a casa menatalasi, con lei in pace e in bene poscia più anni visse.
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Novella Sesta
Gian di Procida trovato con una giovane amata da lui, e stata data al re Federigo, per dovere essere arso con lei è legato ad un palo; riconosciuto da Ruggieri de Loria, campa e divien marito di lei.
Finita la novella di Neifile, assai alle donne piaciuta, comandò la reina a Pampinea che a doverne alcuna dire si disponesse.
La qual prestamente, levato il chiaro viso, incomincio.
Grandissime forze, piacevoli donne, son quelle d'amore, e a gran fatiche e a strabocchevoli e non pensati pericoli gli amanti dispongono, come per assai cose raccontate e oggi e altre volte comprender si può; ma nondimeno ancora con l'ardire d'un giovane innamorato m'aggrada di dimostrarlo.
Ischia è una isola assai vicina di Napoli, nella quale fu già tra l'altre una giovinetta bella e lieta molto, il cui nome fu Restituta, e figliuola d'un gentil uom dell'isola, che Marin Bolgaro avea nome, la quale un giovanetto, che d'una isoletta ad Ischia vicina, chiamata Procida, era, e nominato Gianni, amava sopra la vita sua, ed ella lui.
Il quale, non che il giorno da Procida ad usare ad Ischia per vederla venisse, ma già molte volte di notte, non avendo trovata barca, da Procida infino ad Ischia notando era andato, per poter vedere, se altro non potesse, almeno le mura della sua casa.
E durante questo amore così fervente, avvenne che, essendo la giovane un giorno di state tutta soletta alla marina, di scoglio in iscoglio andando marine conche con un coltellino dalle pietre spiccando, s'avvenne in un luogo fra gli scogli riposto, dove sì per l'ombra e sì per lo destro d'una fontana d'acqua freddissima che v'era, s'erano certi giovani ciciliani, che da Napoli venivano, con una lor fregata raccolti.
Li quali, avendo la giovane veduta bellissima e che ancor lor non vedea, e vedendola sola, fra sé diliberarono di doverla pigliare e portarla via; e alla diliberazione seguitò l'effetto.
Essi, quantunque ella gridasse molto, presala, sopra la lor barca la misero, e andar via; e in Calavria pervenuti, furono a ragionamento di cui la giovane dovesse essere, e in brieve ciaschedun la volea; per che, non trovandosi concordia fra loro, temendo essi di non venire a peggio e per costei guastare i fatti loro, vennero a concordia di doverla donare a Federigo re di Cicilia, il quale era allora giovane e di così fatte cose si dilettava; e a Palermo venuti, così fecero.
Il re, veggendola bella, l'ebbe cara; ma, per ciò che cagionevole era alquanto della persona, infino a tanto che più forte fosse, comandò che ella fosse messa in certe case bellissime d'un suo giardino, il quale chiamavan la Cuba, e quivi servita, e così fu fatto.
Il romore della rapita giovane fu in Ischia grande, e quello che più lor gravava, era che essi non potevan sapere chi si fossero stati coloro che rapita l'avevano.
Ma Gianni, al quale più che ad alcuno altro ne calea, non aspettando di doverlo in Ischia sentire, sappiendo verso che parte n'era la fregata andata, fattane armare una, su vi montò, e quanto più tosto potè, discorsa tutta la marina dalla Minerva infino alla Scalea in Calavria, e per tutto della giovane investigando nella Scalea gli fu detto lei essere da marinari ciciliani portata via a Palermo.
Là dove Gianni, quanto più tosto potè, si fece portare, e quivi, dopo molto cercare, trovato che la giovane era stata donata al re e per lui era nella Cuba guardata, fu forte turbato e quasi ogni speranza perde', non che di doverla mai riavere, ma pur vedere.
Ma pur, da amore ritenuto, mandatane la fregata, veggendo che da niun conosciuto v'era, si stette; e sovente dalla Cuba passando, gliele venne per ventura veduta un dì ad una finestra ed ella vide lui, di che ciascun fu contento assai.
E veggendo Gianni che il luogo era solingo, accostatosi come potè, le parlò, e da lei informato della maniera che a tenere avesse se più dappresso le volesse parlar, si partì, avendo prima per tutto considerata la disposizione del luogo; e aspettata la notte, e di quella lasciata andar buona parte, là se ne tornò, e aggrappatosi per parti che non vi si sarebbono appiccati i picchi, nel giardin se n'entrò, e in quello trovata una antennetta, alla finestra dalla giovane insegnatagli l'appoggiò, e per quella assai leggiermente se ne salì.
La giovane, parendole il suo onore avere omai perduto, per la guardia del quale ella gli era alquanto nel passato stata salvatichetta, pensando a niuna persona più degnamente che a costui potersi donare e avvisando di poterlo inducere a portarla via, seco aveva preso di compiacergli in ogni suo disidero; e per ciò aveva la finestra lasciata aperta, acciò che egli prestamente dentro potesse passare.
Trovatala adunque Gianni aperta, chetamente se n'entrò dentro, e alla giovane, che non dormiva, allato si corico'.
La quale, prima che ad altro venissero, tutta la sua intenzion gli aperse, sommamente del trarla quindi e via portarnela pregandolo.
Alla qual Gianni disse niuna cosa quanto questa piacergli, e che senza alcun fallo, come da lei si partisse, in sì fatta maniera in ordine il metterebbe che, la prima volta ch'el vi tornasse, via la menerebbe.
E appresso questo, con grandissimo piacere abbracciatisi, quello diletto presero, oltre al quale niuno maggior ne puote Amor prestare; e poi che quello ebbero più volte reiterato, senza accorgersene, nelle braccia l'un dell'altro s'addormentarono.
Il re, al quale costei era molto nel primo aspetto piaciuta, di lei ricordandosi, sentendosi bene della persona, ancora che fosse al dì vicino, diliberò d'andare a starsi alquanto con lei; e con alcuno de' suoi servidori chetamente se n'andò alla Cuba.
E nelle case entrato, fatto pianamente aprir la camera nella qual sapeva che dormiva la giovane, in quella con un gran doppiere acceso innanzi se n'entrò; e sopra il letto guardando, lei insieme con Gianni ignudi e abbracciati vide dormire.
Di che egli di subito si turbò fieramente e in tanta ira montò, senza dire alcuna cosa, che a poco si tenne che quivi, con un coltello che allato avea, amenduni non gli uccise.
Poi, estimando vilissima cosa essere a qualunque uom si fosse, non che ad un re, due ignudi uccidere dormendo, si ritenne, e pensò di volergli in publico e di fuoco far morire; e volto ad un sol compagno che seco aveva, disse:
- Che ti par di questa rea femina, in cui io già la mia speranza aveva posta? - e appresso il domandò se il giovane conoscesse, che tanto d'ardire aveva avuto, che venuto gli era in casa a far tanto d'oltraggio e di dispiacere.
Quegli che domandato era rispose non ricordarsi d'averlo mai veduto.
Partissi adunque il re turbato della camera, e comandò che i due amanti, così ignudi come erano, fosser presi e legati, e come giorno chiaro fosse, fosser menati a Palermo e in su la piazza legati ad un palo con le reni l'uno all'altro volte e infino ad ora di terza tenuti, acciò che da tutti potessero esser veduti, e appresso fossero arsi, sì come avean meritato; e così detto, se ne tornò in Palermo nella sua camera assai cruccioso.
Partito il re, subitamente furon molti sopra i due amanti, e loro non solamente svegliarono, ma prestamente senza alcuna pietà presero e legarono.
Il che veggendo i due giovani, se essi furon dolenti e temettero della lor vita e piansero e ramaricaronsi, assai può esser manifesto.
Essi furono, secondo il comandamento del re, menati in Palermo e legati ad un palo nella piazza, e davanti agli occhi loro fu la stipa e 'l fuoco apparecchiata, per dovergli ardere all'ora comandata dal re.
Quivi subitamente tutti i palermitani e uomini e donne concorsero a vedere i due amanti: gli uomini tutti a riguardare la giovane si traevano, e così come lei bella esser per tutto e ben fatta lodavano, così le donne, che a riguardare il giovane tutte correvano, lui d'altra parte esser bello e ben fatto sommamente commendavano.
Ma gli sventurati amanti amenduni vergognandosi forte, stavano con le teste basse e il loro infortunio piagnevano, d'ora in ora la crudel morte del fuoco aspettando.
E mentre così infino all'ora determinata eran tenuti, gridandosi per tutto il fallo da lor commesso, e pervenendo agli orecchi di Ruggier de Loria, uomo di valore inestimabile e allora ammiraglio del re, per vedergli se n'andò verso il luogo dove erano legati; e quivi venuto, prima riguardò la giovane e commendolla assai di bellezza, e appresso venuto il giovane a riguardare, senza troppo penare il riconobbe, e più verso lui fattosi il domandò se Gianni di Procida fosse.
Gianni, alzato il viso e riconoscendo l'ammiraglio, rispose:
- Signor mio, io fui ben già colui di cui voi domandate, ma io sono per non esser più.
Domandollo allora l'ammiraglio che cosa a quello l'avesse condotto; a cui Gianni rispose:
- Amore, e l'ira del re.
Fecesi l'ammiraglio più la novella distendere; e avendo ogni cosa udita da lui come stata era e partir volendosi, il richiamò Gianni e dissegli:
- Deh, signor mio, se esser può, impetratemi una grazia da chi così mi fa stare.
Ruggieri domandò quale; a cui Gianni disse:
- Io veggio che io debbo, e tostamente, morire; voglio adunque di grazia che, come io sono con questa giovane, la quale io ho più che la mia vita amata ed ella me, con le reni a lei voltato ed ella a me, che noi siamo co' visi l'uno all'altro rivolti, acciò che morendo io e vedendo il viso suo, io ne possa andar consolato.
Ruggieri ridendo disse:
- Volentieri io farò sì che tu la vedrai ancor tanto che ti rincrescerà.
E partitosi da lui, comandò a coloro a' quali imposto era di dovere questa cosa mandare ad esecuzione, che senza altro comandamento del re non dovessero più avanti fare che fatto fosse; e senza dimorare, al re se n'andò.
Al quale, quantunque turbato il vedesse, non lasciò di dire il parer suo, e dissegli:
- Re, di che t'hanno offeso i due giovani li quali laggiù nella piazza hai comandato che arsi sieno?
Il re gliele disse.
Seguitò Ruggieri:
- Il fallo commesso da loro il merita bene, ma non da te; e come i falli meritan punizione, così i benefici meritan guiderdone, oltre alla grazia e alla misericordia.
Conosci tu chi color sieno li quali tu vuogli che s'ardano?
Il re rispose di no.
Disse allora Ruggieri:
- E io voglio che tu gli conosca, acciò che tu veggi quanto discretamente tu ti lasci agl'impeti dell'ira transportare.
Il giovane è figliuolo di Landolfo di Procida, fratel carnale di messer Gian di Procida, per l'opera del quale tu sé re e signor di questa isola.
La giovane è figliuola di Marin Bolgaro, la cui potenza fa oggi che la tua signoria non sia cacciata d'Ischia.
Costoro, oltre a questo, son giovani che lungamente si sono amati insieme, e da amor costretti, e non da volere alla tua signoria far dispetto, questo peccato (se peccato dir si dee quel che per amor fanno i giovani) hanno fatto.
Perché dunque gli vuoi tu far morire, dove con grandissimi piaceri e doni gli dovresti onorare?
Il re, udendo questo e rendendosi certo che Ruggieri il ver dicesse, non solamente che egli a peggio dovere operare procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'increbbe; per che incontanente mandò che i due giovani fossero dal palo sciolti e menati davanti da lui; e così fu fatto.
E avendo intera la lor condizion conosciuta, pensò che con onore e con doni fosse la ingiuria fatta da compensare; e fattigli onorevolmente rivestire, sentendo che di pari consentimento era, a Gianni fece la giovinetta sposare, e fatti loro magnifichi doni, contenti gli rimandò a casa loro, dove con festa grandissima ricevuti, lungamente in piacere e in gioia poi vissero insieme.
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Novella Settima
Teodoro, innamorato della Violante figliuola di messere Amerigo suo signore, la 'ngravida ed è alle forche condannato; alle quali frustandosi essendo menato, dal padre riconosciuto e prosciolto, prende per moglie la Violante.
Le donne, le quali tutte temendo stavan sospese ad udire se i due amanti fossero arsi, udendogli scampati, lodando Iddio, tutte si rallegrarono; e la reina, udita la fine, alla Lauretta lo 'ncarico impose della seguente, la quale lietamente prese a dire.
Bellissime donne, al tempo che il buon re Guiglielmo la Cicilia reggeva, era nella isola un gentile uomo chiamato messere Amerigo Abbate da Trapani, il quale, tra gli altri ben temporali, era di figliuoli assai ben fornito.
Per che, avendo di servidori bisogno e venendo galee di corsari genovesi di Levante, li quali costeggiando l'Erminia molti fanciulli avevan presi, di quegli, credendogli turchi, alcun comperò; tra' quali, quantunque tutti gli altri paressero pastori, n'era uno il quale gentilesco e di migliore aspetto che alcun altro pareva, ed era chiamato Teodoro.
Il quale crescendo, come che egli a guisa di servo trattato fosse, nella casa pur co' figliuoli di messer Amerigo si crebbe; e traendo più alla natura di lui che all'accidente, cominciò ad esser costumato e di bella maniera, intanto che egli piaceva sì a messere Amerigo, che egli il fece franco; e credendo che turchio fosse, il fè battezzare e chiamar Pietro, e sopra i suoi fatti il fece il maggiore, molto di lui confidandosi.
Come gli altri figliuoli di messer Amerigo, così similmente crebbe una sua figliuola chiamata Violante, bella e dilicata giovane; la quale, soprattenendola il padre a maritare, s'innamorò per avventura di Pietro; e amandolo e faccendo de' suoi costumi e delle sue opere grande stima, pur si vergognava di discovrirgliele.
Ma Amore questa fatica le tolse, per ciò che, avendo Pietro più volte cautamente guatatala, sì s'era di lei innamorato, che bene alcun non sentiva se non quanto la vedea; ma forte temea non di questo alcun s'accorgesse, parendogli far men che bene.
Di che la giovane, che volentier lui vedeva, s'avvide; e, per dargli più sicurtà, contentissima, sì come era, se ne mostrava.
E in questo dimorarono assai, non attentandosi di dire l'uno all'altro alcuna cosa, quantunque molto ciascuno il disiderasse.
Ma, mentre che essi così parimente nell'amorose fiamme accesi ardevano, la fortuna, come se diliberato avesse questo voler che fosse, loro trovò via da cacciare la temorosa paura che gl'impediva.
Aveva messer Amerigo, fuor di Trapani forse un miglio, un suo molto bel luogo, al quale la donna sua con la figliuola e con altre femine e donne era usata sovente d'andare per via di diporto: dove essendo, un giorno che era il caldo grande, andate, e avendo seco menato Pietro e quivi dimorando, avvenne, sì come noi veggiamo talvolta di state avvenire, che subitamente il cielo si chiuse d'oscuri nuvoli; per la qual cosa la donna con la sua compagnia, acciò che il malvagio tempo non le cogliesse quivi, si misero in via per tornare in Trapani, e andavanne ratti quanto potevano.
Ma Pietro che giovane era, e la fanciulla similmente, avanzavano nello andare la madre di lei e l'altre compagne assai, forse non meno da amor sospinti che da paura di tempo; ed essendo già tanto entrati innanzi alla donna e agli altri che appena si vedevano, avvenne che dopo molti tuoni subitamente una gragnuola grossissima e spessa cominciò a venire, la quale la donna con la sua compagnia fuggì in casa d'un lavoratore.
Pietro e la giovane, non avendo più presto rifugio, se n'entrarono in una casetta antica e quasi tutta caduta, nella quale persona non dimorava, e in quella sotto un poco di tetto, che ancora rimaso v'era, si ristrinsono amenduni, e costrinseli la necessità del poco coperto a toccarsi insieme.
Il qual toccamento fu cagione di rassicurare un poco gli animi ad aprire gli amorosi disii.
E prima cominciò Pietro a dire:
- Or volesse Iddio che mai, dovendo io stare come io sto, questa grandine non ristesse.
E la giovane disse:
- Ben mi sarebbe caro.
E da queste parole vennero a pigliarsi per mano e strignersi, e da questo ad abbracciarsi e poi a baciarsi, grandinando tuttavia.
E acciò che io ogni particella non racconti, il tempo non si racconciò prima che essi, l'ultime dilettazioni d'amor conosciute, a dover segretamente l'un dell'altro aver piacere ebbero ordine dato.
Il tempo malvagio cessò, e all'entrar della città, che vicina era, aspettata la donna, con lei a casa se ne tornarono.
Quivi alcuna volta, con assai discreto ordine e segreto, con gran consolazione insieme si ritrovarono; e sì andò la bisogna che la giovane ingravidò, il che molto fu e all'uno e all'altro discaro; per che ella molte arti usò per dovere, contro al corso della natura, disgravidare, né mai le poté venir fatto.
Per la qual cosa Pietro, della vita di sé medesimo temendo, diliberato di fuggirsi, gliele disse; la quale udendolo disse:
- Se tu ti parti, senza alcun fallo io m'ucciderò.
A cui Pietro, che molto l'amava, disse:
- Come vuoi tu, donna mia, che io qui dimori? La tua gravidezza scoprirà il fallo nostro; a te fia perdonato leggiermente, ma io misero sarò colui a cui del tuo peccato e del mio converrà portare la pena.
Al quale la giovane disse:
- Pietro, il mio peccato si saprà bene; ma sii certo che il tuo, se tu nol dirai, non si saprà mai.
Pietro allora disse:
- Poi che tu così mi prometti, io starò, ma pensa d'osservarlomi.
La giovane, che, quanto più potuto avea, la sua pregnezza tenuta aveva nascosa, veggendo, per lo crescer che 'l corpo facea, più non poterla nascondere, con grandissimo pianto un dì il manifestò alla madre, lei per la sua salute pregando.
La donna, dolente senza misura, le disse una gran villania, e da lei volle sapere come andata fosse la cosa.
La giovane, acciò che a Pietro non fosse fatto male, compose una sua favola, in altre forme la verità rivolgendo.
La donna la si credette, e per celare il difetto della figliuola, ad una lor possessione la ne mandò.
Quivi, sopravvenuto il tempo del partorire, gridando la giovane come le donne fanno, non avvisandosi la madre di lei che quivi messer Amerigo, che quasi mai usato non era, dovesse venire, avvenne che, tornando egli da uccellare e passando lunghesso la camera dove la figliuola gridava, maravigliandosi, subitamente entrò dentro e domandò che questo fosse.
La donna, veggendo il marito sopravenuto, dolente levatasi, ciò che alla figliuola era intervenuto gli raccontò.
Ma egli, men presto a creder che la donna non era stata, disse ciò non dovere esser vero che ella non sapesse di cui gravida fosse, e per ciò del tutto il voleva sapere; e dicendolo, essa potrebbe la sua grazia racquistare; se non, pensasse senza alcuna misericordia di morire.
La donna s'ingegnò, in quanto poteva, di dovere fare star contento il marito a quello che ella aveva creduto; ma ciò era niente.
Egli, salito in furore, con la spada ignuda in mano sopra la figliuola corse, la quale, mentre la madre di lei il padre teneva in parole, aveva un figliuol maschio partorito, e disse:
- O tu manifesta di cui questo parto si generasse, o tu morrai senza indugio.
La giovane, la morte temendo, rotta la promessa fatta a Pietro, ciò che tra lui e lei stato era tutto aperse.
Il che udendo il cavaliere e fieramente divenuto fellone, appena d'ucciderla si ritenne; ma, poi che quello che l'ira gli apparecchiava detto l'ebbe, rimontato a cavallo, a Trapani se ne venne, e ad uno messer Currado, che per lo re v'era capitano, la ingiuria fattagli da Pietro contatagli, subitamente, non guardandosene egli, il fè pigliare; e messolo al martorio, ogni cosa fatta confessò.
Ed essendo dopo alcun dì dal capitano condannato che per la terra frustato fosse e poi appiccato per la gola; acciò che una medesima ora togliesse di terra i due amanti e il lor figliuolo, messere Amerigo, al quale per avere a morte con dotto Pietro non era l'ira uscita, mise veleno in un nappo con vino, e quello diede ad un suo famigliare e un coltello ignudo con esso, e disse:
- Va con queste due cose alla Violante, e sì le dì da mia parte che prestamente prenda qual vuole l'una di queste due morti, o del veleno o del ferro, e ciò faccia senza indugio; se non, che io nel cospetto di quanti cittadini ci ha la farò ardere, sì come ella ha meritato; e fatto questo, piglierai il figliuolo pochi dì fa da lei partorito, e percossogli il capo al muro, il gitta a mangiare a' cani.
Data dal fiero padre questa crudel sentenzia contro alla figliuola e al nepote, il famigliare, più a male che a ben disposto, andò via.
Pietro condennato, essendo dà famigliari menato alle forche frustando, passò, sì come a coloro che la brigata guida vano piacque, davanti ad uno albergo dove tre nobili uomini d'Erminia erano, li quali dal re d'Erminia a Roma ambasciadori eran mandati a trattar col papa di grandissime cose per un passaggio che far si dovea, e quivi smontati per rinfrescarsi e riposarsi alcun dì, e molto stati onorati dà nobili uomini di Trapani, e spezialmente da messere Amerigo.
Costoro, sentendo passare coloro che Pietro menavano, vennero ad una finestra a vedere.
Era Pietro dalla cintura in su tutto ignudo e con le mani legate di dietro, il quale riguardando l'uno de' tre ambasciadori, che uomo antico era e di grande autorità, nominato Fineo, gli vide nel petto una gran macchia di vermiglio, non tinta, ma naturalmente nella pelle infissa, a guisa che quelle sono che le donne qua chiamano rose.
La qual veduta, subitamente nella memoria gli corse un suo figliuolo, il quale, già eran quindici anni passati, dà corsali gli era stato sopra la marina di Laiazzo tolto, né mai n'avea potuto saper novella; e considerando l'età del cattivello che frustato era, avvisò, se vivo fosse il suo figliuolo, dovere di cotale età essere di quale colui pareva; e cominciò a sospicar per quel segno non costui desso fosse; e pensossi, se desso fosse, lui ancora doversi del nome suo e di quel del padre e della lingua erminia ricordare.
Per che, come gli fu vicino, chiamò:
- O Teodoro.
La qual voce Pietro udendo, subitamente levò il capo.
Al quale Fineo in erminio parlando disse:
- Onde fosti? E cui figliuolo?
Li sergenti che il menavano, per reverenza del valente uomo, il fermarono, sì che Pietro rispose:
- Io fui d'Erminia, figliuolo d'uno che ebbe nome Fineo, qua picciol fanciullo trasportato da non so che gente.
Il che Fineo udendo, certissimamente conobbe lui essere il figliuolo che perduto avea; per che, piagnendo co' suoi compagni discese giuso, e lui tra tutti i sergenti corse ad abbracciare; e gittatogli addosso un mantello d'un ricchissimo drappo che in dosso avea, pregò colui che a guastare il menava, che gli piacesse d'attendere tanto quivi, che di doverlo rimenare gli venisse il comandamento.
Colui rispose che l'attenderebbe volentieri.
Aveva già Fineo saputa la cagione per che costui era menato a morire, sì come la fama l'aveva portata per tutto; per che prestamente co' suoi compagni e con la lor famiglia n'andò a messer Currado, e sì gli disse:
- Messere, colui il quale voi mandate a morire come servo, è libero uomo e mio figliuolo, ed è presto di torre per moglie colei la qual si dice che della sua virginità ha privata; e però piacciavi di tanto indugiare la esecuzione che saper si possa se ella lui vuol per marito, acciò che contro alla legge, dove ella il voglia, non vi troviate aver fatto.
Messer Currado, udendo colui esser figliuolo di Fineo, si maravigliò; e vergognatosi alquanto del peccato della Fortuna, confessato quello esser vero che diceva Fineo, prestamente il fè ritornare a casa, e per messere Amerigo mandò, e queste cose gli disse.
Messer Amerigo, che già credeva la figliuola e 'l nepote esser morti, fu il più dolente uom del mondo di ciò che fatto avea, conoscendo, dove morta non fosse, si potea molto bene ogni cosa stata emendare; ma nondimeno mandò correndo là dove la figliuola era, acciò che, se fatto non fosse il suo comandamento, non si facesse.
Colui che andò, trovò il famigliare stato da messere Amerigo mandato, che, avendole il coltello e 'l veleno posto innanzi, perché ella così tosto non eleggeva, le dicea villania e volevala costrignere di pigliare l'uno.
Ma, udito il comandamento del suo signore, lasciata star lei, a lui se ne ritornò e gli disse come stava l'opera.
Di che messer Amerigo contento, andatosene là dove Fineo era, quasi piagnendo, come seppe il meglio, di ciò che intervenuto era si scusò e domandonne perdono, affermando sé, dove Teodoro la sua figliuola per moglie volesse, esser molto contento di dargliele.
Fineo ricevette le scuse volentieri e rispose:
- Io intendo che mio figliuolo la vostra figliuola prenda; e dove egli non volesse, vada innanzi la sentenzia data di lui.
Essendo adunque e Fineo e messer Amerigo in concordia, là ove Teodoro era ancora tutto pauroso della morte e lieto di avere il padre ritrovato, il domandarono intorno a questa cosa del suo volere.
Teodoro, udendo che la Violante, dove egli volesse, sua moglie sarebbe, tanta fu la sua letizia, che d'inferno gli parve saltare in paradiso, e disse che questo gli sarebbe grandissima grazia, dove a ciascun di lor piacesse.
Mandossi adunque alla giovane a sentire del suo volere; la quale, udendo ciò che di Teodoro era avvenuto ed era per avvenire, dove più dolorosa che altra femina la morte aspettava, dopo molto, alquanta fede prestando alle parole, un poco si rallegrò e rispose che, se ella il suo disidero di ciò seguisse, niuna cosa più lieta le poteva avvenire che d'essere moglie di Teodoro; ma tuttavia farebbe quello che il padre le comandasse.
Così adunque in concordia fatta sposare la giovane, festa si fece grandissima con sommo piacere di tutti i cittadini.
La giovane, confortandosi e faccendo nudrire il suo piccol figliuolo, dopo non molto tempo ritornò più bella che mai; e levata del parto, e davanti a Fineo, la cui tornata da Roma s'aspettò, venuta, quella reverenza gli fece che a padre; ed egli, forte contento di sì bella nuora, con grandissima festa e allegrezza fatte fare le lor nozze, in luogo di figliuola la ricevette e poi sempre la tenne.
E dopo alquanti dì il suo figliuolo e lei e il suo picciol nepote, montati in galea, seco ne menò a Laiazzo, dove con riposo e con piacere de' due amanti, quanto la vita lor durò dimorarono.
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Novella Ottava
Nastagio degli Onesti, amando una de' Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato.
Vassene, pregato da' suoi, a Chiassi; quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani.
Invita i parenti suoi e quella donna amata da lui ad un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare; e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio.
Come Lauretta si tacque, così, per comandamento della reina, cominciò Filomena.
Amabili donne, come in noi è la pietà commendata, così ancora in noi è dalla divina giustizia rigidamente la crudeltà vendicata; il che acciò che io vi dimostri e materia vi dea di cacciarla del tutto da voi, mi piace di dirvi una novella non men di compassion piena che dilettevole.
In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già assai nobili e ricchi uomini, tra' quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, per la morte del padre di lui e d'un suo zio, senza stima rimaso ricchissimo.
Il quale, sì come de' giovani avviene, essendo senza moglie, s'innamorò d'una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre ad amar lui; le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse le piaceva.
La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare, che per dolore più volte, dopo molto essersi doluto, gli venne in disidero d'uccidersi.
Poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o, se potesse, d'averla in odio come ella aveva lui.
Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più moltiplicasse il suo amore.
Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e 'l suo avere parimente fosse per consumare; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare; per ciò che, così faccendo, scemerebbe l'amore e le spese.
Di questo consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollicitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo; e fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscì e andossene ad un luogo forse tre miglia fuor di Ravenna, che si chiama Chiassi; e quivi, fatti venir padiglioni e trabacche disse a coloro che accompagnato l'aveano che star si volea e che essi a Ravenna se ne tornassono.
Attendatosi adunque quivi Nastagio, cominciò a fare la più bella vita e la più magnifica che mai si facesse, or questi e or quegli altri invitando a cena e a desinare, come usato s'era.
Ora avvenne che uno venerdì quasi all'entrata di maggio essendo un bellissimo tempo, ed egli entrato in pensier della sua crudel donna, comandato a tutta la sua famiglia che solo il lasciassero, per più potere pensare a suo piacere, piede innanzi piè sé medesimo trasportò, pensando, infino nella pigneta.
Ed essendo già passata presso che la quinta ora del giorno, ed esso bene un mezzo miglio per la pigneta entrato, non ricordandosi di mangiare né d'altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per veder che fosse, e maravigliossi nella pigneta veggendosi; e oltre a ciò, davanti guardandosi vide venire per un boschetto assai folto d'albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e dà pruni, piagnendo e gridando forte mercè; e oltre a questo le vide a' fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole, spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano, e dietro a lei vide venire sopra un corsiere nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando.
Questa cosa ad una ora maraviglia e spavento gli mise nell'animo, e ultimamente compassione della sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sì fatta angoscia e morte, se el potesse.
Ma, senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo d'albero in luogo di bastone, e cominciò a farsi incontro a' cani e contro al cavaliere.
Ma il cavalier che questo vide, gli gridò di lontano:
- Nastagio, non t'impacciare, lascia fare a' cani e a me quello che questa malvagia femina ha meritato.
E così dicendo, i cani, presa forte la giovane né fianchi, la fermarono, e il cavaliere sopraggiunto smontò da cavallo.
Al quale Nastagio avvicinatosi disse:
- Io non so chi tu ti sé, che me così cognosci; ma tanto ti dico che gran viltà è d'un cavaliere armato volere uccidere una femina ignuda, e averle i cani alle coste messi come se ella fosse una fiera salvatica; io per certo la difenderò quant'io potrò.
Il cavaliere allora disse:
- Nastagio, io fui d'una medesima terra teco, ed eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi, era troppo più innamorato di costei, che tu ora non sé di quella de' Traversari, e per la sua fierezza e crudeltà andò sì la mia sciagura, che io un dì con questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m'uccisi, e sono alle pene etternali dannato.
Né stette poi guari tempo che costei, la qual della mia morte fu lieta oltre misura, morì, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta de' miei tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato ma meritato, similmente fu ed è dannata alle pene del ninferno.
Nel quale come ella discese, così ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi davanti e a me, che già cotanto l'amai, di seguitarla come mortal nimica, non come amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco, col quale io uccisi me, uccido lei e aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo, nel qual mai né amor né pietà poterono entrare, con l'altre interiora insieme, sì come tu vedrai incontanente, le caccia di corpo, e dolle mangiare a questi cani.
Né sta poi grande spazio che ella, sì come la giustizia e la potenzia d'Iddio vuole, come se morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga, e i cani e io a seguitarla; e avviene che ogni venerdì in su questa ora io la giungo qui, e qui ne fo lo strazio che vedrai; e gli altri dì non creder che noi riposiamo, ma giungola in altri luoghi né quali ella crudelmente contro a me pensò o operò; ed essendole d'amante divenuto nimico, come tu vedi, me la conviene in questa guisa tanti anni seguitare quanti mesi ella fu contro a me crudele.
Adunque lasciami la divina giustizia mandare ad esecuzione, né ti volere opporre a quello che tu non potresti contrastare.
Nastagio, udendo queste parole, tutto timido divenuto e quasi non avendo pelo addosso che arricciato non fosse, tirandosi addietro e riguardando alla misera giovane, cominciò pauroso ad aspettare quello che facesse il cavaliere.
Il quale, finito il suo ragionare, a guisa d'un cane rabbioso, con lo stocco in mano corse addosso alla giovane, la quale inginocchiata e dà due mastini tenuta forte gli gridava mercè; e a quella con tutta sua forza diede per mezzo il petto e passolla dall'altra parte.
Il qual colpo come la giovane ebbe ricevuto, così cadde boccone, sempre piagnendo e gridando; e il cavaliere, messo mano ad un coltello, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa d'attorno, a' due mastini il gittò, li quali affamatissimi incontanente il mangiarono.
Né stette guari che la giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse, subitamente si levò in piè e cominciò a fuggire verso il mare, e i cani appresso di lei sempre lacerandola; e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare, e in picciola ora si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli potè vedere.
Il quale, avendo queste cose vedute, gran pezza stette tra pietoso e pauroso, e dopo alquanto gli venne nella mente questa cosa dovergli molto poter valere, poi che ogni venerdì avvenia; per che, segnato il luogo, a' suoi famigli se ne tornò, e appresso, quando gli parve, mandato per più suoi parenti e amici, disse loro:
- Voi m'avete lungo tempo stimolato che io d'amare questa mia nemica mi rimanga e ponga fine al mio spendere, e io son presto di farlo dove voi una grazia m'impetriate, la quale è questa: che venerdì che viene voi facciate sì che messer Paolo Traversaro e la moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, e altre chi vi piacerà, qui sieno a desinar meco.
Quello per che io questo voglia, voi il vedrete allora.
A costor parve questa assai piccola cosa a dover fare e promissongliele; e a Ravenna tornati, quando tempo fu, coloro invitarono li quali Nastagio voleva, e come che dura cosa fosse il potervi menare la giovane da Nastagio amata, pur v'andò con gli altri insieme.
Nastagio fece magnificamente apprestare da mangiare, e fece ]e tavole mettere sotto i pini d'intorno a quel luogo dove veduto aveva lo strazio della crudel donna; e fatti mettere gli uomini e le donne a tavola, sì ordinò, che appunto la giovane amata da lui fu posta a sedere dirimpetto al luogo dove doveva il fatto intervenire.
Essendo adunque già venuta l'ultima vivanda, e il romore disperato della cacciata giovane da tutti fu cominciato ad udire.
Di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che ciò fosse, e niun sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando che ciò potesse essere, videro la dolente giovane e 'l cavaliere è cani; ne guari stette che essi tutti furon quivi tra loro.
Il romore fu fatto grande e a' cani e al cavaliere, e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi; ma il cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece indietro tirare, ma tutti gli spaventò e riempiè di maraviglia; e faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v'avea (ché ve ne avea assai che parenti erano state e della dolente giovane e del cavaliere e che si ricordavano e dell'amore e della morte di lui) tutte così miseramente piagnevano come se a sé medesime quello avesser veduto fare.
La qual cosa al suo termine fornita, e andata via la donna e 'l cavaliere, mise costoro che ciò veduto aveano in molti e vari ragionamenti; ma tra gli altri che più di spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa distintamente veduta avea e udita, e conosciuto che a sé più che ad altra persona che vi fosse queste cose toccavano, ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggir dinanzi da lui adirato e avere i mastini a' fianchi.
E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide (il quale quella medesima sera prestato le fu) che ella, avendo l'odio in amore tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacer d'andare a lei, per ciò ch'ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui.
Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a grado molto, ma che, dove piacesse, con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie.
La giovane, la qual sapeva che da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse, gli fece risponder che le piacea.
Per che, essendo ella medesima la messaggera, al padre e alla madre disse che era contenta d'esser sposa di Nastagio, di che essi furon contenti molto; e la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze, con lei più tempo lietamente visse.
E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a' piaceri degli uomini furono, che prima state non erano.
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Novella Nona
Federigo degli Alberighi ama e non è amato e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la quale, ciò sappiendo, mutata d'animo, il prende per marito e fallo ricco.
Era già di parlar ristata Filomena, quando la reina, avendo veduto che più niuno a dover dire, se non Dioneo per lo suo privilegio, v'era rimaso, con lieto viso disse:
A me omai appartiene di ragionare; e io, carissime donne, d'una novella simile in parte alla precedente il farò volentieri, non acciò solamente che conosciate quanto la vostra vaghezza possa né cuor gentili, ma perché apprendiate d'esser voi medesime, dove si conviene, donatrici de' vostri guiderdoni, senza lasciarne sempre esser la Fortuna guidatrice.
La quale non discretamente, ma, come s'avviene, moderatamente il più delle volte dona.
Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi, il quale fu nella nostra città, e forse ancora è, uomo di grande e di reverenda autorità né dì nostri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo e degno d'eterna fama, essendo già d'anni peno, spesso volte delle cose passate co' suoi vicini e con altri si dilettava di ragionare: la qual cosa egli meglio e con più ordine e con maggior memoria e ornato parlare che altro uomo seppe fare.
Era usato di dire, tra l'altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d'arme e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel di Toscana.
Il quale, sì come il più de' gentili uomini avviene, d'una gentil donna chiamata monna Giovanna s'innamorò, né suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli l'amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva.
Spendendo adunque Federigo oltre a ogni suo potere molto e niente acquistando, sì come di leggiere adiviene, le ricchezze mancarono e esso rimase povero, senza altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite del quale strettissimamente vivea, e oltre a questo un suo falcone de' miglior del mondo.
Per che, amando più che mai né parendo gli più potere essere cittadino come disiderava, a Campi, là dove il suo poderetto era, se n'andò a stare.
Quivi, quando poteva uccellando e senza alcuna persona richiedere, pazientemente la sua povertà comportava.
Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo stremo, che il marito di monna Giovanna infermò, e veggendosi alla morte venire fece testamento, e essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituì, e morissi.
Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l'anno di state con questo suo figliuolo se n'andava in contado a una sua possessione assai vicina a quella di Federigo.
Per che avvenne che questo garzoncello s'incominciò a dimesticare con Federigo e a dilettarsi d'uccelli e di cani; e avendo veduto molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente piacendogli, forte disiderava d'averlo ma pure non s'attentava di domandarlo, veggendolo a lui esser cotanto caro.
E così stando la cosa, avvenne che il garzoncello infermò: di che la madre dolorosa molto, come colei che più non n'avea e lui amava quanto più si poteva, tutto il dì standogli dintorno non restava di confortarlo e spesse volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, che per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come l'avesse.
Il giovanetto, udite molte volte queste proferte, disse:
- Madre mia, se voi fa che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire.
La donna, udendo questo, alquanto sopra sé stette e cominciò a pensar quello che far dovesse.
Ella sapeva che Federigo lungamente l'aveva amata, né mai da lei una sola guatatura aveva avuta, per che ella diceva: - Come manderò io o andrò a domandargli questo falcone che è, per quel che io oda, il migliore che mai volasse e oltre a ciò il mantien nel mondo? E come sarò io sì sconoscente, che a un gentile uomo al quale niuno altro diletto è più rimaso, io questo gli voglia torre?
E in così fatto pensiero impacciata, come che ella fosse certissima d'averlo se 'l domandasse, senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava.
Ultimamente tanto la vinse l'amor del figliuolo, che ella seco dispose, per contentarlo che che esser ne dovesse, di non mandare ma d'andare ella medesima per esso e di recargliele e risposegli:
- Figliuol mio, confortati e pensa di guerire di forza, ché io ti prometto che la prima cosa che io farò domattina, io andrò per esso e sì il ti recherò.
Di che il fanciullo lieto il dì medesimo mostrò alcun miglioramento.
La donna la mattina seguente, presa un'altra donna in compagnia, per modo di diporto se n'andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare.
Egli, per ciò che non era tempo, né era stato a quei dì, d'uccellare, era in un suo orto e faceva certi suoi lavorietti acconciare; il quale, udendo che monna Giovanna il domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto là corse.
La quale vedendol venire, con una donnesca piacevolezza levataglisi incontrò, avendola già Federigo reverentemente salutata, disse:
- Bene stea Federigo! - e seguitò: - Io sono venuta a ristorarti de' danni li quali tu hai già avuti per me amandomi più che stato non ti sarebbe bisogno: e il ristoro è cotale che io intendo con questa mia compagna insieme destinar teco dimesticamente stamane.
Alla qual Federigo umilmente rispose:
- Madonna, niun danno mi ricorda mai avere ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vostro valore e per l'amore che portato v'ho adivenne.
E per certo questa vostra liberale venuta m'è troppo più cara che non sarebbe se da capo mi fosse dato da spendere quanto per adietro ho già speso, come che a povero oste siate venuta.
E così detto, vergognosamente dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo giardino la condusse, e quivi non avendo a cui farle tenere compagnia a altrui, disse:
- Madonna, poi che altri non c'è, questa buona donna moglie di questo lavoratore vi terrà compagnia tanto che io vada a far metter la tavola.
Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s'era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d'ordine spese le sue ricchezze, ma questa mattina niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor della quale egli già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere.
E oltre modo angoscioso, seco stesso maledicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé fosse or qua e or là trascorrendo, né denari né pegno trovandosi, essendo l'ora tarda e il disiderio grande di pure onorar d'alcuna cosa la gentil donna e non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna.
E però, senza più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella il fé prestamente, pelato e acconcio, mettere in uno schedone e arrostir diligentemente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far si potea, disse essere apparecchiato.
Laonde la donna con la sua compagna levatasi andarono a tavola e, senza saper che si mangiassero, insieme con Federigo, il quale con somma fede le serviva, mangiarono il buon falcone.
E levate da tavola e alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate, parendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, così benignamente verso Federigo cominciò a parlare:
- Federigo, ricordandoti tu della tua preterita vita e della mia onestà, la quale per avventura tu hai reputata durezza e crudeltà, io non dubito punto che tu non ti debbi maravigliare della mia presunzione sentendo quello per che principalmente qui venuta sono; ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l'amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa che in parte m'avresti per iscusata.
Ma come che tu non n'abbia, io che n'ho uno, non posso però le leggi comuni d'altre madri fuggire; le cui forze seguir convenendomi, mi conviene, oltre al piacer mio e oltre a ogni convenevolezza e dovere, chiederti un dono il quale io so che sommamente t'è caro: e è ragione, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro diporto, niuna consolazione lasciata t'ha la sua strema fortuna, e questo dono è il falcon tuo, del quale il fanciul mio è sì forte invaghito, che, se io non gliene porto, io temo che egli non aggravi tanto nella infermità la quale ha, che poi ne segua cosa per la quale io il perda.
E per ciò ti priego, non per l'amore che tu mi porti, al quale tu di niente sé tenuto, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s'è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi, acciò che io per questo dono possa dire d'avere ritenuto in vita il mio figliuolo e per quello averloti sempre obligato.
Federigo, udendo ciò che la donna adomandava e sentendo che servir non ne la potea per ciò che mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola risponder potesse.
Il quale pianto la donna prima credette che da dolore di dover da sé di partire il buon falcone divenisse più che d'altro, e quasi fu per dire che nol volesse; ma pur sostenutasi, aspettò dopo il pianto la risposta di Federigo, il qual così disse:
- Madonna poscia che a Dio piacque che io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m'ho reputata la fortuna contraria e sonmi di lei doluto; ma tutte sono state leggieri a rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver non debbo, pensando che voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre che ricca fu, venir non degnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella abbia sì fatto, che io donar nol vi possa: e perché questo esser non possa vi dirò brievemente.
Come io udii che voi, la vostra mercé, meco desinar volavate, avendo riguardo alla vostra eccellenzia e al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con più cara vivanda secondo la mia possibilità io vi dovessi onorare, che con quelle che generalmente per l'altre persone s'usano: per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e della sua bontà, degno cibo da voi il reputai, e questa mattina arrostito l'avete avuto in sul tagliere, il quale io per ottimamente allogato avea; ma vedendo ora che in altra maniera il disideravate, m'è sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare.
E questo detto, le penne e i piedi e 'l becco le fe'in testimonianza di ciò gittare davanti.
La qual cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d'aver per dar mangiare a una femina ucciso un tal falcone, e poi la grandezza dell'animo suo, la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare, molto seco medesima commendò.
Poi, rimasa fuori dalla speranza d'avere il falcone e per quello della salute del figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si dipartì e tornossi al figliuolo.
Il quale, o per malinconia che il falcone aver non potea o per la 'nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto, non trapassar molti giorni che egli con grandissimo dolor della madre di questa vita passò.
La quale, poi che piena di lagrime e d'amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa ricchissima e ancora giovane, più volte fu dà fratelli costretta a rimaritarsi.
La quale, come che voluto non avesse, pur veggendosi infestare, ricordatasi del valore di Federigo e della sua magnificenzia ultima, cioè d'avere ucciso un così fatto falcone per onorarla, disse a' fratelli:
- Io volentieri, quando vi piacesse, mi starei; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi.
Alla quale i fratelli, faccendosi beffe di lei, dissero:
- Sciocca, che è ciò che tu dì? come vuoi tu lui che non ha cosa al mondo?
A'quali ella rispose:
- Fratelli miei, io so bene che così è come voi dite, ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d'uomo.
Li fratelli, udendo l'animo di lei e conoscendo Federigo da molto, quantunque povero fosse, sì come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono.
Il quale così fatta donna e cui egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissima, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi.
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Novella Decima
Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d'Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d'Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo cognosce lo 'nganno della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza.
Il ragionare della reina era al suo fine venuto, essendo lodato da tutti Iddio che degnamente avea guiderdonato Federigo, quando Dioneo, che mai comandamento non aspettava, incominciò.
Io non so s'io mi dica che sia accidental vizio e per malvagità di costumi né mortali sopravenuto, o se pure è della natura peccato, il rider più tosto delle cattive cose che delle buone opere, e spezialmente quando quelle cotali a noi non pertengono.
E per ciò che la fatica, la quale altra volta ho impresa e ora son per pigliare, a niuno altro fine riguarda se non a dovervi torre malinconia, e riso e allegrezza porgervi, quantunque la materia della mia seguente novella, innamorate giovani, sia in parte meno che onesta, però che diletto può porgere, ve la pur dirò; e voi, ascoltandola, quello ne fate che usate siete di fare quando né giardini entrate, che, distesa la dilicata mano, cogliete le rose e lasciate le spine stare; il che farete, lasciando il cattivo uomo con la mala ventura stare con la sua disonestà, e liete riderete degli amorosi inganni della sua donna, compassione avendo all'altrui sciagure, dove bisogna.
Fu in Perugia, non è ancora molto tempo passato, un ricco uomo chiamato Pietro di Vinciolo, il quale, forse più per ingannare altrui e diminuire la generale oppinion di lui avuta da tutti i perugini, che per vaghezza che egli n'avesse, prese moglie; e fu la fortuna conforme al suo appetito in questo modo, che la moglie la quale egli prese era un giovane compressa, di pelo rosso e accesa, la quale due mariti più tosto che uno avrebbe voluti, là dove ella s'avvenne a uno che molto più ad altro che a lei l'animo avea disposto.
Il che ella in processo di tempo conoscendo, e veggendosi bella e fresca, e sentendosi gagliarda e poderosa, prima se ne cominciò forte a turbare e ad averne col marito di sconce parole alcuna volta, e quasi continuo mala vita; poi, veggendo che questo, suo consumamento più tosto che ammendamento della cattività del marito potrebbe essere, seco stessa disse: - Questo dolente abbandona me, per volere con le sue disonestà andare in zoccoli per l'asciutto, e io m'ingegnerò di portare altrui in nave per lo piovoso.
Io il presi per marito e diedigli grande e buona dota, sappiendo che egli era uomo e credendol vago di quello che sono e deono esser vaghi gli uomini; e se io non avessi creduto ch'è fosse stato uomo, io non lo avrei mai preso.
Egli che sapeva che io era femina, perché per moglie mi prendeva se le femine contro all'animo gli erano? Questo non è da sofferire.
Se io non avessi voluto essere al mondo, io mi sarei fatta monaca; e volendoci essere, come io voglio e sono, se io aspetterò diletto o piacere di costui, io potrò per avventura invano aspettando invecchiare, e quando io sarò vecchia, ravvedendomi, indarno mi dorrò d'avere la mia giovinezza perduta, alla qual dover consolare m'è egli assai buono maestro e dimostratore in farmi dilettare di quello che egli si diletta; il qual diletto fia a me laudevole, dove biasimevole è forte a lui; io offenderò le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura.
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Avendo adunque la buona donna così fatto pensiero avuto, e forse più d'una volta, per dare segretamente a ciò effetto, si dimesticò con una vecchia, che pareva pur santa Verdiana che dà beccare alle serpi; la quale sempre co' paternostri in mano andava ad ogni perdonanza, né mai d'altro che della vita de' Santi Padri ragionava e delle piaghe di san Francesco, e quasi da tutti era tenuta una santa.
E quando tempo le parve, l'aperse la sua intenzion compiutamente; a cui la vecchia disse:
- Figliuola mia, sallo Iddio che sa tutte le cose, che tu molto ben fai; e quando per niuna altra cosa il facessi, sì 'I dovresti far tu e ciascuna giovane per non perdere il tempo della vostra giovinezza, perciò che niun dolore è pari a quello, a chi conoscimento ha, che è d'avere il tempo perduto.
E da che diavol siam noi poi, quando noi siam vecchie, se non da guardare la cenere intorno al focolare? Se niuna il sa o ne può rendere testimonianza, io sono una di quelle; che ora che vecchia sono, non senza grandissime e amare punture d'animo conosco, e senza pro, il tempo che andar lasciai; e benché io nol perdessi tutto (ché non vorrei che tu credessi che io fossi stata una milensa), io pur non feci ciò che io avrei potuto fare; di che quand'io mi ricordo, veggendomi fatta come tu mi vedi, che non troverrei chi mi desse fuoco a cencio, Dio il sa che dolore io sento.
Degli uomini non avvien così: essi nascon buoni a mille cose, non pure a questa, e la maggior parte sono da molto più vecchi che giovani; ma le femine a niuna altra cosa che a far questo e figliuoli ci nascono, e per questo son tenute care.
E se tu non te ne avvedessi ad altro, sì te ne dei tu avvedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò, che degli uomini non avviene; e oltre a questo una femina stancherebbe molti uomini, dove molti uomini non possono una femina stancare.
E per ciò che a questo siam nate, da capo ti dico che tu farai molto bene a rendere al marito tuo pan per focaccia, sì che l'anima tua non abbia in vecchiezza che rimproverare alle carni.
Di questo mondo ha ciascun tanto quanto egli se ne toglie, spezialmente le femine, alle quali si conviene troppo più d'adoperare il tempo quando l'hanno, che agli uomini, per ciò che tu puoi vedere, quando c'invecchiamo, né marito né altri ci vuol vedere anzi ci cacciano in cucina a dir delle favole con la gatta, e a noverare le pentole e le scodelle; e peggio, che noi siamo messe in canzone e dicono: - Alle giovani i buon bocconi, e alle vecchie gli stranguglioni -; e altre lor cose assai ancora dicono.
E acciò che io non ti tenga più in parole, ti dico infino ad ora che tu non potevi a persona del mondo scoprire l'animo tuo che più utile ti fosse di me; per ciò che egli non è alcun sì forbito, al quale io non ardisca di dire ciò che bisogna, né sì duro o zotico, che io non ammorbidisca bene e rechilo a ciò che io vorrò.
Fa pure che tu mi mostri qual ti piace, e lascia poi fare a me; ma una cosa ti ricordo, figliuola mia, che io ti sia raccomandata, per ciò che io son povera persona, e io voglio infino ad ora che tu sii partefice di tutte le mie perdonanze e di quanti paternostri io dirò, acciò che Iddio gli faccia lume e candela a' morti tuoi; - e fece fine.
Rimase adunque la giovane in questa concordia colla vecchia, che se veduto le venisse un giovinetto, il quale per quella contrada molto spesso passava, del quale tutti i segni le disse, che ella sapesse quello che avesse a fare; e datale un pezzo di carne salata, la mandò con Dio.
La vecchia, non passar molti dì, occultamente le mise colui, di cui ella detto l'aveva, in camera, e ivi a poco tempo un altro, secondo che alla giovane donna ne venivan piacendo, la quale in cosa che far potesse intorno a ciò, sempre del marito temendo, non ne lasciava a far tratto.
Avvenne che, dovendo una sera andare a cena il marito con un suo amico, il quale aveva nome Ercolano, la giovane impose alla vecchia che facesse venire a lei un garzone, che era de' più belli e de' più piacevoli di Perugia; la quale prestamente così fece.
Ed essendosi la donna col giovane posti a tavola per cenare, ed ecco Pietro chiamò all'uscio che aperto gli fosse.
La donna, questo sentendo, si tenne morta; ma pur volendo, se potuto avesse, celare il giovane, non avendo accorgimento di mandarlo o di farlo nascondere in altra parte, essendo una sua loggetta vicina alla camera nella quale cenavano, sotto una cesta da polli, che v'era, il fece ricoverare, e gittovvi suso un pannaccio d'un saccone che aveva fatto il dì votare; e questo fatto, prestamente fece aprire al marito.
Al quale entrato in casa ella disse:
- Molto tosto l'avete voi trangugiata questa cena.
Pietro rispose:
- Non l'abbiam noi assaggiata.
- E come è stato così? - disse la donna.
Pietro allora disse:
- Dirolti: essendo noi già posti a tavola Ercolano e la moglie e io, e noi sentimmo presso di noi starnutire, di che noi né la prima volta né la seconda ce ne curammo; ma quegli che starnutito avea, starnutendo ancora la terza volta e la quarta e la quinta e molte altre, tutti ci fece maravigliare; di che Ercolano, che alquanto turbato con la moglie per ciò che gran pezza ci avea fatti stare all'uscio senza aprirci, quasi con furia disse: - Questo che vuol dire? Chi è questi che così starnutisce? - e levatosi da tavola andò verso una scala la quale assai vicina v'era, sotto la quale era un chiuso di tavole vicino al piè della scala, da riporvi, chi avesse voluto, alcuna cosa, come tutto dì veggiamo che fanno far coloro che le lor case acconciano.
E parendogli che di quindi venisse il suono dello starnuto, aperse un usciuolo il qual v'era, e come aperto l'ebbe, subitamente n'uscì fuori il maggior puzzo di solfo del mondo, benché davanti, essendocene venuto puzzo e rammaricaticene, aveva detto la donna: - Egli è che dianzi io imbiancai miei veli col solfo, e poi la tegghiuzza, sopra la quale sparto l'avea perché il fummo ricevessero, io la misi sotto quella scala, sì che ancora ne viene.
- E poi che Ercolano aperto ebbe l'usciuolo e sfogato fu alquanto il puzzo, guardando dentro vide colui il quale starnutito avea e ancora starnutiva, a ciò la forza del solfo strignendolo; e come che egli starnutisse, gli avea già il solfo sì il petto serrato, che poco a stare avea che né starnutito né altro non avrebbe mai.
Ercolano, vedutolo, gridò: - Or veggio, donna, quello per che poco avanti, quando ce ne venimmo, tanto tenuti fuor della porta, senza esserci aperto, fummo; ma non abbia io mai cosa che mi piaccia, se io non te ne pago .
- Il che la donna udendo, e vedendo che 'l suo peccato era palese, senza alcuna scusa fare, levatasi da tavola si fuggì, né so ove se n'andasse.
Ercolano, non accorgendosi che la moglie si fuggia, più volte disse a colui che starnutiva che egli uscisse fuori; ma quegli, che già più non poteva, per cosa che Ercolano dicesse non si movea; laonde Ercolano, presolo per l'uno de' piedi, nel tirò fuori, e correva per un coltello per ucciderlo; ma io, temendo per me medesimo la signoria, levatomi, non lo lasciai uccidere né fargli alcun male, anzi gridando e difendendolo, fui cagione che quivi de' vicini trassero, li quali, preso il già vinto giovane, fuori della casa il portarono non so dove; per le quali cose la nostra cena turbata, io non solamente non la ho trangugiata, anzi non l'ho pure assaggiata, come io dissi.
Udendo la donna queste cose, conobbe che egli erano dell'altre così savie come ella fosse, quantunque talvolta sciagura ne cogliesse ad alcuna, e volentieri avrebbe con parole la donna d'Ercolano difesa; ma, per ciò che col biasimare il fallo altrui le parve dovere a' suoi far più libera via, cominciò a dire:
- Ecco belle cose; ecco buona e santa donna che costei dee essere; ecco fede d'onesta donna, ché mi sarei confessata da lei, sì spirital mi pareva! e peggio, che, essendo ella oggimai vecchia, dà molto buono essemplo alle giovani.
Che maladetta sia l'ora che ella nel mondo venne, ed ella altressì che viver si lascia, perfidissima e rea femina che ella dee essere, universal vergogna e vitupero di tutte le donne di questa terra; la quale, gittata via la sua onestà e la fede promessa al suo marito e l'onor di questo mondo, lui, che è così fatto uomo e così onorevole cittadino, e che così bene la trattava, per un altro uomo non s'è vergognata di vituperare, e sé medesima insieme con lui.
Se Dio mi salvi, di così fatte femine non si vorrebbe aver misericordia; elle si vorrebbero occidere; elle si vorrebbon vive vive mettere nel fuoco e farne cenere.
Poi, del suo amico ricordandosi, il quale ella sotto la cesta assai presso di quivi aveva, cominciò a confortare Pietro che s'andasse al letto, per ciò che tempo n'era.
Pietro, che maggior voglia aveva di mangiare che di dormire, domandava pur se da cena cosa alcuna vi fosse.
A cui la donna rispondeva:
- Sì, da cena ci ha! Noi siamo molto usate di far da cena, quando tu non ci sé! Sì, che io sono la moglie d'Ercolano! Deh che non vai? Dormi per istasera: quanto farai meglio!
Avvenne che, essendo la sera certi lavoratori di Pietro venuti con certe cose dalla villa, e avendo messi gli asini loro, senza dar lor bere, in una stalletta la quale allato alla loggetta era, l'un degli asini che grandissima sete avea, tratto il capo del capestro, era uscito della stalla, e ogni cosa andava fiutando, se forse trovasse dell'acqua; e così andando s'avvenne per me la cesta sotto la quale era il giovinetto.
Il quale avendo, per ciò che carpone gli conveniva stare, alquanto le dita dell'una mano stese in terra fuor della cesta, tanta fu la sua ventura, o sciagura che vogliam dire, che questo asino ve gli pose su piede; laonde egli, grandissimo dolor sentendo, mise un grande strido.
Il quale udendo Pietro si maravigliò, e avvidesi ciò esser dentro alla casa; per che, uscito della camera, e sentendo ancora costui rammaricarsi, non avendogli ancora l'asino levato il piè d'in su le dita, ma premendol tuttavia forte, disse: - Chi è là? - e corso alla cesta, e quella levata, vide il giovinetto, il quale, oltre al dolore avuto delle dita premute dal piè dell'asino, tutto di paura tremava che Pietro alcun male non gli facesse.
Il quale essendo da Pietro riconosciuto, sì come colui a cui Pietro per la sua cattività era andato lungamente dietro, essendo da lui domandato - che fai tu qui? - niente a ciò gli rispose, ma pregollo che per l'amor di Dio non gli dovesse far male.
A cui Pietro disse:
- Leva su, non dubitare che io alcun mal ti faccia, ma dimmi, come tu sé qui e perché?
Il giovinetto gli disse ogni cosa.
Il qual Pietro, non meno lieto d'averlo trovato che la sua donna dolente, presolo per mano, con seco nel menò nella camera nella quale la donna con la maggior paura del mondo l'aspettava; alla quale Pietro postosi a seder dirimpetto disse:
- Or tu maladicevi così testé la moglie d'Ercolano e dicevi che arder si vorrebbe e che ella era vergogna di tutte voi: come non dicevi di te medesima? O, se di te dir non volevi, come ti sofferiva l'animo di dir di lei, sentendoti quel medesimo aver fatto che ella fatto avea? Certo niuna altra cosa vi ti induceva, se non che voi siete tutte così fatte, e con l'altrui colpe guatate di ricoprire i vostri falli; che venir possa fuoco da cielo che tutte v'arda, generazion pessima che voi siete.
La donna, veggendo che nella prima giunta altro male che di parole fatto non l'avea, e parendole conoscere lui tutto gogolare per ciò che per man tenea un così bel giovinetto, prese cuore e disse:
- Io ne son molto certa che tu vorresti che fuoco venisse da cielo che tutte ci ardesse, sì come colui che sé così vago di noi come il can delle mazze; ma alla croce di Dio egli non ti verrà fatto.
Ma volentieri farei un poco ragione con essoteco per sapere di che tu ti ramarichi; e certo io starei pur bene se tu alla moglie d'Ercolano mi volessi agguagliare, la quale è una vecchia picchiapetto spigolistra e ha da lui ciò che ella vuole, e tienla cara come si dee tener moglie, il che a me non avviene.
Ché, posto che io sia da te ben vestita e ben calzata, tu sai bene come io sto d'altro e quanto tempo egli è che tu non giacesti con meco; e io vorrei innanzi andar con gli stracci in dosso e scalza ed esser ben trattata da te nel letto, che aver tutte queste cose, trattandomi come tu mi tratti.
E intendi sanamente, Pietro, che io son femina come l'altre, e ho voglia di quel che l'altre; sì che, perché io me ne procacci, non avendone da te, non è da dirmene male; almeno ti fo io cotanto d'onore, che io non mi pongo né con ragazzi né con tignosi.
Pietro s'avvide che le parole non erano per venir meno in tutta notte; per che, come colui che poco di lei si curava, disse:
- Or non più, donna; di questo ti contenterò io bene; farai tu gran cortesia di far che noi abbiamo da cena qualche cosa: ché mi pare che questo garzone, altressì ben com'io, non abbia ancor cenato.
- Certo no, - disse la donna - che egli non ha ancor cenato, ché quando tu nella tua mala ora venisti, ci ponavam noi a tavola per cenare.
- Or va dunque, - disse Pietro - fa che noi ceniamo, e appresso io disporrò di questa cosa in guisa che tu non t'avrai che ramaricare.
La donna levata su, udendo il marito contento, prestamente fatta rimetter la tavola, fece venir la cena la quale apparecchiata avea, e insieme col suo cattivo marito e col giovane lietamente cenò.
Dopo la cena, quello che Pietro si divisasse a sodisfacimento di tutti e tre, m'è uscito di mente.
So io ben cotanto che la mattina vegnente infino in su la piazza fu il giovane, non assai certo qual più stato si fosse la notte o moglie o marito, accompagnato.
Per che così vi vo' dire, donne mie care, che chi te la fa, fagliele; e se tu non puoi, tienloti a mente fin che tu possa, acciò che quale asin dà in parete tal riceva.
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Conclusione
Essendo adunque la novella di Dioneo finita, meno per vergogna dalle donne risa che per poco diletto, e la reina conoscendo che il fine del suo reggimento era venuto, levatasi in piè e trattasi la corona dello alloro, quella piacevolmente mise in capo ad Elissa, dicendole:
- A voi, madonna, sta omai il comandare.
Elissa, ricevuto l'onore, sì come per addietro era stato fatto, così fece ella; ché dato col siniscalco primieramente ordine a ciò che bisogno facea per lo tempo della sua signoria, con contentamento della brigata disse:
- Noi abbiamo già molte volte udito che con be' motti e con risposte pronte o con avvedimenti presti molti hanno già saputo con debito morso rintuzzare gli altrui denti o i sopravegnenti pericoli cacciar via; e per ciò che la materia è bella, e può essere utile, voglio che domane, con l'aiuto di Dio, infra questi termini si ragioni, cioè di chi, con alcuno leggiadro motto tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita, pericolo o scorno.
Questo fu commendato molto da tutti; per la qual cosa la reina, levatasi in piè, loro tutti infino all'ora della cena licenziò.
L'onesta brigata, vedendo la reina levata, tutta si dirizzò, e, secondo il modo usato, ciascuno a quello che più diletto gli era si diede.
Ma essendo già di cantare le cicale ristate, fatto ogn'uom richiamare, a cena andarono; la quale con lieta festa fornita, a cantare e a sonare tutti si diedero E avendo già, con volere della reina, Emilia una danza presa, a Dioneo fu comandato che cantasse una canzone; il quale prestamente cominciò: "Monna Aldruda, levate la coda, ché buone novelle vi reco".
Di che tutte le donne cominciarono a ridere, e massimamente la reina, la quale gli comandò che quella lasciasse e dicessene un'altra.
Disse Dioneo:
- Madonna, se io avessi cembalo, io direi: "Alzatevi i panni, monna Lapa"; o "Sotto l'ulivello è l'erba"; o voleste voi che io dicessi: "L'onda del mare mi fa sì gran male"? ma io non ho cembalo, e per ciò vedete voi qual voi volete di queste altre.
Piacerebbevi: "Escici fuor che sia tagliato, com'un maio in su la campagna"?
Disse la reina:
- No, dinne un'altra.
- Dunque, - disse Dioneo - dirò io; "Monna Simona imbotta imbotta è non è del mese d'ottobre".
La reina ridendo disse:
- Deh in mal'ora, dinne una bella, se tu vogli, ché noi non vogliam cotesta.
Disse Dioneo:
- No, madonna, non ve ne fate male; pur qual più vi piace? Io ne so più di mille.
O volete: "Questo mio nicchio s'io nol picchio"; o, "Deh fa'pian, marito mio"; o, "Io mi comperai un gallo delle lire cento".
La reina allora un poco turbata, quantunque tutte l'altre ridessero, disse:
- Dioneo, lascia il motteggiare, e dinne una bella; e se non, tu potresti provare come io mi so adirare.
Dioneo, udendo questo, lasciate star le ciance, presta mente in cotal guisa cominciò a cantare:
Amor, la vaga luce,
che move dà begli occhi di costei,
servo m'ha fatto di te e di lei.
Mosse dà suoi begli occhi lo splendore,
che pria la fiamma tua nel cor m'accese,
per li miei trapassando;
e quanto fosse grande il tuo valore,
il bel viso di lei mi fè palese;
il quale immaginando,
mi sentii gir legando
ogni virtù e sottoporla a lei,
fatta nuova cagion de' sospir miei.
Così de' tuoi adunque divenuto
son, signor caro, e ubbidiente aspetto
dal tuo poter merzede;
ma non so ben se 'ntero è conosciuto
l'alto disio che messo m'hai nel petto,
né la mia intera fede,
da costei che possiede
sì la mia mente, che io non torrei
pace, fuor che da essa, né vorrei.
Per ch'io ti priego, dolce signor mio,
che gliel dimostri, e faccile sentire
alquanto del tuo foco
in servigio di me, ché vedi ch'io
già mi consumo amando, e nel martire
mi sfaccio a poco a poco;
e poi, quando fia loco,
me raccomanda a lei, come tu dei,
ché teco a farlo volentier verrei.
Da poi che Dioneo, tacendo, mostrò la sua canzone esser finita, fece la reina assai dell'altre dire, avendo nondimeno commendata molto quella di Dioneo.
Ma, poi che alquanto della notte fu trapassata, e la reina sentendo già il caldo del dì esser vinto dalla freschezza della notte, comandò che ciascuno infino al dì seguente a suo piacere s'andasse a riposare.
Finisce la quinta giornata del Decameron
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Sesta Giornata
Introduzione alla sesta giornata
Novella prima
Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.
Novella seconda
Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua trascutata domanda.
Novella terza
Monna Nonna de' Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.
Novella quarta
Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l'ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
Novella quinta
Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l'uno la sparuta apparenza dell'altro motteggiando morde.
Novella sesta
Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena.
Novella settima
Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
Novella ottava
Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l'erano a veder noiosi.
Novella nona
Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l'aveano.
Novella decima
Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell'agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
Conclusione della sesta giornata
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Introduzione
Incomincia la sesta giornata nella quale sotto il reggimento d'Elissa, si ragiona di chi con alcuno leggiadro motto, tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno.
Aveva la luna, essendo nel mezzo del cielo, perduti i raggi suoi, e già, per la nuova luce vegnente, ogni parte del nostro mondo era chiara, quando la reina levatasi, fatta la sua compagnia chiamare, alquanto con lento passo dal bel palagio, su per la rugiada spaziandosi, s'allontanarono, d'una e d'altra cosa vari ragionamenti tenendo, e della più bellezza e della meno delle raccontate novelle disputando, e ancora de' vari casi recitati in quelle rinnovando le risa infino a tanto che, già più alzandosi il sole e cominciandosi a riscaldare, a tutti parve di dover verso casa tornare; per che, voltati i passi, là se ne vennero.
E quivi, essendo già le tavole messe, e ogni cosa d'erbucce odorose e di be'fiori seminata, avanti che il caldo surgesse più, per comandamento della reina si misero a mangiare.
E questo con festa fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi e chi a tavole.
E Dioneo insieme con Lauretta di Troiolo e di Criseida cominciarono a cantare.
E già l'ora venuta del dovere a concistoro tornare, fatti tutti dalla reina chiamare, come usati erano, dintorno alla fonte si posero a sedere.
E volendo già la reina comandare la prima novella, avvenne cosa che ancora addivenuta non v'era, cioè che per la reina e per tutti fu un gran romore udito, che per le fanti e famigliari si faceva in cucina.
Laonde, fatto chiamare il siniscalco, e domandato qual gridasse e qual fosse del romore la cagione, rispose che il romore era tra Licisca e Tindaro; ma la cagione egli non sapea, sì come colui che pure allora giugnea per fargli star cheti, quando per parte di lei era stato chiamato.
Al quale la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca e Tindaro; li quali venuti, domandò la reina qual fosse la cagione del loro romore.
Alla quale volendo Tindaro rispondere, la Licisca, che attempatetta era e anzi superba che no, e in sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso disse:
- Vedi bestia d'uom che ardisce, dove io sia, a parlare prima di me! Lascia dir me; - e alla reina rivolta disse:
- Madonna, costui mi vuol far conoscere la moglie di Sicofante; e né più né meno, come se io con lei usata non fossi, mi vuol dare a vedere che la notte prima che Sicofante giacque con lei, messer Mazza entrasse in Monte Nero per forza e con ispargimento di sangue; e io dico che non è vero, anzi v'entrò paceficamente e con gran piacere di quei d'entro.
Ed è ben sì bestia costui, che egli si crede troppo bene che le giovani sieno così sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro, stando alla bada del padre e dei fratelli, che delle sette volte le sei soprastanno tre o quattro anni più che non debbono a maritarle.
Frate, bene starebbono, se elle s'indugiasser tanto! Alla fè di Cristo (ché debbo sapere quello che io mi dico quando io giuro) io non ho vicina che pulcella ne sia andata a marito; e anche delle maritate, so io ben quante e quali beffe elle fanno à mariti; e questo pecorone mi vuol far conoscere le femine, come se io fossi nata ieri.
Mentre la Licisca parlava, facevan le donne sì gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre.
E la reina l'aveva ben sei volte imposto silenzio; ma niente valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe detto ciò che le piacque.
Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina ridendo, volta a Dioneo, disse:
- Dioneo, questa è quistion da te; e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle che tu sopr'essa dei sentenzia finale.
Alla qual Dioneo prestamente rispose:
- Madonna, la sentenzia è data senza udirne altro; e dico che la Licisca ha ragione, e credo che così sia com'ella dice; e Tindaro è una bestia.
La qual cosa la Licisca udendo, cominciò a ridere, e a Tindaro rivolta, disse:
- Occi ben lo diceva io; vatti con Dio; credi tu saper più di me tu, che non hai ancora rasciutti gli occhi? Gran mercé, non ci son vivuta invano io, no.
E, se non fosse che la reina con un mal viso le 'mpose silenzio e comandolle che più parola né romor facesse se esser non volesse scopata, e lei e Tindaro mandò via, niuna altra cosa avrebbero avuta a fare in tutto quel giorno che attendere a lei.
Li quali poi che partiti furono, la reina impose a Filomena che alle novelle desse principio.
La quale lietamente così cominciò.
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Novella Prima
Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.
Giovani donne, come né lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de' verdi prati, e de' colli i rivestiti albuscelli, così de' laudevoli costumi e de' ragionamenti belli sono i leggiadri motti, li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto più alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice.
E' il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagità del nostro ingegno o inimicizia singulare che à nostri secoli sia portata dà cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è, la qual ne sappi né tempi opportuni dire alcuno, o, se detto l'è, intenderlo come si conviene: general vergogna di tutte noi.
Ma per ciò che già sopra questa materia assai da Pampinea fu detto, più oltre non intendo di dirne.
Ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza à tempi detti, un cortese impor di silenzio fatto da una gentil donna ad un cavaliere mi piace di raccontarvi.
Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o possono avere udito, egli non è ancora guari che nella nostra città fu una gentile e costumata donna e ben parlante, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia.
Fu adunque chiamata madonna Oretta, e fu moglie di messer Geri Spina; la quale per avventura essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo ad un altro andando per via di diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dì avuti avea a desinare, ed essendo forse la via lunghetta di là onde si partivano a colà dove tutti a piè d'andare intendevano disse uno de' cavalieri della brigata:
- Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che ad andare abbiamo, a cavallo, con una delle belle novelle del mondo.
Al quale la donna rispose:
- Messere, anzi ve ne priego io molto, e sarammi carissimo.
Messer lo cavaliere, al quale forse non stava meglio la spada allato che 'l novellar nella lingua, udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima; ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, e ora indietro tornando, e talvolta dicendo: - Io non dissi bene; - e spesso né nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava; senza che egli pessimamente, secondo le qualità delle persone e gli atti che accadevano, proffereva.
Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per terminare; la qual cosa poi che più sofferir non potè, conoscendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio, né era per riuscirne, piacevolmente disse:
- Messere, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto; per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè.
Il cavaliere, il qual per avventura era molto migliore intenditore che novellatore, inteso il motto, e quello in festa e in gabbo preso, mise mano in altre novelle, e quella che cominciata avea e mai seguita, senza finita lasciò stare.
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Novella Seconda
Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua trascutata domanda.
Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella così cominciò:
Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d'anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio.
E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino.
Le quali io avviso che, sì come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de' futuri casi, per le loro oportunità le loro più care cose né più vili luoghi delle lor case, sì come meno sospetti sepelliscono, e quindi né maggiori bisogni le traggono, avendole il vil luogo più sicuramente servate che la bella camera non avrebbe.
E così le due ministre del mondo spesso le lor cose più care nascondono sotto l'ombra dell'arti reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più chiaro appaia il loro splendore.
Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello 'ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m'ha tornata nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.
Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva.
Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n'era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l'altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado.
Il quale, veggendo ogni mattina davanti all'uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s'avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d'invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi.
E avendo un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l'ora che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all'uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d'acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d'ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s'era, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n'avrebbe fatta venir voglia a' morti.
La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza:
- Chente è, Cisti? è buono? -
Cisti, levato prestamente in piè, rispose:
- Messer sì, ma quanto non vi potre'io dare a intendere, se voi non assaggiaste.
-
Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l'usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse:
- Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo; - e con loro insieme se n'andò verso Cisti.
Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse:
- Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d'assaggiarne gocciola!
E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e a' compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n'andò a ber messer Geri.
A'quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invitò una parte de' più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andar vi volle.
Impose adunque messer Geri a uno de' suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense.
Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco.
Il quale come Cisti vide, disse:
- Figliuolo, messer Geri non ti manda a me.
Il che raffermando più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse:
- Tornavi e digli che sì fo: e se egli più così sponde, domandalo a cui io ti mando.
Il famigliare tornato disse:
- Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te.
Al quale Cisti rispose:
- Per certo, figliuol, non fa.
- Adunque, - disse il famigliare - a cui mi manda?
Rispose Cisti:
- Ad Arno.
Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s'apersero dello 'ntelletto e disse al famigliare:
- Lasciami vedere che fiasco tu vi porti; - e vedutol disse:
- Cisti dice vero; - e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole.
Il quale Cisti vedendo disse:
- Ora so io bene che egli ti manda a me, - e lietamente glielo impiè.
E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d'un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse:
- Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m'avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co' miei piccoli orcioletti v'ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare.
Ora, per ciò che io non intendo d'esservene più guardiano tutto ve l'ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace.
Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l'ebbero e per amico.
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Novella Terza
Monna Nonna de' Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.
Quando Pampinea la sua novella ebbe finita, poi che da tutte la risposta e la liberalità di Cisti molto fu commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse appresso, la quale lietamente così a dire cominciò.
Piacevoli donne, prima Pampinea e ora Filomena assai del vero toccarono della nostra poca virtù e della bellezza de' motti; alla quale per ciò che tornar non bisogna, oltre a quello che de' motti è stato detto, vi voglio ricordare essere la natura de' motti cotale, che essi come la pecora morde deono così mordere l'uditore, e non come 'l cane; per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma villania.
La qual cosa ottimamente fecero e le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti.
E' il vero che, se per risposta si dice, e il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima stato morso, non par da riprendere, come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe; e per ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia.
Alle quali cose poco guardando già un nostro prelato, non minor morso ricevette che 'l desse; il che in una piccola novella vi voglio mostrare.
Essendo vescovo di Firenze messer Antonio d'Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentile uom catalano, chiamato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re Ruberto.
Il quale, essendo del corpo bellissimo e vie più che grande vagheggiatore, avvenne che fra l'altre donne fiorentine una ne gli piacque, la quale era assai bella donna ed era nepote d'un fratello del detto vescovo.
E avendo sentito che il marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo, con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d'oro, ed egli una notte con la moglie il lasciasse giacere; per che, fatti dorare popolini d'ariento, che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di lei fosse, gliele diede.
Il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo uomo il danno e le beffe; e il vescovo, come savio, s'infinse di queste cose niente sentire.
Per che, usando molto insieme il vescovo e 'l maliscalco, avvenne che il dì di San Giovanni, cavalcando l'uno allato all'altro, veggendo le donne per la via onde il palio si corre, il vescovo vide una giovane, la quale questa pestilenzia presente ci ha tolta donna, il cui nome fu monna Nonna de' Pulci, cugina di messere Alesso Rinucci, e cui voi tutte doveste conoscere; la quale, essendo allora una fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore, di poco tempo avanti in Porta San Piero a marito venutane, la mostrò al maliscalco; e poi essendole presso, posta la mano sopra la spalla del maliscalco, disse:
- Nonna, che ti par di costui? Crederrestil vincere?
Alla Nonna parve che quelle parole alquanto mordessero la sua onestà, o la dovesser contaminar negli animi di coloro, che molti v'erano, che l'udirono.
Per che, non intendendo a purgar questa contaminazione, ma a render colpo per colpo, prestamente rispose:
- Messere, è forse non vincerebbe me, ma vorrei buona moneta.
La qual parola udita il maliscalco e 'l vescovo, sentendosi parimente trafitti, l'uno siccome facitore della disonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo, e l'altro sì come ricevitore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l'un l'altro, vergognosi e taciti se n'andarono, senza più quel giorno dirle alcuna cosa.
Così adunque, essendo la giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui motteggiando.
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Novella Quarta
Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l'ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
Tacevasi già la Lauretta, e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile impose che seguitasse; la qual disse.
Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti e utili e belle, secondo gli accidenti, à dicitori, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de' paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone, che mai ad animo riposato per lo dicitor si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo di dimostrarvi.
Currado Gianfiglia sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è stato nobile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli s'è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare.
Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola una gru ammazata, trovandola grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio, ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse e governassela bene.
Chichibio, il quale come riuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine a cuocerla cominciò.
La quale essendo già presso che cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l'odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia.
Chichibio le rispose cantando e disse:
- "Voi non l'avrì da mi, donna Brunetta, voi non l'avrì da mi".
Di che donna Brunetta essendo un poco turbata, gli disse:
- In fè di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia; - e in brieve le parole furon molte.
Alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l'una delle cosce alla gru, gliele diede.
Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l'altra coscia della gru.
Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose:
- Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba.
Currado allora turbato disse:
- Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa?
Chichibio seguitò:
- Egli è, messer, com'io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder né vivi.
Currado, per amor dei forestieri che seco aveva, non volle dietro alle parole andare, ma disse:
- Poi che tu dì di farmelo vedere né vivi, cosa che io mai più non vidi né udii dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo, che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del nome mio.
Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana, alla riva della quale sempre soleva in sul far del dì vedersi delle gru, nel menò dicendo:
- Tosto vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io.
Chichibio, veggendo che ancora durava l'ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piedi.
Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano, si come quando dormono soglion fare.
Per che egli prestamente mostratele a Currado, disse:
- Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno.
Currado vedendole disse:
- Aspettati, che io ti mosterrò che elle n'hanno due; - e fattosi alquanto più a quelle vicino gridò: - Ho ho; - per lo qual grido le gru, mandato l'altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire.
Laonde Currado rivolto a Chichibio disse:
- Che ti par, ghiottone? Parti ch'elle n'abbian due?
Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose:
- Messer sì, ma voi non gridaste - ho ho - a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l'altra coscia e l'altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste.
A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso, e disse:
- Chichibio, tu hai ragione, ben lo dovea fare.
Così adunque con la sua pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col suo signore.
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Novella Quinta
Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l'uno la sparuta apparenza dell'altro motteggiando morde.
Come Neifile tacque, avendo molto le donne preso di piacere della risposta di Chichibio, così Panfilo per voler della reina disse.
Carissime donne, egli avviene spesso che, sì come la Fortuna sotto vili arti alcuna volta grandissimi tesori di virtù nasconde, come poco avanti per Pampinea fu mostrato, così ancora sotto turpissime forme d'uomini si truovano maravigliosi ingegni dalla Natura essere stati riposti.
La qual cosa assai apparve in due nostri cittadini, de' quali io intendo brievemente di ragionarvi.
Per ciò che l'uno, il quale messer Forese da Rabatta fu chiamato, essendo di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato, che a qualunque de' Baronci più trasformato l'ebbe sarebbe stato sozzo, fu di tanto sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione civile fu reputato.
E l'altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de' cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto.
E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni, che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de' savi dipignendo intendeano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò vivendo, quella acquistò, sempre rifiutando d'esser chiamato maestro.
Il quale titolo rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con maggior disidero da quegli che men sapevano di lui o dà suoi discepoli era cupidamente usurpato.
Ma, quantunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d'aspetto in niuna cosa più bello che fosse messer Forese.
Ma, alla novella venendo, dico che avevano in Mugello messer Forese e Giotto lor possessioni; ed essendo messer Forese le sue andate a vedere, in quegli tempi di state che le ferie si celebran per le corti, e per avventura in su un cattivo ronzino da vettura venendosene, trovò il già detto Giotto, il qual similmente avendo le sue vedute, se ne tornava a Firenze.
Il quale, né in cavallo né in arnese essendo in cosa alcuna meglio di lui, sì come vecchi, a pian passo venendosene, insieme s'accompagnarono.
Avvenne, come spesso di state veggiamo avvenire, che una subita piova gli soprapprese; la quale essi, come più tosto poterono, fuggirono in casa d'un lavoratore amico e conoscente di ciascuno di loro.
Ma dopo alquanto, non faccendo l'acqua alcuna vista di dover ristare, e costoro volendo essere il dì a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza due mantellacci vecchi di romagnuolo e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non v'erano, cominciarono a camminare.
Ora, essendo essi alquanto andati, e tutti molli veggendosi, e per gli schizzi che i ronzini fanno co' piedi in quantità zaccherosi (le quali cose non sogliono altrui accrescer punto d'orrevolezza), rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, cominciarono a ragionare.
E messer Forese, cavalcando e ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a considerarlo e da lato e da capo e per tutto, e veggendo ogni cosa così disorrevole e così disparuto, senza avere a sé niuna considerazione, cominciò a ridere, e disse:
- Giotto, a che ora venendo di qua allo 'ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t'avesse, credi tu che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu sé?
A cui Giotto prestamente rispose:
- Messere, credo, che egli il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste l'abicì.
Il che messer Forese udendo, il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato, quali erano state le derrate vendute.
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Novella Sesta
Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena.
Ridevano ancora le donne della bella e presta risposta di Giotto, quando la reina impose il seguitare alla Fiammetta, la qual così 'ncominciò a parlare.
Giovani donne, l'essere stati ricordati i Baronci da Panfilo, li quali per avventura voi non conoscete come fa egli, m'ha nella memoria tornata una novella, nella quale quanta sia la lor nobiltà si dimostra, senza dal nostro proposito deviare; e per ciò mi piace di raccontarla.
Egli non è ancora guari di tempo passato che nella nostra città era un giovane chiamato Michele Scalza, il quale era il più piacevole e il più sollazzevole uom del mondo, e le più nuove novelle aveva per le mani; per la qual cosa i giovani fiorentini avevan molto caro, quando in brigata si trovavano, di poter aver lui.
Ora avvenne un giorno che, essendo egli con alquanti a Montughi, si 'ncominciò tra loro una quistion così fatta: quali fossero li più gentili uomini di Firenze e i più antichi.
De'quali alcuni dicevano gli Uberti, e altri i Lamberti, e chi uno e chi un altro, secondo che nell'animo gli capea.
Li quali udendo lo Scalza, cominciò a ghignare, e disse:
- Andate via, andate, goccioloni che voi siete, voi non sapete ciò che voi vi dite; i più gentili uomini e i più antichi, non che di Firenze, ma di tutto il mondo o di maremma, sono i Baronci; e a questo s'accordano tutti i fisofoli e ogn'uom che gli conosce, come fo io; e acciò che voi non intendeste d'altri, io dico de' Baronci vostri vicini da Santa Maria Maggiore.
Quando i giovani, che aspettavano che egli dovesse dire altro, udiron questo, tutti si fecero beffe di lui, e dissero:
- Tu ci uccelli, quasi come se noi non cognoscessimo i Baronci come facci tu
Disse lo Scalza:
- Alle guagnele non fo, anzi mi dico il vero, e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena a doverla dare a chi vince con sei compagni quali più gli piaceranno, io la metterò volentieri; e ancora vi farò più, che io ne starò alla sentenzia di chiunque voi vorrete.
Tra'quali disse uno, che si chiamava Neri Mannini:
- Io sono acconcio a voler vincer questa cena; - e accordatisi insieme d'aver per giudice Piero di Fiorentino, in casa cui erano, e andatisene a lui, e tutti gli altri appresso, per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono.
Piero, che discreto giovane era, udita primieramente la ragione di Neri, poi allo Scalza rivolto, disse:
- E tu come potrai mostrare questo che tu affermi?
Disse lo Scalza:
- Che? Il mosterrò per sì fatta ragione, che non che tu, ma costui che il nega, dirà che io dica il vero.
Voi sapete che, quanto gli uomini sono più antichi, più son gentili, e così si diceva pur testé tra costoro; e i Baronci son più antichi che niuno altro uomo, sì che son più gentili; e come essi sien più antichi mostrandovi, senza dubbio io avrò vinta la quistione.
Voi dovete sapere che i Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli avea cominciato d'apparare a dipignere; ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe dipignere.
E che io dica di questo il vero, ponete mente à Baronci e agli altri uomini: dove voi tutti gli altri vedrete co' visi ben composti e debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e stretto, e quale averlo oltre ad ogni convenevolezza largo, e tal v'è col naso molto lungo, e tale l'ha corto, e alcuno col mento in fuori e in su rivolto, e con mascelloni che paiono d'asino; ed evvi tale che ha l'uno occhio più grosso che l'altro, e ancora chi l'un più giù che l'altro, sì come sogliono esser i visi che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare.
Per che, come già dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece quando apparava a dipignere; sì che essi sono più antichi che gli altri, e così più gentili.
Della qual cosa, e Piero che era il giudice, e Neri che aveva messa la cena, e ciascun altro ricordandosi, e avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti cominciarono a ridere e affermare che lo Scalza aveva la ragione, e che egli aveva vinta la cena, e che per certo i Baronci erano i più gentili uomini e i più antichi che fossero, non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma.
E perciò meritamente Panfilo, volendo la turpitudine del viso di messer Forese mostrare, disse che stato sarebbe sozzo ad un de' Baronci.
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Novella Settima
Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
Già si tacea la Fiammetta, e ciascun rideva ancora del nuovo argomento dallo Scalza usato a nobilitare sopra ogn'altro i Baronci, quando la reina ingiunse a Filostrato che novellasse; ed egli a dir cominciò.
Valorose donne, bella cosa è in ogni parte saper ben parlare, ma io la reputo bellissima quivi saperlo fare dove la necessità il richiede.
Il che sì ben seppe fare una gentil donna, della quale intendo di ragionarvi, che non solamente festa e riso porse agli uditori, ma sé de' lacci di vituperosa morte disviluppò, come voi udirete.
Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole che aspro, il quale, senza niuna distinzion fare, comandava che così fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse.
E durante questo statuto avvenne che una gentil donna e bella e oltre ad ogn'altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de' Pugliesi suo marito nelle braccia di Lazzarino de' Guazzagliotri, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto sé medesima amava, ed era da lui amata.
La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e di uccidergli si ritenne; e se non fosse che di sé medesimo dubitava, seguitando l'impeto della sua ira, l'avrebbe fatto.
Rattemperatosi adunque da questo, non si potè temperar da voler quello dello statuto pratese, che a lui non era licito di fare, cioè la morte della sua donna.
E per ciò avendo al fallo della donna provare assai convenevole testimonianza, come il dì fu venuto, senza altro consiglio prendere, accusata la donna, la fece richiedere.
La donna, che di gran cuore era, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del tutto dispose di comparire e di voler più tosto, la verità confessando, con forte animo morire, che, vilmente fuggendo, per contumacia in essilio vivere e negarsi degna di così fatto amante come colui era nelle cui braccia era stata la notte passata.
E assai bene accompagnata di donne e d'uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestà venuta, domandò con fermo viso e con salda voce quello che egli a lei domandasse.
Il podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e, secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse, volendo il suo onor servare, farla morire.
Ma pur, non potendo cessare di domandarla di quello che apposto l'era, le disse:
- Madonna, come voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi di voi, la quale egli dice che ha con altro uomo trovata in adulterio; e per ciò domanda che io, secondo che uno statuto che ci è vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca; ma ciò far non posso, se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v'accusa.
La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose:
- Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito, e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata; né questo negherei mai; ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano.
Le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare; e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata; per le quali cose meritamente malvagia si può chiamare.
E se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella esecutore, a voi sta; ma, avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no.
A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto.
- Adunque, - seguì prestamente la donna - domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? Debbolo io gittare ai cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m'ama, che lasciarlo perdere o guastare?
Eran quivi a così fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna, quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo così piacevol risposta, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono la donna aver ragione e dir bene; e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestà, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli s'intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a' lor mariti facesser fallo.
Per la qual cosa Rinaldo, rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa.
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Novella Ottava
Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l'erano a veder noiosi.
La novella da Filostrato raccontata prima con un poco di vergogna punse li cuori delle donne ascoltanti, e con onesto rossore né lor visi apparito ne dieder segno; e poi, l'una l'altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando quella ascoltarono.
Ma poi che esso alla fine ne fu venuto, la reina, ad Emilia voltatasi, che ella seguitasse le 'mpose.
La quale, non altrimenti che se da dormir si levasse, soffiando incominciò.
Vaghe giovani, per ciò che un lungo pensiero molto di qui m'ha tenuta gran pezza lontana, per ubbidire alla nostra reina, forse con molto minor novella, che fatto non avrei se qui l'animo avessi avuto, mi passerò, lo sciocco error d'una giovane raccontandovi, con un piacevol motto corretto da un suo zio, se ella da tanto stata fosse che inteso l'avesse.
Uno adunque, che si chiamò Fresco da Celatico, aveva una sua nepote chiamata per vezzi Cesca, la quale, ancora che bella persona avesse e viso (non però di quegli angelici che già molte volte vedemo), sé da tanto e sì nobile reputava, che per costume aveva preso di biasimare e uomini e donne e ciascuna cosa che ella vedeva, senza avere alcun riguardo a sé medesima, la quale era tanto più spiacevole, sazievole e stizzosa che alcuna altra, che a sua guisa niuna cosa si poteva fare; e tanto, oltre a tutto questo, era altiera, che se stata fosse de' reali di Francia sarebbe stato soperchio.
E quando ella andava per via sì forte le veniva del cencio, che altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse di chiunque vedesse o scontrasse
Ora, lasciando stare molti altri suoi modi spiacevoli e rincrescevoli, avvenne un giorno che, essendosi ella in casa tornata là dove Fresco era, e tutta piena di smancerie postaglisi presso a sedere, altro non faceva che soffiare; laonde Fresco domandando le disse:
- Cesca, che vuol dir questo che, essendo oggi festa, tu te ne sé così tosto tornata in casa?
Al quale ella tutta cascante di vezzi rispose:
- Egli è il vero che io me ne sono venuta tosto, per ciò che io non credo che mai in questa terra fossero e uomini e femine tanto spiacevoli e rincrescevoli quanto sono oggi, e non ne passa per via uno che non mi spiaccia come la mala ventura; e io non credo che sia al mondo femina a cui più sia noioso il vedere gli spiacevoli che è a me, e per non vedergli così tosto me ne son venuta.
Alla qual Fresco, a cui li modi fecciosi della nepote dispiacevan fieramente, disse:
- Figliuola, se così ti dispiaccion gli spiacevoli, come tu dì, se tu vuoi viver lieta, non ti specchiare giammai.
Ma ella, più che una canna vana e a cui di senno pareva pareggiar Salamone, non altramenti che un montone avrebbe fatto, intese il vero motto di Fresco; anzi disse che ella si voleva specchiar come l'altre.
E così nella sua grossezza si rimase e ancor vi si sta.
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Novella Nona
Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l'aveano.
Sentendo la reina che Emilia della sua novella s'era diliberata e che ad altri non restava a dir che a lei, se non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo, così a dir cominciò.
Quantunque, leggiadre donne, oggi mi sieno da voi state tolte da due in su delle novelle delle quali io m'avea pensato di doverne una dire, nondimeno me n'è pure una rimasa da raccontare, nella conclusione della quale si contiene un sì fatto motto, che forse non ci se n'è alcuno di tanto sentimento contato.
Dovete adunque sapere che né tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n'è rimasa, mercé dell'avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l'ha discacciate.
Tra le quali n'era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportar potessono acconciamente le spese, e oggi l'uno, doman l'altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de' cittadini; e similmente si vestivano insieme almeno una volta l'anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d'altro fosse venuta nella città.
Tra le quali brigate n'era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto è compagni s'eran molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de' Cavalcanti, e non senza cagione; per ciò che, oltre a quello che egli fu un de' migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava, sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell'animo gli capeva che il valesse.
Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d'averlo, e credeva egli co' suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva.
E per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse.
Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d'Orto San Michele e venutosene per lo corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo quelle arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: - Andiamo a dargli briga; - e spronati i cavalli a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire:
- Guido tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?
A' quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse:
- Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace; - e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò.
Costoro rimaser tutti guatando l'un l'altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro.
Alli quali messer Betto rivolto disse:
- Gli smemorati siete voi, se voi non l'avete inteso.
Egli ci ha detta onestamente in poche parole la maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste arche sono le case de' morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra.
Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere.
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Novella Decima
Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell'agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
Essendo ciascuno della brigata della sua novella riuscito, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento aspettare, imposto silenzio a quegli che il sentito motto di Guido lodavano, incominciò:
Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che più mi piace parlare, oggi io non intendo di volere da quella materia separarmi della qual voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma, seguitando le vostre pedate, intendo di mostrarvi quanto cautamente con subito riparo uno de' frati di santo Antonio fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era.
Né vi dovrà esser grave perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda, se al sol guarderete il qual è ancora a mezzo il cielo.
Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Val d'Elsa posto nel nostro contado, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d'agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo d'andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de' frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana.
Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del mondo: e oltre a questo, niuna scienzia avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l'avesse, non solamente un gran rettorico l'avrebbe stimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benivogliente.
Il quale, secondo la sua usanza, del mese d'agosto tra l'altre v'andò una volta, e una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da torno venuti alla messa nella calonica, quando tempo gli parve, fattosi innanzi disse:
- Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno à poveri del baron messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò ché il beato santo Antonio vi sia guardia de' buoi e degli asini e de' porci e delle pecore vostre; e oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia scritti sono, quel poco debito che ogni anno si paga una volta.
Alle quali cose ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer l'abate, stato mandato, e per ciò, con la benedizion di Dio, dopo nona, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bacerete la croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d'oltremare: e questa è una delle penne dell'agnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne ad annunziare in Nazaret.
E questo detto, si tacque e ritornossi alla messa.
Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l'uno Giovanni del Bragoniera e l'altro Biagio Pizzini li quali, poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa penna alcuna beffa.
E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel castello con un suo amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero alla strada e all'albergo dove il frate era smontato se n'andarono con questo proponimento: che Biagio dovesse tenere a parole il fante di frate Cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e torgliele, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire.
Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco: il quale era tanto cattivo, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto.
Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire:
- Il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque è l'una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno, ogni lor santità.
Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna è, avendone nove.
Ed, essendo alcuna volta domandato quali fossero queste nove cose, ed egli, avendole in rima messe, rispondeva:
- Dirolvi: egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre taccherelle con queste, che si taccion per lo migliore.
E quel che sommamente è da rider de' fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione; e avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli s'avisa che quante femine il veggano tutte di lui s'innamorino, ed essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia.
E' il vero che egli m'è d'un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d'alcuna cosa sia domandato, ha sì gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sì e no, come giudica si convenga.
A costui, lasciandolo all'albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in quelle erano le cose sacre.
Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l'usignolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell'oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de' Baronci, tutta sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti l'avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò.
E ancora che d'agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore e che egli aveva de' fiorini più di millantanove, senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure unquanche.
E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d'Altopascio, e a un suo farsetto rotto e ripezzato e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume, con più macchie e di più colori che mai drappi fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato fosse il siri di Castiglione, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese, e trarla di quella cattività di star con altrui e senza gran possession d'avere ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre cose assai; le quali quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite, come le più delle sue imprese facevano, tornarono in niente.
Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contradicendolo alcuno nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna; la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado fasciata una piccola cassettina; la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda d'un pappagallo, la quale avvisarono dovere esser quella che egli promessa avea di mostrare a' certaldesi.
E certo egli il poteva a quei tempi leggiermente far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze d'Egitto, se non in piccola quantità, trapassate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate: e dove che elle poco conosciute fossero, in quella contrada quasi in niente erano da gli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte mai uditi non gli avean ricordare.
Contenti adunque i giovani d'aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono a aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni, dovesse dire.
Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano la penna dell'agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l'un vicino all'altro e l'una comare all'altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con desiderio aspettando di veder questa penna.
Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò a Guccio Imbratta che lassù con le campanelle venisse e recasse le sua bisacce.
Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto, con le cose addimandate con fatica lassù n'andò: dove ansando giunto, per ciò che il ber dell'acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in su la porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare.
Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio de' fatti suoi disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell'agnolo Gabriello, fatta prima con grande solennità la confessione, fece accender due torchi, e soavemente sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse.
E dette primieramente alcune parolette a laude e a commendazione dell'agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse.
La quale come piena di carboni vide, non sospicò che ciò che Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva da tanto, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa, conoscendol, come faceva, negligente, disubidente, trascurato e smemorato.
Ma non per tanto, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito:
- O Iddio, lodata sia sempre la tua potenzia!
Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse:
- Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi.
Per la qual cosa messom'io cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de' Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto per venni in Sardigna.
Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de' nostri frati e d'altre religioni trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l'amor di Dio schifando, poco dell'altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio per quei paesi: e quindi passai in terra d'Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe'monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e 'l vin nelle sacca: da' quali alle montagne de' bachi pervenni, dove tutte le acque corrono alla 'ngiù.
E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, là dove io vi giuro, per l'abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio, il quale gran mercante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio.
Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, perciò che da indi in là si va per acqua, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l'anno di state vi vale il pan freddo quattro denari, e il caldo v'è per niente.
E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo patriarca di Jerusalem.
Il quale, per reverenzia dell'abito che io ho sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi sconsolate, ve ne dirò alquante.
Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, e una dell'unghie de' Gherubini, e una delle coste del Verbum caro fatti alle finestre, e de' vestimenti della Santa Fé catolica, e alquanti de' raggi della stella che apparve à tre Magi in oriente, e un ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole, e la mascella della Morte di san Lazzaro e altre.
E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare e d'alquanti capitoli del Caprezio, li quali egli lungamente era andati cercando, mi fece egli partefice delle sue sante reliquie, e donommi uno de' denti della santa Croce, e in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone e la penna dell'agnol Gabriello, della quale già detto v'ho, e l'un de' zoccoli di san Gherardo da Villamagna (il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo di Bonsi, il quale in lui ha grandissima divozione) e diedemi de' carboni, co' quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, e holle tutte.
E' il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che io l'abbia mostrate infino a tanto che certificato non s'è se desse sono o no; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal Patriarca fatto n'è certo m'ha conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fidarle altrui, sempre le porto meco.
Vera cosa è che io porto la penna dell'agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni co' quali fu arrostito san Lorenzo in un'altra; le quali son sì simiglianti l'una all'altra, che spesse volte mi vien presa l'una per l'altra, e al presente m'è avvenuto; per ciò che, credendomi io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni.
Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de' carboni ponesse nelle mie mani, ricordandom'io pur testé che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì.
E per ciò, volendo Iddio che io, col mostrarvi i carboni co' quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall'omor di quel santissimo corpo mi fe'pigliare.
E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v'appresserete a vedergli.
Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta.
E poi che così detto ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s'appressarono a frate Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse toccare il pregava ciascuno.
Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva provato.
E in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire.
Li quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse e con che parole, avevan tanto riso che eran creduti smascellare.
E poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono, e appresso gli renderono la sua penna; la quale l'anno seguente gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.
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Conclusione
Questa novella porse igualmente a tutta la brigata grandissimo piacere e sollazzo, e molto per tutti fu riso di fra Cipolla e massimamente del suo pellegrinaggio e delle reliquie così da lui vedute come recate.
La quale la reina sentendo esser finita, e similmente la sua signoria, levata in piè, la corona si trasse e ridendo la mise in capo a Dioneo, e disse:
- Tempo è, Dioneo, che tu alquanto pruovi che carico sia l'aver donne a reggere e a guidare; sii dunque re, e sì fattamente ne reggi, che del tuo reggimento nella fine ci abbiamo a lodare.
Dioneo, presa la corona, ridendo rispose:
- Assai volte già ne potete aver veduti, io dico delli re da scacchi, troppo più cari che io non sono; e per certo, se voi m'ubbidiste come vero re si dee ubbidire, io vi farei goder di quello senza il che per certo niuna festa compiutamente è lieta.
Ma lasciamo star queste parole: io reggerò come io saprò.
E fattosi, secondo il costume usato, venire il siniscalco, ciò che a fare avesse quanto durasse la sua signoria ordinatamente gl'impose, e appresso disse:
- Valorose donne, in diverse maniere ci s'è della umana industria e de' casi vari ragionato, tanto che, se donna Licisca non fosse poco avanti qui venuta, la quale con le sue parole m'ha trovata materia à futuri ragionamenti di domane, io dubito che io non avessi gran pezza penato a trovar tema da ragionare.
Ella, come voi udiste, disse che vicina non avea che pulcella ne fosse andata a marito; e soggiunse che ben sapeva quante e quali beffe le maritate ancora facessero à mariti.
Ma, lasciando stare la prima parte, che è opera fanciullesca, reputo che la seconda debbia essere piacevole a ragionarne; e per ciò voglio che domane si dica, poi che donna Licisca data ce n'ha cagione, delle beffe, le quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte à lor mariti, senza essersene essi avveduti o sì.
Il ragionare di sì fatta materia pareva ad alcuna delle donne che male a loro si convenisse, e pregavanlo che mutasse la proposta già detta.
Alle quali il re rispose:
- Donne, io conosco ciò che io ho imposto non meno che facciate voi; e da imporlo non mi potè istorre quello che voi mi volete mostrare, pensando che il tempo è tale che, guardandosi e gli uomini e le donne d'operar disonestamente, ogni ragionare è conceduto.
Or non sapete voi che, per la perversità di questa stagione, gli giudici hanno lasciati i tribunali; le leggi, così le divine come le umane, tacciono; e ampia licenzia per conservar la vita è conceduta a ciascuno? Per che, se alquanto s'allarga la vostra onestà nel favellare, non per dovere con le opere mai alcuna cosa sconcia seguire, ma per dare diletto a voi e ad altrui, non veggo con che argomento da concedere vi possa nello avvenire riprendere alcuno.
Oltre a questo la nostra brigata, dal primo dì infino a questa ora stata onestissima, per cosa che detta ci si sia, non mi pare che in atto alcuno si sia maculata, né si maculerà collo aiuto di Dio.
Appresso, chi è colui che non conosca la vostra onestà? La quale non che i ragionamenti sollazzevoli, ma il terrore della morte non credo che potesse smagare.
E a dirvi il vero, chi sapesse che voi vi cessaste da queste ciance ragionare alcuna volta, forse suspicherebbe che voi in ciò non foste colpevoli, e per ciò ragionare non ne voleste.
Senza che voi mi fareste un bello onore, essendo io stato ubbidente a tutti, e ora avendomi vostro re fatto, mi voleste la legge porre in mano, e di quello non dire che io avessi imposto.
Lasciate adunque questa suspizione più atta à cattivi animi che à vostri, e con la buona ventura pensi ciascuna di dirla bella.
Quando le donne ebbero udito questo, dissero che così fosse come gli piacesse; per che il re per infino all'ora della cena di fare il suo piacere diede licenzia a ciascuno.
Era ancora il sol molto alto, per ciò che il ragionamento era stato brieve; per che, essendosi Dioneo con gli altri giovani messo a giucare a tavole, Elissa, chiamate l'altre donne da una parte, disse:
- Poi che noi fummo qui, ho io disiderato di menarvi in parte assai vicina di questo luogo, dove io non credo che mai fosse alcuna di voi, e chiamavisi la Valle delle donne, né ancora vidi tempo da potervi quivi menare, se non oggi, sì è alto ancora il sole; e per ciò, se di venirvi vi piace, io non dubito punto che, quando vi sarete, non siate contentissime d'esservi state.
Le donne risposono che erano apparecchiate; e chiamata una delle lor fanti, senza farne alcuna cosa sentire à giovani, si misero in via; né guari più d'un miglio furono andate, che alla Valle delle donne pervennero.
Dentro alla quale per una via assai stretta, dall'una delle parti della quale correva un chiarissimo fiumicello, entrarono, e viderla tanto bella e tanto dilettevole, e spezialmente in quel tempo che era il caldo grande, quanto più si potesse divisare.
E secondo che alcuna di loro poi mi ridisse, il piano che nella valle era, così era ritondo come se a sesta fosse stato fatto, quantunque artificio della natura e non manual paresse; ed era di giro poco più che un mezzo miglio, intorniato di sei montagnette di non troppa altezza, e in su la sommità di ciascuna si vedeva un palagio quasi in forma fatto d'un bel castelletto.
Le piaggie delle quali montagnette così digradando giù verso 'l piano discendevano, come né teatri veggiamo dalla lor sommità i gradi infino all'infimo venire successivamente ordinati, sempre ristrignendo il cerchio loro.
Ed erano queste piaggie, quante alla plaga del mezzogiorno ne riguardavano, tutte di vigne, d'ulivi, di mandorli, di ciriegi, di fichi e d'altre maniere assai d'alberi fruttiferi piene, senza spanna perdersene.
Quelle le quali il carro di tramontana guardava, tutte eran boschetti di querciuoli, di frassini e d'altri alberi verdissimi e ritti quanto più esser poteano.
Il piano appresso, senza aver più entrate che quella donde le donne venute v'erano, era pieno d'abeti, di cipressi, d'allori e d'alcuni pini sì ben composti e sì bene ordinati, come se qualunque è di ciò il migliore artefice gli avesse piantati; e fra essi poco sole o niente, allora che egli era alto, entrava infino al suolo, il quale era tutto un prato d'erba minutissima e piena di fiori porporini e d'altri.
E oltre a questo, quel che non meno che altro di diletto porgeva, era un fiumicello, il qual d'una delle valli, che due di quelle montagnette dividea, cadeva giù per balzi di pietra viva, e cadendo faceva un romore ad udire assai dilettevole, e sprizzando pareva da lungi ariento vivo che d'alcuna cosa premuta minutamente sprizzasse; e come giù al piccol pian pervenia così quivi in un bel canaletto raccolta infino al mezzo del piano velocissima discorreva, e ivi faceva un picciol laghetto quale talvolta per modo di vivaio fanno né lor giardini i cittadini che di ciò hanno destro.
Ed era questo laghetto non più profondo che sia una statura d'uomo infino al petto lunga, e senza avere in sé mistura alcuna, chiarissimo il suo fondo mostrava esser duna minutissima ghiaia, la qual tutta, chi altro non avesse avuto a fare, avrebbe, volendo, potuta annoverare.
Nè solamente nell'acqua riguardando vi si vedeva il fondo, ma tanto pesce in qua e in là andar discorrendo, che oltre al diletto era una maraviglia.
Nè da altra ripa era chiuso che dal suolo del prato, tanto d'intorno a quel più bello, quanto più dello umido sentiva di quello.
L'acqua, la quale alla sua capacità soprabbondava, un altro canaletto riceveva, per lo qual fuori del valloncello uscendo alle parti più basse sen correva.
In questo adunque venute le giovani donne, poi che per tutto riguardato ebbero e molto commendato il luogo, essendo il caldo grande e vedendosi il pelaghetto chiaro davanti e senza alcun sospetto d'esser vedute, diliberaron di volersi bagnare.
E comandato alla lor fante che sopra la via per la quale quivi s'entrava dimorasse, e guardasse se alcun venisse, e loro il facesse sentire tutte e sette si spogliarono ed entrarono in esso, il quale non altrimenti li lor corpi candidi nascondeva, che farebbe una vermiglia rosa un sottil vetro.
Le quali essendo in quello, né per ciò niuna turbazion d'acqua nascendone, cominciarono come potevano ad andare in qua in là di dietro à pesci, i quali male avevan dove nascondersi, e a volerne con esso le mani pigliare.
E poi che in così fatta festa, avendone presi alcuni, dimorate furono alquanto, uscite di quello, si rivestirono, e senza poter più commendare il luogo che commendato l'avessero, parendo lor tempo da dover tornar verso casa, con soave passo, molto della bellezza del luogo parlando, in cammino si misero.
E al palagio giunte ad assai buona ora, ancora quivi trovarono i giovani giucando dove lasciati gli aveano.
Alli quali Pampinea ridendo disse:
- Oggi vi pure abbiam noi ingannati.
- E come? - disse Dioneo - cominciate voi prima a far de' fatti che a dir delle parole?
Disse Pampinea:
- Signor nostro, sì; - e distesamente gli narrò donde venivano, e come era fatto il luogo, e quanto di quivi distante, e ciò che fatto avevano.
Il re, udendo contare la bellezza del luogo, disideroso di vederlo, prestamente fece comandar la cena; la qual poi che con assai piacer di tutti fu fornita, li tre giovani colli lor famigliari, lasciate le donne, se n'andarono a questa valle, e ogni cosa considerata, non essendovene alcuno di loro stato mai più, quella per una delle belle cose del mondo lodarono.
E poi che bagnati si furono e rivestiti, per ciò che troppo tardi si faceva, se ne tornarono a casa, dove trovarono le donne che facevano una carola ad un verso che facea la Fiammetta, e con loro, fornita la carola, entrati in ragionamenti della Valle delle donne, assai di bene e di lode ne dissero.
Per la qual cosa il re, fattosi venire il siniscalco, gli comandò che la seguente mattina là facesse che fosse apparecchiato, e portatovi alcun letto, se alcun volesse o dormire o giacersi di meriggiana.
Appresso questo, fatto venire de' lumi e vino e confetti, e alquanto riconfortatisi, comandò che ogn'uomo fosse in sul ballare.
E avendo per suo volere Panfilo una danza presa, il re rivoltatosi verso Elissa le disse piacevolmente:
- Bella giovane, tu mi facesti oggi onore della corona, e io il voglio questa sera a te fare della canzone; e per ciò una fa che ne dichi qual più ti piace.
A cui Elissa sorridendo rispose che volentieri, e con soave voce cominciò in cotal guisa:
Amor, s'io posso uscir de' tuoi artigli,
appena creder posso
che alcun altro uncin più mai mi pigli.
Io entrai giovinetta en la tua guerra,
quella credendo somma e dolce pace,
e ciascuna mia arme posi in terra,
come sicuro chi si fida face
tu, disleal tiranno, aspro e rapace,
tosto mi fosti addosso
con le tue armi e co' crude'roncigli.
Poi, circundata delle tue catene,
a quel, che nacque per la morte mia,
piena d'amare lagrime e di pene
presa mi desti, e hammi in sua balia;
ed è sì cruda la sua signoria,
che giammai non l'ha mosso
sospir né pianto alcun che m'assottigli.
Li prieghi miei tutti glien porta il vento,
nullo n'ascolta né ne vuole udire;
per che ogn'ora cresce 'l mio tormento,
onde 'l viver m'è noia, né so morire.
Deh dolgati, signor, del mio languire,
fa tu quel ch'io non posso;
dalmi legato dentro à tuoi vincigli.
Se questo far non vuogli, almeno sciogli,
i legami annodati da speranza.
Deh! io ti priego, signor, che tu vogli;
ché, se tu 'l fai, ancor porto fidanza
di tornar bella qual fu mia usanza,
e il dolor rimosso,
di bianchi fiori ornarmi e di vermigli.
Poi che con un sospiro assai pietoso Elissa ebbe alla sua canzon fatta fine, ancor che tutti si maravigliasser di tali parole, niuno per ciò ve n'ebbe che potesse avvisare chi di così cantar le fosse stato cagione.
Ma il re, che in buona tempera era, fatto chiamar Tindaro, gli comandò che fuor traesse la sua cornamusa, al suono della quale esso fece fare molte.
danze.
Ma, essendo già buona parte di notte passata, a ciascun disse ch'andasse a dormire.
Finisce la sesta giornata del Decameron
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Settima Giornata
Introduzione alla settima giornata
Novella prima
Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l'uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere che egli è la fantasima; vanno ad incantare con una orazione, e il picchiar si rimane.
Novella seconda
Peronella mette un suo amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l'ha ad uno che dentro v'è a vedere se saldo gli pare.
Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi portarsenelo a casa sua.
Novella terza
Frate Rinaldo si giace colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini al figlioccio.
Novella quarta
Tofano chiude una notte fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra.
Tofano esce di casa e corre là, ed ella in casa le n'entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera.
Novella quinta
Un geloso in forma di prete confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia all'uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si dimora.
Novella sesta
Madonna Isabella con Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna.
Novella settima
Lodovico discuopre a madonna Beatrice l'amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi, va e bastona Egano nel giardino.
Novella ottava
Un diviene geloso della moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante venire a lei.
Il marito se n'accorge, e mentre seguita l'amante, la donna mette in luogo di sé nel letto un'altra femina, la quale il marito batte e tagliale le trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania.
Novella nona
Lidia moglie di Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il possa, le chiede tre cose, le quali ella gli fa tutte; e oltre a questo in presenza di Nicostrato si sollazza con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto.
Novella decima
Due sanesi amano una donna comare dell'uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori.
Conclusione della settima giornata
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Introduzione
Incomincia la settima giornata nella quale, sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe, le quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte a' lor mariti, senza essersene avveduti o sì.
Ogni stella era già delle parti d'oriente fuggita, se non quella sola, la qual noi chiamiamo Lucifero, che ancor luceva nella biancheggiante aurora, quando il siniscalco levatosi, con una gran salmeria n'andò nella Valle delle donne, per quivi disporre ogni cosa secondo l'ordine e il comandamento avuto dal suo signore.
Appresso alla quale andata non stette guari a levarsi il re, il quale lo strepito de' caricanti e delle bestie aveva desto, e levatosi fece le donne e'giovani tutti parimente levare.
Né ancora spuntavano li raggi del sole bene bene, quando tutti entrarono in cammino; né era ancora lor paruto alcuna volta tanto gaiamente cantar gli usignuoli e gli altri uccelli quanto quella mattina pareva; da' canti de' quali accompagnati infino nella Valle delle donne n'andarono, dove da molti più ricevuti, parve loro che essi della lor venuta si rallegrassero.
Quivi intorniando quella e riproveggendo tutta da capo, tanto parve loro più bella che il dì passato, quanto l'ora del dì era più alla bellezza di quella conforme.
E poi che col buon vino e con confetti ebbero il digiun rotto acciò che di canto non fossero dagli uccelli avanzati, cominciarono a cantare, e la valle insieme con essoloro, sempre quelle medesime canzoni dicendo che essi dicevano; alle quali tutti gli uccelli, quasi non volessero esser vinti, dolci e nuove note aggiugnevano.
Ma poi che l'ora del mangiar fu venuta, messe le tavole sotto i vivaci allori e agli altri belli arbori vicine al bel laghetto, come al re piacque, così andarono a sedere, e mangiando, i pesci notar vedean per lo lago a grandissime schiere; il che, come di riguardare, così talvolta dava cagione di ragionare.
Ma poi che venuta fu la fine del desinare, e le vivande e le tavole furon rimosse, ancora più lieti che prima, cominciarono a cantare e dopo questo a sonare e a carolare.
Quindi, essendo in più luoghi per la piccola valle fatti letti, e tutti dal discreto siniscalco di sarge francesche e di capoletti intorniati e chiusi, con licenzia del re, a cui piacque, si potè andare a dormire; e chi dormir non volle, degli altri lor diletti usati pigliar poteva a suo piacere.
Ma, venuta già l'ora che tutti levati erano e tempo era da riducersi a novellare, come il re volle, non guari lontano al luogo dove mangiato aveano, fatti in su l'erba tappeti distendere e vicini al lago a seder postisi, comandò il re ad Emilia che cominciasse.
La qual lietamente così cominciò a dir sorridendo.
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Novella Prima
Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l'uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere che egli è la fantasima; vanno ad incantare con una orazione, e il picchiar si rimane.
Signor mio, a me sarebbe stato carissimo, quando stato fosse piacere a voi, che altra persona che io avesse a così bella materia, come è quella di che parlar dobbiamo, dato cominciamento; ma, poi che egli v'aggrada che io tutte l'altre assicuri, e io il farò volentieri.
E ingegnerommi, carissime donne, di dir cosa che vi possa essere utile nell'avvenire, per ciò che, se così son l'altre come io, tutte siamo paurose, e massimamente della fantasima, la quale sallo Iddio che io non so che cosa si sia, né ancora alcuna trovai che 'l sapesse, come che tutte ne temiamo igualmente.
A quella cacciar via, quando da voi venisse, notando bene la mia novella, potrete una santa e buona orazione e molto a ciò valevole apparare.
Egli fu già in Firenze nella contrada di San Brancazio uno stamaiuolo, il qual fu chiamato Gianni Lotteringhi, uomo più avventurato nella sua arte che savio in altre cose, per ciò che, tenendo egli del semplice, era molto spesso fatto capitano de' laudesi di Santa Maria Novella, e aveva a ritenere la scuola loro, e altri così fatti uficietti aveva assai sovente, di che egli da molto più si teneva; e ciò gli avvenia per ciò che egli molto spesso, sì come agiato uomo, dava di buone pietanze a' frati.
Li quali, per ciò che qual calze e qual cappa e quale scapolare ne traevano spesso, gli insegnavano di buone orazioni e davangli il paternostro in volgare e la canzone di santo Alesso e il lamento di san Bernardo e la lauda di donna Matelda e cotali altri ciancioni, li quali egli aveva molto cari, e tutti per la salute dell'anima sua se gli serbava molto diligentemente.
Ora aveva costui una bellissima donna e vaga per moglie, la quale ebbe nome monna Tessa e fu figliuola di Mannuccio dalla Cuculia, savia e avveduta molto.
La quale, conoscendo la semplicità del marito, essendo innamorata di Federigo di Neri Pegolotti, il quale bello e fresco giovane era, ed egli di lei, ordinò con una sua fante che Federigo le venisse a parlare ad un luogo molto bello che il detto Gianni aveva in Camerata, al quale ella si stava tutta la state; e Gianni alcuna volta vi veniva la sera a cenare e ad albergo, e la mattina se ne tornava a bottega e talora a' laudesi suoi.
Federigo, che ciò senza modo disiderava, preso tempo, un dì che imposto gli fu, in su 'l vespro se n'andò lassù, e non venendovi la sera Gianni, a grande agio e con molto piacere cenò e albergò con la donna; ed ella, standogli in braccio, la notte gl'insegnò da sei delle laude del suo marito.
Ma, non intendendo essa che questa fosse così l'ultima volta come stata era la prima, né Federigo altressì, acciò che ogni volta non convenisse che la fante avesse ad andar per lui, ordinarono insieme a questo modo: che egli ognindì, quando andasse o tornasse da un suo luogo che alquanto più su era, tenesse mente in una vigna la quale allato alla casa di lei era, ed egli vedrebbe un teschio d'asino in su un palo di quelli della vigna, il quale quando col muso volto vedesse verso Firenze, sicuramente e senza alcun fallo la sera di notte se ne venisse a lei, e se non trovasse l'uscio aperto, pianamente picchiasse tre volte, ed ella gli aprirebbe; e quando vedesse il muso del teschio volto verso Fiesole, non vi venisse, per ciò che Gianni vi sarebbe.
E in questa maniera faccendo, molte volte insieme si ritrovarono.
Ma tra l'altre volte una avvenne che, dovendo Federigo cenar con monna Tessa, avendo ella fatti cuocere due grossi capponi, avvenne che Gianni, che venir non vi doveva, molto tardi vi venne; di che la donna fu molto dolente, ed egli ed ella cenarono un poco di carne salata che da parte aveva fatta lessare; e alla fante fece portare in una tovagliuola bianca i due capponi lessi e molte uova fresche e un fiasco di buon vino in un suo giardino, nel quale andar si potea senza andar per la casa, e dov'ella era usa di cenare con Federigo alcuna volta, e dissele che a piè d'un pesco, che era allato ad un pratello, quelle cose ponesse.
E tanto fu il cruccio che ella ebbe, che ella non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Federigo venisse, e dicessegli che Gianni v'era e che egli quelle cose dell'orto prendesse.
Per che, andatisi ella e Gianni al letto, e similmente la fante, non stette guari che Federigo venne e toccò una volta pianamente la porta, la quale sì vicina alla camera era che Gianni incontanente il sentì, e la donna altressì; ma, acciò che Gianni nulla suspicar potesse di lei, di dormire fece sembiante.
E stando un poco, Federigo picchiò la seconda volta; di che Gianni maravigliandosi punzecchiò un poco la donna, e disse:
- Tessa, odi tu quel ch'io? E' pare che l'uscio nostro sia tocco.
-
La donna, che molto meglio di lui udito l'avea, fece vista di svegliarsi, e disse:
- Come di'? Eh? -
- Dico, - disse Gianni - ch'e' pare che l'uscio nostro sia tocco.
-
Disse la donna:
- Tocco? Ohimè, Gianni mio, or non sai tu quello ch'egli è? Egli è la fantasima, della quale io ho avuta a queste notti la maggior paura che mai s'avesse, tale che, come io sentita l'ho, ho messo il capo sotto né mai ho avuto ardir di trarlo fuori sì è stato dì chiaro.
-
Disse allora Gianni:
- Va, donna, non aver paura, se ciò è, ché io dissi dianzi il "Te lucis" e la " 'ntemerata" e tante altre buone orazioni, quando al letto ci andammo, e anche segnai il letto di canto in canto al nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che temere non ci bisogna, ché ella non ci può, per potere ch'ella abbia, nuocere.
-
La donna, acciò che Federigo per avventura altro sospetto non prendesse e con lei si turbasse, diliberò del tutto di doversi levare e di fargli sentire che Gianni v'era, e disse al marito:
- Bene sta, tu di'tue parole tu, io per me non mi terrò mai salva né sicura, se noi non la 'ncantiamo, poscia che tu ci se'.
-
Disse Gianni:
- O come s'incanta ella? -
Disse la donna:
- Ben la so io incantare; ché l'altrieri, quando io andai a Fiesole alla perdonanza, una di quelle romite, che è, Gianni mio, pur la più santa cosa che Iddio tel dica per me, vedendomene così paurosa, m'insegnò una santa e buona orazione, e disse che provata l'avea più volte avanti che romita fosse, e sempre l'era giovato.
Ma sallo Iddio che io non avrei mai avuto ardire d'andare sola a provarla; ma ora che tu ci se', io vo' che noi andiamo ad incantarla.
-
Gianni disse che molto gli piacea; e levatisi, se ne vennero amenduni pianamente all'uscio, al quale ancor di fuori Federigo, già sospettando, aspettava.
E giunti quivi, disse la donna a Gianni:
- Ora sputerai, quando io il ti dirò.
-
Disse Gianni:
- Bene.
-
E la donna cominciò l'orazione, e disse:
- Fantasima, fantasima che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n'andrai; va nell'orto a piè del pesco grosso, troverai unto bisunto e cento cacherelli della gallina mia; pon bocca al fiasco e vatti via, e non far male né a me né a Gianni mio; - e così detto, disse al marito:
- Sputa, Gianni; - e Gianni sputò.
E Federigo, che di fuori era e questo udiva, già di gelosia uscito, con tutta la malinconia, aveva si gran voglia di ridere che scoppiava; e pianamente, quando Gianni sputava, diceva:
- I denti.
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La donna, poi che in questa guisa ebbe tre volte la fantasima incantata, al letto se ne tornò col marito.
Federigo, che con lei di cenar s'aspettava, non avendo cenato e avendo bene le parole della orazione intese, se n'andò nell'orto e a piè del pesco grosso trovati i due capponi e 'l vino e l'uova, a casa se ne gli portò e cenò a grande agio.
E poi dell'altre volte, ritrovandosi con la donna, molto di questa incantazione rise con essolei.
Vera cosa è che alcuni dicono che la donna aveva ben volto il teschio dello asino verso Fiesole, ma un lavoratore, per la vigna passando, v'aveva entro dato d'un bastone e fattol girare intorno intorno, ed era rimaso volto verso Firenze, e per ciò Federigo, credendo esser chiamato, v'era venuto; e che la donna aveva fatta l'orazione in questa guisa: - Fantasima, fantasima, vatti con Dio, che la testa dell'asino non vols'io, ma altri fu, che tristo il faccia Iddio, e io son qui con Gianni mio; - per che, andatosene, senza albergo e senza cena era la notte rimaso.
Ma una mia vicina, la quale è una donna molto vecchia, mi dice che l'una e l'altra fu vera, secondo che ella aveva, essendo fanciulla, saputo; ma che l'ultimo non a Gianni Lotteringhi era avvenuto, ma ad uno che si chiamò Gianni di Nello, che stava in porta San Piero, non meno sofficiente lavaceci che fosse Gianni Lotteringhi.
E per ciò, donne mie care, nella vostra elezione sta di torre qual più vi piace delle due, o volete amendune.
Elle hanno grandissima virtù a così fatte cose, come per esperienzia avete udito; apparatele, e potravvi ancor giovare.
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Novella Seconda
Peronella mette un suo amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l'ha ad uno che dentro v'è a vedere se saldo gli pare.
Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi portarsenelo a casa sua.
Con grandissime risa fu la novella d'Emilia ascoltata e l'orazione per buona e per santa commendata da tutti; la quale al suo fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato che seguitasse, il quale incominciò.
Carissime donne mie, elle son tante le beffe che gli uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che, quando alcuna volta avviene che donna niuna alcuna al marito ne faccia, voi non dovreste solamente esser contente che ciò fosse avvenuto o di risaperlo o d'udirlo dire ad alcuno, ma il dovreste voi medesime andare dicendo per tutto, acciò che per gli uomini si conosca che, se essi sanno, e le donne d'altra parte anche sanno: il che altro che utile essere non vi può; per ciò che, quando alcun sa che altri sappia, egli non si mette troppo leggiermente a volerlo ingannare.
Chi dubita dunque che ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi, conoscendo che voi similmente, volendo, ne sapreste fare? E' adunque mia intenzion di dirvi ciò che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse, quasi in un momento di tempo, per salvezza di sé al marito facesse.
Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella, ed esso con l'arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio.
Avvenne che un giovane de' leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s'innamorò di lei, e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con essolei si dimesticò.
E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori; ed essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n'entrasse; e così molte volte fecero.
Ma pur tra l'altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario, ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l'uscio serrato dentro, picchiò, e dopo il picchiare cominciò seco a dire:
- O Iddio, lodato sia tu sempre; ché, benché tu m'abbi fatto povero, almeno m'hai tu consolato di buona e onesta giovane di moglie.
Vedi come ella tosto serrò l'uscio dentro, come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse.
Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse:
- Ohimè, Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta; forse che ti vide egli quando tu c'entrasti.
Ma, per l'amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa.
Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all'uscio aprì al marito, e con un malviso disse:
- Ora questa che novella è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co' ferri tuoi in mano; e, se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m'impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli? che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s'è spiccata dall'unghia, per potere almeno aver tanto olio che n'arda la nostra lucerna.
Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro; e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti esser a lavorare.
E così detto, incominciò a piagnere e a dir da capo:
- Ohimè, lassa me, dolente me, in che mal'ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s'ha recata a casa.
L'altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e non ce n'ha niuna che non n'abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a' mariti la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura; io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l'altre.
Intendi sanamente, marito mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de' ben leggiadri che m'amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò; e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare.
Disse il marito:
- Deh donna, non ti dar malinconia, per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se', e pure stamane me ne sono in parte avveduto.
Egli è il vero ch'io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di santo Galeone, e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più d'un mese, ché io ho venduto a costui che tu vedi qui con me co il doglio, il quale tu sai che, già è cotanto, ha tenuta la casa impacciata, e dammene cinque gigliati.
Disse allora Peronella:
- E tutto questo è del dolor mio: tu che se'uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu'mai appena fuor dell'uscio, veggendo lo 'mpaccio che in casa ci dava, l'ho venduto sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v'entrò dentro per vedere se saldo era.
Quando il marito udì questo, fu più che contento, e disse a colui che venuto era per esso:
- Buon uomo, vatti con Dio; ché tu odi che mia mogliere l'ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque.
Il buono uomo disse:
- In buona ora sia; - e andossene.
E Peronella disse al marito:
- Vien su tu, poscia che tu ci se', e vedi con lui insieme i fatti nostri.
Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se di nulla gli bisognasse temere o provvedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire:
- Dove se', buona donna? Al quale il marito, che già veniva, disse:
- Eccomi, che domandi tu?
Disse Giannello:
- Qual se'tu? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio.
Disse il buono uomo:
- Fate sicuramente meco, ché io son suo marito.
Disse allora Giannello:
- Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impiastricciato di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l'unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima netto.
Disse allora Peronella:
- No, per quello non rimarrà il mercato; mio marito il netterà tutto.
E il marito disse:
- Sì bene; - e posti giù i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione, si fece accendere un lume e dare una radimadia, e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere.
E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, e oltre a questo l'un de' bracci con tutta la spalla, cominciò a dire:
- Radi quivi, e quivi, e anche colà; - e: - Vedine qui rimaso un micolino.
E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s'argomentò di fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d'amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, ad effetto recò il giovinil desiderio, il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori.
Per che Peronella disse a Giannello:
- Te'questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo.
Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene, e che egli era contento; e datigli sette gigliati, a casa sel fece portare.
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Novella Terza
Frate Rinaldo si giace colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini al figlioccio.
Non seppe sì Filostrato parlare oscuro delle cavalle partice, che l'avvedute donne non lo intendessono e alquanto non ne ridessono, sembiante faccendo di rider d'altro.
Ma poi che il re conobbe la sua novella finita, ad Elissa impose che ragionasse.
La quale, disposta ad ubbidire, incominciò.
Piacevoli donne, lo 'ncantar della fantasima d'Emilia m'ha fatto tornare alla memoria una novella d'un'altra incantagione, la quale quantunque così bella non sia come fu quella, per ciò che altra alla nostra materia non me ne occorre al presente, la racconterò.
Voi dovete sapere che in Siena fu già un giovane assai leggiadro e d'orrevole famiglia, il quale ebbe nome Rinaldo; e amando sommamente una sua vicina e assai bella donna e moglie d'un ricco uomo, e sperando, se modo potesse avere di parlarle senza sospetto, dovere aver da lei ogni cosa che egli disiderasse, non vedendone alcuno ed essendo la donna gravida, pensossi di volere suo compar divenire; e accontatosi col marito di lei, per quel modo che più onesto gli parve gliele di se, e fu fatto.
Essendo adunque Rinaldo di madonna Agnesa divenuto compare e avendo alquanto d'albitrio più colorato di poterle parlare, assicuratosi, quello della sua intenzione con parole le fece conoscere che ella molto davanti negli atti degli occhi suoi avea conosciuto; ma poco per ciò gli valse, quantunque d'averlo udito non dispiacesse alla donna.
Addivenne non guari poi, che che si fosse la cagione, che Rinaldo si fece frate, e chente che egli trovasse la pastura, egli perseverò in quello.
E avvegna che egli alquanto, di que tempi che frate si fece, avesse dall'un de' lati posto l'amore che alla sua comar portava e certe altre sue vanità, pure in processo di tempo, senza lasciar l'abito, se le riprese, e cominciò a dilettarsi d'apparere e di vestir di buon panni e d'essere in tutte le sue cose leggiadretto e ornato, e a fare delle canzoni e de' sonetti e delle ballate, e a cantare, e tutto pieno d'altre cose a queste simili.
Ma che dico io di frate Rinaldo nostro, di cui parliamo? Quali son quegli che così non facciano? Ahi vitupero del guasto mondo! Essi non si vergognano d'apparir grassi, d'apparir coloriti nel viso, d'apparir morbidi ne'vestimenti e in tutte le cose loro; e non come colombi, ma come galli tronfi, con la cresta levata, pettoruti procedono; e, che è peggio (lasciamo stare d'aver le lor celle piene d'alberelli di lattovari e d'unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d'ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco e d'altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d'unguentari appaiono più tosto a' riguardanti), essi non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi, e credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse e poche e il viver sobriamente faccia gli uomini magri e sottili e il più sani; e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte gl'infermano, alle quali si suole per medicina dare la castità e ogni altra cosa a vita di modesto frate appartenente.
E credonsi che altri non conosca, oltra la sottil vita, le vigilie lunghe, l'orare e il disciplinarsi dover gli uomini pallidi e afflitti rendere; e che né san Domenico né san Francesco, senza aver quattro cappe per uno, non di tintillani né d'altri panni gentili, ma di lana grossa fatte e di natural colore, a cacciare il freddo e non ad apparere si vestissero.
Alle quali cose Iddio provegga, come all'anime de' semplici che gli nutricano fa bisogno.
Così adunque ritornato frate Rinaldo ne'primi appetiti, cominciò a visitare molto spesso la comare; e cresciutagli baldanza, con più instanzia che prima non faceva la cominciò a sollicitare a quello che egli di lei disiderava.
La buona donna, veggendosi molto sollicitare, e parendole frate Rinaldo forse più bello che non soleva, essendo un dì molto da lui infestata, a quello ricorse che fanno tutte quelle che voglia hanno di concedere quello che è addimandato, e disse:
- Come! frate Rinaldo, o fanno così fatte cose i frati?
A cui frate Rinaldo rispose:
- Madonna, qualora io avrò questa cappa fuor di dosso, che me la traggo molto agevolmente, io vi parrò uno uomo fatto come gli altri, e non frate.
La donna fece bocca da ridere, e disse:
- Ohimè trista, voi siete mio compare; come si farebbe questo? Egli sarebbe troppo gran male; e io ho molte volte udito che egli è troppo gran peccato; e per certo, se ciò non fosse, io farei ciò che voi voleste.
A cui frate Rinaldo disse:
- Voi siete una sciocca, se per questo lasciate.
Io non dico che non sia peccato, ma de' maggiori perdona Iddio a chi si pente.
Ma ditemi, chi è più parente del vostro figliuolo, o io che il tenni a battesimo, o vostro marito che il generò?
La donna rispose:
- E più suo parente mio marito.
- E voi dite il vero, - disse il frate; - e vostro marito non si giace con voi?
- Mai sì, - rispose la donna.
- Adunque, - disse il frate - e io che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito, così mi debbo poter giacere con voi come vostro marito.
La donna, che loica non sapeva e di piccola levatura aveva bisogno, o credette o fece vista di credere che il frate dicesse vero, e rispose: - Chi saprebbe rispondere alle vostre savie parole?; - e appresso, non ostante il comparatico, si recò a dovere fare i suoi piaceri; né incominciarono pure una volta, ma sotto la coverta del comparatico avendo più agio, perché la sospezione era minore, più e più volte si ritrovarono insieme.
Ma tra l'altre una n'avvenne che, essendo frate Rinaldo venuto a casa la donna, e vedendo quivi niuna persona essere, altri che una fanticella della donna, assai bella e piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco di sopra ad insegnarle il paternostro, egli colla donna, che il fanciullin suo avea per mano, se n'entrarono nella camera, e dentro serratisi, sopra un lettuccio da sedere, che in quella era, s'incominciarono a trastullare.
E in questa guisa dimorando, avvenne che il compar tornò, e senza esser sentito da alcuno, fu all'uscio della camera, e picchiò e chiamò la donna.
Ma donna Agnesa, questo sentendo, disse:
- Io son morta, ché ecco il marito mio; ora si pure avvedrà egli qual sia la cagione della nostra dimestichezza.
Era frate Rinaldo spogliato, cioè senza cappa e senza scapolare, in tonicella, il quale questo udendo disse:
- Voi dite vero: se io fossi pur vestito, qualche modo ci avrebbe; ma, se voi gli aprite ed egli mi truovi così, niuna scusa ci potrà essere.
La donna, da subito consiglio aiutata, disse:
- Or vi vestite; e vestito che voi siete, recatevi in braccio vostro figlioccio, e ascolterete bene ciò che io gli dirò, sì che le vostre parole poi s'accordino con le mie, e lasciate fare a me.
Il buono uomo non era ristato appena di picchiare, che la moglie rispose:
- Io vengo a te; - e levatasi, con un buon viso se n'andò all'uscio della camera e aperselo, e disse:
- Marito mio, ben ti dico che frate Rinaldo nostro compare ci si venne, e Iddio il ci mandò; ché per certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro.
Quando il bescio sanctio udì questo, tutto svenne e disse:
- Come?
- O marito mio, - disse la donna - e'gli venne dianzi di subito uno sfinimento, che io mi credetti ch'e'fosse morto.
e non sapeva né che mi far né che mi dire; se non che frate Rinaldo nostro compare ci venne in quella, e recatoselo in collo disse: - Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, li quali gli s'appressano al cuore e ucciderebbonlo troppo bene; ma non abbiate paura, ché io gl'incanterò e farògli morir tutti, e innanzi che io mi parta di qui voi vedrete il fanciul sano come voi vedeste mai.
- E per ciò che tu ci bisognavi per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sì le fece dire al compagno suo nel più alto luogo della nostra casa, ed egli e io qua entro ce n'entrammo.
E per ciò che altri che la madre del fanciullo non può essere a così fatto servigio, perché altri non c'impacciasse, qui ci serrammo, e ancora l'ha egli in braccio, e credom'io che egli non aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di dire l'orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è già tutto tornato in sé.
Il santoccio credendo queste cose, tanto l'affezion del figliuol lo strinse, che egli non pose l'animo allo 'nganno fattogli dalla moglie, ma, gittato un gran sospiro, disse:
- Io il voglio andare a vedere.
Disse la donna:
- Non andare, ché tu guasteresti ciò che s'è fatto; aspettati, io voglio vedere se tu vi puoi andare, e chiamerotti.
Frate Rinaldo, che ogni cosa udito avea, ed erasi rivestito a bello agio e avevasi recato il fanciullo in braccio, come ebbe disposte le cose a suo modo, chiamò:
- O comare, non sento io costà il compare?
Rispose il santoccio:
- Messer sì.
- Adunque, - disse frate Rinaldo - venite qua.
Il santoccio andò là.
Al quale frate Rinaldo disse:
- Tenete il vostro figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu, che voi nol vedeste vivo a vespro; e farete di far porre una statua di cera della sua grandezza a laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio, per li meriti del quale Iddio ve n'ha fatta grazia.
Il fanciullo, veggendo il padre, corse a lui e fecegli festa.
3` come i fanciulli piccoli fanno; il quale recatoselo in braccio, lagrimando non altramenti che se della fossa il traesse, il cominciò a baciare e a render grazie al suo compare che guerito gliele avea.
Il compagno di frate Rinaldo, che non un paternostro, ma forse più di quattro n'aveva insegnati alla fanticella, e donatale una borsetta di refe bianco, la quale a lui aveva donata una monaca, e fattala sua divota, avendo udito il santoccio alla camera della moglie chiamare, pianamente era venuto in parte della quale e vedere e udire ciò che vi si facesse poteva; veggendo la cosa in buoni termini, se ne venne giuso, ed entrato nella camera disse:
- Frate Rinaldo, quelle quattro orazioni che m'imponeste, io l'ho dette tutte.
A cui frate Rinaldo disse:
- Fratel mio, tu hai buona lena e hai fatto bene.
Io per me, quando mio compar venne, non n'aveva dette che due; ma Domenedio tra per la tua fatica e per la mia ci ha fatta grazia che il fanciullo è guerito.
Il santoccio fece venire di buoni vini e di confetti, e fece onore al suo compare e al compagno di ciò che essi avevano maggior bisogno che d'altro.
Poi, con loro insieme uscito di casa, gli accomandò a Dio; e senza alcuno indugio fatta fare la imagine di cera, la mandò ad appiccare con l'altre dinanzi alla figura di santo Ambruogio, ma non a quel di Melano.
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Novella Quarta
Tofano chiude una notte fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra.
Tofano esce di casa e corre là, ed ella in casa le n'entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera.
Il re, come la novella d'Elissa sentì aver fine, così senza indugio verso la Lauretta rivolto le dimostrò che gli piacea che ella dicesse; per che essa, senza stare, così cominciò.
O Amore, chenti e quali sono le tue forze! Chenti i consigli e chenti gli avvedimenti! Qual filosofo, quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare quegli argomenti, quegli avvedimenti, quegli dimostramenti che fai tu subitamente a chi seguita le tue orme? Certo la dottrina di qualunque altro è tarda a rispetto della tua, sì come assai bene com prender si può nelle cose davanti mostrate.
Alle quali, amorose donne, io una n'aggiugnerò da una semplicetta donna adoperata, tale che io non so chi altri se l'avesse potuta mostrare che Amore.
Fu adunque già in Arezzo un ricco uomo, il quale fu Tofano nominato.
A costui fu data per moglie una bellissima donna, il cui nome fu monna Ghita, della quale egli, senza saper perché, prestamente divenne geloso.
Di che la donna avvedendosi prese sdegno, e più volte avendolo della cagione della sua gelosia addomandato, né egli alcuna avendone saputa assegnare, se non cotali generali e cattive, cadde nell'animo alla donna di farlo morire del male del quale senza cagione aveva paura.
Ed essendosi avveduta che un giovane, secondo il suo giudicio molto da bene, la vagheggiava, discretamente con lui s'incominciò ad intendere.
Ed essendo già tra lui e lei tanto le cose innanzi, che altro che dare effetto con opera alle parole non vi mancava, pensò la donna di trovare similmente modo a questo.
E avendo già tra'costumi cattivi del suo marito conosciuto lui dilettarsi di bere, non solamente gliele cominciò a commendare, ma artatamente a sollicitarlo a ciò molto spesso.
E tanto ciò prese per uso, che, quasi ogni volta che a grado l'era, infino allo inebriarsi bevendo il conducea; e quando bene ebbro il vedea, messolo a dormire, primieramente col suo amante si ritrovò, e poi sicuramente più volte di ritrovarsi con lui continuò.
E tanto di fidanza nella costui ebbrezza prese, che non solamente avea preso ardire di menarsi il suo amante in casa, ma ella talvolta gran parte della notte s'andava con lui a dimorare alla sua, la qual di quivi non era guari lontana.
E in questa maniera la innamorata donna continuando, avvenne che il doloroso marito si venne accorgendo che ella, nel confortare lui a bere, non beveva però essa mai; di che egli prese sospetto non così fosse come era, cioè che la donna lui inebriasse per poter poi fare il piacer suo mentre egli addormentato fosse.
E volendo di questo, se così fosse, far pruova, senza avere il dì bevuto, una sera tornò a casa mostrandosi il più ebbro uomo, e nel parlare e ne'modi, che fosse mai; il che la donna credendo né estimando che più bere gli bisognasse a ben dormire, il mise prestamente a letto.
E fatto ciò, secondo che alcuna volta era usata di fare, uscita di casa, alla casa del suo amante se n'andò, e quivi infino alla mezza notte dimorò.
Tofano, come la donna non vi sentì, così si levò, e andatosene alla sua porta, quella serrò dentro e posesi alle finestre, acciò che tornare vedesse la donna e le facesse manifesto che egli si fosse accorto delle maniere sue; e tanto stette che la donna tornò.
La quale, tornando a casa e trovandosi serrata di fuori, fu oltre modo dolente, e cominciò a tentare se per forza potesse l'uscio aprire.
Il che poi che Tofano alquanto ebbe sofferto, disse:
- Donna, tu ti fatichi invano, per ciò che qua entro non potrai tu entrare.
Va, tornati là dove infino ad ora se'stata, e abbi per certo che tu non ci tornerai mai, infino a tanto che io di questa cosa, in presenza de' parenti tuoi e de' vicini, te n'avrò fatto quello onore che ti si conviene.
La donna lo 'ncominciò a pregar per l'amor di Dio che piacer gli dovesse d'aprirle.
per ciò che ella non veniva donde s'avvisava, ma da vegghiare con una sua vicina, per ciò che le notti eran grandi ed ella non le poteva dormir tutte, né sola in casa vegghiare.
Li prieghi non giovavano nulla, per ciò che quella bestia era pur disposto a volere che tutti gli aretin sapessero la loro vergogna, laddove niun la sapeva.
La donna, veggendo che il pregar non le valeva, ricorse al minacciare e disse:
- Se tu non m'apri, io ti farò il più tristo uom che viva.
A cui Tofano rispose:
- E che mi potresti tu fare?
La donna, alla quale Amore aveva già aguzzato co' suoi consigli lo 'ngegno, rispose:
- Innanzi che io voglia sofferire la vergogna che tu mi vuoi fare ricevere a torto, io mi gitterò in questo pozzo che qui è vicino, nel quale poi essendo trovata morta, niuna persona sarà che creda che altri che tu, per ebbrezza, mi v'abbia gittata; e così o ti converrà fuggire e perdere ciò che tu hai ed essere in bando, o converrà che ti sia tagliata la testa, sì come a micidial di me che tu veramente sarai stato.
Per queste parole niente si mosse Tofano dalla sua sciocca oppinione.
Per la qual cosa la donna disse:
- Or ecco, io non posso più sofferire questo tuo fastidio; Dio il ti perdoni; farai riporre questa mia rocca che io lascio qui.
E questo detto, essendo la notte tanto oscura che appena si sarebbe potuto veder l'un l'altro per la via, se n'andò la donna verso il pozzo, e presa una grandissima pietra che a piè del pozzo era, gridando: - Iddio, perdonami, - la lasciò cadere entro nel pozzo.
La pietra giugnendo nell'acqua fece un grandissimo romore; il quale come Tofano udì, credette fermamente che essa gittata vi si fosse; per che, presa la secchia con la fune, subitamente si gittò di casa per aiutarla, e corse al pozzo.
La donna, che presso all'uscio della sua casa nascosa s'era, come il vide correre al pozzo, così ricoverò in casa e serrossi dentro e andossene alle finestre e cominciò a dire: - Egli si vuole inacquare quando altri il bee, non poscia la notte.
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Tofano, udendo costei, si tenne scornato e tornossi all'uscio; e non potendovi entrare, le cominciò a dire che gli aprisse.
Ella, lasciato stare il parlar piano come infino allora aveva fatto, quasi gridando cominciò a dire:
- Alla croce di Dio, ubriaco fastidioso, tu non c'enterrai stanotte; io non posso più sofferire questi tuoi modi; egli convien che io faccia vedere ad ogn'uomo chi tu se' e a che ora tu torni la notte a casa.
Tofano d'altra parte crucciato le 'ncominciò a dir villania e a gridare; di che i vicini, sentendo il romore, si levarono, e uomini e donne, e fecersi alle finestre e domandarono che ciò fosse.
La donna cominciò piagnendo a dire: - Egli è questo reo uomo, il quale mi torna ebbro la sera a casa, o s'addormenta per le taverne e poscia torna a questa otta; di che io avendo lungamente sofferto e dettogli molto male e non giovandomi, non potendo più sofferire, ne gli ho voluta fare questa vergogna di serrarlo fuor di casa, per vedere se egli se ne ammenderà.
Tofano bestia, d'altra parte, diceva come il fatto era stato, e minacciava forte.
La donna co' suoi vicini diceva: - Or vedete che uomo egli è! Che direste voi se io fossi nella via come è egli, ed egli fosse in casa come sono io? In fè di Dio che io dubito che voi non credeste che egli dicesse il vero.
Ben potete a questo conoscere il senno suo.
Egli dice appunto che io ho fatto ciò che io credo che egli abbia fatto egli.
Egli mi credette spaventare col gittare non so che nel pozzo; ma or volesse Iddio che egli vi si fosse gittato da dovero e affogato, sì che il vino, il quale egli di soperchio ha bevuto, si fosse molto bene inacquato.
I vicini, e gli uomini e le donne, cominciaro a riprender tutti Tofano, e a dar la colpa a lui e a dirgli villania di ciò che contro alla donna diceva; e in brieve tanto andò il romore di vicino in vicino, che egli pervenne infino a' parenti della donna.
Li quali venuti là, e udendo la cosa e da un vicino e da altro, presero Tofano e diedergli tante busse che tutto il ruppono.
Poi, andati in casa, presero le cose della donna e con lei si ritornarono a casa loro, minacciando Tofano di peggio.
Tofano, veggendosi mal parato, e che la sua gelosia l'aveva mal condotto, sì come quegli che tutto 'l suo ben voleva alla donna, ebbe alcuni amici mezzani, e tanto procacciò che egli con buona pace riebbe la donna a casa sua alla quale promise di mai più non esser geloso; e oltre a ciò le diè licenza che ogni suo piacer facesse, ma sì saviamente, che egli non se ne avvedesse.
E così, a modo del villan matto, dopo danno fe' patto.
E viva amore, e muoia soldo e tutta la brigata.
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Novella Quinta
Un geloso in forma di prete confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia all'uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si dimora.
Posto avea fine la Lauretta al suo ragionamento, e avendo già ciascun commendata la donna che ella bene avesse fatto e come a quel cattivo si conveniva, il re, per non perder tempo, verso la Fiammetta voltatosi, piacevolmente il carico le 'mpose del novellare; per la qual cosa ella così cominciò.
Nobilissime donne, la precedente novella mi tira a dovere io similmente ragionar d'un geloso, estimando che ciò che si fa loro dalle loro donne, e massimamente quando senza cagione ingelosiscono, esser ben fatto.
E se ogni cosa avessero i componitori delle leggi guardata, giudico che in questo essi dovessero alle donne non altra pena avere constituta che essi constituirono a colui che alcuno offende sé difendendo; per ciò che i gelosi sono insidiatori della vita delle giovani donne e diligentissimi cercatori della lor morte.
Esse stanno tutta la settimana rinchiuse e attendono alle bisogne familiari e domestiche, disiderando, come ciascun fa, d'aver poi il dì delle feste alcuna consolazione, alcuna quiete, e di potere alcun diporto pigliare, sì come prendono i lavoratori dei campi, gli artefici delle città e i reggitori delle corti; come fece Iddio, che il dì settimo da tutte le sue fatiche si riposò; e come vogliono le leggi sante e le civili, le quali, allo onor di Dio e al ben comune di ciascun riguardando, hanno i dì delle fatiche distinti da quegli del riposo.
Alla qual cosa fare niente i gelosi consentono, anzi quegli dì che a tutte l'altre son lieti, fanno ad esse, più serrate e più rinchiuse tenendole, esser più miseri e più dolenti; il che quanto e qual consumamento sia delle cattivelle quelle sole il sanno che l'hanno provato.
Perché, conchiudendo, ciò che una donna fa ad un marito geloso a torto, per certo non condennare ma commendare si dovrebbe.
Fu adunque in Arimino un mercatante, ricco e di possessioni e di denari assai, il quale avendo una bellissima donna per moglie, di lei divenne oltre misura geloso: né altra cagione a questo avea se non che, come egli molto l'amava e molto bella la teneva e conosceva che ella con tutto il suo studio s'ingegnava di piacergli, così estimava che ogn'uomo l'amasse, e che ella a tutti paresse bella e ancora che ella s'ingegnasse così di piacere altrui come a lui.
E così ingelosito tanta guardia ne prendeva e sì stretta la tenea, che forse assai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono da' pregionieri con tanta guardia servati.
La donna, lasciamo stare che a nozze o a festa o a chiesa andar potesse, o il piè della casa trarre in alcun modo, ma ella non osava farsi ad alcuna finestra né fuor della casa guardare per alcuna cagione; per la qual cosa la vita sua era pessima, ed essa tanto più impaziente sosteneva questa noia, quanto meno si sentiva nocente.
Per che, veggendosi a torto fare ingiuria al marito, s avvisò, a consolazion di sé medesima, di trovar modo (se alcuno ne potesse trovare) di far sì che a ragione le fosse fatto.
E per ciò che a finestra far non si potea, e così modo non avea di potersi mostrare contenta dello amore d'alcuno che atteso l'avesse per la sua contrada passando, sappiendo che nella casa la quale era allato alla sua aveva alcun giovane e bello e piacevole, si pensò, se pertugio alcun fosse nel muro che la sua casa divideva da quella, di dovere per quello tante volte guatare, che ella vedrebbe il giovane in atto da potergli parlare, e di donargli il suo amore, se egli il volesse ricevere; e se modo vi si potesse vedere, di ritrovarsi con lui alcuna volta, e in questa maniera trapassare la sua malvagia vita infino a tanto che il fistolo uscisse da dosso al suo marito.
E venendo ora in una parte e ora in una altra, quando il marito non v'era, il muro della casa guardando, vide per avventura in una parte assai segreta di quella il muro alquanto da una fessura esser aperto; per che, riguardando per quella, ancora che assai male discerner potesse dall'altra parte, pur s'avvide che quivi era una camera dove capitava la fessura, e seco disse: - Se questa fosse la camera di Filippo - (cioè del giovane suo vicino) - io sarei mezza fornita.
-E cautamente da una sua fante, a cui di lei incresceva, ne fece spiare, e trovò che veramente il giovane in quella dormiva tutto solo; per che, visitando la fessura spesso, e, quando il giovane vi sentiva, faccendo cader pietruzze e cotali fuscellini, tanto fece che, per veder che ciò fosse, il giovane venne quivi.
Il quale ella pianamente chiamò; ed egli che la sua voce conobbe, le rispose; ed ella, avendo spazio, in brieve tutto l'animo suo gli aprì.
Di che il giovane contento assai, sì fece che dal suo lato il pertugio si fece maggiore, tuttavia in guisa faccendo che alcuno avvedere non se ne potesse; e quivi spesse volte insieme si favellavano e toccavansi la mano, ma più avanti per la solenne guardia del geloso non si poteva.
Ora, appressandosi la festa del Natale, la donna disse al marito che, se gli piacesse, ella voleva andar la mattina della pasqua alla chiesa e confessarsi e comunicarsi come fanno gli altri cristiani.
Alla quale il geloso disse:
- E che peccati ha'tu fatti, che tu ti vuoi confessare?
Disse la donna:
- Come! Credi tu che io sia santa, perché tu mi tenghi rinchiusa? Ben sai che io fo de' peccati come l'altre persone che ci vivono, ma io non gli vo'dire a te, ché tu non se'prete.
Il geloso prese di queste parole sospetto e pensossi di voler saper che peccati costei avesse fatti e avvisossi del modo nel quale ciò gli verrebbe fatto; e rispose che era contento, ma che non volea che ella andasse ad altra chiesa che alla cappella loro; e quivi andasse la mattina per tempo e confessassesi o dal cappellan loro o da quel prete che il cappellan le desse e non da altrui, e tornasse di presente a casa.
Alla donna pareva mezzo avere inteso; ma, senza altro dire, rispose che sì farebbe.
Venuta la mattina della pasqua, la donna si levò in su l'aurora e acconciossi e andossene alla chiesa impostale dal marito.
Il geloso d'altra parte levatosi se n'andò a quella medesima chiesa e fuvvi prima di lei; e avendo già col prete di là entro composto ciò che far voleva, messasi prestamente una delle robe del prete indosso con un cappuccio grande a gote, come noi veggiamo che i preti portano, avendosel tirato un poco innanzi, si mise a stare in coro.
La donna venuta alla chiesa fece domandare il prete.
Il prete venne, e udendo dalla donna che confessar si volea, disse che non potea udirla, ma che le manderebbe un suo compagno; e andatosene, mandò il geloso nella sua malora.
Il quale molto contegnoso vegnendo, ancora che egli non fosse molto chiaro il dì ed egli s'avesse molto messo il cappuccio innanzi agli occhi, non si seppe sì occultare che egli non fosse prestamente conosciuto dalla donna; la quale, questo vedendo, disse seco medesima: - Lodato sia Iddio, che costui di geloso è divenuto prete; ma pure lascia fare, ché io gli darò quello che egli va cercando.
- Fatto adunque sembiante di non conoscerlo, gli si pose a sedere a' piedi.
Messer lo geloso s'avea messe alcune petruzze in bocca, acciò che esse alquanto la favella gli 'mpedissero, sì che egli a quella dalla moglie riconosciuto non fosse, parendogli in ogn'altra cosa sì del tutto esser divisato che esser da lei riconosciuto a niun partito credeva.
Or venendo alla confessione, tra l'altre cose che la donna gli disse, avendogli prima detto come maritata era, si fu che ella era innamorata d'un prete, il quale ogni notte con lei s'andava a giacere.
Quando il geloso udì questo, e'gli parve che gli fosse dato d'un coltello nel cuore; e se non fosse che volontà lo strinse di saper più innanzi, egli avrebbe la confessione abbandonata andatosene.
Stando adunque fermo domandò la donna:
- E come? Non giace vostro marito con voi?
La donna rispose:
- Messer sì.
- Adunque, - disse 'l geloso - come vi puote anche il prete giacere?
- Messere, - disse la donna - il prete con che arte il si faccia non so, ma egli non è in casa uscio sì serrato che, come egli il tocca, non s'apra; e dicemi egli che, quando egli è venuto a quello della camera mia, anzi che egli l'apra, egli dice certe parole per le quali il mio marito incontanente s'addormenta, e come addormentato il sente, così apre l'uscio e viensene dentro e stassi con meco, e questo non falla mai.
Disse allora il geloso:
- Madonna, questo è mal fatto, e del tutto egli ve ne conviene rimanere.
A cui la donna disse:
- Messere, questo non crederrei io mai poter fare, per ciò che io l'amo troppo.
- Dunque, - disse il geloso - non vi potrò io assolvere.
A cui la donna disse:
- Io ne son dolente: io non venni qui per dirvi le bugie; se io il credessi poter fare, io il vi direi.
Disse allora il geloso:
- In verità, madonna, di voi m'incresce, ché io vi veggio a questo partito perder l'anima; ma io, in servigio di voi, ci voglio durar fatica in far mie orazioni speziali a Dio in vostro nome, le quali forse vi gioveranno; e sì vi manderò alcuna volta un mio cherichetto, a cui voi direte se elle vi saranno giovate o no; e se elle vi gioveranno, sì procederemo innanzi.
A cui la donna disse:
- Messer, cotesto non fate voi che voi mi mandiate persona a casa, ché, se il mio marito il risapesse, egli è sì forte geloso che non gli trarrebbe del capo tutto il mondo che per altro che per male vi si venisse, e non avrei ben con lui di questo anno.
A cui il geloso disse:
- Madonna, non dubitate di questo, ché per certo io terrò sì fatto modo, che voi non ne sentirete mai parola da lui.
Disse allora la donna:
- Se questo vi dà il cuore di fare, io son contenta; - e fatta la confessione e presa la penitenzia, e da' piè levataglisi, se n'andò a udire la messa.
Il geloso soffiando con la sua mala ventura s'andò a spogliare i panni del prete, e tornossi a casa, disideroso di trovar modo da dovere il prete e la moglie trovare insieme, per fare un mal giuoco e all'uno e all'altro.
La donna tornò dalla chiesa, e vide bene nel viso al marito che ella gli aveva data la mala pasqua; ma egli, quanto poteva, s'ingegnava di nasconder ciò che fatto avea e che saper gli parea.
E avendo seco stesso diliberato di dover la notte vegnente star presso all'uscio della via ad aspettare se il prete venisse, disse alla donna:
- A me conviene questa sera essere a cena e ad albergo altrove, e per ciò serrerai ben l'uscio da via e quello da mezza scala e quello della camera, e quando ti parrà t'andrai a letto.
La donna rispose:
- In buon'ora.
E quando tempo ebbe se n'andò alla buca e fece il cenno usato, il quale come Filippo sentì, così di presente a quel venne.
Al quale la donna disse ciò che fatto avea la mattina, e quello che il marito appresso mangiare l'aveva detto, e poi disse:
- Io son certa che egli non uscirà di casa, ma si metterà a guardia dell'uscio; e per ciò truova modo che su per lo tetto tu venghi stanotte di qua, sì che noi siamo insieme.
Il giovane, contento molto di questo fatto, disse:
- Madonna, lasciate far me.
Venuta la notte, il geloso con sue armi tacitamente si nascose in una camera terrena, e la donna avendo fatti serrar tutti gli usci, e massimamente quello da mezza scala, acciò che il geloso su non potesse venire, quando tempo le parve, il giovane per via assai cauta dal suo lato se ne venne, e andaronsi a letto, dandosi l'un dell'altro piacere e buon tempo; e venuto il dì, il giovane se ne tornò in casa sua.
Il geloso, dolente e senza cena, morendo di freddo, quasi tutta la notte stette con le sue armi allato all'uscio ad aspettare se il prete venisse; e appressandosi il giorno, non potendo più vegghiare, nella camera terrena si mise a dormire.
Quindi vicin di terza levatosi, essendo già l'uscio della casa aperto faccendo sembiante di venire altronde, se ne salì in casa sua e desinò.
E poco appresso mandato un garzonetto, a guisa che stato fosse il cherico del prete che confessata l'avea, la mandò dimandando se colui cui ella sapeva più venuto vi fosse.
La donna, che molto bene conobbe il messo, rispose che venuto non v'era quella notte, e che, se così facesse, che egli le potrebbe uscir di mente, quantunque ella non volesse che di mente l'uscisse.
Ora che vi debbo dire? Il geloso stette molte notti per volere giugnere il prete all'entrata, e la donna continuamente col suo amante dandosi buon tempo.
Alla fine il geloso, che più sofferir non poteva, con turbato viso domandò la moglie ciò che ella avesse al prete detto la mattina che confessata s'era.
La donna rispose che non gliele voleva dire, per ciò che ella non era onesta cosa né convenevole.
A cui il geloso disse:
- Malvagia femina, a dispetto di te io so ciò che tu gli dicesti; e convien del tutto che io sappia chi è il prete di cui tu tanto se'innamorata e che teco per suoi incantesimi ogni notte si giace, o io ti segherò le veni.
La donna disse che non era vero che ella fosse innamorata d'alcun prete.
- Come! - disse il geloso - non dicestù così e così al prete che ti confessò?
La donna disse:
- Non che egli te l'abbia ridetto, ma egli basterebbe, se tu fossi stato presente, mai sì, che io gliele dissi.
- Dunque, - disse il geloso - dimmi chi è questo prete, e tosto.
La donna cominciò a sorridere, e disse:
- Egli mi giova molto quando un savio uomo è da una donna semplice menato come si mena un montone per le corna in beccheria; benché tu non se'savio, né fosti da quella ora in qua che tu ti lasciasti nel petto entrare il maligno spirito della gelosia, senza saper perché; e tanto quanto tu se'più sciocco e più bestiale, cotanto ne diviene la gloria mia minore.
Credi tu, marito mio, che io sia cieca degli occhi della testa, come tu se'cieco di quegli della mente? Certo no; e vedendo conobbi chi fu il prete che mi confessò, e so che tu fosti desso tu; ma io mi puosi in cuore di darti quello che tu andavi cercando, e dieditelo.
Ma, se tu fussi stato savio come esser ti pare, non avresti per quel modo tentato di sapere i segreti della tua buona donna, e, senza prender vana sospezion, ti saresti avveduto di ciò che ella ti confessava così essere il vero, senza avere ella in cosa alcuna peccato.
Io ti dissi che io amava un prete: e non eri tu, il quale io a gran torto amo, fatto prete? Dissiti che niuno uscio della mia casa gli si poteva tener serrato quando meco giacer volea: e quale uscio ti fu mai in casa tua tenuto quando tu colà dove io fossi se'voluto venire? Dissiti che il prete si giaceva ogni notte con meco: e quando fu che tu meco non giacessi? E quante volte il tuo cherico a me mandasti, tante sai quante tu meco non fosti, ti mandai a dire che il prete meco stato non era.
Quale smemorato altri che tu, che alla gelosia tua t'hai lasciato accecare, non avrebbe queste cose intese? E se' ti stato in casa a far la notte la guardia all'uscio, e a me credi aver dato a vedere che tu altrove andato sii a cena e ad albergo.
Ravvediti oggimai, e torna uomo come tu esser solevi, e non far far beffe di te a chi conosce i modi tuoi come fo io, e lascia star questo solenne guardar che tu fai; ché io giuro a Dio, se voglia me ne venisse di porti le corna, se tu avessi cento occhi come tu n'hai due, e'mi darebbe il cuore di fare i piacer miei in guisa che tu non te ne avvedresti.
Il geloso cattivo, a cui molto avvedutamente pareva avere il segreto della donna sentito, udendo questo, si tenne scornato; e senza altro rispondere, ebbe la donna per buona e per savia; e quando la gelosia gli bisognava del tutto se la spogliò, così come, quando bisogno non gli era, se l'aveva vestita.
Per che la savia donna, quasi licenziata ai suoi piaceri, senza far venire il suo amante su per lo tetto, come vanno le gatte, ma pur per l'uscio, discretamente operando, poi più volte con lui buon tempo e lieta vita si diede.
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Novella Sesta
Madonna Isabella con Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna.
Maravigliosamente era piaciuta a tutti la novella della Fiammetta, affermando ciascuno ottimamente la donna aver fatto, e quel che si convenia al bestiale uomo; ma poi che finita fu, il re a Pampinea impose che seguitasse.
La quale incominciò a dire.
Molti sono, li quali, semplicemente parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e quasi chi ama fa divenire smemorato.
Sciocca oppinione mi pare; e assai le già dette cose l'hanno mostrato; e io ancora intendo di dimostrarlo.
Nella nostra città, copiosa di tutti i beni, fu già una giovane donna e gentile e assai bella, la qual fu moglie d'un cavaliere assai valoroso e da bene.
E come spesso avviene che s sempre non può l'uomo usare un cibo, ma talvolta disidera di variare; non soddisfaccendo a questa donna molto il suo marito, s'innamorò d'un giovane, il quale Leonetto era chiamato, assai piacevole e costumato, come che di gran nazion non fosse, ed egli similmente s'innamorò di lei; e come voi sapete che rade volte è senza effetto quello che vuole ciascuna delle parti, a dare al loro amor compimento molto tempo non si interpose.
Ora avvenne che, essendo costei bella donna e avvenevole, di lei un cavalier chiamato messer Lambertuccio s'innamorò forte, il quale ella, per ciò che spiacevole uomo e sazievole le parea, per cosa del mondo ad amar lui disporre non si potea.
Ma costui con ambasciate sollicitandola molto, e non valendogli, essendo possente uomo, la mandò minacciando di vituperarla se non facesse il piacer suo.
Per la qual cosa la donna, temendo e conoscendo come fatto era, si condusse a fare il voler suo.
Ed essendosene la donna, che madonna Isabella avea nome, andata, come nostro costume è di state, a stare ad una sua bellissima possessione in contado, avvenne, essendo una mattina il marito di lei cavalcato in alcun luogo per dovere stare alcun giorno, che ella mandò per Leonetto che si venisse a star con lei, il quale lietissimo incontanente v'andò.
Messer Lambertuccio, sentendo il marito della donna essere andato altrove, tutto solo montato a cavallo, a lei se n'andò e picchiò alla porta.
La fante della donna, vedutolo, n'andò incontanente a lei, che in camera era con Leonetto, e chiamatala le disse:
- Madonna, messer Lambertuccio è qua giù tutto solo.
La donna, udendo questo, fu la più dolente femina del mondo; ma, temendol forte, pregò Leonetto che grave non gli fosse il nascondersi alquanto dietro alla cortina del letto, in fino a tanto che messer Lambertuccio se n'andasse.
Leonetto, che non minor paura di lui avea che avesse la donna, vi si nascose; ed ella comandò alla fante che andasse ad aprire a messer Lambertuccio: la quale apertogli, ed egli nella corte smontato d'un suo pallafreno e quello appiccato ivi ad uno arpione, se ne salì suso.
La donna, fatto buon viso e venuta infino in capo della scala, quanto più potè in parole lietamente il ricevette e domandollo quello che egli andasse faccendo.
Il cavaliere, abbracciatala e baciatala, disse:
- Anima mia, io intesi che vostro marito non c'era, sì ch'io mi son venuto a stare alquanto con essovoi.
- E dopo queste parole, entratisene in camera e serratisi dentro, cominciò messer Lambertuccio a prender diletto di lei.
E così con lei standosi, tutto fuori della credenza della donna, avvenne che il marito di lei tornò; il quale quando la fante alquanto vicino al palagio vide, così subitamente corse alla camera della donna e disse:
- Madonna, ecco messer che torna: io credo che egli sia già giù nella corte.
La donna, udendo questo e sentendosi aver due uomini in casa, e conosceva che il cavaliere non si poteva nascondere per lo suo pallafreno che nella corte era, si tenne morta.
Nondimeno, subitamente gittatasi del letto in terra, prese partito, e disse a messer Lambertuccio:
- Messere, se voi mi volete punto di bene e voletemi da morte campare, farete quello che io vi dirò.
Voi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un mal viso e tutto turbato ve n'andrete giù per le scale, e andrete dicendo: - Io fo boto a Dio che io il coglierò altrove; - e se mio marito vi volesse ritenere o di niente vi domandasse, non dite altro che quello che detto v'ho, e montato a cavallo, per niuna cagione seco ristate.
Messer Lambertuccio disse che volentieri; e tirato fuori i coltello, tutto infocato nel viso tra per la fatica durata e per l'ira avuta della tornata del cavaliere, come la donna gl'impose così fece.
Il marito della donna, già nella corte smontato, maravigliandosi del pallafreno e volendo su salire, vide messer Lambertuccio scendere, e maravigliossi e delle parole e del viso di lui, e disse:
- Che è questo messere?
Messer Lambertuccio, messo il piè nella staffa e montato su, non disse altro, se non:
- Al corpo di Dio, io il giugnerò altrove; - e andò via.
Il gentile uomo montato su trovò la donna sua in capo della scala tutta sgomentata e piena di paura, alla quale egli disse:
- Che cosa è questa? Cui va messer Lambertuccio così adirato minacciando?
La donna, tiratasi verso la camera, acciò che Leonetto l'udisse, rispose:
- Messere, io non ebbi mai simil paura a questa.
Qua entro si fuggì un giovane, il quale io non conosco e che esser Lambertuccio col coltello in man seguitava, e trovò per ventura questa camera aperta, e tutto tremante disse: - Madonna, per Dio aiutatemi, ché io non sia nelle braccia vostre morto.
- Io mi levai diritta, e come il voleva domandare chi fosse e che avesse, ed ecco messer Lambertuccio venir su dicendo: - Dove se', traditore? - Io mi parai in su l'uscio della camera, e volendo egli entrar dentro, il ritenni, ed egli in tanto fu cortese che, come vide che non mi piaceva che egli qua entro entrasse, dette molte parole, se ne venne giù come voi vedeste.
Disse allora il marito:
- Donna, ben facesti: troppo ne sarebbe stato gran biasimo, se persona fosse stata qua entro uccisa; e messer Lambertuccio fece gran villania a seguitar persona che qua entro fuggita fosse.
Poi domandò dove fosse quel giovane.
La donna rispose:
- Messere, io non so dove egli si sia nascoso.
Il cavaliere allora disse:
- Ove se'tu? Esci fuori sicuramente.
Leonetto che ogni cosa udita avea, tutto pauroso, come colui che paura aveva avuta da dovero, uscì fuori del luogo dove nascoso s'era.
Disse allora il cavaliere:
- Che hai tu a fare con messer Lambertuccio?
Il giovane rispose:
- Messer, niuna cosa che sia in questo mondo; e per ciò io credo fermamente che egli non sia in buon senno, o che egli m'abbia colto in iscambio; per ciò che, come poco lontano da questo palagio nella strada mi vide, così mise mano al coltello, e disse: - Traditor, tu se'morto.
- Io non mi posi a domandare per che cagione, ma quanto potei cominciai a fuggire e qui me ne venni dove, mercé di Dio e di questa gentil donna, scampato sono.
Disse allora il cavaliere:
- Or via, non aver paura alcuna; io ti porrò a casa tua sano e salvo, e tu poi sappi far cercar quello che con lui hai a fare.
E, come cenato ebbero, fattol montare a cavallo, a Firenze il ne menò, e lasciollo a casa sua.
Il quale, secondo l'ammaestramento della donna avuto, quella sera medesima parlò con messer Lambertuccio occultamente, e sì con lui ordinò, che quantunque poi molte parole ne fossero, mai per ciò il cavalier non s'accorse della beffa fattagli dalla moglie.
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Novella Settima
Lodovico discuopre a madonna Beatrice l'amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi, va e bastona Egano nel giardino.
Questo avvedimento di madonna Isabella da Pampinea raccontato fu da ciascun della brigata tenuto maraviglioso.
Ma Filomena, alla quale il re imposto aveva che secondasse, disse.
Amorose donne, se io non ne sono ingannata, io ve ne credo uno non men bello raccontare, e prestamente.
Voi dovete sapere che in Parigi fu già un gentile uomo fiorentino, il quale per povertà divenuto era mercatante, ed eragli sì bene avvenuto della mercatantia, che egli ne era fatto ricchissimo, e avea della sua donna un figliuol senza più, il quale egli aveva nominato Lodovico.
E perché egli alla nobiltà del padre e non alla mercatantia si traesse, non l'aveva il padre voluto mettere ad alcun fondaco, ma l'avea messo ad essere con altri gentili uomini al servigio del re di Francia, là dove egli assai di be'costumi e di buone cose aveva apprese.
E quivi dimorando, avvenne che certi cavalieri, li quali tornati erano dal Sepolcro, sopravvenendo ad un ragionamento di giovani, nel quale Lodovico era, e udendogli fra sé ragionare delle belle donne di Francia e d'Inghilterra e d'altre parti del mondo, cominciò l'un di loro a dir che per certo di quanto mondo egli aveva cerco e di quante donne vedute aveva mai, una simigliante alla moglie d'Egano de' Galluzzi di Bologna, madonna Beatrice chiamata, veduta non avea di bellezza; a che tutti i compagni suoi, che con lui insieme in Bologna l'avean veduta, s'accordarono.
Le quali cose ascoltando Lodovico, che d'alcuna ancora innamorato non s'era, s'accese in tanto disidero di doverla vedere, che ad altro non poteva tenere il suo pensiere; e del tutto disposto d'andare infino a Bologna a vederla, e quivi ancora dimorare, se ella gli piacesse, fece veduto al padre che al Sepolcro voleva andare; il che con grandissima malagevolezza ottenne.
Postosi adunque nome Anichino, a Bologna pervenne, e, come la fortuna volle, il dì seguente vide questa donna ad una festa, e troppo più bella gli parve assai che stimato non avea; per che, innamoratosi ardentissimamente di lei, propose di mai di Bologna non partirsi se egli il suo amore non acquistasse.
E seco divisando che via dovesse a ciò tenere, ogn'altro modo lasciando stare, avvisò che, se divenir potesse famigliar del marito di lei, il qual molti ne teneva, per avventura gli potrebbe venir fatto quel che egli disiderava.
Venduti adunque i suoi cavalli, e la sua famiglia acconcia in guisa che stava bene, avendo lor comandato che sembiante facessero di non conoscerlo, essendosi accontato con l'oste suo, gli disse che volentier per servidore d'un signore da bene, se alcun ne potesse trovare, starebbe.
Al quale l'oste disse:
- Tu se'dirittamente famiglio da dovere esser caro ad un gentile uomo di questa terra che ha nome Egano, il quale molti ne tiene, e tutti li vuole appariscenti come tu se': io ne gli parlerò.
E come disse così fece; e avanti che da Egano si partisse, ebbe con lui acconcio Anichino; il che quanto più poté esser gli fu caro.
E con Egano dimorando e avendo copia di vedere assai spesso la sua donna, tanto bene e sì a grado cominciò a servire Egano, che egli gli pose tanto amore, che senza lui niuna cosa sapeva fare; e non solamente di sé, ma di tutte le sue cose gli aveva commesso il governo.
Avvenne un giorno che, essendo andato Egano ad uccellare e Anichino rimaso a casa, madonna Beatrice, che dello amor di lui accorta non s'era ancora quantunque seco, lui e'suoi costumi guardando, più volte molto commendato l'avesse e piacessele, con lui si mise a giucare a' scacchi; e Anichino, che di piacerle disiderava, assai acconciamente faccendolo, si lasciava vincere, di che la donna faceva maravigliosa festa.
Ed essendosi da vedergli giucare tutte le femine della donna partite, e soli giucando lasciatigli, Anichino gittò un grandissimo sospiro.
La donna guardatolo disse:
- Che avesti, Anichino? Duolti così che io ti vinco?
- Madonna, - rispose Anichino - troppo maggior cosa che questa non è fu cagion del mio sospiro.
Disse allora la donna:
- Deh dilmi per quanto ben tu mi vuogli.
Quando Anichino si sentì scongiurare - per quanto ben tu mi vuogli - a colei la quale egli sopra ogn'altra cosa amava, egli ne mandò fuori un troppo maggiore che non era stato il primo; per che la donna ancor da capo il ripregò che gli piacesse di dirle qual fosse la cagione de' suoi sospiri.
Alla quale Anichino disse:
- Madonna, io temo forte che egli non vi sia noia, se io il vi dico; e appresso dubito che voi ad altra persona nol ridiciate.
A cui la donna disse:
- Per certo egli non mi sarà grave, e renditi sicuro di questo, che cosa che tu mi dica, se non quanto ti piaccia, io non dirò mai ad altrui.
Allora disse Anichino:
- Poi che voi mi promettete così, e io il vi dirò; - e quasi colle lagrime in sugli occhi le disse chi egli era, quel che di lei aveva udito e dove e come di lei s'era innamorato e come venuto e perché per servidor del marito di lei postosi; e appresso umilemente, se esser potesse, la pregò che le dovesse piacere d'aver pietà di lui, e in questo suo segreto e sì fervente disidero di compiacergli; e che, dove questo far non volesse, che ella, lasciandolo star nella forma nella qual si stava, fosse contenta che egli l'amasse.
O singular dolcezza del sangue bolognese! Quanto se'tu stata sempre da commendare in così fatti casi! Mai né di lagrime né di sospir fosti vaga, e continuamente a' prieghi pieghevole e agli amorosi disideri arrendevol fosti.
Se io avessi degne lode da commendarti, mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia!
La gentil donna, parlando Anichino, il riguardava, e dando piena fede alle sue parole, con sì fatta forza ricevette per li prieghi di lui il suo amore nella mente, che essa altressì cominciò a sospirare, e dopo alcun sospiro rispose:
- Anichino mio dolce, sta di buon cuore; né doni né promesse né vagheggiare di gentile uomo né di signore né d'alcuno altro (ché sono stata e sono ancor vagheggiata da molti) mai potè muovere l'animo mio tanto che io alcuno n'amassi; ma tu m'hai fatta in così poco spazio, come le tue parole durate sono, troppo più tua divenir che io non son mia.
Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor guadagnato, e per ciò io il ti dono, e sì ti prometto che io te ne farò godente avanti che questa notte che viene tutta trapassi.
E acciò che questo abbia effetto, farai che in su la mezza notte tu venghi alla camera mia; io lascerò l'uscio aperto; tu sai da qual parte del letto io dormo; verrai là, e, se io dormissi, tanto mi tocca che io mi svegli, e io ti consolerò di così lungo disio come avuto hai; e acciò che tu questo creda, io ti voglio dare un bacio per arra; - e gittatogli il braccio in collo, amorosamente il baciò, e Anichin lei.
Queste cose dette, Anichin, lasciata la donna, andò a fare alcune sue bisogne, aspettando con la maggior letizia del mondo che la notte sopravvenisse.
Egano tornò da uccellare, e come cenato ebbe, essendo stanco, s'andò a dormire, e la donna appresso, e, come promesso avea, lasciò l'uscio della camera aperto.
Al quale, all'ora che detta gli era stata, Anichin venne, e pianamente entrato nella camera e l'uscio riserrato dentro, dal canto donde la donna dormiva se n'andò, e postale la mano in sul petto, lei non dormente trovò; la quale come sentì Anichino esser venuto, presa la sua mano con amendune le sue e tenendol forte, volgendosi per lo letto tanto fece che Egano che dormiva destò, al quale ella disse:
- Io non ti volli iersera dir cosa niuna, per ciò che tu mi parevi stanco; ma dimmi, se Dio ti salvi, Egano, quale hai tu per lo migliore famigliare e per lo più leale e per colui che più t'ami, di quegli che tu in casa hai?
Rispose Egano:
- Che è ciò, donna, di che tu mi domandi? Nol conosci tu? Io non ho, né ebbi mai alcuno, di cui io tanto mi fidassi o fidi o ami, quant'io mi fido e amo Anichino; ma perché me ne domandi tu?
Anichino, sentendo desto Egano e udendo di sé ragionare, aveva più volte a sé tirata la mano per andarsene, temendo forte non la donna il volesse ingannare; ma ella l'aveva sì tenuto e teneva, che egli non s'era potuto partire né poteva.
La donna rispose ad Egano e disse:
- Io il ti dirò.
Io mi credeva che fosse ciò che tu di'e che egli più fede che alcuno altro ti portasse; ma me ha egli sgannata, per ciò che, quando tu andasti oggi ad uccellare, egli rimase qui, e quando tempo gli parve, non si vergognò di richiedermi che io dovessi, a' suoi piaceri acconsentirmi; e io, acciò che questa cosa non mi bisognasse con troppe pruove mostrarti e per farlati toccare e vedere, risposi che io era contenta e che stanotte, passata mezzanotte, io andrei nel giardino nostro e a piè del pino l'aspetterei.
Ora io per me non intendo d'andarvi; ma, se tu vuogli la fedeltà del tuo famiglio cognoscere, tu puoi leggiermente, mettendoti indosso una delle guarnacche mie e in capo un velo, e andare laggiuso ad aspettare se egli vi verrà, ché son certa del sì.
Egano udendo questo disse:
- Per certo io il convengo vedere; - e levatosi, come meglio seppe al buio, si mise una guarnacca della donna e un velo in capo, e andossen nel giardino e a piè d'un pino cominciò ad attendere Anichino.
La donna, come sentì lui levato e uscito della camera, così si levò e l'uscio di quella dentro serrò.
Anichino, il quale la maggior paura che avesse mai avuta avea, e che quanto potuto avea s'era sforzato d'uscire delle mani della donna e centomila volte lei e il suo amore e sé che fidato se n'era avea maladetto, sentendo ciò che alla fine aveva fatto, fu il più contento uomo che fosse mai; ed essendo la donna tornata nel letto, come ella volle, con lei si spogliò, e insieme presero piacere e gioia per un buono spazio di tempo.
Poi, non parendo alla donna che Anichino dovesse più stare, il fece levar suso e rivestire, e sì gli disse:
- Bocca mia dolce, tu prenderai un buon bastone e andra'tene al giardino, e faccendo sembianti d'avermi richiesta per tentarmi, come se io fossi dessa, dirai villania ad Egano e sonera'mel bene col bastone, per ciò che di questo ne seguirà maraviglioso diletto e piacere.
Anichino levatosi e nel giardino andatosene con un pezzo di saligastro in mano, come fu presso al pino e Egano il vide venire, così levatosi come con grandissima festa riceverlo volesse, gli si faceva incontro.
Al quale Anichin disse:
- Ahi malvagia femina, dunque ci se'venuta, e hai creduto che io volessi o voglia al mio signor far questo fallo? Tu sii la mal venuta per le mille volte!; - e alzato il bastone, lo incominciò a sonare.
Egano, udendo questo e veggendo il bastone, senza dir parola cominciò a fuggire, e Anichino appresso sempre dicendo:
- Via, che Dio vi metta in malanno, rea femina, ché io il dirò domatina ad Egano per certo.
Egano avendone avute parecchie delle buone, come più tosto poté, se ne tornò alla camera; il quale la donna domandò se Anichin fosse al giardin venuto.
Egano disse:
- Così non fosse egli, per ciò che, credendo esso che io fossi te, m'ha con un bastone tutto rotto, e dettami la maggior villania che mai si dicesse a niuna cattiva femina; e per certo io mi maravigliava forte di lui che egli con animo di far cosa che mi fosse vergogna t'avesse quelle parole dette; ma, per ciò che così lieta e festante ti vede, ti volle provare.
Allora disse la donna:
- Lodato sia Iddio, che egli ha me provata con parole e te con fatti, e credo che egli possa dire che io comporti con più pazienzia le parole che tu i fatti non fai.
Ma poi che tanta fede ti porta, si vuole aver caro e fargli onore.
Egano disse:
- Per certo tu di'il vero.
E, da questo prendendo argomento, era in oppinione d'avere la più leal donna e il più fedel servidore che mai avesse alcun gentile uomo.
Per la qual cosa, come che poi più volte con Anichino ed egli e la donna ridesser di questo fatto, Anichino e la donna ebbero assai più agio, di quello per avventura che avuto non avrebbono, a far di quello che loro era diletto e piacere, mentre ad Anichin piacque di dimorar con Egano in Bologna.
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Novella Ottava
Un diviene geloso della moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante venire a lei.
Il marito se n'accorge, e mentre seguita l'amante, la donna mette in luogo di sé nel letto un'altra femina, la quale il marito batte e tagliale le trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania.
Stranamente pareva a tutti madonna Beatrice essere stata maliziosa in beffare il suo marito, e ciascuno affermava dovere essere stata la paura d'Anichino grandissima, quando, tenuto forte dalla donna, l'udì dire che egli d'amore l'aveva richesta; ma poi che il re vide Filomena tacersi, verso Neifile voltosi, disse:
- Dite voi.
La qual, sorridendo prima un poco, cominciò.
Belle donne, gran peso mi resta se io vorrò con una bella novella contentarvi, come quelle che davanti hanno detto contentate v'hanno; del quale con l'aiuto di Dio io spero assai bene scaricarmi.
Dovete dunque sapere che nella nostra città fu già un ricchissimo mercatante chiamato Arriguccio Berlinghieri, il quale scioccamente, sì come ancora oggi fanno tutto 'l dì i mercatanti pensò di volere ingentilire per moglie, e prese una giovane gentil donna male a lui convenientesi, il cui nome fu monna Sismonda.
La quale, per ciò che egli, sì come i mercatanti fanno, andava molto dattorno e poco con lei dimorava, s'innamorò d'un giovane chiamato Ruberto, il quale lungamente vagheggiata l'avea.
E avendo presa sua dimestichezza e quella forse men discretamente usando, per ciò che sommamente le dilettava, avvenne o che Arriguccio alcuna cosa ne sentisse, o come che s'andasse, egli ne diventò il più geloso uom del mondo, e lascionne stare l'andar dattorno e ogni altro suo fatto, e quasi tutta la sua sollicitudine aveva posta in guardar ben costei; né mai addormentato si sarebbe, se lei primieramente non avesse sentita entrar nel letto; per la qual cosa la donna sentiva gravissimo dolore, per ciò che in guisa niuna col suo Ruberto esser poteva.
Or pure, avendo molti pensieri avuti a dover trovare alcun modo d'esser con essolui, e molto ancora da lui essendone sollicitata, le venne pensato di tenere questa maniera: che, con ciò fosse cosa che la sua camera fosse lungo la via, ed ella si fosse molte volte accorta che Arriguccio assai ad addormentarsi penasse, ma poi dormiva saldissimo, avvisò di dover far venire Ruberto in su la mezza notte all'uscio della casa sua e d'andargli ad aprire e a starsi alquanto con essolui mentre il marito dormiva forte.
E a fare che ella il sentisse quando venuto fosse, in guisa che persona non se ne accorgesse, divisò di mandare uno spaghetto fuori della finestra della camera, il quale con l'un de' capi vicino alla terra aggiugnesse, e l'altro capo mandatol basso infin sopra 'l palco e conducendolo al letto suo, quello sotto i panni mettere, e quando essa nel letto fosse, legarlosi al dito grosso del piede.
E appresso, mandato questo a dire a Ruberto, gl'impose che, quando venisse, dovesse lo spago tirare, ed ella, se il marito dormisse, il lascerebbe andare e andrebbegli ad aprire; e s'egli non dormisse, ella il terrebbe fermo e tirerebbelo a sé, acciò che egli non aspettasse: la qual cosa piacque a Ruberto, e assai volte andatovi, alcuna gli venne fatto d'esser con lei, e alcuna no.
Ultimamente, continuando costoro questo artificio così fatto, avvenne una notte che, dormendo la donna e Arriguccio stendendo il piè per lo letto, gli venne questo spago trovato; per che, postavi la mano e trovatolo al dito della donna legato, disse seco stesso: - Per certo questo dee essere qualche inganno.
- E avvedutosi poi che lo spago usciva fuori per la finestra, l'ebbe per fermo; per che, pianamente tagliatolo dal dito della donna, al suo il legò, e stette attento per vedere quel che questo volesse dire.
Né stette guari che Ruberto venne, e tirato lo spago, come usato era, Arriguccio si sentì, e non avendoselo ben saputo legare, e Ruberto avendo tirato forte ed essendogli lo spago in man venuto, intese di doversi aspettare, e così fece.
Arriguccio, levatosi prestamente e prese sue armi, corse all'uscio, per dover vedere chi fosse costui, e per fargli male.
Ora era Arriguccio, con tutto che fosse mercatante, un fiero e un forte uomo; e giunto all'uscio e non aprendolo soavemente come soleva far la donna, e Ruberto che aspettava sentendolo, s'avvisò esser quello che era, cioè che colui che l'uscio apriva fosse Arriguccio; per che prestamente cominciò a fuggire, e Arriguccio a seguitarlo.
Ultimamente, avendo Ruberto un gran pezzo fuggito e colui non cessando di seguitarlo, essendo altressì Ruberto armato, tirò fuori la spada e rivolsesi, e incominciarono l'uno a volere offendere e l'altro a difendersi.
La donna, come Arriguccio aprì la camera, svegliatasi e trovatosi tagliato lo spago dal dito, incontanente s'accorse che 'l suo inganno era scoperto; e sentendo Arriguccio esser corso dietro a Ruberto, prestamente levatasi, avvisandosi ciò che doveva potere avvenire, chiamò la fante sua, la quale ogni cosa sapeva, e tanto la predicò, che ella in persona di sé nel suo letto la mise, pregandola che, senza farsi conoscere, quel le busse pazientemente ricevesse che Arriguccio le desse, per ciò che ella ne le renderebbe sì fatto merito, che ella non avrebbe cagione donde dolersi.
E spento il lume che nella camera ardeva, di quella s'uscì, e nascosa in una parte della casa cominciò ad aspettare quello che dovesse avvenire.
Essendo tra Arriguccio e Ruberto la zuffa, i vicini della contrada, sentendola e levatisi, cominciarono loro a dir male; e Arriguccio, per tema di non esser conosciuto, senza aver potuto sapere chi il giovane si fosse o d'alcuna cosa offenderlo, adirato e di mal talento, lasciatolo stare, se ne tornò verso la casa sua; e pervenuto nella camera adiratamente cominciò a dire:
- Ove se'tu, rea femina? Tu hai spento il lume perché io non ti truovi, ma tu l'hai fallita.
E andatosene al letto, credendosi la moglie pigliare, prese la fante, e quanto egli potè menare le mani e'piedi, tante pugna e tanti calci le diede, che tutto il viso l'ammaccò; e ultimamente le tagliò i capegli, sempre dicendole la maggior villania che mai a cattiva femina si dicesse.
La fante piagneva forte, come colei che aveva di che; e ancora che ella alcuna volta dicesse: - Ohimè, mercé per Dio; oh, non più; - era sì la voce dal pianto rotta, e Arriguccio impedito dal suo furore, che discerner non poteva più quella esser d'un'altra femina che della moglie
Battutala adunque di santa ragione e tagliatile i capegli, come dicemmo, disse:
- Malvagia femina, io non intendo di toccarti altramenti, ma io andrò per li tuoi fratelli e dirò loro le tue buone opere; e appresso che essi vengan per te e faccianne quello che essi credono che loro onor sia, e menintene; ché per certo in questa casa non starai tu mai più.
E così detto, uscito della camera, la serrò di fuori e andò tutto sol via.
Come monna Sismonda, che ogni cosa udita aveva, sentì il marito essere andato via, così, aperta la camera e racceso il lume, trovò la fante sua tutta pesta che piagneva forte; la quale, come poté il meglio, racconsolò, e nella camera di lei la rimise, dove poi chetamente fattala servire e governare, sì di quello d'Arriguccio medesimo la sovvenne che ella si chiamò per contenta.
E come la fante nella sua camera rimessa ebbe, così prestamente il letto della sua rifece, e quella tutta racconciò e rimise in ordine, come se quella notte niuna persona giaciuta vi fosse, e raccese la lampana e sé rivestì e racconciò, come se ancora al letto non si fosse andata; e accesa una lucerna e presi suoi panni, in capo della scala si pose a sedere, e cominciò a cucire e ad aspettare quello a che il fatto dovesse riuscire.
Arriguccio, uscito di casa sua, quanto più tosto potè n'andò alla casa de' fratelli della moglie, e quivi tanto picchiò che fu sentito e fugli aperto.
Li fratelli della donna, che eran tre, e la madre di lei, sentendo che Arriguccio era, tutti si levarono, e fatto accendere de' lumi vennero a lui e domandaronlo quello che egli a quella ora e così solo andasse cercando.
A' quali Arriguccio, cominciandosi dallo spago che trovato aveva legato al dito del piè di monna Sismonda, infino all'ultimo di ciò che trovato e fatto avea, narrò loro; e per fare loro intera testimonianza di ciò che fatto avesse, i capelli che alla moglie tagliati aver credeva lor pose in mano, aggiugnendo che per lei venissero e quel ne facessero che essi credessero che al loro onore appartenesse, per ciò che egli non intendeva di mai più in casa tenerla.
I fratelli della donna, crucciati forte di ciò che udito avevano e per fermo tenendolo, contro a lei inanimati, fatti accender de' torchi, con intenzione di farle un mal giuoco, con Arriguccio si misero in via e andaronne a casa sua.
Il che veggendo la madre di loro, piagnendo gl'incominciò a seguitare, or l'uno e or l'altro pregando che non dovessero queste cose così subitamente credere, senza vederne altro o saperne; per ciò che il marito poteva per altra cagione esser crucciato con lei e averle fatto male, e ora apporle questo per iscusa di sé; dicendo ancora che ella si maravigliava forte come ciò potesse essere avvenuto, per ciò che ella conosceva ben la sua figliuola, sì come colei che infino da piccolina l'aveva allevata; e molte altre parole simiglianti.
Pervenuti adunque a casa d'Arriguccio ed entrati dentro, cominciarono a salir le scale.
Li quali monna Sismonda sentendo venire, disse:
- Chi è là?
Alla quale l'un de' fratelli rispose:
- Tu il saprai bene, rea femina, chi è.
Disse allora monna Sismonda:
- Ora che vorrà dir questo? Domine, aiutaci.
- E levatasi in piè disse:
- Fratelli miei, voi siate i benvenuti; che andate voi cercando a questa ora quincentro tutti e tre?
Costoro, avendola veduta a sedere e cucire e senza alcuna vista nel viso d'essere stata battuta, dove Arriguccio aveva detto che tutta l'aveva pesta, alquanto nella prima giunta si maravigliarono e rifrenarono l'impeto della loro ira, e domandaronla come stato fosse quello di che Arriguccio di lei si doleva, minacciandola forte se ogni cosa non dicesse loro.
La donna disse:
- Io non so ciò che io mi vi debba dire, né di che Arriguccio di me vi si debba esser doluto.
Arriguccio, vedendola, la guatava come smemorato, ricordandosi che egli l'aveva dati forse mille punzoni per lo viso e graffiatogliele e fattole tutti i mali del mondo, e ora la vedeva come se di ciò niente fosse stato.
In brieve i fratelli le dissero ciò che Arriguccio loro aveva detto, e dello spago e delle battiture e di tutto.
La donna, rivolta ad Arriguccio, disse:
- Ohimè, marito mio, che è quel ch'io odo? Perché fai tu tener me rea femina con tua gran vergogna, dove io non sono, e te malvagio uomo e crudele di quello che tu non se'? E quando fostù questa notte più in questa casa, non che con meco? O quando mi battesti tu? Io per me non me ne ricordo.
Arriguccio cominciò a dire:
- Come, rea femina, non ci andammo noi iersera al letto insieme? Non ci tornai io, avendo corso dietro all'amante tuo? Non ti diedi io di molte busse, e taglia'ti i capegli?
La donna rispose:
- In questa casa non ti coricasti tu iersera.
Ma lasciamo stare di questo, ché non ne posso altra testimonianza fare che le mie vere parole, e veniamo a quello che tu di', che mi battesti e tagliasti i capegli.
Me non battestù mai, e quanti n'ha qui e tu altressì mi ponete mente se io ho segno alcuno per tutta la persona di battitura; né ti consiglierei che tu fossi tanto ardito che tu mano addosso mi ponessi, ché, alla croce di Dio, io ti sviserei.
Né i capegli altressì mi tagliasti, che io sentissi o vedessi; ma forse il facesti che io non me n'avvidi: lasciami vedere se io gli ho tagliati o no.
E, levatisi suoi veli di testa, mostrò che tagliati non gli avea, ma interi.
Le quali cose e vedendo e udendo i fratelli e la madre, cominciarono verso d'Arriguccio a dire:
- Che vuoi tu dire, Arriguccio? Questo non è già quello che tu ne venisti a dire che avevi fatto; e non sappiam noi come tu ti proverrai il rimanente.
Arriguccio stava come trasognato e voleva pur dire; ma, veggendo che quello ch'egli credea poter mostrare non era così, non s'attentava di dir nulla.
La donna, rivolta verso i fratelli, disse:
- Fratei miei, io veggio che egli è andato cercando che io faccia quello che io non volli mai fare, cioè ch'io vi racconti le miserie e le cattività sue, e io il farò.
Io credo fermamente che ciò che egli v'ha detto gli sia intervenuto e abbial fatto; e udite come.
Questo valente uomo, al qual voi nella mia mala ora per moglie mi deste, che si chiama mercatante e che vuole esser creduto e che dovrebbe esser più temperato che uno religioso e più onesto che una donzella, son poche sere che egli non si vada inebbriando per le taverne, e or con questa cattiva femina e or con quella rimescolando; e a me si fa infino a mezza notte e talora infino a matutino aspettare, nella maniera che mi trovaste.
Son certa che, essendo bene ebbro, si mise a giacere con alcuna sua trista, e a lei destandosi trovò lo spago al piede e poi fece tutte quelle sue gagliardie che egli dice, e ultimamente tornò a lei e battella e tagliolle i capegli; e non essendo ancora ben tornato in sé, si credette, e son certa che egli crede ancora, queste cose aver fatte a me; e se voi il porrete ben mente nel viso, egli è ancora mezzo ebbro.
Ma tuttavia, che che egli s'abbia di me detto, io non voglio che voi il vi rechiate se non come da uno ubriaco; e poscia che io gli perdono io, gli perdonate voi altressì.
La madre di lei, udendo queste cose, cominciò a fare romore e a dire:
- Alla croce di Dio, figliuola mia, cotesto non si votrebbe fare; anzi si vorrebbe uccidere questo can fastidioso e sconoscente, ché egli non ne fu degno d'avere una figliuola fatta come se'tu.
Frate, bene sta!; Basterebbe se egli t'avesse ricolta del fango.
Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle parole di un mercantuzzo di feccia d'asino, che venutici di contado e usciti delle troiate, vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e con ]a penna in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de' gentili uomini e delle buone donne per moglie, e fanno arme e dicono: - I' son de' cotali - e - quei di casa mia fecer così.
- Ben vorrei che'miei figliuoli n'avesser seguito il mio consiglio, ché ti potevano così orrevolmente acconciare in casa i conti Guidi con un pezzo di pane, ed essi vollon pur darti a questa bella gioia, che, dove tu se'la miglior figliuola di Firenze e la più onesta, egli non s'è vergognato di mezza notte di dir che tu sii puttana, quasi noi non ti conoscessimo; ma, alla fè di Dio, se me ne fosse creduto, se ne gli darebbe sì fatta gastigatoia che gli putirebbe.
E, rivolta a' figliuoli, disse:
- Figliuoli miei, io il vi dicea bene che questo non doveva potere essere.
Avete voi udito come il buono vostro cognato tratta la sirocchia vostra? Mercatantuolo di quattro denari che egli è! Ché, se io fossi come voi, avendo detto quello che egli ha di lei e faccendo quello che egli fa, io non mi terrei mai né contenta né appagata, se io nollo levassi di terra; e se io fossi uomo come io son femina, io non vorrei che altri ch'io se ne 'mpacciasse.
Domine, fallo tristo: ubriaco doloroso che non si vergogna!
I giovani, vedute e udite queste cose, rivoltisi ad Arriguccio, gli dissero la maggior villania che mai a niun cattivo uom si dicesse; e ultimamente dissero:
- Noi ti perdoniam questa si come ad ebbro; ma guarda che per la vita tua da quinci innanzi simili novelle noi non sentiamo più, ché per certo, se più nulla ce ne viene agli orecchi, noi ti pagheremo di questa e di quella; - e così detto, se n'andarono.
Arriguccio, rimaso come uno smemorato, seco stesso non sappiendo se quello che fatto avea era stato vero o s'egli aveva sognato, senza più farne parola, lasciò la moglie in pace.
La qual, non solamente colla sua sagacità fuggì il pericol sopra stante ma s'aperse la via a poter fare nel tempo avvenire ogni suo piacere, senza paura alcuna più aver del marito.
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Novella Nona
Lidia moglie di Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il possa, le chiede tre cose, le quali ella gli fa tutte; e oltre a questo in presenza di Nicostrato si sollazza con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto.
Tanto era piaciuta la novella di Neifile, che né di ridere né di ragionar di quella si potevano le donne tenere, quantunque il re più volte silenzio loro avesse imposto, avendo comandato a Panfilo che la sua dicesse.
Ma pur, poi che tacquero, così Panfilo incominciò.
Io non credo, reverende donne, che niuna cosa sia, quantunque sia grave e dubbiosa, che a far non ardisca chi ferventemente ama.
La qual cosa quantunque in assai novelle sia stato dimostrato, nondimeno io il mi credo molto più, con una che dirvi intendo, mostrare, dove udirete d'una donna, alla qua le nelle sue opere fu troppo più favorevole la fortuna, che la ragione avveduta; e per ciò non consiglierei io alcuna che dietro alle pedate di colei, di cui dire intendo, s'arrischiasse d'andare, per ciò che non sempre è la fortuna in un modo disposta, né sono al mondo tutti gli uomini abbagliati igualmente.
In Argo, antichissima città di Grecia, per li suoi passati re molto più famosa che grande, fu già uno nobile uomo, il quale appellato fu Nicostrato, a cui già vicino alla vecchiezza la fortuna concedette per moglie una gran donna, non meno ardita che bella, detta per nome Lidia.
Teneva costui, sì come nobile uomo e ricco, molta famiglia e cani e uccelli, e grandissimo diletto prendea nelle cacce; e aveva tra gli altri suoi famigliari un giovinetto leggiadro e adorno e bello della persona e destro a qualunque cosa avesse voluta fare, chiamato Pirro; il quale Nicostrato oltre ad ogni altro amava e più di lui si fidava.
Di costui Lidia s'innamorò forte, tanto che né dì né notte in altra parte che con lui aver poteva il pensiere; del quale amore, o che Pirro non s'avvedesse o non volesse, niente mostrava se ne curasse, di che la donna intollerabile noia portava nell'animo.
E disposta del tutto di fargliele sentire, chiamò a sé una sua cameriera nomata Lusca, della quale ella si confidava molto, e sì le disse:
- Lusca, li benefici li quali tu hai da me ricevuti ti debbono fare a me obediente e fedele; e per ciò guarda che quello che io al presente ti dirò niuna persona senta giammai se non colui al quale da me ti fia imposto.
Come tu vedi, Lusca, io son giovane e fresca donna, e piena e copiosa di tutte quelle cose che alcuna può disiderare; e brievemente, fuor che d'una, non mi posso rammaricare, e questa è che gli anni del mio marito son troppi, se co' miei si misurano, per la qual cosa di quello che le giovani donne prendono più piacere io vivo poco contenta; e pur come l'altre disiderandolo, è buona pezza che io diliberai meco di non volere, se la fortuna m'è stata poco amica in darmi così vecchio marito, essere io nimica di me medesima in non saper trovar modo a' miei diletti e alla mia salute; e per avergli così compiuti in questo come nell'altre cose, ho per partito preso di volere, sì come di ciò più degno che alcun altro, che il nostro Pirro co' suoi abbracciamenti gli supplisca, e ho tanto amore in lui posto, che io non sento mai bene se non tanto quanto io il veggio o di lui penso; e se io senza indugio non mi ritruovo seco, per certo io me ne credo morire.
E per ciò, se la mia vita t'è cara, per quel modo che miglior ti parrà, il mio amore gli significherai e sì 'l pregherai da mia parte che gli piaccia di venire a me quando tu per lui andrai.
La cameriera disse di farlo volentieri; e come prima tempo e luogo le parve, tratto Pirro da parte, quanto seppe il meglio l'ambasciata gli fece della sua donna.
La qual cosa udendo Pirro, si maravigliò forte, sì come colui che mai d'alcuna cosa avveduto non s'era, e dubitò non la donna ciò facesse dirgli per tentarlo; per che subito e ruvidamente rispose:
- Lusca, io non posso credere che queste parole vengano dalla mia donna, e per ciò guarda quel che tu parli; e se pure da lei venissero, non credo che con l'animo dir te le faccia; e se pur con l'animo dir le facesse, il mio signore mi fa più onore che io non vaglio; io non farei a lui sì fatto oltraggio per la vita mia; e però guarda che tu più di sì fatte cose non mi ragioni.
La Lusca, non sbigottita per lo suo rigido parlare, gli disse:
- Pirro, e di queste e d'ogn'altra cosa che la mia donna m'imporrà ti parlerò io quante volte ella il mi comanderà, o piacere o noia ch'egli ti debbia essere; ma tu se' una bestia.
E turbatetta con le parole di Pirro se ne tornò alla donna, la quale udendole disiderò di morire, e dopo alcun giorno riparlò alla cameriera e disse:
- Lusca, tu sai che per lo primo colpo non cade la quercia; per che a me pare che tu da capo ritorni a colui che in mio pregiudicio nuovamente vuol divenir leale, e, prendendo tempo convenevole, gli mostra interamente il mio ardore e in tutto t'ingegna di far che la cosa abbia effetto; però che, se così s'intralasciasse, io ne morrei ed egli si crederebbe esser stato tentato; e dove il suo amor cerchiamo, ne seguirebbe odio.
La cameriera confortò la donna, e cercato di Pirro, il trovò lieto e ben disposto, e sì gli disse:
- Pirro, io ti mostrai, pochi dì sono, in quanto fuoco la tua donna e mia stea per l'amor che ella ti porta, e ora da capo te ne rifò certo, che, dove tu in su la durezza che l'altrieri dimostrasti dimori, vivi sicuro che ella viverà poco; per che io ti priego che ti piaccia di consolarla del suo disiderio; e dove tu pure in su la tua ostinazione stessi duro, là dove io per molto savio t'aveva, io t'avrò per uno scioccone.
Che gloria ti può egli esser maggiore che una così fatta donna, così bella, così gentile e così ricca, te sopra ogni altra cosa ami? Appresso questo, quanto ti puo'tu conoscere alla fortuna obligato, pensando che ella t'abbia parata dinanzi così fatta cosa, e a' disideri della tua giovinezza atta, e ancora un così fatto rifugio a' tuoi bisogni! Qual tuo pari conosci tu che per via di diletto meglio stea che starai tu, se tu sarai savio? Quale altro troverai tu che in arme, in cavalli, in robe e in denari possa star come tu starai, volendo il tuo amor concedere a costei?
Apri adunque l'animo alle mie parole e in te ritorna; e ricordati che una volta senza più suole avvenire che la Fortuna si fa altrui incontro col viso lieto e col grembo aperto; la quale chi allora non sa ricevere, poi, trovandosi povero e mendico, di sé e non di lei s'ha a rammaricare.
E oltre a questo non si vuol quella lealtà tra'servidori usare e'signori, che tra gli amici e pari si conviene; anzi gli deono così i servidori trattare, in quel che possono, come essi da loro trattati sono.
Speri tu, se tu avessi o bella moglie o madre o figliuola o sorella che a Nicostrato piacesse, che egli andasse la lealtà ritrovando che tu servar vuoi a lui della sua donna? Sciocco se' se tu 'l credi: abbi di certo, se le lusinghe e'prieghi non bastassono, che che ne dovesse a te parere, e'vi si adoperrebbe la forza.
Trattiamo adunque loro e le lor cose come essi noi e le nostre trattano.
Usa il beneficio della Fortuna; non la cacciare, falleti incontro e lei vegnente ricevi, ché per certo, se tu nol fai, lasciamo stare la morte la quale senza fallo alla tua donna ne seguirà, ma tu ancora te ne penterai tante volte che tu ne vorrai morire.
Pirro, il qual più fiate sopra le parole che la Lusca dette gli avea avea ripensato, per partito avea preso che, se ella più a lui ritornasse, di fare altra risposta e del tutto recarsi a compiacere alla donna, dove certificar si potesse che tentato non fosse; e per ciò rispose:
- Vedi, Lusca, tutte le cose che tu mi di'io le conosco vere, ma io conosco d'altra parte il mio signore molto savio e molto avveduto, e ponendomi tutti i suoi fatti in mano, io temo forte che Lidia con consiglio e voler di lui questo non faccia per dovermi tentare; e per ciò, dove tre cose ch'io domanderò voglia fare a chiarezza di me, per certo niuna cosa mi comanderà poi che io prestamente non faccia.
E quelle tre cose che io voglio son queste: primieramente che in presenzia di Nicostrato ella uccida il suo buono sparviere; appresso ch'ella mi mandi una ciocchetta della barba di Nicostrato; e ultimamente un dente di quegli di lui medesimo de' migliori.
Queste cose parvono alla Lusca gravi e alla donna gravissime; ma pure Amore, (che è buono confortatore e gran maestro di consigli, le fece diliberar di farlo, e per la sua cameriera gli mandò dicendo che quello che egli aveva addimandato pienamente fornirebbe, e tosto; e oltre a ciò, per ciò che egli così savio reputava Nicostrato, disse che in presenzia di lui con Pirro si sollazzerebbe e a Nicostrato farebbe credere che ciò non fosse vero.
Pirro adunque cominciò ad aspettare quello che far dovesse la gentil donna; la quale, avendo ivi a pochi dì Nicostrato dato un gran desinare, sì come usava spesse volte di fare, a certi gentili uomini, ed essendo già levate le tavole, vestita d'uno sciamito verde e ornata molto, e uscita della sua camera, in quella sala venne dove costoro erano, e veggente Pirro e ciascuno altro, se n'andò alla stanga sopra la quale lo sparviere era cotanto da Nicostrato tenuto caro, e scioltolo, quasi in mano sel volesse levare, e presolo per li geti, al muro il percosse e ucciselo.
E gridando verso lei Nicostrato: - Ohimè, donna, che hai tu fatto? - niente a lui rispose; ma, rivolta a' gentili uomini che con lui avevan mangiato, disse: - Signori, mal prenderei vendetta d'un re che mi facesse dispetto, se d'uno sparvier non avessi ardir di pigliarla.
Voi dovete sapere che questo uccello tutto il tempo da dover essere prestato dagli uomini al piacer delle donne lungamente m'ha tolto; per ciò che, sì come l'aurora suole apparire, così Nicostrato s'è levato, e salito a cavallo col suo sparviere in mano n'è andato alle pianure aperte a vederlo volare; e io, qual voi mi vedete, sola e mal contenta nel letto mi sono rimasa; per la qual cosa ho più volte avuta voglia di far ciò che io ho ora fatto, né altra cagione m'ha di ciò ritenuta se non l'aspettar di farlo in presenzia d'uomini che giusti giudici sieno alla mia querela, sì come io credo che voi sarete.
I gentili uomini che l'udivano, credendo non altramente esser fatta la sua affezione a Nicostrato che sonasser le parole, ridendo ciascuno e verso Nicostrato rivolti che turbato era cominciarono a dire:
- Deh! come la donna ha ben fatto a vendicare la sua ingiuria con la morte dello sparviere! - e con diversi motti sopra così fatta materia, essendosi già la donna in camera ritornata, in riso rivolsero il cruccio di Nicostrato.
Pirro, veduto questo, seco medesimo disse: - Alti principii ha dati la donna a' miei felici amori; faccia Iddio che ella perseveri.
-
Ucciso adunque da Lidia lo sparviere, non trapassar molti giorni che, essendo ella nella sua camera insieme con Nicostrato, faccendogli carezze, con lui cominciò a cianciare, ed egli per sollazzo alquanto tiratala per li capelli, le diè cagione di mandare ad effetto la seconda cosa a lei domandata da Pirro; e prestamente lui per un picciolo lucignoletto preso della sua barba e ridendo, sì forte il tirò che tutto del mento gliele divelse.
Di che ramaricandosi Nicostrato, ella disse:
- Or che avesti, che fai cotal viso per ciò che io t'ho tratti forse sei peli della barba? Tu non sentivi quel ch'io, quando tu mi tiravi testeso i capelli.
E così d'una parola in una altra continuando il lor sollazzo, la donna cautamente guardò la ciocca della barba che tratta gli avea, e il dì medesimo la mandò al suo caro amante.
Della terza cosa entrò la donna in più pensiero; ma pur, sì come quella che era d'alto ingegno e Amor la faceva vie più, s'ebbe pensato che modo tener dovesse a darle compimento.
E avendo Nicostrato due fanciulli datigli da' padri loro acciò che in casa sua, per ciò che gentili uomini erano, apparassono alcun costume, dei quali, quando Nicostrato mangiava, l'uno gli tagliava innanzi e l'altro gli dava bere, fattigli chiamare amenduni, fece lor vedere che la bocca putiva loro e ammaestrogli che quando a Nicostrato servissono, tirassono il capo indietro il più che potessono, né questo mai dicessero a persona.
I giovanetti, credendole, cominciarono a tenere quella maniera che la donna aveva lor mostrata.
Per che ella una volta domandò Nicostrato:
- Se'ti tu accorto di ciò che questi fanciulli fanno quando ti servono?
Disse Nicostrato:
- Mai sì, anzi gli ho io voluti domandare perché il facciano.
A cui la donna disse:
- Non fare, ché io il ti so dire io, e holti buona pezza taciuto per non fartene noia; ma ora che io m'accorgo che altri comincia ad avvedersene, non è più da celarloti.
Questo non ti avviene per altro, se non che la bocca ti pute fieramente, e non so qual si sia la cagione, per ciò che ciò non soleva essere; e questa è bruttissima cosa, avendo tu ad usare con gentili uomini; e per ciò si vorrebbe veder modo di curarla.
Disse allora Nicostrato:
- Che potrebbe ciò essere? Avrei io in bocca dente niun guasto?
A cui Lidia disse:
- Forse che sì; - e menatolo ad una finestra, gli fece aprire la bocca, e poscia che ella ebbe d'una patte e d'altra riguardato, disse:
- O Nicostrato, e come il puoi tu tanto aver patito? Tu n'hai uno da questa parte, il quale, per quel che mi paia, non solamente è magagnato, ma egli è tutto fracido, e fermamente, se tu il terrai guari in bocca, egli guasterà quegli che son da lato; per che io ti consiglierei che tu nel cacciassi fuori, prima che l'opera andasse più innanzi.
Disse allora Nicostrato:
- Da poi che egli ti pare, ed egli mi piace; mandisi senza più indugio per un maestro il qual mel tragga.
Al quale la donna disse:
- Non piaccia a Dio che qui per questo venga maestro; e'mi pare che egli stea in maniera, che senza alcun maestro io medesima tel trarrò ottimamente.
E d'altra parte questi maestri son sì crudeli a far questi servigi, che il cuore nol mi patirebbe per niuna maniera di vederti o di sentirti tra le mani a niuno; e per ciò del tutto io voglio fare io medesima; ché almeno, se egli ti dorrà troppo, ti lascerò io incontanente, quello che il maestro non farebbe.
Fattisi adunque venire i ferri da tal servigio e mandato fuori della camera ogni persona, solamente seco la Lusca ritenne; e dentro serratesi, fece distender Nicostrato sopra un desco, e messegli le tanaglie in bocca, e preso uno de' denti suoi, quantunque egli forte per dolor gridasse, tenuto fermamente dall'una, fu dall'altra per viva forza un dente tirato fuori; e quel serbatosi, e presone un altro il quale sconciamente magagnato Lidia aveva in mano, a lui doloroso e quasi mezzo morto il mostrarono, dicendo:
- Vedi quello che tu hai tenuto in bocca già è cotanto.
Egli credendoselo, quantunque gravissima pena sostenuta avesse e molto se ne ramaricasse, pur, poi che fuor n'era, gli parve esser guarito; e con una cosa e con altra riconfortato, essendo la pena alleviata, s'uscì della camera.
La donna, preso il dente, tantosto al suo amante il mandò; il quale già certo del suo amore, sé ad ogni suo piacere offerse apparecchiato.
La donna, disiderosa di farlo più sicuro, e parendole ancora ogn'ora mille che con lui fosse, volendo quello che profferto gli avea attenergli, fatto sembiante d'essere inferma ed essendo un dì appresso mangiare da Nicostrato visitata, non veggendo con lui altri che Pirro, il pregò per alleggiamento della sua noia, che aiutar la dovessero ad andare infino nel giardino.
Per che Nicostrato dall'un de' lati e Pirro dall'altro presala, nel giardin la portarono e in un pratello a piè d'un bel pero la posarono; dove stati alquanto sedendosi, disse la donna, che già aveva fatto informar Pirro di ciò che avesse a fare:
- Pirro, io ho gran disiderio d'aver di quelle pere, e però montavi suso e gittane giù alquante.
Pirro, prestamente salitovi, cominciò a gittar giù delle pere; e mentre le gittava cominciò a dire:
- Eh, messere, che è ciò che voi fate? E voi, madonna, come non vi vergognate di sofferirlo in mia presenza? Credete voi che io sia cieco? Voi eravate pur testé così forte malata; come siete voi così tosto guerita che voi facciate tai cose? Le quali se pur far volete, voi avete tante belle camere; perché non in alcuna di quelle a far queste cose ve n'andate? E' sarà più onesto che farlo in mia presenza.
La donna, rivolta al marito, disse:
- Che dice Pirro? Farnetica egli?
Disse allora Pirro:
- Non farnetico no, madonna; non credete voi che i veggia?
Nicostrato si maravigliava forte, e disse:
- Pirro, veramente io credo che tu sogni.
Al quale Pirro rispose:
- Signor mio, non sogno né mica, né voi anche non sognate; anzi vi dimenate ben sì che, se così si dimenasse questo pero, egli non ce ne rimarrebbe su niuna.
Disse la donna allora:
- Che può questo essere? Potrebbe egli esser vero che gli paresse ver ciò ch'e'dice? Se Dio mi salvi, se io fossi sana come io fu'già, che io vi sarrei suso, per vedere che maraviglie sien queste che costui dice che vede.
Pirro d'in sul pero pur diceva, e continuava queste novelle; al qual Nicostrato disse:
- Scendi giù; - ed egli scese; a cui egli disse: - Che di' tu che vedi?
Disse Pirro:
- Io credo che voi m'abbiate per smemorato o per trasognato; vedeva voi addosso alla donna vostra, poi pur dir mel conviene; e poi discendendo io vi vidi levare e porvi così dove voi siete a sedere.
- Fermamente, - disse Nicostrato - eri tu in questo smemorato, ché noi non ci siamo, poi che in sul pero salisti, punto mossi, se non come tu vedi.
Al qual Pirro disse:
- Perché ne facciam noi quistione? Io vi pur vidi; e se io vi vidi, io vi vidi in sul vostro.
Nicostrato più ogn'ora si maravigliava, tanto che egli disse:
- Ben vo'vedere se questo pero è incantato, e che chi v'è su vegga le maraviglie; - e montovvi su.
Sopra il quale come egli fu, la donna insieme con Pirro s'incominciarono a sollazzare; il che Nicostrato veggendo cominciò a gridare:
- Ahi rea femina, che è quel che tu fai? E tu Pirro, di cui io più mi fidava? - e così dicendo cominciò a scendere del pero.
La donna e Pirro dicevano:
- Noi ci seggiamo - e lui veggendo discendere, a seder si tornarono in quella guisa che lasciati gli avea.
Come Nicostrato fu giù e vide costoro dove lasciati gli avea, così lor cominciò a dir villania.
Al quale Pirro disse:
- Nicostrato, ora veramente confesso io che, come voi diciavate davanti, che io falsamente vedessi mentre fui sopra 'l pero; né ad altro il conosco se non a questo, che io veggio e so che voi falsamente avete veduto.
E che io dica il vero, niun'altra cosa vel mostri, se non l'aver riguardo e pensare a che ora la vostra donna, la quale è onestissima e più savia che altra volendo di tal cosa farvi oltraggio, si recherebbe a farlo davanti agli occhi vostri.
Di me non vo'dire, che mi lascerei prima squartare che io il pur pensassi, non che io il venissi a fare in vostra presenza.
Per che di certo la magagna di questo transvedere dee procedere dal pero; per ciò che tutto il mondo non m'avrebbe fatto discredere che voi qui non foste colla donna vostra carnalmente giaciuto, se io non udissi dire a voi che egli vi fosse paruto che io facessi quello che io so certissimamente che io non pensai, non che io facessi mai.
La donna appresso, che quasi tutta turbata s'era levata in piè, cominciò a dire:
- Sia con la mala ventura, se tu m'hai per sì poco sentita, che, se io volessi attendere a queste tristezze che tu di'che vedevi, io le venissi a fare dinanzi agli occhi tuoi.
Sii certo di questo che qualora volontà me ne venisse, io non verrei qui, anzi mi crederrei sapere essere in una delle nostre camere, in guisa e in maniera che gran cosa mi parrebbe che tu il risapessi giammai.
Nicostrato, al qual vero parea ciò che dicea l'uno e l'altro che essi quivi dinanzi a lui mai a tale atto non si dovessero esser condotti, lasciate stare le parole e le riprensioni di tal maniera, cominciò a ragionar della novità del fatto e del miracolo della vista che così si cambiava a chi su vi montava.
Ma la donna, che della oppinione che Nicostrato mostrava d'avere avuta di lei si mostrava turbata, disse:
- Veramente questo pero non ne farà mai più niuna, né a me né ad altra donna, di queste vergogne, se io potrò; e perciò, Pirro, corri e va e reca una scure, e ad una ora te e me vendica tagliandolo, come che molto meglio sarebbe a dar con essa in capo a Nicostrato, il quale senza considerazione alcuna così tosto si lasciò abbagliar gli occhi dello 'ntelletto; ché, quantunque a quegli che tu hai in testa paresse ciò che tu di, per niuna cosa dovevi nel giudicio della tua mente comprendere o consentire che ciò fosse.
Pirro prestissimo andò per la scure e tagliò il pero; il quale come la donna vide caduto, disse verso Nicostrato:
- Poscia che io veggio abbattuto il nimico della mia onestà, la mia ira è ita via; - e a Nicostrato, che di ciò la pregava, benignamente perdonò, imponendogli che più non gli avvenisse di presummere, di colei che più che sé l'amava, una così fatta cosa giammai.
Così il misero marito schernito con lei insieme e col suo amante nel palagio se ne tornarono, nel quale poi molte volte Pirro di Lidia, ed ella di lui, con più agio presero piacere e di letto.
Dio ce ne dea a noi.
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Novella Decima
Due sanesi amano una donna comare dell'uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori.
Restava solamente al re il dover novellare, il quale, poi che vide le donne racchetate, che del pero tagliato che colpa non avea si dolevano, incominciò.
Manifestissima cosa è che ogni giusto re primo servatore dee essere delle leggi fatte da lui, e se altro ne fa, servo degno di punizione, e non re, si dee giudicare; nel quale peccato e riprensione a me, che vostro re sono, quasi costretto cader con viene.
Egli è il vero che io ieri la legge diedi a' nostri ragionamenti fatti oggi, con intenzione di non voler questo dì il mio privilegio usare; ma soggiacendo con voi insieme a quella, di quello ragionare che voi tutti ragionato avete; ma egli non s solamente è stato raccontato quello che io imaginato avea di raccontare ma sonsi sopra quello tante altre cose e molto più belle dette, che io per me, quantunque la memoria ricerchi, rammentar non mi posso né conoscere che io intorno a sì fatta materia dir potessi cosa che alle dette s'appareggiasse; e per ciò, dovendo peccare nella legge da me medesimo fatta, sì come degno di punizione, infino ad ora ad ogni ammenda che comandata mi fia mi proffero apparecchiato, e al mio privilegio usitato mi tornerò.
E dico che la novella detta da Elissa del compare e della comare, e appresso la bessaggine de' sanesi, hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando stare le beffe agli sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi tirano a dovervi con tare una novelletta di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non si dee, nondimeno sarà in parte piacevole ad ascoltare.
Furono adunque in Siena due giovani popolari, de' quali l'uno ebbe nome Tingoccio Mini e l'altro fu chiamato Meuccio di Tura, e abitavano in porta Salaia, e quasi mai non usavano se non l'un con l'altro, e per quello che paresse s'amavan molto; e andando, come gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito avevano della gloria e della miseria che all'anime di coloro che morivano era, secondo li lor meriti, conceduta nell'altro mondo.
Delle quali cose disiderando di saper certa novella, né trovando il modo, insieme si promisero che qual prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli novelle di quello che egli desiderava; e questo fermarono con giuramento.
Avendosi adunque questa promession fatta, e insieme continuamente usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d'uno Ambruogio Anselmini, che stava in Camporeggi, il qual d'una sua donna chiamata monna Mita aveva avuto un figliuolo.
Il qual Tingoccio, insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna, non ostante il comparatico, s'innamorò di lei; e Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a Tingoccio, se ne innamorò.
E di questo amore l'un si guardava dall'altro, ma non per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per la cattività che a lui medesimo pareva fare d'amare la comare, e sarebbesi vergognato che alcun l'avesse saputo; Meuccio non se ne guardava per questo.
ma perché già avveduto s'era che ella piaceva a Tingoccio.
Laonde egli diceva: - Se io questo gli discuopro, egli prenderà gelosia di me; e potendole ad ogni suo piacere parlare, sì come compare, in ciò che egli potrà le mi metterà in odio, e così mai cosa che mi piaccia di lei io non avrò.
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Ora, amando questi due giovani, come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era più destro il potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare, e con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacere suo; di che Meuccio s'accorse bene; e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non avesse materia né cagione di guastargli o d'impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista di non avvedersene.
Così amando i due compagni, l'uno più felicemente che l'altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò che una infermità ne gli sopravenne, la quale dopo alquanti dì sì l'aggravò forte che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita.
E trapassato, il terzo dì appresso (ché forse prima non aveva potuto) se ne venne, secondo la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual forte dormiva, chiamò.
Meuccio destatosi disse:
- Qual se' tu?
A cui egli rispose:
- Io son Tingoccio, il qual, secondo la promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle dell'altro mondo.
Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse:
- Tu sia il ben venuto, fratel mio; - e poi il domandò se egli era perduto.
Al qual Tingoccio rispose:
- Perdute son le cose che non si ritruovano; e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto?
- Deh, - disse Meuccio - io non dico così ; ma io ti domando se tu se'tra l'anime dannate nel fuoco pennace di ninferno.
A cui Tingoccio rispose:
- Costetto no, ma io son bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto.
Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun de' peccati che di qua si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte.
Poi gli domandò Meuccio s'egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa.
A cui Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dir delle messe e delle orazioni e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là, a cui Meuccio disse di farlo volentieri.
E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo disse:
- Ben che mi ricorda, o Tingoccio: della comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t'è di là data?
A cui Tingoccio rispose:
- Fratel mio, come io giunsi di là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente, il quale mi comandò che io andassi in quel luogo nel quale io purgo in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condennati che io; e stando io tra loro, e ricordandomi di ciò che già fatto avea con la comare e aspettando per quello troppo maggior pena che quella che data m'era, quantunque io fossi in un gran fuoco e molto ardente, tutto di paura tremava.
Il che sentendo un che m'era dal lato, mi disse: - Che hai tu più che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco? - - Oh, - diss'io - amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d'un gran peccato che io feci già.
- Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse.
A cui io dissi: - Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto che io me ne scorticai.
- Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: - Va, sciocco, non dubitare; ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari; - il che io udendo tutto mi rassicurai.
E detto questo, appressandosi il giorno, disse:
- Meuccio, fatti con Dio, ché io non posso più esser con teco; - e subitamente andò via.
Meuccio, avendo udito che di là niuna ragione si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie n'avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio.
Le quali cose se frate Rinaldo avesse saputo, non gli sarebbe stato bisogno d'andare sillogizzando quando convertì a' suoi piaceri la sua buona comare.
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Conclusione
Zeffiro era levato per lo sole che al ponente s'avvicinava, quando il re, finita la sua novella né alcuno altro restandogli a dire, levatasi la corona di testa, sopra il capo la pose alla Lauretta, dicendo:
- Madonna, io vi corono di voi medesima reina della nostra brigata; quello omai che crederete che piacer sia di tutti e consolazione, sì come donna, comanderete; - e riposesi a sedere.
La Lauretta, divenuta reina, si fece chiamare il siniscalco, al quale impose che ordinasse che nella piacevole valle alquanto a migliore ora che l'usato si mettesser le tavole, acciò che poi adagio si potessero al palagio tornare; e appresso ciò che a fare avesse, mentre il suo reggimento durasse, gli divisò.
Quindi, rivolta alla compagnia, disse:
- Dioneo volle ieri che oggi si ragionasse delle beffe che le donne fanno a' mariti; e, se non fosse ch'io non voglio mostrare d'essere di schiatta di can botolo che incontanente si vuol vendicare, io direi che domane si dovesse ragionare delle beffe che gli uomini fanno alle lor mogli.
Ma, lasciando star questo, dico che ciascun pensi di dire di quelle beffe che tutto il giorno, o donna ad uomo, o uomo a donna, o l'uno uomo all'altro si fanno; e credo che in questo sarà non men di piacevol ragionare, che stato sia questo giorno; - e così detto, levatasi in piè, per infino ad ora di cena licenziò la brigata.
Levaronsi adunque le donne e gli uomini parimente, de' quali alcuni scalzi per la chiara acqua cominciarono ad andare, e altri tra'belli e diritti alberi sopra il verde prato s'andavano diportando.
Dioneo e la Fiammetta gran pezza cantarono insieme d'Arcita e di Palemone; e così, vari e diversi diletti pigliando, il tempo infino all'ora della cena con grandissimo piacer trapassarono.
La qual venuta e lungo al pelaghetto a tavola postisi, quivi al canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da un'aura soave che da quelle montagnette dattorno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia cenarono.
E levate le tavole, poi che alquanto la piacevol valle ebber circuita, essendo ancora il sole alto a mezzo vespro, sì come alla loro reina piacque, in verso la loro usata dimora con lento passo ripresero il cammino; e motteggiando e cianciando di ben mille cose, così di quelle che il dì erano state ragionate come d'altre, al bel palagio assai vicino di notte pervennero.
Dove con freschissimi vini e con confetti la fatica del picciol cammin cacciata via, intorno della bella fontana di presente furono in sul danzare, quando al suono della cornamusa di Tindaro e quando d'altri suoni carolando.
Ma alla fine la reina comandò a Filomena che dicesse una canzone, la quale così incominciò:
Deh lassa la mia vita!
Sarà giammai ch'io possa ritornare
donde mi tolse noiosa partita?
Certo io non so, tanto è ' disio focoso
che io porto nel petto,
di ritrovarmi ov'io lassa già fui.
O caro bene, o solo mio riposo,
che 'l mio cuor tien distretto,
deh dilmi tu, ché domandarne altrui
non oso, né so cui,
deh, signor mio, deh fammelo sperare
sì ch'io conforti l'anima smarrita.
I' non so ben ridir qual fu 'l piacere
che sì m'ha infiammata,
ché io non trovo dì né notte loco,
perché l'udire e 'l sentire e 'l vedere,
con forza non usata,
ciascun per sé accese novo foco;
nel qual tutta mi coco,
né mi può altri che tu confortare,
o ritornar la virtù sbigottita.
Deh dimmi s'esser dee, e quando fia,
ch'io ti trovi giammai,
dov'io baciai quegli occhi che m'han morta.
Dimmel, caro mio bene, anima mia
quando tu vi verrai, e, col dir - tosto, - alquanto mi conforta.
Sia la dimora corta
d'ora al venire, e poi lunga allo stare,
ch'io non men curo, sì m'ha Amor ferita.
Se egli avvien che io mai più ti tenga,
non so s'io sarò sciocca,
com'io or fui, a lasciarti partire.
Io ti terrò, e che può sì n'avvenga;
e della dolce bocca
convien ch'io sodisfaccia al mio disire.
D'altro non voglio or dire.
Dunque vien tosto, vienmi ad abbracciare
che 'l pur pensarlo di cantar m'invita.
Estimar fece questa canne a tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per ciò che per le parole di quella pareva che ella più avanti che la vista sola n'avesse sentito, tenendonela più felice, invidia per tali vi furono le ne fu avuta.
Ma poi che la sua canzon fu finita, ricordandosi la reina che il dì seguente era venerdì, così a tutti piacevolmente disse:
- Voi sapete, nobili donne e voi giovani, che domane è quel dì che alla passione del nostro Signore è consecrato, il qual, se ben vi ricorda, noi divotamente celebrammo, essendo reina Neifile, e a' ragionamenti dilettevoli demmo luogo, e il simigliante facemmo del sabato susseguente.
Per che, volendo il buono essemplo datone da Neifile seguitare, estimo che onesta cosa sia, che domane e l'altro dì, come i passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole novellare ci asteniamo, quello a memoria riducendoci che in così fatti giorni per la salute delle nostre anime addivenne.
Piacque a tutti il divoto parlare della loro reina, dalla quale licenziati, essendo già buona pezza di notte passata, tutti s'andarono a riposare.
Finisce la settima giornata del Decameron
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Ottava Giornata
Introduzione alla ottava giornata
Novella prima
Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli, sì gliele dà, e poi in presenzia di lei a Guasparruolo dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
Novella seconda
Il Prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo proverbiando la buona donna.
Novella terza
Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia, ed egli turbato la batte, e a' suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.
Novella quarta
Il proposto di Fiesole ama una donna vedova; non è amato da lei, e credendosi giacer con lei, giace con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo.
Novella quinta
Tre giovani traggono le brache ad un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione.
Novella sesta
Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo con galle di gengiovo e con vernaccia, e a lui ne danno due, l'una dopo l'altra, di quelle del cane confettate in aloè, e pare che l'abbia avuto egli stesso; fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
Novella settima
Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d'altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a' tafani e al sole.
Novella ottava
Due usano insieme; l'uno con la moglie dell'altro si giace; l'altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che l'uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l'un dentro, l'altro con la moglie dell'un si giace.
Novella nona
Maestro Simone medico, da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d'una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi.
Novella decima
Una ciciliana maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato; il quale, sembiante faccendo d'esservi tornato con molta più mercatantia che prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio.
Conclusione dell'ottava giornata
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Introduzione
Comincia l'ottava giornata, nella quale, sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo, o uomo a donna, o l'uno uomo all'altro si fanno.
Già nella sommità de' più alti monti apparivano la domenica mattina i raggi della surgente luce e, ogni ombra partitasi, manifestamente le cose si conosceano, quando la reina levatasi con la sua compagnia, primieramente alquanto su per le rugiadose erbette andarono, e poi in su la mezza terza una chiesetta lor vicina visitata, in quella il divino officio ascoltarono; e a casa tornatisene, poi che con letizia e con festa ebber mangiato, cantarono e danzarono alquanto, e appresso, licenziati dalla reina, chi volle andare a riposarsi potè.
Ma, avendo il sol già passato il cerchio di meriggio, come alla reina piacque, al novellare usato tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento della reina così Neifile cominciò.
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Novella Prima
Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli, sì gliele dà, e poi in presenzia di lei a Guasparruolo dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
Se così ha disposto Iddio che io debba alla presente giornata dare con la mia novella cominciamento, ed el mi piace.
E per ciò, amorose donne, con ciò sia cosa che molto detto si sia delle beffe fatte dalle donne agli uomini, una fattane da uno uomo ad una donna mi piace di raccontarne, non già perché io intenda in quella di biasimare ciò che l'uom fece o di dire che alla donna non fosse bene investito, anzi per commendar l'uomo e biasimare la donna, e per mostrare che anche gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da cui egli credono son beffati; avvegna che, chi volesse più propriamente parlare, quello che io dir debbo non si direbbe beffa, anzi si direbbe merito; per ciò che, con ciò sia cosa che ciascuna donna debba essere onestissima e la sua castità come la sua vita guardare, né per alcuna cagione a contaminarla conducersi; e questo non potendosi così appieno tuttavia, come si converrebbe, per la fragilità nostra; affermo colei esser degna del fuoco la quale a ciò per prezzo si conduce; dove chi per amore, conoscendo le sue forze grandissime, perviene, da giudice non troppo rigido merita perdono, come, pochi dì son passati, ne mostrò Filostrato essere stato in madonna Filippa osservato in Prato.
Fu adunque già in Melano un tedesco al soldo, il cui nome fu Gulfardo, pro'della persona e assai leale a coloro ne'cui servigi si mettea, il che rade volte suole de' tedeschi a venire; e per ciò che egli era nelle prestanze de' denari che fatte gli erano lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo utile ogni quantità di denari gli avrebber prestata.
Pose costui, in Melan dimorando, l'amor suo in una donna assai bella, chiamata madonna Ambruogia, moglie d'un ricco mercatante, che aveva nome Guasparruol Cagastraccio, il quale era assai suo conoscente e amico; e amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare, pregandola che le dovesse piacere d'essergli del suo amor cortese, e che egli era dalla sua parte presto a dover far ciò che ella gli comandasse.
La donna, dopo molte novelle, venne a questa conclusione, che ella era presta di far ciò che a Gulfardo piacesse, dove due cose ne dovesser seguire: l'una, che questo non dovesse mai per lui esser manifestato ad alcuna persona; l'altra, che, con ciò fosse cosa che ella avesse per alcuna sua cosa bisogno di fiorini dugento d'oro, voleva che egli, che ricco uomo era, gliele donasse, e appresso sempre sarebbe al suo servigio.
Gulfardo, udendo la 'ngordigia di costei, sdegnato per la viltà di lei, la quale egli credeva che fosse una valente donna, quasi in odio trasmutò il fervente amore, e pensò di doverla beffare, e mandolle dicendo che molto volentieri e quello e ogn'altra cosa, che egli potesse, che le piacesse; e per ciò mandassegli pure a dire quando ella volesse che egli andasse a lei, ché egli gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun sentirebbe, se non un suo compagno di cui egli si fidava molto e che sempre in sua compagnia andava in ciò che faceva.
La donna, anzi cattiva femina, udendo questo, fu contenta, e mandogli dicendo che Guasparruolo suo marito doveva ivi a pochi dì per sue bisogne andare infino a Genova, e allora ella gliele farebbe assapere e manderebbe per lui.
Gulfardo, quando tempo gli parve, se n'andò a Guasparruolo e sì gli disse:
- Io son per fare un mio fatto, per lo quale mi bisognano fiorini dugento d'oro, li quali io voglio che tu mi presti con quello utile che tu mi suogli prestare degli altri.
Guasparruolo disse che volentieri, e di presente gli annoverò i denari.
Ivi a pochi giorni Guasparruolo andò a Genova, come la donna aveva detto; per la qual cosa la donna mandò a Gulfardo che a lei dovesse venire e recare li dugento fiorin d'oro.
Gulfardo, preso il compagno suo, se n'andò a casa della donna, e trovatala che l'aspettava, la prima cosa che fece, le mise in mano questi dugento fiorin d'oro, veggente il suo compagno, e sì le disse:
- Madonna, tenete questi denari, e daretegli a vostro marito quando serà tornato.
La donna gli prese, e non s'avvide perché Gulfardo dicesse così; ma si credette che egli il facesse, acciò che 'l compagno suo non s'accorgesse che egli a lei per via di prezzo gli desse.
Per che ella disse:
- Io il farò volentieri, ma io voglio vedere quanti sono; - e versatigli sopra una tavola e trovatigli esser dugento, seco forte contenta, gli ripose, e tornò a Gulfardo, e lui nella sua camera menato, non solamente quella volta, ma molte altre, avanti che 'l marito tornasse da Genova, della sua persona gli sodisfece.
Tornato Guasparruolo da Genova, di presente Gulfardo, avendo appostato che insieme con la moglie era, [preso il compagno suo], se n'andò a lui, e in presenza di lei disse:
- Guasparruolo, i denari, cioè li dugento fiorin d'oro che l'altrier mi prestasti, non m'ebber luogo, per ciò che io non pote'fornir la bisogna per la quale gli presi; e per ciò io gli recai qui di presente alla donna tua, e sì gliele diedi; e per ciò dannerai la mia ragione.
Guasparruolo, volto alla moglie, la domandò se avuti gli avea.
Ella, che quivi vedeva il testimonio, nol seppe negare, ma disse:
- Mai sì che io gli ebbi, né me n'era ancora ricordata di dirloti.
Disse allora Guasparruolo:
- Gulfardo, io son contento; andatevi pur con Dio, che io acconcerò bene la vostra ragione.
Gulfardo partitosi, e la donna rimasa scornata diede al marito il disonesto prezzo della sua cattività; e così il sagace amante senza costo godé della sua avara donna.
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Novella Seconda
Il Prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo proverbiando la buona donna.
Commendavano igualmente e gli uomini e le donne ciò che Gulfardo fatto aveva alla 'ngorda melanese, quando la reina a Panfilo voltatasi, sorridendo gl'impose ch'el seguitasse; per la qual cosa Panfilo incominciò.
Belle donne, a me occorre di dire una novelletta contro a coloro li quali continuamente n'offendono senza poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a' preti, li quali sopra le nostre mogli hanno bandita la croce, e par loro non altramenti aver guadagnato il perdono di colpa e di pena, quando una se ne possono metter sotto, che se d'Alessandria avessero il soldano menato legato a Vignone.
Il che i secolari cattivelli non possono a lor fare; come che nelle madri, nelle sirocchie, nell'amiche e nelle figliuole con non meno ardore, che essi le lor mogli assaliscano, vendichino l'ire loro.
E per ciò io intendo raccontarvi uno amorazzo contadino, più da ridere per la conclusione che lungo di parole, del quale ancora potrete per frutto cogliere che a' preti non sia sempre ogni cosa da credere.
Dico adunque che a Varlungo, villa assai vicina di qui, come ciascuna di voi o sa o puote avere udito, fu un valente prete e gagliardo della persona ne'servigi delle donne, il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante parolozze la domenica a piè dell'olmo ricreava i suoi popolani; e meglio le lor donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro prete che prima vi fosse stato, visitava, portando loro della festa e dell'acqua benedetta e alcun moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione.
Ora avvenne che, tra l'altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli piacque, che aveva nome monna Belcolore, moglie d'un lavoratore che si facea chiamare Bentivegna del Mazzo, la qual nel vero era pure una piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata, e atta a meglio saper macinare che alcuna altra.
E oltre a ciò era quella che meglio sapeva sonare il cembalo e cantare: L'acqua corre la borrana, e menare la ridda e il ballonchio, quando bisogno faceva, che vicina che ella avesse, con bel moccichino e gentile in mano.
Per le quali cose messer lo prete ne 'nvaghì sì forte, che egli ne menava smanie; e tutto 'l dì andava aiato per poterla vedere; e quando la domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie e un Sanctus sforzandosi ben di mostrarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino che ragghiasse, dove, quando non la vi vedeva, si passava assai leggermente; ma pure sapeva sì fare che Bentivegna del Mazzo non se ne avvedeva, né ancora vicino che egli avesse.
E per potere più avere la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava, e quando le mandava un mazzuol d'agli freschi, che egli aveva i più belli della contrada in un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli, e talora un mazzuol di cipolle maligie o di scalogni; e, quando si vedeva tempo, guatatala un poco in cagnesco, per amorevolezza la rimorchiava, ed ella cotal salvatichetta, faccendo vista di non avvedersene, andava pure oltre in contegno; per che messer lo prete non ne poteva venire a capo.
Ora avvenne un dì che, andando il prete di fitto meriggio per la contrada or qua or là zazzeato, scontrò Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose innanzi; e fattogli motto, il domandò dov'egli andava.
A cui Bentivegna rispose:
- Gnaffe, sere, in buona verità io vo infino a città per alcuna mia vicenda, e porto queste cose a ser Bonaccorri da Ginestreto, che m'aiuti di non so che m'ha fatto richiedere per una comparigione del parentorio per lo pericolator suo il giudice del dificio.
Il prete lieto disse:
- Ben fai, figliuolo; or va con la mia benedizione, e torna tosto; e se ti venisse veduto Lapuccio o Naldino, non t'esca di mente di dir lor che mi rechino quelle combine per li coreggiati miei.
Bentivegna disse che sarebbe fatto; e venendosene verso Firenze, si pensò il prete che ora era tempo d'andare alla Bel colore e di provare sua ventura; e messasi la via tra'piedi, non ristette sì fu a casa di lei, ed entrato dentro disse:
- Dio ci mandi bene, chi è di qua?
La Belcolore, ch'era andata in balco, udendol disse:
- O sere, voi siate il ben venuto; che andate voi zacconato per questo caldo?
Il prete rispose:
- Se Dio mi dea bene, che io mi vengo a star con teco un pezzo, per ciò che io trovai l'uom tuo che andava a città.
La Belcolore, scesa giù, si pose a sedere, e cominciò nettar sementa di cavolini, che il marito avea poco innanzi trebbiati.
Il prete le cominciò a dire:
- Bene, Belcolore, de' mi tu far sempre mai morire questo modo?
La Belcolore cominciò a ridere e a dire:
- O che ve fo io?
Disse il prete:
- Non mi fai nulla, ma tu non mi lasci fare a te quei ch'io vorrei e che Iddio comandò.
Disse la Belcolore:
- Deh! andate, andate: o fanno i preti così fatte cose?
Il prete rispose:
- Sì facciam noi meglio che gli altri uomini; o perché no? E dicoti più, che noi facciamo vie miglior lavorio; e sai perché? Perché noi maciniamo a raccolta; ma in verità bene a tuo uopo, se tu stai cheta e lascimi fare.
Disse la Belcolore:
- O che bene a mio uopo potrebbe esser questo, ché siete tutti quanti più scarsi che 'l fistolo?
Allora il prete disse:
- Io non so, chiedi pur tu: o vuogli un paio di scarpette, o vuogli un frenello, o vuogli una bella fetta di stame, o ciò che tu vuogli.
Disse la Belcolore:
- Frate, bene sta! Io me n'ho di coteste cose; ma se voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un servigio, e io farò ciò che voi vorrete?
Allora disse il prete:
- Di'ciò che tu vuogli, e io il farò volentieri.
La Belcolore allora disse:
- Egli mi conviene andar sabato a Firenze a render lana che io ho filata e a far racconciare il filatoio mio; e se voi mi prestate cinque lire, che so che l'avete, io ricoglierò dall'usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale dai dì delle feste, che io recai a marito, ché vedete che non ci posso andare a santo né in niun buon luogo, perché io non l'ho; e io sempre mai poscia farò ciò che voi vorrete.
Rispose il prete:
- Se Dio mi dea il buono anno, io non gli ho allato; ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che tu gli avrai molto volentieri.
- Sì, - disse la Belcolore - tutti siete così gran promettitori, e poscia non attenete altrui nulla; credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n'andò col ceteratoio? Alla fè di Dio non farete, ché ella n'è divenuta femina di mondo pur per ciò; se voi non gli avete, e voi andate per essi.
- Deh! - disse il prete - non mi fare ora andare infino a casa; ché vedi che ho così ritta la ventura testè che non c'è persona, e forse quand'io tornassi ci sarebbe chi che sia che c'impaccerebbe; e io non so quando e'mi si venga così ben fatto come ora.
Ed ella disse:
- Bene sta; se voi volete andar, sì andate; se non, sì ve ne durate.
Il prete, veggendo che ella non era acconcia a far cosa che gli piacesse, se non a salvum me fac, ed egli volea fare sine custodia, disse:
- Ecco, tu non mi credi che io te gli rechi; acciò che tu mi creda, io ti lascerò pegno questo mio tabarro di sbiavato.
La Belcolore levò alto il viso e disse:
- Sì, cotesto tabarro, o che vale egli?
Disse il prete:
- Come, che vale? Io voglio che tu sappi che egli è di duagio infino in treagio, e hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio, e non è ancora quindici dì che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, ed ebbine buon mercato de soldi ben cinque, per quel che mi dice Buglietto d'Alberto, che sai che si conosce così bene di questi panni sbiavati.
- O, sié? - disse la Belcolore - se Dio m'aiuti, io non l'averei mai creduto; ma datemelo in prima.
Messer lo prete, ch'aveva carica la balestra, trattosi il tabarro, gliele diede; ed ella, poi che riposto l'ebbe, disse:
- Sere, andiancene qua nella capanna, che non vi vien mai persona; - e così fecero.
E quivi il prete, dandole i più dolci baciozzi del mondo e faccendola parente di messer Domenedio, con lei una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in gonnella, che pareva che venisse da servire a nozze, se ne tornò al santo.
Quivi, pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l'anno d'offerta non valevan la metà di cinque lire, gli parve aver mal fatto, e pentessi d'aver lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riavere lo potesse senza costo.
E per ciò che alquanto era maliziosetto, s'avvisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo, e vennegli fatto; per ciò che il dì seguente, essendo festa, egli mandò un fanciul d'un suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo della pietra, però che desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti, sì che egli voleva far della salsa.
La Belcolore gliele mandò.
E come fu in su l'ora del desinare, e 'l prete appostò quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor manicassero, e chiamato il chierico suo, gli disse:
- Togli quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e di': - Dice il sere che gran mercè, e che voi gli rimandiate il tabarro che 'l fanciullo vi lasciò per ricordanza.
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Il cherico andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a desco che desinavano.
Quivi, posto giù il mortaio, fece l'ambasciata del prete.
La Belcolore, udendosi richiedere il tabarro, volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse:
- Dunque toi tu ricordanza al sere? Fo boto a Cristo, che mi vien voglia di darti un gran sergozzone; va, rendigliel tosto, che canciola te nasca; e guarda che di cosa che voglia mai, io dico s'e'volesse l'asino nostro, non ch'altro, non gli sia detto di no.
La Belcolore brontolando si levò, e andatasene al soppidiano, ne trasse il tabarro e diello al cherico e disse:
- Dirai così al sere da mia parte: - La Belcolore dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa in suo mortaio, non l'avete voi sì bello onor fatto di questa.
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Il cherico se n'andò col tabarro e fece l'ambasciata al sere, a cui il prete ridendo disse:
- Dira'le, quando tu la vedrai, che s'ella non ci presterà il mortaio, io non presterrò a lei il pestello; vada l'un per Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse perché egli l'aveva garrita, e non se ne curò.
Ma la Belcolore, rimasa scornata, venne in iscrezio col sere, e tennegli favella insino a vendemmia; poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del Lucifero maggiore, per bella paura entro, col mosto e con le castagne calde si rappattumò con lui, e più volte insieme fecer poi gozzoviglia.
E in iscambio delle cinque lire le fece il prete rincartare il cembal suo e appiccarvi un sonagliuzzo, ed ella fu contenta.
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Novella Terza
Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia, ed egli turbato la batte, e a' suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.
Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancor ridono, la reina ad Elissa commise che seguitasse, la quale ancora ridendo incominciò.
Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrà fatto di farvi con una mia novelletta, non men vera che piacevole, tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua, ma io me ne 'ngegnerò.
Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il più del tempo con due altri dipintori usava, chiamati l'un Bruno e l'altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de' modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano.
Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto e avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune cose della simplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de' fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa.
E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le dipinture e gl'intagli del tabernacolo il quale è sopra l'altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione; e informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s'accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario.
A'quali ragionamenti Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero.
Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de' Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d'acqua.
- Oh, - disse Calandrino - cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de' capponi che cuocon coloro?
Rispose Maso:
- Mangiansegli i Baschi tutti.
Disse allora Calandrino:
- Fostivi tu mai?
A cui Maso rispose:
- Di'tu se io vi fu'mai? Sì vi sono stato così una volta come mille.
Disse allora Calandrino:
- E quante miglia ci ha?
Maso rispose:
- Haccene più di millanta, che tutta notte canta.
Disse Calandrino:
- Dunque dee egli essere più là che Abruzzi.
- Sì bene, - rispose Maso - si è cavelle.
Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e così l'aveva per vere, e disse:
- Troppo ci è di lungi a' fatti miei, ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei maccheroni, e tormene una satolla.
Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre così virtuose?
A cui Maso rispose:
- Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù: l'una sono i macigni da Settignano e da Montici, per virtù de' quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina; e per ciò si dice egli in que'paesi di là, che da Dio vengono le grazie e da Montici le macine; ma ecci di questi macigni sì gran quantità, che appo noi è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de' quali v'ha maggior montagne che monte Morello che rilucon di mezza notte vatti con Dio.
E sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella, prima che elle si forassero, e portassele al soldano, n'avrebbe ciò che volesse.
L'altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virtù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sè, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è.
Allora Calandrin disse:
- Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si truova?
A cui Maso rispose, che nel Mugnone se ne solevan trovare.
Disse Calandrino:
- Di che grossezza è questa pietra? O che colore è il suo?
Rispose Maso:
- Ella è di varie grossezze, ché alcuna n'è più e alcuna meno, ma tutte son di colore quasi come nero.
Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembiante d'avere altro a fare, si partì da Maso, e seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava.
Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n'andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli.
Ultimamente, essendo già l'ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n'andò a costoro, e chiamatigli, così disse loro:
- Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i più ricchi uomini di Firenze, per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra non è veduto da niun'altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v'andasse, v'andassimo a cercare.
Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l'avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella e andare alle tavole de' cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca.
Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra sé medesimi cominciarono a ridere, e guatando l'un verso l'altro fecer sembianti di maravigliarsi forte, e lodarono il consiglio di Calandrino; ma domandò Buffalmacco, come questa pietra avesse nome.
A Calandrino, che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente, per che egli rispose:
- Che abbiam noi a far del nome, poi che noi sappiam la virtù? A me parrebbe che noi andassimo a cercare senza star più.
- Or ben, - disse Bruno - come è ella fatta?
Calandrin disse:
- Egli ne son d'ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa; e per ciò non perdiamo tempo, andiamo.
A cui Brun disse:
- Or t'aspetta; - e volto a Buffalmacco disse:
- A me pare che Calandrino dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dà per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre rasciutte, per che tali paion testé bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l'abbia rasciutte, paion nere; e oltre a ciò molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dì di lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo, e forse farlo essi altressì, e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l'ambiadura.
A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover fare da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa, che non vi sarà persona che ci vegga.
Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s'accordò, e ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra; ma sopra ogn'altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza.
E ragionato questo, disse loro ciò che udito
avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che così era.
Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono fra sé medesimi.
Calandrino con disidero aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi, cominciarono ad andare in giù, della pietra cercando.
Calandrino andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno.
I compagni andavano appresso, e quando una e quando un'altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n'ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all'analda non era, e faccendo di quegli ampio greé, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empiè.
Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l'ora del mangiare s'avvicinava, secondo l'ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco:
- Calandrino dove è?
Buffalmacco, che ivi presso sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose:
- Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi.
Disse Bruno:
- Ben che fa poco! a me par egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d'andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone.
- Deh come egli ha ben fatto, - disse allora Buffalmacco - d'averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo.
Sappi! chi sarebbe stato sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra, altri che noi?
Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù d'essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero.
Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominciò a venire.
Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno:
- Noi che faremo? Ché non ce ne andiam noi?
A cui Bruno rispose:
- Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli fossi presso, come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa; - e il dir le parole e l'aprirsi e 'l dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu tutto uno.
Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque e andò oltre.
Buffalmacco, recatosi in mano uno de' ciottoli che raccolti avea, disse a Bruno:
- Deh! vedi bel codolo, così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! - e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa.
E in brieve in cotal guisa or con una parola, e or con una altra su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando.
Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de' gabellieri si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo.
Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciò che quasi a desinare era ciascuno.
Entrossene adunque Calandrino così carico in casa sua.
Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire:
- Mai, frate, il diavol ti ci reca! ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare.
Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare:
- Ohimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m'hai diserto; ma in fè di Dio io te ne pagherò; - e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le treccie la si gittò a' piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e'piedi, tanto le diè per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce.
Buffalmacco e Bruno, poi che co' guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell'uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono.
Calandrino tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui dovessero andare.
Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell'un de' canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d'altra parte Calandrino scinto e ansando a guisa d'uom lasso sedersi.
Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero:
- Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare, che noi veggiamo qui tante pietre? - E oltre a questo soggiunsero:
- E monna Tessa che ha? E'par che tu l'abbi battuta; che novelle son queste?
Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta, e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere lo spirito a formare intera la parola alla risposta.
Per che soprastando, Buffalmacco ricominciò:
- Calandrino, se tu aveva altra ira, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai mai.
A queste parole Calandrino sforzandosi rispose:
- Compagni, non vi turbate, l'opera sta altramenti che voi non pensate.
Io, sventurato! avea quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l'un l'altro, io v'era presso a men di diece braccia; e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v'entrai innanzi, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto.
E, cominciandosi dall'un de' capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel'avessero, e poi seguitò:
- E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que'guardiani a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sì come quegli che non mi vedeano.
Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la virtù ad ogni cosa: di che io, che mi poteva dire il più avventurato uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e per questo l'ho tanto battuta quant'io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni; che maladetta sia l'ora che io prima la vidi e quand'ella mi venne in questa casa!
E raccesosi nell'ira, si voleva levar.
per tornare a batterla da capo.
Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ridere che quasi scoppiavano; ma, vedendolo furioso levare per battere un'altra volta la moglie, levatiglisi allo 'ncontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virtù alle cose e non le aveva detto che ella si guardasse d'apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua, o perch'egli aveva in animo d'ingannare i suoi compagni, a' quali, come s'avvedeva d'averla trovata, il doveva palesare.
E dopo molte parole, non senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono.
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Novella Quarta
Il proposto di Fiesole ama una donna vedova; non è amato da lei, e credendosi giacer con lei, giace con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo.
Venuta era Elissa alla fine della sua novella, non senza gran piacere di tutta la compagnia avendola raccontata, quando la reina, ad Emilia voltatasi, le mostrò voler che ella appresso d'Elissa la sua raccontasse, la quale prestamente così cominciò.
Valorose donne, quanto i preti e'frati e ogni cherico sieno sollecitatori delle menti nostre, in più novelle dette mi ricorda essere mostrato; ma per ciò che dir non se ne potrebbe tanto che ancora più non ne fosse, io, oltre a quelle, intendo di dirvene una d'un proposto, il quale, malgrado di tutto il mondo, voleva che una gentil donna vedova gli volesse bene o volesse ella o no; la quale, si come molto savia, il trattò sì come egli era degno.
Come ciascuna di voi sa, Fiesole, il cui poggio noi possiamo di quinci vedere, fu già antichissima città e grande, come che oggi tutta disfatta sia, né per ciò è mai cessato che vescovo avuto non abbia, e ha ancora.
Quivi vicino alla maggior chiesa ebbe già una gentil donna vedova, chiamata monna Piccarda, un suo podere con una casa non troppo grande; e per ciò che la più agiata donna del mondo non era, quivi la maggior parte dell'anno dimorava e con lei due suoi fratelli, giovani assai dabbene e cortesi.
Ora avvenne che, usando questa donna alla chiesa maggiore ed essendo ancora assai giovane e bella e piacevole, di lei s'innamorò sì forte il proposto della chiesa, che più qua né più là non vedea.
E dopo alcun tempo fu di tanto ardire, che egli medesimo disse a questa donna il piacer suo, e pregolla che ella dovesse esser contenta del suo amore e d'amar lui come egli lei amava.
Era questo proposto d'anni già vecchio, ma di senno giovanissimo, baldanzoso e altiero, e di sè ogni gran cosa presummeva, con suoi modi e costumi pieni di scede e di spiacevolezze, e tanto sazievole e rincrescevole che niuna persona era che ben gli volesse; e se alcuno ne gli voleva poco, questa donna era colei, ché non solamente non ne gli voleva punto, ma ella l'aveva più in odio che il mal del capo.
Per che ella, sì come savia, gli rispose:
- Messere, che voi m'amiate mi può esser molto caro, e io debbo amar voi e amerovvi volentieri; ma tra 'vostro amore e 'mio niuna cosa disonesta dee cader mai.
Voi siete mio padre spirituale e siete prete, e già v'appressate molto bene alla vecchiezza, le quali cose vi debbono fare e onesto e casto; e d'altra parte io non son fanciulla, alla quale questi innamoramenti steano oggimai bene, e son vedova; ché sapete quanta onestà nelle vedove si richiede; e per ciò abbiatemi per iscusata, che al modo che voi mi richiedete io non v'amerò mai, né così voglio essere amata da voi.
Il proposto, per quella volta non potendo trarre da lei altro, non fece come sbigottito o vinto al primo colpo, ma, usando la sua trascutata prontezza, la sollicitò molte volte e con lettere e con ambasciate, e ancora egli stesso quando nella chiesa la vedeva venire.
Per che, parendo questo stimolo troppo grave e troppo noioso alla donna, si pensò di volerlosi levar da dosso per quella maniera la quale egli meritava, poscia che altramenti non poteva; ma cosa alcuna far non volle, che prima co' fratelli no 'ragionasse.
E detto loro ciò che il proposto verso lei operava, e quello ancora che ella intendeva di fare, e avendo in ciò piena licenza da loro, ivi a pochi giorni andò alla chiesa come usata era.
La quale come il proposto vide, così se ne venne verso lei e, come far soleva, per un modo parentevole seco entrò in parole.
La donna, vedendol venire, e verso lui riguardando, gli fece lieto viso, e da una parte tiratisi, avendole il proposto molte parole dette al modo usato, la donna dopo un gran sospiro disse
- Messere, io ho udito assai volte che egli non è alcun castello sì forte che, essendo ogni dì combattuto, non venga fatto d'esser preso una volta, il che io veggo molto bene in me essere avvenuto.
Tanto, ora con dolci parole e ora con una piacevolezza e ora con un'altra, mi siete andato d'attorno, che voi m'avete fatto rompere il mio proponimento, e son disposta, poscia che io così vi piaccio, a volere esser vostra.
Il proposto tutto lieto disse:
- Madonna, gran mercè; e a dirvi il vero, io mi son forte maravigliato come voi vi siete tanto tenuta, pensando che mai più di niuna non m'avvenne; anzi ho io alcuna volta detto: - Se le femine fossero d'ariento, elle non varrebbon denaio, per ciò che niuna se ne terrebbe a martello.
- Ma lasciamo andare ora questo: quando e dove potrem noi essere insieme?
A cui la donna rispose:
- Signor mio dolce, il quando potrebbe essere qual ora più ci piacesse, perciò che io non ho marito a cui mi convenga render ragion delle notti, ma io non so pensare il dove.
Disse il proposto:
- Come no? O in casa vostra?
Rispose la donna:
- Messer, voi sapete che io ho due fratelli giovani, li quali e di dì e di notte vengono in casa con lor brigate, e la casa mia non è troppo grande, e per ciò esser non vi si potrebbe, salvo chi non volesse starvi a modo di mutolo, senza far motto o zitto alcuno e al buio a modo di ciechi; vogliendo far così, si potrebbe, per ciò che essi non s'impacciano nella camera mia; ma è la loro sì allato alla mia, che paroluzza sì cheta non si può dire che non si senta.
Disse allora il proposto:
- Madonna, per questo non rimanga per una notte per due, intanto che io pensi dove noi possiamo essere in altra parte con più agio.
La donna disse:
- Messere, questo stea pure a voi; ma d'una cosa vi priego: che questo stea segreto, che mai parola non se ne sappia.
Il proposto disse allora:
- Madonna, non dubitate di ciò, e se esser puote, fate che istasera noi siamo insieme.
La donna disse:
- Piacemi; - e datogli l'ordine come e quando venir dovesse, si partì e tornossi a casa.
Aveva questa donna una sua fante, la qual non era però troppo giovane, ma ella aveva il più brutto viso e il più contrafatto che si vedesse mai; ché ella aveva il naso schiacciato forte e la bocca torta e le labbra grosse e i denti mal composti e grandi, e sentiva del guercio, né mai era senza mal d'occhi, con un color verde e giallo, che pareva che non a Fiesole ma a Sinigaglia avesse fatta la state; e oltre a tutto questo era sciancata e un poco monca dal lato destro; e il suo nome era Ciuta; e perché così cagnazzo viso avea, da ogn'uomo era chiamata Ciutazza.
E benché ella fosse contrafatta della persona, ella era pure alquanto maliziosetta.
La quale la donna chiamò a sè e dissele:
- Ciutazza, se tu mi vuoi fare un servigio stanotte, io ti donerò una bella camicia nuova.
La Ciutazza, udendo ricordar la camicia, disse:
- Madonna, se voi mi date una camicia, io mi gitterò nel fuoco, non che altro.
- Or ben, - disse la donna - io voglio che tu giaccia stanotte con uno uomo entro il letto mio, e che tu gli faccia carezze, e guarditi ben di non far motto, sì che tu non fossi sentita da' fratei miei, ché sai che ti dormono allato; e poscia io ti darò la camicia.
La Ciutazza disse:
- Sì dormirò io con sei, non che con uno, se bisognerà.
Venuta adunque la sera, messer lo proposto venne, come ordinato gli era stato, e i due giovani, come la donna composto avea, erano nella camera loro e facevansi ben sentire; per che il proposto, tacitamente e al buio nella camera della donna entratosene, se n'andò, come ella gli disse, al letto, e dall'altra parte la Ciutazza, ben dalla donna informata di ciò che a far avesse.
Messer lo proposto, credendosi aver la donna sua allato, si recò in braccio la Ciutazza, e cominciolla a baciar senza dir parola, e la Ciutazza lui; e cominciossi il proposto a sollazzar con lei, la possession pigliando de' beni lungamente disiderati.
Quando la donna ebbe questo fatto, impose a' fratelli che facessero il rimanente di ciò che ordinato era; li quali, chetamente della camera usciti, n'andarono verso la piazza, e fu lor la fortuna in quello che far volevano più favorevole che essi medesimi non dimandavano; per ciò che, essendo il caldo grande, aveva domandato il vescovo di questi due giovani, per andarsi infino a casa lor diportando e ber con loro.
Ma come venir gli vide, così detto loro il suo disidero, con loro si mise in via, e in una lor corticella fresca entrato, dove molti lumi accesi erano, con gran piacer bevve d'un loro buon vino.
E avendo bevuto, dissono i giovani:
- Messer, poi che tanta di grazia n'avete fatto, che degnato siete di visitar questa nostra piccola casetta, alla quale noi venavamo ad invitarvi, noi vogliam che vi piaccia di voler vedere una cosetta che noi vi vogliam mostrare.
Il vescovo rispose che volentieri; per che l'un de' giovani, preso un torchietto acceso in mano e messosi innanzi, seguitandolo il vescovo e tutti gli altri, si dirizzò verso la camera dove messer lo proposto giaceva con la Ciutazza.
Il quale, per giugner tosto, s'era affrettato di cavalcare, ed era, avanti che costor quivi venissero, cavalcato già delle miglia più di tre; per che istanchetto, avendo, non ostante il caldo, la Ciutazza in braccio, si riposava.
Entrato adunque con lume in mano il giovane nella camera, e il vescovo appresso e poi tutti gli altri, gli fu mostrato il proposto con la Ciutazza in braccio.
In questo destatosi messer lo proposto, e veduto il lume e questa gente dattornosi, vergognandosi forte e temendo, mise il capo sotto i panni.
Al quale il vescovo disse una gran villania, e fecegli trarre il capo fuori e vedere con cui giaciuto era.
Il proposto, conosciuto lo 'nganno della donna, sì per quello e sì per lo vituperio che aver gli parea, subito divenne il più doloroso uomo che fosse mai; e per comandamento del vescovo rivestitosi, a patir gran penitenza del peccato commesso con buona guardia ne fu mandato alla chiesa.
Volle il vescovo appresso sapere come questo fosse avvenuto, che egli quivi con la Ciutazza fosse a giacere andato.
I giovani gli dissero ordinatamente ogni cosa.
Il che il vescovo udito, commendò molto la donna e i giovani altressì, che, senza volersi del sangue de' preti imbrattar le mani, lui sì come egli era degno avean trattato.
Questo peccato gli fece il vescovo piagnere quaranta dì, ma amore e isdegno gliele fecero piagnere più di quarantanove, senza che, poi ad un gran tempo, egli non poteva mai andar per via che egli non fosse da' fanciulli mostrato a dito, li quali dicevano:
- Vedi colui che giacque con la Ciutazza; - il che gli era sì gran noia, che egli ne fu quasi in su lo 'mpazzare.
E in così fatta guisa la valente donna si tolse da dosso la noia dello impronto proposto; e la Ciutazza guadagnò la camicia.
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Novella Quinta
Tre giovani traggono le brache ad un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione.
Fatto aveva Emilia fine al suo ragionamento, essendo stata la vedova donna commendata da tutti, quando la reina, a Filostrato guardando, disse:
- A te viene ora il dover dire.
Per la qual cosa egli prestamente rispose sè essere apparecchiato, e cominciò.
Dilettose donne, il giovane che Elissa poco avanti nominò, cioè Maso del Saggio, mi farà lasciare stare una novella la quale io di dire intendeva, per dirne una di lui e d'alcuni suoi compagni, la quale ancora che disonesta non sia, per ciò che vocaboli in essa s'usano che voi d'usar vi vergognate, nondimeno è ella tanto da ridere, che io la pur dirò.
Come voi tutte potete avere udito, nella nostra città vengono molto spesso rettori marchigiani, li quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto misera, che altro non pare ogni lor fatto che una pidocchieria; e per questa loro innata miseria e avarizia, menan seco e giudici e notai, che paion uomini levati più tosto dallo aratro o tratti dalla calzoleria, che delle scuole delle leggi.
Ora, essendovene venuto uno per podestà, tra gli altri molti giudici che seco menò, ne menò uno il quale si facea chiamare messer Niccola da San Lepidio, il qual pareva più tosto un magnano che altro a vedere, e fu posto costui tra gli altri giudici ad udire le quistion criminali.
E come spesso avviene che, bene che i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a Palagio, pur talvolta vi vanno, avvenne che Maso del Saggio una mattina, cercando d'un suo amico, v'andò; e venutogli guardato là dove questo messer Niccola sedeva, parendogli che fosse un nuovo uccellone, tutto il venne considerando.
E, come che egli gli vedesse il vaio tutto affumicato in capo e un pennaiuolo a cintola, e più lunga la gonnella che la guarnacca, e assai altre cose tutte strane da ordinato e costumato uomo, tra queste una, ch'è più notabile che alcuna dell'altre, al parer suo, ne gli vide, e ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli e i panni per istrettezza standogli aperti dinanzi, vide che il fondo loro in fino a mezza gamba gli aggiugnea.
Per che, senza star troppo a guardarle, lasciato quello che andava cercando, incominciò a far cerca nuova, e trovò due suoi compagni, de' quali l'uno aveva nome Ribi e l'altro Matteuzzo, uomini ciascun di loro non meno sollazzevoli che Maso, e disse loro:
- Se vi cal di me, venite meco infino a Palagio, ché io vi voglio mostrare il più nuovo squasimodeo che voi vedeste mai.
E con loro andatosene in Palagio, mostrò loro questo giudice e le brache sue.
Costoro dalla lungi cominciarono a ridere di questo fatto, e fattisi più vicini alle panche sopra le quali messer lo giudice stava, vider che sotto quelle panche molto leggiermente si poteva andare, e oltre a ciò videro rotta l'asse sopra la quale messer lo giudicio teneva i piedi, tanto che a grand'agio vi si poteva mettere la mano e 'l braccio.
E allora Maso disse a' compagni:
- Io voglio che noi gli traiamo quelle brache del tutto, per ciò che si può troppo bene.
Aveva già ciascun de' compagni veduto come: per che, fra sè ordinato che dovessero fare e dire, la seguente mattina vi ritornarono; ed essendo la corte molto piena d'uomini, Matteuzzo, che persona non se ne avvide, entrò sotto il banco e andossene appunto sotto il luogo dove il giudice teneva i piedi.
Maso dall'un de' lati accostatosi a messer lo giudice, il prese per lo lembo della guarnacca, e Ribi accostatosi dall'altro e fatto il simigliante, incominciò Maso a dire:
- Messer, o messere; io vi priego per Dio, che, innanzi che cotesto ladroncello, che v'è costì dallato, vada altrove, che voi mi facciate rendere un mio paio d'uose le quali egli m'ha imbolate, e dice pur di no, e io il vidi, non è ancora un mese, che le faceva risolare.
Ribi dall'altra parte gridava forte:
- Messere, non gli credete, ché egli è un ghiottoncello, e perché egli sa che io son venuto a richiamarmi di lui d'una valigia la quale egli m'ha imbolata, ed egli è testè venuto e dice dell'uose, che io m'aveva in casa infin vie l'altrieri, e se voi non mi credeste, io vi posso dare per testimonia la trecca mia dallato, e la Grassa ventraiuola, e un che va raccogliendo la spazzatura da Santa Maria a Verzaia, che 'l vide quando egli tornava di villa.
Maso d'altra parte non lasciava dire a Ribi, anzi gridava, e Ribi gridava ancora.
E mentre che il giudice stava ritto e loro più vicino per intendergli meglio, Matteuzzo, preso tempo, mise la mano per lo rotto dell'asse, e pigliò il fondo delle brache del giudice, e tirò giù forte.
Le brache ne venner giuso incontanente, per ciò che il giudice era magro e sgroppato.
Il quale, questo fatto sentendo e non sappiendo che ciò si fosse, volendosi tirare i panni dinanzi e ricoprirsi e porsi a sedere, Maso dall'un lato e Ribi dall'altro pur tenendolo e gridando forte:
- Messer, voi fate villania a non farmi ragione, e non volermi udire, e volervene andare altrove; di così piccola cosa, come questa è, non si dà libello in questa terra; - e tanto in queste parole il tennero per li panni, che quanti nella corte n'erano s'accorsero essergli state tratte le brache.
Ma Matteuzzo, poi che alquanto tenute l'ebbe, lasciatele, se n'uscì fuori e andossene senza esser veduto.
Ribi, parendogli di aver assai fatto, disse:
- Io fo boto a Dio d'aiutarmene al sindacato.
E Maso dall'altra parte, lasciatagli la guarnacca disse:
- No, io ci pur verrò tante volte, che io vi troverrò così impacciato come voi siete paruto stamane; - e l'uno in qua e l'altro in là, come più tosto poterono, si partirono.
Messer lo giudice, tirate in su le brache in presenza d'ogni uomo, come se da dormir si levasse accorgendosi pure allora del fatto, domandò dove fossero andati quegli che dell'uose e della valigia avevan quistione; ma, non ritrovandosi, cominciò a giurare per le budella di Dio che e'gli conveniva cognoscere e saper se egli s'usava a Firenze di trarre le brache a' giudici, quando sedevano al banco della ragione.
Il podestà d'altra parte, sentitolo, fece un grande schiamazzio; poi per suoi amici mostratogli che questo non gli era fatto se non per mostrargli che i fiorentini conoscevano che, dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati becconi per averne miglior mercato, per lo miglior si tacque, né più avanti andò la cosa per quella volta.
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Novella Sesta
Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo con galle di gengiovo e con vernaccia, e a lui ne danno due, l'una dopo l'altra, di quelle del cane confettate in aloè, e pare che l'abbia avuto egli stesso; fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
Non ebbe prima la novella di Filostrato fine, della quale molto si rise, che la reina a Filomena impose che seguitando dicesse; la quale incominciò.
Graziose donne, come Filostrato fu dal nome di Maso tirato a dover dire la novella la quale da lui udita avete, così né più né men son tirata io da quello di Calandrino e de' compagni suoi a dirne un'altra di loro, la qual, sì come io credo, vi piacerà.
Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero non bisogna che io vi mostri, ché assai l'avete di sopra udito; e per ciò, più avanti faccendomi, dico che Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontano da Firenze, che in dote aveva avuto della moglie, del quale tra l'altre cose che su vi ricoglieva, n'aveva ogn'anno un porco, ed era sua usanza sempre colà di dicembre d'andarsene la moglie ed egli in villa, e ucciderlo e quivi farlo salare.
Ora avvenne una volta tra l'altre che, non essendo la moglie ben sana, Calandrino andò egli solo ad uccidere il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco, e sappiendo che la moglie di lui non v'andava, se n'andarono ad un prete loro grandissimo amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì.
Aveva Calandrino, la mattina che costor giunsero il dì, ucciso il porco, e vedendogli col prete, gli chiamò e disse:
- Voi siate i ben venuti.
Io voglio che voi veggiate che massaio io sono; e menatigli in casa, mostrò loro questo porco.
Videro costoro il porco esser bellissimo, e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva salare.
A cui Brun disse:
- Deh! come tu se'grosso! Vendilo, e godianci i denari; e a mogliata dì che ti sia stato imbolato.
Calandrino disse:
- No, ella nol crederrebbe, e caccerebbemi fuor di casa; non v'impacciate, ché io nol farei mai.
Le parole furono assai, ma niente montarono.
Calandrino gl'invitò a cena cotale alla trista, sì che costoro non vi vollon cenare, e partirsi da lui.
Disse Bruno a Buffalmacco:
- Vogliangli noi imbolare stanotte quel porco?
Disse Buffalmacco:
- O come potremmo noi?
Disse Bruno:
- Il come ho io ben veduto, se egli nol muta di là ove egli era testé.
- Adunque, - disse Buffalmacco - faccianlo; perché nol faremo noi? E poscia cel goderemo qui insieme col domine.
Il prete disse che gli era molto caro.
Disse allora Bruno:
- Qui si vuole usare un poco d'arte: tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee volentieri quando altri paga; andiamo e meniallo alla taverna, e quivi il prete faccia vista di pagare tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla; egli si ciurmerà, e verracci troppo ben fatto poi, per ciò che egli è solo in casa.
Come Brun disse, così fecero.
Calandrino, veggendo che il prete nol lasciava pagare, si diede in sul bere, e benché non ne gli bisognasse troppo, pur si caricò bene; ed essendo già buona ora di notte quando dalla taverna si partì, senza volere altramenti cenare, se n'entrò in casa, e credendosi aver serrato l'uscio, il lasciò aperto e andossi al letto.
Buffalmacco e Bruno se n'andarono a cenare col prete, e, come cenato ebbero, presi loro argomenti per entrare in casa Calandrino là onde Bruno aveva divisato, là chetamente n'andarono; ma, trovando aperto l'uscio, entrarono dentro, e ispiccato il porco, via a casa del prete nel portarono, e ripostolo, se n'andarono a dormire.
Calandrino, essendogli il vino uscito del capo, si levò la mattina, e, come scese giù, guardò e non vide il porco suo, e vide l'uscio aperto; per che, domandato questo e quell'altro se sapessero chi il porco s'avesse avuto, e non trovandolo, incominciò a fare il romore grande: ohisé, dolente sé, che il porco gli era stato imbolato.
Bruno e Buffalmacco levatisi, se n'andarono verso Calandrino, per udir ciò che egli del porco dicesse.
Il qual, come gli vide, quasi piagnendo chiamatigli, disse:
- Ohimè, compagni miei, che il porco mio m'è stato imbolato.
Bruno, accostatoglisi, pianamente gli disse:
- Maraviglia, che se'stato savio una volta.
- Ohimè, - disse Calandrino - ché io dico da dovero.
- Così di', - diceva Bruno - grida forte sì, che paia bene che sia stato cosi.
Calandrino gridava allora più forte e diceva:
- Al corpo di Dio, che io dico da dovero che egli m'è stato imbolato.
E Bruno diceva:
- Ben di', ben di': e'si vuol ben dir così, grida forte fatti ben sentire, sì che egli paia vero.
Disse Calandrino:
- Tu mi faresti dar l'anima al nimico.
Io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la gola, che egli m'è stato imbolato.
Disse allora Bruno:
- Deh! come dee potere esser questo? Io il vidi pure ieri costì.
Credimi tu far credere che egli sia volato?
Disse Calandrino:
- Egli è come io ti dico.
- Deh! - disse Bruno - può egli essere?
- Per certo, - disse Calandrino - egli è così, di che io son diserto e non so come io mi torni a casa: mogliema nol mi crederà, e se ella il mi pur crede, io non avrò uguanno pace con lei.
Disse allora Bruno:
- Se Dio mi salvi, questo è mal fatto, se vero è; ma tu sai, Calandrino, che ieri io t'insegnai dir così: io non vorrei che tu ad un'ora ti facessi beffe di moglieta e di noi.
Calandrino incominciò a gridare e a dire:
- Deh perché mi farete disperare e bestemmiare Iddio e'santi e ciò che v'è? Io vi dico che il porco m'è stato sta notte imbolato.
Disse allora Buffalmacco:
- Se egli è pur così, vuolsi veder via, se noi sappiamo, di riaverlo.
- E che via - disse Calandrino - potrem noi trovare?
Disse allora Buffalmacco:
- Per certo egli non c'è venuto d'India niuno a torti il porco; alcuno di questi tuoi vicini dee essere stato; e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare la esperienza del pane e del formaggio e vederemmo di botto chi l'ha avuto.
- Sì, - disse Bruno ben farai con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha dattorno, ché son certo che alcun di loro l'ha avuto, e avvederebbesi del fatto, e non ci vorrebber venire.
- Come è dunque da fare? - disse Buffalmacco.
Rispose Bruno:
- Vorrebbesi fare con belle galle di gengiovo e con bella vernaccia, e invitargli a bere.
Essi non sel penserebbono e verrebbono; e così si possono benedire le galle del gengiovo, come il pane e 'cacio.
Disse Buffalmacco:
- Per certo tu di'il vero; e tu, Calandrino, che di'? Vogliallo fare?
Disse Calandrino:
- Anzi ve ne priego io per l'amor di Dio; ché, se io sapessi pur chi l'ha avuto, sì mi parrebbe esser mezzo consolato.
- Or via, - disse Bruno - io sono acconcio d'andare infino a Firenze per quelle cose in tuo servigio, se tu mi dai i denari.
Aveva Calandrino forse quaranta soldi, li quali egli gli diede.
Bruno, andatosene a Firenze ad un suo amico speziale, comperò una libbra di belle galle di gengiovo, e fecene far due di quelle del cane, le quali egli fece confettare in uno aloè patico fresco; poscia fece dar loro le coverte del zucchero, come avevan l'altre, e per non ismarrirle o scambiarle, fece lor fare un certo segnaluzzo per lo quale egli molto bene le conoscea, e comperato un fiasco d'una buona vernaccia, se ne tornò in villa a Calandrino e dissegli:
- Farai che tu inviti domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto; egli è festa, ciascun verrà volentieri, e io farò stanotte insieme con Buffalmacco la 'ncantagione sopra le galle, e recherolleti domattina a casa, e per tuo amore io stesso le darò, e farò e dirò ciò che fia da dire e da fare.
Calandrino così fece.
Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani fiorentini, che per la villa erano, e di lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all'olmo, Bruno e Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino, e fatti stare costoro in cerchio, disse Bruno:
- Signori, e'mi vi convien dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro avvenisse che non vi piacesse, voi non v'abbiate a ramaricar di me.
A Calandrino, che qui è, fu ier notte tolto un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se l'abbia; e per ciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l'ha, vi dà a mangiar queste galle una per uno, e bere.
E infino da ora sappiate che chi avuto avrà il porco, non potrà mandar giù la galla, anzi gli parrà più amara che veleno, e sputeralla; e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse il meglio che quel cotale che avuto l'avesse, in penitenzia il dica al sere, e io mi rimarrò di questo fatto.
Ciascun che v'era disse che ne voleva volentier mangiare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra loro, cominciatosi all'un de' capi, cominciò a dare a ciascun la sua, e, come fu per mei Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano.
Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare; ma sì tosto come la lingua sentì l'aloè, così Calandrino, non potendo l'amaritudine sostenere, la sputò fuori.
Quivi ciascun guatava nel viso l'uno all'altro, perveder chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle, non faccendo sembianti d'intendere a ciò, s'udì dir dietro: - Eja, Calandrino, che vuol dir questo? - per che prestamente rivolto, e veduto che Calandrino la sua aveva sputata, disse:
- Aspettati, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne un'altra; - e presa la seconda, gliele mise in bocca, e fornì di dare l'altre che a dare aveva.
Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima; ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì eran grosse; e ultimamente, non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto.
Buffalmacco faceva dar bere alla brigata, e Bruno; li quali, insieme con gli altri questo vedendo, tutti dissero che per certo Calandrino se l'aveva imbolato egli stesso; e furonvene di quegli che aspramente il ripresono.
Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl'incominciò Buffalmacco a dire:
- Io l'aveva per lo certo tuttavia che tu te l'avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato imbolato, per non darci una volta bere de' denari che tu n'avesti.
Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l'amaritudine dello aloè, incominciò a giurare che egli avuto non l'avea.
Disse Buffalmacco:
- Ma che n'avesti, sozio, alla buona fè? Avestine sei?
Calandrino, udendo questo, s'incominciò a disperare.
A cui Brun disse:
- Intendi sanamente, Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevve, che mi disse che tu avevi quinci su una giovinetta che tu tenevi a tua posta, e davile ciò che tu potevi rimedire, e che egli aveva per certo che tu l'avevi mandato questo porco.
Tu sì hai apparato ad esser beffardo! Tu ci menasti una volta giù per lo Mugnone ricogliendo pietre nere, e quando tu ci avesti messo in galea senza biscotto, e tu te ne venisti; e poscia ci volevi far credere che tu l'avessi trovata; e ora similmente ti credi co' tuoi giuramenti far credere altressì che il porco, che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato.
Noi sì siamo usi delle tue beffe e conoscialle; tu non ce ne potresti far più; e per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l'arte, per che noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa.
Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento della moglie, diede a costoro due paia di capponi.
Li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe.
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Novella Settima
Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d'altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a' tafani e al sole.
Molto avevan le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n'avrebbono ancora, se stato non fosse che loro in crebbe di vedergli torre ancora i capponi, a color che tolto gli aveano il porco.
Ma poi che la fine fu venuta, la reina a Pampinea impose che dicesse la sua; ed essa prestamente così cominciò.
Carissime donne, spesse volte avviene che l'arte è dall'arte schernita, e per ciò è poco senno il dilettarsi di schernire altrui.
Noi abbiamo per più novellette dette riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta esserne stata fatta s'è raccontato; ma io intendo di farvi avere alquanta compassione d'una giusta retribuzione ad una nostra cittadina renduta, alla quale la sua beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò sopra il capo.
E questo udire non sarà senza utilità di voi, per ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e farete gran senno.
Egli non sono ancora molti anni passati, che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d'animo altiera e di legnaggio assai gentile, de' beni della fortuna convenevolmente abondante e nominata Elena; la quale rimasa del suo marito vedova, mai più rimaritar non si volle, essendosi ella d'un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta innamorata; e da ogni altra sollicitudine sviluppata, con l'opera d'una sua fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso diletto si dava buon tempo.
Avvenne che in questi tempi un giovane chiamato Rinieri, nobile uomo della nostra città, avendo lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienzia a minuto, come molti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d'esse (il che ottimamente sta in gentile uomo), tornò da Parigi a Firenze; e quivi onorato molto sì per la sua nobiltà e sì per la sua scienzia, cittadinescamente viveasi.
Ma, come spesso avviene, coloro ne'quali è più l'avvedimento delle cose profonde più tosto da amore essere incapestrati, avvenne a questo Rinieri.
Al quale, essendo egli un giorno per via di diporto andato ad una festa, davanti agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sì come le nostre vedove vanno, piena di tanta bellezza al suo giudicio e di tanta piacevolezza, quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere; e seco estimò colui potersi beato chiamare, al quale Iddio grazia facesse lei potere ignuda nelle braccia tenere.
E una volta e altra cautamente riguardatala, e conoscendo che le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare, seco diliberò del tutto di porre ogni pena e ogni sollicitudine in piacere a costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse, e per questo il potere aver copia di lei.
La giovane donna, la quale non teneva gli occhi fitti in inferno, ma, quello e più tenendosi che ella era, artificiosamente movendogli si guardava dintorno, e prestamente conosceva chi con diletto la riguardava, accortasi di Rinieri, in sé stessa ridendo disse: - Io non ci sarò oggi venuta in vano, ché, se io non erro, io avrò preso un paolin per lo naso.
- E cominciatolo con la coda dell'occhio alcuna volta a guardare, in quanto ella poteva, s'ingegnava di dimostrar gli che di lui le calesse; d'altra parte, pensandosi che quanti più n'adescasse e prendesse col suo piacere, tanto di maggior pregio fosse la sua bellezza, e massimamente a colui al quale ella insieme col suo amore l'aveva data.
Il savio scolare, lasciati i pensier filosofici da una parte, tutto l'animo rivolse a costei; e, credendosi doverle piacere, la sua casa apparata, davanti v'incominciò a passare, con varie cagioni colorando l'andate.
Al qual la donna, per la cagion già detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di vederlo assai volentieri; per la qual cosa lo scolare, trovato modo, s'accontò con la fante di lei, e il suo amor le scoperse, e la pregò che con la sua donna operasse sì che la grazia di lei potesse avere.
La fante promise largamente e alla sua donna il raccontò, la quale con le maggior risa del mondo l'ascoltò, e disse:
- Hai veduto dove costui è venuto a perdere il senno che egli ci ha da Parigi recato? Or via, diangli di quello ch'e'va cercando.
Dira'gli, qualora egli ti parla più, che io amo molto più lui che egli non ama me; ma che a me si convien di guardar l'onestà mia, sì che io con l'altre donne possa andare a fronte scoperta, di che egli, se così è savio come si dice, mi dee molto più cara avere.
Ahi cattivella, cattivella, ella non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aia con gli scolari!
La fante, trovatolo, fece quello che dalla donna sua le fu imposto.
Lo scolar lieto procedette a più caldi prieghi e a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa era ricevuta, ma in dietro non venivan risposte se non generali; e in questa guisa il tenne gran tempo in pastura.
Ultimamente, avendo ella al suo amante ogni cosa scoperta ed egli essendosene con lei alcuna volta turbato e alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di ciò di lei sospicasse, sollicitandola lo scolare molto, la sua fante gli mandò, la quale da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto da poter fare cosa che gli piacesse poi che del suo amore fatta l'aveva certa, se non che per le feste del Natale che s'appressava ella sperava di potere esser con lui; e per ciò la seguente sera alla festa, di notte, se gli piacesse, nella sua corte se ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe.
Lo scolare, più che altro uom lieto, al tempo impostogli andò alla casa della donna, e messo dalla fante in una corte e dentro serratovi, quivi la donna cominciò ad aspettare.
La donna, avendosi quella sera fatto venire il suo amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò che fare quella notte intendeva gli ragionò, aggiugnendo:
- E potrai vedere quanto e quale sia l'amore, il quale io ho portato e porto a colui del quale scioccamente hai gelosia presa.
Queste parole ascoltò l'amante con gran piacer d'animo disideroso di vedere per opera ciò che la donna con parole gli dava ad intendere.
Era per avventura il dì davanti a quello nevicato forte, e ogni cosa di neve era coperta; per la qual cosa lo scolare fu poco nella corte dimorato, che egli cominciò a sentir più freddo che voluto non avrebbe; ma, aspettando di ristorarsi, pur pazientemente il sosteneva.
La donna al suo amante disse dopo alquanto:
- Andiancene in camera, e da una finestretta guardiamo ciò che colui, di cui tu se'divenuto geloso, fa, e quello che egli risponderà alla fante, la quale io gli ho mandata a favellare.
Andatisene adunque costoro ad una finestretta, e veggendo senza esser veduti, udiron la fante da un'altra favellare allo scolare e dire:
- Rinieri, madonna è la più dolente femina che mai fosse, per ciò che egli ci è stasera venuto uno de' suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle cenar con lei, e ancora non se n'è andato; ma io credo che egli se n'andrà tosto; e per questo non è ella potuta venire a te, ma tosto verrà oggimai; ella ti priega che non ti incresca l'aspettare.
Lo scolare, credendo questo esser vero, rispose:
- Dirai alla mia donna che di me niun pensier si dea in fino a tanto che ella possa con suo acconcio per me venire; ma che questo ella faccia come più tosto può.
La fante, dentro tornatasi se n'andò a dormire.
La donna allora disse al suo amante:
- Ben, che dirai? Credi tu che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi che egli stesse là giù ad agghiacciare? - e questo detto, con l'amante suo, che già in parte era contento, se n'andò a letto, e grandissima pezza stettero in festa e in piacere, del misero iscolare ridendosi e faccendosi beffe.
Lo scolare, andando per la corte, sé esercitava per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove fuggire il sereno, e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna; e ciò che udiva credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s'aprisse; ma invano sperava.
Essa infino vicino della mezza notte col suo amante sollazzatasi, gli disse:
- Che ti pare, anima mia, dello scolare nostro? Qual ti par maggiore o il suo senno o l'amore ch'io gli porto? Faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che per li miei motti vi t'entrò l'altrieri?
L'amante rispose:
- Cuor del corpo mio, sì, assai conosco che così come tu se'il mio bene e il mio riposo e il mio diletto e tutta la mia speranza, così sono io la tua.
- Adunque, - diceva la donna - or mi bacia ben mille volte, a veder se tu di'vero.
- Per la qual cosa l'amante, abbracciandola stretta, non che mille, ma più di cento milia la baciava.
E poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la donna:
- Deh! levianci un poco, e andiamo a vedere se 'l fuoco è punto spento, nel quale questo mio novello amante tutto il dì mi scrivea che ardeva.
E levati, alla finestretta usata n'andarono, e nella corte guardando, videro lo scolare fare su per la neve una carola trita al suon d'un batter di denti, che egli faceva per troppo freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano.
Allora disse la donna:
- Che dirai, speranza mia dolce? Parti che io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o di cornamusa?
A cui l'amante ridendo rispose:
- Diletto mio grande, sì.
Disse la donna:
- Io voglio che noi andiamo infin giù all'uscio: tu ti starai cheto e io gli parlerò, e udirem quello che egli dirà; e per avventura n'avrem non men festa che noi abbiam di vederlo.
E aperta la camera chetamente, se ne scesero all'uscio, e quivi, senza aprir punto, la donna con voce sommessa da un pertugetto che v'era il chiamò.
Lo scolare, udendosi chiamare, lodò Iddio, credendosi troppo bene entrar dentro; e accostatosi all'uscio disse:
- Eccomi qui, madonna: aprite per Dio, ché io muoio di freddo.
La donna disse:
- O sì che io so che tu se'uno assiderato; e anche è il freddo molto grande, perché costì sia un poco di neve! Già so io che elle sono molto maggiori a Parigi.
Io non ti posso ancora aprire, per ciò che questo mio maladetto fratello, che ier sera ci venne meco a cenare, non se ne va ancora; ma egli se n'andrà tosto, e io verrò incontanente ad aprirti.
Io mi son testé con gran fatica scantonata da lui, per venirti a confortare che l'aspettar non t'incresca.
Disse lo scolare:
- Deh! madonna, io vi priego per Dio che voi m'apriate, acciò che io possa costì dentro stare al coperto, per ciò che da poco in qua s'è messa la più folta neve del mondo, e nevica tuttavia; e io v'attenderò quanto vi sarà a grado.
Disse la donna:
- Ohimè, ben mio dolce, che io non posso ché questo uscio fa sì gran romore quando s'apre, che leggermente sarei sentita da fratelmo, se io t'aprissi; ma io voglio andare a dirgli che se ne vada, acciò che io possa poi tornare ad aprirti.
Disse lo scolare:
- Ora andate tosto; e priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io enterrò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì freddo che appena sento di me.
Disse la donna:
- Questo non dee potere essere, se quello è vero che tu m'hai più volte scritto, cioè che tu per l'amor di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi beffi.
Ora io vo: aspettati, e sia di buon cuore.
L'amante, che tutto udiva e aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono, anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi beffe dello scolare consumarono.
Lo scolare cattivello (quasi cicogna divenuto, sì forte batteva i denti) accorgendosi d'esser beffato, più volte tentò l'uscio se aprir lo potesse, e riguardò se altronde ne potesse uscire; né vedendo il come, faccendo le volte del leone, maladiceva la qualità del tempo, la malvagità della donna e la lunghezza della notte, insieme con la sua simplicità; e sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo e acerbo odio transmutò, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la quale ora molto più disiderava, che prima d'esser con la donna non avea disiato.
La notte, dopo molta e lunga dimoranza, s'avvicinò al dì, e cominciò l'alba ad apparire.
Per la qual cosa la fante della donna ammaestrata, scesa giù, aperse la corte, e mostrando d'aver compassion di costui, disse:
- Mala ventura possa egli avere che iersera ci venne.
Egli n'ha tutta notte tenute in bistento, e te ha fatto agghiacciare; ma sai che è? Portatelo in pace, ché quello che stanotte non è potuto essere sarà un'altra volta; so io bene che cosa non potrebbe essere avvenuta, che tanto fosse dispiaciuta a madonna.
Lo scolare sdegnoso, sì come savio, il quale sapeva niun'altra cosa le minacce essere che arme del minacciato, serrò dentro al petto suo ciò che la non temperata volontà s'ingegnava di mandar fuori, e con voce sommessa, senza punto mostrarsi crucciato, disse:
- Nel vero io ho avuta la piggior notte che io avessi mai, ma bene ho conosciuto che di ciò non ha la donna alcuna colpa, per ciò che essa medesima, sì come pietosa di me, infin quaggiù venne a scusar sé e a confortar me; e come tu di', quello che stanotte non è stato sarà un'altra volta; raccomandalemi e fatti con Dio.
E quasi tutto rattrappato, come potè a casa sua se ne tornò; dove, essendo stanco e di sonno morendo, sopra il letto si gittò a dormire, donde tutto quasi perduto delle braccia e delle gambe si destò.
Per che, mandato per alcun medico e dettogli il freddo che avuto avea, alla sua salute fe'provedere.
Li medici con grandissimi argomenti e con presti aiutandolo, appena dopo alquanto di tempo il poterono de' nervi guerire e far sì che si distendessero; e se non fosse che egli era giovane e sopravveniva il caldo, egli avrebbe avuto troppo da sostenere.
Ma ritornato sano e fresco, dentro il suo odio servando, vie più che mai si mostrava innamorato della vedova sua.
Ora avvenne, dopo certo spazio di tempo, che la fortuna apparecchiò caso da poter lo scolare al suo disiderio sodisfare; per ciò che, essendosi il giovane che dalla vedova era amato (non avendo alcun riguardo all'amore da lei portatogli), innamorato di un'altra donna, e non volendo né poco né molto dire né far cosa che a lei fosse a piacere, essa in lagrime e in amaritudine si consumava.
Ma la sua fante, la qual gran compassion le portava, non trovando modo da levar la sua donna dal dolor preso per lo perduto amante, vedendo lo scolare al modo usato per la contrada passare, entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che l'amante della donna sua ad amarla come far solea si dovesse poter riducere per alcuna nigromantica operazione, e che di ciò lo scolare dovesse essere gran maestro, e disselo alla sua donna.
La donna poco savia, senza pensare che, se lo scolare saputo avesse nigromantia, per sé adoperata l'avrebbe, pose l'animo alle parole della sua fante, e subitamente le disse che da lui sapesse se fare il volesse, e sicuramente gli promettesse che per merito di ciò, ella farebbe ciò che a lui piacesse.
La fante fece l'ambasciata bene e diligentemente, la quale udendo lo scolare, tutto lieto seco medesimo disse: - Iddio lodato sie tu: venuto è il tempo che io farò col tuo aiuto portar pena alla malvagia femina della ingiuria fattami in premio del grande amore che io le portava.
- E alla fante disse:
- Dirai alla mia donna che di questo non stea in pensiero, che, se il suo amante fosse in India, io gliele farò prestamente venire e domandar mercé di ciò che contro al suo piacere avesse fatto; ma il modo che ella abbia a tenere intorno a ciò, attendo di dire a lei, quando e dove più le piacerà; e così le di', e da mia parte la conforta.
La fante fece la risposta, e ordinossi che in Santa Lucia del Prato fossero insieme.
Quivi venuta la donna e lo scolare, e soli insieme parlando, non ricordandosi ella che lui quasi alla morte condotto avesse, gli disse apertamente ogni suo fatto e quello che disiderava, e pregollo per la sua salute.
A cui lo scolar disse:
- Madonna, egli è il vero che tra l'altre cose che io apparai a Parigi si fu nigromantia, della quale per certo io so ciò che n'è, ma per ciò che ella è di grandissimo dispiacer di Dio, io avea giurato di mai né per me né per altrui adoperarla.
E il vero che l'amore il quale io vi porto è di tanta forza, che io non so come io mi nieghi cosa che voi vogliate che io faccia; e per ciò, se io ne dovessi per questo solo andare a casa del diavolo, sì son presto di farlo, poi che vi piace.
Ma io vi ricordo che ella è più malagevole cosa a fare che voi per
avventura non v'avvisate; e massimamente quando una donna vuole rivocare uno uomo ad amar sé o l'uomo una donna, per ciò che questo non si può far se non per la propria persona a cui appartiene; e a far ciò convien che chi 'l fa sia di sicuro animo, per ciò che di notte si convien fare e in luoghi solitari e senza compagnia; le quali cose io non so come voi vi siate a far disposta.
A cui la donna, più innamorata che savia, rispose:
- Amor mi sprona per sì fatta maniera, che niuna cosa è la quale io non facessi per riaver colui che a torto m'ha abbandonata; ma tuttavia, se ti piace, mostrami in che mi convenga esser sicura.
Lo scolare, che di mal pelo avea taccata la coda, disse:
- Madonna, a me converrà fare una imagine di stagno in nome di colui il qual voi disiderate di racquistare, la quale quando io v'arò mandata, converrà che voi, essendo la luna molto scema, ignuda in un fiume vivo, in sul primo sonno e tutta sola, sette volte con lei vi bagniate; e appresso, così ignuda, n'andiate sopra ad un albero, o sopra una qualche casa disabitata; e, volta a tramontana con la imagine in mano, sette volte diciate certe parole che io vi darò scritte; le quali come dette avrete, verranno a voi due damigelle delle più belle che voi vedeste mai, e sì vi saluteranno e piacevolmente vi domanderanno quel che voi vogliate che si faccia.
A queste farete che voi diciate bene e pienamente i disideri vostri; e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro; e come detto l'avrete, elle si partiranno, e voi ve ne potrete scendere al luogo dove i vostri panni avrete lasciati e rivestirvi e tornarvene a casa.
E per certo, egli non sarà mezza la seguente notte, che il vostro amante piagnendo vi verrà a dimandar mercé e misericordia; e sappiate che mai da questa ora innanzi egli per alcuna altra non vi lascierà.
La donna, udendo queste cose e intera fede prestandovi, parendole il suo amante già riaver nelle braccia, mezza lieta divenuta disse:
- Non dubitare, che queste cose farò io troppo bene, e ho il più bel destro da ciò del mondo; ché io ho un podere verso il Vai d'Arno di sopra, il quale è assai vicino alla riva del fiume, ed egli è testé di luglio, che sarà il bagnarsi dilettevole.
E ancora mi ricorda esser non guari lontana dal fiume una torricella disabitata, se non che per cotali scale di castagnuoli che vi sono, salgono alcuna volta i pastori sopra un battuto che v'è, a guardar di lor bestie smarrite (luogo molto solingo e fuor di mano), sopra la quale io salirò, e quivi il meglio del mondo spero di fare quello che m'imporrai.
Lo scolare, che ottimamente sapeva e il luogo della donna e la torricella, contento d'esser certificato della sua intenzion, disse:
- Madonna, io non fu'mai in coteste contrade, e per ciò non so il podere né la torricella; ma, se così sta come voi dite, non può essere al mondo migliore.
E per ciò, quando tempo sarà, vi manderò la imagine e l'orazione; ma ben vi priego che, quando il vostro disiderio avrete e conoscerete che io v'avrò ben servita, che vi ricordi di me e d'attenermi la promessa.
A cui la donna disse di farlo senza alcun fallo; e preso da lui commiato, se ne tornò a casa.
Lo scolar lieto di ciò che il suo avviso pareva dovere avere effetto, fece una imagine con sue cateratte, e scrisse una sua favola per orazione; e, quando tempo gli parve, la mandò alla donna e mandolle a dire che la notte vegnente senza più indugio dovesse far quello che detto l'avea; e appresso segretamente con un suo fante se n'andò a casa d'un suo amico che assai vicino stava alla torricella, per dovere al suo pensiero dare effetto.
La donna d'altra parte con la sua fante si mise in via e al suo podere se n'andò; e come la notte fu venuta, vista faccendo d'andarsi al letto, la fante ne mandò a dormire, e in su l'ora del primo sonno, di casa chetamente uscita, vicino alla torricella sopra la riva d'Arno se n'andò, e molto dattorno guatatosi, né veggendo né sentendo alcuno, spogliatasi e i suoi panni sotto un cespuglio nascosi, sette volte con la imagine si bagnò, e appresso, ignuda con la imagine in mano, verso la torricella n'andò.
Lo scolare, il quale in sul fare della notte, col suo fante tra salci e altri alberi presso della torricella nascoso s'era, e aveva tutte queste cose vedute, e passandogli ella quasi allato così ignuda, ed egli veggendo lei con la bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte, e appresso riguardandole il petto e l'altre parti del corpo, e vedendole belle e seco pensando quali infra piccol termine dovean divenire, sentì di lei alcuna compassione; e d'altra parte lo stimolo della carne l'assalì subitamente e fece tale in piè levare che si giaceva, e con fortavalo che egli da guato uscisse e lei andasse a prendere e il suo piacer ne facesse; e vicin fu ad essere tra dall'uno e dal l'altro vinto.
Ma nella memoria tornandosi chi egli era, e qual fosse la 'ngiuria ricevuta, e perché e da cui, e per ciò nel lo sdegno raccesosi, e la compassione e il carnale appetito cacciati, stette nel suo proponimento fermo, e lasciolla andare.
La donna, montata in su la torre e a tramontana rivolta, cominciò a dire le parole datele dallo scolare; il quale, poco appresso nella torricella entrato, chetamente a poco a poco levò quella scala che saliva in sul battuto dove la donna era, e appresso aspettò quello che ella dovesse dire e fare.
La donna, detta sette volte la sua orazione, cominciò ad aspettare le due damigelle, e fu sì lungo l'aspettare (senza che fresco le faceva troppo più che voluto non avrebbe) che ella vide l'aurora apparire; per che, dolente che avvenuto non era ciò che lo scolare detto l'avea, seco disse: - Io temo che costui non m'abbia voluto dare una notte chente io diedi a lui; ma, se per ciò questo m'ha fatto, mal s'è saputo vendicare, ché questa non è stata lunga per lo terzo che fu la sua, senza che il I freddo fu d'altra qualità - .
E perché il giorno quivi non la cogliesse, cominciò a volere smontare della torre, ma ella trovò non esservi la scala.
Allora, quasi come se il mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì l'animo, e vinta cadde sopra il battuto della torre.
E poi che le forze le ritornarono, miseramente cominciò a piagnere e a dolersi; e assai ben conoscendo questa dovere essere stata opera dello scolare, s'incominciò a ramaricare d'avere altrui offeso, e appresso d'essersi troppo fidata di colui,
il quale ella doveva meritamente creder nimico; e in ciò stette
lunghissimo spazio.
Poi, riguardando se via alcuna da scender vi fosse e non veggendola, ricominciato il pianto, entrò in uno amaro pensiero, a sé stessa dicendo: - O sventurata, che si dirà da' tuoi fratelli, da' parenti e da' vicini, e generalmente da tutti i fiorentini, quando si saprà che tu sii qui trovata ignuda? La tua onestà, stata cotanta, sarà conosciuta essere stata falsa; e se tu volessi a queste ce avrebbe, il maladetto scolare, che tutti i fatti tuoi sa, non ti lascerà mentire.
Ahi misera te, che ad una ora avrai perduto il male amato giovane e il tuo onore! - E dopo questo venne in tanto dolore, che quasi fu per gittarsi della torre in terra.
Ma, essendosi già levato il sole ed ella alquanto più dall'una delle parti più al muro accostatasi della torre, guardando se alcuno fanciullo quivi colle bestie s'accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante, avvenne che lo scolare, avendo a piè d'un cespuglio dormito alquanto, destandosi la vide ed ella lui.
Alla quale lo scolare disse:
- Buon dì, madonna; sono ancor venute le damigelle?
La donna, vedendolo e udendolo, ricominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse, acciò che essa potesse parlargli.
Lo scolare le fu di questo assai cortese.
La donna, postasi a giacer boccone sopra il battuto, il capo solo fece alla cateratta di quello, e piagnendo disse:
- Rinieri, sicuramente, se io ti diedi la mala notte, tu ti se'ben di me vendicato, per ciò che, quantunque di luglio sia, mi sono io creduta questa notte, stando ignuda, assiderare; senza che io ho tanto pianto e lo 'nganno che io ti feci e la mia sciocchezza che ti credetti, che maraviglia è come gli occhi mi sono in capo rimasi.
E per ciò io ti priego, non per amor di me, la qual tu amar non dei, ma per amor di te, che se'gentile uomo, che ti basti, per vendetta della ingiuria la quale io ti feci, quello che infino a questo punto fatto hai, e faccimi i miei panni recare, e che io possa di quassù discendere, e non mi voler tor quello che tu poscia vogliendo render non mi potresti, cioè l'onor mio; ché, se io tolsi a te l'esser con meco quella notte, io, ognora che a grado ti fia, te ne posso render molte per quella una.
Bastiti adunque questo, e come a valente uomo, sieti assai l'esserti potuto vendicare e l'averlomi fatto conoscere; non volere le tue forze contro ad una femina esercitare; niuna gloria è ad una aquila l'aver vinta una colomba; dunque, per l'amor di Dio e per onor di te, t'incresca di me.
Lo scolare, con fiero animo seco la ricevuta ingiuria rivolgendo, e veggendo piagnere e pregare, ad una ora aveva pia cere e noia nello animo; piacere della vendetta, la quale più che altra cosa disiderata avea; e noia sentiva, movendolo la umanità sua a compassion della misera.
Ma pur, non potendo la umanità vincere la fierezza dello appetito, rispose:
- Madonna Elena, se i miei prieghi (li quali nel vero io non seppi bagnare di lagrime né far melati come tu ora sai porgere i tuoi) m'avessero impetrato, la notte che io nella tua corte di neve piena moriva di freddo, di potere essere stato messo da te pure un poco sotto il coperto, leggier cosa mi sarebbe al presente i tuoi esaudire; ma se cotanto or più che per lo passato del tuo onor ti cale, ed etti grave il costà su ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle cui braccia non t'increbbe, quella notte che tu stessa ricordi, ignuda stare, me sentendo per la tua corte andare i denti battendo e scalpitando la neve, e a lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare, a lui ti fa por la scala per la qual tu scenda, in lui t'ingegna di mettere tenerezza del tuo onore, per cui quel medesimo, e ora e mille altre volte, non hai dubitato di mettere in periglio.
Come nol chiami tu che ti venga ad aiutare? E a cui appartiene egli più che a lui? Tu se'sua: e quali cose guarderà egli o aiuterà, se egli non guarda e aiuta te? Chiamalo, stolta che tu se', e prova se l'amore il quale tu gli porti e il tuo senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare, la qual, sollazzando con lui, domandasti quale gli pareva maggiore o la mia sciocchezza o l'amor che tu gli portavi.
Né essere a me ora cortese di ciò che io non disidero, né negare il mi puoi se io il disiderassi; al tuo amante le tue notti riserba, se egli avviene che tu di qui viva ti parti; tue sieno e di lui; io n'ebbi troppo d'una, e bastimi d'essere stato una volta schernito.
E ancora, la tua astuzia usando nel favellare, t'ingegni col commendarmi la mia benivolenzia acquistare, e chiamimi gentile uomo e valente, e tacitamente, che io come magnanimo mi ritragga dal punirti della tua malvagità, t'ingegni di fare; ma le tue lusinghe non m'adombreranno ora gli occhi dello 'ntelletto, come già fecero le tue disleali promessioni; io mi conosco, né tanto di me stesso apparai mentre dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte delle tue mi facesti conoscere.
Ma, presupposto che io pur magnammo fossi, non se'tu di quelle in cui la magnanimità debba i suoi effetti mostrare; la fine della penitenzia, nelle salvatiche fiere come tu se', e similmente della vendetta, vuole esser la morte, dove negli uomini quel dee bastare che tu dicesti.
Per che, quatunque io aquila non sia, te non colomba, ma velenosa serpe conoscendo, come antichissimo nimico con ogni odio e con tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che questo che io ti fo non si possa assai propiamente vendetta chiamare, ma più tosto gastigamento, in quanto la vendetta dee trapassare l'offesa, e questo non v'aggiugnerà; per ciò che se io vendicar mi volessi, riguardando a che partito tu ponesti l'anima mia, la tua vita non mi basterebbe, togliendolati, né cento altre alla tua simiglianti, per ciò che io ucciderei una vile e cattiva e rea feminetta.
E da che diavol (togliendo via cotesto tuo pochetto di viso, il quale pochi anni guasteranno riempiendolo di crespe) se'tu più che qualunque altra dolorosetta fante? Dove per te non rimase di far morire un valente uomo, come tu poco avanti mi chiamasti, la cui vita ancora potrà più in un dì essere utile al mondo, che centomilia tue pari non potranno mentre il mondo durar dee.
Insegnerotti adunque con questa noia che tu sostieni che cosa sia lo schernir gli uomini che hanno alcun sentimento, e che cosa sia lo schernir gli scolari; e darotti materia di giammai più in tal follia non cader, se tu campi.
Ma, se tu n'hai così gran voglia di scendere, ché non te ne gitti tu in terra? E ad una ora con lo aiuto di Dio fiaccandoti tu il collo, uscirai della pena nella quale esser ti pare, e me farai il più lieto uomo del mondo.
Ora io non ti vo'dir più; io seppi tanto fare che io costà su ti feci salire; sappi tu ora tanto fare che tu ne scenda, come tu mi sapesti beffare.
Parte che lo scolare questo diceva, la misera donna piagneva continuo, e il tempo se n'andava, sagliendo tuttavia il sol più alto.
Ma poi che ella il sentì tacer, disse:
- Deh! crudele uomo, se egli ti fu tanto la maladetta notte grave e parveti il fallo mio così grande che né ti posson muovere a pietate alcuna la mia giovane bellezza, le amare lagrime né gli umili prieghi, almeno muovati alquanto e la tua severa rigidezza diminuisca questo solo mio atto, l'essermi di te nuovamente fidata e l'averti ogni mio segreto scoperto col quale ho dato via al tuo disidero in potermi fare del mio peccato conoscente; con ciò sia cosa che, senza fidarmi io di te, niuna via fosse a te a poterti di me vendicare, il che tu mostri con tanto ardore aver disiderato.
Deh! lascia l'ira tua e perdonami omai: io sono, quando tu perdonar mi vogli e di quinci farmi discendere, acconcia d'abbandonar del tutto il disleal giovane e te solo aver per amadore e per signore, quantunque tu molto la mia bellezza biasimi, brieve e poco cara mostrandola; la quale, chente che ella, insieme con quella dell'altre, si sia, pur so che, se per altro non fosse da aver cara, si è per ciò che vaghezza e trastullo e diletto è della giovanezza degli uomini; e tu non se'vecchio.
E quantunque io crudelmente da te trattata sia, non posso per ciò credere che tu volessi vedermi fare così disonesta morte, come sarebbe il gittarmi a guisa di disperata quinci giù dinanzi agli occhi tuoi, a' quali, se tu bugiardo non eri come sei diventato, già piacqui cotanto.
Deh! increscati di me per Dio e per pietà: il sole s'incomincia a riscaldar troppo, e come il troppo freddo questa notte m'offese, così il caldo m'incomincia a far grandissima noia.
A cui lo scolare, che a diletto la teneva a parole, rispose:
- Madonna, la tua fede non si rimise ora nelle mie mani per amor che tu mi portassi, ma per racquistare quello che tu perduto avevi; e per ciò niuna cosa merita altro che maggior male; e mattamente credi, se tu credi questa sola via senza più essere, alla disiderata vendetta da me, opportuna stata.
Io n'aveva mille altre, e mille lacciuoli, col mostrar d'amarti, t'aveva tesi intorno a' piedi, né guari di tempo era ad andare, che di necessità, se questo avvenuto non fosse, ti convenia in uno incappare; né potevi incappare in alcuno, che in maggior pena e vergogna che questa non ti fia caduta non fossi; e questo presi non per agevolarti, ma per esser più tosto lieto.
E dove tutti mancati mi fossero, non mi fuggiva la penna, con la quale tante e sì fatte cose di te scritte avrei e in sì fatta maniera, che, avendole tu risapute (ché l'avresti), avresti il dì mille volte disiderato di mai non esser nata.
Le forze della penna sono troppo maggiori che coloro non estimano che quelle con conoscimento provate non hanno.
Io giuro a Dio (e se egli di questa vendetta, che io di te prendo, mi faccia allegro infin la fine, come nel cominciamento m'ha fatto) che io avrei di te scritte cose che, non che dell'altre persone, ma di te stessa vergognandoti, per non poterti vedere t'avresti cavati gli occhi; e per ciò non rimproverare al mare d'averlo fatto crescere il piccolo ruscelletto.
Del tuo amore, o che tu sii mia, non ho io, come già dissi, alcuna cura; sieti pur di colui di cui stata se', se tu puoi, il quale, come io già odiai, così al presente amo, riguardando a ciò che egli ha ora verso te operato.
Voi v'andate innamorando e disiderate l'amor de' giovani, per ciò che alquanto con le carni più vive e con le barbe più nere gli vedete, e sopra sé andare e carolare e giostrare; le quali cose tutte ebber coloro che più alquanto attempati sono, e quel sanno che coloro hanno ad imparare.
E oltre a ciò, gli stimate miglior cavalieri e far di più miglia le lor giornate che gli uomini più maturi.
Certo io confesso che essi con maggior forza scuotono i pilliccioni, ma gli attempati, sì come esperti, sanno meglio i luoghi dove stanno le pulci; e di gran lunga è da eleggere più tosto il poco e saporito che il molto e insipido; e il trottar forte rompe e stanca altrui, quantunque sia giovane, dove il soavemente andare, ancora che alquanto più tardi altrui meni allo albergo, egli il vi conduce almen riposato.
Voi non v'accorgete, animali senza intelletto, quanto di male sotto quella poca di bella apparenza stea nascoso.
Non sono i giovani d'una contenti, ma quante ne veggono tante ne disiderano, di tante par loro esser degni; per che essere non può stabile il loro amore; e tu ora ne puoi per pruova esser verissima testimonia.
E par loro esser degni d'essere reveriti e careggiati dalle loro donne; né altra gloria hanno maggiore che il vantarsi di quelle che hanno avute; il qual fallo già sotto a' frati, che nol ridicono, ne mise molte.
Benché tu dichi che mai i tuoi amori non seppe altri che la tua fante e io, tu il sai male, e mal credi se così credi.
La sua contrada quasi di niun'altra cosa ragiona, e la tua; ma le più volte è l'ultimo, a cui cotali cose agli orecchi pervengono, colui a cui elle appartengono.
Essi ancora vi rubano, dove dagli attempati v'è donato.
Tu adunque, che male eleggesti, sieti di colui a cui tu ti desti, e me, il quale schernisti, lascia stare ad altrui, ché io ho trovata donna da molto più che tu non se', che meglio n'ha conosciuto che tu non facesti.
E acciò che tu del disidero degli occhi miei possi maggior certezza nell'altro mondo portare che non mostra che tu in questo prenda dalle mie parole, gittati giù pur tosto, e l'anima tua, sì come io credo, già ricevuta nel le braccia del diavolo, potrà vedere se gli occhi miei d'averti veduta strabocchevolmente cadere si saranno turbati o no.
Ma per ciò che io credo che di tanto non mi vorrai far lieto, ti dico che, se il sole ti comincia a scaldare, ricorditi del freddo che tu a me facesti patire, e se con cotesto caldo il mescolerai, senza fallo il sol sentirai temperato.
La sconsolata donna, veggendo che pure a crudel fine riuscivano le parole dello scolare, ricominciò a piagnere e disse:
- Ecco, poi che niuna mia cosa di me a pietà ti muove, muovati l'amore, il qual tu porti a quella donna che più savia di me di'che hai trovata, e da cui tu di'che se'amato, e per amor di lei mi perdona e i miei panni mi reca, ché io rivestir mi possa, e quinci mi fa smontare.
Lo scolare allora cominciò a ridere; e veggendo che già la terza era di buona ora passata, rispose:
- Ecco, io non so ora dir di no, per tal donna me n'hai pregato; insegnamegli, e io andrò per essi e farotti di costà su scendere.
La donna, ciò credendo, alquanto si confortò, e insegnogli il luogo dove aveva i panni posti.
Lo scolare, della torre uscito, comandò al fante suo che di quindi non si partisse, anzi vi stesse vicino, e a suo poter guardasse che alcun non v'entrasse dentro infino a tanto che egli tornato fosse; e questo detto, se n'andò a casa del suo amico, e quivi a grande agio desinò, e appresso, quando ora gli parve, s'andò a dormire.
La donna, sopra la torre rimasa, quantunque da sciocca speranza un poco riconfortata fosse, pure oltre misura dolente si dirizzò a sedere, e a quella parte del muro dove un poco d'ombra era s'accostò, e cominciò accompagnata da amarissimi pensieri ad aspettare; e ora pensando e ora piagnendo, e ora sperando e or disperando della tornata dello scolare co' panni, e d'un pensiero in altro saltando, sì come quella che dal dolore era vinta, e che niente la notte passata aveva dormito, s'addormentò.
Il sole, il quale era ferventissimo, essendo già al mezzo giorno salito, feriva alla scoperta e al diritto sopra il tenero e dilicato corpo di costei e sopra la sua testa, da niuna cosa coperta, con tanta forza, che non solamente le cosse le carni tanto quanto ne vedea, ma quelle minuto minuto tutte l'aperse; e fu la cottura tale, che lei che profondamente dormiva constrinse a destarsi.
E sentendosi cuocere e alquanto movendosi, parve nel muoversi che tutta la cotta pelle le s'aprisse e ischiantasse, come veggiamo avvenire d'una carta di pecora abbruciata, se altri la tira; e oltre a questo le doleva sì forte la testa, che pareva che le si spezzasse, il che niuna maraviglia era.
E il battuto della torre era fervente tanto, che ella né co' piedi né con altro vi poteva trovar luogo; per che, senza star ferma, or qua or là si tramutava piagnendo.
E oltre a questo, non faccendo punto di vento, v'erano mosche e tafani in grandissima quantità abondanti, li quali, ponendolesi sopra le carni aperte, sì fieramente la stimolavano, che ciascuna le pareva una puntura d'uno spontone per che ella di menare le mani attorno non restava niente, sé, la sua vita, il suo amante e lo scolare sempre maladicendo.
E così essendo dal caldo inestimabile, dal sole, dalle mosche e da' tafani, e ancor dalla fame, ma molto più dalla sete, e per aggiunta da mille noiosi pensieri angosciata e stimolata e trafitta, in piè dirizzata, cominciò a guardare se vicin di sé o vedesse o udisse alcuna persona, disposta del tutto, che che avvenire ne le dovesse, di chiamarla e di domandare aiuto.
Ma anche questo l'aveva la sua nimica fortuna tolto.
I lavoratori eran tutti partiti de' campi per lo caldo, avvegna che quel dì niuno ivi appresso era andato a lavorare, sì come quegli che allato alle lor case tutti le lor biade battevano; per che niuna altra cosa udiva che cicale, e vedeva Arno, il qual, porgendole disiderio delle sue acque, non iscemava la sete ma l'accresceva.
Vedeva ancora in più luoghi boschi e ombre e case, le quali tutte similmente l'erano angoscia disiderando.
Che direm più della sventurata vedova? Il sol di sopra e il fervor del battuto di sotto e le trafitture delle mosche e de' tafani da lato sì per tutto l'avean concia, che ella, dove la notte passata con la sua bianchezza vinceva le tenebre, allora rossa divenuta come robbia, e tutta di sangue chiazata, sarebbe paruta, a chi veduta l'avesse, la più brutta cosa del mondo.
E così dimorando costei, senza consiglio alcuno o speranza, più la morte aspettando che altro, essendo già la mezza nona passata, lo scolare, da dormir levatosi e della sua donna ricordandosi, per veder che di lei fosse se ne tornò alla torre, e il suo fante, che ancora era digiuno, ne mandò a mangiare; il quale avendo la donna sentito, debole e della grave noia angosciosa, venne sopra la cateratta, e postasi a sedere, piagnendo cominciò a dire:
- Rinieri, ben ti se'oltre misura vendico, ché se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare, tu hai me di giorno sopra questa torre fatta arrostire, anzi ardere, e oltre a ciò di fame e di sete morire; per che io ti priego per solo Iddio che qua su salghi, e poi che a me non soffera il cuore di dare a me stessa la morte, dallami tu, ché io la disidero più che altra cosa, tanto e tale è il tormento che io sento.
E se tu questa grazia non mi vuoi fare, almeno un bicchier d'acqua mi fa venire, che io possa bagnarmi la bocca, alla quale non bastano le mie lagrime, tanta è l'asciugaggine e l'arsura la quale io v'ho dentro.
Ben conobbe lo scolare alla voce la sua debolezza, e ancor vide in parte il corpo suo tutto riarso dal sole, per le quali cose e per gli umili suoi prieghi un poco di compassione gli venne di lei; ma non per tanto rispose:
- Malvagia donna, delle mie mani non morrai tu già, tu morrai pur delle tue, se voglia te ne verrà; e tanta acqua avrai da me a sollevamento del tuo caldo, quanto fuoco io ebbi da te ad alleggiamento del mio freddo.
Di tanto mi dolgo forte, che la 'nfermità del mio freddo col caldo del letame puzzolente si convenne curare, ove quella del tuo caldo col freddo della odorifera acqua rosa si curerà; e dove io per perdere i nervi e la persona fui, tu da questo caldo scorticata, non altramenti rimarrai bella che faccia la serpe lasciando il vecchio cuoio.
- O misera me! - disse la donna - queste bellezze in così fatta guisa acquistate dea Iddio a quelle persone che mal mi vogliono; ma tu, più crudele che ogni altra fiera, come hai potuto sofferire di straziarmi a questa maniera? Che più doveva io aspettar da te o da alcuno altro, se io tutto il tuo parentado sotto crudelissimi tormenti avessi uccisi? Certo io non so qual maggior crudeltà si fosse potuta usare in un traditore che tutta una città avesse messa ad uccisione, che quella alla qual tu m'hai posta a farmi arrostire al sole e manicare alle mosche; e oltre a questo non un bicchier d'acqua volermi dare, che a' micidiali dannati dalla ragione, andando essi alla morte, è dato ber molte volte del vino, pur che essi ne domandino.
Ora ecco, poscia che io veggo te star fermo nella tua acerba crudeltà, né poterti la mia passione in parte alcuna muovere, con pazienzia mi disporrò alla morte ricevere, acciò che Iddio abbia misericordia della anima mia, il quale io priego che con giusti occhi questa tua operazion riguardi.
E queste parole dette, si trasse con gravosa sua pena verso il mezzo del battuto, disperandosi di dovere da così ardente caldo campare; e non una volta ma mille, oltre agli altri suoi dolori, credette di sete ispasimare, tuttavia piagnendo forte e della sua sciagura dolendosi.
Ma essendo già vespro e parendo allo scolare avere assai fatto, fatti prendere i panni di lei e inviluppare nel mantello del fante, verso la casa della misera donna se n'andò, e quivi sconsolata e trista e senza consiglio la fante di lei trovò sopra la porta sedersi, alla quale egli disse:
- Buona femina, che è della donna tua?
A cui la fante rispose:
- Messere, io non so; io mi credeva stamane trovarla nel letto dove iersera me l'era paruta vedere andare; ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta, di che io vivo con grandissimo dolore; ma voi, messere, saprestemene dir niente?
A cui lo scolar rispose:
- Così avess'io avuta te con lei insieme là dove io ho lei avuta, acciò che io t'avessi della tua colpa così punita come io ho lei della sua! Ma fermamente tu non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì dell'opere tue che mai di niuno uomo farai beffe che di me non ti ricordi.
- E questo detto, disse al suo fante:
- Dalle cotesti panni e dille che vada per lei, s'ella vuole.
Il fante fece il suo comandamento; per che la fante, presigli e riconosciutigli, udendo ciò che detto l'era, temette forte non l'avessero uccisa, e appena di gridar si ritenne; e subitamente, piagnendo, essendosi già lo scolar partito, con quegli verso la torre n'andò correndo.
Aveva per isciagura uno lavoratore di questa donna quel dì due suoi porci smarriti, e andandoli cercando, poco dopo la partita dello scolare a quella torricella pervenne, e andando guatando per tutto se i suoi porci vedesse, sentì il miserabile pianto che la sventurata donna faceva, per che salito su quanto potè, gridò:
- Chi piagne là su?
La donna conobbe la voce del suo lavoratore, e chiamatol per nome gli disse:
- Deh! vammi per la mia fante, e fa sì che ella possa qua su a me venire.
Il lavoratore, conosciutala, disse:
- Ohimè! madonna: o chi vi portò costà su? La fante vostra v'è tutto dì oggi andata cercando; ma chi avrebbe mai pensato che voi doveste essere stata qui?
E presi i travicelli della scala, la cominciò a dirizzar come star dovea e a legarvi con ritorte i bastoni a traverso.
E in questo la fante di lei sopravenne, la quale, nella torre entrata, non potendo più la voce tenere, battendosi a palme cominciò a gridare:
- Ohimè, donna mia dolce, ove siete voi?
La donna udendola, come più forte potè, disse:
- O sirocchia mia, io son qua su; non piagnere, ma recami tosto i panni miei.
Quando la fante l'udì parlare, quasi tutta riconfortata, salì su per la scala già presso che racconcia dal lavoratore, e aiutata da lui in sul battuto pervenne; e vedendo la donna sua, non corpo umano ma più tosto un cepperello innarsicciato parere, tutta vinta, tutta spunta, e giacere in terra ignuda, messesi l'unghie nel viso cominciò a piagnere sopra di lei, non altramenti che se morta fosse.
Ma la donna la pregò per Dio che ella tacesse e lei rivestire aiutasse.
E avendo da lei saputo che niuna persona sapeva dove ella stata fosse, se non coloro che i panni portati l'aveano e il lavoratore che al presente v'era, alquanto di ciò racconsolata, gli pregò per Dio che mai ad alcuna persona di ciò niente dicessero.
Il lavoratore dopo molte novelle, levatasi la donna in collo, che andar non poteva, salvamente infin fuor della torre la condusse.
La fante cattivella, che di dietro era rimasa, scendendo meno avvedutamente, smucciandole il piè, cadde della scala in terra e ruppesi la coscia, e per lo dolor sentito cominciò a mugghiar che pareva un leone.
Il lavoratore, posata la donna sopra ad uno erbaio, andò a vedere che avesse la fante, e trovatala con la coscia rotta, similmente nello erbaio la recò, e allato alla donna la pose.
La quale veggendo questo a giunta degli altri suoi mali avvenuto, e colei avere rotta la coscia da cui ella sperava essere aiutata più che da altrui, dolorosa senza modo ricominciò il suo pianto tanto miseramente, che non solamente il lavoratore non la potè racconsolare, ma egli altressì cominciò a piagnere.
Ma, essendo già il sol basso, acciò che quivi non gli cogliesse la notte, come alla sconsolata donna piacque, n'andò alla casa sua, e quivi chiamati due suoi fratelli e la moglie, e là tornati con una tavola, su v'acconciarono la fante e alla casa ne la portarono; e riconfortata la donna con un poco d'acqua fresca e con buone parole, levatalasi il lavoratore in collo, nella camera di lei la portò.
La moglie del lavoratore, datole mangiar pan lavato e poi spogliatala, nel letto la mise, e ordinarono che essa e la fante fosser la notte portate a Firenze; e così fu fatto.
Quivi la donna, che aveva a gran divizia lacciuoli, fatta una sua favola tutta fuor dell'ordine delle cose avvenute, sì di sé e sì della sua fante fece a' suoi fratelli e alle sirocchie e ad ogn'altra persona credere che per indozzamenti di demoni questo loro fosse avvenuto.
I medici furon presti, e non senza grandissima angoscia e affanno della donna che tutta la pelle più volte appiccata lasciò alle lenzuola, lei d'una fiera febbre e degli altri accidenti guerirono, e similmente la fante della coscia.
Per la qual cosa la donna, dimenticato il suo amante, da indi innanzi e di beffare e d'amare si guardò saviamente.
E lo scolare, sentendo alla fante la coscia rotta, parendogli avere assai intera vendetta, lieto, senza altro dirne, se ne passò.
Così adunque alla stolta giovane addivenne delle sue beffe, non altramente con uno scolare credendosi frascheggiare che con un altro avrebbe fatto; non sappiendo bene che essi, non dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda.
E per ciò guardatevi, donne, dal beffare, e gli scolari spezialmente.
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Novella Ottava
Due usano insieme; l'uno con la moglie dell'altro si giace; l'altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che l'uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l'un dentro, l'altro con la moglie dell'un si giace.
Gravi e noiosi erano stati i casi d'Elena ad ascoltare alle donne; ma per ciò che in parte giustamente avvenutigli gli estimavano, con più moderata compassion gli avean trapassati, quantunque rigido e costante fieramente, anzi crudele, riputassero lo scolare.
Ma essendo Pampinea venutane alla fine, la reina alla Fiammetta impose che seguitasse, la quale, d'ubidire disiderosa, disse.
Piacevoli donne, per ciò che mi pare che alquanto trafitto v'abbia la severità dello offeso scolare, estimo che convenevole sia con alcuna cosa più dilettevole rammorbidire gl'innacerbiti spiriti; e per ciò intendo di dirvi una novelletta d'un giovane, il quale con più mansueto animo una ingiuria ricevette, e quella con più moderata operazion vendicò.
Per la quale potrete comprendere che assai dee bastare a ciascuno, se quale asino dà in parete tal riceve, senza volere, soprabondando oltre la convenevoleza della vendetta, ingiuriare, dove l'uomo si mette alla ricevuta ingiuria vendicare.
Dovete adunque sapere che in Siena, sì come io intesi già, furon due giovani assai agiati e di buone famiglie popolane, de' quali l'uno ebbe nome Spinelloccio Tavena e l'altro ebbe nome Zeppa di Mino, e amenduni eran vicini a casa in Cammollia.
Questi due giovani sempre usavano insieme, e per quello che mostrassono, così s'amavano, o più, come se stati fosser fratelli, e ciascun di loro avea per moglie una donna assai bella.
Ora avvenne che Spinelloccio, usando molto in casa del Zeppa, ed essendovi il Zeppa e non essendovi, per sì fatta maniera con la moglie del Zeppa si dimesticò, che egli incominciò a giacersi con essolei; e in questo continuarono una buona pezza avanti che persona se n'avvedesse.
Pure al lungo andare, essendo un giorno il Zeppa in casa e non sappiendolo la donna, Spinelloccio venne a chiamarlo.
La donna disse che egli non era in casa; di che Spinelloccio prestamente andato su e trovata la donna nella sala, e veggendo che altri non v'era, abbracciatala la cominciò a baciare, ed ella lui.
Il Zeppa, che questo vide, non fece motto, ma nascoso si stette a veder quello a che il giuoco dovesse riuscire; e brievemente egli vide la sua moglie e Spinelloccio così abbracciati andarsene in camera e in quella serrarsi, di che egli si turbò forte.
Ma conoscendo che per far romore né per altro la sua ingiuria non diveniva minore, anzi ne cresceva la vergogna, si diede a pensar che vendetta di questa cosa dovesse fare, che, senza sapersi dattorno, l'animo suo rimanesse contento; e dopo lungo pensiero, parendogli aver trovato il modo, tanto stette nascoso quanto Spinelloccio stette con la donna.
Il quale come andato se ne fu, così egli nella camera se n'entrò, dove trovò la donna che ancora non s'era compiuta di racconciare i veli in capo, li quali scherzando Spinelloccio fatti l'aveva cadere, e disse:
- Donna, che fai tu?
A cui la donna rispose:
- Nol vedi tu?
Disse il Zeppa:
- Sì bene, sì, ho io veduto anche altro che io non vorrei; - e con lei delle cose state entrò in parole, ed essa con grandissima paura dopo molte novelle quello avendogli confessato che acconciamente della sua dimestichezza con Ispinelloccio negar non potea, piagnendo gl'incominciò a chieder perdono.
Alla quale il Zeppa disse:
- Vedi, donna, tu hai fatto male, il quale se tu vuogli che io ti perdoni, pensa di fare compiutamente quello che io t'imporrò, il che è questo.
Io voglio che tu dichi a Spinelloccio che domattina in su l'ora della terza egli truovi qualche cagione di partirsi da me e venirsene qui a te; e quando egli ci sarà, io tornerò, e come tu mi senti, cosi il fa entrare in questa cassa e serracel dentro; poi, quando questo fatto avrai, e io ti dirò il rimanente che a fare avrai; e di far questo non aver dottanza niuna, ché io ti prometto che io non gli farò male alcuno.
La donna, per sodisfargli, disse di farlo, e così fece.
Venuto il dì seguente, essendo il Zeppa e Spinelloccio insieme in su la terza, Spinelloccio, che promesso aveva alla donna d'andare a lei a quella ora, disse al Zeppa:
- Io debbo stamane desinare con alcuno amico, al quale io non mi voglio fare aspettare, e per ciò fatti con Dio.
Disse il Zeppa:
- Egli non è ora di desinare di questa pezza.
Spinelloccio disse:
- Non fa forza; io ho altressì a parlar seco d'un mio fatto, sì che egli mi vi convien pure essere a buona ora.
Partitosi adunque Spinelloccio dal Zeppa, data una sua volta, fu in casa con la moglie di lui; ed essendosene entrati in camera, non stette guari che il Zeppa tornò; il quale come la donna sentì, mostratasi paurosa molto, lui fece ricoverare in quella cassa che il marito detto l'avea e serrollovi entro, e uscì della camera.
Il Zeppa, giunto suso, disse:
- Donna, è egli otta di desinare?
La donna rispose:
- Sì, oggimai.
Disse allora il Zeppa:
- Spinelloccio è andato a desinare stamane con un suo amico e ha la donna sua lasciata sola; fatti alla finestra e chiamala, e dì che venga a desinar con essonoi.
La donna, di sé stessa temendo e per ciò molto ubbidiente divenuta, fece quello che il marito le 'mpose.
La moglie di Spinelloccio, pregata molto dalla moglie del Zeppa, vi venne, udendo che il marito non vi doveva desinare.
E quando ella venuta fu, il Zeppa, faccendole le carezze grandi e presala dimesticamente per mano, comandò pianamente alla moglie che in cucina n'andasse, e quella seco ne menò in camera, nella quale come fu, voltatosi addietro, serrò la camera dentro.
Quando la donna vide serrar la camera dentro, disse:
- Ohimè, Zeppa, che vuol dire questo? Dunque mi ci avete voi fatta venir per questo? Ora, è questo l'amor che voi portate a Spinelloccio e la leale compagnia che voi gli fate?
Alla quale il Zeppa, accostatosi alla cassa dove serrato era il marito di lei e tenendola bene, disse:
- Donna, imprima che tu ti ramarichi, ascolta ciò che io ti vo'dire: io ho amato e amo Spinelloccio come fratello, e ieri, come che egli nol sappia, io trovai che la fidanza la quale io ho di lui avuta era pervenuta a questo, che egli con la mia donna così si giace come con teco; ora, per ciò che io l'amo, non intendo di voler di lui pigliare altra vendetta, se non quale è stata l'offesa: egli ha la mia donna avuta, e io intendo d'aver te.
Dove tu non vogli, per certo egli converrà che io il ci colga, e per ciò che io non intendo di lasciare questa ingiuria impunita, io gli farò giuoco che né tu né egli sarete mai lieti.
La donna, udendo questo e dopo molte riconfermazioni fattelene dal Zeppa, credendol, disse:
- Zeppa mio, poi che sopra me dee cadere questa vendetta, e io son contenta, sì veramente che tu mi facci, di questo che far dobbiamo, rimanere in pace con la tua donna, come io, non ostante quello che ella m'ha fatto, intendo di rimaner con lei.
A cui il Zeppa rispose:
- Sicuramente io il farò; e oltre a questo ti donerò un così caro e bello gioiello, come niun altro che tu n'abbi; - e così detto, abbracciatala e cominciatala a baciare, la distese sopra la cassa, nella quale era il marito di lei serrato e quivi su, quanto gli piacque, con lei si sollazzò, ed ella con lui.
Spinelloccio, che nella cassa era e udite aveva tutte le parole dal Zeppa dette e la risposta della sua moglie, e poi aveva sentita la danza trivigiana che sopra il capo fatta gli era, una grandissima pezza sentì tal dolore che parea che morisse; e se non fosse che egli temeva del Zeppa, egli avrebbe detta alla moglie una gran villania così rinchiuso come era.
Poi, pur ripensandosi che da lui era la villania incominciata e che il Zeppa aveva ragione di far ciò che egli faceva, e che verso di lui umanamente e come compagno s'era portato, seco stesso disse di volere esser più che mai amico del Zeppa, quando volesse.
Il Zeppa, stato con la donna quanto gli piacque, scese della cassa, e domandando la donna il gioiello promesso, aperta la camera fece venir la moglie, la quale niun'altra cosa disse, se non:
- Madonna, voi m'avete renduto pan per focaccia; - e questo disse ridendo.
Alla quale il Zeppa disse:
- Apri questa cassa; - ed ella il fece; nella quale il Zeppa mostrò alla donna il suo Spinelloccio.
E lungo sarebbe a dire qual più di lor due si vergognò, o Spinelloccio vedendo il Zeppa e sappiendo che egli sapeva ciò che fatto aveva, o la donna vedendo il suo marito e conoscendo che egli aveva e udito e sentito ciò che ella sopra il capo fatto gli aveva.
Alla quale il Zeppa disse:
- Ecco il gioiello il quale io ti dono.
Spinelloccio, uscito della cassa, senza far troppe novelle, disse:
- Zeppa, noi siam pari pari; e per ciò è buono, come tu dicevi dianzi alla mia donna, che noi siamo amici come solavamo; e non essendo tra noi due niun'altra cosa che le mogli divisa, che noi quelle ancora comunichiamo.
Il Zeppa fu contento; e nella miglior pace del mondo tutti e quattro desinarono insieme.
E da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti, e ciascun di loro ebbe due mogli, senza alcuna quistione o zuffa mai per quello insieme averne.
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Novella Nona
Maestro Simone medico, da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d'una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi.
Poi che le donne alquanto ebber cianciato dello accomunar le mogli fatto da' due sanesi, la reina, alla qual sola restava a dire, per non fare ingiuria a Dioneo, incominciò.
Assai bene, amorose donne, si guadagnò Spinelloccio la beffa che fatta gli fu dal Zeppa; per la qual cosa non mi pare che agramente sia da riprendere, come Pampinea volle poco innanzi mostrare, chi fa beffa alcuna a colui che la va cercando o che la si guadagna.
Spinelloccio la si guadagnò; e io intendo di dirvi d'uno che se l'andò cercando; estimando che quegli che gliele fecero, non da biasimare ma da com mendar sieno.
E fu colui a cui fu fatta un medico, che a Firenze da Bologna, essendo una pecora, tornò tutto coperto di pelli di vai.
Sì come noi veggiamo tutto il dì i nostri cittadini da Bologna ci tornano qual giudice e qual medico e qual notaio, co' panni lunghi e larghi, e con gli scarlatti e co' vai, e con altre assai apparenze grandissime, alle quali come gli effetti succedano anche veggiamo tutto giorno.
Tra'quali un maestro Simone da Villa, più ricco di ben paterni che di scienza, non ha gran tempo, vestito di scarlatto e con un gran batalo, dottor di medicine, secondo che egli medesimo diceva, ci ritornò, e prese casa nella via la quale noi oggi chiamiamo la Via del Cocomero.
Questo maestro Simone novellamente tornato, sì come è detto, tra gli altri suoi costumi notabili aveva in costume di domandare chi con lui era chi fosse qualunque uomo veduto avesse per via passare; e quasi degli atti degli uomini dovesse le medicine che dar doveva a' suoi infermi comporre, a tutti poneva mente e raccoglievali.
E intra gli altri, alli quali con più efficacia gli vennero gli occhi addosso posti, furono due dipintori dei quali s'è oggi qui due volte ragionato, Bruno e Buffalmacco, la compagnia de' quali era continua, ed eran suoi vicini.
E parendogli che costoro meno che alcuni altri del mondo curassero e più lieti vivessero, sì come essi facevano, più persone domandò di lor condizione; e udendo da tutti costoro essere poveri uomini e dipintori, gli entrò nel capo non dover potere essere che essi dovessero così lietamente vivere della lor povertà, ma s'avvisò, per ciò che udito avea, che astuti uomini erano, che d'alcuna altra parte non saputa da gli uomini dovesser trarre profitti grandissimi; e per ciò gli venne in disidero di volersi, se esso potesse con amenduni, o con l'uno almeno, dimesticare; e vennegli fatto di prendere dimestichezza con Bruno.
E Bruno, conoscendo, in poche di volte che con lui stato era, questo medico essere uno animale, cominciò di lui ad avere il più bel tempo del mondo con sue nuove novelle, e il medico similmente cominciò di lui a prendere maraviglioso piacere.
E avendolo alcuna volta seco invitato a desinare e per questo credendosi dimesticamente con lui poter ragionare, gli disse la maraviglia che egli si faceva di lui e di Buffalmacco, che, essendo poveri uomini, così lietamente viveano; e pregollo che gli 'nsegnasse come facevano.
Bruno, udendo il medico, e parendogli la domanda dell'altre sue sciocche e dissipite, cominciò a ridere, e pensò di rispondergli secondo che alla sua pecoraggine si convenia, e disse:
- Maestro, io nol direi a molte persone come noi facciamo, ma di dirlo a voi, perché siete amico e so che ad altrui nol direte, non mi guarderò.
Egli è il vero che il mio compagno e io viviamo così lietamente e così bene come vi pare e più; né di nostra arte né d'altro frutto, che noi d'alcune possessioni traiamo, avremmo da poter pagar pur l'acqua che noi logoriamo; né voglio per ciò che voi crediate che noi andiamo ad imbolare, ma noi andiamo in corso, e di questo ogni cosa che a noi è di diletto o di bisogno, senza alcun danno d'altrui, tutto traiamo, e da questo viene il nostro viver lieto che voi vedete.
Il medico udendo questo e, senza saper che si fosse, credendolo, si maravigliò molto; e subitamente entrò in disidero caldissimo di sapere che cosa fosse l'andare in corso; e con grande instanzia il pregò che gliel dicesse, affermandogli che per certo mai a niuna persona il direbbe.
- Ohmè! - disse Bruno - maestro, che mi domandate voi? Egli è troppo gran segreto quello che voi volete sapere, ed è cosa da disfarmi e da cacciarmi del mondo; anzi da farmi mettere in bocca del Lucifero da San Gallo, se altri il risapesse; ma sì è grande l'amor che io porto alla vostra qualitativa mellonaggine da Legnaia, e la fidanza la quale ho in voi, che io non posso negarvi cosa che voi vogliate; e per ciò io il vi dirò con questo patto, che voi per la croce a Montesone mi giurerete che mai, come promesso avete, a niuno il direte.
Il maestro affermò che non farebbe.
- Dovete adunque, - disse Bruno - maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in questa città fu un gran maestro in nigromantia, il quale ebbe nome Michele Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de' quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, ad istanzia de' prieghi loro ci lasciò due suoi soffficienti discepoli, a' quali impose che ad ogni piacere di questi cotali gentili uomini, che onorato l'aveano, fossero sempre presti.
Costoro adunque servivano i predetti gentili uomini di certi loro innamoramenti e d'altre cosette liberamente; poi, piacendo lor la città e i costumi degli uomini, ci si disposero a voler sempre stare, e preserci di grandi e di strette amistà con alcuni, senza guardare chi essi fossero, più gentili che non gentili, o più ricchi che poveri, solamente che uomini fossero conformi a' lor costumi.
E per compiacere a questi così fatti loro amici ordinarono una brigata forse di venticinque uomini, li quali due volte almeno il mese insieme si dovessero ritrovare in alcun luogo da loro ordinato; e qui vi essendo, ciascuno a costoro il suo disidero dice, ed essi prestamente per quella notte il forniscono.
Co'quali due avendo Buffalmacco e io singulare amistà e dimestichezza, da loro in cotal brigata fummo messi, e siamo.
E dicovi così che, qualora egli avvien che noi insieme ci raccogliamo, è maravigliosa cosa a vedere i capoletti intorno alla sala dove mangiamo, e le tavole messe alla reale, e la quantità de' nobili e belli servidori, così femine come maschi, al piacer di ciascuno che è di tal compagnia, e i bacini, gli urciuoli, i fiaschi e le coppe e l'altro vasellamento d'oro e d'argento, ne'quali noi mangiamo e beiamo; e oltre a questo le molte e varie vivande, secondo che ciascun disidera, che recate ci sono davanti ciascheduna a suo tempo.
Io non vi potrei mai divisare chenti e quanti sieno i dolci suoni d'infiniti istrumenti e i canti pieni di melodia che vi s'odono; né vi potrei dire quanta sia la cera che vi s'arde a queste cene, né quanti sieno i confetti che vi si con sumano e come sieno preziosi i vini che vi si beono.
E non vorrei, zucca mia da sale, che voi credeste che noi stessimo là in questo abito o con questi panni che ci vedete: egli non ve n'è niuno sì cattivo che non vi paresse uno imperadore, sì siamo di cari vestimenti e di belle cose ornati.
Ma sopra tutti gli altri piaceri che vi sono, si è quello delle belle donne, le quali subitamente, purché l'uom voglia, di tumo il mondo vi son recate.
Voi vedreste quivi la donna dei Barbanicchi, la reina de' Baschi, la moglie del soldano, la imperadrice d'Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la scalpedra di Narsia.
Che vivo io annoverando? E'vi sono tutte le reine del mondo, io dico infino alla schinchimurra del Presto Giovanni, che ha per me' 'l culo le corna: or vedete oggimai voi! Dove, poi che hanno bevuto e confettato, fatta una danza o due, ciascuna con colui a cui stanzia v'è fatta venire se ne va nel la sua camera.
E sappiate che quelle camere paiono un paradiso a veder, tanto son belle; e sono non meno odorifere che sieno i bossoli delle spezie della bottega vostra, quando voi fate pestare il comino, e havvi letti che vi parrebber più belli che quello del doge di Vinegia, e in quegli a riposar se ne vanno.
Or che menar di calcole e di tirar le casse a sè per fare il panno serrato faccian le tessitrici, lascerò io pensare pure a voi! Ma tra gli altri che meglio stanno, secondo il parer mio, siam Buffalmacco e io, per ciò che Buffalmacco le più delle volte vi fa venir per sè la reina di Francia, e io per me quella d'Inghilterra, le quali son due pur le più belle donne del mondo; e sì abbiamo saputo fare che elle non hanno altro occhio in capo che noi.
Per che da voi medesimo pensar potete se noi possiamo e dobbiamo vivere e andare più che gli altri uomini lieti, pensando che noi abbiamo l'amor di due così fatte reine; senza che, quando noi vogliamo un mille o un dumilia fiorini da loro, noi non gli abbiamo prestamente.
E questa cosa chiamiam noi vulgarmente l'andare in corso; per ciò che sì come i corsari tolgono la roba d'ogn'uomo, e così facciam noi; se non che di tanto siam differenti da loro, che eglino mai non la rendono, e noi la rendiamo come adoperata l'abbiamo.
Ora avete, maestro mio da bene, inteso ciò che noi diciamo l'andare in corso; ma quanto questo voglia esser segreto voi il vi potete vedere, e per ciò più nol vi dico né ve ne priego.
Il maestro, la cui scienzia non si stendeva forse più oltre che il medicare i fanciulli del lattime, diede tanta fede alle parole di Bruno quanta si saria convenuta a qualunque verità; e in tanto disiderio s'accese di volere essere in questa brigata ricevuto, quanto di qualunque altra cosa più disiderabile si potesse essere acceso.
Per la qual cosa a Bruno rispose che fermamente maraviglia non era se lieti andavano; e a gran pena si temperò in riservarsi di richiederlo che essere il vi facesse, infino a tanto che, con più onor fattogli, gli potesse con più fidanza porgere i prieghi suoi.
Avendoselo adunque riservato, cominciò più a continuare con lui l'usanza e ad averlo da sera e da mattina a mangiar seco e a mostrargli smisurato amore; ed era sì grande e sì continua questa loro usanza, che non parea che senza Bruno il maestro potesse né sapesse vivere.
Bruno, parendogli star bene, acciò che ingrato non paresse di questo onor fattogli dal medico, gli aveva dipinto nella sala sua la quaresima e uno agnus dei all'entrar della camera e sopra l'uscio della via uno orinale, acciò che coloro che avessero del suo consiglio bisogno il sapessero riconoscere dagli altri; e in una sua loggetta gli aveva dipinta la battaglia dei topi e delle gatte, la quale troppo bella cosa pareva al medico.
E oltre a questo diceva alcuna volta al maestro, quando con lui non avea cenato:
- Stanotte fu'io alla brigata, ed essendomi un poco la reina d'Inghilterra rincresciuta, mi feci venire la gumedra del gran Can d'Altarisi.
Diceva il maestro:
- Che vuol dire gumedra? Io non gli intendo questi nomi.
- O maestro mio, - diceva Bruno - io non me ne maraviglio, ché io ho bene udito dire che Porcograsso e Vannaccena non ne dicon nulla.
Disse il maestro:
- Tu vuoi dire Ipocrasso e Avicenna.
Disse Bruno:
- Gnaffe! io non so; io m'intendo così male de' vostri nomi come voi de' miei; ma la gumedra in quella lingua del gran Cane vuol tanto dire quanto imperadrice nella nostra.
O ella vi parrebbe la bella feminaccia! Ben vi so dire che ella vi farebbe dimenticare le medicine e gli argomenti e ogni impiastro.
E così dicendogli alcuna volta per più accenderlo, avvenne che, parendo a messer lo maestro una sera a vegghiare, parte che il lume teneva a Bruno che la battaglia de' topi e delle gatte dipignea, bene averlo co' suoi onori preso, che egli si dispose d'aprirgli l'animo suo; e soli essendo, gli disse:
- Bruno, come Iddio sa, egli non vive oggi alcuna persona per cui io facessi ogni cosa come io farei per te; e per poco, se tu mi dicessi che io andassi di qui a Peretola, io credo che io v'andrei; e per ciò non voglio che tu ti maravigli se io te dimesticamente e a fidanza richiederò.
Come tu sai, egli non è guari che tu mi ragionasti de' modi della vostra lieta brigata, di che sì gran disiderio d'esserne m'è venuto, che mai niuna altra cosa si disiderò tanto.
E.
questo non è senza cagione, come tu vedrai se mai avviene che io ne sia; ché infino ad ora voglio io che tu ti facci beffe di me se io non vi fo venire la più bella fante che tu vedessi già è buona pezza, che io vidi pur l'altr'anno a Cacavincigli, a cui io voglio tutto il mio bene; e per lo corpo di Cristo che io le volli dare dieci bolognini grossi, ed ella mi s'acconsentisse, e non volle.
E però quanto più posso ti priego che m'insegni quello che io abbia a fare per dovervi potere essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi sia; e nel vero voi avrete di me buono e fedel compagno e orrevole.
Tu vedi innanzi innanzi come io sono bello uomo e come mi stanno bene le gambe in su la persona, e ho un viso che pare una rosa, e oltre a ciò son dottore di medicine, che non credo che voi ve n'abbiate niuno; e so di molte belle cose e di belle canzonette, e vo'tene dire una; - e di botto incominciò a cantare.
Bruno aveva sì gran voglia di ridere che egli in sè medesimo non capeva; ma pur si tenne.
E finita la canzone, e 'l maestro disse:
- Che te ne pare?
Disse Bruno:
- Per certo con voi perderieno le cetere de' sagginali, sì artagoticamente stracantate.
Disse il maestro:
- Io dico che tu non l'avresti mai creduto, se tu non m'avessi udito.
- Per certo voi dite vero, - disse Bruno.
Disse il maestro:
- Io so bene anche dell'altre, ma lasciamo ora star questo.
Così fatto come tu mi vedi, mio padre fu gentile uomo, benché egli stesse in contado, e io altressì son nato per madre di quegli da Vallecchio; e, come tu hai potuto vedere, io ho pure i più be'libri e le più belle robe che medico di Firenze.
In fè di Dio, io ho roba che costò, contata ogni cosa, delle lire presso a cento di bagattini, già è degli anni più di dieci.
Per che quanto più posso ti priego che facci che io ne sia; e in fè di Dio, se tu il fai, sie pure infermo se tu sai, che mai di mio mestiere io non ti torrò un denaio.
Bruno, udendo costui, e parendogli, sì come altre volte assai paruto gli era, un lavaceci, disse:
- Maestro, fate un poco il lume più qua, e non v'incresca infin tanto che io abbia fatte le code a questi topi, e poi vi risponderò.
Fornite le code, e Bruno faccendo vista che forte la petizion gli gravasse, disse:
- Maestro mio, gran cose son quelle che per me fareste, e io il conosco; ma tuttavia quella che a me addimandate, quantunque alla grandezza del vostro cervello sia piccola, pure è a me grandissima, né so alcuna persona del mondo per cui io potendo la mi facessi, se io non la facessi per voi, sì perché v'amo quanto si conviene, e sì per le parole vostre le quali son condite di tanto senno che trarrebbono le pinzochere degli usatti, non che me del mio proponimento; e quanto più uso con voi, più mi parete savio.
E dicovi ancora così, che se altro non mi vi facesse voler bene, sì vi vo'bene perché veggio che innamorato siete di così bella cosa come diceste.
Ma tanto vi vo'dire: io non posso in queste cose quello che voi avvisate, e per questo non posso per voi quello che bisognerebbe adoperare; ma, ove voi mi promettiate sopra la vostra grande e calterita fede di tenerlomi credenza, io vi darò il modo che a tenere avrete; e parmi esser certo che, avendo voi così be'libri e l'altre cose che di sopra dette m'avete, che egli vi verrà fatto.
A cui il mastro disse:
- Sicuramente di': io veggio che tu non mi conosci bene e non sai ancora come io so tenere segreto.
Egli erano poche cose che messer Guasparruolo da Saliceto facesse, quando egli era giudice della podestà di Forlimpopoli, che egli non me le mandasse a dire, perché mi trovava così buon segretaro.
E vuoi vedere se io dico vero? Io fui il primaio uomo a cui egli dicesse che egli era per isposare la Bergamina: vedi oggimai tu!
- Or bene sta dunque, - disse Bruno - se cotestui se ne fidava, ben me ne posso fidare io.
Il modo che voi avrete a tener fia questo.
Noi sì abbiamo a questa nostra brigata un capitano con due consiglieri, li quali di sei in sei mesi si mutano; e senza fallo a calendi sarà capitano Buffalmacco e io consigliere, e così è fermato; e chi è capitano può molto in mettervi e far che messo vi sia chi egli vuole; e per ciò a me parrebbe che voi, in quanto voi poteste, prendeste la dimestichezza di Buffalmacco e facestegli onore.
Egli è uomo che, veggendovi così savio, s'innamorerà di voi incontanente, e quando voi l'avrete col senno vostro e con queste buone cose che avete un poco dimesticato, voi il potrete richiedere: egli non vi saprà dir di no.
Io gli ho già ragionato di voi, e vuolvi il meglio del mondo; e quando voi avrete fatto così, lasciate far me con lui.
Allora disse il maestro:
- Troppo mi piace ciò che tu ragioni; e se egli è uomo che si diletti de' savi uomini, e favellami pure un poco, io farò ben che egli m'andrà sempre cercando, per ciò che io n'ho tanto del senno, che io ne potrei fornire una Città.
e rimarrei savissimo.
Ordinato questo, Bruno disse ogni cosa a Buffalmacco per ordine; di che a Buffalmacco parea mille anni di dovere essere a far quello che questo maestro Scipa andava cercando.
Il medico che oltre modo disiderava d'andare in corso, non mollò mai che egli divenne amico di Buffalmacco, il che agevolmente gli venne fatto; - e cominciogli a dare le più belle cene e i più belli desinari del mondo, e a Bruno con lui - altressì; ed essi si carapinavano,.
come que'signori, li quali sentendogli bonissimi vini e di grossi capponi ed altre buone cose assai, gli si tenevano assai di presso, e senza troppi inviti, dicendo sempre che con uno altro ciò non farebbono, si rimanevan con lui.
Ma pure, quando tempo parve al maestro, sì come Bruno aveva fatto, così Buffalmacco richiese.
Di che Buffalmacco si mostrò molto turbato e fece a Bruno un gran romore in testa, dicendo:
- Io fo boto all'alto Dio da Passignano che io mi tengo a poco che lo non ti do tale in su la testa, che il naso ti caschi nelle calcagna traditor che tu se', ché altri che tu non ha queste cose manifestate al maestro.
Ma il maestro lo scusava forte, dicendo e giurando sè averlo d'altra parte saputo; e dopo molte delle sue savie parole pure il paceficò.
Buffalmacco rivolto al maestro disse:
- Maestro mio, egli si par bene che voi siete stato a Bologna, e che voi infino in questa terra abbiate recata la bocca chiusa; e ancora vi dico più, che voi non apparaste miga l'abbiccì in su la mela, come molti sciocconi voglion fare, anzi l'apparaste bene in sul mellone, ch'è così lungo; e se io non m'inganno, voi foste battezzato in domenica.
E come che Bruno m'abbia detto che voi studiaste là in medicine, a me pare che voi studiaste in apparare a pigliar uomini; il che voi, meglio che altro uomo che io vidi mai, sapete fare con vostro senno e con vostre novelle.
Il medico, rompendogli la parola in bocca, verso Brun disse:
- Che cosa è a favellare e ad usare co' savi! Chi avrebbe così tosto ogni particularità compresa del mio sentimento, come ha questo valente uomo? Tu non te ne avvedesti miga così tosto tu di quel che io valeva, come ha fatto egli; ma di'almeno quello che io ti dissi quando tu mi dicesti che Buffalmacco si dilettava de' savi uomini: parti che io l'abbia fatto?
Disse Bruno:
- Meglio.
Allora il maestro disse a Buffalmacco:
- Altro avresti detto se tu m'avessi veduto a Bologna, dove non era niuno grande né piccolo, né dottore né scolare, che non mi volesse il meglio del mondo, sì tutti gli sapeva appagare col mio ragionare e col senno mio.
E dirotti più, che io.
non vi dissi mai parola che io non facessi ridere ogn'uomo, sì forte piaceva loro; e quando io me ne partii, fecero tutti il maggior pianto del mondo, e volevano tutti che io vi pur rimanessi; e fu a tanto la cosa perch'io vi stessi, che vollono lasciare a me solo che io leggessi, a quanti scolari v'aveva, le medicine; ma io non volli, ché io era pur disposto a venir qua a grandissime eredità che io ci ho, state sempre di quei di casa mia, e così feci.
Disse allora Bruno a Buffalmacco:
- Che ti pare? Tu nol mi credevi, quando io il ti diceva.
Alle guagnele! Egli non ha in questa terra medico che s'intenda d'orina d'asino a petto a costui, e fermamente tu non ne troverresti un altro di qui alle porti di Parigi de' così fatti.
Va, tienti oggimai tu di non fare ciò ch'e'vuole!
Disse il medico:
- Brun dice il vero, ma io non ci sono conosciuto.
Voi siete anzi gente grossa che no; ma io vorrei che voi mi vedeste tra'dottori, come io soglio stare.
Allora disse Buffalmacco:
- Veramente, maestro, voi le sapete troppo più che io non avrei mai creduto; di che io, parlandovi come si vuole parlare a' savi come voi siete, frastagliatamente vi dico che io procaccerò senza fallo che voi di nostra brigata sarete.
Gli onori dal medico fatti a costoro appresso questa promessa multiplicarono; laonde essi, godendo, gli facevan cavalcar la capra delle maggiori sciocchezze del mondo, e impromisongli di dargli per donna la contessa di Civillari, la quale era la più bella cosa che si trovasse in tutto il culattario dell'umana generazione.
Domandò il medico chi fosse questa contessa; al quale Buffalmacco disse:
- Pinca mia da seme, ella è una troppo gran donna, e poche case ha per lo mondo, nelle quali ella non abbia alcuna giurisdizione; e non che altri, ma i frati minori a suon di nacchere le rendon tributo.
E sovvi dire, che quando ella va dattorno, ella si fa ben sentire, benché ella stea il più rinchiusa; ma non ha per ciò molto che ella vi passò innanzi all'uscio, una notte che andava ad Arno a lavarsi i piedi e per pigliare un poco d'aria; ma la sua più continua dimora è in Laterina.
Ben vanno per ciò de' suoi sergenti spesso dattorno, e tutti a dimostrazion della maggioranza di lei portano la verga e 'l piombino.
De' suoi baron si veggon per tutto assai, sì come è il Tamagnin del la porta, don Meta, Manico di Scopa, lo Squacchera e altri, li quali vostri dimestici credo che sieno, ma ora non ve ne ricordate.
A così gran donna adunque, lasciata star quella da Cacavincigli, se 'l pensier non c'inganna, vi metteremo nelle dolci braccia.
Il medico, che a Bologna nato e cresciuto era, non intendeva i vocaboli di costoro, per che egli della donna si chiamò per contento.
Nè guari dopo queste novelle gli recarono i dipintori che egli era per ricevuto.
E venuto il dì che la notte seguente si dovean ragunare, il maestro gli ebbe amenduni a desinare, e desinato ch'egli ebbero, gli domandò che modo gli conveniva tenere a venire a questa brigata.
Al quale Buffalmacco disse:
- Vedete, maestro, a voi conviene esser molto sicuro, per ciò che, se voi non foste molto sicuro, voi potreste ricevere impedimento e fare a noi grandissimo danno; e quello a che egli vi conviene esser molto sicuro, voi l'udirete.
A voi si convien trovar modo che voi siate stasera in sul primo sonno in su uno di quegli avelli rilevati che poco tempo ha si fecero di fuori a Santa Maria Novella, con una delle più belle vostre robe in dosso, acciò che voi per la prima volta compariate orrevole dinanzi alla brigata, e sì ancora per ciò che (per quello che detto ne fosse, ché non vi fummo noi poi), per ciò che voi siete gentile uomo, la contessa intende di farvi cavaliere bagnato alle sue spese; e quivi v'aspettate tanto, che per voi venga colui che noi manderemo.
E acciò che voi siate d'ogni cosa informato, egli verrà per voi una bestia nera e cornuta, non molto grande, e andrà faccendo per la piazza dinanzi da voi un gran sufolare e un gran saltare per ispaventarvi; ma poi, quando vedrà che voi non vi spaventiate, ella vi s'accosterà pianamente; quando accostata vi si sarà, e voi allora senza alcuna paura scendete giù dello avello, e, senza ricordare o Iddio o'santi, vi salite suso, e come suso vi siete acconcio, così, a modo che se steste cortese, vi recate le mani al petto, senza più toccar la bestia.
Ella allora soavemente si moverà e recherravverle a noi; ma infino ad ora, se voi ricordaste o Iddio o'santi, o aveste paura, vi dich'io che ella vi potrebbe gittare o percuotere in parte che vi putirebbe; e per ciò, se non vi dà il cuore d'esser ben sicuro, non vi venite, ché voi fareste danno a voi, senza fare a noi pro veruno.
Allora il medico disse:
- Voi non mi conoscete ancora; voi guardate forse per ché io porto i guanti in mano e'panni lunghi.
Se voi sapeste quello che io ho già fatto di notte a Bologna, quando io andava talvolta co' miei compagni alle femine, voi vi maravigliereste.
In fè di Dio egli fu tal notte che, non volendone una venir con noi (ed era una tristanzuola, ch'è peggio, che non era alta un sommesso), io le diedi in prima di molte pugna, poscia, presala di peso, credo che io la portassi presso ad una balestrata, e pur convenne, sì feci, che ella ne venisse con noi.
E un'altra volta mi ricorda che io, senza esser meco altri che un mio fante, colà un poco dopo l'avemaria passai allato al cimitero de' frati minori, ed eravi il dì stesso stata sotterrata una femina, e non ebbi paura niuna; e per ciò di questo non vi sfidate; ché sicuro e gagliardo son io troppo.
E dicovi che io, per venirvi bene orrevole, mi metterò la roba mia dello scarlatto con la quale io fui con ventato, e vedrete se la brigata si rallegrerà quando mi vedrà, e se io sarò fatto a mano a man capitano.
Vedrete pure come l'opera andrà quando io vi sarò stato, da che, non avendomi ancor quella contessa veduto, ella s'è sì innamorata di me che ella mi vol fare cavalier bagnato; e forse che la cavalleria mi starà così male, e saprolla così mal mantenere o pur bene? Lascerete pur far me!
Buffalmacco disse:
- Troppo dite bene, ma guardate che voi non ci faceste la beffa, e non vi veniste o non vi foste trovato quando per voi manderemo; e questo dico per ciò che egli fa freddo, e voi signor medici ve ne guardate molto.
- Non piaccia a Dio, - disse il medico - io non sono di questi assiderati; io non curo freddo; poche volte è mai che io mi levi la notte così per bisogno del corpo, come l'uom fa talvolta, che io mi metta altro che il pilliccione mio sopra il farsetto; e per ciò io vi sarò fermamente.
Partitisi adunque costoro, come notte si venne faccendo, il maestro trovò sue scuse in casa con la moglie, e trattane celatamente la sua bella roba, come tempo gli parve, messalasi in dosso, se n'andò sopra uno de' detti avelli; e sopra quegli marmi ristrettosi, essendo il freddo grande, cominciò ad aspettar la bestia.
Buffalmacco, il quale era grande e atante della persona, ordinò d'avere una di queste maschere che usare si soleano a certi giuochi li quali oggi non si fanno, e messosi in dosso un pilliccion nero a rovescio, in quello s'acconciò in guisa che pareva pure uno orso; se non che la maschera aveva viso di diavolo ed era cornuta.
E così acconcio, venendoli Bruno appresso per vedere come l'opera andasse, se n'andò nella piazza nuova di Santa Maria Novella.
E come egli si fu accorto che messer lo maestro v'era, così cominciò a saltabellare e a fare un nabissare grandissimo su per la piazza, e a sufolare e ad urlare e a stridere a guisa che se imperversato fosse.
Il quale come il maestro sentì e vide, così tutti i peli gli s'arricciarono addosso, e tutto cominciò a tremare, come colui che era più che una femina pauroso; e fu ora che egli vorrebbe essere stato innanzi a casa sua che quivi.
Ma non per tanto pur, poi che andato v'era, si sforzò d'assicurar si, tanto il vinceva il disidero di giugnere a vedere le maraviglie dettegli da costoro.
Ma poi che Buffalmacco ebbe alquanto imperversato, come è detto, faccendo sembianti di rappacificarsi, s'accostò allo avello sopra il quale era il maestro, e stette fermo.
Il maestro, sì come quegli che tutto tremava di paura, non sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse.
Ultimamente, temendo non gli facesse male se su non vi salisse, con la seconda paura cacciò la prima, e sceso dello avello, pianamente dicendo, - Iddio m'aiuti, - su vi salì, e acconciossi molto bene, e sempre tremando tutto si recò con le mani a star cortese, come detto gli era stato.
Allora Buffalmacco pianamente s'incominciò a dirizzare verso Santa Maria della Scala, e andando carpone infin presso le donne di Ripole il condusse.
Erano allora per quella contrada fosse, nelle quali i lavoratori di que'campi facevan votare la contessa di Civillari, per ingrassare i campi loro.
Alle quali come Buffalmacco fu vicino, accostatosi alla proda d'una e preso tempo, messa la mano sotto all'un de' piedi del medico e con essa sospintolsi da dosso, di netto col capo innanzi il gittò in essa, e cominciò a ringhiare forte e a saltare e ad imperversare e ad andarsene lungo Santa Maria della Scala verso il prato d'Ognissanti, dove ritrovò Bruno che per non poter tener le risa fuggito s'era; e amenduni festa faccendosi, di lontano si misero a veder quello che il medico impastato facesse.
Messer lo medico, sentendosi in questo luogo così abominevole, si sforzò di rilevare e di volersi aiutare per uscirne, e ora in qua e ora in là ricadendo, tutto dal capo al piè impastato, dolente e cattivo, avendone alquante dramme ingozzate, pur n'uscì fuori e lasciovvi il cappuccio; e, spastandosi con le mani come poteva il meglio, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, se ne tornò a casa sua, e picchiò tanto che aperto gli fu.
Nè prima, essendo egli entrato dentro così putente, fu l'uscio riserrato, che Bruno e Buffalmacco furono ivi, per udire come il maestro fosse dalla sua donna raccolto.
Li qua li stando ad udir, sentirono alla donna dirgli la maggior villania che mai si dicesse a niun tristo, dicendo:
- Deh, come ben ti sta! Tu eri ito a qualche altra femina, e volevi comparire molto orrevole con.
la roba dello scarlatto.
Or non ti bastava io? Frate, io sarei sofficiente ad un popolo, non che a te.
Deh, or t'avessono essi affogato, come essi ti gittarono là dove tu eri degno d'esser gittato.
Ecco medico onorato, aver moglie e andar la notte alle femine altrui!
E con queste e con altre assai parole, faccendosi il medico tutto lavare, infino alla mezza notte non rifinò la donna di tormentarlo.
Poi la mattina vegnente Bruno e Buffalmacco, avendosi tutte le carni dipinte soppanno di lividori a guisa che far sogliono le battiture, se ne vennero a casa del medico, e trovaron lui già levato; ed entrati dentro a lui, sentirono ogni cosa putirvi; ché ancora non s'era sì ogni cosa potuta nettare, che non vi putisse.
E sentendo il medico costor venire a lui, si fece loro incontro, dicendo che Iddio desse loro il buon dì.
Al quale Bruno e Buffalmacco, sì come proposto aveano, risposero con turbato viso:
- Questo non diciam noi a voi, anzi preghiamo Iddio che vi dea tanti malanni che voi siate morto a ghiado, sì come il più disleale e il maggior traditor che viva; per ciò che egli non è rimaso per voi, ingegnandoci noi di farvi onore e piacere, che noi non siamo stati morti come cani.
E per la vostra dislealtà abbiamo stanotte avute tante busse, che di meno andrebbe uno asino a Roma; senza che noi siamo stati a pericolo d'essere stati cacciati della compagnia nella quale noi avavamo ordinato di farvi ricevere.
E se voi non ci credete, ponete mente le carni nostre come elle stanno.
- E ad un cotal barlume apertisi i panni dinanzi, gli mostrarono i petti loro tutti dipinti, e richiusongli senza indugio.
Il medico si volea scusare e dir delle sue sciagure, e come e dove egli era stato gittato.
Al quale Buffalmacco disse:
- Io vorrei che egli v'avesse gittato dal ponte in Arno: perché ricordavate voi o Dio o'santi? Non vi fu egli detto dinanzi?
Disse il medico:
- In fè di Dio non ricordava.
- Come, - disse Buffalmacco - non ricordavate! Voi ve ne ricordate molto, ché ne disse il messo nostro che voi tremavate come verga, e non sapavate dove voi vi foste.
Or voi ce l'avete ben fatta; ma mai più persona non la ci farà, e a voi ne faremo ancora quello onore che vi se ne conviene.
Il medico cominciò a chieder perdono, e a pregargli per Dio che nol dovessero vituperare; e con le miglior parole che egli potè, s'ingegnò di pacificargli.
E per paura che essi questo suo vitupero non palesassero, se da indi a dietro onorati gli avea, molto più gli onorò e careggiò con conviti e altre cose da indi innanzi.
Così adunque, come udito avete, senno s'insegna a chi tanto non n'apparò a Bologna.
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Novella Decima
Una ciciliana maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato; il quale, sembiante faccendo d'esservi tornato con molta più mercatantia che prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio.
Quanto la novella della reina in diversi luoghi facesse le donne ridere, non è da domandare: niuna ve n'era a cui per soperchio riso non fossero dodici volte le lagrime venute in su gli occhi.
Ma poi che ella ebbe fine, Dioneo, che sapeva che a lui toccava la volta, disse.
Graziose donne, manifesta cosa è tanto più l'arti piacere, quanto più sottile artefice è per quelle artificiosamente beffato.
E per ciò, quantunque bellissime cose tutte raccontate abbiate, io intendo dl raccontarne una? tanto più che alcuna altra dettane da dovervi aggradire, quanto colei che beffata fu era maggior maestra di beffare altrui, che alcuno altro beffato fosse di quegli o di quelle che avete contate.
Soleva essere, e forse che ancora oggi è, una usanza in tutte le terre marine che hanno porto, così fatta, che tutti i mercatanti che in quelle con mercatantie capitano, faccendole scaricare, tutte in un fondaco il quale in molti luoghi è chiamato dogana, tenuta per lo comune o per lo signor della terra, le portano.
E quivi, dando a coloro che sopra ciò sono per iscritto tutta la mercatantia e il pregio di quella, è dato per li detti al mercatante un magazzino, nel quale esso la sua mercatantia ripone e serralo con la chiave; e li detti doganieri poi scrivono in sul libro della dogana a ragione del mercatante tutta la sua mercatantia, faccendosi poi del lor diritto pagare al mercatante, o per tutta o per parte della mercatantia che egli della dogana traesse.
E da questo libro della dogana assai volte s'informano i sensali e delle qualità e delle quantità delle mercatantie che vi sono, e ancora chi sieno i mercatanti che l'hanno, con li quali poi essi, secondo che lor cade per mano, ragionano di cambi, di baratti e di vendite e d'altri spacci.
La quale usanza, sì come in molti altri luoghi, era in Palermo in Cicilia, dove similmente erano e ancor sono assai femine del corpo bellissime, ma nimiche della onestà; le quali, da chi non le conosce, sarebbono e son tenute grandi e onestissime donne.
Ed essendo, non a radere, ma a scorticare uomini date del tutto, come un mercatante forestiere riveggono, così dal libro della dogana s'informano di ciò che egli v'ha e di quanto può fare; e appresso con lor piacevoli e amorosi atti e con parole dolcissime questi cotali mercatanti s'ingegnano d'adescare e di trarre nel loro amore; e già molti ve n'hanno tratti, a' quali buona parte della lor mercatantia hanno delle mani tratta, e d'assai tutta; e di quelli vi sono stati che la mercatantia e 'navilio e le polpe e l'ossa lasciate v'hanno, sì ha soavemente la barbiera saputo menare il rasoio.
Ora, non è ancora molto tempo, avvenne che quivi, da' suoi maestri mandato, arrivò un giovane nostro fiorentino detto Nicolò da Cignano, come che Salabaetto fosse chiamato, con tanti pannilani che alla fiera di Salerno gli erano avanzati, che potevan valere un cinquecento fiorin d'oro; e dato il legaggio di quegli a' doganieri, gli mise in un magazzino, e senza mostrar troppo gran fretta dello spaccio, s'incominciò ad andare alcuna volta a sollazzo per la terra.
Ed essendo egli bianco e biondo e leggiadro molto, e standogli ben la vita, avvenne che una di queste barbiere, che si faceva chiamare madonna Jancofiore, avendo alcuna cosa sentita de' fatti suoi, gli pose l'occhio addosso.
Di che egli accorgendosi, estimando che ella fosse una gran donna, s'avvisò che per la sua bellezza le piacesse, e pensossi di volere molto cautamente menar questo amore; e senza dirne cosa alcuna a persona, incominciò a far le passate dinanzi alla casa di costei.
La quale accortasene, poi che alquanti dì l'ebbe ben con gli occhi acceso, mostrando ella di consumarsi per lui, segretamente gli mandò una sua femina la quale ottimamente l'arte sapeva del ruffianesimo.
La quale, quasi con le lagrime in su gli occhi, dopo molte novelle, gli disse che egli con la bellezza e con la piacevolezza sua aveva sì la sua donna presa, che ella non trovava luogo né dì né notte; e per ciò, quando a lui piacesse, ella disiderava più che altra cosa di potersi con lui ad un bagno segretamente trovare; e appresso questo, trattosi uno anello dì borsa, da parte della sua donna gliele donò.
Salabaetto, udendo questo, fu il più lieto uomo che mai fosse, e preso l'anello e fregatoselo agli occhi e poi baciatolo sel mise in dito, e rispose alla buona femina che, se madonna Jancofiore l'amava, che ella n'era ben cambiata, per ciò che egli amava più lei che la sua propia vita, e che egli era disposto d'andare dovunque a lei fosse a grado, e ad ogn'ora.
Tornata adunque la messaggiera alla sua donna con questa risposta, a Salabaetto fu a mano a man detto a qual bagno il dì seguente passato vespro la dovesse aspettare.
Il quale, senza dirne cosa del mondo a persona, prestamente all'ora impostagli v'andò, e trovò il bagno per la donna esser preso.
Dove egli non stette guari che due schiave venner cariche: l'una aveva un materasso di bambagia bello e grande in capo, e l'altra un grandissimo paniere pien di cose; e steso questo materasso in una camera del bagno sopra una lettiera, vi miser su un paio di lenzuola sottilissime listate di seta, e poi una coltre di bucherame cipriana bianchissima con due origlieri lavorati a maraviglie.
E appresso questo spogliatesi ed entrate nel bagno, quello tutto lavarono e spazzarono ottima mente.
Né stette guari che la donna con due sue altre schiave appresso al bagno venne; dove ella, come prima ebbe agio, fece.a Salabaetto grandissima festa; e dopo i maggiori sospiri del mondo, poi che molto e abbracciato e baciato l'ebbe, gli disse:
- Non so chi mi s'avesse a questo potuto conducere, altro che tu; tu m'hai miso lo foco all'arma, toscano acanino.
Appresso questo, come a lei piacque, ignudi amenduni se n'entrarono nel bagno, e con loro due delle schiave.
Quivi, senza lasciargli por mano addosso ad altrui,.
ella medesima con sapone moscoleato e con garofanato maravigliosamente e bene tutto lavò Salabaetto; e appresso sé fece e lavare e strapicciare alle schiave.
E fatto questo, recaron le schiave de lenzuoli bianchissimi e sottili, de' quali veniva sì grande odor di rose che ciò che v'era pareva rose; e l'una inviluppò nell'uno Salabaetto e l'altra nell'altro la donna, e in collo levatigli, amenduni nel letto fatto ne gli portarono.
E quivi, poi che di sudare furono restati, dalle schiave fuor di que'lenzuoli tratti, rimasono ignudi negli altri.
E tratti del paniere oricanni d'ariento bellissimi e pieni qual d'acqua rosa, qual d'acqua di fior d'aranci, qual d'acqua di fior di gelsomino e qual d'acqua nanfa, tutti costoro di queste acque spruzzano; e appresso tratte fuori scatole di confetti e preziosissimi vini, alquanto si confortarono.
A Salabaetto pareva essere in paradiso, e mille volte aveva riguardata costei, la quale era per certo bellissima, e cento anni gli pareva ciascuna ora che queste schiave se n'andassero e che egli nelle braccia di costei si ritrovasse.
Le quali poi che per comandamento della donna, lasciato un torchietto acceso nella camera, andate se ne furono fuori, costei abbracciò Salabaetto ed egli lei, e con grandissimo piacer di Salabaetto, al quale pareva che costei tutta si struggesse per suo amore, dimorarono una lunga ora.
Ma poi che tempo parve di levarsi alla donna, fatte venire le schiave, si vestirono, e un'altra volta bevendo e confettando si riconfortarono alquanto, e il viso e le mani di quelle acque odorifere lavatisi e volendosi partire, disse la donna a Salabaetto:
- Quando a te fosse a grado, a me sarebbe grandissima grazia che questa sera te ne venissi a cenare e ad albergo meco.
Salabaetto, il qual già e dalla bellezza e dalla artificiosa piacevolezza di costei era preso, credendosi fermamente da lei essere come il cuor del corpo amato, rispose:
- Madonna, ogni vostro piacere m'è sommamente a grado, e per ciò e istasera e sempre intendo di far quello che vi piacerà e che per voi mi fia comandato.
Tornatasene adunque la donna a casa, e fatta bene di sue robe e di suoi arnesi ornar la camera sua, e fatto splendidamente far da cena, aspettò Salabaetto.
Il quale, come alquanto fu fatto oscuro, là se n'andò, e lietamente ricevuto, con gran festa e ben servito cenò.
Poi, nella camera entratisene, sentì quivi maraviglioso odore di legno aloè, e d'uccelletti cipriani vide il letto ricchissimo, e molte belle robe su per le stanghe.
Le quali cose tutte insieme, e ciascuna per sé, gli fecero stimare costei dovere essere una grande e ricca donna.
E quantunque in contrario avesse della vita di lei udito bucinare, per cosa del mondo nol voleva credere; e se pure alquanto ne credeva lei già alcuno aver beffato, per cosa del mondo non poteva credere questo dovere a lui intervenire.
Egli giacque con grandissimo suo piacere la notte con essolei, sempre più accendendosi.
Venuta la mattina, ella gli cinse una bella e leggiadra cinturetta d'argento con una bella bora, e sì gli disse:
- Salabaetto mio dolce, io mi ti raccomando; e così come la mia persona è al piacer tuio, così è ciò che ci è e ciò che per me si può è allo comando tuio.
Salabaetto lieto abbracciatala e baciatala, s'uscì di casa costei e vennesene là dove usavano gli altri mercatanti.
E usando una volta e altra con costei senza costargli cosa del mondo, e ogni ora più invescandosi, avvenne che egli vendé i panni suoi a contanti e guadagnonne bene; il che la buona donna non da lui, ma da altrui sentì incontanente.
Ed essendo Salabaetto da lei andato una sera, costei incominciò a cianciare e a ruzzare con lui, a baciarlo e abbracciarlo, mostrandosi sì forte di lui infiammata, che pareva che ella gli volesse d'amor morir nelle braccia; e volevagli pur donare due bellissimi nappi d'argento che ella aveva, li quali Salabaetto non voleva torre, sì come colui che da lei tra una volta e altra aveva avuto quello che valeva ben trenta fiorin d'oro, senza aver potuto fare che ella da lui prendesse tanto che valesse un grosso.
Alla fine, avendol costei bene acceso col mostrar sé accesa e liberale, una delle sue schiave, sì come ella aveva ordinato, la chiamò; per che ella, uscita della camera e stata alquanto, tornò dentro piagnendo, e sopra il letto gittatasi boccone, cominciò a fare il più doloroso lamento che mai facesse femina.
Salabaetto, maravigliandosi, la si recò in braccio, e cominciò a piagner con lei e a dire:
- Deh, cuor del corpo mio, che avete voi così subitamente? Che è la cagione di questo dolore? Deh! ditemelo, anima mia.
Poi che la donna s'ebbe assai fatta pregare, ed ella disse:
- Ohimè, signor mio dolce, io non so né che mi far né che mi dire: io ho testé ricevute lettere da Messina, e scrivemi mio fratello, che, se io dovessi vendere e impegnare ciò che ci è, che senza alcun fallo io gli abbia fra qui e otto dì mandati mille fiorin d'oro, se non che gli sarà tagliata la testa; e io non so quello che io mi debba fare, che io gli possa così prestamente avere; ché, se io avessi spazio pur quindici dì, io troverrei modo d'accivirne d'alcun luogo donde io ne debbo avere molti più, o io venderei alcuna delle nostre possessioni; ma, non potendo, io vorrei esser morta prima che quella mala novella mi venisse.
- E detto questo, forte mostrandosi tribolata, non restava di piagnere.
Salabaetto, al quale l'amorose fiamme avevan gran parte del debito conoscimento tolto, credendo quelle verissime lagrime e le parole ancor più vere, disse:
- Madonna, io non vi potrei servire di mille, ma di cinquecento fiorin d'oro sì bene, dove voi crediate potermegli rendere di qui a quindici dì; e questa è vostra ventura che pure ieri mi vennero venduti i panni miei, ché, se così non fosse, io non vi potrei prestare un grosso.
- Ohimè! - disse la donna - dunque hai tu patito disagio di denari? O perché non me ne richiedevi tu? Perché io non n'abbia mille, io ne aveva ben cento e anche dugento da darti; tu m'hai tolta tutta la baldanza da dovere da te ricevere il servigio che tu mi profferi Salabaetto, vie più che preso da queste parole, disse:
- Madonna, per questo non voglio io che voi lasciate; ché, se fosse così bisogno a me come egli fa a voi, io v'avrei ben richiesta.
- Ohimè! - disse la donna - Salabaetto mio, ben conosco che il tuo è vero e perfetto amore verso di me, quando, senza aspettar d'esser richiesto di così gran quantità di moneta, in così fatto bisogno liberamente mi sovvieni.
E per certo io era tutta tua senza questo, e con questo sarò molto maggior mente; né sarà mai che io non riconosca da te la testa di mio fratello.
Ma sallo Iddio che io mal volentier gli prendo, considerando che tu se'mercatante, e i mercatanti fanno co' denari tutti i fatti loro; ma per ciò che il bisogno mi strigne e ho ferma speranza di tosto rendergliti, io gli pur prenderò, e per l'avanzo, se più presta via non troverrò, impegnerò tutte queste mie cose; - e così detto lagrimando, sopra il viso di Salabaetto si lasciò cadere.
Salabaetto la cominciò a confortare; e stato la notte con lei, per mostrarsi bene liberalissimo suo servidore, senza alcuna richiesta di lei aspettare, le portò cinquecento be'fiorin d'oro, li quali ella, ridendo col cuore e piagnendo con gli occhi, prese, attenendosene Salabaetto alla sua semplice promessione.
Come la donna ebbe i denari, così s'incominciarono le 'ndizioni a mutare; e dove prima era libera l'andata alla donna ogni volta che a Salabaetto era in piacere, così incominciaron poi a sopravvenire delle cagioni, per le quali non gli veniva delle sette volte l'una fatto il potervi entrare, né quel viso né quelle carezze né quelle feste più gli eran fatte che prima.
E passato d'un mese e di due il termine, non che venuto, al quale i suoi danari riaver dovea, richiedendogli, gli eran date parole in pagamento.
Laonde, avvedendosi Salabaetto dell'arte della malvagia femina e del suo poco senno, e conoscendo che di lei niuna cosa più che le si piacesse di questo poteva dire, sì come colui che di ciò non aveva né scritta né testimonio, e vergognandosi di ramarricarsene con alcuno, sì perché n'era stato fatto avveduto dinanzi, e sì per le beffe le quali meritamente della sua bestialità n'aspettava, dolente oltre modo, seco medesimo la sua sciocchezza piagnea.
E avendo da' suoi maestri più lettere avute che egli quegli denari cambiasse e mandassegli loro; acciò che, non faccendolo egli, quivi non fosse il suo difetto scoperto, diliberò di partirsi; e in su un legnetto montato, non a Pisa, come dovea, ma a Napoli se ne venne.
Era quivi in quei tempi nostro compar Pietro dello Canigiano, tresorier di madama la 'mperatrice di Costantinopoli, uomo di grande intelletto e di sottile ingegno, grandissimo amico e di Salabaetto e de' suoi; col quale, sì come con discretissimo uomo, dopo alcuno giorno Salabaetto dolendosi, raccontò ciò che fatto aveva e il suo misero accidente, e domandogli aiuto e consiglio in fare che esso quivi potesse sostentar la sua vita, affermando che mai a Firenze non intendeva di ritornare.
Canigiano, dolente di queste cose, disse:
- Male hai fatto; mal ti se'portato; male hai i tuoi maestri ubbiditi; troppi denari ad un tratto hai spesi in dolcitudine; ma che? fatto è, vuolsi vedere altro.
E, sì come avveduto uomo, prestamente ebbe pensato quello che era da fare, e a Salabaetto il disse; al quale piacendo il fatto, si mise in avventura di volerlo seguire.
E avendo alcun denaio, e il Canigiano avendonegli alquanti prestati, fece molte balle ben legate e ben magliate, e comperate da venti botti da olio ed empiutele, e caricato ogni cosa, se ne tornò in Palermo; e il legaggio delle balle dato a` doganieri e similmente il costo delle botti, e fatto ogni cosa scrivere a sua ragione, quelle mise ne'magazzini, dicendo che, infino che altra mercatantia la quale egli aspettava non veniva, quelle non voleva toccare.
Jancofiore, avendo sentito questo e udendo che ben duemilia fiorin d'oro valeva o più quello che al presente aveva recato, senza quello che egli aspettava, che valeva più di tre milia, parendole aver tirato a pochi, pensò di restituirgli i cinquecento, per potere avere la maggior parte de' cinque milia, e mandò per lui.
Salabaetto divenuto malizioso v'andò.
Al quale ella faccendo vista di niente sapere di ciò che recato s'avesse, fece maravigliosa festa e disse:
- Ecco, se tu fossi crucciato meco perché io non ti rende'così al termine i tuoi denari...
Salabaetto cominciò a ridere e disse:
- Madonna, nel vero egli mi dispiacque bene un poco sì come a colui che mi trarrei il cuor per darlovi, se io credessi piacervene; ma io voglio che voi udiate come io son crucciato con voi.
Egli è tanto e tale l'amor che io vi porto, che io ho fatto vendere la maggior parte delle mie possessioni, e ho al presente recata qui tanta mercatantia che vale oltre a duomilia fiorini, e aspettone di ponente tanta che varrà oltre a tremilia, e intendo di fare in questa terra un fondaco e di starmi qui, per esservi sempre presso, parendomi meglio stare del vostro amore che io creda che stia alcuno innamorato dei suo.
A cui la donna disse:
- Vedi, Salabaetto, ogni tuo acconcio mi piace forte, sì come di quello di colui il quale io amo più che la vita mia, e piacemi forte che tu con intendimento di starci tornato ci sii, però che spero d'avere ancora assai di buon tempo con teco; ma io mi ti voglio un poco scusare ch'e, di quei tempi che tu te n'andasti, alcune volte ci volesti venire e non potesti, e alcune ci venisti e non fosti così lietamente veduto come solevi; e oltre a questo, di ciò che io al termine promesso non ti rende'i tuoi denari.
Tu dei sapere che io era allora in grandissimo dolore e in grandissima afflizione, e chi è in così fatta disposizione, quantunque egli ami molto altrui, non gli può far così buon viso né attendere tuttavia a lui come colui vorrebbe; e appresso dei sapere ch'egli è molto malagevole ad una donna il poter trovar mille fiorin d'oro, e sonci tutto il dì dette delle bugie e non c'è attenuto quello che ci è promesso, e per questo conviene che noi altressì mentiamo altrui; e di quinci venne, e non da altro difetto, che io i tuoi denari non ti rendei; ma io gli ebbi poco appresso la tua partita, e se io avessi saputo dove mandargliti, abbi per certo che io te gli avrei mandati; ma perché saputo non l'ho, gli t'ho guardati.
E fattasi venire una borsa dove erano quegli medesimi che esso portati l'avea, gliele pose in mano e disse:
- Annovera se son cinquecento.
Salabaetto non fu mai sì lieto, e annoveratigli e trovatigli cinquecento e ripostigli, disse:
- Madonna, io conosco che voi dite vero, ma voi n'avete fatto assai; e dicovi che per questo e per lo amore che io vi porto, voi non ne vorreste da me per niun vostro bisogno quella quantità che io potessi fare, che io non ve ne servissi; e come io ci sarò acconcio, voi ne potrete essere alla pruova.
E in questa guisa reintegrato con lei l'amore in parole, rincominciò Salabaetto vezzatamente ad usar con lei, ed ella a fargli i maggiori piaceri e i maggiori onori del mondo, e a mostrargli il maggiore amore.
Ma Salabaetto, volendo col suo inganno punire lo 'nganno di lei, avendogli ella il dì mandato che egli a cena e ad albergo con lei andasse, v'andò tanto malinconoso e tanto tristo, che egli pareva che volesse morire.
Jancofiore, abbracciandolo e baciandolo, lo 'ncominciò a domandare perché egli questa malinconia avea.
Egli, poi che una buona pezza s'ebbe fatto pregare, disse:
- Io son diserto per ciò che il legno, sopra il quale e la mercatantia che io aspettava, è stato preso da' corsari di Monaco e riscattasi diecimilia fiorin d'oro, de' quali ne tocca a pagare a me mille, e io non ho un denaio, per ciò che li cinquecento che mi rendesti incontanente mandai a Napoli ad investire in tele per far venir qui; e se io vorrò al presente vendere la mercatantia la quale ho qui, per ciò che non è tempo, appena che io abbia delle due derrate un denaio, e io non ci sono sì ancora conosciuto che io ci trovassi chi di questo mi sovvenisse, e per ciò io non so che mi fare né che mi dire; e se io non mando tosto i denari, la mercatantia ne fia portata a Monaco; e non ne riavrò mai nulla.
La donna, forte crucciosa di questo, sì come colei alla quale tutto il pareva perdere, avvisando che modo ella dovesse tenere acciò che a Monaco non andasse, disse:
- Dio il sa che ben me ne incresce per tuo amore; ma che giova il tribolarsene tanto? Se io avessi questi denari, sallo Iddio che io gli ti presterrei incontanente; ma io non gli ho.
E il vero che egli ci è alcuna persona, il quale l'altrieri mi servì de' cinquecento che mi mancavano, ma grossa usura ne vuole; ché egli non ne vuol meno che a ragion di trenta per centinaio; se da questa cotal persona tu gli volessi, converrebbesi far sicuro di buon pegno, e io per me sono acconcia d'impegnar per te tutte queste robe e la persona per tanto quanto egli ci vorrà su prestare, per poterti servire, ma del rimanente come il sicurerai tu?
Conobbe Salabaetto la cagione che moveva costei a fargli questo servigio, e accorsesi che di lei dovevan essere i denari prestati; il che piacendogli, prima la ringraziò, e appresso disse che già per pregio ingordo non lascerebbe, strignendolo il bisogno; e poi disse che egli il sicurerebbe della mercatantia la quale aveva in dogana, faccendola scrivere in colui che i denar gli prestasse; ma che egli voleva guardar la chiave de' magazzini, sì per poter mostrar la sua mercatantia, se richiesta gli fosse, e sì acciò che niuna cosa gli potesse esser tocca o tramutata o scambiata.
La donna disse che questo era ben detto, ed era assai buona sicurtà.
E per ciò, come il dì fu venuto, ella mandò per un sensale di cui ella si canfidava molto, e ragionato con lui questo fatto, gli diè mille fiorin d'oro li quali il sensale prestò a Salabaetto, e fece in suo nome scrivere alla dogana ciò che Salabaetto dentro v'avea; e fattesi loro scritte e contrascritte insieme, e in concordia rimasi, attesero a' loro altri fatti.
Salabaetto, come più tosto potè, montato in su un legnetto con mille cinquecento fiorin d'oro, a Pietro dello Canigiano se ne tornò a Napoli, e di quindi buona e intera ragione rimandò a Firenze a' suoi maestri che co' panni l'avevan mandato; e pagato Pietro e ogni altro a cui alcuna cosa doveva, più di col Canigiano si diè buon tempo dello inganno fatto alla ciciliana.
Poi di quindi, non volendo più mercatante essere, se ne venne a Ferrara.
Jancofiore, non trovandosi Salabaetto in Palermo, s'incominciò a maravigliare e divenne sospettosa; e poi che ben due mesi aspettato l'ebbe, veggendo che non veniva, fece che 'l sensale fece schiavare i magazzini.
E primieramente tastate le botti, che si credeva che piene d'olio fossero, trovò quelle esser piene d'acqua marina, avendo in ciascuna forse un barile d'olio di sopra vicino al cocchiume.
Poi, sciogliendo le balle, tutte, fuor che due che panni erano, piene le trovò di capecchio; e in brieve, tra ciò che v'era, non valeva oltre a dugento fiorini.
Di che Jancofiore tenendosi scornata, lungamente pianse i cinquecento renduti e troppo più i mille prestati, spesse volte dicendo: - Chi ha a far con tosco, non vuole esser losco.
- E così, rimasasi col danno e colle beffe, trovò che tanto seppe altri quanto altri.
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Conclusione
Come Dioneo ebbe la sua novella finita, così Lauretta, conoscendo il termine esser venuto oltre al quale più regnar non dovea, commendato il consiglio di Pietro Canigiano che apparve dal suo effetto buono, e la sagacità di Salabaetto che non fu minore a mandarlo ad esecuzione, levatasi la laurea di capo, in testa ad Emilia la pose, donnescamente dicendo:
- Madonna, io non so come piacevole reina noi avrem di voi, ma bella la pure avrem noi; fate adunque che alle vostre bellezze l'opere sien rispondenti; - e tornossi a sedere.
Emilia, non tanto dell'esser reina fatta, quanto dell'udirsi così in pubblico commendare di ciò che le donne sogliono essere più vaghe, un pochetto si vergognò, e tal nel viso divenne qual in su l'aurora son le novelle rose.
Ma pur, poi che avendo alquanto gli occhi tenuti bassi ebbe il rossore dato luogo, avendo col suo siniscalco de' fatti pertinenti alla brigata ordinato, così cominciò a parlare:
- Dilettose donne, assai manifestamente veggiamo che, poi che i buoi per alcuna parte del giorno hanno faticato sotto il giogo ristretti, quegli esser dal giogo alleviati e disciolti, e liberamente, dove lor più piace, per li boschi lasciati sono andare alla pastura; e veggiamo ancora non esser men belli, ma molto più, i giardini di varie piante fronzuti, che i boschi ne'quali solamente querce veggiamo; per le quali cose io estimo, avendo riguardo quanti giorni sotto certa legge ristretti ragionato abbiamo, che, sì come a bisognosi, di vagare alquanto, e vagando riprender forze a rientrar sotto il giogo, non sola mente sia utile ma opportuno.
E per ciò quello che domane, seguendo il vostro dilettevole ragionare, sia da dire, non intendo di ristrigneni sotto alcuna spezialità, ma voglio che ciascun secondo che gli piace ragioni, fermamente tenendo che la varietà delle cose che si diranno non meno graziosa ne fia che l'avrete pur d'una parlato; e così avendo fatto, chi appresso di me nel reame verrà, sì come più forti, con maggior sicurtà ne potrà nelle usate leggi ristrignere.
E detto questo, infino all'ora della cena libertà concedette a ciascuno.
Commendò ciascun la reina delle cose dette, sì come savia; e in piè drizzatisi, chi ad un diletto e chi ad un altro si diede: le donne a far ghirlande e a trastullarsi, i giovani a giucare e a cantare, e così infino all'ora della cena passarono; la quale venuta, intorno alla bella fontana con festa e con piacer cenarono; e dopo la cena al modo usato cantando e ballando un gran pezzo si trastullarono.
Alla fine la reina, per seguire de' suoi predecessori lo stilo, non ostanti quelle che volontariamente da più di loro erano state dette, comandò a Panfilo che una ne dovesse cantare.
Il quale così liberamente cominciò:
Tanto è, Amore, il bene
ch'io per te sento e l'allegrezza e 'l gioco
ch'io son felice ardendo nel tuo foco.
L'abbondante allegrezza ch'è nel core
dell'alta gioia e cara,
nella qual m'ha'recato,
non potendo capervi, esce di fore,
e nella faccia chiara
mostra'l mio lieto stato;
ché essendo innamorato
in così alto e ragguardevol loco,
lieve mi fa lo star dov'io mi coco.
Io non so col mio canto dimostrare,
né disegnar col dito,
Amore, il ben ch'io sento;
e s'io sapessi, me'l convien celare;
ché s'el fosse sentito,
torneria in tormento;
ma io son sì contento
ch'ogni parlar sarebbe corto e fioco,
pria n'avessi mostrato pure un poco.
Chi potrebbe estimar che le mie braccia
aggiugnesser giammai
là dov'io l'ho tenute,
e ch'io dovessi giunger la mia faccia
là dov'io l'accostai
per grazia e per salute?
Non mi sarien credute
le mie fortune; ond'io tutto m'infoco,
quel nascondendo ond'io m'allegro e gioco.
La canzone di Panfilo aveva fine, alla quale quantunque per tutti fosse compiutamente risposto, niun ve n'ebbe che, con più attenta sollecitudine che a lui non apparteneva, non notasse le parole di quella, ingegnandosi di quello volersi indovinare che egli di convenirgli tener nascoso cantava.
E quantunque vari varie cose andassero imaginando, niun per ciò alla verità del fatto pervenne.
Ma la reina, poi che vide la canzone di Panfilo finita, e le giovani donne e gli uomini volentier riposarsi, comandò che ciascuno se n'andasse a dormire.
Finisce l'ottava giornata del Decameron
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Nona Giornata
Introduzione alla nona giornata
Novella prima
Madonna Francesca, amata da uno Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l'un per morto in una sepoltura, e l'altro quello trarne per morto, non potendo essi venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso.
Novella seconda
Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de' veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l'accusata e fattalane accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
Novella terza
Maestro Simone, ad instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a' predetti capponi e denari, e guarisce della pregnezza senza partorire.
Novella quarta
Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Buonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiulieri, e in camicia correndogli dietro e dicendo che rubato l'avea, il fa pigliare a' villani e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui, venendosene, lascia in camicia.
Novella quinta
Calandrino s'innamora d'una giovane, al quale Bruno fa un brieve, col quale come egli la tocca, ella va con lui, e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione.
Novella sesta
Due giovani albergano con uno, de' quali l'uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con l'altro.
Quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendosi dire al compagno.
Fanno romore insieme.
La donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e quindi con certe parole ogni cosa pacefica.
Novella settima
Talano d'Imolese sogna che uno lupo squarcia tutta la gola e 'l viso alla moglie; dicele che se ne guardi; ella nol fa, e avvienle.
Novella ottava
Biondello fa una beffa a Ciacco d'un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica, faccendo lui sconciamente battere.
Novella nona
Due giovani domandano consiglio a Salamone, l'uno come possa essere amato, l'altro come gastigar debba la moglie ritrosa.
All'un risponde che ami, all'altro che vada al Ponte all'oca.
Novella decima
Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo 'ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda, guasta tutto lo 'ncantamento.
Conclusione della nona giornata
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Introduzione
Incomincia la nona giornata nella quale sotto il reggimento d'Emilia, si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli aggrada.
La luce, il cui splendore la notte fugge, aveva già l'ottavo cielo d'azzurrino in color cilestro mutato tutto, e cominciavansi i fioretti per li prati a levar suso, quando Emilia, levatasi, fece le sue compagne e i giovani parimente chiamare.
Li quali venuti, e appresso alli lenti passi della reina avviatisi, infino ad un boschetto, non guari al palagio lontano, se n'andarono; e per quello entrati, videro gli animali, sì come cavriuoli, cervi e altri, quasi sicuri da' cacciatori per la sopra stante pistolenzia, non altramente aspettargli che se senza te ma o dimestichi fossero divenuti.
E ora a questo e ora a quell'altro appressandosi, quasi giugnere gli dovessero, faccendogli correre e saltare, per alcuno spazio sollazzo presero.
Ma già inalzando il sole, parve a tutti di ritornare.
Essi eran tutti di frondi di quercia inghirlandati, con le mani piene o d'erbe odorifere o di fiori; e chi scontrati gli avesse, niun'altra cosa avrebbe potuto dire se non: - O costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli ucciderà lieti.
-
Così adunque, piede innanzi piede venendosene, cantando e cianciando e motteggiando, pervennero al palagio, do ve ogni cosa ordinatamente disposta e li lor famigliari lieti e festeggianti trovarono.
Quivi riposatisi alquanto, non prima a tavola andarono che sei canzonette, più lieta l'una che l'altra, da' giovani e dalle donne cantate furono; appresso alle quali, data l'acqua alle mani, tutti secondo il piacer.
della reina gli mise il siniscalco a tavola, dove le vivande.
venute, allegri tutti mangiarono; e da quello levati, al carolare e al sonare si dierono per alquanto spazio, e poi, co mandandolo la reina, chi volle s'andò a riposare.
Ma già l'ora usitata venuta, ciascuno nel luogo usato s'adunò a ragionare; dove la reina, a Filomena guardando, disse che principio desse alle novelle del presente giorno, la qual sorridendo cominciò in questa guisa.
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Novella Prima
Madonna Francesca, amata da uno Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l'un per morto in una sepoltura, e l'altro quello trarne per morto, non potendo essi venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso.
Madonna, assai m'aggrada, poi che vi piace, che per questo campo aperto e libero, nel quale la vostra magnificenzia n'ha messi, del novellare, d'esser colei che corra il primo aringo, il quale se ben farò, non dubito che quegli che appresso verranno non facciano bene e meglio.
Molte volte s'è, o vezzose donne, ne'nostri ragionamenti mostrato quante e quali sieno le forze d'amore; né però credo che pienamente se ne sia detto, né sarebbe ancora, se di qui ad uno anno d'altro che di ciò non parlassimo; e per ciò che esso non solamente a vari dubbi di dover morire gli amanti conduce, ma quegli ancora ad entrare nelle case de' morti per morti tira, m'aggrada di ciò raccontarvi, oltre a quelle che dette sono, una novella, nella quale non solamente la potenzia d'amore comprenderete, ma il senno da una valorosa donna usato a torsi da dosso due che contro al suo piacere l'amavan, cognoscerete.
Dico adunque che nella città di Pistoia fu già una bellissima donna vedova, la quale due nostri fiorentini, che per aver bando di Firenze a Pistoia dimoravano, chiamati l'uno Rinuccio Palermini e l'altro Alessandro Chiarmontesi, senza sapere l'un dell'altro, per caso di costei presi, sommamente amavano, operando cautamente ciascuno ciò che per lui si poteva, a dover l'amor di costei acquistare.
Ed essendo questa gentil donna, il cui nome fu madonna Francesca de' Lazzari, assai sovente stimolata da ambasciate e da prieghi di ciascun di costoro, e avendo ella ad esse men saviamente più volte gli orecchi porti, e volendosi saviamente ritrarre e non potendo, le venne, acciò che la lor seccaggine si levasse da dosso, un pensiero; e quel fu di volergli richiedere d'un servigio il quale ella pensò niuno dovergliele fare, quantunque egli fosse possibile, acciò che, non faccendolo essi, ella avesse onesta o colorata ragione di più non volere le loro ambasciate udire; e 'pensiero fu questo.
Era, il giorno che questo pensier le venne, morto in Pistoia uno, il quale, quantunque stati fossero i suoi passati gentili uomini, era reputato il piggiore uomo che, non che in Pistoia, ma in tutto il mondo fosse; e oltre a questo vivendo era sì contraffatto e di sì divisato viso, che chi conosciuto non l'avesse, vedendol da prima, n'avrebbe avuto paura; ed era stato sotterrato in uno avello fuori della chiesa dei frati minori; il quale ella avvisò dovere in parte essere grande acconcio del suo proponimento.
Per la qual cosa ella disse ad una sua fante:
- Tu sai la noia e l'angoscia la quale io tutto il dì ricevo dall'ambasciate di questi due fiorentini, da Rinuccio e da Alessandro; ora io non son disposta a dover loro del mio amore compiacere; e per torglimi da dosso, m'ho posto in cuore, per le grandi profferte che fanno, di volergli in cosa provare, la quale io son certa che non faranno, e così questa seccaggine torrò via: e odi come.
Tu sai che stamane fu sotterrato al luogo de' frati minori lo Scannadio (così era chiamato quel reo uomo di cui dl sopra dicemmo), del quale, non che morto, ma vivo, i più sicuri uomini di questa terra, vedendolo, avevan paura; e però tu te n'andrai segretamente prima ad Alessandro, e sì gli dirai: - Madonna Francesca ti manda dicendo che ora è venuto il tempo che tu puoi avere il suo amore, il qual tu hai cotanto disiderato, ed esser con lei, dove tu vogli, in questa forma.
A lei dee, per alcuna cagione che tu poi saprai, questa notte essere da un suo parente recato a casa il corpo di Scannadio che stamane fu sepellito, ed ella, sì come quel la che ha di lui, così morto come egli è, paura, nol vi vorrebbe; per che ella ti priega in luogo di gran servigio, che ti debbia piacere d'andare stasera in su il primo sonno ed entrare in quella sepoltura dove Scannadio è sepellito, e metterti i suoi panni in dosso, e stare come se tu desso fossi, infino a tanto che per te sia venuto, e senza alcuna cosa dire o motto fare, di quella trarre ti lasci e recare a casa sua, dove ella ti riceverà, e con lei poi ti starai, e a tua posta ti potrai partire, lasciando del rimanente il pensiero a lei.
- E, se egli dice di volerlo fare, bene sta; dove dicesse di non volerlo fare sì gli di'da mia parte che più dove io sia non apparisca, e come egli ha cara la vita, si guardi che più né messo né ambasciata mi mandi.
E appresso questo te n'andrai a Rinuccio Palermini, e sì gli dirai: - Madonna Francesca dice che è presta di volere ogni tuo piacer fare, dove tu a lei facci un gran servigio, cioè che tu stanotte in su la mezza notte te ne vadi allo avello dove fu stamane sotterrato Scannadio, e lui, senza dire alcuna parola di cosa che tu oda o senta, tragghi di quello soavemente e rechigliele a casa.
Quivi perché ella il voglia vedrai, e di lei avrai il piacer tuo; e dove questo non ti piaccia di fare ella infino ad ora t'impone che tu mai più non le mandi né messo né ambasciata.
-
La fante n'andò ad amenduni, e ordinatamente a ciascuno, secondo che imposto le fu, disse.
Alla quale risposto fu da ognuno, che non che in una sepoltura, ma in inferno andrebber, quando le piacesse.
La fante fe'la risposta alla donna, la quale aspettò di vedere se sì fosser pazzi che essi il facessero.
Venuta adunque la notte, essendo già primo sonno, Alessandro Chiarmontesi spogliatosi in farsetto, uscì di casa sua per andare a stare in luogo di Scannadio nello avello, e andando gli venne un pensier molto pauroso nell'animo, e cominciò a dir seco: - Deh, che bestia sono io? Dove vo io? che so io se i parenti di costei, forse avvedutisi che io l'amo, credendo essi quel che non è, le fanno far questo per uccidermi in quello avello? Il che se avvenisse, io m'avrei il danno, né mai cosa del mondo se ne saprebbe che lor nocesse.
che so io se forse alcun mio nimico que sto m'ha procacciato, il quale ella forse amando, di questo il vuol servire? -
E poi dicea: - Ma pognam che niuna di queste cose sia, e che pure i suoi parenti a casa di lei portar mi debbano io debbo credere che essi il corpo di Scannadio non vogliono per doverlosi tenere in braccio, o metterlo in braccio a lei; anzi si dee credere che essi ne voglian far qualche strazio, sì come di colui che forse già d'alcuna cosa gli diservì.
Costei dice che di cosa che io senta io non faccia motto.
se essi mi cacciasser gli occhi o mi traessero i denti o mozzasermi le mani o facessermi alcuno altro così fatto giuoco, a che sare'io? Come potre'io star cheto? E se io favello, e'mi conosceranno e per avventura mi faranno male; ma come che essi non me ne facciano, io non avrò fatto nulla, ché essi non mi lasceranno con la donna; e la donna dirà poi che io abbia rotto il suo comandamento e non farà mai cosa che mi piaccia.
-
E così dicendo, fu tutto che tornato a casa; ma pure il grande amore il sospinse innanzi con argomenti contrari a questi e di tanta forza, che allo avello il condussero.
Il quale egli aperse, ed entratovi dentro e spogliato Scannadio e sé rivestito e l'avello sopra sé richiuso e nel luogo di Scannadio postosi, gl'incominciò a tornare a mente chi costui era stato, e le cose che già aveva udite dire che di notte erano intervenute, non che nelle sepolture de' morti, ma ancora altrove; e tutti i peli gli s'incominciarono ad arricciare ad dosso, e parevagli tratto tratto che Scannadio si dovesse levar ritto e quivi scannar lui.
Ma da fervente amore aiutato, questi e gli altri paurosi pensier vincendo, stando come se egli il morto fosse, cominciò ad aspettare che di lui dovesse intervenire.
Rinuccio, appressandosi la mezza notte, uscì di casa sua per far quello che dalla sua donna gli era stato mandato a dire; e andando, in molti e vari pensieri entrò delle cose possibili ad intervenirgli; sì come di poter col corpo sopra le spalle di Scannadio venire alle mani della signoria ed esser come malioso condennato al fuoco; o di dovere, se egli si risapesse, venire in odio de' suoi parenti; e d'altri simili, da' quali tutto che rattenuto fu.
Ma poi, rivolto, disse: - Deh! dirò io di no della prima cosa che questa gentil donna, la quale io ho cotanto amata e amo, m'ha richiesto, e spezialmente dovendone la sua grazia acquistare? Non, ne dovess'io di certo morire, che io non me ne metta a fare ciò che promesso l'ho; - e andato avanti giunse alla sepoltura e quella leggermente aperse.
Alessandro, sentendola aprire, ancora che gran paura avesse, stette pur cheto.
Rinuccio, entrato dentro, credendosi il corpo di Scannadio prendere, prese Alessandro pe'piedi e lui fuor ne tirò, e in su le spalle levatoselo, verso la casa della gentil donna cominciò ad andare; e così andando e non riguardandolo altramenti, spesse volte il percoteva ora in un canto e ora in un altro d'alcune panche che allato alla via erano; e la notte era sì buia e sì oscura che egli non poteva discernere ove s'andava.
Ed essendo già Rinuccio a piè dell'uscio della gentil donna, la quale alle finestre con la sua fante stava per sentire se Rinuccio Alessandro recasse, già da sé armata in modo da mandargli amenduni via, avvenne che la famiglia della signoria, in quella contrada ripostasi e chetamente standosi aspettando di dover pigliare uno sbandito, sentendo lo scalpiccio che Rinuccio coi piè faceva, subitamente tratto fuori un lume per veder che si fare e dove andarsi, e mossi i pavesi e le lance, gridò:
- Chi è là?
La quale Rinuccio conoscendo, non avendo tempo da troppa lunga diliberazione, lasciatosi cadere Alessandro, quanto le gambe nel poteron portare andò via.
Alessandro, levatosi prestamente, con tutto che i panni del morto avesse in dosso, li quali erano molto lunghi, pure andò via altressì.
La donna, per lo lume tratto fuori dalla famiglia, ottimamente veduto aveva Rinuccio con Alessandro dietro alle spalle, e similmente aveva scorto Alessandro esser vestito dei panni di Scannadio, e maravigliossi molto del grande ardire di ciascuno; ma con tutta la maraviglia rise assai del veder gittar giuso Alessandro, e del vedergli poscia fuggire.
Ed essendo di tale accidente molto lieta e lodando Iddio che dallo 'mpaccio di costoro tolta l'avea, se ne tornò dentro e andossene in camera, affermando con la fante senza alcun dubbio ciascun di costoro amarla molto, poscia quello avevan fatto, sì come appariva, che ella loro aveva imposto.
Rinuccio, dolente e bestemmiando la sua sventura, non se ne tornò a casa per tutto questo, ma, partita di quella contrada la famiglia, colà tornò dove Alessandro aveva gittato, e cominciò brancolone a cercare se egli il ritrovasse, per fornire il suo servigio, ma non trovandolo, e avvisando la famiglia quindi averlo tolto, dolente a casa se ne tornò.
Alessandro, non sappiendo altro che farsi, sena aver conosciuto chi portato se l'avesse, dolente di tale sciagura, similmente a casa sua se n'andò.
La mattina, trovata aperta la sepoltura di Scannadio né dentro vedendovisi, perciò che nel fondo l'aveva Alessandro voltato, tutta Pistoia ne fu in vari ragionamenti, estimando gli sciocchi lui da' diavoli essere stato portato via.
Nondimeno ciascun de' due amanti, significato alla donna ciò che fatto avea e quello che era intervenuto, e con questo scusandosi se fornito non avean pienamente il suo comandamento, la sua grazia e il suo amore addimandava.
La qual mostrando a niun ciò voler credere, con recisa risposta di mai per lor niente voler fare, poi che essi ciò che essa ad dimandato avea non avean fatto, se gli tolse da dosso.
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Novella Seconda
Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de' veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l'accusata e fattalane accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
Già si tacea Filomena, e il senno della donna a torsi da dosso coloro li quali amar non volea da tutti era stato commendato, e così in contrario non amor ma pazzia era stata tenuta da tutti l'ardita presunzione degli amanti, quando la reina ad Elissa vezzosamente disse:
- Elissa, segui.
La quale prestamente incominciò.
Carissime donne, saviamente si seppe madonna Francesca, come detto è, liberar dalla noia sua; ma una giovane monaca, aiutandola la fortuna, sé da un soprastante pericolo, leggiadramente parlando, diliberò.
E, come voi sapete, assai sono li quali, essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e gastigatori, li quali, sì come voi potrete com prendere per la mia novella, la fortuna alcuna volta e meritamente vitupera; e ciò addivenne alla badessa, sotto la cui obbedienza era la monaca della quale debbo dire.
Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione, nel quale, tra l'altre donne monache che v'erano, v'era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dì ad un suo parente alla grata venuta, d'un bel giovane che con lui era s'innamorò.
Ed esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto, similmente di lei s'accese; e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto sostennero.
Ultimamente, essendone ciascun sollicito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi, non una volta ma molte, con gran piacer di ciascuno, la visitò.
Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne di là entro fu veduto, senza avvedersene egli o ella, dall'Isabetta partirsi e andarsene.
Il che costei con alquante altre comunicò.
E prima ebber consiglio d'accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna secondo la oppinione delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo, di volerla far cogliere col giovane alla badessa.
E così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono per incoglier costei.
Or, non guardandosi l'Isabetta da questo, né alcuna cosa sappiendone, avvenne che ella una notte vel fece venire; il che tantosto sepper quelle che a ciò badavano.
Le quali, quando a loro parve tempo, essendo già buona pezza di notte, in due si divisero, e una parte se ne mise a guardia del l'uscio della cella dell'Isabetta, e un'altra n'andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l'uscio, a lei che già rispondeva, dissero:
- Su, madonna, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato che l'Isabetta ha un giovane nella cella.
Era quella notte la badessa accompagnata d'un prete, il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire.
La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose, tanto l'uscio sospignessero che egli s'aprisse, spacciatamente si levò suso, e come il meglio seppe si vestì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamanli il saltero, le venner tolte le brache del prete; e tanta fu la fretta, che, senza avvedersene, in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì fuori, e prestamente l'uscio si riserrò dietro, dicendo:
- Dove è questa maladetta da Dio? - e con l'altre, che sì focose e sì attente erano a dover far trovare in fallo l'Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non s'avvedieno, giunse all'uscio della cella, e quello, dall'altre aiutata, pinse in terra; ed entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti abbracciati, li quali, da cosi subito soprapprendimento storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi.
La giovane fu incontanente dall'altre monache presa, e per comandamento della badessa menata in capitolo.
Il giovane s'era rimaso; e vestitosi, aspettava di veder che fine la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco.
La badessa, postasi a sedere in capitolo, in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità, l'onestà e la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea; e dietro alla villania aggiugneva gravissime minacce.
La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole, non sapeva che si rispondere, ma tacendo, di sé metteva compassion nell'altre; e, multiplicando pur la badessa in novelle, venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in capo, e gli usolieri che di qua e di là pendevano.
Di che ella, avvisando ciò che era, tutta rassicurata disse:
- Madonna, se Iddio v'aiuti, annodatevi la cuffia, e poscia mi dite ciò che voi volete.
La badessa, che non la intendeva, disse:
- Che cuffia, rea femina? Ora hai tu viso di motteggiare? Parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo?
Allora la giovane un'altra volta disse:
- Madonna, io vi priego che voi v'annodiate la cuffia, poi dite a me ciò che vi piace.
Laonde molte delle monache levarono il viso al capo della badessa, ed ella similmente ponendovisi le mani, s'accorsero perché l'Isabetta così diceva.
Di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone, e in tutta altra guisa che fatto non avea cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto s'era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse.
E liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l'Isabetta col suo amante.
Il qual poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fe'venire.
L'altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente procacciaron lor ventura.
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Novella Terza
Maestro Simone, ad instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a' predetti capponi e denari, e guarisce della pregnezza senza partorire.
Poi che Elissa ebbe la sua novella finita, essendo da tutte rendute grazie a Dio che la giovane monaca aveva con lieta uscita tratta dei morsi delle invidiose compagne, la reina a Filostrato comandò che seguitasse; il quale, senza più comandamento aspettare, incominciò.
Bellissime donne, lo scostumato giudice marchigiano, di cui ieri vi novellai, mi trasse di bocca una novella di Calandrino, la quale io era per dirvi.
E per ciò che ciò che di lui si ragiona non può altro che multiplicare la festa, benché di lui e de' suoi compagni assai ragionato si sia, ancor pur quella che ieri aveva in animo vi dirò.
Mostrato è di sopra assai chiaro chi Calandrin fosse e gli altri de' quali in questa novella ragionar debbo; e per ciò, senza più dirne, dico che egli avvenne che una zia di Calandrin si morì e lasciogli dugento lire di piccioli con tanti; per la qual cosa Calandrino cominciò a dire che egli voleva comperare un podere; e con quanti sensali aveva in Firenze, come se da spendere avesse avuti diecimila fiorin d'oro, teneva mercato, il quale sempre si guastava quando al prezzo del poder domandato si perveniva.
Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avevan più volte detto che egli farebbe il meglio a goderglisi con loro insieme, che andar comperando terra, come se egli avesse avuto a far pallottole; ma, non che a questo, essi non l'aveano mai potuto conducere che egli loro una volta desse mangiare.
Per che un dì dolendosene, ed essendo a ciò sopravenuto un lor compagno, che aveva nome Nello, dipintore, di liberar tutti e tre di dover trovar modo da ugnersi il grifo alle spese di Calandrino; e senza troppo indugio darvi, avendo tra sé ordinato quello che a fare avessero, la seguente mattina appostato quando Calandrino di casa uscisse, non essendo egli guari andato, gli si fece incontro Nello e disse:
- Buon dì, Calandrino.
Calandrino gli rispose che Iddio gli desse il buon dì e 'l buono anno.
Appresso questo, Nello rattenutosi un poco, lo 'ncominciò a guardar nel viso.
A cui Calandrino disse:
- Che guati tu?
E Nello disse a lui:
- Haiti tu sentita sta notte cosa niuna? Tu non mi par desso.
Calandrino incontanente incominciò a dubitare e disse:
- Ohimè, come! Che ti pare egli che io abbia?
Disse Nello:
- Deh! io nol dico per ciò; ma tu mi pari tutto cambiato; fia forse altro ; - e lasciollo andare.
Calandrino tutto sospettoso, non sentendosi per ciò cosa del mondo, andò avanti.
Ma Buffalmacco, che guari non era lontano, vedendol partito da Nello, gli si fece incontro, salutatolo il domandò se egli si sentisse niente.
Calandrino rispose:
- Io non so, pur testé mi diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe egli essere che io avessi nulla?
Disse Buffalmacco:
- Sì, potrestu aver cavelle, non che nulla: tu par mezzo morto.
A Calandrino pareva già aver la febbre.
Ed ecco Bruno sopravvenne, e prima che altro dicesse, disse:
- Calandrino, che viso è quello? E'par che tu sia morto: che ti senti tu?
Calandrino, udendo ciascun di costor così dire, per certissimo ebbe seco medesimo d'esser malato; e tutto sgomentato gli domandò:
- Che fo?
Disse Bruno:
- A me pare che tu te ne torni a casa a vaditene in su 'l letto e facciti ben coprire, e che tu mandi il segnal tuo al maestro Simone, che è così nostra cosa come tu sai.
Egli ti dirà incontanente ciò che tu avrai a fare, e noi ne verrem teco, e se bisognerà far cosa niuna, noi la faremo.
E con loro aggiuntosi Nello, con Calandrino se ne tornarono a casa sua, ed egli entratosene tutto affaticato nella camera, disse alla moglie:
- Vieni e cuoprimi bene, ché io mi sento un gran male.
Essendo adunque a giacer posto, il suo segnale per una fanticella mandò al maestro Simone, il quale allora a bottega stava in Mercato Vecchio alla 'nsegna del mellone.
E Bruno disse a' compagni:
- Voi vi rimarrete qui con lui, e io voglio andare a sapere che il medico dirà; e, se bisogno sarà, a menarloci.
Calandrino allora disse:
- Deh! sì, compagno mio, vavvi e sappimi ridire come il fatto sta, ché io mi sento non so che dentro.
Bruno, andatosene al maestro Simone, vi fu prima che la fanticella che il segno portava, ed ebbe informato maestro Simone del fatto.
Per che, venuta la fanticella e il maestro veduto il segno, disse alla fanticella:
- Vattene, e di'a Calandrino che egli si tenga ben caldo, e io verrò a lui incontanente e dirogli ciò che egli ha, e ciò che egli avrà a fare.
La fanticella così rapportò: né stette guari che il maestro e Brun vennero, e postoglisi il medico a sedere allato, gli 'ncominciò a toccare il polso, e dopo alquanto, essendo ivi presente la moglie, disse:
- Vedi, Calandrino, a parlarti come ad amico, tu non hai altro male se non che tu se'pregno.
Come Calandrino udì questo, dolorosamente cominciò a gridare e a dire:
- Ohimè! Tessa, questo m'hai fatto tu, che non vuogli stare altro che di sopra: io il ti diceva bene.
La donna, che assai onesta persona era, udendo così dire al marito, tutta di vergogna arrossò, e abbassata la fronte, senza risponder parola s'uscì della camera.
Calandrino, continuando il
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