DECAMERON, di Giovanni Boccaccio - pagina 70
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Né stette guari che la giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse, subitamente si levò in piè e cominciò a fuggire verso il mare, e i cani appresso di lei sempre lacerandola; e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare, e in picciola ora si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli potè vedere.
Il quale, avendo queste cose vedute, gran pezza stette tra pietoso e pauroso, e dopo alquanto gli venne nella mente questa cosa dovergli molto poter valere, poi che ogni venerdì avvenia; per che, segnato il luogo, a' suoi famigli se ne tornò, e appresso, quando gli parve, mandato per più suoi parenti e amici, disse loro:
- Voi m'avete lungo tempo stimolato che io d'amare questa mia nemica mi rimanga e ponga fine al mio spendere, e io son presto di farlo dove voi una grazia m'impetriate, la quale è questa: che venerdì che viene voi facciate sì che messer Paolo Traversaro e la moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, e altre chi vi piacerà, qui sieno a desinar meco.
Quello per che io questo voglia, voi il vedrete allora.
A costor parve questa assai piccola cosa a dover fare e promissongliele; e a Ravenna tornati, quando tempo fu, coloro invitarono li quali Nastagio voleva, e come che dura cosa fosse il potervi menare la giovane da Nastagio amata, pur v'andò con gli altri insieme.
Nastagio fece magnificamente apprestare da mangiare, e fece ]e tavole mettere sotto i pini d'intorno a quel luogo dove veduto aveva lo strazio della crudel donna; e fatti mettere gli uomini e le donne a tavola, sì ordinò, che appunto la giovane amata da lui fu posta a sedere dirimpetto al luogo dove doveva il fatto intervenire.
Essendo adunque già venuta l'ultima vivanda, e il romore disperato della cacciata giovane da tutti fu cominciato ad udire.
Di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che ciò fosse, e niun sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando che ciò potesse essere, videro la dolente giovane e 'l cavaliere è cani; ne guari stette che essi tutti furon quivi tra loro.
Il romore fu fatto grande e a' cani e al cavaliere, e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi; ma il cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece indietro tirare, ma tutti gli spaventò e riempiè di maraviglia; e faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v'avea (ché ve ne avea assai che parenti erano state e della dolente giovane e del cavaliere e che si ricordavano e dell'amore e della morte di lui) tutte così miseramente piagnevano come se a sé medesime quello avesser veduto fare.
La qual cosa al suo termine fornita, e andata via la donna e 'l cavaliere, mise costoro che ciò veduto aveano in molti e vari ragionamenti; ma tra gli altri che più di spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa distintamente veduta avea e udita, e conosciuto che a sé più che ad altra persona che vi fosse queste cose toccavano, ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggir dinanzi da lui adirato e avere i mastini a' fianchi.
E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide (il quale quella medesima sera prestato le fu) che ella, avendo l'odio in amore tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacer d'andare a lei, per ciò ch'ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui.
Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a grado molto, ma che, dove piacesse, con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie.
La giovane, la qual sapeva che da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse, gli fece risponder che le piacea.
Per che, essendo ella medesima la messaggera, al padre e alla madre disse che era contenta d'esser sposa di Nastagio, di che essi furon contenti molto; e la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze, con lei più tempo lietamente visse.
E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a' piaceri degli uomini furono, che prima state non erano.
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Novella Nona
Federigo degli Alberighi ama e non è amato e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la quale, ciò sappiendo, mutata d'animo, il prende per marito e fallo ricco.
Era già di parlar ristata Filomena, quando la reina, avendo veduto che più niuno a dover dire, se non Dioneo per lo suo privilegio, v'era rimaso, con lieto viso disse:
A me omai appartiene di ragionare; e io, carissime donne, d'una novella simile in parte alla precedente il farò volentieri, non acciò solamente che conosciate quanto la vostra vaghezza possa né cuor gentili, ma perché apprendiate d'esser voi medesime, dove si conviene, donatrici de' vostri guiderdoni, senza lasciarne sempre esser la Fortuna guidatrice.
La quale non discretamente, ma, come s'avviene, moderatamente il più delle volte dona.
Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi, il quale fu nella nostra città, e forse ancora è, uomo di grande e di reverenda autorità né dì nostri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo e degno d'eterna fama, essendo già d'anni peno, spesso volte delle cose passate co' suoi vicini e con altri si dilettava di ragionare: la qual cosa egli meglio e con più ordine e con maggior memoria e ornato parlare che altro uomo seppe fare.
Era usato di dire, tra l'altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d'arme e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel di Toscana.
Il quale, sì come il più de' gentili uomini avviene, d'una gentil donna chiamata monna Giovanna s'innamorò, né suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli l'amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva.
Spendendo adunque Federigo oltre a ogni suo potere molto e niente acquistando, sì come di leggiere adiviene, le ricchezze mancarono e esso rimase povero, senza altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite del quale strettissimamente vivea, e oltre a questo un suo falcone de' miglior del mondo.
Per che, amando più che mai né parendo gli più potere essere cittadino come disiderava, a Campi, là dove il suo poderetto era, se n'andò a stare.
Quivi, quando poteva uccellando e senza alcuna persona richiedere, pazientemente la sua povertà comportava.
Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo stremo, che il marito di monna Giovanna infermò, e veggendosi alla morte venire fece testamento, e essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituì, e morissi.
Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l'anno di state con questo suo figliuolo se n'andava in contado a una sua possessione assai vicina a quella di Federigo.
Per che avvenne che questo garzoncello s'incominciò a dimesticare con Federigo e a dilettarsi d'uccelli e di cani; e avendo veduto molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente piacendogli, forte disiderava d'averlo ma pure non s'attentava di domandarlo, veggendolo a lui esser cotanto caro.
E così stando la cosa, avvenne che il garzoncello infermò: di che la madre dolorosa molto, come colei che più non n'avea e lui amava quanto più si poteva, tutto il dì standogli dintorno non restava di confortarlo e spesse volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, che per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come l'avesse.
Il giovanetto, udite molte volte queste proferte, disse:
- Madre mia, se voi fa che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire.
La donna, udendo questo, alquanto sopra sé stette e cominciò a pensar quello che far dovesse.
Ella sapeva che Federigo lungamente l'aveva amata, né mai da lei una sola guatatura aveva avuta, per che ella diceva: - Come manderò io o andrò a domandargli questo falcone che è, per quel che io oda, il migliore che mai volasse e oltre a ciò il mantien nel mondo? E come sarò io sì sconoscente, che a un gentile uomo al quale niuno altro diletto è più rimaso, io questo gli voglia torre?
E in così fatto pensiero impacciata, come che ella fosse certissima d'averlo se 'l domandasse, senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava.
Ultimamente tanto la vinse l'amor del figliuolo, che ella seco dispose, per contentarlo che che esser ne dovesse, di non mandare ma d'andare ella medesima per esso e di recargliele e risposegli:
- Figliuol mio, confortati e pensa di guerire di forza, ché io ti prometto che la prima cosa che io farò domattina, io andrò per esso e sì il ti recherò.
Di che il fanciullo lieto il dì medesimo mostrò alcun miglioramento.
La donna la mattina seguente, presa un'altra donna in compagnia, per modo di diporto se n'andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare.
Egli, per ciò che non era tempo, né era stato a quei dì, d'uccellare, era in un suo orto e faceva certi suoi lavorietti acconciare; il quale, udendo che monna Giovanna il domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto là corse.
La quale vedendol venire, con una donnesca piacevolezza levataglisi incontrò, avendola già Federigo reverentemente salutata, disse:
- Bene stea Federigo! - e seguitò: - Io sono venuta a ristorarti de' danni li quali tu hai già avuti per me amandomi più che stato non ti sarebbe bisogno: e il ristoro è cotale che io intendo con questa mia compagna insieme destinar teco dimesticamente stamane.
Alla qual Federigo umilmente rispose:
- Madonna, niun danno mi ricorda mai avere ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vostro valore e per l'amore che portato v'ho adivenne.
E per certo questa vostra liberale venuta m'è troppo più cara che non sarebbe se da capo mi fosse dato da spendere quanto per adietro ho già speso, come che a povero oste siate venuta.
E così detto, vergognosamente dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo giardino la condusse, e quivi non avendo a cui farle tenere compagnia a altrui, disse:
- Madonna, poi che altri non c'è, questa buona donna moglie di questo lavoratore vi terrà compagnia tanto che io vada a far metter la tavola.
Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s'era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d'ordine spese le sue ricchezze, ma questa mattina niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor della quale egli già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere.
E oltre modo angoscioso, seco stesso maledicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé fosse or qua e or là trascorrendo, né denari né pegno trovandosi, essendo l'ora tarda e il disiderio grande di pure onorar d'alcuna cosa la gentil donna e non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna.
E però, senza più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella il fé prestamente, pelato e acconcio, mettere in uno schedone e arrostir diligentemente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far si potea, disse essere apparecchiato.
Laonde la donna con la sua compagna levatasi andarono a tavola e, senza saper che si mangiassero, insieme con Federigo, il quale con somma fede le serviva, mangiarono il buon falcone.
E levate da tavola e alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate, parendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, così benignamente verso Federigo cominciò a parlare:
- Federigo, ricordandoti tu della tua preterita vita e della mia onestà, la quale per avventura tu hai reputata durezza e crudeltà, io non dubito punto che tu non ti debbi maravigliare della mia presunzione sentendo quello per che principalmente qui venuta sono; ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l'amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa che in parte m'avresti per iscusata.
Ma come che tu non n'abbia, io che n'ho uno, non posso però le leggi comuni d'altre madri fuggire; le cui forze seguir convenendomi, mi conviene, oltre al piacer mio e oltre a ogni convenevolezza e dovere, chiederti un dono il quale io so che sommamente t'è caro: e è ragione, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro diporto, niuna consolazione lasciata t'ha la sua strema fortuna, e questo dono è il falcon tuo, del quale il fanciul mio è sì forte invaghito, che, se io non gliene porto, io temo che egli non aggravi tanto nella infermità la quale ha, che poi ne segua cosa per la quale io il perda.
E per ciò ti priego, non per l'amore che tu mi porti, al quale tu di niente sé tenuto, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s'è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi, acciò che io per questo dono possa dire d'avere ritenuto in vita il mio figliuolo e per quello averloti sempre obligato.
Federigo, udendo ciò che la donna adomandava e sentendo che servir non ne la potea per ciò che mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola risponder potesse.
Il quale pianto la donna prima credette che da dolore di dover da sé di partire il buon falcone divenisse più che d'altro, e quasi fu per dire che nol volesse; ma pur sostenutasi, aspettò dopo il pianto la risposta di Federigo, il qual così disse:
- Madonna poscia che a Dio piacque che io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m'ho reputata la fortuna contraria e sonmi di lei doluto; ma tutte sono state leggieri a rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver non debbo, pensando che voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre che ricca fu, venir non degnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella abbia sì fatto, che io donar nol vi possa: e perché questo esser non possa vi dirò brievemente.
Come io udii che voi, la vostra mercé, meco desinar volavate, avendo riguardo alla vostra eccellenzia e al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con più cara vivanda secondo la mia possibilità io vi dovessi onorare, che con quelle che generalmente per l'altre persone s'usano: per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e della sua bontà, degno cibo da voi il reputai, e questa mattina arrostito l'avete avuto in sul tagliere, il quale io per ottimamente allogato avea; ma vedendo ora che in altra maniera il disideravate, m'è sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare.
E questo detto, le penne e i piedi e 'l becco le fe'in testimonianza di ciò gittare davanti.
La qual cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d'aver per dar mangiare a una femina ucciso un tal falcone, e poi la grandezza dell'animo suo, la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare, molto seco medesima commendò.
Poi, rimasa fuori dalla speranza d'avere il falcone e per quello della salute del figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si dipartì e tornossi al figliuolo.
Il quale, o per malinconia che il falcone aver non potea o per la 'nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto, non trapassar molti giorni che egli con grandissimo dolor della madre di questa vita passò.
La quale, poi che piena di lagrime e d'amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa ricchissima e ancora giovane, più volte fu dà fratelli costretta a rimaritarsi.
La quale, come che voluto non avesse, pur veggendosi infestare, ricordatasi del valore di Federigo e della sua magnificenzia ultima, cioè d'avere ucciso un così fatto falcone per onorarla, disse a' fratelli:
- Io volentieri, quando vi piacesse, mi starei; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi.
Alla quale i fratelli, faccendosi beffe di lei, dissero:
- Sciocca, che è ciò che tu dì? come vuoi tu lui che non ha cosa al mondo?
A'quali ella rispose:
- Fratelli miei, io so bene che così è come voi dite, ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d'uomo.
Li fratelli, udendo l'animo di lei e conoscendo Federigo da molto, quantunque povero fosse, sì come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono.
Il quale così fatta donna e cui egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissima, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi.
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Novella Decima
Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d'Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d'Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo cognosce lo 'nganno della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza.
Il ragionare della reina era al suo fine venuto, essendo lodato da tutti Iddio che degnamente avea guiderdonato Federigo, quando Dioneo, che mai comandamento non aspettava, incominciò.
Io non so s'io mi dica che sia accidental vizio e per malvagità di costumi né mortali sopravenuto, o se pure è della natura peccato, il rider più tosto delle cattive cose che delle buone opere, e spezialmente quando quelle cotali a noi non pertengono.
E per ciò che la fatica, la quale altra volta ho impresa e ora son per pigliare, a niuno altro fine riguarda se non a dovervi torre malinconia, e riso e allegrezza porgervi, quantunque la materia della mia seguente novella, innamorate giovani, sia in parte meno che onesta, però che diletto può porgere, ve la pur dirò; e voi, ascoltandola, quello ne fate che usate siete di fare quando né giardini entrate, che, distesa la dilicata mano, cogliete le rose e lasciate le spine stare; il che farete, lasciando il cattivo uomo con la mala ventura stare con la sua disonestà, e liete riderete degli amorosi inganni della sua donna, compassione avendo all'altrui sciagure, dove bisogna.
Fu in Perugia, non è ancora molto tempo passato, un ricco uomo chiamato Pietro di Vinciolo, il quale, forse più per ingannare altrui e diminuire la generale oppinion di lui avuta da tutti i perugini, che per vaghezza che egli n'avesse, prese moglie; e fu la fortuna conforme al suo appetito in questo modo, che la moglie la quale egli prese era un giovane compressa, di pelo rosso e accesa, la quale due mariti più tosto che uno avrebbe voluti, là dove ella s'avvenne a uno che molto più ad altro che a lei l'animo avea disposto.
Il che ella in processo di tempo conoscendo, e veggendosi bella e fresca, e sentendosi gagliarda e poderosa, prima se ne cominciò forte a turbare e ad averne col marito di sconce parole alcuna volta, e quasi continuo mala vita; poi, veggendo che questo, suo consumamento più tosto che ammendamento della cattività del marito potrebbe essere, seco stessa disse: - Questo dolente abbandona me, per volere con le sue disonestà andare in zoccoli per l'asciutto, e io m'ingegnerò di portare altrui in nave per lo piovoso.
Io il presi per marito e diedigli grande e buona dota, sappiendo che egli era uomo e credendol vago di quello che sono e deono esser vaghi gli uomini; e se io non avessi creduto ch'è fosse stato uomo, io non lo avrei mai preso.
Egli che sapeva che io era femina, perché per moglie mi prendeva se le femine contro all'animo gli erano? Questo non è da sofferire.
Se io non avessi voluto essere al mondo, io mi sarei fatta monaca; e volendoci essere, come io voglio e sono, se io aspetterò diletto o piacere di costui, io potrò per avventura invano aspettando invecchiare, e quando io sarò vecchia, ravvedendomi, indarno mi dorrò d'avere la mia giovinezza perduta, alla qual dover consolare m'è egli assai buono maestro e dimostratore in farmi dilettare di quello che egli si diletta; il qual diletto fia a me laudevole, dove biasimevole è forte a lui; io offenderò le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura.
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Avendo adunque la buona donna così fatto pensiero avuto, e forse più d'una volta, per dare segretamente a ciò effetto, si dimesticò con una vecchia, che pareva pur santa Verdiana che dà beccare alle serpi; la quale sempre co' paternostri in mano andava ad ogni perdonanza, né mai d'altro che della vita de' Santi Padri ragionava e delle piaghe di san Francesco, e quasi da tutti era tenuta una santa.
E quando tempo le parve, l'aperse la sua intenzion compiutamente; a cui la vecchia disse:
- Figliuola mia, sallo Iddio che sa tutte le cose, che tu molto ben fai; e quando per niuna altra cosa il facessi, sì 'I dovresti far tu e ciascuna giovane per non perdere il tempo della vostra giovinezza, perciò che niun dolore è pari a quello, a chi conoscimento ha, che è d'avere il tempo perduto.
E da che diavol siam noi poi, quando noi siam vecchie, se non da guardare la cenere intorno al focolare? Se niuna il sa o ne può rendere testimonianza, io sono una di quelle; che ora che vecchia sono, non senza grandissime e amare punture d'animo conosco, e senza pro, il tempo che andar lasciai; e benché io nol perdessi tutto (ché non vorrei che tu credessi che io fossi stata una milensa), io pur non feci ciò che io avrei potuto fare; di che quand'io mi ricordo, veggendomi fatta come tu mi vedi, che non troverrei chi mi desse fuoco a cencio, Dio il sa che dolore io sento.
Degli uomini non avvien così: essi nascon buoni a mille cose, non pure a questa, e la maggior parte sono da molto più vecchi che giovani; ma le femine a niuna altra cosa che a far questo e figliuoli ci nascono, e per questo son tenute care.
E se tu non te ne avvedessi ad altro, sì te ne dei tu avvedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò, che degli uomini non avviene; e oltre a questo una femina stancherebbe molti uomini, dove molti uomini non possono una femina stancare.
E per ciò che a questo siam nate, da capo ti dico che tu farai molto bene a rendere al marito tuo pan per focaccia, sì che l'anima tua non abbia in vecchiezza che rimproverare alle carni.
Di questo mondo ha ciascun tanto quanto egli se ne toglie, spezialmente le femine, alle quali si conviene troppo più d'adoperare il tempo quando l'hanno, che agli uomini, per ciò che tu puoi vedere, quando c'invecchiamo, né marito né altri ci vuol vedere anzi ci cacciano in cucina a dir delle favole con la gatta, e a noverare le pentole e le scodelle; e peggio, che noi siamo messe in canzone e dicono: - Alle giovani i buon bocconi, e alle vecchie gli stranguglioni -; e altre lor cose assai ancora dicono.
E acciò che io non ti tenga più in parole, ti dico infino ad ora che tu non potevi a persona del mondo scoprire l'animo tuo che più utile ti fosse di me; per ciò che egli non è alcun sì forbito, al quale io non ardisca di dire ciò che bisogna, né sì duro o zotico, che io non ammorbidisca bene e rechilo a ciò che io vorrò.
Fa pure che tu mi mostri qual ti piace, e lascia poi fare a me; ma una cosa ti ricordo, figliuola mia, che io ti sia raccomandata, per ciò che io son povera persona, e io voglio infino ad ora che tu sii partefice di tutte le mie perdonanze e di quanti paternostri io dirò, acciò che Iddio gli faccia lume e candela a' morti tuoi; - e fece fine.
Rimase adunque la giovane in questa concordia colla vecchia, che se veduto le venisse un giovinetto, il quale per quella contrada molto spesso passava, del quale tutti i segni le disse, che ella sapesse quello che avesse a fare; e datale un pezzo di carne salata, la mandò con Dio.
La vecchia, non passar molti dì, occultamente le mise colui, di cui ella detto l'aveva, in camera, e ivi a poco tempo un altro, secondo che alla giovane donna ne venivan piacendo, la quale in cosa che far potesse intorno a ciò, sempre del marito temendo, non ne lasciava a far tratto.
Avvenne che, dovendo una sera andare a cena il marito con un suo amico, il quale aveva nome Ercolano, la giovane impose alla vecchia che facesse venire a lei un garzone, che era de' più belli e de' più piacevoli di Perugia; la quale prestamente così fece.
Ed essendosi la donna col giovane posti a tavola per cenare, ed ecco Pietro chiamò all'uscio che aperto gli fosse.
La donna, questo sentendo, si tenne morta; ma pur volendo, se potuto avesse, celare il giovane, non avendo accorgimento di mandarlo o di farlo nascondere in altra parte, essendo una sua loggetta vicina alla camera nella quale cenavano, sotto una cesta da polli, che v'era, il fece ricoverare, e gittovvi suso un pannaccio d'un saccone che aveva fatto il dì votare; e questo fatto, prestamente fece aprire al marito.
Al quale entrato in casa ella disse:
- Molto tosto l'avete voi trangugiata questa cena.
Pietro rispose:
- Non l'abbiam noi assaggiata.
- E come è stato così? - disse la donna.
Pietro allora disse:
- Dirolti: essendo noi già posti a tavola Ercolano e la moglie e io, e noi sentimmo presso di noi starnutire, di che noi né la prima volta né la seconda ce ne curammo; ma quegli che starnutito avea, starnutendo ancora la terza volta e la quarta e la quinta e molte altre, tutti ci fece maravigliare; di che Ercolano, che alquanto turbato con la moglie per ciò che gran pezza ci avea fatti stare all'uscio senza aprirci, quasi con furia disse: - Questo che vuol dire? Chi è questi che così starnutisce? - e levatosi da tavola andò verso una scala la quale assai vicina v'era, sotto la quale era un chiuso di tavole vicino al piè della scala, da riporvi, chi avesse voluto, alcuna cosa, come tutto dì veggiamo che fanno far coloro che le lor case acconciano.
E parendogli che di quindi venisse il suono dello starnuto, aperse un usciuolo il qual v'era, e come aperto l'ebbe, subitamente n'uscì fuori il maggior puzzo di solfo del mondo, benché davanti, essendocene venuto puzzo e rammaricaticene, aveva detto la donna: - Egli è che dianzi io imbiancai miei veli col solfo, e poi la tegghiuzza, sopra la quale sparto l'avea perché il fummo ricevessero, io la misi sotto quella scala, sì che ancora ne viene.
- E poi che Ercolano aperto ebbe l'usciuolo e sfogato fu alquanto il puzzo, guardando dentro vide colui il quale starnutito avea e ancora starnutiva, a ciò la forza del solfo strignendolo; e come che egli starnutisse, gli avea già il solfo sì il petto serrato, che poco a stare avea che né starnutito né altro non avrebbe mai.
Ercolano, vedutolo, gridò: - Or veggio, donna, quello per che poco avanti, quando ce ne venimmo, tanto tenuti fuor della porta, senza esserci aperto, fummo; ma non abbia io mai cosa che mi piaccia, se io non te ne pago .
- Il che la donna udendo, e vedendo che 'l suo peccato era palese, senza alcuna scusa fare, levatasi da tavola si fuggì, né so ove se n'andasse.
Ercolano, non accorgendosi che la moglie si fuggia, più volte disse a colui che starnutiva che egli uscisse fuori; ma quegli, che già più non poteva, per cosa che Ercolano dicesse non si movea; laonde Ercolano, presolo per l'uno de' piedi, nel tirò fuori, e correva per un coltello per ucciderlo; ma io, temendo per me medesimo la signoria, levatomi, non lo lasciai uccidere né fargli alcun male, anzi gridando e difendendolo, fui cagione che quivi de' vicini trassero, li quali, preso il già vinto giovane, fuori della casa il portarono non so dove; per le quali cose la nostra cena turbata, io non solamente non la ho trangugiata, anzi non l'ho pure assaggiata, come io dissi.
Udendo la donna queste cose, conobbe che egli erano dell'altre così savie come ella fosse, quantunque talvolta sciagura ne cogliesse ad alcuna, e volentieri avrebbe con parole la donna d'Ercolano difesa; ma, per ciò che col biasimare il fallo altrui le parve dovere a' suoi far più libera via, cominciò a dire:
- Ecco belle cose; ecco buona e santa donna che costei dee essere; ecco fede d'onesta donna, ché mi sarei confessata da lei, sì spirital mi pareva! e peggio, che, essendo ella oggimai vecchia, dà molto buono essemplo alle giovani.
Che maladetta sia l'ora che ella nel mondo venne, ed ella altressì che viver si lascia, perfidissima e rea femina che ella dee essere, universal vergogna e vitupero di tutte le donne di questa terra; la quale, gittata via la sua onestà e la fede promessa al suo marito e l'onor di questo mondo, lui, che è così fatto uomo e così onorevole cittadino, e che così bene la trattava, per un altro uomo non s'è vergognata di vituperare, e sé medesima insieme con lui.
Se Dio mi salvi, di così fatte femine non si vorrebbe aver misericordia; elle si vorrebbero occidere; elle si vorrebbon vive vive mettere nel fuoco e farne cenere.
Poi, del suo amico ricordandosi, il quale ella sotto la cesta assai presso di quivi aveva, cominciò a confortare Pietro che s'andasse al letto, per ciò che tempo n'era.
Pietro, che maggior voglia aveva di mangiare che di dormire, domandava pur se da cena cosa alcuna vi fosse.
A cui la donna rispondeva:
- Sì, da cena ci ha! Noi siamo molto usate di far da cena, quando tu non ci sé! Sì, che io sono la moglie d'Ercolano! Deh che non vai? Dormi per istasera: quanto farai meglio!
Avvenne che, essendo la sera certi lavoratori di Pietro venuti con certe cose dalla villa, e avendo messi gli asini loro, senza dar lor bere, in una stalletta la quale allato alla loggetta era, l'un degli asini che grandissima sete avea, tratto il capo del capestro, era uscito della stalla, e ogni cosa andava fiutando, se forse trovasse dell'acqua; e così andando s'avvenne per me la cesta sotto la quale era il giovinetto.
Il quale avendo, per ciò che carpone gli conveniva stare, alquanto le dita dell'una mano stese in terra fuor della cesta, tanta fu la sua ventura, o sciagura che vogliam dire, che questo asino ve gli pose su piede; laonde egli, grandissimo dolor sentendo, mise un grande strido.
Il quale udendo Pietro si maravigliò, e avvidesi ciò esser dentro alla casa; per che, uscito della camera, e sentendo ancora costui rammaricarsi, non avendogli ancora l'asino levato il piè d'in su le dita, ma premendol tuttavia forte, disse: - Chi è là? - e corso alla cesta, e quella levata, vide il giovinetto, il quale, oltre al dolore avuto delle dita premute dal piè dell'asino, tutto di paura tremava che Pietro alcun male non gli facesse.
Il quale essendo da Pietro riconosciuto, sì come colui a cui Pietro per la sua cattività era andato lungamente dietro, essendo da lui domandato - che fai tu qui? - niente a ciò gli rispose, ma pregollo che per l'amor di Dio non gli dovesse far male.
A cui Pietro disse:
- Leva su, non dubitare che io alcun mal ti faccia, ma dimmi, come tu sé qui e perché?
Il giovinetto gli disse ogni cosa.
Il qual Pietro, non meno lieto d'averlo trovato che la sua donna dolente, presolo per mano, con seco nel menò nella camera nella quale la donna con la maggior paura del mondo l'aspettava; alla quale Pietro postosi a seder dirimpetto disse:
- Or tu maladicevi così testé la moglie d'Ercolano e dicevi che arder si vorrebbe e che ella era vergogna di tutte voi: come non dicevi di te medesima? O, se di te dir non volevi, come ti sofferiva l'animo di dir di lei, sentendoti quel medesimo aver fatto che ella fatto avea? Certo niuna altra cosa vi ti induceva, se non che voi siete tutte così fatte, e con l'altrui colpe guatate di ricoprire i vostri falli; che venir possa fuoco da cielo che tutte v'arda, generazion pessima che voi siete.
La donna, veggendo che nella prima giunta altro male che di parole fatto non l'avea, e parendole conoscere lui tutto gogolare per ciò che per man tenea un così bel giovinetto, prese cuore e disse:
- Io ne son molto certa che tu vorresti che fuoco venisse da cielo che tutte ci ardesse, sì come colui che sé così vago di noi come il can delle mazze; ma alla croce di Dio egli non ti verrà fatto.
Ma volentieri farei un poco ragione con essoteco per sapere di che tu ti ramarichi; e certo io starei pur bene se tu alla moglie d'Ercolano mi volessi agguagliare, la quale è una vecchia picchiapetto spigolistra e ha da lui ciò che ella vuole, e tienla cara come si dee tener moglie, il che a me non avviene.
Ché, posto che io sia da te ben vestita e ben calzata, tu sai bene come io sto d'altro e quanto tempo egli è che tu non giacesti con meco; e io vorrei innanzi andar con gli stracci in dosso e scalza ed esser ben trattata da te nel letto, che aver tutte queste cose, trattandomi come tu mi tratti.
E intendi sanamente, Pietro, che io son femina come l'altre, e ho voglia di quel che l'altre; sì che, perché io me ne procacci, non avendone da te, non è da dirmene male; almeno ti fo io cotanto d'onore, che io non mi pongo né con ragazzi né con tignosi.
Pietro s'avvide che le parole non erano per venir meno in tutta notte; per che, come colui che poco di lei si curava, disse:
- Or non più, donna; di questo ti contenterò io bene; farai tu gran cortesia di far che noi abbiamo da cena qualche cosa: ché mi pare che questo garzone, altressì ben com'io, non abbia ancor cenato.
- Certo no, - disse la donna - che egli non ha ancor cenato, ché quando tu nella tua mala ora venisti, ci ponavam noi a tavola per cenare.
- Or va dunque, - disse Pietro - fa che noi ceniamo, e appresso io disporrò di questa cosa in guisa che tu non t'avrai che ramaricare.
La donna levata su, udendo il marito contento, prestamente fatta rimetter la tavola, fece venir la cena la quale apparecchiata avea, e insieme col suo cattivo marito e col giovane lietamente cenò.
Dopo la cena, quello che Pietro si divisasse a sodisfacimento di tutti e tre, m'è uscito di mente.
So io ben cotanto che la mattina vegnente infino in su la piazza fu il giovane, non assai certo qual più stato si fosse la notte o moglie o marito, accompagnato.
Per che così vi vo' dire, donne mie care, che chi te la fa, fagliele; e se tu non puoi, tienloti a mente fin che tu possa, acciò che quale asin dà in parete tal riceva.
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Conclusione
Essendo adunque la novella di Dioneo finita, meno per vergogna dalle donne risa che per poco diletto, e la reina conoscendo che il fine del suo reggimento era venuto, levatasi in piè e trattasi la corona dello alloro, quella piacevolmente mise in capo ad Elissa, dicendole:
- A voi, madonna, sta omai il comandare.
Elissa, ricevuto l'onore, sì come per addietro era stato fatto, così fece ella; ché dato col siniscalco primieramente ordine a ciò che bisogno facea per lo tempo della sua signoria, con contentamento della brigata disse:
- Noi abbiamo già molte volte udito che con be' motti e con risposte pronte o con avvedimenti presti molti hanno già saputo con debito morso rintuzzare gli altrui denti o i sopravegnenti pericoli cacciar via; e per ciò che la materia è bella, e può essere utile, voglio che domane, con l'aiuto di Dio, infra questi termini si ragioni, cioè di chi, con alcuno leggiadro motto tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita, pericolo o scorno.
Questo fu commendato molto da tutti; per la qual cosa la reina, levatasi in piè, loro tutti infino all'ora della cena licenziò.
L'onesta brigata, vedendo la reina levata, tutta si dirizzò, e, secondo il modo usato, ciascuno a quello che più diletto gli era si diede.
Ma essendo già di cantare le cicale ristate, fatto ogn'uom richiamare, a cena andarono; la quale con lieta festa fornita, a cantare e a sonare tutti si diedero E avendo già, con volere della reina, Emilia una danza presa, a Dioneo fu comandato che cantasse una canzone; il quale prestamente cominciò: "Monna Aldruda, levate la coda, ché buone novelle vi reco".
Di che tutte le donne cominciarono a ridere, e massimamente la reina, la quale gli comandò che quella lasciasse e dicessene un'altra.
Disse Dioneo:
- Madonna, se io avessi cembalo, io direi: "Alzatevi i panni, monna Lapa"; o "Sotto l'ulivello è l'erba"; o voleste voi che io dicessi: "L'onda del mare mi fa sì gran male"? ma io non ho cembalo, e per ciò vedete voi qual voi volete di queste altre.
Piacerebbevi: "Escici fuor che sia tagliato, com'un maio in su la campagna"?
Disse la reina:
- No, dinne un'altra.
- Dunque, - disse Dioneo - dirò io; "Monna Simona imbotta imbotta è non è del mese d'ottobre".
La reina ridendo disse:
- Deh in mal'ora, dinne una bella, se tu vogli, ché noi non vogliam cotesta.
Disse Dioneo:
- No, madonna, non ve ne fate male; pur qual più vi piace? Io ne so più di mille.
O volete: "Questo mio nicchio s'io nol picchio"; o, "Deh fa'pian, marito mio"; o, "Io mi comperai un gallo delle lire cento".
La reina allora un poco turbata, quantunque tutte l'altre ridessero, disse:
- Dioneo, lascia il motteggiare, e dinne una bella; e se non, tu potresti provare come io mi so adirare.
Dioneo, udendo questo, lasciate star le ciance, presta mente in cotal guisa cominciò a cantare:
Amor, la vaga luce,
che move dà begli occhi di costei,
servo m'ha fatto di te e di lei.
Mosse dà suoi begli occhi lo splendore,
che pria la fiamma tua nel cor m'accese,
per li miei trapassando;
e quanto fosse grande il tuo valore,
il bel viso di lei mi fè palese;
il quale immaginando,
mi sentii gir legando
ogni virtù e sottoporla a lei,
fatta nuova cagion de' sospir miei.
Così de' tuoi adunque divenuto
son, signor caro, e ubbidiente aspetto
dal tuo poter merzede;
ma non so ben se 'ntero è conosciuto
l'alto disio che messo m'hai nel petto,
né la mia intera fede,
da costei che possiede
sì la mia mente, che io non torrei
pace, fuor che da essa, né vorrei.
Per ch'io ti priego, dolce signor mio,
che gliel dimostri, e faccile sentire
alquanto del tuo foco
in servigio di me, ché vedi ch'io
già mi consumo amando, e nel martire
mi sfaccio a poco a poco;
e poi, quando fia loco,
me raccomanda a lei, come tu dei,
ché teco a farlo volentier verrei.
Da poi che Dioneo, tacendo, mostrò la sua canzone esser finita, fece la reina assai dell'altre dire, avendo nondimeno commendata molto quella di Dioneo.
Ma, poi che alquanto della notte fu trapassata, e la reina sentendo già il caldo del dì esser vinto dalla freschezza della notte, comandò che ciascuno infino al dì seguente a suo piacere s'andasse a riposare.
Finisce la quinta giornata del Decameron
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Sesta Giornata
Introduzione alla sesta giornata
Novella prima
Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.
Novella seconda
Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua trascutata domanda.
Novella terza
Monna Nonna de' Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.
Novella quarta
Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l'ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
Novella quinta
Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l'uno la sparuta apparenza dell'altro motteggiando morde.
Novella sesta
Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena.
Novella settima
Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
Novella ottava
Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l'erano a veder noiosi.
Novella nona
Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l'aveano.
Novella decima
Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell'agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
Conclusione della sesta giornata
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Introduzione
Incomincia la sesta giornata nella quale sotto il reggimento d'Elissa, si ragiona di chi con alcuno leggiadro motto, tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno.
Aveva la luna, essendo nel mezzo del cielo, perduti i raggi suoi, e già, per la nuova luce vegnente, ogni parte del nostro mondo era chiara, quando la reina levatasi, fatta la sua compagnia chiamare, alquanto con lento passo dal bel palagio, su per la rugiada spaziandosi, s'allontanarono, d'una e d'altra cosa vari ragionamenti tenendo, e della più bellezza e della meno delle raccontate novelle disputando, e ancora de' vari casi recitati in quelle rinnovando le risa infino a tanto che, già più alzandosi il sole e cominciandosi a riscaldare, a tutti parve di dover verso casa tornare; per che, voltati i passi, là se ne vennero.
E quivi, essendo già le tavole messe, e ogni cosa d'erbucce odorose e di be'fiori seminata, avanti che il caldo surgesse più, per comandamento della reina si misero a mangiare.
E questo con festa fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi e chi a tavole.
E Dioneo insieme con Lauretta di Troiolo e di Criseida cominciarono a cantare.
E già l'ora venuta del dovere a concistoro tornare, fatti tutti dalla reina chiamare, come usati erano, dintorno alla fonte si posero a sedere.
E volendo già la reina comandare la prima novella, avvenne cosa che ancora addivenuta non v'era, cioè che per la reina e per tutti fu un gran romore udito, che per le fanti e famigliari si faceva in cucina.
Laonde, fatto chiamare il siniscalco, e domandato qual gridasse e qual fosse del romore la cagione, rispose che il romore era tra Licisca e Tindaro; ma la cagione egli non sapea, sì come colui che pure allora giugnea per fargli star cheti, quando per parte di lei era stato chiamato.
Al quale la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca e Tindaro; li quali venuti, domandò la reina qual fosse la cagione del loro romore.
Alla quale volendo Tindaro rispondere, la Licisca, che attempatetta era e anzi superba che no, e in sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso disse:
- Vedi bestia d'uom che ardisce, dove io sia, a parlare prima di me! Lascia dir me; - e alla reina rivolta disse:
- Madonna, costui mi vuol far conoscere la moglie di Sicofante; e né più né meno, come se io con lei usata non fossi, mi vuol dare a vedere che la notte prima che Sicofante giacque con lei, messer Mazza entrasse in Monte Nero per forza e con ispargimento di sangue; e io dico che non è vero, anzi v'entrò paceficamente e con gran piacere di quei d'entro.
Ed è ben sì bestia costui, che egli si crede troppo bene che le giovani sieno così sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro, stando alla bada del padre e dei fratelli, che delle sette volte le sei soprastanno tre o quattro anni più che non debbono a maritarle.
Frate, bene starebbono, se elle s'indugiasser tanto! Alla fè di Cristo (ché debbo sapere quello che io mi dico quando io giuro) io non ho vicina che pulcella ne sia andata a marito; e anche delle maritate, so io ben quante e quali beffe elle fanno à mariti; e questo pecorone mi vuol far conoscere le femine, come se io fossi nata ieri.
Mentre la Licisca parlava, facevan le donne sì gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre.
E la reina l'aveva ben sei volte imposto silenzio; ma niente valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe detto ciò che le piacque.
Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina ridendo, volta a Dioneo, disse:
- Dioneo, questa è quistion da te; e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle che tu sopr'essa dei sentenzia finale.
Alla qual Dioneo prestamente rispose:
- Madonna, la sentenzia è data senza udirne altro; e dico che la Licisca ha ragione, e credo che così sia com'ella dice; e Tindaro è una bestia.
La qual cosa la Licisca udendo, cominciò a ridere, e a Tindaro rivolta, disse:
- Occi ben lo diceva io; vatti con Dio; credi tu saper più di me tu, che non hai ancora rasciutti gli occhi? Gran mercé, non ci son vivuta invano io, no.
E, se non fosse che la reina con un mal viso le 'mpose silenzio e comandolle che più parola né romor facesse se esser non volesse scopata, e lei e Tindaro mandò via, niuna altra cosa avrebbero avuta a fare in tutto quel giorno che attendere a lei.
Li quali poi che partiti furono, la reina impose a Filomena che alle novelle desse principio.
La quale lietamente così cominciò.
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Novella Prima
Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga.
Giovani donne, come né lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de' verdi prati, e de' colli i rivestiti albuscelli, così de' laudevoli costumi e de' ragionamenti belli sono i leggiadri motti, li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto più alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice.
E' il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagità del nostro ingegno o inimicizia singulare che à nostri secoli sia portata dà cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è, la qual ne sappi né tempi opportuni dire alcuno, o, se detto l'è, intenderlo come si conviene: general vergogna di tutte noi.
Ma per ciò che già sopra questa materia assai da Pampinea fu detto, più oltre non intendo di dirne.
Ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza à tempi detti, un cortese impor di silenzio fatto da una gentil donna ad un cavaliere mi piace di raccontarvi.
Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o possono avere udito, egli non è ancora guari che nella nostra città fu una gentile e costumata donna e ben parlante, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia.
Fu adunque chiamata madonna Oretta, e fu moglie di messer Geri Spina; la quale per avventura essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo ad un altro andando per via di diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dì avuti avea a desinare, ed essendo forse la via lunghetta di là onde si partivano a colà dove tutti a piè d'andare intendevano disse uno de' cavalieri della brigata:
- Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che ad andare abbiamo, a cavallo, con una delle belle novelle del mondo.
Al quale la donna rispose:
- Messere, anzi ve ne priego io molto, e sarammi carissimo.
Messer lo cavaliere, al quale forse non stava meglio la spada allato che 'l novellar nella lingua, udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima; ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, e ora indietro tornando, e talvolta dicendo: - Io non dissi bene; - e spesso né nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava; senza che egli pessimamente, secondo le qualità delle persone e gli atti che accadevano, proffereva.
Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per terminare; la qual cosa poi che più sofferir non potè, conoscendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio, né era per riuscirne, piacevolmente disse:
- Messere, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto; per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè.
Il cavaliere, il qual per avventura era molto migliore intenditore che novellatore, inteso il motto, e quello in festa e in gabbo preso, mise mano in altre novelle, e quella che cominciata avea e mai seguita, senza finita lasciò stare.
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Novella Seconda
Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua trascutata domanda.
Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella così cominciò:
Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d'anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio.
E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino.
Le quali io avviso che, sì come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de' futuri casi, per le loro oportunità le loro più care cose né più vili luoghi delle lor case, sì come meno sospetti sepelliscono, e quindi né maggiori bisogni le traggono, avendole il vil luogo più sicuramente servate che la bella camera non avrebbe.
E così le due ministre del mondo spesso le lor cose più care nascondono sotto l'ombra dell'arti reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più chiaro appaia il loro splendore.
Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello 'ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m'ha tornata nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.
Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva.
Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n'era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l'altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado.
Il quale, veggendo ogni mattina davanti all'uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s'avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d'invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi.
E avendo un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l'ora che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all'uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d'acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d'ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s'era, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n'avrebbe fatta venir voglia a' morti.
La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza:
- Chente è, Cisti? è buono? -
Cisti, levato prestamente in piè, rispose:
- Messer sì, ma quanto non vi potre'io dare a intendere, se voi non assaggiaste.
-
Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l'usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse:
- Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo; - e con loro insieme se n'andò verso Cisti.
Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse:
- Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d'assaggiarne gocciola!
E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e a' compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n'andò a ber messer Geri.
A'quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invitò una parte de' più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andar vi volle.
Impose adunque messer Geri a uno de' suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense.
Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco.
Il quale come Cisti vide, disse:
- Figliuolo, messer Geri non ti manda a me.
Il che raffermando più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse:
- Tornavi e digli che sì fo: e se egli più così sponde, domandalo a cui io ti mando.
Il famigliare tornato disse:
- Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te.
Al quale Cisti rispose:
- Per certo, figliuol, non fa.
- Adunque, - disse il famigliare - a cui mi manda?
Rispose Cisti:
- Ad Arno.
Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s'apersero dello 'ntelletto e disse al famigliare:
- Lasciami vedere che fiasco tu vi porti; - e vedutol disse:
- Cisti dice vero; - e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole.
Il quale Cisti vedendo disse:
- Ora so io bene che egli ti manda a me, - e lietamente glielo impiè.
E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d'un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse:
- Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m'avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co' miei piccoli orcioletti v'ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare.
Ora, per ciò che io non intendo d'esservene più guardiano tutto ve l'ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace.
Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l'ebbero e per amico.
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Novella Terza
Monna Nonna de' Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.
Quando Pampinea la sua novella ebbe finita, poi che da tutte la risposta e la liberalità di Cisti molto fu commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse appresso, la quale lietamente così a dire cominciò.
Piacevoli donne, prima Pampinea e ora Filomena assai del vero toccarono della nostra poca virtù e della bellezza de' motti; alla quale per ciò che tornar non bisogna, oltre a quello che de' motti è stato detto, vi voglio ricordare essere la natura de' motti cotale, che essi come la pecora morde deono così mordere l'uditore, e non come 'l cane; per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma villania.
La qual cosa ottimamente fecero e le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti.
E' il vero che, se per risposta si dice, e il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima stato morso, non par da riprendere, come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe; e per ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia.
Alle quali cose poco guardando già un nostro prelato, non minor morso ricevette che 'l desse; il che in una piccola novella vi voglio mostrare.
Essendo vescovo di Firenze messer Antonio d'Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentile uom catalano, chiamato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re Ruberto.
Il quale, essendo del corpo bellissimo e vie più che grande vagheggiatore, avvenne che fra l'altre donne fiorentine una ne gli piacque, la quale era assai bella donna ed era nepote d'un fratello del detto vescovo.
E avendo sentito che il marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo, con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d'oro, ed egli una notte con la moglie il lasciasse giacere; per che, fatti dorare popolini d'ariento, che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di lei fosse, gliele diede.
Il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo uomo il danno e le beffe; e il vescovo, come savio, s'infinse di queste cose niente sentire.
Per che, usando molto insieme il vescovo e 'l maliscalco, avvenne che il dì di San Giovanni, cavalcando l'uno allato all'altro, veggendo le donne per la via onde il palio si corre, il vescovo vide una giovane, la quale questa pestilenzia presente ci ha tolta donna, il cui nome fu monna Nonna de' Pulci, cugina di messere Alesso Rinucci, e cui voi tutte doveste conoscere; la quale, essendo allora una fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore, di poco tempo avanti in Porta San Piero a marito venutane, la mostrò al maliscalco; e poi essendole presso, posta la mano sopra la spalla del maliscalco, disse:
- Nonna, che ti par di costui? Crederrestil vincere?
Alla Nonna parve che quelle parole alquanto mordessero la sua onestà, o la dovesser contaminar negli animi di coloro, che molti v'erano, che l'udirono.
Per che, non intendendo a purgar questa contaminazione, ma a render colpo per colpo, prestamente rispose:
- Messere, è forse non vincerebbe me, ma vorrei buona moneta.
La qual parola udita il maliscalco e 'l vescovo, sentendosi parimente trafitti, l'uno siccome facitore della disonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo, e l'altro sì come ricevitore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l'un l'altro, vergognosi e taciti se n'andarono, senza più quel giorno dirle alcuna cosa.
Così adunque, essendo la giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui motteggiando.
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Novella Quarta
Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l'ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
Tacevasi già la Lauretta, e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile impose che seguitasse; la qual disse.
Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti e utili e belle, secondo gli accidenti, à dicitori, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de' paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone, che mai ad animo riposato per lo dicitor si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo di dimostrarvi.
Currado Gianfiglia sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è stato nobile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli s'è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare.
Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola una gru ammazata, trovandola grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio, ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse e governassela bene.
Chichibio, il quale come riuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine a cuocerla cominciò.
La quale essendo già presso che cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l'odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia.
Chichibio le rispose cantando e disse:
- "Voi non l'avrì da mi, donna Brunetta, voi non l'avrì da mi".
Di che donna Brunetta essendo un poco turbata, gli disse:
- In fè di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia; - e in brieve le parole furon molte.
Alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l'una delle cosce alla gru, gliele diede.
Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l'altra coscia della gru.
Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose:
- Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba.
Currado allora turbato disse:
- Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa?
Chichibio seguitò:
- Egli è, messer, com'io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder né vivi.
Currado, per amor dei forestieri che seco aveva, non volle dietro alle parole andare, ma disse:
- Poi che tu dì di farmelo vedere né vivi, cosa che io mai più non vidi né udii dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo, che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del nome mio.
Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana, alla riva della quale sempre soleva in sul far del dì vedersi delle gru, nel menò dicendo:
- Tosto vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io.
Chichibio, veggendo che ancora durava l'ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piedi.
Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano, si come quando dormono soglion fare.
Per che egli prestamente mostratele a Currado, disse:
- Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno.
Currado vedendole disse:
- Aspettati, che io ti mosterrò che elle n'hanno due; - e fattosi alquanto più a quelle vicino gridò: - Ho ho; - per lo qual grido le gru, mandato l'altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire.
Laonde Currado rivolto a Chichibio disse:
- Che ti par, ghiottone? Parti ch'elle n'abbian due?
Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose:
- Messer sì, ma voi non gridaste - ho ho - a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l'altra coscia e l'altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste.
A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso, e disse:
- Chichibio, tu hai ragione, ben lo dovea fare.
Così adunque con la sua pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col suo signore.
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Novella Quinta
Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l'uno la sparuta apparenza dell'altro motteggiando morde.
Come Neifile tacque, avendo molto le donne preso di piacere della risposta di Chichibio, così Panfilo per voler della reina disse.
Carissime donne, egli avviene spesso che, sì come la Fortuna sotto vili arti alcuna volta grandissimi tesori di virtù nasconde, come poco avanti per Pampinea fu mostrato, così ancora sotto turpissime forme d'uomini si truovano maravigliosi ingegni dalla Natura essere stati riposti.
La qual cosa assai apparve in due nostri cittadini, de' quali io intendo brievemente di ragionarvi.
Per ciò che l'uno, il quale messer Forese da Rabatta fu chiamato, essendo di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato, che a qualunque de' Baronci più trasformato l'ebbe sarebbe stato sozzo, fu di tanto sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione civile fu reputato.
E l'altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de' cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto.
E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni, che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de' savi dipignendo intendeano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò vivendo, quella acquistò, sempre rifiutando d'esser chiamato maestro.
Il quale titolo rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con maggior disidero da quegli che men sapevano di lui o dà suoi discepoli era cupidamente usurpato.
Ma, quantunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d'aspetto in niuna cosa più bello che fosse messer Forese.
Ma, alla novella venendo, dico che avevano in Mugello messer Forese e Giotto lor possessioni; ed essendo messer Forese le sue andate a vedere, in quegli tempi di state che le ferie si celebran per le corti, e per avventura in su un cattivo ronzino da vettura venendosene, trovò il già detto Giotto, il qual similmente avendo le sue vedute, se ne tornava a Firenze.
Il quale, né in cavallo né in arnese essendo in cosa alcuna meglio di lui, sì come vecchi, a pian passo venendosene, insieme s'accompagnarono.
Avvenne, come spesso di state veggiamo avvenire, che una subita piova gli soprapprese; la quale essi, come più tosto poterono, fuggirono in casa d'un lavoratore amico e conoscente di ciascuno di loro.
Ma dopo alquanto, non faccendo l'acqua alcuna vista di dover ristare, e costoro volendo essere il dì a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza due mantellacci vecchi di romagnuolo e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non v'erano, cominciarono a camminare.
Ora, essendo essi alquanto andati, e tutti molli veggendosi, e per gli schizzi che i ronzini fanno co' piedi in quantità zaccherosi (le quali cose non sogliono altrui accrescer punto d'orrevolezza), rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, cominciarono a ragionare.
E messer Forese, cavalcando e ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a considerarlo e da lato e da capo e per tutto, e veggendo ogni cosa così disorrevole e così disparuto, senza avere a sé niuna considerazione, cominciò a ridere, e disse:
- Giotto, a che ora venendo di qua allo 'ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t'avesse, credi tu che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu sé?
A cui Giotto prestamente rispose:
- Messere, credo, che egli il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste l'abicì.
Il che messer Forese udendo, il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato, quali erano state le derrate vendute.
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Novella Sesta
Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena.
Ridevano ancora le donne della bella e presta risposta di Giotto, quando la reina impose il seguitare alla Fiammetta, la qual così 'ncominciò a parlare.
Giovani donne, l'essere stati ricordati i Baronci da Panfilo, li quali per avventura voi non conoscete come fa egli, m'ha nella memoria tornata una novella, nella quale quanta sia la lor nobiltà si dimostra, senza dal nostro proposito deviare; e per ciò mi piace di raccontarla.
Egli non è ancora guari di tempo passato che nella nostra città era un giovane chiamato Michele Scalza, il quale era il più piacevole e il più sollazzevole uom del mondo, e le più nuove novelle aveva per le mani; per la qual cosa i giovani fiorentini avevan molto caro, quando in brigata si trovavano, di poter aver lui.
Ora avvenne un giorno che, essendo egli con alquanti a Montughi, si 'ncominciò tra loro una quistion così fatta: quali fossero li più gentili uomini di Firenze e i più antichi.
De'quali alcuni dicevano gli Uberti, e altri i Lamberti, e chi uno e chi un altro, secondo che nell'animo gli capea.
Li quali udendo lo Scalza, cominciò a ghignare, e disse:
- Andate via, andate, goccioloni che voi siete, voi non sapete ciò che voi vi dite; i più gentili uomini e i più antichi, non che di Firenze, ma di tutto il mondo o di maremma, sono i Baronci; e a questo s'accordano tutti i fisofoli e ogn'uom che gli conosce, come fo io; e acciò che voi non intendeste d'altri, io dico de' Baronci vostri vicini da Santa Maria Maggiore.
Quando i giovani, che aspettavano che egli dovesse dire altro, udiron questo, tutti si fecero beffe di lui, e dissero:
- Tu ci uccelli, quasi come se noi non cognoscessimo i Baronci come facci tu
Disse lo Scalza:
- Alle guagnele non fo, anzi mi dico il vero, e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena a doverla dare a chi vince con sei compagni quali più gli piaceranno, io la metterò volentieri; e ancora vi farò più, che io ne starò alla sentenzia di chiunque voi vorrete.
Tra'quali disse uno, che si chiamava Neri Mannini:
- Io sono acconcio a voler vincer questa cena; - e accordatisi insieme d'aver per giudice Piero di Fiorentino, in casa cui erano, e andatisene a lui, e tutti gli altri appresso, per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono.
Piero, che discreto giovane era, udita primieramente la ragione di Neri, poi allo Scalza rivolto, disse:
- E tu come potrai mostrare questo che tu affermi?
Disse lo Scalza:
- Che? Il mosterrò per sì fatta ragione, che non che tu, ma costui che il nega, dirà che io dica il vero.
Voi sapete che, quanto gli uomini sono più antichi, più son gentili, e così si diceva pur testé tra costoro; e i Baronci son più antichi che niuno altro uomo, sì che son più gentili; e come essi sien più antichi mostrandovi, senza dubbio io avrò vinta la quistione.
Voi dovete sapere che i Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli avea cominciato d'apparare a dipignere; ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe dipignere.
E che io dica di questo il vero, ponete mente à Baronci e agli altri uomini: dove voi tutti gli altri vedrete co' visi ben composti e debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e stretto, e quale averlo oltre ad ogni convenevolezza largo, e tal v'è col naso molto lungo, e tale l'ha corto, e alcuno col mento in fuori e in su rivolto, e con mascelloni che paiono d'asino; ed evvi tale che ha l'uno occhio più grosso che l'altro, e ancora chi l'un più giù che l'altro, sì come sogliono esser i visi che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare.
Per che, come già dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece quando apparava a dipignere; sì che essi sono più antichi che gli altri, e così più gentili.
Della qual cosa, e Piero che era il giudice, e Neri che aveva messa la cena, e ciascun altro ricordandosi, e avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti cominciarono a ridere e affermare che lo Scalza aveva la ragione, e che egli aveva vinta la cena, e che per certo i Baronci erano i più gentili uomini e i più antichi che fossero, non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma.
E perciò meritamente Panfilo, volendo la turpitudine del viso di messer Forese mostrare, disse che stato sarebbe sozzo ad un de' Baronci.
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Novella Settima
Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
Già si tacea la Fiammetta, e ciascun rideva ancora del nuovo argomento dallo Scalza usato a nobilitare sopra ogn'altro i Baronci, quando la reina ingiunse a Filostrato che novellasse; ed egli a dir cominciò.
Valorose donne, bella cosa è in ogni parte saper ben parlare, ma io la reputo bellissima quivi saperlo fare dove la necessità il richiede.
Il che sì ben seppe fare una gentil donna, della quale intendo di ragionarvi, che non solamente festa e riso porse agli uditori, ma sé de' lacci di vituperosa morte disviluppò, come voi udirete.
Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole che aspro, il quale, senza niuna distinzion fare, comandava che così fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse.
E durante questo statuto avvenne che una gentil donna e bella e oltre ad ogn'altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de' Pugliesi suo marito nelle braccia di Lazzarino de' Guazzagliotri, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto sé medesima amava, ed era da lui amata.
La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e di uccidergli si ritenne; e se non fosse che di sé medesimo dubitava, seguitando l'impeto della sua ira, l'avrebbe fatto.
Rattemperatosi adunque da questo, non si potè temperar da voler quello dello statuto pratese, che a lui non era licito di fare, cioè la morte della sua donna.
E per ciò avendo al fallo della donna provare assai convenevole testimonianza, come il dì fu venuto, senza altro consiglio prendere, accusata la donna, la fece richiedere.
La donna, che di gran cuore era, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del tutto dispose di comparire e di voler più tosto, la verità confessando, con forte animo morire, che, vilmente fuggendo, per contumacia in essilio vivere e negarsi degna di così fatto amante come colui era nelle cui braccia era stata la notte passata.
E assai bene accompagnata di donne e d'uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestà venuta, domandò con fermo viso e con salda voce quello che egli a lei domandasse.
Il podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e, secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse, volendo il suo onor servare, farla morire.
Ma pur, non potendo cessare di domandarla di quello che apposto l'era, le disse:
- Madonna, come voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi di voi, la quale egli dice che ha con altro uomo trovata in adulterio; e per ciò domanda che io, secondo che uno statuto che ci è vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca; ma ciò far non posso, se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v'accusa.
La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose:
- Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito, e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata; né questo negherei mai; ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano.
Le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare; e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata; per le quali cose meritamente malvagia si può chiamare.
E se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella esecutore, a voi sta; ma, avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no.
A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto.
- Adunque, - seguì prestamente la donna - domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? Debbolo io gittare ai cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m'ama, che lasciarlo perdere o guastare?
Eran quivi a così fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna, quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo così piacevol risposta, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono la donna aver ragione e dir bene; e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestà, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli s'intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a' lor mariti facesser fallo.
Per la qual cosa Rinaldo, rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa.
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Novella Ottava
Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l'erano a veder noiosi.
La novella da Filostrato raccontata prima con un poco di vergogna punse li cuori delle donne ascoltanti, e con onesto rossore né lor visi apparito ne dieder segno; e poi, l'una l'altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando quella ascoltarono.
Ma poi che esso alla fine ne fu venuto, la reina, ad Emilia voltatasi, che ella seguitasse le 'mpose.
La quale, non altrimenti che se da dormir si levasse, soffiando incominciò.
Vaghe giovani, per ciò che un lungo pensiero molto di qui m'ha tenuta gran pezza lontana, per ubbidire alla nostra reina, forse con molto minor novella, che fatto non avrei se qui l'animo avessi avuto, mi passerò, lo sciocco error d'una giovane raccontandovi, con un piacevol motto corretto da un suo zio, se ella da tanto stata fosse che inteso l'avesse.
Uno adunque, che si chiamò Fresco da Celatico, aveva una sua nepote chiamata per vezzi Cesca, la quale, ancora che bella persona avesse e viso (non però di quegli angelici che già molte volte vedemo), sé da tanto e sì nobile reputava, che per costume aveva preso di biasimare e uomini e donne e ciascuna cosa che ella vedeva, senza avere alcun riguardo a sé medesima, la quale era tanto più spiacevole, sazievole e stizzosa che alcuna altra, che a sua guisa niuna cosa si poteva fare; e tanto, oltre a tutto questo, era altiera, che se stata fosse de' reali di Francia sarebbe stato soperchio.
E quando ella andava per via sì forte le veniva del cencio, che altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse di chiunque vedesse o scontrasse
Ora, lasciando stare molti altri suoi modi spiacevoli e rincrescevoli, avvenne un giorno che, essendosi ella in casa tornata là dove Fresco era, e tutta piena di smancerie postaglisi presso a sedere, altro non faceva che soffiare; laonde Fresco domandando le disse:
- Cesca, che vuol dir questo che, essendo oggi festa, tu te ne sé così tosto tornata in casa?
Al quale ella tutta cascante di vezzi rispose:
- Egli è il vero che io me ne sono venuta tosto, per ciò che io non credo che mai in questa terra fossero e uomini e femine tanto spiacevoli e rincrescevoli quanto sono oggi, e non ne passa per via uno che non mi spiaccia come la mala ventura; e io non credo che sia al mondo femina a cui più sia noioso il vedere gli spiacevoli che è a me, e per non vedergli così tosto me ne son venuta.
Alla qual Fresco, a cui li modi fecciosi della nepote dispiacevan fieramente, disse:
- Figliuola, se così ti dispiaccion gli spiacevoli, come tu dì, se tu vuoi viver lieta, non ti specchiare giammai.
Ma ella, più che una canna vana e a cui di senno pareva pareggiar Salamone, non altramenti che un montone avrebbe fatto, intese il vero motto di Fresco; anzi disse che ella si voleva specchiar come l'altre.
E così nella sua grossezza si rimase e ancor vi si sta.
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Novella Nona
Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l'aveano.
Sentendo la reina che Emilia della sua novella s'era diliberata e che ad altri non restava a dir che a lei, se non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo, così a dir cominciò.
Quantunque, leggiadre donne, oggi mi sieno da voi state tolte da due in su delle novelle delle quali io m'avea pensato di doverne una dire, nondimeno me n'è pure una rimasa da raccontare, nella conclusione della quale si contiene un sì fatto motto, che forse non ci se n'è alcuno di tanto sentimento contato.
Dovete adunque sapere che né tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n'è rimasa, mercé dell'avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l'ha discacciate.
Tra le quali n'era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportar potessono acconciamente le spese, e oggi l'uno, doman l'altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de' cittadini; e similmente si vestivano insieme almeno una volta l'anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d'altro fosse venuta nella città.
Tra le quali brigate n'era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto è compagni s'eran molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de' Cavalcanti, e non senza cagione; per ciò che, oltre a quello che egli fu un de' migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava, sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell'animo gli capeva che il valesse.
Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d'averlo, e credeva egli co' suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva.
E per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse.
Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d'Orto San Michele e venutosene per lo corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo quelle arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: - Andiamo a dargli briga; - e spronati i cavalli a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire:
- Guido tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?
A' quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse:
- Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace; - e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò.
Costoro rimaser tutti guatando l'un l'altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro.
Alli quali messer Betto rivolto disse:
- Gli smemorati siete voi, se voi non l'avete inteso.
Egli ci ha detta onestamente in poche parole la maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste arche sono le case de' morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra.
Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere.
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Novella Decima
Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell'agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo.
Essendo ciascuno della brigata della sua novella riuscito, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento aspettare, imposto silenzio a quegli che il sentito motto di Guido lodavano, incominciò:
Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che più mi piace parlare, oggi io non intendo di volere da quella materia separarmi della qual voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma, seguitando le vostre pedate, intendo di mostrarvi quanto cautamente con subito riparo uno de' frati di santo Antonio fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era.
Né vi dovrà esser grave perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda, se al sol guarderete il qual è ancora a mezzo il cielo.
Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Val d'Elsa posto nel nostro contado, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d'agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo d'andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de' frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana.
Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del mondo: e oltre a questo, niuna scienzia avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l'avesse, non solamente un gran rettorico l'avrebbe stimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benivogliente.
Il quale, secondo la sua usanza, del mese d'agosto tra l'altre v'andò una volta, e una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da torno venuti alla messa nella calonica, quando tempo gli parve, fattosi innanzi disse:
- Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno à poveri del baron messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò ché il beato santo Antonio vi sia guardia de' buoi e degli asini e de' porci e delle pecore vostre; e oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia scritti sono, quel poco debito che ogni anno si paga una volta.
Alle quali cose ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer l'abate, stato mandato, e per ciò, con la benedizion di Dio, dopo nona, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bacerete la croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d'oltremare: e questa è una delle penne dell'agnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne ad annunziare in Nazaret.
E questo detto, si tacque e ritornossi alla messa.
Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l'uno Giovanni del Bragoniera e l'altro Biagio Pizzini li quali, poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa penna alcuna beffa.
E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel castello con un suo amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero alla strada e all'albergo dove il frate era smontato se n'andarono con questo proponimento: che Biagio dovesse tenere a parole il fante di frate Cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e torgliele, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire.
Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco: il quale era tanto cattivo, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto.
Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire:
- Il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque è l'una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno, ogni lor santità.
Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna è, avendone nove.
Ed, essendo alcuna volta domandato quali fossero queste nove cose, ed egli, avendole in rima messe, rispondeva:
- Dirolvi: egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre taccherelle con queste, che si taccion per lo migliore.
E quel che sommamente è da rider de' fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione; e avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli s'avisa che quante femine il veggano tutte di lui s'innamorino, ed essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia.
E' il vero che egli m'è d'un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d'alcuna cosa sia domandato, ha sì gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sì e no, come giudica si convenga.
A costui, lasciandolo all'albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in quelle erano le cose sacre.
Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l'usignolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell'oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de' Baronci, tutta sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti l'avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò.
E ancora che d'agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore e che egli aveva de' fiorini più di millantanove, senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure unquanche.
E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d'Altopascio, e a un suo farsetto rotto e ripezzato e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume, con più macchie e di più colori che mai drappi fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato fosse il siri di Castiglione, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese, e trarla di quella cattività di star con altrui e senza gran possession d'avere ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre cose assai; le quali quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite, come le più delle sue imprese facevano, tornarono in niente.
Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contradicendolo alcuno nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna; la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado fasciata una piccola cassettina; la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda d'un pappagallo, la quale avvisarono dovere esser quella che egli promessa avea di mostrare a' certaldesi.
E certo egli il poteva a quei tempi leggiermente far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze d'Egitto, se non in piccola quantità, trapassate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate: e dove che elle poco conosciute fossero, in quella contrada quasi in niente erano da gli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte mai uditi non gli avean ricordare.
Contenti adunque i giovani d'aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono a aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni, dovesse dire.
Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano la penna dell'agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l'un vicino all'altro e l'una comare all'altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con desiderio aspettando di veder questa penna.
Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò a Guccio Imbratta che lassù con le campanelle venisse e recasse le sua bisacce.
Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto, con le cose addimandate con fatica lassù n'andò: dove ansando giunto, per ciò che il ber dell'acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in su la porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare.
Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio de' fatti suoi disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell'agnolo Gabriello, fatta prima con grande solennità la confessione, fece accender due torchi, e soavemente sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse.
E dette primieramente alcune parolette a laude e a commendazione dell'agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse.
La quale come piena di carboni vide, non sospicò che ciò che Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva da tanto, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa, conoscendol, come faceva, negligente, disubidente, trascurato e smemorato.
Ma non per tanto, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito:
- O Iddio, lodata sia sempre la tua potenzia!
Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse:
- Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi.
Per la qual cosa messom'io cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de' Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto per venni in Sardigna.
Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de' nostri frati e d'altre religioni trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l'amor di Dio schifando, poco dell'altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio per quei paesi: e quindi passai in terra d'Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe'monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e 'l vin nelle sacca: da' quali alle montagne de' bachi pervenni, dove tutte le acque corrono alla 'ngiù.
E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, là dove io vi giuro, per l'abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio, il quale gran mercante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio.
Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, perciò che da indi in là si va per acqua, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l'anno di state vi vale il pan freddo quattro denari, e il caldo v'è per niente.
E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo patriarca di Jerusalem.
Il quale, per reverenzia dell'abito che io ho sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi sconsolate, ve ne dirò alquante.
Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, e una dell'unghie de' Gherubini, e una delle coste del Verbum caro fatti alle finestre, e de' vestimenti della Santa Fé catolica, e alquanti de' raggi della stella che apparve à tre Magi in oriente, e un ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole, e la mascella della Morte di san Lazzaro e altre.
E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare e d'alquanti capitoli del Caprezio, li quali egli lungamente era andati cercando, mi fece egli partefice delle sue sante reliquie, e donommi uno de' denti della santa Croce, e in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone e la penna dell'agnol Gabriello, della quale già detto v'ho, e l'un de' zoccoli di san Gherardo da Villamagna (il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo di Bonsi, il quale in lui ha grandissima divozione) e diedemi de' carboni, co' quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, e holle tutte.
E' il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che io l'abbia mostrate infino a tanto che certificato non s'è se desse sono o no; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal Patriarca fatto n'è certo m'ha conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fidarle altrui, sempre le porto meco.
Vera cosa è che io porto la penna dell'agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni co' quali fu arrostito san Lorenzo in un'altra; le quali son sì simiglianti l'una all'altra, che spesse volte mi vien presa l'una per l'altra, e al presente m'è avvenuto; per ciò che, credendomi io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni.
Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de' carboni ponesse nelle mie mani, ricordandom'io pur testé che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì.
E per ciò, volendo Iddio che io, col mostrarvi i carboni co' quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall'omor di quel santissimo corpo mi fe'pigliare.
E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v'appresserete a vedergli.
Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta.
E poi che così detto ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s'appressarono a frate Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse toccare il pregava ciascuno.
Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva provato.
E in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire.
Li quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse e con che parole, avevan tanto riso che eran creduti smascellare.
E poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono, e appresso gli renderono la sua penna; la quale l'anno seguente gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.
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Conclusione
Questa novella porse igualmente a tutta la brigata grandissimo piacere e sollazzo, e molto per tutti fu riso di fra Cipolla e massimamente del suo pellegrinaggio e delle reliquie così da lui vedute come recate.
La quale la reina sentendo esser finita, e similmente la sua signoria, levata in piè, la corona si trasse e ridendo la mise in capo a Dioneo, e disse:
- Tempo è, Dioneo, che tu alquanto pruovi che carico sia l'aver donne a reggere e a guidare; sii dunque re, e sì fattamente ne reggi, che del tuo reggimento nella fine ci abbiamo a lodare.
Dioneo, presa la corona, ridendo rispose:
- Assai volte già ne potete aver veduti, io dico delli re da scacchi, troppo più cari che io non sono; e per certo, se voi m'ubbidiste come vero re si dee ubbidire, io vi farei goder di quello senza il che per certo niuna festa compiutamente è lieta.
Ma lasciamo star queste parole: io reggerò come io saprò.
E fattosi, secondo il costume usato, venire il siniscalco, ciò che a fare avesse quanto durasse la sua signoria ordinatamente gl'impose, e appresso disse:
- Valorose donne, in diverse maniere ci s'è della umana industria e de' casi vari ragionato, tanto che, se donna Licisca non fosse poco avanti qui venuta, la quale con le sue parole m'ha trovata materia à futuri ragionamenti di domane, io dubito che io non avessi gran pezza penato a trovar tema da ragionare.
Ella, come voi udiste, disse che vicina non avea che pulcella ne fosse andata a marito; e soggiunse che ben sapeva quante e quali beffe le maritate ancora facessero à mariti.
Ma, lasciando stare la prima parte, che è opera fanciullesca, reputo che la seconda debbia essere piacevole a ragionarne; e per ciò voglio che domane si dica, poi che donna Licisca data ce n'ha cagione, delle beffe, le quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte à lor mariti, senza essersene essi avveduti o sì.
Il ragionare di sì fatta materia pareva ad alcuna delle donne che male a loro si convenisse, e pregavanlo che mutasse la proposta già detta.
Alle quali il re rispose:
- Donne, io conosco ciò che io ho imposto non meno che facciate voi; e da imporlo non mi potè istorre quello che voi mi volete mostrare, pensando che il tempo è tale che, guardandosi e gli uomini e le donne d'operar disonestamente, ogni ragionare è conceduto.
Or non sapete voi che, per la perversità di questa stagione, gli giudici hanno lasciati i tribunali; le leggi, così le divine come le umane, tacciono; e ampia licenzia per conservar la vita è conceduta a ciascuno? Per che, se alquanto s'allarga la vostra onestà nel favellare, non per dovere con le opere mai alcuna cosa sconcia seguire, ma per dare diletto a voi e ad altrui, non veggo con che argomento da concedere vi possa nello avvenire riprendere alcuno.
Oltre a questo la nostra brigata, dal primo dì infino a questa ora stata onestissima, per cosa che detta ci si sia, non mi pare che in atto alcuno si sia maculata, né si maculerà collo aiuto di Dio.
Appresso, chi è colui che non conosca la vostra onestà? La quale non che i ragionamenti sollazzevoli, ma il terrore della morte non credo che potesse smagare.
E a dirvi il vero, chi sapesse che voi vi cessaste da queste ciance ragionare alcuna volta, forse suspicherebbe che voi in ciò non foste colpevoli, e per ciò ragionare non ne voleste.
Senza che voi mi fareste un bello onore, essendo io stato ubbidente a tutti, e ora avendomi vostro re fatto, mi voleste la legge porre in mano, e di quello non dire che io avessi imposto.
Lasciate adunque questa suspizione più atta à cattivi animi che à vostri, e con la buona ventura pensi ciascuna di dirla bella.
Quando le donne ebbero udito questo, dissero che così fosse come gli piacesse; per che il re per infino all'ora della cena di fare il suo piacere diede licenzia a ciascuno.
Era ancora il sol molto alto, per ciò che il ragionamento era stato brieve; per che, essendosi Dioneo con gli altri giovani messo a giucare a tavole, Elissa, chiamate l'altre donne da una parte, disse:
- Poi che noi fummo qui, ho io disiderato di menarvi in parte assai vicina di questo luogo, dove io non credo che mai fosse alcuna di voi, e chiamavisi la Valle delle donne, né ancora vidi tempo da potervi quivi menare, se non oggi, sì è alto ancora il sole; e per ciò, se di venirvi vi piace, io non dubito punto che, quando vi sarete, non siate contentissime d'esservi state.
Le donne risposono che erano apparecchiate; e chiamata una delle lor fanti, senza farne alcuna cosa sentire à giovani, si misero in via; né guari più d'un miglio furono andate, che alla Valle delle donne pervennero.
Dentro alla quale per una via assai stretta, dall'una delle parti della quale correva un chiarissimo fiumicello, entrarono, e viderla tanto bella e tanto dilettevole, e spezialmente in quel tempo che era il caldo grande, quanto più si potesse divisare.
E secondo che alcuna di loro poi mi ridisse, il piano che nella valle era, così era ritondo come se a sesta fosse stato fatto, quantunque artificio della natura e non manual paresse; ed era di giro poco più che un mezzo miglio, intorniato di sei montagnette di non troppa altezza, e in su la sommità di ciascuna si vedeva un palagio quasi in forma fatto d'un bel castelletto.
Le piaggie delle quali montagnette così digradando giù verso 'l piano discendevano, come né teatri veggiamo dalla lor sommità i gradi infino all'infimo venire successivamente ordinati, sempre ristrignendo il cerchio loro.
Ed erano queste piaggie, quante alla plaga del mezzogiorno ne riguardavano, tutte di vigne, d'ulivi, di mandorli, di ciriegi, di fichi e d'altre maniere assai d'alberi fruttiferi piene, senza spanna perdersene.
Quelle le quali il carro di tramontana guardava, tutte eran boschetti di querciuoli, di frassini e d'altri alberi verdissimi e ritti quanto più esser poteano.
Il piano appresso, senza aver più entrate che quella donde le donne venute v'erano, era pieno d'abeti, di cipressi, d'allori e d'alcuni pini sì ben composti e sì bene ordinati, come se qualunque è di ciò il migliore artefice gli avesse piantati; e fra essi poco sole o niente, allora che egli era alto, entrava infino al suolo, il quale era tutto un prato d'erba minutissima e piena di fiori porporini e d'altri.
E oltre a questo, quel che non meno che altro di diletto porgeva, era un fiumicello, il qual d'una delle valli, che due di quelle montagnette dividea, cadeva giù per balzi di pietra viva, e cadendo faceva un romore ad udire assai dilettevole, e sprizzando pareva da lungi ariento vivo che d'alcuna cosa premuta minutamente sprizzasse; e come giù al piccol pian pervenia così quivi in un bel canaletto raccolta infino al mezzo del piano velocissima discorreva, e ivi faceva un picciol laghetto quale talvolta per modo di vivaio fanno né lor giardini i cittadini che di ciò hanno destro.
Ed era questo laghetto non più profondo che sia una statura d'uomo infino al petto lunga, e senza avere in sé mistura alcuna, chiarissimo il suo fondo mostrava esser duna minutissima ghiaia, la qual tutta, chi altro non avesse avuto a fare, avrebbe, volendo, potuta annoverare.
Nè solamente nell'acqua riguardando vi si vedeva il fondo, ma tanto pesce in qua e in là andar discorrendo, che oltre al diletto era una maraviglia.
Nè da altra ripa era chiuso che dal suolo del prato, tanto d'intorno a quel più bello, quanto più dello umido sentiva di quello.
L'acqua, la quale alla sua capacità soprabbondava, un altro canaletto riceveva, per lo qual fuori del valloncello uscendo alle parti più basse sen correva.
In questo adunque venute le giovani donne, poi che per tutto riguardato ebbero e molto commendato il luogo, essendo il caldo grande e vedendosi il pelaghetto chiaro davanti e senza alcun sospetto d'esser vedute, diliberaron di volersi bagnare.
E comandato alla lor fante che sopra la via per la quale quivi s'entrava dimorasse, e guardasse se alcun venisse, e loro il facesse sentire tutte e sette si spogliarono ed entrarono in esso, il quale non altrimenti li lor corpi candidi nascondeva, che farebbe una vermiglia rosa un sottil vetro.
Le quali essendo in quello, né per ciò niuna turbazion d'acqua nascendone, cominciarono come potevano ad andare in qua in là di dietro à pesci, i quali male avevan dove nascondersi, e a volerne con esso le mani pigliare.
E poi che in così fatta festa, avendone presi alcuni, dimorate furono alquanto, uscite di quello, si rivestirono, e senza poter più commendare il luogo che commendato l'avessero, parendo lor tempo da dover tornar verso casa, con soave passo, molto della bellezza del luogo parlando, in cammino si misero.
E al palagio giunte ad assai buona ora, ancora quivi trovarono i giovani giucando dove lasciati gli aveano.
Alli quali Pampinea ridendo disse:
- Oggi vi pure abbiam noi ingannati.
- E come? - disse Dioneo - cominciate voi prima a far de' fatti che a dir delle parole?
Disse Pampinea:
- Signor nostro, sì; - e distesamente gli narrò donde venivano, e come era fatto il luogo, e quanto di quivi distante, e ciò che fatto avevano.
Il re, udendo contare la bellezza del luogo, disideroso di vederlo, prestamente fece comandar la cena; la qual poi che con assai piacer di tutti fu fornita, li tre giovani colli lor famigliari, lasciate le donne, se n'andarono a questa valle, e ogni cosa considerata, non essendovene alcuno di loro stato mai più, quella per una delle belle cose del mondo lodarono.
E poi che bagnati si furono e rivestiti, per ciò che troppo tardi si faceva, se ne tornarono a casa, dove trovarono le donne che facevano una carola ad un verso che facea la Fiammetta, e con loro, fornita la carola, entrati in ragionamenti della Valle delle donne, assai di bene e di lode ne dissero.
Per la qual cosa il re, fattosi venire il siniscalco, gli comandò che la seguente mattina là facesse che fosse apparecchiato, e portatovi alcun letto, se alcun volesse o dormire o giacersi di meriggiana.
Appresso questo, fatto venire de' lumi e vino e confetti, e alquanto riconfortatisi, comandò che ogn'uomo fosse in sul ballare.
E avendo per suo volere Panfilo una danza presa, il re rivoltatosi verso Elissa le disse piacevolmente:
- Bella giovane, tu mi facesti oggi onore della corona, e io il voglio questa sera a te fare della canzone; e per ciò una fa che ne dichi qual più ti piace.
A cui Elissa sorridendo rispose che volentieri, e con soave voce cominciò in cotal guisa:
Amor, s'io posso uscir de' tuoi artigli,
appena creder posso
che alcun altro uncin più mai mi pigli.
Io entrai giovinetta en la tua guerra,
quella credendo somma e dolce pace,
e ciascuna mia arme posi in terra,
come sicuro chi si fida face
tu, disleal tiranno, aspro e rapace,
tosto mi fosti addosso
con le tue armi e co' crude'roncigli.
Poi, circundata delle tue catene,
a quel, che nacque per la morte mia,
piena d'amare lagrime e di pene
presa mi desti, e hammi in sua balia;
ed è sì cruda la sua signoria,
che giammai non l'ha mosso
sospir né pianto alcun che m'assottigli.
Li prieghi miei tutti glien porta il vento,
nullo n'ascolta né ne vuole udire;
per che ogn'ora cresce 'l mio tormento,
onde 'l viver m'è noia, né so morire.
Deh dolgati, signor, del mio languire,
fa tu quel ch'io non posso;
dalmi legato dentro à tuoi vincigli.
Se questo far non vuogli, almeno sciogli,
i legami annodati da speranza.
Deh! io ti priego, signor, che tu vogli;
ché, se tu 'l fai, ancor porto fidanza
di tornar bella qual fu mia usanza,
e il dolor rimosso,
di bianchi fiori ornarmi e di vermigli.
Poi che con un sospiro assai pietoso Elissa ebbe alla sua canzon fatta fine, ancor che tutti si maravigliasser di tali parole, niuno per ciò ve n'ebbe che potesse avvisare chi di così cantar le fosse stato cagione.
Ma il re, che in buona tempera era, fatto chiamar Tindaro, gli comandò che fuor traesse la sua cornamusa, al suono della quale esso fece fare molte.
danze.
Ma, essendo già buona parte di notte passata, a ciascun disse ch'andasse a dormire.
Finisce la sesta giornata del Decameron
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Settima Giornata
Introduzione alla settima giornata
Novella prima
Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l'uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere che egli è la fantasima; vanno ad incantare con una orazione, e il picchiar si rimane.
Novella seconda
Peronella mette un suo amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l'ha ad uno che dentro v'è a vedere se saldo gli pare.
Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi portarsenelo a casa sua.
Novella terza
Frate Rinaldo si giace colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini al figlioccio.
Novella quarta
Tofano chiude una notte fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra.
Tofano esce di casa e corre là, ed ella in casa le n'entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera.
Novella quinta
Un geloso in forma di prete confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia all'uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si dimora.
Novella sesta
Madonna Isabella con Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna.
Novella settima
Lodovico discuopre a madonna Beatrice l'amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi, va e bastona Egano nel giardino.
Novella ottava
Un diviene geloso della moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante venire a lei.
Il marito se n'accorge, e mentre seguita l'amante, la donna mette in luogo di sé nel letto un'altra femina, la quale il marito batte e tagliale le trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania.
Novella nona
Lidia moglie di Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il possa, le chiede tre cose, le quali ella gli fa tutte; e oltre a questo in presenza di Nicostrato si sollazza con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto.
Novella decima
Due sanesi amano una donna comare dell'uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori.
Conclusione della settima giornata
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Introduzione
Incomincia la settima giornata nella quale, sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe, le quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte a' lor mariti, senza essersene avveduti o sì.
Ogni stella era già delle parti d'oriente fuggita, se non quella sola, la qual noi chiamiamo Lucifero, che ancor luceva nella biancheggiante aurora, quando il siniscalco levatosi, con una gran salmeria n'andò nella Valle delle donne, per quivi disporre ogni cosa secondo l'ordine e il comandamento avuto dal suo signore.
Appresso alla quale andata non stette guari a levarsi il re, il quale lo strepito de' caricanti e delle bestie aveva desto, e levatosi fece le donne e'giovani tutti parimente levare.
Né ancora spuntavano li raggi del sole bene bene, quando tutti entrarono in cammino; né era ancora lor paruto alcuna volta tanto gaiamente cantar gli usignuoli e gli altri uccelli quanto quella mattina pareva; da' canti de' quali accompagnati infino nella Valle delle donne n'andarono, dove da molti più ricevuti, parve loro che essi della lor venuta si rallegrassero.
Quivi intorniando quella e riproveggendo tutta da capo, tanto parve loro più bella che il dì passato, quanto l'ora del dì era più alla bellezza di quella conforme.
E poi che col buon vino e con confetti ebbero il digiun rotto acciò che di canto non fossero dagli uccelli avanzati, cominciarono a cantare, e la valle insieme con essoloro, sempre quelle medesime canzoni dicendo che essi dicevano; alle quali tutti gli uccelli, quasi non volessero esser vinti, dolci e nuove note aggiugnevano.
Ma poi che l'ora del mangiar fu venuta, messe le tavole sotto i vivaci allori e agli altri belli arbori vicine al bel laghetto, come al re piacque, così andarono a sedere, e mangiando, i pesci notar vedean per lo lago a grandissime schiere; il che, come di riguardare, così talvolta dava cagione di ragionare.
Ma poi che venuta fu la fine del desinare, e le vivande e le tavole furon rimosse, ancora più lieti che prima, cominciarono a cantare e dopo questo a sonare e a carolare.
Quindi, essendo in più luoghi per la piccola valle fatti letti, e tutti dal discreto siniscalco di sarge francesche e di capoletti intorniati e chiusi, con licenzia del re, a cui piacque, si potè andare a dormire; e chi dormir non volle, degli altri lor diletti usati pigliar poteva a suo piacere.
Ma, venuta già l'ora che tutti levati erano e tempo era da riducersi a novellare, come il re volle, non guari lontano al luogo dove mangiato aveano, fatti in su l'erba tappeti distendere e vicini al lago a seder postisi, comandò il re ad Emilia che cominciasse.
La qual lietamente così cominciò a dir sorridendo.
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Novella Prima
Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l'uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere che egli è la fantasima; vanno ad incantare con una orazione, e il picchiar si rimane.
Signor mio, a me sarebbe stato carissimo, quando stato fosse piacere a voi, che altra persona che io avesse a così bella materia, come è quella di che parlar dobbiamo, dato cominciamento; ma, poi che egli v'aggrada che io tutte l'altre assicuri, e io il farò volentieri.
E ingegnerommi, carissime donne, di dir cosa che vi possa essere utile nell'avvenire, per ciò che, se così son l'altre come io, tutte siamo paurose, e massimamente della fantasima, la quale sallo Iddio che io non so che cosa si sia, né ancora alcuna trovai che 'l sapesse, come che tutte ne temiamo igualmente.
A quella cacciar via, quando da voi venisse, notando bene la mia novella, potrete una santa e buona orazione e molto a ciò valevole apparare.
Egli fu già in Firenze nella contrada di San Brancazio uno stamaiuolo, il qual fu chiamato Gianni Lotteringhi, uomo più avventurato nella sua arte che savio in altre cose, per ciò che, tenendo egli del semplice, era molto spesso fatto capitano de' laudesi di Santa Maria Novella, e aveva a ritenere la scuola loro, e altri così fatti uficietti aveva assai sovente, di che egli da molto più si teneva; e ciò gli avvenia per ciò che egli molto spesso, sì come agiato uomo, dava di buone pietanze a' frati.
Li quali, per ciò che qual calze e qual cappa e quale scapolare ne traevano spesso, gli insegnavano di buone orazioni e davangli il paternostro in volgare e la canzone di santo Alesso e il lamento di san Bernardo e la lauda di donna Matelda e cotali altri ciancioni, li quali egli aveva molto cari, e tutti per la salute dell'anima sua se gli serbava molto diligentemente.
Ora aveva costui una bellissima donna e vaga per moglie, la quale ebbe nome monna Tessa e fu figliuola di Mannuccio dalla Cuculia, savia e avveduta molto.
La quale, conoscendo la semplicità del marito, essendo innamorata di Federigo di Neri Pegolotti, il quale bello e fresco giovane era, ed egli di lei, ordinò con una sua fante che Federigo le venisse a parlare ad un luogo molto bello che il detto Gianni aveva in Camerata, al quale ella si stava tutta la state; e Gianni alcuna volta vi veniva la sera a cenare e ad albergo, e la mattina se ne tornava a bottega e talora a' laudesi suoi.
Federigo, che ciò senza modo disiderava, preso tempo, un dì che imposto gli fu, in su 'l vespro se n'andò lassù, e non venendovi la sera Gianni, a grande agio e con molto piacere cenò e albergò con la donna; ed ella, standogli in braccio, la notte gl'insegnò da sei delle laude del suo marito.
Ma, non intendendo essa che questa fosse così l'ultima volta come stata era la prima, né Federigo altressì, acciò che ogni volta non convenisse che la fante avesse ad andar per lui, ordinarono insieme a questo modo: che egli ognindì, quando andasse o tornasse da un suo luogo che alquanto più su era, tenesse mente in una vigna la quale allato alla casa di lei era, ed egli vedrebbe un teschio d'asino in su un palo di quelli della vigna, il quale quando col muso volto vedesse verso Firenze, sicuramente e senza alcun fallo la sera di notte se ne venisse a lei, e se non trovasse l'uscio aperto, pianamente picchiasse tre volte, ed ella gli aprirebbe; e quando vedesse il muso del teschio volto verso Fiesole, non vi venisse, per ciò che Gianni vi sarebbe.
E in questa maniera faccendo, molte volte insieme si ritrovarono.
Ma tra l'altre volte una avvenne che, dovendo Federigo cenar con monna Tessa, avendo ella fatti cuocere due grossi capponi, avvenne che Gianni, che venir non vi doveva, molto tardi vi venne; di che la donna fu molto dolente, ed egli ed ella cenarono un poco di carne salata che da parte aveva fatta lessare; e alla fante fece portare in una tovagliuola bianca i due capponi lessi e molte uova fresche e un fiasco di buon vino in un suo giardino, nel quale andar si potea senza andar per la casa, e dov'ella era usa di cenare con Federigo alcuna volta, e dissele che a piè d'un pesco, che era allato ad un pratello, quelle cose ponesse.
E tanto fu il cruccio che ella ebbe, che ella non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Federigo venisse, e dicessegli che Gianni v'era e che egli quelle cose dell'orto prendesse.
Per che, andatisi ella e Gianni al letto, e similmente la fante, non stette guari che Federigo venne e toccò una volta pianamente la porta, la quale sì vicina alla camera era che Gianni incontanente il sentì, e la donna altressì; ma, acciò che Gianni nulla suspicar potesse di lei, di dormire fece sembiante.
E stando un poco, Federigo picchiò la seconda volta; di che Gianni maravigliandosi punzecchiò un poco la donna, e disse:
- Tessa, odi tu quel ch'io? E' pare che l'uscio nostro sia tocco.
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La donna, che molto meglio di lui udito l'avea, fece vista di svegliarsi, e disse:
- Come di'? Eh? -
- Dico, - disse Gianni - ch'e' pare che l'uscio nostro sia tocco.
-
Disse la donna:
- Tocco? Ohimè, Gianni mio, or non sai tu quello ch'egli è? Egli è la fantasima, della quale io ho avuta a queste notti la maggior paura che mai s'avesse, tale che, come io sentita l'ho, ho messo il capo sotto né mai ho avuto ardir di trarlo fuori sì è stato dì chiaro.
-
Disse allora Gianni:
- Va, donna, non aver paura, se ciò è, ché io dissi dianzi il "Te lucis" e la " 'ntemerata" e tante altre buone orazioni, quando al letto ci andammo, e anche segnai il letto di canto in canto al nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che temere non ci bisogna, ché ella non ci può, per potere ch'ella abbia, nuocere.
-
La donna, acciò che Federigo per avventura altro sospetto non prendesse e con lei si turbasse, diliberò del tutto di doversi levare e di fargli sentire che Gianni v'era, e disse al marito:
- Bene sta, tu di'tue parole tu, io per me non mi terrò mai salva né sicura, se noi non la 'ncantiamo, poscia che tu ci se'.
-
Disse Gianni:
- O come s'incanta ella? -
Disse la donna:
- Ben la so io incantare; ché l'altrieri, quando io andai a Fiesole alla perdonanza, una di quelle romite, che è, Gianni mio, pur la più santa cosa che Iddio tel dica per me, vedendomene così paurosa, m'insegnò una santa e buona orazione, e disse che provata l'avea più volte avanti che romita fosse, e sempre l'era giovato.
Ma sallo Iddio che io non avrei mai avuto ardire d'andare sola a provarla; ma ora che tu ci se', io vo' che noi andiamo ad incantarla.
-
Gianni disse che molto gli piacea; e levatisi, se ne vennero amenduni pianamente all'uscio, al quale ancor di fuori Federigo, già sospettando, aspettava.
E giunti quivi, disse la donna a Gianni:
- Ora sputerai, quando io il ti dirò.
-
Disse Gianni:
- Bene.
-
E la donna cominciò l'orazione, e disse:
- Fantasima, fantasima che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n'andrai; va nell'orto a piè del pesco grosso, troverai unto bisunto e cento cacherelli della gallina mia; pon bocca al fiasco e vatti via, e non far male né a me né a Gianni mio; - e così detto, disse al marito:
- Sputa, Gianni; - e Gianni sputò.
E Federigo, che di fuori era e questo udiva, già di gelosia uscito, con tutta la malinconia, aveva si gran voglia di ridere che scoppiava; e pianamente, quando Gianni sputava, diceva:
- I denti.
-
La donna, poi che in questa guisa ebbe tre volte la fantasima incantata, al letto se ne tornò col marito.
Federigo, che con lei di cenar s'aspettava, non avendo cenato e avendo bene le parole della orazione intese, se n'andò nell'orto e a piè del pesco grosso trovati i due capponi e 'l vino e l'uova, a casa se ne gli portò e cenò a grande agio.
E poi dell'altre volte, ritrovandosi con la donna, molto di questa incantazione rise con essolei.
Vera cosa è che alcuni dicono che la donna aveva ben volto il teschio dello asino verso Fiesole, ma un lavoratore, per la vigna passando, v'aveva entro dato d'un bastone e fattol girare intorno intorno, ed era rimaso volto verso Firenze, e per ciò Federigo, credendo esser chiamato, v'era venuto; e che la donna aveva fatta l'orazione in questa guisa: - Fantasima, fantasima, vatti con Dio, che la testa dell'asino non vols'io, ma altri fu, che tristo il faccia Iddio, e io son qui con Gianni mio; - per che, andatosene, senza albergo e senza cena era la notte rimaso.
Ma una mia vicina, la quale è una donna molto vecchia, mi dice che l'una e l'altra fu vera, secondo che ella aveva, essendo fanciulla, saputo; ma che l'ultimo non a Gianni Lotteringhi era avvenuto, ma ad uno che si chiamò Gianni di Nello, che stava in porta San Piero, non meno sofficiente lavaceci che fosse Gianni Lotteringhi.
E per ciò, donne mie care, nella vostra elezione sta di torre qual più vi piace delle due, o volete amendune.
Elle hanno grandissima virtù a così fatte cose, come per esperienzia avete udito; apparatele, e potravvi ancor giovare.
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Novella Seconda
Peronella mette un suo amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l'ha ad uno che dentro v'è a vedere se saldo gli pare.
Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi portarsenelo a casa sua.
Con grandissime risa fu la novella d'Emilia ascoltata e l'orazione per buona e per santa commendata da tutti; la quale al suo fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato che seguitasse, il quale incominciò.
Carissime donne mie, elle son tante le beffe che gli uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che, quando alcuna volta avviene che donna niuna alcuna al marito ne faccia, voi non dovreste solamente esser contente che ciò fosse avvenuto o di risaperlo o d'udirlo dire ad alcuno, ma il dovreste voi medesime andare dicendo per tutto, acciò che per gli uomini si conosca che, se essi sanno, e le donne d'altra parte anche sanno: il che altro che utile essere non vi può; per ciò che, quando alcun sa che altri sappia, egli non si mette troppo leggiermente a volerlo ingannare.
Chi dubita dunque che ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi, conoscendo che voi similmente, volendo, ne sapreste fare? E' adunque mia intenzion di dirvi ciò che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse, quasi in un momento di tempo, per salvezza di sé al marito facesse.
Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella, ed esso con l'arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio.
Avvenne che un giovane de' leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s'innamorò di lei, e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con essolei si dimesticò.
E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori; ed essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n'entrasse; e così molte volte fecero.
Ma pur tra l'altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario, ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l'uscio serrato dentro, picchiò, e dopo il picchiare cominciò seco a dire:
- O Iddio, lodato sia tu sempre; ché, benché tu m'abbi fatto povero, almeno m'hai tu consolato di buona e onesta giovane di moglie.
Vedi come ella tosto serrò l'uscio dentro, come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse.
Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse:
- Ohimè, Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta; forse che ti vide egli quando tu c'entrasti.
Ma, per l'amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa.
Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all'uscio aprì al marito, e con un malviso disse:
- Ora questa che novella è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co' ferri tuoi in mano; e, se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m'impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli? che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s'è spiccata dall'unghia, per potere almeno aver tanto olio che n'arda la nostra lucerna.
Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro; e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti esser a lavorare.
E così detto, incominciò a piagnere e a dir da capo:
- Ohimè, lassa me, dolente me, in che mal'ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s'ha recata a casa.
L'altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e non ce n'ha niuna che non n'abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a' mariti la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura; io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l'altre.
Intendi sanamente, marito mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de' ben leggiadri che m'amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò; e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare.
Disse il marito:
- Deh donna, non ti dar malinconia, per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se', e pure stamane me ne sono in parte avveduto.
Egli è il vero ch'io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di santo Galeone, e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più d'un mese, ché io ho venduto a costui che tu vedi qui con me co il doglio, il quale tu sai che, già è cotanto, ha tenuta la casa impacciata, e dammene cinque gigliati.
Disse allora Peronella:
- E tutto questo è del dolor mio: tu che se'uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu'mai appena fuor dell'uscio, veggendo lo 'mpaccio che in casa ci dava, l'ho venduto sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v'entrò dentro per vedere se saldo era.
Quando il marito udì questo, fu più che contento, e disse a colui che venuto era per esso:
- Buon uomo, vatti con Dio; ché tu odi che mia mogliere l'ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque.
Il buono uomo disse:
- In buona ora sia; - e andossene.
E Peronella disse al marito:
- Vien su tu, poscia che tu ci se', e vedi con lui insieme i fatti nostri.
Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se di nulla gli bisognasse temere o provvedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire:
- Dove se', buona donna? Al quale il marito, che già veniva, disse:
- Eccomi, che domandi tu?
Disse Giannello:
- Qual se'tu? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio.
Disse il buono uomo:
- Fate sicuramente meco, ché io son suo marito.
Disse allora Giannello:
- Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impiastricciato di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l'unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima netto.
Disse allora Peronella:
- No, per quello non rimarrà il mercato; mio marito il netterà tutto.
E il marito disse:
- Sì bene; - e posti giù i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione, si fece accendere un lume e dare una radimadia, e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere.
E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, e oltre a questo l'un de' bracci con tutta la spalla, cominciò a dire:
- Radi quivi, e quivi, e anche colà; - e: - Vedine qui rimaso un micolino.
E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s'argomentò di fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d'amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, ad effetto recò il giovinil desiderio, il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori.
Per che Peronella disse a Giannello:
- Te'questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo.
Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene, e che egli era contento; e datigli sette gigliati, a casa sel fece portare.
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Novella Terza
Frate Rinaldo si giace colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini al figlioccio.
Non seppe sì Filostrato parlare oscuro delle cavalle partice, che l'avvedute donne non lo intendessono e alquanto non ne ridessono, sembiante faccendo di rider d'altro.
Ma poi che il re conobbe la sua novella finita, ad Elissa impose che ragionasse.
La quale, disposta ad ubbidire, incominciò.
Piacevoli donne, lo 'ncantar della fantasima d'Emilia m'ha fatto tornare alla memoria una novella d'un'altra incantagione, la quale quantunque così bella non sia come fu quella, per ciò che altra alla nostra materia non me ne occorre al presente, la racconterò.
Voi dovete sapere che in Siena fu già un giovane assai leggiadro e d'orrevole famiglia, il quale ebbe nome Rinaldo; e amando sommamente una sua vicina e assai bella donna e moglie d'un ricco uomo, e sperando, se modo potesse avere di parlarle senza sospetto, dovere aver da lei ogni cosa che egli disiderasse, non vedendone alcuno ed essendo la donna gravida, pensossi di volere suo compar divenire; e accontatosi col marito di lei, per quel modo che più onesto gli parve gliele di se, e fu fatto.
Essendo adunque Rinaldo di madonna Agnesa divenuto compare e avendo alquanto d'albitrio più colorato di poterle parlare, assicuratosi, quello della sua intenzione con parole le fece conoscere che ella molto davanti negli atti degli occhi suoi avea conosciuto; ma poco per ciò gli valse, quantunque d'averlo udito non dispiacesse alla donna.
Addivenne non guari poi, che che si fosse la cagione, che Rinaldo si fece frate, e chente che egli trovasse la pastura, egli perseverò in quello.
E avvegna che egli alquanto, di que tempi che frate si fece, avesse dall'un de' lati posto l'amore che alla sua comar portava e certe altre sue vanità, pure in processo di tempo, senza lasciar l'abito, se le riprese, e cominciò a dilettarsi d'apparere e di vestir di buon panni e d'essere in tutte le sue cose leggiadretto e ornato, e a fare delle canzoni e de' sonetti e delle ballate, e a cantare, e tutto pieno d'altre cose a queste simili.
Ma che dico io di frate Rinaldo nostro, di cui parliamo? Quali son quegli che così non facciano? Ahi vitupero del guasto mondo! Essi non si vergognano d'apparir grassi, d'apparir coloriti nel viso, d'apparir morbidi ne'vestimenti e in tutte le cose loro; e non come colombi, ma come galli tronfi, con la cresta levata, pettoruti procedono; e, che è peggio (lasciamo stare d'aver le lor celle piene d'alberelli di lattovari e d'unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d'ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco e d'altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d'unguentari appaiono più tosto a' riguardanti), essi non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi, e credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse e poche e il viver sobriamente faccia gli uomini magri e sottili e il più sani; e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte gl'infermano, alle quali si suole per medicina dare la castità e ogni altra cosa a vita di modesto frate appartenente.
E credonsi che altri non conosca, oltra la sottil vita, le vigilie lunghe, l'orare e il disciplinarsi dover gli uomini pallidi e afflitti rendere; e che né san Domenico né san Francesco, senza aver quattro cappe per uno, non di tintillani né d'altri panni gentili, ma di lana grossa fatte e di natural colore, a cacciare il freddo e non ad apparere si vestissero.
Alle quali cose Iddio provegga, come all'anime de' semplici che gli nutricano fa bisogno.
Così adunque ritornato frate Rinaldo ne'primi appetiti, cominciò a visitare molto spesso la comare; e cresciutagli baldanza, con più instanzia che prima non faceva la cominciò a sollicitare a quello che egli di lei disiderava.
La buona donna, veggendosi molto sollicitare, e parendole frate Rinaldo forse più bello che non soleva, essendo un dì molto da lui infestata, a quello ricorse che fanno tutte quelle che voglia hanno di concedere quello che è addimandato, e disse:
- Come! frate Rinaldo, o fanno così fatte cose i frati?
A cui frate Rinaldo rispose:
- Madonna, qualora io avrò questa cappa fuor di dosso, che me la traggo molto agevolmente, io vi parrò uno uomo fatto come gli altri, e non frate.
La donna fece bocca da ridere, e disse:
- Ohimè trista, voi siete mio compare; come si farebbe questo? Egli sarebbe troppo gran male; e io ho molte volte udito che egli è troppo gran peccato; e per certo, se ciò non fosse, io farei ciò che voi voleste.
A cui frate Rinaldo disse:
- Voi siete una sciocca, se per questo lasciate.
Io non dico che non sia peccato, ma de' maggiori perdona Iddio a chi si pente.
Ma ditemi, chi è più parente del vostro figliuolo, o io che il tenni a battesimo, o vostro marito che il generò?
La donna rispose:
- E più suo parente mio marito.
- E voi dite il vero, - disse il frate; - e vostro marito non si giace con voi?
- Mai sì, - rispose la donna.
- Adunque, - disse il frate - e io che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito, così mi debbo poter giacere con voi come vostro marito.
La donna, che loica non sapeva e di piccola levatura aveva bisogno, o credette o fece vista di credere che il frate dicesse vero, e rispose: - Chi saprebbe rispondere alle vostre savie parole?; - e appresso, non ostante il comparatico, si recò a dovere fare i suoi piaceri; né incominciarono pure una volta, ma sotto la coverta del comparatico avendo più agio, perché la sospezione era minore, più e più volte si ritrovarono insieme.
Ma tra l'altre una n'avvenne che, essendo frate Rinaldo venuto a casa la donna, e vedendo quivi niuna persona essere, altri che una fanticella della donna, assai bella e piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco di sopra ad insegnarle il paternostro, egli colla donna, che il fanciullin suo avea per mano, se n'entrarono nella camera, e dentro serratisi, sopra un lettuccio da sedere, che in quella era, s'incominciarono a trastullare.
E in questa guisa dimorando, avvenne che il compar tornò, e senza esser sentito da alcuno, fu all'uscio della camera, e picchiò e chiamò la donna.
Ma donna Agnesa, questo sentendo, disse:
- Io son morta, ché ecco il marito mio; ora si pure avvedrà egli qual sia la cagione della nostra dimestichezza.
Era frate Rinaldo spogliato, cioè senza cappa e senza scapolare, in tonicella, il quale questo udendo disse:
- Voi dite vero: se io fossi pur vestito, qualche modo ci avrebbe; ma, se voi gli aprite ed egli mi truovi così, niuna scusa ci potrà essere.
La donna, da subito consiglio aiutata, disse:
- Or vi vestite; e vestito che voi siete, recatevi in braccio vostro figlioccio, e ascolterete bene ciò che io gli dirò, sì che le vostre parole poi s'accordino con le mie, e lasciate fare a me.
Il buono uomo non era ristato appena di picchiare, che la moglie rispose:
- Io vengo a te; - e levatasi, con un buon viso se n'andò all'uscio della camera e aperselo, e disse:
- Marito mio, ben ti dico che frate Rinaldo nostro compare ci si venne, e Iddio il ci mandò; ché per certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro.
Quando il bescio sanctio udì questo, tutto svenne e disse:
- Come?
- O marito mio, - disse la donna - e'gli venne dianzi di subito uno sfinimento, che io mi credetti ch'e'fosse morto.
e non sapeva né che mi far né che mi dire; se non che frate Rinaldo nostro compare ci venne in quella, e recatoselo in collo disse: - Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, li quali gli s'appressano al cuore e ucciderebbonlo troppo bene; ma non abbiate paura, ché io gl'incanterò e farògli morir tutti, e innanzi che io mi parta di qui voi vedrete il fanciul sano come voi vedeste mai.
- E per ciò che tu ci bisognavi per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sì le fece dire al compagno suo nel più alto luogo della nostra casa, ed egli e io qua entro ce n'entrammo.
E per ciò che altri che la madre del fanciullo non può essere a così fatto servigio, perché altri non c'impacciasse, qui ci serrammo, e ancora l'ha egli in braccio, e credom'io che egli non aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di dire l'orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è già tutto tornato in sé.
Il santoccio credendo queste cose, tanto l'affezion del figliuol lo strinse, che egli non pose l'animo allo 'nganno fattogli dalla moglie, ma, gittato un gran sospiro, disse:
- Io il voglio andare a vedere.
Disse la donna:
- Non andare, ché tu guasteresti ciò che s'è fatto; aspettati, io voglio vedere se tu vi puoi andare, e chiamerotti.
Frate Rinaldo, che ogni cosa udito avea, ed erasi rivestito a bello agio e avevasi recato il fanciullo in braccio, come ebbe disposte le cose a suo modo, chiamò:
- O comare, non sento io costà il compare?
Rispose il santoccio:
- Messer sì.
- Adunque, - disse frate Rinaldo - venite qua.
Il santoccio andò là.
Al quale frate Rinaldo disse:
- Tenete il vostro figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu, che voi nol vedeste vivo a vespro; e farete di far porre una statua di cera della sua grandezza a laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio, per li meriti del quale Iddio ve n'ha fatta grazia.
Il fanciullo, veggendo il padre, corse a lui e fecegli festa.
3` come i fanciulli piccoli fanno; il quale recatoselo in braccio, lagrimando non altramenti che se della fossa il traesse, il cominciò a baciare e a render grazie al suo compare che guerito gliele avea.
Il compagno di frate Rinaldo, che non un paternostro, ma forse più di quattro n'aveva insegnati alla fanticella, e donatale una borsetta di refe bianco, la quale a lui aveva donata una monaca, e fattala sua divota, avendo udito il santoccio alla camera della moglie chiamare, pianamente era venuto in parte della quale e vedere e udire ciò che vi si facesse poteva; veggendo la cosa in buoni termini, se ne venne giuso, ed entrato nella camera disse:
- Frate Rinaldo, quelle quattro orazioni che m'imponeste, io l'ho dette tutte.
A cui frate Rinaldo disse:
- Fratel mio, tu hai buona lena e hai fatto bene.
Io per me, quando mio compar venne, non n'aveva dette che due; ma Domenedio tra per la tua fatica e per la mia ci ha fatta grazia che il fanciullo è guerito.
Il santoccio fece venire di buoni vini e di confetti, e fece onore al suo compare e al compagno di ciò che essi avevano maggior bisogno che d'altro.
Poi, con loro insieme uscito di casa, gli accomandò a Dio; e senza alcuno indugio fatta fare la imagine di cera, la mandò ad appiccare con l'altre dinanzi alla figura di santo Ambruogio, ma non a quel di Melano.
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Novella Quarta
Tofano chiude una notte fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra.
Tofano esce di casa e corre là, ed ella in casa le n'entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera.
Il re, come la novella d'Elissa sentì aver fine, così senza indugio verso la Lauretta rivolto le dimostrò che gli piacea che ella dicesse; per che essa, senza stare, così cominciò.
O Amore, chenti e quali sono le tue forze! Chenti i consigli e chenti gli avvedimenti! Qual filosofo, quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare quegli argomenti, quegli avvedimenti, quegli dimostramenti che fai tu subitamente a chi seguita le tue orme? Certo la dottrina di qualunque altro è tarda a rispetto della tua, sì come assai bene com prender si può nelle cose davanti mostrate.
Alle quali, amorose donne, io una n'aggiugnerò da una semplicetta donna adoperata, tale che io non so chi altri se l'avesse potuta mostrare che Amore.
Fu adunque già in Arezzo un ricco uomo, il quale fu Tofano nominato.
A costui fu data per moglie una bellissima donna, il cui nome fu monna Ghita, della quale egli, senza saper perché, prestamente divenne geloso.
Di che la donna avvedendosi prese sdegno, e più volte avendolo della cagione della sua gelosia addomandato, né egli alcuna avendone saputa assegnare, se non cotali generali e cattive, cadde nell'animo alla donna di farlo morire del male del quale senza cagione aveva paura.
Ed essendosi avveduta che un giovane, secondo il suo giudicio molto da bene, la vagheggiava, discretamente con lui s'incominciò ad intendere.
Ed essendo già tra lui e lei tanto le cose innanzi, che altro che dare effetto con opera alle parole non vi mancava, pensò la donna di trovare similmente modo a questo.
E avendo già tra'costumi cattivi del suo marito conosciuto lui dilettarsi di bere, non solamente gliele cominciò a commendare, ma artatamente a sollicitarlo a ciò molto spesso.
E tanto ciò prese per uso, che, quasi ogni volta che a grado l'era, infino allo inebriarsi bevendo il conducea; e quando bene ebbro il vedea, messolo a dormire, primieramente col suo amante si ritrovò, e poi sicuramente più volte di ritrovarsi con lui continuò.
E tanto di fidanza nella costui ebbrezza prese, che non solamente avea preso ardire di menarsi il suo amante in casa, ma ella talvolta gran parte della notte s'andava con lui a dimorare alla sua, la qual di quivi non era guari lontana.
E in questa maniera la innamorata donna continuando, avvenne che il doloroso marito si venne accorgendo che ella, nel confortare lui a bere, non beveva però essa mai; di che egli prese sospetto non così fosse come era, cioè che la donna lui inebriasse per poter poi fare il piacer suo mentre egli addormentato fosse.
E volendo di questo, se così fosse, far pruova, senza avere il dì bevuto, una sera tornò a casa mostrandosi il più ebbro uomo, e nel parlare e ne'modi, che fosse mai; il che la donna credendo né estimando che più bere gli bisognasse a ben dormire, il mise prestamente a letto.
E fatto ciò, secondo che alcuna volta era usata di fare, uscita di casa, alla casa del suo amante se n'andò, e quivi infino alla mezza notte dimorò.
Tofano, come la donna non vi sentì, così si levò, e andatosene alla sua porta, quella serrò dentro e posesi alle finestre, acciò che tornare vedesse la donna e le facesse manifesto che egli si fosse accorto delle maniere sue; e tanto stette che la donna tornò.
La quale, tornando a casa e trovandosi serrata di fuori, fu oltre modo dolente, e cominciò a tentare se per forza potesse l'uscio aprire.
Il che poi che Tofano alquanto ebbe sofferto, disse:
- Donna, tu ti fatichi invano, per ciò che qua entro non potrai tu entrare.
Va, tornati là dove infino ad ora se'stata, e abbi per certo che tu non ci tornerai mai, infino a tanto che io di questa cosa, in presenza de' parenti tuoi e de' vicini, te n'avrò fatto quello onore che ti si conviene.
La donna lo 'ncominciò a pregar per l'amor di Dio che piacer gli dovesse d'aprirle.
per ciò che ella non veniva donde s'avvisava, ma da vegghiare con una sua vicina, per ciò che le notti eran grandi ed ella non le poteva dormir tutte, né sola in casa vegghiare.
Li prieghi non giovavano nulla, per ciò che quella bestia era pur disposto a volere che tutti gli aretin sapessero la loro vergogna, laddove niun la sapeva.
La donna, veggendo che il pregar non le valeva, ricorse al minacciare e disse:
- Se tu non m'apri, io ti farò il più tristo uom che viva.
A cui Tofano rispose:
- E che mi potresti tu fare?
La donna, alla quale Amore aveva già aguzzato co' suoi consigli lo 'ngegno, rispose:
- Innanzi che io voglia sofferire la vergogna che tu mi vuoi fare ricevere a torto, io mi gitterò in questo pozzo che qui è vicino, nel quale poi essendo trovata morta, niuna persona sarà che creda che altri che tu, per ebbrezza, mi v'abbia gittata; e così o ti converrà fuggire e perdere ciò che tu hai ed essere in bando, o converrà che ti sia tagliata la testa, sì come a micidial di me che tu veramente sarai stato.
Per queste parole niente si mosse Tofano dalla sua sciocca oppinione.
Per la qual cosa la donna disse:
- Or ecco, io non posso più sofferire questo tuo fastidio; Dio il ti perdoni; farai riporre questa mia rocca che io lascio qui.
E questo detto, essendo la notte tanto oscura che appena si sarebbe potuto veder l'un l'altro per la via, se n'andò la donna verso il pozzo, e presa una grandissima pietra che a piè del pozzo era, gridando: - Iddio, perdonami, - la lasciò cadere entro nel pozzo.
La pietra giugnendo nell'acqua fece un grandissimo romore; il quale come Tofano udì, credette fermamente che essa gittata vi si fosse; per che, presa la secchia con la fune, subitamente si gittò di casa per aiutarla, e corse al pozzo.
La donna, che presso all'uscio della sua casa nascosa s'era, come il vide correre al pozzo, così ricoverò in casa e serrossi dentro e andossene alle finestre e cominciò a dire: - Egli si vuole inacquare quando altri il bee, non poscia la notte.
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Tofano, udendo costei, si tenne scornato e tornossi all'uscio; e non potendovi entrare, le cominciò a dire che gli aprisse.
Ella, lasciato stare il parlar piano come infino allora aveva fatto, quasi gridando cominciò a dire:
- Alla croce di Dio, ubriaco fastidioso, tu non c'enterrai stanotte; io non posso più sofferire questi tuoi modi; egli convien che io faccia vedere ad ogn'uomo chi tu se' e a che ora tu torni la notte a casa.
Tofano d'altra parte crucciato le 'ncominciò a dir villania e a gridare; di che i vicini, sentendo il romore, si levarono, e uomini e donne, e fecersi alle finestre e domandarono che ciò fosse.
La donna cominciò piagnendo a dire: - Egli è questo reo uomo, il quale mi torna ebbro la sera a casa, o s'addormenta per le taverne e poscia torna a questa otta; di che io avendo lungamente sofferto e dettogli molto male e non giovandomi, non potendo più sofferire, ne gli ho voluta fare questa vergogna di serrarlo fuor di casa, per vedere se egli se ne ammenderà.
Tofano bestia, d'altra parte, diceva come il fatto era stato, e minacciava forte.
La donna co' suoi vicini diceva: - Or vedete che uomo egli è! Che direste voi se io fossi nella via come è egli, ed egli fosse in casa come sono io? In fè di Dio che io dubito che voi non credeste che egli dicesse il vero.
Ben potete a questo conoscere il senno suo.
Egli dice appunto che io ho fatto ciò che io credo che egli abbia fatto egli.
Egli mi credette spaventare col gittare non so che nel pozzo; ma or volesse Iddio che egli vi si fosse gittato da dovero e affogato, sì che il vino, il quale egli di soperchio ha bevuto, si fosse molto bene inacquato.
I vicini, e gli uomini e le donne, cominciaro a riprender tutti Tofano, e a dar la colpa a lui e a dirgli villania di ciò che contro alla donna diceva; e in brieve tanto andò il romore di vicino in vicino, che egli pervenne infino a' parenti della donna.
Li quali venuti là, e udendo la cosa e da un vicino e da altro, presero Tofano e diedergli tante busse che tutto il ruppono.
Poi, andati in casa, presero le cose della donna e con lei si ritornarono a casa loro, minacciando Tofano di peggio.
Tofano, veggendosi mal parato, e che la sua gelosia l'aveva mal condotto, sì come quegli che tutto 'l suo ben voleva alla donna, ebbe alcuni amici mezzani, e tanto procacciò che egli con buona pace riebbe la donna a casa sua alla quale promise di mai più non esser geloso; e oltre a ciò le diè licenza che ogni suo piacer facesse, ma sì saviamente, che egli non se ne avvedesse.
E così, a modo del villan matto, dopo danno fe' patto.
E viva amore, e muoia soldo e tutta la brigata.
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Novella Quinta
Un geloso in forma di prete confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia all'uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si dimora.
Posto avea fine la Lauretta al suo ragionamento, e avendo già ciascun commendata la donna che ella bene avesse fatto e come a quel cattivo si conveniva, il re, per non perder tempo, verso la Fiammetta voltatosi, piacevolmente il carico le 'mpose del novellare; per la qual cosa ella così cominciò.
Nobilissime donne, la precedente novella mi tira a dovere io similmente ragionar d'un geloso, estimando che ciò che si fa loro dalle loro donne, e massimamente quando senza cagione ingelosiscono, esser ben fatto.
E se ogni cosa avessero i componitori delle leggi guardata, giudico che in questo essi dovessero alle donne non altra pena avere constituta che essi constituirono a colui che alcuno offende sé difendendo; per ciò che i gelosi sono insidiatori della vita delle giovani donne e diligentissimi cercatori della lor morte.
Esse stanno tutta la settimana rinchiuse e attendono alle bisogne familiari e domestiche, disiderando, come ciascun fa, d'aver poi il dì delle feste alcuna consolazione, alcuna quiete, e di potere alcun diporto pigliare, sì come prendono i lavoratori dei campi, gli artefici delle città e i reggitori delle corti; come fece Iddio, che il dì settimo da tutte le sue fatiche si riposò; e come vogliono le leggi sante e le civili, le quali, allo onor di Dio e al ben comune di ciascun riguardando, hanno i dì delle fatiche distinti da quegli del riposo.
Alla qual cosa fare niente i gelosi consentono, anzi quegli dì che a tutte l'altre son lieti, fanno ad esse, più serrate e più rinchiuse tenendole, esser più miseri e più dolenti; il che quanto e qual consumamento sia delle cattivelle quelle sole il sanno che l'hanno provato.
Perché, conchiudendo, ciò che una donna fa ad un marito geloso a torto, per certo non condennare ma commendare si dovrebbe.
Fu adunque in Arimino un mercatante, ricco e di possessioni e di denari assai, il quale avendo una bellissima donna per moglie, di lei divenne oltre misura geloso: né altra cagione a questo avea se non che, come egli molto l'amava e molto bella la teneva e conosceva che ella con tutto il suo studio s'ingegnava di piacergli, così estimava che ogn'uomo l'amasse, e che ella a tutti paresse bella e ancora che ella s'ingegnasse così di piacere altrui come a lui.
E così ingelosito tanta guardia ne prendeva e sì stretta la tenea, che forse assai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono da' pregionieri con tanta guardia servati.
La donna, lasciamo stare che a nozze o a festa o a chiesa andar potesse, o il piè della casa trarre in alcun modo, ma ella non osava farsi ad alcuna finestra né fuor della casa guardare per alcuna cagione; per la qual cosa la vita sua era pessima, ed essa tanto più impaziente sosteneva questa noia, quanto meno si sentiva nocente.
Per che, veggendosi a torto fare ingiuria al marito, s avvisò, a consolazion di sé medesima, di trovar modo (se alcuno ne potesse trovare) di far sì che a ragione le fosse fatto.
E per ciò che a finestra far non si potea, e così modo non avea di potersi mostrare contenta dello amore d'alcuno che atteso l'avesse per la sua contrada passando, sappiendo che nella casa la quale era allato alla sua aveva alcun giovane e bello e piacevole, si pensò, se pertugio alcun fosse nel muro che la sua casa divideva da quella, di dovere per quello tante volte guatare, che ella vedrebbe il giovane in atto da potergli parlare, e di donargli il suo amore, se egli il volesse ricevere; e se modo vi si potesse vedere, di ritrovarsi con lui alcuna volta, e in questa maniera trapassare la sua malvagia vita infino a tanto che il fistolo uscisse da dosso al suo marito.
E venendo ora in una parte e ora in una altra, quando il marito non v'era, il muro della casa guardando, vide per avventura in una parte assai segreta di quella il muro alquanto da una fessura esser aperto; per che, riguardando per quella, ancora che assai male discerner potesse dall'altra parte, pur s'avvide che quivi era una camera dove capitava la fessura, e seco disse: - Se questa fosse la camera di Filippo - (cioè del giovane suo vicino) - io sarei mezza fornita.
-E cautamente da una sua fante, a cui di lei incresceva, ne fece spiare, e trovò che veramente il giovane in quella dormiva tutto solo; per che, visitando la fessura spesso, e, quando il giovane vi sentiva, faccendo cader pietruzze e cotali fuscellini, tanto fece che, per veder che ciò fosse, il giovane venne quivi.
Il quale ella pianamente chiamò; ed egli che la sua voce conobbe, le rispose; ed ella, avendo spazio, in brieve tutto l'animo suo gli aprì.
Di che il giovane contento assai, sì fece che dal suo lato il pertugio si fece maggiore, tuttavia in guisa faccendo che alcuno avvedere non se ne potesse; e quivi spesse volte insieme si favellavano e toccavansi la mano, ma più avanti per la solenne guardia del geloso non si poteva.
Ora, appressandosi la festa del Natale, la donna disse al marito che, se gli piacesse, ella voleva andar la mattina della pasqua alla chiesa e confessarsi e comunicarsi come fanno gli altri cristiani.
Alla quale il geloso disse:
- E che peccati ha'tu fatti, che tu ti vuoi confessare?
Disse la donna:
- Come! Credi tu che io sia santa, perché tu mi tenghi rinchiusa? Ben sai che io fo de' peccati come l'altre persone che ci vivono, ma io non gli vo'dire a te, ché tu non se'prete.
Il geloso prese di queste parole sospetto e pensossi di voler saper che peccati costei avesse fatti e avvisossi del modo nel quale ciò gli verrebbe fatto; e rispose che era contento, ma che non volea che ella andasse ad altra chiesa che alla cappella loro; e quivi andasse la mattina per tempo e confessassesi o dal cappellan loro o da quel prete che il cappellan le desse e non da altrui, e tornasse di presente a casa.
Alla donna pareva mezzo avere inteso; ma, senza altro dire, rispose che sì farebbe.
Venuta la mattina della pasqua, la donna si levò in su l'aurora e acconciossi e andossene alla chiesa impostale dal marito.
Il geloso d'altra parte levatosi se n'andò a quella medesima chiesa e fuvvi prima di lei; e avendo già col prete di là entro composto ciò che far voleva, messasi prestamente una delle robe del prete indosso con un cappuccio grande a gote, come noi veggiamo che i preti portano, avendosel tirato un poco innanzi, si mise a stare in coro.
La donna venuta alla chiesa fece domandare il prete.
Il prete venne, e udendo dalla donna che confessar si volea, disse che non potea udirla, ma che le manderebbe un suo compagno; e andatosene, mandò il geloso nella sua malora.
Il quale molto contegnoso vegnendo, ancora che egli non fosse molto chiaro il dì ed egli s'avesse molto messo il cappuccio innanzi agli occhi, non si seppe sì occultare che egli non fosse prestamente conosciuto dalla donna; la quale, questo vedendo, disse seco medesima: - Lodato sia Iddio, che costui di geloso è divenuto prete; ma pure lascia fare, ché io gli darò quello che egli va cercando.
- Fatto adunque sembiante di non conoscerlo, gli si pose a sedere a' piedi.
Messer lo geloso s'avea messe alcune petruzze in bocca, acciò che esse alquanto la favella gli 'mpedissero, sì che egli a quella dalla moglie riconosciuto non fosse, parendogli in ogn'altra cosa sì del tutto esser divisato che esser da lei riconosciuto a niun partito credeva.
Or venendo alla confessione, tra l'altre cose che la donna gli disse, avendogli prima detto come maritata era, si fu che ella era innamorata d'un prete, il quale ogni notte con lei s'andava a giacere.
Quando il geloso udì questo, e'gli parve che gli fosse dato d'un coltello nel cuore; e se non fosse che volontà lo strinse di saper più innanzi, egli avrebbe la confessione abbandonata andatosene.
Stando adunque fermo domandò la donna:
- E come? Non giace vostro marito con voi?
La donna rispose:
- Messer sì.
- Adunque, - disse 'l geloso - come vi puote anche il prete giacere?
- Messere, - disse la donna - il prete con che arte il si faccia non so, ma egli non è in casa uscio sì serrato che, come egli il tocca, non s'apra; e dicemi egli che, quando egli è venuto a quello della camera mia, anzi che egli l'apra, egli dice certe parole per le quali il mio marito incontanente s'addormenta, e come addormentato il sente, così apre l'uscio e viensene dentro e stassi con meco, e questo non falla mai.
Disse allora il geloso:
- Madonna, questo è mal fatto, e del tutto egli ve ne conviene rimanere.
A cui la donna disse:
- Messere, questo non crederrei io mai poter fare, per ciò che io l'amo troppo.
- Dunque, - disse il geloso - non vi potrò io assolvere.
A cui la donna disse:
- Io ne son dolente: io non venni qui per dirvi le bugie; se io il credessi poter fare, io il vi direi.
Disse allora il geloso:
- In verità, madonna, di voi m'incresce, ché io vi veggio a questo partito perder l'anima; ma io, in servigio di voi, ci voglio durar fatica in far mie orazioni speziali a Dio in vostro nome, le quali forse vi gioveranno; e sì vi manderò alcuna volta un mio cherichetto, a cui voi direte se elle vi saranno giovate o no; e se elle vi gioveranno, sì procederemo innanzi.
A cui la donna disse:
- Messer, cotesto non fate voi che voi mi mandiate persona a casa, ché, se il mio marito il risapesse, egli è sì forte geloso che non gli trarrebbe del capo tutto il mondo che per altro che per male vi si venisse, e non avrei ben con lui di questo anno.
A cui il geloso disse:
- Madonna, non dubitate di questo, ché per certo io terrò sì fatto modo, che voi non ne sentirete mai parola da lui.
Disse allora la donna:
- Se questo vi dà il cuore di fare, io son contenta; - e fatta la confessione e presa la penitenzia, e da' piè levataglisi, se n'andò a udire la messa.
Il geloso soffiando con la sua mala ventura s'andò a spogliare i panni del prete, e tornossi a casa, disideroso di trovar modo da dovere il prete e la moglie trovare insieme, per fare un mal giuoco e all'uno e all'altro.
La donna tornò dalla chiesa, e vide bene nel viso al marito che ella gli aveva data la mala pasqua; ma egli, quanto poteva, s'ingegnava di nasconder ciò che fatto avea e che saper gli parea.
E avendo seco stesso diliberato di dover la notte vegnente star presso all'uscio della via ad aspettare se il prete venisse, disse alla donna:
- A me conviene questa sera essere a cena e ad albergo altrove, e per ciò serrerai ben l'uscio da via e quello da mezza scala e quello della camera, e quando ti parrà t'andrai a letto.
La donna rispose:
- In buon'ora.
E quando tempo ebbe se n'andò alla buca e fece il cenno usato, il quale come Filippo sentì, così di presente a quel venne.
Al quale la donna disse ciò che fatto avea la mattina, e quello che il marito appresso mangiare l'aveva detto, e poi disse:
- Io son certa che egli non uscirà di casa, ma si metterà a guardia dell'uscio; e per ciò truova modo che su per lo tetto tu venghi stanotte di qua, sì che noi siamo insieme.
Il giovane, contento molto di questo fatto, disse:
- Madonna, lasciate far me.
Venuta la notte, il geloso con sue armi tacitamente si nascose in una camera terrena, e la donna avendo fatti serrar tutti gli usci, e massimamente quello da mezza scala, acciò che il geloso su non potesse venire, quando tempo le parve, il giovane per via assai cauta dal suo lato se ne venne, e andaronsi a letto, dandosi l'un dell'altro piacere e buon tempo; e venuto il dì, il giovane se ne tornò in casa sua.
Il geloso, dolente e senza cena, morendo di freddo, quasi tutta la notte stette con le sue armi allato all'uscio ad aspettare se il prete venisse; e appressandosi il giorno, non potendo più vegghiare, nella camera terrena si mise a dormire.
Quindi vicin di terza levatosi, essendo già l'uscio della casa aperto faccendo sembiante di venire altronde, se ne salì in casa sua e desinò.
E poco appresso mandato un garzonetto, a guisa che stato fosse il cherico del prete che confessata l'avea, la mandò dimandando se colui cui ella sapeva più venuto vi fosse.
La donna, che molto bene conobbe il messo, rispose che venuto non v'era quella notte, e che, se così facesse, che egli le potrebbe uscir di mente, quantunque ella non volesse che di mente l'uscisse.
Ora che vi debbo dire? Il geloso stette molte notti per volere giugnere il prete all'entrata, e la donna continuamente col suo amante dandosi buon tempo.
Alla fine il geloso, che più sofferir non poteva, con turbato viso domandò la moglie ciò che ella avesse al prete detto la mattina che confessata s'era.
La donna rispose che non gliele voleva dire, per ciò che ella non era onesta cosa né convenevole.
A cui il geloso disse:
- Malvagia femina, a dispetto di te io so ciò che tu gli dicesti; e convien del tutto che io sappia chi è il prete di cui tu tanto se'innamorata e che teco per suoi incantesimi ogni notte si giace, o io ti segherò le veni.
La donna disse che non era vero che ella fosse innamorata d'alcun prete.
- Come! - disse il geloso - non dicestù così e così al prete che ti confessò?
La donna disse:
- Non che egli te l'abbia ridetto, ma egli basterebbe, se tu fossi stato presente, mai sì, che io gliele dissi.
- Dunque, - disse il geloso - dimmi chi è questo prete, e tosto.
La donna cominciò a sorridere, e disse:
- Egli mi giova molto quando un savio uomo è da una donna semplice menato come si mena un montone per le corna in beccheria; benché tu non se'savio, né fosti da quella ora in qua che tu ti lasciasti nel petto entrare il maligno spirito della gelosia, senza saper perché; e tanto quanto tu se'più sciocco e più bestiale, cotanto ne diviene la gloria mia minore.
Credi tu, marito mio, che io sia cieca degli occhi della testa, come tu se'cieco di quegli della mente? Certo no; e vedendo conobbi chi fu il prete che mi confessò, e so che tu fosti desso tu; ma io mi puosi in cuore di darti quello che tu andavi cercando, e dieditelo.
Ma, se tu fussi stato savio come esser ti pare, non avresti per quel modo tentato di sapere i segreti della tua buona donna, e, senza prender vana sospezion, ti saresti avveduto di ciò che ella ti confessava così essere il vero, senza avere ella in cosa alcuna peccato.
Io ti dissi che io amava un prete: e non eri tu, il quale io a gran torto amo, fatto prete? Dissiti che niuno uscio della mia casa gli si poteva tener serrato quando meco giacer volea: e quale uscio ti fu mai in casa tua tenuto quando tu colà dove io fossi se'voluto venire? Dissiti che il prete si giaceva ogni notte con meco: e quando fu che tu meco non giacessi? E quante volte il tuo cherico a me mandasti, tante sai quante tu meco non fosti, ti mandai a dire che il prete meco stato non era.
Quale smemorato altri che tu, che alla gelosia tua t'hai lasciato accecare, non avrebbe queste cose intese? E se' ti stato in casa a far la notte la guardia all'uscio, e a me credi aver dato a vedere che tu altrove andato sii a cena e ad albergo.
Ravvediti oggimai, e torna uomo come tu esser solevi, e non far far beffe di te a chi conosce i modi tuoi come fo io, e lascia star questo solenne guardar che tu fai; ché io giuro a Dio, se voglia me ne venisse di porti le corna, se tu avessi cento occhi come tu n'hai due, e'mi darebbe il cuore di fare i piacer miei in guisa che tu non te ne avvedresti.
Il geloso cattivo, a cui molto avvedutamente pareva avere il segreto della donna sentito, udendo questo, si tenne scornato; e senza altro rispondere, ebbe la donna per buona e per savia; e quando la gelosia gli bisognava del tutto se la spogliò, così come, quando bisogno non gli era, se l'aveva vestita.
Per che la savia donna, quasi licenziata ai suoi piaceri, senza far venire il suo amante su per lo tetto, come vanno le gatte, ma pur per l'uscio, discretamente operando, poi più volte con lui buon tempo e lieta vita si diede.
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Novella Sesta
Madonna Isabella con Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna.
Maravigliosamente era piaciuta a tutti la novella della Fiammetta, affermando ciascuno ottimamente la donna aver fatto, e quel che si convenia al bestiale uomo; ma poi che finita fu, il re a Pampinea impose che seguitasse.
La quale incominciò a dire.
Molti sono, li quali, semplicemente parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e quasi chi ama fa divenire smemorato.
Sciocca oppinione mi pare; e assai le già dette cose l'hanno mostrato; e io ancora intendo di dimostrarlo.
Nella nostra città, copiosa di tutti i beni, fu già una giovane donna e gentile e assai bella, la qual fu moglie d'un cavaliere assai valoroso e da bene.
E come spesso avviene che s sempre non può l'uomo usare un cibo, ma talvolta disidera di variare; non soddisfaccendo a questa donna molto il suo marito, s'innamorò d'un giovane, il quale Leonetto era chiamato, assai piacevole e costumato, come che di gran nazion non fosse, ed egli similmente s'innamorò di lei; e come voi sapete che rade volte è senza effetto quello che vuole ciascuna delle parti, a dare al loro amor compimento molto tempo non si interpose.
Ora avvenne che, essendo costei bella donna e avvenevole, di lei un cavalier chiamato messer Lambertuccio s'innamorò forte, il quale ella, per ciò che spiacevole uomo e sazievole le parea, per cosa del mondo ad amar lui disporre non si potea.
Ma costui con ambasciate sollicitandola molto, e non valendogli, essendo possente uomo, la mandò minacciando di vituperarla se non facesse il piacer suo.
Per la qual cosa la donna, temendo e conoscendo come fatto era, si condusse a fare il voler suo.
Ed essendosene la donna, che madonna Isabella avea nome, andata, come nostro costume è di state, a stare ad una sua bellissima possessione in contado, avvenne, essendo una mattina il marito di lei cavalcato in alcun luogo per dovere stare alcun giorno, che ella mandò per Leonetto che si venisse a star con lei, il quale lietissimo incontanente v'andò.
Messer Lambertuccio, sentendo il marito della donna essere andato altrove, tutto solo montato a cavallo, a lei se n'andò e picchiò alla porta.
La fante della donna, vedutolo, n'andò incontanente a lei, che in camera era con Leonetto, e chiamatala le disse:
- Madonna, messer Lambertuccio è qua giù tutto solo.
La donna, udendo questo, fu la più dolente femina del mondo; ma, temendol forte, pregò Leonetto che grave non gli fosse il nascondersi alquanto dietro alla cortina del letto, in fino a tanto che messer Lambertuccio se n'andasse.
Leonetto, che non minor paura di lui avea che avesse la donna, vi si nascose; ed ella comandò alla fante che andasse ad aprire a messer Lambertuccio: la quale apertogli, ed egli nella corte smontato d'un suo pallafreno e quello appiccato ivi ad uno arpione, se ne salì suso.
La donna, fatto buon viso e venuta infino in capo della scala, quanto più potè in parole lietamente il ricevette e domandollo quello che egli andasse faccendo.
Il cavaliere, abbracciatala e baciatala, disse:
- Anima mia, io intesi che vostro marito non c'era, sì ch'io mi son venuto a stare alquanto con essovoi.
- E dopo queste parole, entratisene in camera e serratisi dentro, cominciò messer Lambertuccio a prender diletto di lei.
E così con lei standosi, tutto fuori della credenza della donna, avvenne che il marito di lei tornò; il quale quando la fante alquanto vicino al palagio vide, così subitamente corse alla camera della donna e disse:
- Madonna, ecco messer che torna: io credo che egli sia già giù nella corte.
La donna, udendo questo e sentendosi aver due uomini in casa, e conosceva che il cavaliere non si poteva nascondere per lo suo pallafreno che nella corte era, si tenne morta.
Nondimeno, subitamente gittatasi del letto in terra, prese partito, e disse a messer Lambertuccio:
- Messere, se voi mi volete punto di bene e voletemi da morte campare, farete quello che io vi dirò.
Voi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un mal viso e tutto turbato ve n'andrete giù per le scale, e andrete dicendo: - Io fo boto a Dio che io il coglierò altrove; - e se mio marito vi volesse ritenere o di niente vi domandasse, non dite altro che quello che detto v'ho, e montato a cavallo, per niuna cagione seco ristate.
Messer Lambertuccio disse che volentieri; e tirato fuori i coltello, tutto infocato nel viso tra per la fatica durata e per l'ira avuta della tornata del cavaliere, come la donna gl'impose così fece.
Il marito della donna, già nella corte smontato, maravigliandosi del pallafreno e volendo su salire, vide messer Lambertuccio scendere, e maravigliossi e delle parole e del viso di lui, e disse:
- Che è questo messere?
Messer Lambertuccio, messo il piè nella staffa e montato su, non disse altro, se non:
- Al corpo di Dio, io il giugnerò altrove; - e andò via.
Il gentile uomo montato su trovò la donna sua in capo della scala tutta sgomentata e piena di paura, alla quale egli disse:
- Che cosa è questa? Cui va messer Lambertuccio così adirato minacciando?
La donna, tiratasi verso la camera, acciò che Leonetto l'udisse, rispose:
- Messere, io non ebbi mai simil paura a questa.
Qua entro si fuggì un giovane, il quale io non conosco e che esser Lambertuccio col coltello in man seguitava, e trovò per ventura questa camera aperta, e tutto tremante disse: - Madonna, per Dio aiutatemi, ché io non sia nelle braccia vostre morto.
- Io mi levai diritta, e come il voleva domandare chi fosse e che avesse, ed ecco messer Lambertuccio venir su dicendo: - Dove se', traditore? - Io mi parai in su l'uscio della camera, e volendo egli entrar dentro, il ritenni, ed egli in tanto fu cortese che, come vide che non mi piaceva che egli qua entro entrasse, dette molte parole, se ne venne giù come voi vedeste.
Disse allora il marito:
- Donna, ben facesti: troppo ne sarebbe stato gran biasimo, se persona fosse stata qua entro uccisa; e messer Lambertuccio fece gran villania a seguitar persona che qua entro fuggita fosse.
Poi domandò dove fosse quel giovane.
La donna rispose:
- Messere, io non so dove egli si sia nascoso.
Il cavaliere allora disse:
- Ove se'tu? Esci fuori sicuramente.
Leonetto che ogni cosa udita avea, tutto pauroso, come colui che paura aveva avuta da dovero, uscì fuori del luogo dove nascoso s'era.
Disse allora il cavaliere:
- Che hai tu a fare con messer Lambertuccio?
Il giovane rispose:
- Messer, niuna cosa che sia in questo mondo; e per ciò io credo fermamente che egli non sia in buon senno, o che egli m'abbia colto in iscambio; per ciò che, come poco lontano da questo palagio nella strada mi vide, così mise mano al coltello, e disse: - Traditor, tu se'morto.
- Io non mi posi a domandare per che cagione, ma quanto potei cominciai a fuggire e qui me ne venni dove, mercé di Dio e di questa gentil donna, scampato sono.
Disse allora il cavaliere:
- Or via, non aver paura alcuna; io ti porrò a casa tua sano e salvo, e tu poi sappi far cercar quello che con lui hai a fare.
E, come cenato ebbero, fattol montare a cavallo, a Firenze il ne menò, e lasciollo a casa sua.
Il quale, secondo l'ammaestramento della donna avuto, quella sera medesima parlò con messer Lambertuccio occultamente, e sì con lui ordinò, che quantunque poi molte parole ne fossero, mai per ciò il cavalier non s'accorse della beffa fattagli dalla moglie.
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Novella Settima
Lodovico discuopre a madonna Beatrice l'amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi, va e bastona Egano nel giardino.
Questo avvedimento di madonna Isabella da Pampinea raccontato fu da ciascun della brigata tenuto maraviglioso.
Ma Filomena, alla quale il re imposto aveva che secondasse, disse.
Amorose donne, se io non ne sono ingannata, io ve ne credo uno non men bello raccontare, e prestamente.
Voi dovete sapere che in Parigi fu già un gentile uomo fiorentino, il quale per povertà divenuto era mercatante, ed eragli sì bene avvenuto della mercatantia, che egli ne era fatto ricchissimo, e avea della sua donna un figliuol senza più, il quale egli aveva nominato Lodovico.
E perché egli alla nobiltà del padre e non alla mercatantia si traesse, non l'aveva il padre voluto mettere ad alcun fondaco, ma l'avea messo ad essere con altri gentili uomini al servigio del re di Francia, là dove egli assai di be'costumi e di buone cose aveva apprese.
E quivi dimorando, avvenne che certi cavalieri, li quali tornati erano dal Sepolcro, sopravvenendo ad un ragionamento di giovani, nel quale Lodovico era, e udendogli fra sé ragionare delle belle donne di Francia e d'Inghilterra e d'altre parti del mondo, cominciò l'un di loro a dir che per certo di quanto mondo egli aveva cerco e di quante donne vedute aveva mai, una simigliante alla moglie d'Egano de' Galluzzi di Bologna, madonna Beatrice chiamata, veduta non avea di bellezza; a che tutti i compagni suoi, che con lui insieme in Bologna l'avean veduta, s'accordarono.
Le quali cose ascoltando Lodovico, che d'alcuna ancora innamorato non s'era, s'accese in tanto disidero di doverla vedere, che ad altro non poteva tenere il suo pensiere; e del tutto disposto d'andare infino a Bologna a vederla, e quivi ancora dimorare, se ella gli piacesse, fece veduto al padre che al Sepolcro voleva andare; il che con grandissima malagevolezza ottenne.
Postosi adunque nome Anichino, a Bologna pervenne, e, come la fortuna volle, il dì seguente vide questa donna ad una festa, e troppo più bella gli parve assai che stimato non avea; per che, innamoratosi ardentissimamente di lei, propose di mai di Bologna non partirsi se egli il suo amore non acquistasse.
E seco divisando che via dovesse a ciò tenere, ogn'altro modo lasciando stare, avvisò che, se divenir potesse famigliar del marito di lei, il qual molti ne teneva, per avventura gli potrebbe venir fatto quel che egli disiderava.
Venduti adunque i suoi cavalli, e la sua famiglia acconcia in guisa che stava bene, avendo lor comandato che sembiante facessero di non conoscerlo, essendosi accontato con l'oste suo, gli disse che volentier per servidore d'un signore da bene, se alcun ne potesse trovare, starebbe.
Al quale l'oste disse:
- Tu se'dirittamente famiglio da dovere esser caro ad un gentile uomo di questa terra che ha nome Egano, il quale molti ne tiene, e tutti li vuole appariscenti come tu se': io ne gli parlerò.
E come disse così fece; e avanti che da Egano si partisse, ebbe con lui acconcio Anichino; il che quanto più poté esser gli fu caro.
E con Egano dimorando e avendo copia di vedere assai spesso la sua donna, tanto bene e sì a grado cominciò a servire Egano, che egli gli pose tanto amore, che senza lui niuna cosa sapeva fare; e non solamente di sé, ma di tutte le sue cose gli aveva commesso il governo.
Avvenne un giorno che, essendo andato Egano ad uccellare e Anichino rimaso a casa, madonna Beatrice, che dello amor di lui accorta non s'era ancora quantunque seco, lui e'suoi costumi guardando, più volte molto commendato l'avesse e piacessele, con lui si mise a giucare a' scacchi; e Anichino, che di piacerle disiderava, assai acconciamente faccendolo, si lasciava vincere, di che la donna faceva maravigliosa festa.
Ed essendosi da vedergli giucare tutte le femine della donna partite, e soli giucando lasciatigli, Anichino gittò un grandissimo sospiro.
La donna guardatolo disse:
- Che avesti, Anichino? Duolti così che io ti vinco?
- Madonna, - rispose Anichino - troppo maggior cosa che questa non è fu cagion del mio sospiro.
Disse allora la donna:
- Deh dilmi per quanto ben tu mi vuogli.
Quando Anichino si sentì scongiurare - per quanto ben tu mi vuogli - a colei la quale egli sopra ogn'altra cosa amava, egli ne mandò fuori un troppo maggiore che non era stato il primo; per che la donna ancor da capo il ripregò che gli piacesse di dirle qual fosse la cagione de' suoi sospiri.
Alla quale Anichino disse:
- Madonna, io temo forte che egli non vi sia noia, se io il vi dico; e appresso dubito che voi ad altra persona nol ridiciate.
A cui la donna disse:
- Per certo egli non mi sarà grave, e renditi sicuro di questo, che cosa che tu mi dica, se non quanto ti piaccia, io non dirò mai ad altrui.
Allora disse Anichino:
- Poi che voi mi promettete così, e io il vi dirò; - e quasi colle lagrime in sugli occhi le disse chi egli era, quel che di lei aveva udito e dove e come di lei s'era innamorato e come venuto e perché per servidor del marito di lei postosi; e appresso umilemente, se esser potesse, la pregò che le dovesse piacere d'aver pietà di lui, e in questo suo segreto e sì fervente disidero di compiacergli; e che, dove questo far non volesse, che ella, lasciandolo star nella forma nella qual si stava, fosse contenta che egli l'amasse.
O singular dolcezza del sangue bolognese! Quanto se'tu stata sempre da commendare in così fatti casi! Mai né di lagrime né di sospir fosti vaga, e continuamente a' prieghi pieghevole e agli amorosi disideri arrendevol fosti.
Se io avessi degne lode da commendarti, mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia!
La gentil donna, parlando Anichino, il riguardava, e dando piena fede alle sue parole, con sì fatta forza ricevette per li prieghi di lui il suo amore nella mente, che essa altressì cominciò a sospirare, e dopo alcun sospiro rispose:
- Anichino mio dolce, sta di buon cuore; né doni né promesse né vagheggiare di gentile uomo né di signore né d'alcuno altro (ché sono stata e sono ancor vagheggiata da molti) mai potè muovere l'animo mio tanto che io alcuno n'amassi; ma tu m'hai fatta in così poco spazio, come le tue parole durate sono, troppo più tua divenir che io non son mia.
Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor guadagnato, e per ciò io il ti dono, e sì ti prometto che io te ne farò godente avanti che questa notte che viene tutta trapassi.
E acciò che questo abbia effetto, farai che in su la mezza notte tu venghi alla camera mia; io lascerò l'uscio aperto; tu sai da qual parte del letto io dormo; verrai là, e, se io dormissi, tanto mi tocca che io mi svegli, e io ti consolerò di così lungo disio come avuto hai; e acciò che tu questo creda, io ti voglio dare un bacio per arra; - e gittatogli il braccio in collo, amorosamente il baciò, e Anichin lei.
Queste cose dette, Anichin, lasciata la donna, andò a fare alcune sue bisogne, aspettando con la maggior letizia del mondo che la notte sopravvenisse.
Egano tornò da uccellare, e come cenato ebbe, essendo stanco, s'andò a dormire, e la donna appresso, e, come promesso avea, lasciò l'uscio della camera aperto.
Al quale, all'ora che detta gli era stata, Anichin venne, e pianamente entrato nella camera e l'uscio riserrato dentro, dal canto donde la donna dormiva se n'andò, e postale la mano in sul petto, lei non dormente trovò; la quale come sentì Anichino esser venuto, presa la sua mano con amendune le sue e tenendol forte, volgendosi per lo letto tanto fece che Egano che dormiva destò, al quale ella disse:
- Io non ti volli iersera dir cosa niuna, per ciò che tu mi parevi stanco; ma dimmi, se Dio ti salvi, Egano, quale hai tu per lo migliore famigliare e per lo più leale e per colui che più t'ami, di quegli che tu in casa hai?
Rispose Egano:
- Che è ciò, donna, di che tu mi domandi? Nol conosci tu? Io non ho, né ebbi mai alcuno, di cui io tanto mi fidassi o fidi o ami, quant'io mi fido e amo Anichino; ma perché me ne domandi tu?
Anichino, sentendo desto Egano e udendo di sé ragionare, aveva più volte a sé tirata la mano per andarsene, temendo forte non la donna il volesse ingannare; ma ella l'aveva sì tenuto e teneva, che egli non s'era potuto partire né poteva.
La donna rispose ad Egano e disse:
- Io il ti dirò.
Io mi credeva che fosse ciò che tu di'e che egli più fede che alcuno altro ti portasse; ma me ha egli sgannata, per ciò che, quando tu andasti oggi ad uccellare, egli rimase qui, e quando tempo gli parve, non si vergognò di richiedermi che io dovessi, a' suoi piaceri acconsentirmi; e io, acciò che questa cosa non mi bisognasse con troppe pruove mostrarti e per farlati toccare e vedere, risposi che io era contenta e che stanotte, passata mezzanotte, io andrei nel giardino nostro e a piè del pino l'aspetterei.
Ora io per me non intendo d'andarvi; ma, se tu vuogli la fedeltà del tuo famiglio cognoscere, tu puoi leggiermente, mettendoti indosso una delle guarnacche mie e in capo un velo, e andare laggiuso ad aspettare se egli vi verrà, ché son certa del sì.
Egano udendo questo disse:
- Per certo io il convengo vedere; - e levatosi, come meglio seppe al buio, si mise una guarnacca della donna e un velo in capo, e andossen nel giardino e a piè d'un pino cominciò ad attendere Anichino.
La donna, come sentì lui levato e uscito della camera, così si levò e l'uscio di quella dentro serrò.
Anichino, il quale la maggior paura che avesse mai avuta avea, e che quanto potuto avea s'era sforzato d'uscire delle mani della donna e centomila volte lei e il suo amore e sé che fidato se n'era avea maladetto, sentendo ciò che alla fine aveva fatto, fu il più contento uomo che fosse mai; ed essendo la donna tornata nel letto, come ella volle, con lei si spogliò, e insieme presero piacere e gioia per un buono spazio di tempo.
Poi, non parendo alla donna che Anichino dovesse più stare, il fece levar suso e rivestire, e sì gli disse:
- Bocca mia dolce, tu prenderai un buon bastone e andra'tene al giardino, e faccendo sembianti d'avermi richiesta per tentarmi, come se io fossi dessa, dirai villania ad Egano e sonera'mel bene col bastone, per ciò che di questo ne seguirà maraviglioso diletto e piacere.
Anichino levatosi e nel giardino andatosene con un pezzo di saligastro in mano, come fu presso al pino e Egano il vide venire, così levatosi come con grandissima festa riceverlo volesse, gli si faceva incontro.
Al quale Anichin disse:
- Ahi malvagia femina, dunque ci se'venuta, e hai creduto che io volessi o voglia al mio signor far questo fallo? Tu sii la mal venuta per le mille volte!; - e alzato il bastone, lo incominciò a sonare.
Egano, udendo questo e veggendo il bastone, senza dir parola cominciò a fuggire, e Anichino appresso sempre dicendo:
- Via, che Dio vi metta in malanno, rea femina, ché io il dirò domatina ad Egano per certo.
Egano avendone avute parecchie delle buone, come più tosto poté, se ne tornò alla camera; il quale la donna domandò se Anichin fosse al giardin venuto.
Egano disse:
- Così non fosse egli, per ciò che, credendo esso che io fossi te, m'ha con un bastone tutto rotto, e dettami la maggior villania che mai si dicesse a niuna cattiva femina; e per certo io mi maravigliava forte di lui che egli con animo di far cosa che mi fosse vergogna t'avesse quelle parole dette; ma, per ciò che così lieta e festante ti vede, ti volle provare.
Allora disse la donna:
- Lodato sia Iddio, che egli ha me provata con parole e te con fatti, e credo che egli possa dire che io comporti con più pazienzia le parole che tu i fatti non fai.
Ma poi che tanta fede ti porta, si vuole aver caro e fargli onore.
Egano disse:
- Per certo tu di'il vero.
E, da questo prendendo argomento, era in oppinione d'avere la più leal donna e il più fedel servidore che mai avesse alcun gentile uomo.
Per la qual cosa, come che poi più volte con Anichino ed egli e la donna ridesser di questo fatto, Anichino e la donna ebbero assai più agio, di quello per avventura che avuto non avrebbono, a far di quello che loro era diletto e piacere, mentre ad Anichin piacque di dimorar con Egano in Bologna.
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Novella Ottava
Un diviene geloso della moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante venire a lei.
Il marito se n'accorge, e mentre seguita l'amante, la donna mette in luogo di sé nel letto un'altra femina, la quale il marito batte e tagliale le trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania.
Stranamente pareva a tutti madonna Beatrice essere stata maliziosa in beffare il suo marito, e ciascuno affermava dovere essere stata la paura d'Anichino grandissima, quando, tenuto forte dalla donna, l'udì dire che egli d'amore l'aveva richesta; ma poi che il re vide Filomena tacersi, verso Neifile voltosi, disse:
- Dite voi.
La qual, sorridendo prima un poco, cominciò.
Belle donne, gran peso mi resta se io vorrò con una bella novella contentarvi, come quelle che davanti hanno detto contentate v'hanno; del quale con l'aiuto di Dio io spero assai bene scaricarmi.
Dovete dunque sapere che nella nostra città fu già un ricchissimo mercatante chiamato Arriguccio Berlinghieri, il quale scioccamente, sì come ancora oggi fanno tutto 'l dì i mercatanti pensò di volere ingentilire per moglie, e prese una giovane gentil donna male a lui convenientesi, il cui nome fu monna Sismonda.
La quale, per ciò che egli, sì come i mercatanti fanno, andava molto dattorno e poco con lei dimorava, s'innamorò d'un giovane chiamato Ruberto, il quale lungamente vagheggiata l'avea.
E avendo presa sua dimestichezza e quella forse men discretamente usando, per ciò che sommamente le dilettava, avvenne o che Arriguccio alcuna cosa ne sentisse, o come che s'andasse, egli ne diventò il più geloso uom del mondo, e lascionne stare l'andar dattorno e ogni altro suo fatto, e quasi tutta la sua sollicitudine aveva posta in guardar ben costei; né mai addormentato si sarebbe, se lei primieramente non avesse sentita entrar nel letto; per la qual cosa la donna sentiva gravissimo dolore, per ciò che in guisa niuna col suo Ruberto esser poteva.
Or pure, avendo molti pensieri avuti a dover trovare alcun modo d'esser con essolui, e molto ancora da lui essendone sollicitata, le venne pensato di tenere questa maniera: che, con ciò fosse cosa che la sua camera fosse lungo la via, ed ella si fosse molte volte accorta che Arriguccio assai ad addormentarsi penasse, ma poi dormiva saldissimo, avvisò di dover far venire Ruberto in su la mezza notte all'uscio della casa sua e d'andargli ad aprire e a starsi alquanto con essolui mentre il marito dormiva forte.
E a fare che ella il sentisse quando venuto fosse, in guisa che persona non se ne accorgesse, divisò di mandare uno spaghetto fuori della finestra della camera, il quale con l'un de' capi vicino alla terra aggiugnesse, e l'altro capo mandatol basso infin sopra 'l palco e conducendolo al letto suo, quello sotto i panni mettere, e quando essa nel letto fosse, legarlosi al dito grosso del piede.
E appresso, mandato questo a dire a Ruberto, gl'impose che, quando venisse, dovesse lo spago tirare, ed ella, se il marito dormisse, il lascerebbe andare e andrebbegli ad aprire; e s'egli non dormisse, ella il terrebbe fermo e tirerebbelo a sé, acciò che egli non aspettasse: la qual cosa piacque a Ruberto, e assai volte andatovi, alcuna gli venne fatto d'esser con lei, e alcuna no.
Ultimamente, continuando costoro questo artificio così fatto, avvenne una notte che, dormendo la donna e Arriguccio stendendo il piè per lo letto, gli venne questo spago trovato; per che, postavi la mano e trovatolo al dito della donna legato, disse seco stesso: - Per certo questo dee essere qualche inganno.
- E avvedutosi poi che lo spago usciva fuori per la finestra, l'ebbe per fermo; per che, pianamente tagliatolo dal dito della donna, al suo il legò, e stette attento per vedere quel che questo volesse dire.
Né stette guari che Ruberto venne, e tirato lo spago, come usato era, Arriguccio si sentì, e non avendoselo ben saputo legare, e Ruberto avendo tirato forte ed essendogli lo spago in man venuto, intese di doversi aspettare, e così fece.
Arriguccio, levatosi prestamente e prese sue armi, corse all'uscio, per dover vedere chi fosse costui, e per fargli male.
Ora era Arriguccio, con tutto che fosse mercatante, un fiero e un forte uomo; e giunto all'uscio e non aprendolo soavemente come soleva far la donna, e Ruberto che aspettava sentendolo, s'avvisò esser quello che era, cioè che colui che l'uscio apriva fosse Arriguccio; per che prestamente cominciò a fuggire, e Arriguccio a seguitarlo.
Ultimamente, avendo Ruberto un gran pezzo fuggito e colui non cessando di seguitarlo, essendo altressì Ruberto armato, tirò fuori la spada e rivolsesi, e incominciarono l'uno a volere offendere e l'altro a difendersi.
La donna, come Arriguccio aprì la camera, svegliatasi e trovatosi tagliato lo spago dal dito, incontanente s'accorse che 'l suo inganno era scoperto; e sentendo Arriguccio esser corso dietro a Ruberto, prestamente levatasi, avvisandosi ciò che doveva potere avvenire, chiamò la fante sua, la quale ogni cosa sapeva, e tanto la predicò, che ella in persona di sé nel suo letto la mise, pregandola che, senza farsi conoscere, quel le busse pazientemente ricevesse che Arriguccio le desse, per ciò che ella ne le renderebbe sì fatto merito, che ella non avrebbe cagione donde dolersi.
E spento il lume che nella camera ardeva, di quella s'uscì, e nascosa in una parte della casa cominciò ad aspettare quello che dovesse avvenire.
Essendo tra Arriguccio e Ruberto la zuffa, i vicini della contrada, sentendola e levatisi, cominciarono loro a dir male; e Arriguccio, per tema di non esser conosciuto, senza aver potuto sapere chi il giovane si fosse o d'alcuna cosa offenderlo, adirato e di mal talento, lasciatolo stare, se ne tornò verso la casa sua; e pervenuto nella camera adiratamente cominciò a dire:
- Ove se'tu, rea femina? Tu hai spento il lume perché io non ti truovi, ma tu l'hai fallita.
E andatosene al letto, credendosi la moglie pigliare, prese la fante, e quanto egli potè menare le mani e'piedi, tante pugna e tanti calci le diede, che tutto il viso l'ammaccò; e ultimamente le tagliò i capegli, sempre dicendole la maggior villania che mai a cattiva femina si dicesse.
La fante piagneva forte, come colei che aveva di che; e ancora che ella alcuna volta dicesse: - Ohimè, mercé per Dio; oh, non più; - era sì la voce dal pianto rotta, e Arriguccio impedito dal suo furore, che discerner non poteva più quella esser d'un'altra femina che della moglie
Battutala adunque di santa ragione e tagliatile i capegli, come dicemmo, disse:
- Malvagia femina, io non intendo di toccarti altramenti, ma io andrò per li tuoi fratelli e dirò loro le tue buone opere; e appresso che essi vengan per te e faccianne quello che essi credono che loro onor sia, e menintene; ché per certo in questa casa non starai tu mai più.
E così detto, uscito della camera, la serrò di fuori e andò tutto sol via.
Come monna Sismonda, che ogni cosa udita aveva, sentì il marito essere andato via, così, aperta la camera e racceso il lume, trovò la fante sua tutta pesta che piagneva forte; la quale, come poté il meglio, racconsolò, e nella camera di lei la rimise, dove poi chetamente fattala servire e governare, sì di quello d'Arriguccio medesimo la sovvenne che ella si chiamò per contenta.
E come la fante nella sua camera rimessa ebbe, così prestamente il letto della sua rifece, e quella tutta racconciò e rimise in ordine, come se quella notte niuna persona giaciuta vi fosse, e raccese la lampana e sé rivestì e racconciò, come se ancora al letto non si fosse andata; e accesa una lucerna e presi suoi panni, in capo della scala si pose a sedere, e cominciò a cucire e ad aspettare quello a che il fatto dovesse riuscire.
Arriguccio, uscito di casa sua, quanto più tosto potè n'andò alla casa de' fratelli della moglie, e quivi tanto picchiò che fu sentito e fugli aperto.
Li fratelli della donna, che eran tre, e la madre di lei, sentendo che Arriguccio era, tutti si levarono, e fatto accendere de' lumi vennero a lui e domandaronlo quello che egli a quella ora e così solo andasse cercando.
A' quali Arriguccio, cominciandosi dallo spago che trovato aveva legato al dito del piè di monna Sismonda, infino all'ultimo di ciò che trovato e fatto avea, narrò loro; e per fare loro intera testimonianza di ciò che fatto avesse, i capelli che alla moglie tagliati aver credeva lor pose in mano, aggiugnendo che per lei venissero e quel ne facessero che essi credessero che al loro onore appartenesse, per ciò che egli non intendeva di mai più in casa tenerla.
I fratelli della donna, crucciati forte di ciò che udito avevano e per fermo tenendolo, contro a lei inanimati, fatti accender de' torchi, con intenzione di farle un mal giuoco, con Arriguccio si misero in via e andaronne a casa sua.
Il che veggendo la madre di loro, piagnendo gl'incominciò a seguitare, or l'uno e or l'altro pregando che non dovessero queste cose così subitamente credere, senza vederne altro o saperne; per ciò che il marito poteva per altra cagione esser crucciato con lei e averle fatto male, e ora apporle questo per iscusa di sé; dicendo ancora che ella si maravigliava forte come ciò potesse essere avvenuto, per ciò che ella conosceva ben la sua figliuola, sì come colei che infino da piccolina l'aveva allevata; e molte altre parole simiglianti.
Pervenuti adunque a casa d'Arriguccio ed entrati dentro, cominciarono a salir le scale.
Li quali monna Sismonda sentendo venire, disse:
- Chi è là?
Alla quale l'un de' fratelli rispose:
- Tu il saprai bene, rea femina, chi è.
Disse allora monna Sismonda:
- Ora che vorrà dir questo? Domine, aiutaci.
- E levatasi in piè disse:
- Fratelli miei, voi siate i benvenuti; che andate voi cercando a questa ora quincentro tutti e tre?
Costoro, avendola veduta a sedere e cucire e senza alcuna vista nel viso d'essere stata battuta, dove Arriguccio aveva detto che tutta l'aveva pesta, alquanto nella prima giunta si maravigliarono e rifrenarono l'impeto della loro ira, e domandaronla come stato fosse quello di che Arriguccio di lei si doleva, minacciandola forte se ogni cosa non dicesse loro.
La donna disse:
- Io non so ciò che io mi vi debba dire, né di che Arriguccio di me vi si debba esser doluto.
Arriguccio, vedendola, la guatava come smemorato, ricordandosi che egli l'aveva dati forse mille punzoni per lo viso e graffiatogliele e fattole tutti i mali del mondo, e ora la vedeva come se di ciò niente fosse stato.
In brieve i fratelli le dissero ciò che Arriguccio loro aveva detto, e dello spago e delle battiture e di tutto.
La donna, rivolta ad Arriguccio, disse:
- Ohimè, marito mio, che è quel ch'io odo? Perché fai tu tener me rea femina con tua gran vergogna, dove io non sono, e te malvagio uomo e crudele di quello che tu non se'? E quando fostù questa notte più in questa casa, non che con meco? O quando mi battesti tu? Io per me non me ne ricordo.
Arriguccio cominciò a dire:
- Come, rea femina, non ci andammo noi iersera al letto insieme? Non ci tornai io, avendo corso dietro all'amante tuo? Non ti diedi io di molte busse, e taglia'ti i capegli?
La donna rispose:
- In questa casa non ti coricasti tu iersera.
Ma lasciamo stare di questo, ché non ne posso altra testimonianza fare che le mie vere parole, e veniamo a quello che tu di', che mi battesti e tagliasti i capegli.
Me non battestù mai, e quanti n'ha qui e tu altressì mi ponete mente se io ho segno alcuno per tutta la persona di battitura; né ti consiglierei che tu fossi tanto ardito che tu mano addosso mi ponessi, ché, alla croce di Dio, io ti sviserei.
Né i capegli altressì mi tagliasti, che io sentissi o vedessi; ma forse il facesti che io non me n'avvidi: lasciami vedere se io gli ho tagliati o no.
E, levatisi suoi veli di testa, mostrò che tagliati non gli avea, ma interi.
Le quali cose e vedendo e udendo i fratelli e la madre, cominciarono verso d'Arriguccio a dire:
- Che vuoi tu dire, Arriguccio? Questo non è già quello che tu ne venisti a dire che avevi fatto; e non sappiam noi come tu ti proverrai il rimanente.
Arriguccio stava come trasognato e voleva pur dire; ma, veggendo che quello ch'egli credea poter mostrare non era così, non s'attentava di dir nulla.
La donna, rivolta verso i fratelli, disse:
- Fratei miei, io veggio che egli è andato cercando che io faccia quello che io non volli mai fare, cioè ch'io vi racconti le miserie e le cattività sue, e io il farò.
Io credo fermamente che ciò che egli v'ha detto gli sia intervenuto e abbial fatto; e udite come.
Questo valente uomo, al qual voi nella mia mala ora per moglie mi deste, che si chiama mercatante e che vuole esser creduto e che dovrebbe esser più temperato che uno religioso e più onesto che una donzella, son poche sere che egli non si vada inebbriando per le taverne, e or con questa cattiva femina e or con quella rimescolando; e a me si fa infino a mezza notte e talora infino a matutino aspettare, nella maniera che mi trovaste.
Son certa che, essendo bene ebbro, si mise a giacere con alcuna sua trista, e a lei destandosi trovò lo spago al piede e poi fece tutte quelle sue gagliardie che egli dice, e ultimamente tornò a lei e battella e tagliolle i capegli; e non essendo ancora ben tornato in sé, si credette, e son certa che egli crede ancora, queste cose aver fatte a me; e se voi il porrete ben mente nel viso, egli è ancora mezzo ebbro.
Ma tuttavia, che che egli s'abbia di me detto, io non voglio che voi il vi rechiate se non come da uno ubriaco; e poscia che io gli perdono io, gli perdonate voi altressì.
La madre di lei, udendo queste cose, cominciò a fare romore e a dire:
- Alla croce di Dio, figliuola mia, cotesto non si votrebbe fare; anzi si vorrebbe uccidere questo can fastidioso e sconoscente, ché egli non ne fu degno d'avere una figliuola fatta come se'tu.
Frate, bene sta!; Basterebbe se egli t'avesse ricolta del fango.
Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle parole di un mercantuzzo di feccia d'asino, che venutici di contado e usciti delle troiate, vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e con ]a penna in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de' gentili uomini e delle buone donne per moglie, e fanno arme e dicono: - I' son de' cotali - e - quei di casa mia fecer così.
- Ben vorrei che'miei figliuoli n'avesser seguito il mio consiglio, ché ti potevano così orrevolmente acconciare in casa i conti Guidi con un pezzo di pane, ed essi vollon pur darti a questa bella gioia, che, dove tu se'la miglior figliuola di Firenze e la più onesta, egli non s'è vergognato di mezza notte di dir che tu sii puttana, quasi noi non ti conoscessimo; ma, alla fè di Dio, se me ne fosse creduto, se ne gli darebbe sì fatta gastigatoia che gli putirebbe.
E, rivolta a' figliuoli, disse:
- Figliuoli miei, io il vi dicea bene che questo non doveva potere essere.
Avete voi udito come il buono vostro cognato tratta la sirocchia vostra? Mercatantuolo di quattro denari che egli è! Ché, se io fossi come voi, avendo detto quello che egli ha di lei e faccendo quello che egli fa, io non mi terrei mai né contenta né appagata, se io nollo levassi di terra; e se io fossi uomo come io son femina, io non vorrei che altri ch'io se ne 'mpacciasse.
Domine, fallo tristo: ubriaco doloroso che non si vergogna!
I giovani, vedute e udite queste cose, rivoltisi ad Arriguccio, gli dissero la maggior villania che mai a niun cattivo uom si dicesse; e ultimamente dissero:
- Noi ti perdoniam questa si come ad ebbro; ma guarda che per la vita tua da quinci innanzi simili novelle noi non sentiamo più, ché per certo, se più nulla ce ne viene agli orecchi, noi ti pagheremo di questa e di quella; - e così detto, se n'andarono.
Arriguccio, rimaso come uno smemorato, seco stesso non sappiendo se quello che fatto avea era stato vero o s'egli aveva sognato, senza più farne parola, lasciò la moglie in pace.
La qual, non solamente colla sua sagacità fuggì il pericol sopra stante ma s'aperse la via a poter fare nel tempo avvenire ogni suo piacere, senza paura alcuna più aver del marito.
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Novella Nona
Lidia moglie di Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il possa, le chiede tre cose, le quali ella gli fa tutte; e oltre a questo in presenza di Nicostrato si sollazza con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto.
Tanto era piaciuta la novella di Neifile, che né di ridere né di ragionar di quella si potevano le donne tenere, quantunque il re più volte silenzio loro avesse imposto, avendo comandato a Panfilo che la sua dicesse.
Ma pur, poi che tacquero, così Panfilo incominciò.
Io non credo, reverende donne, che niuna cosa sia, quantunque sia grave e dubbiosa, che a far non ardisca chi ferventemente ama.
La qual cosa quantunque in assai novelle sia stato dimostrato, nondimeno io il mi credo molto più, con una che dirvi intendo, mostrare, dove udirete d'una donna, alla qua le nelle sue opere fu troppo più favorevole la fortuna, che la ragione avveduta; e per ciò non consiglierei io alcuna che dietro alle pedate di colei, di cui dire intendo, s'arrischiasse d'andare, per ciò che non sempre è la fortuna in un modo disposta, né sono al mondo tutti gli uomini abbagliati igualmente.
In Argo, antichissima città di Grecia, per li suoi passati re molto più famosa che grande, fu già uno nobile uomo, il quale appellato fu Nicostrato, a cui già vicino alla vecchiezza la fortuna concedette per moglie una gran donna, non meno ardita che bella, detta per nome Lidia.
Teneva costui, sì come nobile uomo e ricco, molta famiglia e cani e uccelli, e grandissimo diletto prendea nelle cacce; e aveva tra gli altri suoi famigliari un giovinetto leggiadro e adorno e bello della persona e destro a qualunque cosa avesse voluta fare, chiamato Pirro; il quale Nicostrato oltre ad ogni altro amava e più di lui si fidava.
Di costui Lidia s'innamorò forte, tanto che né dì né notte in altra parte che con lui aver poteva il pensiere; del quale amore, o che Pirro non s'avvedesse o non volesse, niente mostrava se ne curasse, di che la donna intollerabile noia portava nell'animo.
E disposta del tutto di fargliele sentire, chiamò a sé una sua cameriera nomata Lusca, della quale ella si confidava molto, e sì le disse:
- Lusca, li benefici li quali tu hai da me ricevuti ti debbono fare a me obediente e fedele; e per ciò guarda che quello che io al presente ti dirò niuna persona senta giammai se non colui al quale da me ti fia imposto.
Come tu vedi, Lusca, io son giovane e fresca donna, e piena e copiosa di tutte quelle cose che alcuna può disiderare; e brievemente, fuor che d'una, non mi posso rammaricare, e questa è che gli anni del mio marito son troppi, se co' miei si misurano, per la qual cosa di quello che le giovani donne prendono più piacere io vivo poco contenta; e pur come l'altre disiderandolo, è buona pezza che io diliberai meco di non volere, se la fortuna m'è stata poco amica in darmi così vecchio marito, essere io nimica di me medesima in non saper trovar modo a' miei diletti e alla mia salute; e per avergli così compiuti in questo come nell'altre cose, ho per partito preso di volere, sì come di ciò più degno che alcun altro, che il nostro Pirro co' suoi abbracciamenti gli supplisca, e ho tanto amore in lui posto, che io non sento mai bene se non tanto quanto io il veggio o di lui penso; e se io senza indugio non mi ritruovo seco, per certo io me ne credo morire.
E per ciò, se la mia vita t'è cara, per quel modo che miglior ti parrà, il mio amore gli significherai e sì 'l pregherai da mia parte che gli piaccia di venire a me quando tu per lui andrai.
La cameriera disse di farlo volentieri; e come prima tempo e luogo le parve, tratto Pirro da parte, quanto seppe il meglio l'ambasciata gli fece della sua donna.
La qual cosa udendo Pirro, si maravigliò forte, sì come colui che mai d'alcuna cosa avveduto non s'era, e dubitò non la donna ciò facesse dirgli per tentarlo; per che subito e ruvidamente rispose:
- Lusca, io non posso credere che queste parole vengano dalla mia donna, e per ciò guarda quel che tu parli; e se pure da lei venissero, non credo che con l'animo dir te le faccia; e se pur con l'animo dir le facesse, il mio signore mi fa più onore che io non vaglio; io non farei a lui sì fatto oltraggio per la vita mia; e però guarda che tu più di sì fatte cose non mi ragioni.
La Lusca, non sbigottita per lo suo rigido parlare, gli disse:
- Pirro, e di queste e d'ogn'altra cosa che la mia donna m'imporrà ti parlerò io quante volte ella il mi comanderà, o piacere o noia ch'egli ti debbia essere; ma tu se' una bestia.
E turbatetta con le parole di Pirro se ne tornò alla donna, la quale udendole disiderò di morire, e dopo alcun giorno riparlò alla cameriera e disse:
- Lusca, tu sai che per lo primo colpo non cade la quercia; per che a me pare che tu da capo ritorni a colui che in mio pregiudicio nuovamente vuol divenir leale, e, prendendo tempo convenevole, gli mostra interamente il mio ardore e in tutto t'ingegna di far che la cosa abbia effetto; però che, se così s'intralasciasse, io ne morrei ed egli si crederebbe esser stato tentato; e dove il suo amor cerchiamo, ne seguirebbe odio.
La cameriera confortò la donna, e cercato di Pirro, il trovò lieto e ben disposto, e sì gli disse:
- Pirro, io ti mostrai, pochi dì sono, in quanto fuoco la tua donna e mia stea per l'amor che ella ti porta, e ora da capo te ne rifò certo, che, dove tu in su la durezza che l'altrieri dimostrasti dimori, vivi sicuro che ella viverà poco; per che io ti priego che ti piaccia di consolarla del suo disiderio; e dove tu pure in su la tua ostinazione stessi duro, là dove io per molto savio t'aveva, io t'avrò per uno scioccone.
Che gloria ti può egli esser maggiore che una così fatta donna, così bella, così gentile e così ricca, te sopra ogni altra cosa ami? Appresso questo, quanto ti puo'tu conoscere alla fortuna obligato, pensando che ella t'abbia parata dinanzi così fatta cosa, e a' disideri della tua giovinezza atta, e ancora un così fatto rifugio a' tuoi bisogni! Qual tuo pari conosci tu che per via di diletto meglio stea che starai tu, se tu sarai savio? Quale altro troverai tu che in arme, in cavalli, in robe e in denari possa star come tu starai, volendo il tuo amor concedere a costei?
Apri adunque l'animo alle mie parole e in te ritorna; e ricordati che una volta senza più suole avvenire che la Fortuna si fa altrui incontro col viso lieto e col grembo aperto; la quale chi allora non sa ricevere, poi, trovandosi povero e mendico, di sé e non di lei s'ha a rammaricare.
E oltre a questo non si vuol quella lealtà tra'servidori usare e'signori, che tra gli amici e pari si conviene; anzi gli deono così i servidori trattare, in quel che possono, come essi da loro trattati sono.
Speri tu, se tu avessi o bella moglie o madre o figliuola o sorella che a Nicostrato piacesse, che egli andasse la lealtà ritrovando che tu servar vuoi a lui della sua donna? Sciocco se' se tu 'l credi: abbi di certo, se le lusinghe e'prieghi non bastassono, che che ne dovesse a te parere, e'vi si adoperrebbe la forza.
Trattiamo adunque loro e le lor cose come essi noi e le nostre trattano.
Usa il beneficio della Fortuna; non la cacciare, falleti incontro e lei vegnente ricevi, ché per certo, se tu nol fai, lasciamo stare la morte la quale senza fallo alla tua donna ne seguirà, ma tu ancora te ne penterai tante volte che tu ne vorrai morire.
Pirro, il qual più fiate sopra le parole che la Lusca dette gli avea avea ripensato, per partito avea preso che, se ella più a lui ritornasse, di fare altra risposta e del tutto recarsi a compiacere alla donna, dove certificar si potesse che tentato non fosse; e per ciò rispose:
- Vedi, Lusca, tutte le cose che tu mi di'io le conosco vere, ma io conosco d'altra parte il mio signore molto savio e molto avveduto, e ponendomi tutti i suoi fatti in mano, io temo forte che Lidia con consiglio e voler di lui questo non faccia per dovermi tentare; e per ciò, dove tre cose ch'io domanderò voglia fare a chiarezza di me, per certo niuna cosa mi comanderà poi che io prestamente non faccia.
E quelle tre cose che io voglio son queste: primieramente che in presenzia di Nicostrato ella uccida il suo buono sparviere; appresso ch'ella mi mandi una ciocchetta della barba di Nicostrato; e ultimamente un dente di quegli di lui medesimo de' migliori.
Queste cose parvono alla Lusca gravi e alla donna gravissime; ma pure Amore, (che è buono confortatore e gran maestro di consigli, le fece diliberar di farlo, e per la sua cameriera gli mandò dicendo che quello che egli aveva addimandato pienamente fornirebbe, e tosto; e oltre a ciò, per ciò che egli così savio reputava Nicostrato, disse che in presenzia di lui con Pirro si sollazzerebbe e a Nicostrato farebbe credere che ciò non fosse vero.
Pirro adunque cominciò ad aspettare quello che far dovesse la gentil donna; la quale, avendo ivi a pochi dì Nicostrato dato un gran desinare, sì come usava spesse volte di fare, a certi gentili uomini, ed essendo già levate le tavole, vestita d'uno sciamito verde e ornata molto, e uscita della sua camera, in quella sala venne dove costoro erano, e veggente Pirro e ciascuno altro, se n'andò alla stanga sopra la quale lo sparviere era cotanto da Nicostrato tenuto caro, e scioltolo, quasi in mano sel volesse levare, e presolo per li geti, al muro il percosse e ucciselo.
E gridando verso lei Nicostrato: - Ohimè, donna, che hai tu fatto? - niente a lui rispose; ma, rivolta a' gentili uomini che con lui avevan mangiato, disse: - Signori, mal prenderei vendetta d'un re che mi facesse dispetto, se d'uno sparvier non avessi ardir di pigliarla.
Voi dovete sapere che questo uccello tutto il tempo da dover essere prestato dagli uomini al piacer delle donne lungamente m'ha tolto; per ciò che, sì come l'aurora suole apparire, così Nicostrato s'è levato, e salito a cavallo col suo sparviere in mano n'è andato alle pianure aperte a vederlo volare; e io, qual voi mi vedete, sola e mal contenta nel letto mi sono rimasa; per la qual cosa ho più volte avuta voglia di far ciò che io ho ora fatto, né altra cagione m'ha di ciò ritenuta se non l'aspettar di farlo in presenzia d'uomini che giusti giudici sieno alla mia querela, sì come io credo che voi sarete.
I gentili uomini che l'udivano, credendo non altramente esser fatta la sua affezione a Nicostrato che sonasser le parole, ridendo ciascuno e verso Nicostrato rivolti che turbato era cominciarono a dire:
- Deh! come la donna ha ben fatto a vendicare la sua ingiuria con la morte dello sparviere! - e con diversi motti sopra così fatta materia, essendosi già la donna in camera ritornata, in riso rivolsero il cruccio di Nicostrato.
Pirro, veduto questo, seco medesimo disse: - Alti principii ha dati la donna a' miei felici amori; faccia Iddio che ella perseveri.
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Ucciso adunque da Lidia lo sparviere, non trapassar molti giorni che, essendo ella nella sua camera insieme con Nicostrato, faccendogli carezze, con lui cominciò a cianciare, ed egli per sollazzo alquanto tiratala per li capelli, le diè cagione di mandare ad effetto la seconda cosa a lei domandata da Pirro; e prestamente lui per un picciolo lucignoletto preso della sua barba e ridendo, sì forte il tirò che tutto del mento gliele divelse.
Di che ramaricandosi Nicostrato, ella disse:
- Or che avesti, che fai cotal viso per ciò che io t'ho tratti forse sei peli della barba? Tu non sentivi quel ch'io, quando tu mi tiravi testeso i capelli.
E così d'una parola in una altra continuando il lor sollazzo, la donna cautamente guardò la ciocca della barba che tratta gli avea, e il dì medesimo la mandò al suo caro amante.
Della terza cosa entrò la donna in più pensiero; ma pur, sì come quella che era d'alto ingegno e Amor la faceva vie più, s'ebbe pensato che modo tener dovesse a darle compimento.
E avendo Nicostrato due fanciulli datigli da' padri loro acciò che in casa sua, per ciò che gentili uomini erano, apparassono alcun costume, dei quali, quando Nicostrato mangiava, l'uno gli tagliava innanzi e l'altro gli dava bere, fattigli chiamare amenduni, fece lor vedere che la bocca putiva loro e ammaestrogli che quando a Nicostrato servissono, tirassono il capo indietro il più che potessono, né questo mai dicessero a persona.
I giovanetti, credendole, cominciarono a tenere quella maniera che la donna aveva lor mostrata.
Per che ella una volta domandò Nicostrato:
- Se'ti tu accorto di ciò che questi fanciulli fanno quando ti servono?
Disse Nicostrato:
- Mai sì, anzi gli ho io voluti domandare perché il facciano.
A cui la donna disse:
- Non fare, ché io il ti so dire io, e holti buona pezza taciuto per non fartene noia; ma ora che io m'accorgo che altri comincia ad avvedersene, non è più da celarloti.
Questo non ti avviene per altro, se non che la bocca ti pute fieramente, e non so qual si sia la cagione, per ciò che ciò non soleva essere; e questa è bruttissima cosa, avendo tu ad usare con gentili uomini; e per ciò si vorrebbe veder modo di curarla.
Disse allora Nicostrato:
- Che potrebbe ciò essere? Avrei io in bocca dente niun guasto?
A cui Lidia disse:
- Forse che sì; - e menatolo ad una finestra, gli fece aprire la bocca, e poscia che ella ebbe d'una patte e d'altra riguardato, disse:
- O Nicostrato, e come il puoi tu tanto aver patito? Tu n'hai uno da questa parte, il quale, per quel che mi paia, non solamente è magagnato, ma egli è tutto fracido, e fermamente, se tu il terrai guari in bocca, egli guasterà quegli che son da lato; per che io ti consiglierei che tu nel cacciassi fuori, prima che l'opera andasse più innanzi.
Disse allora Nicostrato:
- Da poi che egli ti pare, ed egli mi piace; mandisi senza più indugio per un maestro il qual mel tragga.
Al quale la donna disse:
- Non piaccia a Dio che qui per questo venga maestro; e'mi pare che egli stea in maniera, che senza alcun maestro io medesima tel trarrò ottimamente.
E d'altra parte questi maestri son sì crudeli a far questi servigi, che il cuore nol mi patirebbe per niuna maniera di vederti o di sentirti tra le mani a niuno; e per ciò del tutto io voglio fare io medesima; ché almeno, se egli ti dorrà troppo, ti lascerò io incontanente, quello che il maestro non farebbe.
Fattisi adunque venire i ferri da tal servigio e mandato fuori della camera ogni persona, solamente seco la Lusca ritenne; e dentro serratesi, fece distender Nicostrato sopra un desco, e messegli le tanaglie in bocca, e preso uno de' denti suoi, quantunque egli forte per dolor gridasse, tenuto fermamente dall'una, fu dall'altra per viva forza un dente tirato fuori; e quel serbatosi, e presone un altro il quale sconciamente magagnato Lidia aveva in mano, a lui doloroso e quasi mezzo morto il mostrarono, dicendo:
- Vedi quello che tu hai tenuto in bocca già è cotanto.
Egli credendoselo, quantunque gravissima pena sostenuta avesse e molto se ne ramaricasse, pur, poi che fuor n'era, gli parve esser guarito; e con una cosa e con altra riconfortato, essendo la pena alleviata, s'uscì della camera.
La donna, preso il dente, tantosto al suo amante il mandò; il quale già certo del suo amore, sé ad ogni suo piacere offerse apparecchiato.
La donna, disiderosa di farlo più sicuro, e parendole ancora ogn'ora mille che con lui fosse, volendo quello che profferto gli avea attenergli, fatto sembiante d'essere inferma ed essendo un dì appresso mangiare da Nicostrato visitata, non veggendo con lui altri che Pirro, il pregò per alleggiamento della sua noia, che aiutar la dovessero ad andare infino nel giardino.
Per che Nicostrato dall'un de' lati e Pirro dall'altro presala, nel giardin la portarono e in un pratello a piè d'un bel pero la posarono; dove stati alquanto sedendosi, disse la donna, che già aveva fatto informar Pirro di ciò che avesse a fare:
- Pirro, io ho gran disiderio d'aver di quelle pere, e però montavi suso e gittane giù alquante.
Pirro, prestamente salitovi, cominciò a gittar giù delle pere; e mentre le gittava cominciò a dire:
- Eh, messere, che è ciò che voi fate? E voi, madonna, come non vi vergognate di sofferirlo in mia presenza? Credete voi che io sia cieco? Voi eravate pur testé così forte malata; come siete voi così tosto guerita che voi facciate tai cose? Le quali se pur far volete, voi avete tante belle camere; perché non in alcuna di quelle a far queste cose ve n'andate? E' sarà più onesto che farlo in mia presenza.
La donna, rivolta al marito, disse:
- Che dice Pirro? Farnetica egli?
Disse allora Pirro:
- Non farnetico no, madonna; non credete voi che i veggia?
Nicostrato si maravigliava forte, e disse:
- Pirro, veramente io credo che tu sogni.
Al quale Pirro rispose:
- Signor mio, non sogno né mica, né voi anche non sognate; anzi vi dimenate ben sì che, se così si dimenasse questo pero, egli non ce ne rimarrebbe su niuna.
Disse la donna allora:
- Che può questo essere? Potrebbe egli esser vero che gli paresse ver ciò ch'e'dice? Se Dio mi salvi, se io fossi sana come io fu'già, che io vi sarrei suso, per vedere che maraviglie sien queste che costui dice che vede.
Pirro d'in sul pero pur diceva, e continuava queste novelle; al qual Nicostrato disse:
- Scendi giù; - ed egli scese; a cui egli disse: - Che di' tu che vedi?
Disse Pirro:
- Io credo che voi m'abbiate per smemorato o per trasognato; vedeva voi addosso alla donna vostra, poi pur dir mel conviene; e poi discendendo io vi vidi levare e porvi così dove voi siete a sedere.
- Fermamente, - disse Nicostrato - eri tu in questo smemorato, ché noi non ci siamo, poi che in sul pero salisti, punto mossi, se non come tu vedi.
Al qual Pirro disse:
- Perché ne facciam noi quistione? Io vi pur vidi; e se io vi vidi, io vi vidi in sul vostro.
Nicostrato più ogn'ora si maravigliava, tanto che egli disse:
- Ben vo'vedere se questo pero è incantato, e che chi v'è su vegga le maraviglie; - e montovvi su.
Sopra il quale come egli fu, la donna insieme con Pirro s'incominciarono a sollazzare; il che Nicostrato veggendo cominciò a gridare:
- Ahi rea femina, che è quel che tu fai? E tu Pirro, di cui io più mi fidava? - e così dicendo cominciò a scendere del pero.
La donna e Pirro dicevano:
- Noi ci seggiamo - e lui veggendo discendere, a seder si tornarono in quella guisa che lasciati gli avea.
Come Nicostrato fu giù e vide costoro dove lasciati gli avea, così lor cominciò a dir villania.
Al quale Pirro disse:
- Nicostrato, ora veramente confesso io che, come voi diciavate davanti, che io falsamente vedessi mentre fui sopra 'l pero; né ad altro il conosco se non a questo, che io veggio e so che voi falsamente avete veduto.
E che io dica il vero, niun'altra cosa vel mostri, se non l'aver riguardo e pensare a che ora la vostra donna, la quale è onestissima e più savia che altra volendo di tal cosa farvi oltraggio, si recherebbe a farlo davanti agli occhi vostri.
Di me non vo'dire, che mi lascerei prima squartare che io il pur pensassi, non che io il venissi a fare in vostra presenza.
Per che di certo la magagna di questo transvedere dee procedere dal pero; per ciò che tutto il mondo non m'avrebbe fatto discredere che voi qui non foste colla donna vostra carnalmente giaciuto, se io non udissi dire a voi che egli vi fosse paruto che io facessi quello che io so certissimamente che io non pensai, non che io facessi mai.
La donna appresso, che quasi tutta turbata s'era levata in piè, cominciò a dire:
- Sia con la mala ventura, se tu m'hai per sì poco sentita, che, se io volessi attendere a queste tristezze che tu di'che vedevi, io le venissi a fare dinanzi agli occhi tuoi.
Sii certo di questo che qualora volontà me ne venisse, io non verrei qui, anzi mi crederrei sapere essere in una delle nostre camere, in guisa e in maniera che gran cosa mi parrebbe che tu il risapessi giammai.
Nicostrato, al qual vero parea ciò che dicea l'uno e l'altro che essi quivi dinanzi a lui mai a tale atto non si dovessero esser condotti, lasciate stare le parole e le riprensioni di tal maniera, cominciò a ragionar della novità del fatto e del miracolo della vista che così si cambiava a chi su vi montava.
Ma la donna, che della oppinione che Nicostrato mostrava d'avere avuta di lei si mostrava turbata, disse:
- Veramente questo pero non ne farà mai più niuna, né a me né ad altra donna, di queste vergogne, se io potrò; e perciò, Pirro, corri e va e reca una scure, e ad una ora te e me vendica tagliandolo, come che molto meglio sarebbe a dar con essa in capo a Nicostrato, il quale senza considerazione alcuna così tosto si lasciò abbagliar gli occhi dello 'ntelletto; ché, quantunque a quegli che tu hai in testa paresse ciò che tu di, per niuna cosa dovevi nel giudicio della tua mente comprendere o consentire che ciò fosse.
Pirro prestissimo andò per la scure e tagliò il pero; il quale come la donna vide caduto, disse verso Nicostrato:
- Poscia che io veggio abbattuto il nimico della mia onestà, la mia ira è ita via; - e a Nicostrato, che di ciò la pregava, benignamente perdonò, imponendogli che più non gli avvenisse di presummere, di colei che più che sé l'amava, una così fatta cosa giammai.
Così il misero marito schernito con lei insieme e col suo amante nel palagio se ne tornarono, nel quale poi molte volte Pirro di Lidia, ed ella di lui, con più agio presero piacere e di letto.
Dio ce ne dea a noi.
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Novella Decima
Due sanesi amano una donna comare dell'uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori.
Restava solamente al re il dover novellare, il quale, poi che vide le donne racchetate, che del pero tagliato che colpa non avea si dolevano, incominciò.
Manifestissima cosa è che ogni giusto re primo servatore dee essere delle leggi fatte da lui, e se altro ne fa, servo degno di punizione, e non re, si dee giudicare; nel quale peccato e riprensione a me, che vostro re sono, quasi costretto cader con viene.
Egli è il vero che io ieri la legge diedi a' nostri ragionamenti fatti oggi, con intenzione di non voler questo dì il mio privilegio usare; ma soggiacendo con voi insieme a quella, di quello ragionare che voi tutti ragionato avete; ma egli non s solamente è stato raccontato quello che io imaginato avea di raccontare ma sonsi sopra quello tante altre cose e molto più belle dette, che io per me, quantunque la memoria ricerchi, rammentar non mi posso né conoscere che io intorno a sì fatta materia dir potessi cosa che alle dette s'appareggiasse; e per ciò, dovendo peccare nella legge da me medesimo fatta, sì come degno di punizione, infino ad ora ad ogni ammenda che comandata mi fia mi proffero apparecchiato, e al mio privilegio usitato mi tornerò.
E dico che la novella detta da Elissa del compare e della comare, e appresso la bessaggine de' sanesi, hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando stare le beffe agli sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi tirano a dovervi con tare una novelletta di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non si dee, nondimeno sarà in parte piacevole ad ascoltare.
Furono adunque in Siena due giovani popolari, de' quali l'uno ebbe nome Tingoccio Mini e l'altro fu chiamato Meuccio di Tura, e abitavano in porta Salaia, e quasi mai non usavano se non l'un con l'altro, e per quello che paresse s'amavan molto; e andando, come gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito avevano della gloria e della miseria che all'anime di coloro che morivano era, secondo li lor meriti, conceduta nell'altro mondo.
Delle quali cose disiderando di saper certa novella, né trovando il modo, insieme si promisero che qual prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli novelle di quello che egli desiderava; e questo fermarono con giuramento.
Avendosi adunque questa promession fatta, e insieme continuamente usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d'uno Ambruogio Anselmini, che stava in Camporeggi, il qual d'una sua donna chiamata monna Mita aveva avuto un figliuolo.
Il qual Tingoccio, insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna, non ostante il comparatico, s'innamorò di lei; e Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a Tingoccio, se ne innamorò.
E di questo amore l'un si guardava dall'altro, ma non per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per la cattività che a lui medesimo pareva fare d'amare la comare, e sarebbesi vergognato che alcun l'avesse saputo; Meuccio non se ne guardava per questo.
ma perché già avveduto s'era che ella piaceva a Tingoccio.
Laonde egli diceva: - Se io questo gli discuopro, egli prenderà gelosia di me; e potendole ad ogni suo piacere parlare, sì come compare, in ciò che egli potrà le mi metterà in odio, e così mai cosa che mi piaccia di lei io non avrò.
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Ora, amando questi due giovani, come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era più destro il potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare, e con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacere suo; di che Meuccio s'accorse bene; e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non avesse materia né cagione di guastargli o d'impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista di non avvedersene.
Così amando i due compagni, l'uno più felicemente che l'altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò che una infermità ne gli sopravenne, la quale dopo alquanti dì sì l'aggravò forte che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita.
E trapassato, il terzo dì appresso (ché forse prima non aveva potuto) se ne venne, secondo la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual forte dormiva, chiamò.
Meuccio destatosi disse:
- Qual se' tu?
A cui egli rispose:
- Io son Tingoccio, il qual, secondo la promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle dell'altro mondo.
Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse:
- Tu sia il ben venuto, fratel mio; - e poi il domandò se egli era perduto.
Al qual Tingoccio rispose:
- Perdute son le cose che non si ritruovano; e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto?
- Deh, - disse Meuccio - io non dico così ; ma io ti domando se tu se'tra l'anime dannate nel fuoco pennace di ninferno.
A cui Tingoccio rispose:
- Costetto no, ma io son bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto.
Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun de' peccati che di qua si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte.
Poi gli domandò Meuccio s'egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa.
A cui Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dir delle messe e delle orazioni e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là, a cui Meuccio disse di farlo volentieri.
E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo disse:
- Ben che mi ricorda, o Tingoccio: della comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t'è di là data?
A cui Tingoccio rispose:
- Fratel mio, come io giunsi di là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente, il quale mi comandò che io andassi in quel luogo nel quale io purgo in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condennati che io; e stando io tra loro, e ricordandomi di ciò che già fatto avea con la comare e aspettando per quello troppo maggior pena che quella che data m'era, quantunque io fossi in un gran fuoco e molto ardente, tutto di paura tremava.
Il che sentendo un che m'era dal lato, mi disse: - Che hai tu più che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco? - - Oh, - diss'io - amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d'un gran peccato che io feci già.
- Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse.
A cui io dissi: - Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto che io me ne scorticai.
- Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: - Va, sciocco, non dubitare; ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari; - il che io udendo tutto mi rassicurai.
E detto questo, appressandosi il giorno, disse:
- Meuccio, fatti con Dio, ché io non posso più esser con teco; - e subitamente andò via.
Meuccio, avendo udito che di là niuna ragione si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie n'avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio.
Le quali cose se frate Rinaldo avesse saputo, non gli sarebbe stato bisogno d'andare sillogizzando quando convertì a' suoi piaceri la sua buona comare.
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Conclusione
Zeffiro era levato per lo sole che al ponente s'avvicinava, quando il re, finita la sua novella né alcuno altro restandogli a dire, levatasi la corona di testa, sopra il capo la pose alla Lauretta, dicendo:
- Madonna, io vi corono di voi medesima reina della nostra brigata; quello omai che crederete che piacer sia di tutti e consolazione, sì come donna, comanderete; - e riposesi a sedere.
La Lauretta, divenuta reina, si fece chiamare il siniscalco, al quale impose che ordinasse che nella piacevole valle alquanto a migliore ora che l'usato si mettesser le tavole, acciò che poi adagio si potessero al palagio tornare; e appresso ciò che a fare avesse, mentre il suo reggimento durasse, gli divisò.
Quindi, rivolta alla compagnia, disse:
- Dioneo volle ieri che oggi si ragionasse delle beffe che le donne fanno a' mariti; e, se non fosse ch'io non voglio mostrare d'essere di schiatta di can botolo che incontanente si vuol vendicare, io direi che domane si dovesse ragionare delle beffe che gli uomini fanno alle lor mogli.
Ma, lasciando star questo, dico che ciascun pensi di dire di quelle beffe che tutto il giorno, o donna ad uomo, o uomo a donna, o l'uno uomo all'altro si fanno; e credo che in questo sarà non men di piacevol ragionare, che stato sia questo giorno; - e così detto, levatasi in piè, per infino ad ora di cena licenziò la brigata.
Levaronsi adunque le donne e gli uomini parimente, de' quali alcuni scalzi per la chiara acqua cominciarono ad andare, e altri tra'belli e diritti alberi sopra il verde prato s'andavano diportando.
Dioneo e la Fiammetta gran pezza cantarono insieme d'Arcita e di Palemone; e così, vari e diversi diletti pigliando, il tempo infino all'ora della cena con grandissimo piacer trapassarono.
La qual venuta e lungo al pelaghetto a tavola postisi, quivi al canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da un'aura soave che da quelle montagnette dattorno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia cenarono.
E levate le tavole, poi che alquanto la piacevol valle ebber circuita, essendo ancora il sole alto a mezzo vespro, sì come alla loro reina piacque, in verso la loro usata dimora con lento passo ripresero il cammino; e motteggiando e cianciando di ben mille cose, così di quelle che il dì erano state ragionate come d'altre, al bel palagio assai vicino di notte pervennero.
Dove con freschissimi vini e con confetti la fatica del picciol cammin cacciata via, intorno della bella fontana di presente furono in sul danzare, quando al suono della cornamusa di Tindaro e quando d'altri suoni carolando.
Ma alla fine la reina comandò a Filomena che dicesse una canzone, la quale così incominciò:
Deh lassa la mia vita!
Sarà giammai ch'io possa ritornare
donde mi tolse noiosa partita?
Certo io non so, tanto è ' disio focoso
che io porto nel petto,
di ritrovarmi ov'io lassa già fui.
O caro bene, o solo mio riposo,
che 'l mio cuor tien distretto,
deh dilmi tu, ché domandarne altrui
non oso, né so cui,
deh, signor mio, deh fammelo sperare
sì ch'io conforti l'anima smarrita.
I' non so ben ridir qual fu 'l piacere
che sì m'ha infiammata,
ché io non trovo dì né notte loco,
perché l'udire e 'l sentire e 'l vedere,
con forza non usata,
ciascun per sé accese novo foco;
nel qual tutta mi coco,
né mi può altri che tu confortare,
o ritornar la virtù sbigottita.
Deh dimmi s'esser dee, e quando fia,
ch'io ti trovi giammai,
dov'io baciai quegli occhi che m'han morta.
Dimmel, caro mio bene, anima mia
quando tu vi verrai, e, col dir - tosto, - alquanto mi conforta.
Sia la dimora corta
d'ora al venire, e poi lunga allo stare,
ch'io non men curo, sì m'ha Amor ferita.
Se egli avvien che io mai più ti tenga,
non so s'io sarò sciocca,
com'io or fui, a lasciarti partire.
Io ti terrò, e che può sì n'avvenga;
e della dolce bocca
convien ch'io sodisfaccia al mio disire.
D'altro non voglio or dire.
Dunque vien tosto, vienmi ad abbracciare
che 'l pur pensarlo di cantar m'invita.
Estimar fece questa canne a tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per ciò che per le parole di quella pareva che ella più avanti che la vista sola n'avesse sentito, tenendonela più felice, invidia per tali vi furono le ne fu avuta.
Ma poi che la sua canzon fu finita, ricordandosi la reina che il dì seguente era venerdì, così a tutti piacevolmente disse:
- Voi sapete, nobili donne e voi giovani, che domane è quel dì che alla passione del nostro Signore è consecrato, il qual, se ben vi ricorda, noi divotamente celebrammo, essendo reina Neifile, e a' ragionamenti dilettevoli demmo luogo, e il simigliante facemmo del sabato susseguente.
Per che, volendo il buono essemplo datone da Neifile seguitare, estimo che onesta cosa sia, che domane e l'altro dì, come i passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole novellare ci asteniamo, quello a memoria riducendoci che in così fatti giorni per la salute delle nostre anime addivenne.
Piacque a tutti il divoto parlare della loro reina, dalla quale licenziati, essendo già buona pezza di notte passata, tutti s'andarono a riposare.
Finisce la settima giornata del Decameron
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Ottava Giornata
Introduzione alla ottava giornata
Novella prima
Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli, sì gliele dà, e poi in presenzia di lei a Guasparruolo dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
Novella seconda
Il Prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo proverbiando la buona donna.
Novella terza
Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia, ed egli turbato la batte, e a' suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.
Novella quarta
Il proposto di Fiesole ama una donna vedova; non è amato da lei, e credendosi giacer con lei, giace con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo.
Novella quinta
Tre giovani traggono le brache ad un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione.
Novella sesta
Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo con galle di gengiovo e con vernaccia, e a lui ne danno due, l'una dopo l'altra, di quelle del cane confettate in aloè, e pare che l'abbia avuto egli stesso; fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
Novella settima
Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d'altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a' tafani e al sole.
Novella ottava
Due usano insieme; l'uno con la moglie dell'altro si giace; l'altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che l'uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l'un dentro, l'altro con la moglie dell'un si giace.
Novella nona
Maestro Simone medico, da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d'una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi.
Novella decima
Una ciciliana maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato; il quale, sembiante faccendo d'esservi tornato con molta più mercatantia che prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio.
Conclusione dell'ottava giornata
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Introduzione
Comincia l'ottava giornata, nella quale, sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo, o uomo a donna, o l'uno uomo all'altro si fanno.
Già nella sommità de' più alti monti apparivano la domenica mattina i raggi della surgente luce e, ogni ombra partitasi, manifestamente le cose si conosceano, quando la reina levatasi con la sua compagnia, primieramente alquanto su per le rugiadose erbette andarono, e poi in su la mezza terza una chiesetta lor vicina visitata, in quella il divino officio ascoltarono; e a casa tornatisene, poi che con letizia e con festa ebber mangiato, cantarono e danzarono alquanto, e appresso, licenziati dalla reina, chi volle andare a riposarsi potè.
Ma, avendo il sol già passato il cerchio di meriggio, come alla reina piacque, al novellare usato tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento della reina così Neifile cominciò.
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Novella Prima
Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli, sì gliele dà, e poi in presenzia di lei a Guasparruolo dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
Se così ha disposto Iddio che io debba alla presente giornata dare con la mia novella cominciamento, ed el mi piace.
E per ciò, amorose donne, con ciò sia cosa che molto detto si sia delle beffe fatte dalle donne agli uomini, una fattane da uno uomo ad una donna mi piace di raccontarne, non già perché io intenda in quella di biasimare ciò che l'uom fece o di dire che alla donna non fosse bene investito, anzi per commendar l'uomo e biasimare la donna, e per mostrare che anche gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da cui egli credono son beffati; avvegna che, chi volesse più propriamente parlare, quello che io dir debbo non si direbbe beffa, anzi si direbbe merito; per ciò che, con ciò sia cosa che ciascuna donna debba essere onestissima e la sua castità come la sua vita guardare, né per alcuna cagione a contaminarla conducersi; e questo non potendosi così appieno tuttavia, come si converrebbe, per la fragilità nostra; affermo colei esser degna del fuoco la quale a ciò per prezzo si conduce; dove chi per amore, conoscendo le sue forze grandissime, perviene, da giudice non troppo rigido merita perdono, come, pochi dì son passati, ne mostrò Filostrato essere stato in madonna Filippa osservato in Prato.
Fu adunque già in Melano un tedesco al soldo, il cui nome fu Gulfardo, pro'della persona e assai leale a coloro ne'cui servigi si mettea, il che rade volte suole de' tedeschi a venire; e per ciò che egli era nelle prestanze de' denari che fatte gli erano lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo utile ogni quantità di denari gli avrebber prestata.
Pose costui, in Melan dimorando, l'amor suo in una donna assai bella, chiamata madonna Ambruogia, moglie d'un ricco mercatante, che aveva nome Guasparruol Cagastraccio, il quale era assai suo conoscente e amico; e amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare, pregandola che le dovesse piacere d'essergli del suo amor cortese, e che egli era dalla sua parte presto a dover far ciò che ella gli comandasse.
La donna, dopo molte novelle, venne a questa conclusione, che ella era presta di far ciò che a Gulfardo piacesse, dove due cose ne dovesser seguire: l'una, che questo non dovesse mai per lui esser manifestato ad alcuna persona; l'altra, che, con ciò fosse cosa che ella avesse per alcuna sua cosa bisogno di fiorini dugento d'oro, voleva che egli, che ricco uomo era, gliele donasse, e appresso sempre sarebbe al suo servigio.
Gulfardo, udendo la 'ngordigia di costei, sdegnato per la viltà di lei, la quale egli credeva che fosse una valente donna, quasi in odio trasmutò il fervente amore, e pensò di doverla beffare, e mandolle dicendo che molto volentieri e quello e ogn'altra cosa, che egli potesse, che le piacesse; e per ciò mandassegli pure a dire quando ella volesse che egli andasse a lei, ché egli gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun sentirebbe, se non un suo compagno di cui egli si fidava molto e che sempre in sua compagnia andava in ciò che faceva.
La donna, anzi cattiva femina, udendo questo, fu contenta, e mandogli dicendo che Guasparruolo suo marito doveva ivi a pochi dì per sue bisogne andare infino a Genova, e allora ella gliele farebbe assapere e manderebbe per lui.
Gulfardo, quando tempo gli parve, se n'andò a Guasparruolo e sì gli disse:
- Io son per fare un mio fatto, per lo quale mi bisognano fiorini dugento d'oro, li quali io voglio che tu mi presti con quello utile che tu mi suogli prestare degli altri.
Guasparruolo disse che volentieri, e di presente gli annoverò i denari.
Ivi a pochi giorni Guasparruolo andò a Genova, come la donna aveva detto; per la qual cosa la donna mandò a Gulfardo che a lei dovesse venire e recare li dugento fiorin d'oro.
Gulfardo, preso il compagno suo, se n'andò a casa della donna, e trovatala che l'aspettava, la prima cosa che fece, le mise in mano questi dugento fiorin d'oro, veggente il suo compagno, e sì le disse:
- Madonna, tenete questi denari, e daretegli a vostro marito quando serà tornato.
La donna gli prese, e non s'avvide perché Gulfardo dicesse così; ma si credette che egli il facesse, acciò che 'l compagno suo non s'accorgesse che egli a lei per via di prezzo gli desse.
Per che ella disse:
- Io il farò volentieri, ma io voglio vedere quanti sono; - e versatigli sopra una tavola e trovatigli esser dugento, seco forte contenta, gli ripose, e tornò a Gulfardo, e lui nella sua camera menato, non solamente quella volta, ma molte altre, avanti che 'l marito tornasse da Genova, della sua persona gli sodisfece.
Tornato Guasparruolo da Genova, di presente Gulfardo, avendo appostato che insieme con la moglie era, [preso il compagno suo], se n'andò a lui, e in presenza di lei disse:
- Guasparruolo, i denari, cioè li dugento fiorin d'oro che l'altrier mi prestasti, non m'ebber luogo, per ciò che io non pote'fornir la bisogna per la quale gli presi; e per ciò io gli recai qui di presente alla donna tua, e sì gliele diedi; e per ciò dannerai la mia ragione.
Guasparruolo, volto alla moglie, la domandò se avuti gli avea.
Ella, che quivi vedeva il testimonio, nol seppe negare, ma disse:
- Mai sì che io gli ebbi, né me n'era ancora ricordata di dirloti.
Disse allora Guasparruolo:
- Gulfardo, io son contento; andatevi pur con Dio, che io acconcerò bene la vostra ragione.
Gulfardo partitosi, e la donna rimasa scornata diede al marito il disonesto prezzo della sua cattività; e così il sagace amante senza costo godé della sua avara donna.
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Novella Seconda
Il Prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo proverbiando la buona donna.
Commendavano igualmente e gli uomini e le donne ciò che Gulfardo fatto aveva alla 'ngorda melanese, quando la reina a Panfilo voltatasi, sorridendo gl'impose ch'el seguitasse; per la qual cosa Panfilo incominciò.
Belle donne, a me occorre di dire una novelletta contro a coloro li quali continuamente n'offendono senza poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a' preti, li quali sopra le nostre mogli hanno bandita la croce, e par loro non altramenti aver guadagnato il perdono di colpa e di pena, quando una se ne possono metter sotto, che se d'Alessandria avessero il soldano menato legato a Vignone.
Il che i secolari cattivelli non possono a lor fare; come che nelle madri, nelle sirocchie, nell'amiche e nelle figliuole con non meno ardore, che essi le lor mogli assaliscano, vendichino l'ire loro.
E per ciò io intendo raccontarvi uno amorazzo contadino, più da ridere per la conclusione che lungo di parole, del quale ancora potrete per frutto cogliere che a' preti non sia sempre ogni cosa da credere.
Dico adunque che a Varlungo, villa assai vicina di qui, come ciascuna di voi o sa o puote avere udito, fu un valente prete e gagliardo della persona ne'servigi delle donne, il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante parolozze la domenica a piè dell'olmo ricreava i suoi popolani; e meglio le lor donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro prete che prima vi fosse stato, visitava, portando loro della festa e dell'acqua benedetta e alcun moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione.
Ora avvenne che, tra l'altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli piacque, che aveva nome monna Belcolore, moglie d'un lavoratore che si facea chiamare Bentivegna del Mazzo, la qual nel vero era pure una piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata, e atta a meglio saper macinare che alcuna altra.
E oltre a ciò era quella che meglio sapeva sonare il cembalo e cantare: L'acqua corre la borrana, e menare la ridda e il ballonchio, quando bisogno faceva, che vicina che ella avesse, con bel moccichino e gentile in mano.
Per le quali cose messer lo prete ne 'nvaghì sì forte, che egli ne menava smanie; e tutto 'l dì andava aiato per poterla vedere; e quando la domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie e un Sanctus sforzandosi ben di mostrarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino che ragghiasse, dove, quando non la vi vedeva, si passava assai leggermente; ma pure sapeva sì fare che Bentivegna del Mazzo non se ne avvedeva, né ancora vicino che egli avesse.
E per potere più avere la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava, e quando le mandava un mazzuol d'agli freschi, che egli aveva i più belli della contrada in un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli, e talora un mazzuol di cipolle maligie o di scalogni; e, quando si vedeva tempo, guatatala un poco in cagnesco, per amorevolezza la rimorchiava, ed ella cotal salvatichetta, faccendo vista di non avvedersene, andava pure oltre in contegno; per che messer lo prete non ne poteva venire a capo.
Ora avvenne un dì che, andando il prete di fitto meriggio per la contrada or qua or là zazzeato, scontrò Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose innanzi; e fattogli motto, il domandò dov'egli andava.
A cui Bentivegna rispose:
- Gnaffe, sere, in buona verità io vo infino a città per alcuna mia vicenda, e porto queste cose a ser Bonaccorri da Ginestreto, che m'aiuti di non so che m'ha fatto richiedere per una comparigione del parentorio per lo pericolator suo il giudice del dificio.
Il prete lieto disse:
- Ben fai, figliuolo; or va con la mia benedizione, e torna tosto; e se ti venisse veduto Lapuccio o Naldino, non t'esca di mente di dir lor che mi rechino quelle combine per li coreggiati miei.
Bentivegna disse che sarebbe fatto; e venendosene verso Firenze, si pensò il prete che ora era tempo d'andare alla Bel colore e di provare sua ventura; e messasi la via tra'piedi, non ristette sì fu a casa di lei, ed entrato dentro disse:
- Dio ci mandi bene, chi è di qua?
La Belcolore, ch'era andata in balco, udendol disse:
- O sere, voi siate il ben venuto; che andate voi zacconato per questo caldo?
Il prete rispose:
- Se Dio mi dea bene, che io mi vengo a star con teco un pezzo, per ciò che io trovai l'uom tuo che andava a città.
La Belcolore, scesa giù, si pose a sedere, e cominciò nettar sementa di cavolini, che il marito avea poco innanzi trebbiati.
Il prete le cominciò a dire:
- Bene, Belcolore, de' mi tu far sempre mai morire questo modo?
La Belcolore cominciò a ridere e a dire:
- O che ve fo io?
Disse il prete:
- Non mi fai nulla, ma tu non mi lasci fare a te quei ch'io vorrei e che Iddio comandò.
Disse la Belcolore:
- Deh! andate, andate: o fanno i preti così fatte cose?
Il prete rispose:
- Sì facciam noi meglio che gli altri uomini; o perché no? E dicoti più, che noi facciamo vie miglior lavorio; e sai perché? Perché noi maciniamo a raccolta; ma in verità bene a tuo uopo, se tu stai cheta e lascimi fare.
Disse la Belcolore:
- O che bene a mio uopo potrebbe esser questo, ché siete tutti quanti più scarsi che 'l fistolo?
Allora il prete disse:
- Io non so, chiedi pur tu: o vuogli un paio di scarpette, o vuogli un frenello, o vuogli una bella fetta di stame, o ciò che tu vuogli.
Disse la Belcolore:
- Frate, bene sta! Io me n'ho di coteste cose; ma se voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un servigio, e io farò ciò che voi vorrete?
Allora disse il prete:
- Di'ciò che tu vuogli, e io il farò volentieri.
La Belcolore allora disse:
- Egli mi conviene andar sabato a Firenze a render lana che io ho filata e a far racconciare il filatoio mio; e se voi mi prestate cinque lire, che so che l'avete, io ricoglierò dall'usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale dai dì delle feste, che io recai a marito, ché vedete che non ci posso andare a santo né in niun buon luogo, perché io non l'ho; e io sempre mai poscia farò ciò che voi vorrete.
Rispose il prete:
- Se Dio mi dea il buono anno, io non gli ho allato; ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che tu gli avrai molto volentieri.
- Sì, - disse la Belcolore - tutti siete così gran promettitori, e poscia non attenete altrui nulla; credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n'andò col ceteratoio? Alla fè di Dio non farete, ché ella n'è divenuta femina di mondo pur per ciò; se voi non gli avete, e voi andate per essi.
- Deh! - disse il prete - non mi fare ora andare infino a casa; ché vedi che ho così ritta la ventura testè che non c'è persona, e forse quand'io tornassi ci sarebbe chi che sia che c'impaccerebbe; e io non so quando e'mi si venga così ben fatto come ora.
Ed ella disse:
- Bene sta; se voi volete andar, sì andate; se non, sì ve ne durate.
Il prete, veggendo che ella non era acconcia a far cosa che gli piacesse, se non a salvum me fac, ed egli volea fare sine custodia, disse:
- Ecco, tu non mi credi che io te gli rechi; acciò che tu mi creda, io ti lascerò pegno questo mio tabarro di sbiavato.
La Belcolore levò alto il viso e disse:
- Sì, cotesto tabarro, o che vale egli?
Disse il prete:
- Come, che vale? Io voglio che tu sappi che egli è di duagio infino in treagio, e hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio, e non è ancora quindici dì che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, ed ebbine buon mercato de soldi ben cinque, per quel che mi dice Buglietto d'Alberto, che sai che si conosce così bene di questi panni sbiavati.
- O, sié? - disse la Belcolore - se Dio m'aiuti, io non l'averei mai creduto; ma datemelo in prima.
Messer lo prete, ch'aveva carica la balestra, trattosi il tabarro, gliele diede; ed ella, poi che riposto l'ebbe, disse:
- Sere, andiancene qua nella capanna, che non vi vien mai persona; - e così fecero.
E quivi il prete, dandole i più dolci baciozzi del mondo e faccendola parente di messer Domenedio, con lei una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in gonnella, che pareva che venisse da servire a nozze, se ne tornò al santo.
Quivi, pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l'anno d'offerta non valevan la metà di cinque lire, gli parve aver mal fatto, e pentessi d'aver lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riavere lo potesse senza costo.
E per ciò che alquanto era maliziosetto, s'avvisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo, e vennegli fatto; per ciò che il dì seguente, essendo festa, egli mandò un fanciul d'un suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo della pietra, però che desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti, sì che egli voleva far della salsa.
La Belcolore gliele mandò.
E come fu in su l'ora del desinare, e 'l prete appostò quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor manicassero, e chiamato il chierico suo, gli disse:
- Togli quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e di': - Dice il sere che gran mercè, e che voi gli rimandiate il tabarro che 'l fanciullo vi lasciò per ricordanza.
-
Il cherico andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a desco che desinavano.
Quivi, posto giù il mortaio, fece l'ambasciata del prete.
La Belcolore, udendosi richiedere il tabarro, volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse:
- Dunque toi tu ricordanza al sere? Fo boto a Cristo, che mi vien voglia di darti un gran sergozzone; va, rendigliel tosto, che canciola te nasca; e guarda che di cosa che voglia mai, io dico s'e'volesse l'asino nostro, non ch'altro, non gli sia detto di no.
La Belcolore brontolando si levò, e andatasene al soppidiano, ne trasse il tabarro e diello al cherico e disse:
- Dirai così al sere da mia parte: - La Belcolore dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa in suo mortaio, non l'avete voi sì bello onor fatto di questa.
-
Il cherico se n'andò col tabarro e fece l'ambasciata al sere, a cui il prete ridendo disse:
- Dira'le, quando tu la vedrai, che s'ella non ci presterà il mortaio, io non presterrò a lei il pestello; vada l'un per Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse perché egli l'aveva garrita, e non se ne curò.
Ma la Belcolore, rimasa scornata, venne in iscrezio col sere, e tennegli favella insino a vendemmia; poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del Lucifero maggiore, per bella paura entro, col mosto e con le castagne calde si rappattumò con lui, e più volte insieme fecer poi gozzoviglia.
E in iscambio delle cinque lire le fece il prete rincartare il cembal suo e appiccarvi un sonagliuzzo, ed ella fu contenta.
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Novella Terza
Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia, ed egli turbato la batte, e a' suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.
Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancor ridono, la reina ad Elissa commise che seguitasse, la quale ancora ridendo incominciò.
Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrà fatto di farvi con una mia novelletta, non men vera che piacevole, tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua, ma io me ne 'ngegnerò.
Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il più del tempo con due altri dipintori usava, chiamati l'un Bruno e l'altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de' modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano.
Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto e avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune cose della simplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de' fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa.
E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le dipinture e gl'intagli del tabernacolo il quale è sopra l'altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione; e informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s'accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario.
A'quali ragionamenti Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero.
Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de' Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d'acqua.
- Oh, - disse Calandrino - cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de' capponi che cuocon coloro?
Rispose Maso:
- Mangiansegli i Baschi tutti.
Disse allora Calandrino:
- Fostivi tu mai?
A cui Maso rispose:
- Di'tu se io vi fu'mai? Sì vi sono stato così una volta come mille.
Disse allora Calandrino:
- E quante miglia ci ha?
Maso rispose:
- Haccene più di millanta, che tutta notte canta.
Disse Calandrino:
- Dunque dee egli essere più là che Abruzzi.
- Sì bene, - rispose Maso - si è cavelle.
Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e così l'aveva per vere, e disse:
- Troppo ci è di lungi a' fatti miei, ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei maccheroni, e tormene una satolla.
Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre così virtuose?
A cui Maso rispose:
- Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù: l'una sono i macigni da Settignano e da Montici, per virtù de' quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina; e per ciò si dice egli in que'paesi di là, che da Dio vengono le grazie e da Montici le macine; ma ecci di questi macigni sì gran quantità, che appo noi è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de' quali v'ha maggior montagne che monte Morello che rilucon di mezza notte vatti con Dio.
E sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella, prima che elle si forassero, e portassele al soldano, n'avrebbe ciò che volesse.
L'altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virtù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sè, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è.
Allora Calandrin disse:
- Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si truova?
A cui Maso rispose, che nel Mugnone se ne solevan trovare.
Disse Calandrino:
- Di che grossezza è questa pietra? O che colore è il suo?
Rispose Maso:
- Ella è di varie grossezze, ché alcuna n'è più e alcuna meno, ma tutte son di colore quasi come nero.
Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembiante d'avere altro a fare, si partì da Maso, e seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava.
Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n'andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli.
Ultimamente, essendo già l'ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n'andò a costoro, e chiamatigli, così disse loro:
- Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i più ricchi uomini di Firenze, per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra non è veduto da niun'altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v'andasse, v'andassimo a cercare.
Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l'avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella e andare alle tavole de' cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca.
Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra sé medesimi cominciarono a ridere, e guatando l'un verso l'altro fecer sembianti di maravigliarsi forte, e lodarono il consiglio di Calandrino; ma domandò Buffalmacco, come questa pietra avesse nome.
A Calandrino, che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente, per che egli rispose:
- Che abbiam noi a far del nome, poi che noi sappiam la virtù? A me parrebbe che noi andassimo a cercare senza star più.
- Or ben, - disse Bruno - come è ella fatta?
Calandrin disse:
- Egli ne son d'ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa; e per ciò non perdiamo tempo, andiamo.
A cui Brun disse:
- Or t'aspetta; - e volto a Buffalmacco disse:
- A me pare che Calandrino dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dà per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre rasciutte, per che tali paion testé bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l'abbia rasciutte, paion nere; e oltre a ciò molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dì di lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo, e forse farlo essi altressì, e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l'ambiadura.
A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover fare da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa, che non vi sarà persona che ci vegga.
Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s'accordò, e ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra; ma sopra ogn'altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza.
E ragionato questo, disse loro ciò che udito
avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che così era.
Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono fra sé medesimi.
Calandrino con disidero aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi, cominciarono ad andare in giù, della pietra cercando.
Calandrino andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno.
I compagni andavano appresso, e quando una e quando un'altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n'ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all'analda non era, e faccendo di quegli ampio greé, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empiè.
Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l'ora del mangiare s'avvicinava, secondo l'ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco:
- Calandrino dove è?
Buffalmacco, che ivi presso sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose:
- Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi.
Disse Bruno:
- Ben che fa poco! a me par egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d'andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone.
- Deh come egli ha ben fatto, - disse allora Buffalmacco - d'averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo.
Sappi! chi sarebbe stato sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra, altri che noi?
Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù d'essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero.
Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominciò a venire.
Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno:
- Noi che faremo? Ché non ce ne andiam noi?
A cui Bruno rispose:
- Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli fossi presso, come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa; - e il dir le parole e l'aprirsi e 'l dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu tutto uno.
Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque e andò oltre.
Buffalmacco, recatosi in mano uno de' ciottoli che raccolti avea, disse a Bruno:
- Deh! vedi bel codolo, così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! - e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa.
E in brieve in cotal guisa or con una parola, e or con una altra su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando.
Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de' gabellieri si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo.
Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciò che quasi a desinare era ciascuno.
Entrossene adunque Calandrino così carico in casa sua.
Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire:
- Mai, frate, il diavol ti ci reca! ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare.
Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare:
- Ohimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m'hai diserto; ma in fè di Dio io te ne pagherò; - e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le treccie la si gittò a' piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e'piedi, tanto le diè per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce.
Buffalmacco e Bruno, poi che co' guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell'uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono.
Calandrino tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui dovessero andare.
Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell'un de' canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d'altra parte Calandrino scinto e ansando a guisa d'uom lasso sedersi.
Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero:
- Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare, che noi veggiamo qui tante pietre? - E oltre a questo soggiunsero:
- E monna Tessa che ha? E'par che tu l'abbi battuta; che novelle son queste?
Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta, e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere lo spirito a formare intera la parola alla risposta.
Per che soprastando, Buffalmacco ricominciò:
- Calandrino, se tu aveva altra ira, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai mai.
A queste parole Calandrino sforzandosi rispose:
- Compagni, non vi turbate, l'opera sta altramenti che voi non pensate.
Io, sventurato! avea quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l'un l'altro, io v'era presso a men di diece braccia; e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v'entrai innanzi, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto.
E, cominciandosi dall'un de' capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel'avessero, e poi seguitò:
- E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que'guardiani a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sì come quegli che non mi vedeano.
Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la virtù ad ogni cosa: di che io, che mi poteva dire il più avventurato uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e per questo l'ho tanto battuta quant'io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni; che maladetta sia l'ora che io prima la vidi e quand'ella mi venne in questa casa!
E raccesosi nell'ira, si voleva levar.
per tornare a batterla da capo.
Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ridere che quasi scoppiavano; ma, vedendolo furioso levare per battere un'altra volta la moglie, levatiglisi allo 'ncontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virtù alle cose e non le aveva detto che ella si guardasse d'apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua, o perch'egli aveva in animo d'ingannare i suoi compagni, a' quali, come s'avvedeva d'averla trovata, il doveva palesare.
E dopo molte parole, non senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono.
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Novella Quarta
Il proposto di Fiesole ama una donna vedova; non è amato da lei, e credendosi giacer con lei, giace con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo.
Venuta era Elissa alla fine della sua novella, non senza gran piacere di tutta la compagnia avendola raccontata, quando la reina, ad Emilia voltatasi, le mostrò voler che ella appresso d'Elissa la sua raccontasse, la quale prestamente così cominciò.
Valorose donne, quanto i preti e'frati e ogni cherico sieno sollecitatori delle menti nostre, in più novelle dette mi ricorda essere mostrato; ma per ciò che dir non se ne potrebbe tanto che ancora più non ne fosse, io, oltre a quelle, intendo di dirvene una d'un proposto, il quale, malgrado di tutto il mondo, voleva che una gentil donna vedova gli volesse bene o volesse ella o no; la quale, si come molto savia, il trattò sì come egli era degno.
Come ciascuna di voi sa, Fiesole, il cui poggio noi possiamo di quinci vedere, fu già antichissima città e grande, come che oggi tutta disfatta sia, né per ciò è mai cessato che vescovo avuto non abbia, e ha ancora.
Quivi vicino alla maggior chiesa ebbe già una gentil donna vedova, chiamata monna Piccarda, un suo podere con una casa non troppo grande; e per ciò che la più agiata donna del mondo non era, quivi la maggior parte dell'anno dimorava e con lei due suoi fratelli, giovani assai dabbene e cortesi.
Ora avvenne che, usando questa donna alla chiesa maggiore ed essendo ancora assai giovane e bella e piacevole, di lei s'innamorò sì forte il proposto della chiesa, che più qua né più là non vedea.
E dopo alcun tempo fu di tanto ardire, che egli medesimo disse a questa donna il piacer suo, e pregolla che ella dovesse esser contenta del suo amore e d'amar lui come egli lei amava.
Era questo proposto d'anni già vecchio, ma di senno giovanissimo, baldanzoso e altiero, e di sè ogni gran cosa presummeva, con suoi modi e costumi pieni di scede e di spiacevolezze, e tanto sazievole e rincrescevole che niuna persona era che ben gli volesse; e se alcuno ne gli voleva poco, questa donna era colei, ché non solamente non ne gli voleva punto, ma ella l'aveva più in odio che il mal del capo.
Per che ella, sì come savia, gli rispose:
- Messere, che voi m'amiate mi può esser molto caro, e io debbo amar voi e amerovvi volentieri; ma tra 'vostro amore e 'mio niuna cosa disonesta dee cader mai.
Voi siete mio padre spirituale e siete prete, e già v'appressate molto bene alla vecchiezza, le quali cose vi debbono fare e onesto e casto; e d'altra parte io non son fanciulla, alla quale questi innamoramenti steano oggimai bene, e son vedova; ché sapete quanta onestà nelle vedove si richiede; e per ciò abbiatemi per iscusata, che al modo che voi mi richiedete io non v'amerò mai, né così voglio essere amata da voi.
Il proposto, per quella volta non potendo trarre da lei altro, non fece come sbigottito o vinto al primo colpo, ma, usando la sua trascutata prontezza, la sollicitò molte volte e con lettere e con ambasciate, e ancora egli stesso quando nella chiesa la vedeva venire.
Per che, parendo questo stimolo troppo grave e troppo noioso alla donna, si pensò di volerlosi levar da dosso per quella maniera la quale egli meritava, poscia che altramenti non poteva; ma cosa alcuna far non volle, che prima co' fratelli no 'ragionasse.
E detto loro ciò che il proposto verso lei operava, e quello ancora che ella intendeva di fare, e avendo in ciò piena licenza da loro, ivi a pochi giorni andò alla chiesa come usata era.
La quale come il proposto vide, così se ne venne verso lei e, come far soleva, per un modo parentevole seco entrò in parole.
La donna, vedendol venire, e verso lui riguardando, gli fece lieto viso, e da una parte tiratisi, avendole il proposto molte parole dette al modo usato, la donna dopo un gran sospiro disse
- Messere, io ho udito assai volte che egli non è alcun castello sì forte che, essendo ogni dì combattuto, non venga fatto d'esser preso una volta, il che io veggo molto bene in me essere avvenuto.
Tanto, ora con dolci parole e ora con una piacevolezza e ora con un'altra, mi siete andato d'attorno, che voi m'avete fatto rompere il mio proponimento, e son disposta, poscia che io così vi piaccio, a volere esser vostra.
Il proposto tutto lieto disse:
- Madonna, gran mercè; e a dirvi il vero, io mi son forte maravigliato come voi vi siete tanto tenuta, pensando che mai più di niuna non m'avvenne; anzi ho io alcuna volta detto: - Se le femine fossero d'ariento, elle non varrebbon denaio, per ciò che niuna se ne terrebbe a martello.
- Ma lasciamo andare ora questo: quando e dove potrem noi essere insieme?
A cui la donna rispose:
- Signor mio dolce, il quando potrebbe essere qual ora più ci piacesse, perciò che io non ho marito a cui mi convenga render ragion delle notti, ma io non so pensare il dove.
Disse il proposto:
- Come no? O in casa vostra?
Rispose la donna:
- Messer, voi sapete che io ho due fratelli giovani, li quali e di dì e di notte vengono in casa con lor brigate, e la casa mia non è troppo grande, e per ciò esser non vi si potrebbe, salvo chi non volesse starvi a modo di mutolo, senza far motto o zitto alcuno e al buio a modo di ciechi; vogliendo far così, si potrebbe, per ciò che essi non s'impacciano nella camera mia; ma è la loro sì allato alla mia, che paroluzza sì cheta non si può dire che non si senta.
Disse allora il proposto:
- Madonna, per questo non rimanga per una notte per due, intanto che io pensi dove noi possiamo essere in altra parte con più agio.
La donna disse:
- Messere, questo stea pure a voi; ma d'una cosa vi priego: che questo stea segreto, che mai parola non se ne sappia.
Il proposto disse allora:
- Madonna, non dubitate di ciò, e se esser puote, fate che istasera noi siamo insieme.
La donna disse:
- Piacemi; - e datogli l'ordine come e quando venir dovesse, si partì e tornossi a casa.
Aveva questa donna una sua fante, la qual non era però troppo giovane, ma ella aveva il più brutto viso e il più contrafatto che si vedesse mai; ché ella aveva il naso schiacciato forte e la bocca torta e le labbra grosse e i denti mal composti e grandi, e sentiva del guercio, né mai era senza mal d'occhi, con un color verde e giallo, che pareva che non a Fiesole ma a Sinigaglia avesse fatta la state; e oltre a tutto questo era sciancata e un poco monca dal lato destro; e il suo nome era Ciuta; e perché così cagnazzo viso avea, da ogn'uomo era chiamata Ciutazza.
E benché ella fosse contrafatta della persona, ella era pure alquanto maliziosetta.
La quale la donna chiamò a sè e dissele:
- Ciutazza, se tu mi vuoi fare un servigio stanotte, io ti donerò una bella camicia nuova.
La Ciutazza, udendo ricordar la camicia, disse:
- Madonna, se voi mi date una camicia, io mi gitterò nel fuoco, non che altro.
- Or ben, - disse la donna - io voglio che tu giaccia stanotte con uno uomo entro il letto mio, e che tu gli faccia carezze, e guarditi ben di non far motto, sì che tu non fossi sentita da' fratei miei, ché sai che ti dormono allato; e poscia io ti darò la camicia.
La Ciutazza disse:
- Sì dormirò io con sei, non che con uno, se bisognerà.
Venuta adunque la sera, messer lo proposto venne, come ordinato gli era stato, e i due giovani, come la donna composto avea, erano nella camera loro e facevansi ben sentire; per che il proposto, tacitamente e al buio nella camera della donna entratosene, se n'andò, come ella gli disse, al letto, e dall'altra parte la Ciutazza, ben dalla donna informata di ciò che a far avesse.
Messer lo proposto, credendosi aver la donna sua allato, si recò in braccio la Ciutazza, e cominciolla a baciar senza dir parola, e la Ciutazza lui; e cominciossi il proposto a sollazzar con lei, la possession pigliando de' beni lungamente disiderati.
Quando la donna ebbe questo fatto, impose a' fratelli che facessero il rimanente di ciò che ordinato era; li quali, chetamente della camera usciti, n'andarono verso la piazza, e fu lor la fortuna in quello che far volevano più favorevole che essi medesimi non dimandavano; per ciò che, essendo il caldo grande, aveva domandato il vescovo di questi due giovani, per andarsi infino a casa lor diportando e ber con loro.
Ma come venir gli vide, così detto loro il suo disidero, con loro si mise in via, e in una lor corticella fresca entrato, dove molti lumi accesi erano, con gran piacer bevve d'un loro buon vino.
E avendo bevuto, dissono i giovani:
- Messer, poi che tanta di grazia n'avete fatto, che degnato siete di visitar questa nostra piccola casetta, alla quale noi venavamo ad invitarvi, noi vogliam che vi piaccia di voler vedere una cosetta che noi vi vogliam mostrare.
Il vescovo rispose che volentieri; per che l'un de' giovani, preso un torchietto acceso in mano e messosi innanzi, seguitandolo il vescovo e tutti gli altri, si dirizzò verso la camera dove messer lo proposto giaceva con la Ciutazza.
Il quale, per giugner tosto, s'era affrettato di cavalcare, ed era, avanti che costor quivi venissero, cavalcato già delle miglia più di tre; per che istanchetto, avendo, non ostante il caldo, la Ciutazza in braccio, si riposava.
Entrato adunque con lume in mano il giovane nella camera, e il vescovo appresso e poi tutti gli altri, gli fu mostrato il proposto con la Ciutazza in braccio.
In questo destatosi messer lo proposto, e veduto il lume e questa gente dattornosi, vergognandosi forte e temendo, mise il capo sotto i panni.
Al quale il vescovo disse una gran villania, e fecegli trarre il capo fuori e vedere con cui giaciuto era.
Il proposto, conosciuto lo 'nganno della donna, sì per quello e sì per lo vituperio che aver gli parea, subito divenne il più doloroso uomo che fosse mai; e per comandamento del vescovo rivestitosi, a patir gran penitenza del peccato commesso con buona guardia ne fu mandato alla chiesa.
Volle il vescovo appresso sapere come questo fosse avvenuto, che egli quivi con la Ciutazza fosse a giacere andato.
I giovani gli dissero ordinatamente ogni cosa.
Il che il vescovo udito, commendò molto la donna e i giovani altressì, che, senza volersi del sangue de' preti imbrattar le mani, lui sì come egli era degno avean trattato.
Questo peccato gli fece il vescovo piagnere quaranta dì, ma amore e isdegno gliele fecero piagnere più di quarantanove, senza che, poi ad un gran tempo, egli non poteva mai andar per via che egli non fosse da' fanciulli mostrato a dito, li quali dicevano:
- Vedi colui che giacque con la Ciutazza; - il che gli era sì gran noia, che egli ne fu quasi in su lo 'mpazzare.
E in così fatta guisa la valente donna si tolse da dosso la noia dello impronto proposto; e la Ciutazza guadagnò la camicia.
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Novella Quinta
Tre giovani traggono le brache ad un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione.
Fatto aveva Emilia fine al suo ragionamento, essendo stata la vedova donna commendata da tutti, quando la reina, a Filostrato guardando, disse:
- A te viene ora il dover dire.
Per la qual cosa egli prestamente rispose sè essere apparecchiato, e cominciò.
Dilettose donne, il giovane che Elissa poco avanti nominò, cioè Maso del Saggio, mi farà lasciare stare una novella la quale io di dire intendeva, per dirne una di lui e d'alcuni suoi compagni, la quale ancora che disonesta non sia, per ciò che vocaboli in essa s'usano che voi d'usar vi vergognate, nondimeno è ella tanto da ridere, che io la pur dirò.
Come voi tutte potete avere udito, nella nostra città vengono molto spesso rettori marchigiani, li quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto misera, che altro non pare ogni lor fatto che una pidocchieria; e per questa loro innata miseria e avarizia, menan seco e giudici e notai, che paion uomini levati più tosto dallo aratro o tratti dalla calzoleria, che delle scuole delle leggi.
Ora, essendovene venuto uno per podestà, tra gli altri molti giudici che seco menò, ne menò uno il quale si facea chiamare messer Niccola da San Lepidio, il qual pareva più tosto un magnano che altro a vedere, e fu posto costui tra gli altri giudici ad udire le quistion criminali.
E come spesso avviene che, bene che i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a Palagio, pur talvolta vi vanno, avvenne che Maso del Saggio una mattina, cercando d'un suo amico, v'andò; e venutogli guardato là dove questo messer Niccola sedeva, parendogli che fosse un nuovo uccellone, tutto il venne considerando.
E, come che egli gli vedesse il vaio tutto affumicato in capo e un pennaiuolo a cintola, e più lunga la gonnella che la guarnacca, e assai altre cose tutte strane da ordinato e costumato uomo, tra queste una, ch'è più notabile che alcuna dell'altre, al parer suo, ne gli vide, e ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli e i panni per istrettezza standogli aperti dinanzi, vide che il fondo loro in fino a mezza gamba gli aggiugnea.
Per che, senza star troppo a guardarle, lasciato quello che andava cercando, incominciò a far cerca nuova, e trovò due suoi compagni, de' quali l'uno aveva nome Ribi e l'altro Matteuzzo, uomini ciascun di loro non meno sollazzevoli che Maso, e disse loro:
- Se vi cal di me, venite meco infino a Palagio, ché io vi voglio mostrare il più nuovo squasimodeo che voi vedeste mai.
E con loro andatosene in Palagio, mostrò loro questo giudice e le brache sue.
Costoro dalla lungi cominciarono a ridere di questo fatto, e fattisi più vicini alle panche sopra le quali messer lo giudice stava, vider che sotto quelle panche molto leggiermente si poteva andare, e oltre a ciò videro rotta l'asse sopra la quale messer lo giudicio teneva i piedi, tanto che a grand'agio vi si poteva mettere la mano e 'l braccio.
E allora Maso disse a' compagni:
- Io voglio che noi gli traiamo quelle brache del tutto, per ciò che si può troppo bene.
Aveva già ciascun de' compagni veduto come: per che, fra sè ordinato che dovessero fare e dire, la seguente mattina vi ritornarono; ed essendo la corte molto piena d'uomini, Matteuzzo, che persona non se ne avvide, entrò sotto il banco e andossene appunto sotto il luogo dove il giudice teneva i piedi.
Maso dall'un de' lati accostatosi a messer lo giudice, il prese per lo lembo della guarnacca, e Ribi accostatosi dall'altro e fatto il simigliante, incominciò Maso a dire:
- Messer, o messere; io vi priego per Dio, che, innanzi che cotesto ladroncello, che v'è costì dallato, vada altrove, che voi mi facciate rendere un mio paio d'uose le quali egli m'ha imbolate, e dice pur di no, e io il vidi, non è ancora un mese, che le faceva risolare.
Ribi dall'altra parte gridava forte:
- Messere, non gli credete, ché egli è un ghiottoncello, e perché egli sa che io son venuto a richiamarmi di lui d'una valigia la quale egli m'ha imbolata, ed egli è testè venuto e dice dell'uose, che io m'aveva in casa infin vie l'altrieri, e se voi non mi credeste, io vi posso dare per testimonia la trecca mia dallato, e la Grassa ventraiuola, e un che va raccogliendo la spazzatura da Santa Maria a Verzaia, che 'l vide quando egli tornava di villa.
Maso d'altra parte non lasciava dire a Ribi, anzi gridava, e Ribi gridava ancora.
E mentre che il giudice stava ritto e loro più vicino per intendergli meglio, Matteuzzo, preso tempo, mise la mano per lo rotto dell'asse, e pigliò il fondo delle brache del giudice, e tirò giù forte.
Le brache ne venner giuso incontanente, per ciò che il giudice era magro e sgroppato.
Il quale, questo fatto sentendo e non sappiendo che ciò si fosse, volendosi tirare i panni dinanzi e ricoprirsi e porsi a sedere, Maso dall'un lato e Ribi dall'altro pur tenendolo e gridando forte:
- Messer, voi fate villania a non farmi ragione, e non volermi udire, e volervene andare altrove; di così piccola cosa, come questa è, non si dà libello in questa terra; - e tanto in queste parole il tennero per li panni, che quanti nella corte n'erano s'accorsero essergli state tratte le brache.
Ma Matteuzzo, poi che alquanto tenute l'ebbe, lasciatele, se n'uscì fuori e andossene senza esser veduto.
Ribi, parendogli di aver assai fatto, disse:
- Io fo boto a Dio d'aiutarmene al sindacato.
E Maso dall'altra parte, lasciatagli la guarnacca disse:
- No, io ci pur verrò tante volte, che io vi troverrò così impacciato come voi siete paruto stamane; - e l'uno in qua e l'altro in là, come più tosto poterono, si partirono.
Messer lo giudice, tirate in su le brache in presenza d'ogni uomo, come se da dormir si levasse accorgendosi pure allora del fatto, domandò dove fossero andati quegli che dell'uose e della valigia avevan quistione; ma, non ritrovandosi, cominciò a giurare per le budella di Dio che e'gli conveniva cognoscere e saper se egli s'usava a Firenze di trarre le brache a' giudici, quando sedevano al banco della ragione.
Il podestà d'altra parte, sentitolo, fece un grande schiamazzio; poi per suoi amici mostratogli che questo non gli era fatto se non per mostrargli che i fiorentini conoscevano che, dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati becconi per averne miglior mercato, per lo miglior si tacque, né più avanti andò la cosa per quella volta.
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Novella Sesta
Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo con galle di gengiovo e con vernaccia, e a lui ne danno due, l'una dopo l'altra, di quelle del cane confettate in aloè, e pare che l'abbia avuto egli stesso; fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
Non ebbe prima la novella di Filostrato fine, della quale molto si rise, che la reina a Filomena impose che seguitando dicesse; la quale incominciò.
Graziose donne, come Filostrato fu dal nome di Maso tirato a dover dire la novella la quale da lui udita avete, così né più né men son tirata io da quello di Calandrino e de' compagni suoi a dirne un'altra di loro, la qual, sì come io credo, vi piacerà.
Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero non bisogna che io vi mostri, ché assai l'avete di sopra udito; e per ciò, più avanti faccendomi, dico che Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontano da Firenze, che in dote aveva avuto della moglie, del quale tra l'altre cose che su vi ricoglieva, n'aveva ogn'anno un porco, ed era sua usanza sempre colà di dicembre d'andarsene la moglie ed egli in villa, e ucciderlo e quivi farlo salare.
Ora avvenne una volta tra l'altre che, non essendo la moglie ben sana, Calandrino andò egli solo ad uccidere il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco, e sappiendo che la moglie di lui non v'andava, se n'andarono ad un prete loro grandissimo amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì.
Aveva Calandrino, la mattina che costor giunsero il dì, ucciso il porco, e vedendogli col prete, gli chiamò e disse:
- Voi siate i ben venuti.
Io voglio che voi veggiate che massaio io sono; e menatigli in casa, mostrò loro questo porco.
Videro costoro il porco esser bellissimo, e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva salare.
A cui Brun disse:
- Deh! come tu se'grosso! Vendilo, e godianci i denari; e a mogliata dì che ti sia stato imbolato.
Calandrino disse:
- No, ella nol crederrebbe, e caccerebbemi fuor di casa; non v'impacciate, ché io nol farei mai.
Le parole furono assai, ma niente montarono.
Calandrino gl'invitò a cena cotale alla trista, sì che costoro non vi vollon cenare, e partirsi da lui.
Disse Bruno a Buffalmacco:
- Vogliangli noi imbolare stanotte quel porco?
Disse Buffalmacco:
- O come potremmo noi?
Disse Bruno:
- Il come ho io ben veduto, se egli nol muta di là ove egli era testé.
- Adunque, - disse Buffalmacco - faccianlo; perché nol faremo noi? E poscia cel goderemo qui insieme col domine.
Il prete disse che gli era molto caro.
Disse allora Bruno:
- Qui si vuole usare un poco d'arte: tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee volentieri quando altri paga; andiamo e meniallo alla taverna, e quivi il prete faccia vista di pagare tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla; egli si ciurmerà, e verracci troppo ben fatto poi, per ciò che egli è solo in casa.
Come Brun disse, così fecero.
Calandrino, veggendo che il prete nol lasciava pagare, si diede in sul bere, e benché non ne gli bisognasse troppo, pur si caricò bene; ed essendo già buona ora di notte quando dalla taverna si partì, senza volere altramenti cenare, se n'entrò in casa, e credendosi aver serrato l'uscio, il lasciò aperto e andossi al letto.
Buffalmacco e Bruno se n'andarono a cenare col prete, e, come cenato ebbero, presi loro argomenti per entrare in casa Calandrino là onde Bruno aveva divisato, là chetamente n'andarono; ma, trovando aperto l'uscio, entrarono dentro, e ispiccato il porco, via a casa del prete nel portarono, e ripostolo, se n'andarono a dormire.
Calandrino, essendogli il vino uscito del capo, si levò la mattina, e, come scese giù, guardò e non vide il porco suo, e vide l'uscio aperto; per che, domandato questo e quell'altro se sapessero chi il porco s'avesse avuto, e non trovandolo, incominciò a fare il romore grande: ohisé, dolente sé, che il porco gli era stato imbolato.
Bruno e Buffalmacco levatisi, se n'andarono verso Calandrino, per udir ciò che egli del porco dicesse.
Il qual, come gli vide, quasi piagnendo chiamatigli, disse:
- Ohimè, compagni miei, che il porco mio m'è stato imbolato.
Bruno, accostatoglisi, pianamente gli disse:
- Maraviglia, che se'stato savio una volta.
- Ohimè, - disse Calandrino - ché io dico da dovero.
- Così di', - diceva Bruno - grida forte sì, che paia bene che sia stato cosi.
Calandrino gridava allora più forte e diceva:
- Al corpo di Dio, che io dico da dovero che egli m'è stato imbolato.
E Bruno diceva:
- Ben di', ben di': e'si vuol ben dir così, grida forte fatti ben sentire, sì che egli paia vero.
Disse Calandrino:
- Tu mi faresti dar l'anima al nimico.
Io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la gola, che egli m'è stato imbolato.
Disse allora Bruno:
- Deh! come dee potere esser questo? Io il vidi pure ieri costì.
Credimi tu far credere che egli sia volato?
Disse Calandrino:
- Egli è come io ti dico.
- Deh! - disse Bruno - può egli essere?
- Per certo, - disse Calandrino - egli è così, di che io son diserto e non so come io mi torni a casa: mogliema nol mi crederà, e se ella il mi pur crede, io non avrò uguanno pace con lei.
Disse allora Bruno:
- Se Dio mi salvi, questo è mal fatto, se vero è; ma tu sai, Calandrino, che ieri io t'insegnai dir così: io non vorrei che tu ad un'ora ti facessi beffe di moglieta e di noi.
Calandrino incominciò a gridare e a dire:
- Deh perché mi farete disperare e bestemmiare Iddio e'santi e ciò che v'è? Io vi dico che il porco m'è stato sta notte imbolato.
Disse allora Buffalmacco:
- Se egli è pur così, vuolsi veder via, se noi sappiamo, di riaverlo.
- E che via - disse Calandrino - potrem noi trovare?
Disse allora Buffalmacco:
- Per certo egli non c'è venuto d'India niuno a torti il porco; alcuno di questi tuoi vicini dee essere stato; e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare la esperienza del pane e del formaggio e vederemmo di botto chi l'ha avuto.
- Sì, - disse Bruno ben farai con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha dattorno, ché son certo che alcun di loro l'ha avuto, e avvederebbesi del fatto, e non ci vorrebber venire.
- Come è dunque da fare? - disse Buffalmacco.
Rispose Bruno:
- Vorrebbesi fare con belle galle di gengiovo e con bella vernaccia, e invitargli a bere.
Essi non sel penserebbono e verrebbono; e così si possono benedire le galle del gengiovo, come il pane e 'cacio.
Disse Buffalmacco:
- Per certo tu di'il vero; e tu, Calandrino, che di'? Vogliallo fare?
Disse Calandrino:
- Anzi ve ne priego io per l'amor di Dio; ché, se io sapessi pur chi l'ha avuto, sì mi parrebbe esser mezzo consolato.
- Or via, - disse Bruno - io sono acconcio d'andare infino a Firenze per quelle cose in tuo servigio, se tu mi dai i denari.
Aveva Calandrino forse quaranta soldi, li quali egli gli diede.
Bruno, andatosene a Firenze ad un suo amico speziale, comperò una libbra di belle galle di gengiovo, e fecene far due di quelle del cane, le quali egli fece confettare in uno aloè patico fresco; poscia fece dar loro le coverte del zucchero, come avevan l'altre, e per non ismarrirle o scambiarle, fece lor fare un certo segnaluzzo per lo quale egli molto bene le conoscea, e comperato un fiasco d'una buona vernaccia, se ne tornò in villa a Calandrino e dissegli:
- Farai che tu inviti domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto; egli è festa, ciascun verrà volentieri, e io farò stanotte insieme con Buffalmacco la 'ncantagione sopra le galle, e recherolleti domattina a casa, e per tuo amore io stesso le darò, e farò e dirò ciò che fia da dire e da fare.
Calandrino così fece.
Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani fiorentini, che per la villa erano, e di lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all'olmo, Bruno e Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino, e fatti stare costoro in cerchio, disse Bruno:
- Signori, e'mi vi convien dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro avvenisse che non vi piacesse, voi non v'abbiate a ramaricar di me.
A Calandrino, che qui è, fu ier notte tolto un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se l'abbia; e per ciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l'ha, vi dà a mangiar queste galle una per uno, e bere.
E infino da ora sappiate che chi avuto avrà il porco, non potrà mandar giù la galla, anzi gli parrà più amara che veleno, e sputeralla; e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse il meglio che quel cotale che avuto l'avesse, in penitenzia il dica al sere, e io mi rimarrò di questo fatto.
Ciascun che v'era disse che ne voleva volentier mangiare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra loro, cominciatosi all'un de' capi, cominciò a dare a ciascun la sua, e, come fu per mei Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano.
Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare; ma sì tosto come la lingua sentì l'aloè, così Calandrino, non potendo l'amaritudine sostenere, la sputò fuori.
Quivi ciascun guatava nel viso l'uno all'altro, perveder chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle, non faccendo sembianti d'intendere a ciò, s'udì dir dietro: - Eja, Calandrino, che vuol dir questo? - per che prestamente rivolto, e veduto che Calandrino la sua aveva sputata, disse:
- Aspettati, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne un'altra; - e presa la seconda, gliele mise in bocca, e fornì di dare l'altre che a dare aveva.
Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima; ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì eran grosse; e ultimamente, non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto.
Buffalmacco faceva dar bere alla brigata, e Bruno; li quali, insieme con gli altri questo vedendo, tutti dissero che per certo Calandrino se l'aveva imbolato egli stesso; e furonvene di quegli che aspramente il ripresono.
Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl'incominciò Buffalmacco a dire:
- Io l'aveva per lo certo tuttavia che tu te l'avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato imbolato, per non darci una volta bere de' denari che tu n'avesti.
Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l'amaritudine dello aloè, incominciò a giurare che egli avuto non l'avea.
Disse Buffalmacco:
- Ma che n'avesti, sozio, alla buona fè? Avestine sei?
Calandrino, udendo questo, s'incominciò a disperare.
A cui Brun disse:
- Intendi sanamente, Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevve, che mi disse che tu avevi quinci su una giovinetta che tu tenevi a tua posta, e davile ciò che tu potevi rimedire, e che egli aveva per certo che tu l'avevi mandato questo porco.
Tu sì hai apparato ad esser beffardo! Tu ci menasti una volta giù per lo Mugnone ricogliendo pietre nere, e quando tu ci avesti messo in galea senza biscotto, e tu te ne venisti; e poscia ci volevi far credere che tu l'avessi trovata; e ora similmente ti credi co' tuoi giuramenti far credere altressì che il porco, che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato.
Noi sì siamo usi delle tue beffe e conoscialle; tu non ce ne potresti far più; e per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l'arte, per che noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa.
Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento della moglie, diede a costoro due paia di capponi.
Li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe.
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Novella Settima
Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d'altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a' tafani e al sole.
Molto avevan le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n'avrebbono ancora, se stato non fosse che loro in crebbe di vedergli torre ancora i capponi, a color che tolto gli aveano il porco.
Ma poi che la fine fu venuta, la reina a Pampinea impose che dicesse la sua; ed essa prestamente così cominciò.
Carissime donne, spesse volte avviene che l'arte è dall'arte schernita, e per ciò è poco senno il dilettarsi di schernire altrui.
Noi abbiamo per più novellette dette riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta esserne stata fatta s'è raccontato; ma io intendo di farvi avere alquanta compassione d'una giusta retribuzione ad una nostra cittadina renduta, alla quale la sua beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò sopra il capo.
E questo udire non sarà senza utilità di voi, per ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e farete gran senno.
Egli non sono ancora molti anni passati, che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d'animo altiera e di legnaggio assai gentile, de' beni della fortuna convenevolmente abondante e nominata Elena; la quale rimasa del suo marito vedova, mai più rimaritar non si volle, essendosi ella d'un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta innamorata; e da ogni altra sollicitudine sviluppata, con l'opera d'una sua fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso diletto si dava buon tempo.
Avvenne che in questi tempi un giovane chiamato Rinieri, nobile uomo della nostra città, avendo lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienzia a minuto, come molti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d'esse (il che ottimamente sta in gentile uomo), tornò da Parigi a Firenze; e quivi onorato molto sì per la sua nobiltà e sì per la sua scienzia, cittadinescamente viveasi.
Ma, come spesso avviene, coloro ne'quali è più l'avvedimento delle cose profonde più tosto da amore essere incapestrati, avvenne a questo Rinieri.
Al quale, essendo egli un giorno per via di diporto andato ad una festa, davanti agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sì come le nostre vedove vanno, piena di tanta bellezza al suo giudicio e di tanta piacevolezza, quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere; e seco estimò colui potersi beato chiamare, al quale Iddio grazia facesse lei potere ignuda nelle braccia tenere.
E una volta e altra cautamente riguardatala, e conoscendo che le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare, seco diliberò del tutto di porre ogni pena e ogni sollicitudine in piacere a costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse, e per questo il potere aver copia di lei.
La giovane donna, la quale non teneva gli occhi fitti in inferno, ma, quello e più tenendosi che ella era, artificiosamente movendogli si guardava dintorno, e prestamente conosceva chi con diletto la riguardava, accortasi di Rinieri, in sé stessa ridendo disse: - Io non ci sarò oggi venuta in vano, ché, se io non erro, io avrò preso un paolin per lo naso.
- E cominciatolo con la coda dell'occhio alcuna volta a guardare, in quanto ella poteva, s'ingegnava di dimostrar gli che di lui le calesse; d'altra parte, pensandosi che quanti più n'adescasse e prendesse col suo piacere, tanto di maggior pregio fosse la sua bellezza, e massimamente a colui al quale ella insieme col suo amore l'aveva data.
Il savio scolare, lasciati i pensier filosofici da una parte, tutto l'animo rivolse a costei; e, credendosi doverle piacere, la sua casa apparata, davanti v'incominciò a passare, con varie cagioni colorando l'andate.
Al qual la donna, per la cagion già detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di vederlo assai volentieri; per la qual cosa lo scolare, trovato modo, s'accontò con la fante di lei, e il suo amor le scoperse, e la pregò che con la sua donna operasse sì che la grazia di lei potesse avere.
La fante promise largamente e alla sua donna il raccontò, la quale con le maggior risa del mondo l'ascoltò, e disse:
- Hai veduto dove costui è venuto a perdere il senno che egli ci ha da Parigi recato? Or via, diangli di quello ch'e'va cercando.
Dira'gli, qualora egli ti parla più, che io amo molto più lui che egli non ama me; ma che a me si convien di guardar l'onestà mia, sì che io con l'altre donne possa andare a fronte scoperta, di che egli, se così è savio come si dice, mi dee molto più cara avere.
Ahi cattivella, cattivella, ella non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aia con gli scolari!
La fante, trovatolo, fece quello che dalla donna sua le fu imposto.
Lo scolar lieto procedette a più caldi prieghi e a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa era ricevuta, ma in dietro non venivan risposte se non generali; e in questa guisa il tenne gran tempo in pastura.
Ultimamente, avendo ella al suo amante ogni cosa scoperta ed egli essendosene con lei alcuna volta turbato e alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di ciò di lei sospicasse, sollicitandola lo scolare molto, la sua fante gli mandò, la quale da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto da poter fare cosa che gli piacesse poi che del suo amore fatta l'aveva certa, se non che per le feste del Natale che s'appressava ella sperava di potere esser con lui; e per ciò la seguente sera alla festa, di notte, se gli piacesse, nella sua corte se ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe.
Lo scolare, più che altro uom lieto, al tempo impostogli andò alla casa della donna, e messo dalla fante in una corte e dentro serratovi, quivi la donna cominciò ad aspettare.
La donna, avendosi quella sera fatto venire il suo amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò che fare quella notte intendeva gli ragionò, aggiugnendo:
- E potrai vedere quanto e quale sia l'amore, il quale io ho portato e porto a colui del quale scioccamente hai gelosia presa.
Queste parole ascoltò l'amante con gran piacer d'animo disideroso di vedere per opera ciò che la donna con parole gli dava ad intendere.
Era per avventura il dì davanti a quello nevicato forte, e ogni cosa di neve era coperta; per la qual cosa lo scolare fu poco nella corte dimorato, che egli cominciò a sentir più freddo che voluto non avrebbe; ma, aspettando di ristorarsi, pur pazientemente il sosteneva.
La donna al suo amante disse dopo alquanto:
- Andiancene in camera, e da una finestretta guardiamo ciò che colui, di cui tu se'divenuto geloso, fa, e quello che egli risponderà alla fante, la quale io gli ho mandata a favellare.
Andatisene adunque costoro ad una finestretta, e veggendo senza esser veduti, udiron la fante da un'altra favellare allo scolare e dire:
- Rinieri, madonna è la più dolente femina che mai fosse, per ciò che egli ci è stasera venuto uno de' suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle cenar con lei, e ancora non se n'è andato; ma io credo che egli se n'andrà tosto; e per questo non è ella potuta venire a te, ma tosto verrà oggimai; ella ti priega che non ti incresca l'aspettare.
Lo scolare, credendo questo esser vero, rispose:
- Dirai alla mia donna che di me niun pensier si dea in fino a tanto che ella possa con suo acconcio per me venire; ma che questo ella faccia come più tosto può.
La fante, dentro tornatasi se n'andò a dormire.
La donna allora disse al suo amante:
- Ben, che dirai? Credi tu che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi che egli stesse là giù ad agghiacciare? - e questo detto, con l'amante suo, che già in parte era contento, se n'andò a letto, e grandissima pezza stettero in festa e in piacere, del misero iscolare ridendosi e faccendosi beffe.
Lo scolare, andando per la corte, sé esercitava per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove fuggire il sereno, e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna; e ciò che udiva credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s'aprisse; ma invano sperava.
Essa infino vicino della mezza notte col suo amante sollazzatasi, gli disse:
- Che ti pare, anima mia, dello scolare nostro? Qual ti par maggiore o il suo senno o l'amore ch'io gli porto? Faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che per li miei motti vi t'entrò l'altrieri?
L'amante rispose:
- Cuor del corpo mio, sì, assai conosco che così come tu se'il mio bene e il mio riposo e il mio diletto e tutta la mia speranza, così sono io la tua.
- Adunque, - diceva la donna - or mi bacia ben mille volte, a veder se tu di'vero.
- Per la qual cosa l'amante, abbracciandola stretta, non che mille, ma più di cento milia la baciava.
E poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la donna:
- Deh! levianci un poco, e andiamo a vedere se 'l fuoco è punto spento, nel quale questo mio novello amante tutto il dì mi scrivea che ardeva.
E levati, alla finestretta usata n'andarono, e nella corte guardando, videro lo scolare fare su per la neve una carola trita al suon d'un batter di denti, che egli faceva per troppo freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano.
Allora disse la donna:
- Che dirai, speranza mia dolce? Parti che io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o di cornamusa?
A cui l'amante ridendo rispose:
- Diletto mio grande, sì.
Disse la donna:
- Io voglio che noi andiamo infin giù all'uscio: tu ti starai cheto e io gli parlerò, e udirem quello che egli dirà; e per avventura n'avrem non men festa che noi abbiam di vederlo.
E aperta la camera chetamente, se ne scesero all'uscio, e quivi, senza aprir punto, la donna con voce sommessa da un pertugetto che v'era il chiamò.
Lo scolare, udendosi chiamare, lodò Iddio, credendosi troppo bene entrar dentro; e accostatosi all'uscio disse:
- Eccomi qui, madonna: aprite per Dio, ché io muoio di freddo.
La donna disse:
- O sì che io so che tu se'uno assiderato; e anche è il freddo molto grande, perché costì sia un poco di neve! Già so io che elle sono molto maggiori a Parigi.
Io non ti posso ancora aprire, per ciò che questo mio maladetto fratello, che ier sera ci venne meco a cenare, non se ne va ancora; ma egli se n'andrà tosto, e io verrò incontanente ad aprirti.
Io mi son testé con gran fatica scantonata da lui, per venirti a confortare che l'aspettar non t'incresca.
Disse lo scolare:
- Deh! madonna, io vi priego per Dio che voi m'apriate, acciò che io possa costì dentro stare al coperto, per ciò che da poco in qua s'è messa la più folta neve del mondo, e nevica tuttavia; e io v'attenderò quanto vi sarà a grado.
Disse la donna:
- Ohimè, ben mio dolce, che io non posso ché questo uscio fa sì gran romore quando s'apre, che leggermente sarei sentita da fratelmo, se io t'aprissi; ma io voglio andare a dirgli che se ne vada, acciò che io possa poi tornare ad aprirti.
Disse lo scolare:
- Ora andate tosto; e priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io enterrò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì freddo che appena sento di me.
Disse la donna:
- Questo non dee potere essere, se quello è vero che tu m'hai più volte scritto, cioè che tu per l'amor di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi beffi.
Ora io vo: aspettati, e sia di buon cuore.
L'amante, che tutto udiva e aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono, anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi beffe dello scolare consumarono.
Lo scolare cattivello (quasi cicogna divenuto, sì forte batteva i denti) accorgendosi d'esser beffato, più volte tentò l'uscio se aprir lo potesse, e riguardò se altronde ne potesse uscire; né vedendo il come, faccendo le volte del leone, maladiceva la qualità del tempo, la malvagità della donna e la lunghezza della notte, insieme con la sua simplicità; e sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo e acerbo odio transmutò, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la quale ora molto più disiderava, che prima d'esser con la donna non avea disiato.
La notte, dopo molta e lunga dimoranza, s'avvicinò al dì, e cominciò l'alba ad apparire.
Per la qual cosa la fante della donna ammaestrata, scesa giù, aperse la corte, e mostrando d'aver compassion di costui, disse:
- Mala ventura possa egli avere che iersera ci venne.
Egli n'ha tutta notte tenute in bistento, e te ha fatto agghiacciare; ma sai che è? Portatelo in pace, ché quello che stanotte non è potuto essere sarà un'altra volta; so io bene che cosa non potrebbe essere avvenuta, che tanto fosse dispiaciuta a madonna.
Lo scolare sdegnoso, sì come savio, il quale sapeva niun'altra cosa le minacce essere che arme del minacciato, serrò dentro al petto suo ciò che la non temperata volontà s'ingegnava di mandar fuori, e con voce sommessa, senza punto mostrarsi crucciato, disse:
- Nel vero io ho avuta la piggior notte che io avessi mai, ma bene ho conosciuto che di ciò non ha la donna alcuna colpa, per ciò che essa medesima, sì come pietosa di me, infin quaggiù venne a scusar sé e a confortar me; e come tu di', quello che stanotte non è stato sarà un'altra volta; raccomandalemi e fatti con Dio.
E quasi tutto rattrappato, come potè a casa sua se ne tornò; dove, essendo stanco e di sonno morendo, sopra il letto si gittò a dormire, donde tutto quasi perduto delle braccia e delle gambe si destò.
Per che, mandato per alcun medico e dettogli il freddo che avuto avea, alla sua salute fe'provedere.
Li medici con grandissimi argomenti e con presti aiutandolo, appena dopo alquanto di tempo il poterono de' nervi guerire e far sì che si distendessero; e se non fosse che egli era giovane e sopravveniva il caldo, egli avrebbe avuto troppo da sostenere.
Ma ritornato sano e fresco, dentro il suo odio servando, vie più che mai si mostrava innamorato della vedova sua.
Ora avvenne, dopo certo spazio di tempo, che la fortuna apparecchiò caso da poter lo scolare al suo disiderio sodisfare; per ciò che, essendosi il giovane che dalla vedova era amato (non avendo alcun riguardo all'amore da lei portatogli), innamorato di un'altra donna, e non volendo né poco né molto dire né far cosa che a lei fosse a piacere, essa in lagrime e in amaritudine si consumava.
Ma la sua fante, la qual gran compassion le portava, non trovando modo da levar la sua donna dal dolor preso per lo perduto amante, vedendo lo scolare al modo usato per la contrada passare, entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che l'amante della donna sua ad amarla come far solea si dovesse poter riducere per alcuna nigromantica operazione, e che di ciò lo scolare dovesse essere gran maestro, e disselo alla sua donna.
La donna poco savia, senza pensare che, se lo scolare saputo avesse nigromantia, per sé adoperata l'avrebbe, pose l'animo alle parole della sua fante, e subitamente le disse che da lui sapesse se fare il volesse, e sicuramente gli promettesse che per merito di ciò, ella farebbe ciò che a lui piacesse.
La fante fece l'ambasciata bene e diligentemente, la quale udendo lo scolare, tutto lieto seco medesimo disse: - Iddio lodato sie tu: venuto è il tempo che io farò col tuo aiuto portar pena alla malvagia femina della ingiuria fattami in premio del grande amore che io le portava.
- E alla fante disse:
- Dirai alla mia donna che di questo non stea in pensiero, che, se il suo amante fosse in India, io gliele farò prestamente venire e domandar mercé di ciò che contro al suo piacere avesse fatto; ma il modo che ella abbia a tenere intorno a ciò, attendo di dire a lei, quando e dove più le piacerà; e così le di', e da mia parte la conforta.
La fante fece la risposta, e ordinossi che in Santa Lucia del Prato fossero insieme.
Quivi venuta la donna e lo scolare, e soli insieme parlando, non ricordandosi ella che lui quasi alla morte condotto avesse, gli disse apertamente ogni suo fatto e quello che disiderava, e pregollo per la sua salute.
A cui lo scolar disse:
- Madonna, egli è il vero che tra l'altre cose che io apparai a Parigi si fu nigromantia, della quale per certo io so ciò che n'è, ma per ciò che ella è di grandissimo dispiacer di Dio, io avea giurato di mai né per me né per altrui adoperarla.
E il vero che l'amore il quale io vi porto è di tanta forza, che io non so come io mi nieghi cosa che voi vogliate che io faccia; e per ciò, se io ne dovessi per questo solo andare a casa del diavolo, sì son presto di farlo, poi che vi piace.
Ma io vi ricordo che ella è più malagevole cosa a fare che voi per
avventura non v'avvisate; e massimamente quando una donna vuole rivocare uno uomo ad amar sé o l'uomo una donna, per ciò che questo non si può far se non per la propria persona a cui appartiene; e a far ciò convien che chi 'l fa sia di sicuro animo, per ciò che di notte si convien fare e in luoghi solitari e senza compagnia; le quali cose io non so come voi vi siate a far disposta.
A cui la donna, più innamorata che savia, rispose:
- Amor mi sprona per sì fatta maniera, che niuna cosa è la quale io non facessi per riaver colui che a torto m'ha abbandonata; ma tuttavia, se ti piace, mostrami in che mi convenga esser sicura.
Lo scolare, che di mal pelo avea taccata la coda, disse:
- Madonna, a me converrà fare una imagine di stagno in nome di colui il qual voi disiderate di racquistare, la quale quando io v'arò mandata, converrà che voi, essendo la luna molto scema, ignuda in un fiume vivo, in sul primo sonno e tutta sola, sette volte con lei vi bagniate; e appresso, così ignuda, n'andiate sopra ad un albero, o sopra una qualche casa disabitata; e, volta a tramontana con la imagine in mano, sette volte diciate certe parole che io vi darò scritte; le quali come dette avrete, verranno a voi due damigelle delle più belle che voi vedeste mai, e sì vi saluteranno e piacevolmente vi domanderanno quel che voi vogliate che si faccia.
A queste farete che voi diciate bene e pienamente i disideri vostri; e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro; e come detto l'avrete, elle si partiranno, e voi ve ne potrete scendere al luogo dove i vostri panni avrete lasciati e rivestirvi e tornarvene a casa.
E per certo, egli non sarà mezza la seguente notte, che il vostro amante piagnendo vi verrà a dimandar mercé e misericordia; e sappiate che mai da questa ora innanzi egli per alcuna altra non vi lascierà.
La donna, udendo queste cose e intera fede prestandovi, parendole il suo amante già riaver nelle braccia, mezza lieta divenuta disse:
- Non dubitare, che queste cose farò io troppo bene, e ho il più bel destro da ciò del mondo; ché io ho un podere verso il Vai d'Arno di sopra, il quale è assai vicino alla riva del fiume, ed egli è testé di luglio, che sarà il bagnarsi dilettevole.
E ancora mi ricorda esser non guari lontana dal fiume una torricella disabitata, se non che per cotali scale di castagnuoli che vi sono, salgono alcuna volta i pastori sopra un battuto che v'è, a guardar di lor bestie smarrite (luogo molto solingo e fuor di mano), sopra la quale io salirò, e quivi il meglio del mondo spero di fare quello che m'imporrai.
Lo scolare, che ottimamente sapeva e il luogo della donna e la torricella, contento d'esser certificato della sua intenzion, disse:
- Madonna, io non fu'mai in coteste contrade, e per ciò non so il podere né la torricella; ma, se così sta come voi dite, non può essere al mondo migliore.
E per ciò, quando tempo sarà, vi manderò la imagine e l'orazione; ma ben vi priego che, quando il vostro disiderio avrete e conoscerete che io v'avrò ben servita, che vi ricordi di me e d'attenermi la promessa.
A cui la donna disse di farlo senza alcun fallo; e preso da lui commiato, se ne tornò a casa.
Lo scolar lieto di ciò che il suo avviso pareva dovere avere effetto, fece una imagine con sue cateratte, e scrisse una sua favola per orazione; e, quando tempo gli parve, la mandò alla donna e mandolle a dire che la notte vegnente senza più indugio dovesse far quello che detto l'avea; e appresso segretamente con un suo fante se n'andò a casa d'un suo amico che assai vicino stava alla torricella, per dovere al suo pensiero dare effetto.
La donna d'altra parte con la sua fante si mise in via e al suo podere se n'andò; e come la notte fu venuta, vista faccendo d'andarsi al letto, la fante ne mandò a dormire, e in su l'ora del primo sonno, di casa chetamente uscita, vicino alla torricella sopra la riva d'Arno se n'andò, e molto dattorno guatatosi, né veggendo né sentendo alcuno, spogliatasi e i suoi panni sotto un cespuglio nascosi, sette volte con la imagine si bagnò, e appresso, ignuda con la imagine in mano, verso la torricella n'andò.
Lo scolare, il quale in sul fare della notte, col suo fante tra salci e altri alberi presso della torricella nascoso s'era, e aveva tutte queste cose vedute, e passandogli ella quasi allato così ignuda, ed egli veggendo lei con la bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte, e appresso riguardandole il petto e l'altre parti del corpo, e vedendole belle e seco pensando quali infra piccol termine dovean divenire, sentì di lei alcuna compassione; e d'altra parte lo stimolo della carne l'assalì subitamente e fece tale in piè levare che si giaceva, e con fortavalo che egli da guato uscisse e lei andasse a prendere e il suo piacer ne facesse; e vicin fu ad essere tra dall'uno e dal l'altro vinto.
Ma nella memoria tornandosi chi egli era, e qual fosse la 'ngiuria ricevuta, e perché e da cui, e per ciò nel lo sdegno raccesosi, e la compassione e il carnale appetito cacciati, stette nel suo proponimento fermo, e lasciolla andare.
La donna, montata in su la torre e a tramontana rivolta, cominciò a dire le parole datele dallo scolare; il quale, poco appresso nella torricella entrato, chetamente a poco a poco levò quella scala che saliva in sul battuto dove la donna era, e appresso aspettò quello che ella dovesse dire e fare.
La donna, detta sette volte la sua orazione, cominciò ad aspettare le due damigelle, e fu sì lungo l'aspettare (senza che fresco le faceva troppo più che voluto non avrebbe) che ella vide l'aurora apparire; per che, dolente che avvenuto non era ciò che lo scolare detto l'avea, seco disse: - Io temo che costui non m'abbia voluto dare una notte chente io diedi a lui; ma, se per ciò questo m'ha fatto, mal s'è saputo vendicare, ché questa non è stata lunga per lo terzo che fu la sua, senza che il I freddo fu d'altra qualità - .
E perché il giorno quivi non la cogliesse, cominciò a volere smontare della torre, ma ella trovò non esservi la scala.
Allora, quasi come se il mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì l'animo, e vinta cadde sopra il battuto della torre.
E poi che le forze le ritornarono, miseramente cominciò a piagnere e a dolersi; e assai ben conoscendo questa dovere essere stata opera dello scolare, s'incominciò a ramaricare d'avere altrui offeso, e appresso d'essersi troppo fidata di colui,
il quale ella doveva meritamente creder nimico; e in ciò stette
lunghissimo spazio.
Poi, riguardando se via alcuna da scender vi fosse e non veggendola, ricominciato il pianto, entrò in uno amaro pensiero, a sé stessa dicendo: - O sventurata, che si dirà da' tuoi fratelli, da' parenti e da' vicini, e generalmente da tutti i fiorentini, quando si saprà che tu sii qui trovata ignuda? La tua onestà, stata cotanta, sarà conosciuta essere stata falsa; e se tu volessi a queste ce avrebbe, il maladetto scolare, che tutti i fatti tuoi sa, non ti lascerà mentire.
Ahi misera te, che ad una ora avrai perduto il male amato giovane e il tuo onore! - E dopo questo venne in tanto dolore, che quasi fu per gittarsi della torre in terra.
Ma, essendosi già levato il sole ed ella alquanto più dall'una delle parti più al muro accostatasi della torre, guardando se alcuno fanciullo quivi colle bestie s'accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante, avvenne che lo scolare, avendo a piè d'un cespuglio dormito alquanto, destandosi la vide ed ella lui.
Alla quale lo scolare disse:
- Buon dì, madonna; sono ancor venute le damigelle?
La donna, vedendolo e udendolo, ricominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse, acciò che essa potesse parlargli.
Lo scolare le fu di questo assai cortese.
La donna, postasi a giacer boccone sopra il battuto, il capo solo fece alla cateratta di quello, e piagnendo disse:
- Rinieri, sicuramente, se io ti diedi la mala notte, tu ti se'ben di me vendicato, per ciò che, quantunque di luglio sia, mi sono io creduta questa notte, stando ignuda, assiderare; senza che io ho tanto pianto e lo 'nganno che io ti feci e la mia sciocchezza che ti credetti, che maraviglia è come gli occhi mi sono in capo rimasi.
E per ciò io ti priego, non per amor di me, la qual tu amar non dei, ma per amor di te, che se'gentile uomo, che ti basti, per vendetta della ingiuria la quale io ti feci, quello che infino a questo punto fatto hai, e faccimi i miei panni recare, e che io possa di quassù discendere, e non mi voler tor quello che tu poscia vogliendo render non mi potresti, cioè l'onor mio; ché, se io tolsi a te l'esser con meco quella notte, io, ognora che a grado ti fia, te ne posso render molte per quella una.
Bastiti adunque questo, e come a valente uomo, sieti assai l'esserti potuto vendicare e l'averlomi fatto conoscere; non volere le tue forze contro ad una femina esercitare; niuna gloria è ad una aquila l'aver vinta una colomba; dunque, per l'amor di Dio e per onor di te, t'incresca di me.
Lo scolare, con fiero animo seco la ricevuta ingiuria rivolgendo, e veggendo piagnere e pregare, ad una ora aveva pia cere e noia nello animo; piacere della vendetta, la quale più che altra cosa disiderata avea; e noia sentiva, movendolo la umanità sua a compassion della misera.
Ma pur, non potendo la umanità vincere la fierezza dello appetito, rispose:
- Madonna Elena, se i miei prieghi (li quali nel vero io non seppi bagnare di lagrime né far melati come tu ora sai porgere i tuoi) m'avessero impetrato, la notte che io nella tua corte di neve piena moriva di freddo, di potere essere stato messo da te pure un poco sotto il coperto, leggier cosa mi sarebbe al presente i tuoi esaudire; ma se cotanto or più che per lo passato del tuo onor ti cale, ed etti grave il costà su ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle cui braccia non t'increbbe, quella notte che tu stessa ricordi, ignuda stare, me sentendo per la tua corte andare i denti battendo e scalpitando la neve, e a lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare, a lui ti fa por la scala per la qual tu scenda, in lui t'ingegna di mettere tenerezza del tuo onore, per cui quel medesimo, e ora e mille altre volte, non hai dubitato di mettere in periglio.
Come nol chiami tu che ti venga ad aiutare? E a cui appartiene egli più che a lui? Tu se'sua: e quali cose guarderà egli o aiuterà, se egli non guarda e aiuta te? Chiamalo, stolta che tu se', e prova se l'amore il quale tu gli porti e il tuo senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare, la qual, sollazzando con lui, domandasti quale gli pareva maggiore o la mia sciocchezza o l'amor che tu gli portavi.
Né essere a me ora cortese di ciò che io non disidero, né negare il mi puoi se io il disiderassi; al tuo amante le tue notti riserba, se egli avviene che tu di qui viva ti parti; tue sieno e di lui; io n'ebbi troppo d'una, e bastimi d'essere stato una volta schernito.
E ancora, la tua astuzia usando nel favellare, t'ingegni col commendarmi la mia benivolenzia acquistare, e chiamimi gentile uomo e valente, e tacitamente, che io come magnanimo mi ritragga dal punirti della tua malvagità, t'ingegni di fare; ma le tue lusinghe non m'adombreranno ora gli occhi dello 'ntelletto, come già fecero le tue disleali promessioni; io mi conosco, né tanto di me stesso apparai mentre dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte delle tue mi facesti conoscere.
Ma, presupposto che io pur magnammo fossi, non se'tu di quelle in cui la magnanimità debba i suoi effetti mostrare; la fine della penitenzia, nelle salvatiche fiere come tu se', e similmente della vendetta, vuole esser la morte, dove negli uomini quel dee bastare che tu dicesti.
Per che, quatunque io aquila non sia, te non colomba, ma velenosa serpe conoscendo, come antichissimo nimico con ogni odio e con tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che questo che io ti fo non si possa assai propiamente vendetta chiamare, ma più tosto gastigamento, in quanto la vendetta dee trapassare l'offesa, e questo non v'aggiugnerà; per ciò che se io vendicar mi volessi, riguardando a che partito tu ponesti l'anima mia, la tua vita non mi basterebbe, togliendolati, né cento altre alla tua simiglianti, per ciò che io ucciderei una vile e cattiva e rea feminetta.
E da che diavol (togliendo via cotesto tuo pochetto di viso, il quale pochi anni guasteranno riempiendolo di crespe) se'tu più che qualunque altra dolorosetta fante? Dove per te non rimase di far morire un valente uomo, come tu poco avanti mi chiamasti, la cui vita ancora potrà più in un dì essere utile al mondo, che centomilia tue pari non potranno mentre il mondo durar dee.
Insegnerotti adunque con questa noia che tu sostieni che cosa sia lo schernir gli uomini che hanno alcun sentimento, e che cosa sia lo schernir gli scolari; e darotti materia di giammai più in tal follia non cader, se tu campi.
Ma, se tu n'hai così gran voglia di scendere, ché non te ne gitti tu in terra? E ad una ora con lo aiuto di Dio fiaccandoti tu il collo, uscirai della pena nella quale esser ti pare, e me farai il più lieto uomo del mondo.
Ora io non ti vo'dir più; io seppi tanto fare che io costà su ti feci salire; sappi tu ora tanto fare che tu ne scenda, come tu mi sapesti beffare.
Parte che lo scolare questo diceva, la misera donna piagneva continuo, e il tempo se n'andava, sagliendo tuttavia il sol più alto.
Ma poi che ella il sentì tacer, disse:
- Deh! crudele uomo, se egli ti fu tanto la maladetta notte grave e parveti il fallo mio così grande che né ti posson muovere a pietate alcuna la mia giovane bellezza, le amare lagrime né gli umili prieghi, almeno muovati alquanto e la tua severa rigidezza diminuisca questo solo mio atto, l'essermi di te nuovamente fidata e l'averti ogni mio segreto scoperto col quale ho dato via al tuo disidero in potermi fare del mio peccato conoscente; con ciò sia cosa che, senza fidarmi io di te, niuna via fosse a te a poterti di me vendicare, il che tu mostri con tanto ardore aver disiderato.
Deh! lascia l'ira tua e perdonami omai: io sono, quando tu perdonar mi vogli e di quinci farmi discendere, acconcia d'abbandonar del tutto il disleal giovane e te solo aver per amadore e per signore, quantunque tu molto la mia bellezza biasimi, brieve e poco cara mostrandola; la quale, chente che ella, insieme con quella dell'altre, si sia, pur so che, se per altro non fosse da aver cara, si è per ciò che vaghezza e trastullo e diletto è della giovanezza degli uomini; e tu non se'vecchio.
E quantunque io crudelmente da te trattata sia, non posso per ciò credere che tu volessi vedermi fare così disonesta morte, come sarebbe il gittarmi a guisa di disperata quinci giù dinanzi agli occhi tuoi, a' quali, se tu bugiardo non eri come sei diventato, già piacqui cotanto.
Deh! increscati di me per Dio e per pietà: il sole s'incomincia a riscaldar troppo, e come il troppo freddo questa notte m'offese, così il caldo m'incomincia a far grandissima noia.
A cui lo scolare, che a diletto la teneva a parole, rispose:
- Madonna, la tua fede non si rimise ora nelle mie mani per amor che tu mi portassi, ma per racquistare quello che tu perduto avevi; e per ciò niuna cosa merita altro che maggior male; e mattamente credi, se tu credi questa sola via senza più essere, alla disiderata vendetta da me, opportuna stata.
Io n'aveva mille altre, e mille lacciuoli, col mostrar d'amarti, t'aveva tesi intorno a' piedi, né guari di tempo era ad andare, che di necessità, se questo avvenuto non fosse, ti convenia in uno incappare; né potevi incappare in alcuno, che in maggior pena e vergogna che questa non ti fia caduta non fossi; e questo presi non per agevolarti, ma per esser più tosto lieto.
E dove tutti mancati mi fossero, non mi fuggiva la penna, con la quale tante e sì fatte cose di te scritte avrei e in sì fatta maniera, che, avendole tu risapute (ché l'avresti), avresti il dì mille volte disiderato di mai non esser nata.
Le forze della penna sono troppo maggiori che coloro non estimano che quelle con conoscimento provate non hanno.
Io giuro a Dio (e se egli di questa vendetta, che io di te prendo, mi faccia allegro infin la fine, come nel cominciamento m'ha fatto) che io avrei di te scritte cose che, non che dell'altre persone, ma di te stessa vergognandoti, per non poterti vedere t'avresti cavati gli occhi; e per ciò non rimproverare al mare d'averlo fatto crescere il piccolo ruscelletto.
Del tuo amore, o che tu sii mia, non ho io, come già dissi, alcuna cura; sieti pur di colui di cui stata se', se tu puoi, il quale, come io già odiai, così al presente amo, riguardando a ciò che egli ha ora verso te operato.
Voi v'andate innamorando e disiderate l'amor de' giovani, per ciò che alquanto con le carni più vive e con le barbe più nere gli vedete, e sopra sé andare e carolare e giostrare; le quali cose tutte ebber coloro che più alquanto attempati sono, e quel sanno che coloro hanno ad imparare.
E oltre a ciò, gli stimate miglior cavalieri e far di più miglia le lor giornate che gli uomini più maturi.
Certo io confesso che essi con maggior forza scuotono i pilliccioni, ma gli attempati, sì come esperti, sanno meglio i luoghi dove stanno le pulci; e di gran lunga è da eleggere più tosto il poco e saporito che il molto e insipido; e il trottar forte rompe e stanca altrui, quantunque sia giovane, dove il soavemente andare, ancora che alquanto più tardi altrui meni allo albergo, egli il vi conduce almen riposato.
Voi non v'accorgete, animali senza intelletto, quanto di male sotto quella poca di bella apparenza stea nascoso.
Non sono i giovani d'una contenti, ma quante ne veggono tante ne disiderano, di tante par loro esser degni; per che essere non può stabile il loro amore; e tu ora ne puoi per pruova esser verissima testimonia.
E par loro esser degni d'essere reveriti e careggiati dalle loro donne; né altra gloria hanno maggiore che il vantarsi di quelle che hanno avute; il qual fallo già sotto a' frati, che nol ridicono, ne mise molte.
Benché tu dichi che mai i tuoi amori non seppe altri che la tua fante e io, tu il sai male, e mal credi se così credi.
La sua contrada quasi di niun'altra cosa ragiona, e la tua; ma le più volte è l'ultimo, a cui cotali cose agli orecchi pervengono, colui a cui elle appartengono.
Essi ancora vi rubano, dove dagli attempati v'è donato.
Tu adunque, che male eleggesti, sieti di colui a cui tu ti desti, e me, il quale schernisti, lascia stare ad altrui, ché io ho trovata donna da molto più che tu non se', che meglio n'ha conosciuto che tu non facesti.
E acciò che tu del disidero degli occhi miei possi maggior certezza nell'altro mondo portare che non mostra che tu in questo prenda dalle mie parole, gittati giù pur tosto, e l'anima tua, sì come io credo, già ricevuta nel le braccia del diavolo, potrà vedere se gli occhi miei d'averti veduta strabocchevolmente cadere si saranno turbati o no.
Ma per ciò che io credo che di tanto non mi vorrai far lieto, ti dico che, se il sole ti comincia a scaldare, ricorditi del freddo che tu a me facesti patire, e se con cotesto caldo il mescolerai, senza fallo il sol sentirai temperato.
La sconsolata donna, veggendo che pure a crudel fine riuscivano le parole dello scolare, ricominciò a piagnere e disse:
- Ecco, poi che niuna mia cosa di me a pietà ti muove, muovati l'amore, il qual tu porti a quella donna che più savia di me di'che hai trovata, e da cui tu di'che se'amato, e per amor di lei mi perdona e i miei panni mi reca, ché io rivestir mi possa, e quinci mi fa smontare.
Lo scolare allora cominciò a ridere; e veggendo che già la terza era di buona ora passata, rispose:
- Ecco, io non so ora dir di no, per tal donna me n'hai pregato; insegnamegli, e io andrò per essi e farotti di costà su scendere.
La donna, ciò credendo, alquanto si confortò, e insegnogli il luogo dove aveva i panni posti.
Lo scolare, della torre uscito, comandò al fante suo che di quindi non si partisse, anzi vi stesse vicino, e a suo poter guardasse che alcun non v'entrasse dentro infino a tanto che egli tornato fosse; e questo detto, se n'andò a casa del suo amico, e quivi a grande agio desinò, e appresso, quando ora gli parve, s'andò a dormire.
La donna, sopra la torre rimasa, quantunque da sciocca speranza un poco riconfortata fosse, pure oltre misura dolente si dirizzò a sedere, e a quella parte del muro dove un poco d'ombra era s'accostò, e cominciò accompagnata da amarissimi pensieri ad aspettare; e ora pensando e ora piagnendo, e ora sperando e or disperando della tornata dello scolare co' panni, e d'un pensiero in altro saltando, sì come quella che dal dolore era vinta, e che niente la notte passata aveva dormito, s'addormentò.
Il sole, il quale era ferventissimo, essendo già al mezzo giorno salito, feriva alla scoperta e al diritto sopra il tenero e dilicato corpo di costei e sopra la sua testa, da niuna cosa coperta, con tanta forza, che non solamente le cosse le carni tanto quanto ne vedea, ma quelle minuto minuto tutte l'aperse; e fu la cottura tale, che lei che profondamente dormiva constrinse a destarsi.
E sentendosi cuocere e alquanto movendosi, parve nel muoversi che tutta la cotta pelle le s'aprisse e ischiantasse, come veggiamo avvenire d'una carta di pecora abbruciata, se altri la tira; e oltre a questo le doleva sì forte la testa, che pareva che le si spezzasse, il che niuna maraviglia era.
E il battuto della torre era fervente tanto, che ella né co' piedi né con altro vi poteva trovar luogo; per che, senza star ferma, or qua or là si tramutava piagnendo.
E oltre a questo, non faccendo punto di vento, v'erano mosche e tafani in grandissima quantità abondanti, li quali, ponendolesi sopra le carni aperte, sì fieramente la stimolavano, che ciascuna le pareva una puntura d'uno spontone per che ella di menare le mani attorno non restava niente, sé, la sua vita, il suo amante e lo scolare sempre maladicendo.
E così essendo dal caldo inestimabile, dal sole, dalle mosche e da' tafani, e ancor dalla fame, ma molto più dalla sete, e per aggiunta da mille noiosi pensieri angosciata e stimolata e trafitta, in piè dirizzata, cominciò a guardare se vicin di sé o vedesse o udisse alcuna persona, disposta del tutto, che che avvenire ne le dovesse, di chiamarla e di domandare aiuto.
Ma anche questo l'aveva la sua nimica fortuna tolto.
I lavoratori eran tutti partiti de' campi per lo caldo, avvegna che quel dì niuno ivi appresso era andato a lavorare, sì come quegli che allato alle lor case tutti le lor biade battevano; per che niuna altra cosa udiva che cicale, e vedeva Arno, il qual, porgendole disiderio delle sue acque, non iscemava la sete ma l'accresceva.
Vedeva ancora in più luoghi boschi e ombre e case, le quali tutte similmente l'erano angoscia disiderando.
Che direm più della sventurata vedova? Il sol di sopra e il fervor del battuto di sotto e le trafitture delle mosche e de' tafani da lato sì per tutto l'avean concia, che ella, dove la notte passata con la sua bianchezza vinceva le tenebre, allora rossa divenuta come robbia, e tutta di sangue chiazata, sarebbe paruta, a chi veduta l'avesse, la più brutta cosa del mondo.
E così dimorando costei, senza consiglio alcuno o speranza, più la morte aspettando che altro, essendo già la mezza nona passata, lo scolare, da dormir levatosi e della sua donna ricordandosi, per veder che di lei fosse se ne tornò alla torre, e il suo fante, che ancora era digiuno, ne mandò a mangiare; il quale avendo la donna sentito, debole e della grave noia angosciosa, venne sopra la cateratta, e postasi a sedere, piagnendo cominciò a dire:
- Rinieri, ben ti se'oltre misura vendico, ché se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare, tu hai me di giorno sopra questa torre fatta arrostire, anzi ardere, e oltre a ciò di fame e di sete morire; per che io ti priego per solo Iddio che qua su salghi, e poi che a me non soffera il cuore di dare a me stessa la morte, dallami tu, ché io la disidero più che altra cosa, tanto e tale è il tormento che io sento.
E se tu questa grazia non mi vuoi fare, almeno un bicchier d'acqua mi fa venire, che io possa bagnarmi la bocca, alla quale non bastano le mie lagrime, tanta è l'asciugaggine e l'arsura la quale io v'ho dentro.
Ben conobbe lo scolare alla voce la sua debolezza, e ancor vide in parte il corpo suo tutto riarso dal sole, per le quali cose e per gli umili suoi prieghi un poco di compassione gli venne di lei; ma non per tanto rispose:
- Malvagia donna, delle mie mani non morrai tu già, tu morrai pur delle tue, se voglia te ne verrà; e tanta acqua avrai da me a sollevamento del tuo caldo, quanto fuoco io ebbi da te ad alleggiamento del mio freddo.
Di tanto mi dolgo forte, che la 'nfermità del mio freddo col caldo del letame puzzolente si convenne curare, ove quella del tuo caldo col freddo della odorifera acqua rosa si curerà; e dove io per perdere i nervi e la persona fui, tu da questo caldo scorticata, non altramenti rimarrai bella che faccia la serpe lasciando il vecchio cuoio.
- O misera me! - disse la donna - queste bellezze in così fatta guisa acquistate dea Iddio a quelle persone che mal mi vogliono; ma tu, più crudele che ogni altra fiera, come hai potuto sofferire di straziarmi a questa maniera? Che più doveva io aspettar da te o da alcuno altro, se io tutto il tuo parentado sotto crudelissimi tormenti avessi uccisi? Certo io non so qual maggior crudeltà si fosse potuta usare in un traditore che tutta una città avesse messa ad uccisione, che quella alla qual tu m'hai posta a farmi arrostire al sole e manicare alle mosche; e oltre a questo non un bicchier d'acqua volermi dare, che a' micidiali dannati dalla ragione, andando essi alla morte, è dato ber molte volte del vino, pur che essi ne domandino.
Ora ecco, poscia che io veggo te star fermo nella tua acerba crudeltà, né poterti la mia passione in parte alcuna muovere, con pazienzia mi disporrò alla morte ricevere, acciò che Iddio abbia misericordia della anima mia, il quale io priego che con giusti occhi questa tua operazion riguardi.
E queste parole dette, si trasse con gravosa sua pena verso il mezzo del battuto, disperandosi di dovere da così ardente caldo campare; e non una volta ma mille, oltre agli altri suoi dolori, credette di sete ispasimare, tuttavia piagnendo forte e della sua sciagura dolendosi.
Ma essendo già vespro e parendo allo scolare avere assai fatto, fatti prendere i panni di lei e inviluppare nel mantello del fante, verso la casa della misera donna se n'andò, e quivi sconsolata e trista e senza consiglio la fante di lei trovò sopra la porta sedersi, alla quale egli disse:
- Buona femina, che è della donna tua?
A cui la fante rispose:
- Messere, io non so; io mi credeva stamane trovarla nel letto dove iersera me l'era paruta vedere andare; ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta, di che io vivo con grandissimo dolore; ma voi, messere, saprestemene dir niente?
A cui lo scolar rispose:
- Così avess'io avuta te con lei insieme là dove io ho lei avuta, acciò che io t'avessi della tua colpa così punita come io ho lei della sua! Ma fermamente tu non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì dell'opere tue che mai di niuno uomo farai beffe che di me non ti ricordi.
- E questo detto, disse al suo fante:
- Dalle cotesti panni e dille che vada per lei, s'ella vuole.
Il fante fece il suo comandamento; per che la fante, presigli e riconosciutigli, udendo ciò che detto l'era, temette forte non l'avessero uccisa, e appena di gridar si ritenne; e subitamente, piagnendo, essendosi già lo scolar partito, con quegli verso la torre n'andò correndo.
Aveva per isciagura uno lavoratore di questa donna quel dì due suoi porci smarriti, e andandoli cercando, poco dopo la partita dello scolare a quella torricella pervenne, e andando guatando per tutto se i suoi porci vedesse, sentì il miserabile pianto che la sventurata donna faceva, per che salito su quanto potè, gridò:
- Chi piagne là su?
La donna conobbe la voce del suo lavoratore, e chiamatol per nome gli disse:
- Deh! vammi per la mia fante, e fa sì che ella possa qua su a me venire.
Il lavoratore, conosciutala, disse:
- Ohimè! madonna: o chi vi portò costà su? La fante vostra v'è tutto dì oggi andata cercando; ma chi avrebbe mai pensato che voi doveste essere stata qui?
E presi i travicelli della scala, la cominciò a dirizzar come star dovea e a legarvi con ritorte i bastoni a traverso.
E in questo la fante di lei sopravenne, la quale, nella torre entrata, non potendo più la voce tenere, battendosi a palme cominciò a gridare:
- Ohimè, donna mia dolce, ove siete voi?
La donna udendola, come più forte potè, disse:
- O sirocchia mia, io son qua su; non piagnere, ma recami tosto i panni miei.
Quando la fante l'udì parlare, quasi tutta riconfortata, salì su per la scala già presso che racconcia dal lavoratore, e aiutata da lui in sul battuto pervenne; e vedendo la donna sua, non corpo umano ma più tosto un cepperello innarsicciato parere, tutta vinta, tutta spunta, e giacere in terra ignuda, messesi l'unghie nel viso cominciò a piagnere sopra di lei, non altramenti che se morta fosse.
Ma la donna la pregò per Dio che ella tacesse e lei rivestire aiutasse.
E avendo da lei saputo che niuna persona sapeva dove ella stata fosse, se non coloro che i panni portati l'aveano e il lavoratore che al presente v'era, alquanto di ciò racconsolata, gli pregò per Dio che mai ad alcuna persona di ciò niente dicessero.
Il lavoratore dopo molte novelle, levatasi la donna in collo, che andar non poteva, salvamente infin fuor della torre la condusse.
La fante cattivella, che di dietro era rimasa, scendendo meno avvedutamente, smucciandole il piè, cadde della scala in terra e ruppesi la coscia, e per lo dolor sentito cominciò a mugghiar che pareva un leone.
Il lavoratore, posata la donna sopra ad uno erbaio, andò a vedere che avesse la fante, e trovatala con la coscia rotta, similmente nello erbaio la recò, e allato alla donna la pose.
La quale veggendo questo a giunta degli altri suoi mali avvenuto, e colei avere rotta la coscia da cui ella sperava essere aiutata più che da altrui, dolorosa senza modo ricominciò il suo pianto tanto miseramente, che non solamente il lavoratore non la potè racconsolare, ma egli altressì cominciò a piagnere.
Ma, essendo già il sol basso, acciò che quivi non gli cogliesse la notte, come alla sconsolata donna piacque, n'andò alla casa sua, e quivi chiamati due suoi fratelli e la moglie, e là tornati con una tavola, su v'acconciarono la fante e alla casa ne la portarono; e riconfortata la donna con un poco d'acqua fresca e con buone parole, levatalasi il lavoratore in collo, nella camera di lei la portò.
La moglie del lavoratore, datole mangiar pan lavato e poi spogliatala, nel letto la mise, e ordinarono che essa e la fante fosser la notte portate a Firenze; e così fu fatto.
Quivi la donna, che aveva a gran divizia lacciuoli, fatta una sua favola tutta fuor dell'ordine delle cose avvenute, sì di sé e sì della sua fante fece a' suoi fratelli e alle sirocchie e ad ogn'altra persona credere che per indozzamenti di demoni questo loro fosse avvenuto.
I medici furon presti, e non senza grandissima angoscia e affanno della donna che tutta la pelle più volte appiccata lasciò alle lenzuola, lei d'una fiera febbre e degli altri accidenti guerirono, e similmente la fante della coscia.
Per la qual cosa la donna, dimenticato il suo amante, da indi innanzi e di beffare e d'amare si guardò saviamente.
E lo scolare, sentendo alla fante la coscia rotta, parendogli avere assai intera vendetta, lieto, senza altro dirne, se ne passò.
Così adunque alla stolta giovane addivenne delle sue beffe, non altramente con uno scolare credendosi frascheggiare che con un altro avrebbe fatto; non sappiendo bene che essi, non dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda.
E per ciò guardatevi, donne, dal beffare, e gli scolari spezialmente.
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Novella Ottava
Due usano insieme; l'uno con la moglie dell'altro si giace; l'altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che l'uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l'un dentro, l'altro con la moglie dell'un si giace.
Gravi e noiosi erano stati i casi d'Elena ad ascoltare alle donne; ma per ciò che in parte giustamente avvenutigli gli estimavano, con più moderata compassion gli avean trapassati, quantunque rigido e costante fieramente, anzi crudele, riputassero lo scolare.
Ma essendo Pampinea venutane alla fine, la reina alla Fiammetta impose che seguitasse, la quale, d'ubidire disiderosa, disse.
Piacevoli donne, per ciò che mi pare che alquanto trafitto v'abbia la severità dello offeso scolare, estimo che convenevole sia con alcuna cosa più dilettevole rammorbidire gl'innacerbiti spiriti; e per ciò intendo di dirvi una novelletta d'un giovane, il quale con più mansueto animo una ingiuria ricevette, e quella con più moderata operazion vendicò.
Per la quale potrete comprendere che assai dee bastare a ciascuno, se quale asino dà in parete tal riceve, senza volere, soprabondando oltre la convenevoleza della vendetta, ingiuriare, dove l'uomo si mette alla ricevuta ingiuria vendicare.
Dovete adunque sapere che in Siena, sì come io intesi già, furon due giovani assai agiati e di buone famiglie popolane, de' quali l'uno ebbe nome Spinelloccio Tavena e l'altro ebbe nome Zeppa di Mino, e amenduni eran vicini a casa in Cammollia.
Questi due giovani sempre usavano insieme, e per quello che mostrassono, così s'amavano, o più, come se stati fosser fratelli, e ciascun di loro avea per moglie una donna assai bella.
Ora avvenne che Spinelloccio, usando molto in casa del Zeppa, ed essendovi il Zeppa e non essendovi, per sì fatta maniera con la moglie del Zeppa si dimesticò, che egli incominciò a giacersi con essolei; e in questo continuarono una buona pezza avanti che persona se n'avvedesse.
Pure al lungo andare, essendo un giorno il Zeppa in casa e non sappiendolo la donna, Spinelloccio venne a chiamarlo.
La donna disse che egli non era in casa; di che Spinelloccio prestamente andato su e trovata la donna nella sala, e veggendo che altri non v'era, abbracciatala la cominciò a baciare, ed ella lui.
Il Zeppa, che questo vide, non fece motto, ma nascoso si stette a veder quello a che il giuoco dovesse riuscire; e brievemente egli vide la sua moglie e Spinelloccio così abbracciati andarsene in camera e in quella serrarsi, di che egli si turbò forte.
Ma conoscendo che per far romore né per altro la sua ingiuria non diveniva minore, anzi ne cresceva la vergogna, si diede a pensar che vendetta di questa cosa dovesse fare, che, senza sapersi dattorno, l'animo suo rimanesse contento; e dopo lungo pensiero, parendogli aver trovato il modo, tanto stette nascoso quanto Spinelloccio stette con la donna.
Il quale come andato se ne fu, così egli nella camera se n'entrò, dove trovò la donna che ancora non s'era compiuta di racconciare i veli in capo, li quali scherzando Spinelloccio fatti l'aveva cadere, e disse:
- Donna, che fai tu?
A cui la donna rispose:
- Nol vedi tu?
Disse il Zeppa:
- Sì bene, sì, ho io veduto anche altro che io non vorrei; - e con lei delle cose state entrò in parole, ed essa con grandissima paura dopo molte novelle quello avendogli confessato che acconciamente della sua dimestichezza con Ispinelloccio negar non potea, piagnendo gl'incominciò a chieder perdono.
Alla quale il Zeppa disse:
- Vedi, donna, tu hai fatto male, il quale se tu vuogli che io ti perdoni, pensa di fare compiutamente quello che io t'imporrò, il che è questo.
Io voglio che tu dichi a Spinelloccio che domattina in su l'ora della terza egli truovi qualche cagione di partirsi da me e venirsene qui a te; e quando egli ci sarà, io tornerò, e come tu mi senti, cosi il fa entrare in questa cassa e serracel dentro; poi, quando questo fatto avrai, e io ti dirò il rimanente che a fare avrai; e di far questo non aver dottanza niuna, ché io ti prometto che io non gli farò male alcuno.
La donna, per sodisfargli, disse di farlo, e così fece.
Venuto il dì seguente, essendo il Zeppa e Spinelloccio insieme in su la terza, Spinelloccio, che promesso aveva alla donna d'andare a lei a quella ora, disse al Zeppa:
- Io debbo stamane desinare con alcuno amico, al quale io non mi voglio fare aspettare, e per ciò fatti con Dio.
Disse il Zeppa:
- Egli non è ora di desinare di questa pezza.
Spinelloccio disse:
- Non fa forza; io ho altressì a parlar seco d'un mio fatto, sì che egli mi vi convien pure essere a buona ora.
Partitosi adunque Spinelloccio dal Zeppa, data una sua volta, fu in casa con la moglie di lui; ed essendosene entrati in camera, non stette guari che il Zeppa tornò; il quale come la donna sentì, mostratasi paurosa molto, lui fece ricoverare in quella cassa che il marito detto l'avea e serrollovi entro, e uscì della camera.
Il Zeppa, giunto suso, disse:
- Donna, è egli otta di desinare?
La donna rispose:
- Sì, oggimai.
Disse allora il Zeppa:
- Spinelloccio è andato a desinare stamane con un suo amico e ha la donna sua lasciata sola; fatti alla finestra e chiamala, e dì che venga a desinar con essonoi.
La donna, di sé stessa temendo e per ciò molto ubbidiente divenuta, fece quello che il marito le 'mpose.
La moglie di Spinelloccio, pregata molto dalla moglie del Zeppa, vi venne, udendo che il marito non vi doveva desinare.
E quando ella venuta fu, il Zeppa, faccendole le carezze grandi e presala dimesticamente per mano, comandò pianamente alla moglie che in cucina n'andasse, e quella seco ne menò in camera, nella quale come fu, voltatosi addietro, serrò la camera dentro.
Quando la donna vide serrar la camera dentro, disse:
- Ohimè, Zeppa, che vuol dire questo? Dunque mi ci avete voi fatta venir per questo? Ora, è questo l'amor che voi portate a Spinelloccio e la leale compagnia che voi gli fate?
Alla quale il Zeppa, accostatosi alla cassa dove serrato era il marito di lei e tenendola bene, disse:
- Donna, imprima che tu ti ramarichi, ascolta ciò che io ti vo'dire: io ho amato e amo Spinelloccio come fratello, e ieri, come che egli nol sappia, io trovai che la fidanza la quale io ho di lui avuta era pervenuta a questo, che egli con la mia donna così si giace come con teco; ora, per ciò che io l'amo, non intendo di voler di lui pigliare altra vendetta, se non quale è stata l'offesa: egli ha la mia donna avuta, e io intendo d'aver te.
Dove tu non vogli, per certo egli converrà che io il ci colga, e per ciò che io non intendo di lasciare questa ingiuria impunita, io gli farò giuoco che né tu né egli sarete mai lieti.
La donna, udendo questo e dopo molte riconfermazioni fattelene dal Zeppa, credendol, disse:
- Zeppa mio, poi che sopra me dee cadere questa vendetta, e io son contenta, sì veramente che tu mi facci, di questo che far dobbiamo, rimanere in pace con la tua donna, come io, non ostante quello che ella m'ha fatto, intendo di rimaner con lei.
A cui il Zeppa rispose:
- Sicuramente io il farò; e oltre a questo ti donerò un così caro e bello gioiello, come niun altro che tu n'abbi; - e così detto, abbracciatala e cominciatala a baciare, la distese sopra la cassa, nella quale era il marito di lei serrato e quivi su, quanto gli piacque, con lei si sollazzò, ed ella con lui.
Spinelloccio, che nella cassa era e udite aveva tutte le parole dal Zeppa dette e la risposta della sua moglie, e poi aveva sentita la danza trivigiana che sopra il capo fatta gli era, una grandissima pezza sentì tal dolore che parea che morisse; e se non fosse che egli temeva del Zeppa, egli avrebbe detta alla moglie una gran villania così rinchiuso come era.
Poi, pur ripensandosi che da lui era la villania incominciata e che il Zeppa aveva ragione di far ciò che egli faceva, e che verso di lui umanamente e come compagno s'era portato, seco stesso disse di volere esser più che mai amico del Zeppa, quando volesse.
Il Zeppa, stato con la donna quanto gli piacque, scese della cassa, e domandando la donna il gioiello promesso, aperta la camera fece venir la moglie, la quale niun'altra cosa disse, se non:
- Madonna, voi m'avete renduto pan per focaccia; - e questo disse ridendo.
Alla quale il Zeppa disse:
- Apri questa cassa; - ed ella il fece; nella quale il Zeppa mostrò alla donna il suo Spinelloccio.
E lungo sarebbe a dire qual più di lor due si vergognò, o Spinelloccio vedendo il Zeppa e sappiendo che egli sapeva ciò che fatto aveva, o la donna vedendo il suo marito e conoscendo che egli aveva e udito e sentito ciò che ella sopra il capo fatto gli aveva.
Alla quale il Zeppa disse:
- Ecco il gioiello il quale io ti dono.
Spinelloccio, uscito della cassa, senza far troppe novelle, disse:
- Zeppa, noi siam pari pari; e per ciò è buono, come tu dicevi dianzi alla mia donna, che noi siamo amici come solavamo; e non essendo tra noi due niun'altra cosa che le mogli divisa, che noi quelle ancora comunichiamo.
Il Zeppa fu contento; e nella miglior pace del mondo tutti e quattro desinarono insieme.
E da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti, e ciascun di loro ebbe due mogli, senza alcuna quistione o zuffa mai per quello insieme averne.
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Novella Nona
Maestro Simone medico, da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d'una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi.
Poi che le donne alquanto ebber cianciato dello accomunar le mogli fatto da' due sanesi, la reina, alla qual sola restava a dire, per non fare ingiuria a Dioneo, incominciò.
Assai bene, amorose donne, si guadagnò Spinelloccio la beffa che fatta gli fu dal Zeppa; per la qual cosa non mi pare che agramente sia da riprendere, come Pampinea volle poco innanzi mostrare, chi fa beffa alcuna a colui che la va cercando o che la si guadagna.
Spinelloccio la si guadagnò; e io intendo di dirvi d'uno che se l'andò cercando; estimando che quegli che gliele fecero, non da biasimare ma da com mendar sieno.
E fu colui a cui fu fatta un medico, che a Firenze da Bologna, essendo una pecora, tornò tutto coperto di pelli di vai.
Sì come noi veggiamo tutto il dì i nostri cittadini da Bologna ci tornano qual giudice e qual medico e qual notaio, co' panni lunghi e larghi, e con gli scarlatti e co' vai, e con altre assai apparenze grandissime, alle quali come gli effetti succedano anche veggiamo tutto giorno.
Tra'quali un maestro Simone da Villa, più ricco di ben paterni che di scienza, non ha gran tempo, vestito di scarlatto e con un gran batalo, dottor di medicine, secondo che egli medesimo diceva, ci ritornò, e prese casa nella via la quale noi oggi chiamiamo la Via del Cocomero.
Questo maestro Simone novellamente tornato, sì come è detto, tra gli altri suoi costumi notabili aveva in costume di domandare chi con lui era chi fosse qualunque uomo veduto avesse per via passare; e quasi degli atti degli uomini dovesse le medicine che dar doveva a' suoi infermi comporre, a tutti poneva mente e raccoglievali.
E intra gli altri, alli quali con più efficacia gli vennero gli occhi addosso posti, furono due dipintori dei quali s'è oggi qui due volte ragionato, Bruno e Buffalmacco, la compagnia de' quali era continua, ed eran suoi vicini.
E parendogli che costoro meno che alcuni altri del mondo curassero e più lieti vivessero, sì come essi facevano, più persone domandò di lor condizione; e udendo da tutti costoro essere poveri uomini e dipintori, gli entrò nel capo non dover potere essere che essi dovessero così lietamente vivere della lor povertà, ma s'avvisò, per ciò che udito avea, che astuti uomini erano, che d'alcuna altra parte non saputa da gli uomini dovesser trarre profitti grandissimi; e per ciò gli venne in disidero di volersi, se esso potesse con amenduni, o con l'uno almeno, dimesticare; e vennegli fatto di prendere dimestichezza con Bruno.
E Bruno, conoscendo, in poche di volte che con lui stato era, questo medico essere uno animale, cominciò di lui ad avere il più bel tempo del mondo con sue nuove novelle, e il medico similmente cominciò di lui a prendere maraviglioso piacere.
E avendolo alcuna volta seco invitato a desinare e per questo credendosi dimesticamente con lui poter ragionare, gli disse la maraviglia che egli si faceva di lui e di Buffalmacco, che, essendo poveri uomini, così lietamente viveano; e pregollo che gli 'nsegnasse come facevano.
Bruno, udendo il medico, e parendogli la domanda dell'altre sue sciocche e dissipite, cominciò a ridere, e pensò di rispondergli secondo che alla sua pecoraggine si convenia, e disse:
- Maestro, io nol direi a molte persone come noi facciamo, ma di dirlo a voi, perché siete amico e so che ad altrui nol direte, non mi guarderò.
Egli è il vero che il mio compagno e io viviamo così lietamente e così bene come vi pare e più; né di nostra arte né d'altro frutto, che noi d'alcune possessioni traiamo, avremmo da poter pagar pur l'acqua che noi logoriamo; né voglio per ciò che voi crediate che noi andiamo ad imbolare, ma noi andiamo in corso, e di questo ogni cosa che a noi è di diletto o di bisogno, senza alcun danno d'altrui, tutto traiamo, e da questo viene il nostro viver lieto che voi vedete.
Il medico udendo questo e, senza saper che si fosse, credendolo, si maravigliò molto; e subitamente entrò in disidero caldissimo di sapere che cosa fosse l'andare in corso; e con grande instanzia il pregò che gliel dicesse, affermandogli che per certo mai a niuna persona il direbbe.
- Ohmè! - disse Bruno - maestro, che mi domandate voi? Egli è troppo gran segreto quello che voi volete sapere, ed è cosa da disfarmi e da cacciarmi del mondo; anzi da farmi mettere in bocca del Lucifero da San Gallo, se altri il risapesse; ma sì è grande l'amor che io porto alla vostra qualitativa mellonaggine da Legnaia, e la fidanza la quale ho in voi, che io non posso negarvi cosa che voi vogliate; e per ciò io il vi dirò con questo patto, che voi per la croce a Montesone mi giurerete che mai, come promesso avete, a niuno il direte.
Il maestro affermò che non farebbe.
- Dovete adunque, - disse Bruno - maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in questa città fu un gran maestro in nigromantia, il quale ebbe nome Michele Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de' quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, ad istanzia de' prieghi loro ci lasciò due suoi soffficienti discepoli, a' quali impose che ad ogni piacere di questi cotali gentili uomini, che onorato l'aveano, fossero sempre presti.
Costoro adunque servivano i predetti gentili uomini di certi loro innamoramenti e d'altre cosette liberamente; poi, piacendo lor la città e i costumi degli uomini, ci si disposero a voler sempre stare, e preserci di grandi e di strette amistà con alcuni, senza guardare chi essi fossero, più gentili che non gentili, o più ricchi che poveri, solamente che uomini fossero conformi a' lor costumi.
E per compiacere a questi così fatti loro amici ordinarono una brigata forse di venticinque uomini, li quali due volte almeno il mese insieme si dovessero ritrovare in alcun luogo da loro ordinato; e qui vi essendo, ciascuno a costoro il suo disidero dice, ed essi prestamente per quella notte il forniscono.
Co'quali due avendo Buffalmacco e io singulare amistà e dimestichezza, da loro in cotal brigata fummo messi, e siamo.
E dicovi così che, qualora egli avvien che noi insieme ci raccogliamo, è maravigliosa cosa a vedere i capoletti intorno alla sala dove mangiamo, e le tavole messe alla reale, e la quantità de' nobili e belli servidori, così femine come maschi, al piacer di ciascuno che è di tal compagnia, e i bacini, gli urciuoli, i fiaschi e le coppe e l'altro vasellamento d'oro e d'argento, ne'quali noi mangiamo e beiamo; e oltre a questo le molte e varie vivande, secondo che ciascun disidera, che recate ci sono davanti ciascheduna a suo tempo.
Io non vi potrei mai divisare chenti e quanti sieno i dolci suoni d'infiniti istrumenti e i canti pieni di melodia che vi s'odono; né vi potrei dire quanta sia la cera che vi s'arde a queste cene, né quanti sieno i confetti che vi si con sumano e come sieno preziosi i vini che vi si beono.
E non vorrei, zucca mia da sale, che voi credeste che noi stessimo là in questo abito o con questi panni che ci vedete: egli non ve n'è niuno sì cattivo che non vi paresse uno imperadore, sì siamo di cari vestimenti e di belle cose ornati.
Ma sopra tutti gli altri piaceri che vi sono, si è quello delle belle donne, le quali subitamente, purché l'uom voglia, di tumo il mondo vi son recate.
Voi vedreste quivi la donna dei Barbanicchi, la reina de' Baschi, la moglie del soldano, la imperadrice d'Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la scalpedra di Narsia.
Che vivo io annoverando? E'vi sono tutte le reine del mondo, io dico infino alla schinchimurra del Presto Giovanni, che ha per me' 'l culo le corna: or vedete oggimai voi! Dove, poi che hanno bevuto e confettato, fatta una danza o due, ciascuna con colui a cui stanzia v'è fatta venire se ne va nel la sua camera.
E sappiate che quelle camere paiono un paradiso a veder, tanto son belle; e sono non meno odorifere che sieno i bossoli delle spezie della bottega vostra, quando voi fate pestare il comino, e havvi letti che vi parrebber più belli che quello del doge di Vinegia, e in quegli a riposar se ne vanno.
Or che menar di calcole e di tirar le casse a sè per fare il panno serrato faccian le tessitrici, lascerò io pensare pure a voi! Ma tra gli altri che meglio stanno, secondo il parer mio, siam Buffalmacco e io, per ciò che Buffalmacco le più delle volte vi fa venir per sè la reina di Francia, e io per me quella d'Inghilterra, le quali son due pur le più belle donne del mondo; e sì abbiamo saputo fare che elle non hanno altro occhio in capo che noi.
Per che da voi medesimo pensar potete se noi possiamo e dobbiamo vivere e andare più che gli altri uomini lieti, pensando che noi abbiamo l'amor di due così fatte reine; senza che, quando noi vogliamo un mille o un dumilia fiorini da loro, noi non gli abbiamo prestamente.
E questa cosa chiamiam noi vulgarmente l'andare in corso; per ciò che sì come i corsari tolgono la roba d'ogn'uomo, e così facciam noi; se non che di tanto siam differenti da loro, che eglino mai non la rendono, e noi la rendiamo come adoperata l'abbiamo.
Ora avete, maestro mio da bene, inteso ciò che noi diciamo l'andare in corso; ma quanto questo voglia esser segreto voi il vi potete vedere, e per ciò più nol vi dico né ve ne priego.
Il maestro, la cui scienzia non si stendeva forse più oltre che il medicare i fanciulli del lattime, diede tanta fede alle parole di Bruno quanta si saria convenuta a qualunque verità; e in tanto disiderio s'accese di volere essere in questa brigata ricevuto, quanto di qualunque altra cosa più disiderabile si potesse essere acceso.
Per la qual cosa a Bruno rispose che fermamente maraviglia non era se lieti andavano; e a gran pena si temperò in riservarsi di richiederlo che essere il vi facesse, infino a tanto che, con più onor fattogli, gli potesse con più fidanza porgere i prieghi suoi.
Avendoselo adunque riservato, cominciò più a continuare con lui l'usanza e ad averlo da sera e da mattina a mangiar seco e a mostrargli smisurato amore; ed era sì grande e sì continua questa loro usanza, che non parea che senza Bruno il maestro potesse né sapesse vivere.
Bruno, parendogli star bene, acciò che ingrato non paresse di questo onor fattogli dal medico, gli aveva dipinto nella sala sua la quaresima e uno agnus dei all'entrar della camera e sopra l'uscio della via uno orinale, acciò che coloro che avessero del suo consiglio bisogno il sapessero riconoscere dagli altri; e in una sua loggetta gli aveva dipinta la battaglia dei topi e delle gatte, la quale troppo bella cosa pareva al medico.
E oltre a questo diceva alcuna volta al maestro, quando con lui non avea cenato:
- Stanotte fu'io alla brigata, ed essendomi un poco la reina d'Inghilterra rincresciuta, mi feci venire la gumedra del gran Can d'Altarisi.
Diceva il maestro:
- Che vuol dire gumedra? Io non gli intendo questi nomi.
- O maestro mio, - diceva Bruno - io non me ne maraviglio, ché io ho bene udito dire che Porcograsso e Vannaccena non ne dicon nulla.
Disse il maestro:
- Tu vuoi dire Ipocrasso e Avicenna.
Disse Bruno:
- Gnaffe! io non so; io m'intendo così male de' vostri nomi come voi de' miei; ma la gumedra in quella lingua del gran Cane vuol tanto dire quanto imperadrice nella nostra.
O ella vi parrebbe la bella feminaccia! Ben vi so dire che ella vi farebbe dimenticare le medicine e gli argomenti e ogni impiastro.
E così dicendogli alcuna volta per più accenderlo, avvenne che, parendo a messer lo maestro una sera a vegghiare, parte che il lume teneva a Bruno che la battaglia de' topi e delle gatte dipignea, bene averlo co' suoi onori preso, che egli si dispose d'aprirgli l'animo suo; e soli essendo, gli disse:
- Bruno, come Iddio sa, egli non vive oggi alcuna persona per cui io facessi ogni cosa come io farei per te; e per poco, se tu mi dicessi che io andassi di qui a Peretola, io credo che io v'andrei; e per ciò non voglio che tu ti maravigli se io te dimesticamente e a fidanza richiederò.
Come tu sai, egli non è guari che tu mi ragionasti de' modi della vostra lieta brigata, di che sì gran disiderio d'esserne m'è venuto, che mai niuna altra cosa si disiderò tanto.
E.
questo non è senza cagione, come tu vedrai se mai avviene che io ne sia; ché infino ad ora voglio io che tu ti facci beffe di me se io non vi fo venire la più bella fante che tu vedessi già è buona pezza, che io vidi pur l'altr'anno a Cacavincigli, a cui io voglio tutto il mio bene; e per lo corpo di Cristo che io le volli dare dieci bolognini grossi, ed ella mi s'acconsentisse, e non volle.
E però quanto più posso ti priego che m'insegni quello che io abbia a fare per dovervi potere essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi sia; e nel vero voi avrete di me buono e fedel compagno e orrevole.
Tu vedi innanzi innanzi come io sono bello uomo e come mi stanno bene le gambe in su la persona, e ho un viso che pare una rosa, e oltre a ciò son dottore di medicine, che non credo che voi ve n'abbiate niuno; e so di molte belle cose e di belle canzonette, e vo'tene dire una; - e di botto incominciò a cantare.
Bruno aveva sì gran voglia di ridere che egli in sè medesimo non capeva; ma pur si tenne.
E finita la canzone, e 'l maestro disse:
- Che te ne pare?
Disse Bruno:
- Per certo con voi perderieno le cetere de' sagginali, sì artagoticamente stracantate.
Disse il maestro:
- Io dico che tu non l'avresti mai creduto, se tu non m'avessi udito.
- Per certo voi dite vero, - disse Bruno.
Disse il maestro:
- Io so bene anche dell'altre, ma lasciamo ora star questo.
Così fatto come tu mi vedi, mio padre fu gentile uomo, benché egli stesse in contado, e io altressì son nato per madre di quegli da Vallecchio; e, come tu hai potuto vedere, io ho pure i più be'libri e le più belle robe che medico di Firenze.
In fè di Dio, io ho roba che costò, contata ogni cosa, delle lire presso a cento di bagattini, già è degli anni più di dieci.
Per che quanto più posso ti priego che facci che io ne sia; e in fè di Dio, se tu il fai, sie pure infermo se tu sai, che mai di mio mestiere io non ti torrò un denaio.
Bruno, udendo costui, e parendogli, sì come altre volte assai paruto gli era, un lavaceci, disse:
- Maestro, fate un poco il lume più qua, e non v'incresca infin tanto che io abbia fatte le code a questi topi, e poi vi risponderò.
Fornite le code, e Bruno faccendo vista che forte la petizion gli gravasse, disse:
- Maestro mio, gran cose son quelle che per me fareste, e io il conosco; ma tuttavia quella che a me addimandate, quantunque alla grandezza del vostro cervello sia piccola, pure è a me grandissima, né so alcuna persona del mondo per cui io potendo la mi facessi, se io non la facessi per voi, sì perché v'amo quanto si conviene, e sì per le parole vostre le quali son condite di tanto senno che trarrebbono le pinzochere degli usatti, non che me del mio proponimento; e quanto più uso con voi, più mi parete savio.
E dicovi ancora così, che se altro non mi vi facesse voler bene, sì vi vo'bene perché veggio che innamorato siete di così bella cosa come diceste.
Ma tanto vi vo'dire: io non posso in queste cose quello che voi avvisate, e per questo non posso per voi quello che bisognerebbe adoperare; ma, ove voi mi promettiate sopra la vostra grande e calterita fede di tenerlomi credenza, io vi darò il modo che a tenere avrete; e parmi esser certo che, avendo voi così be'libri e l'altre cose che di sopra dette m'avete, che egli vi verrà fatto.
A cui il mastro disse:
- Sicuramente di': io veggio che tu non mi conosci bene e non sai ancora come io so tenere segreto.
Egli erano poche cose che messer Guasparruolo da Saliceto facesse, quando egli era giudice della podestà di Forlimpopoli, che egli non me le mandasse a dire, perché mi trovava così buon segretaro.
E vuoi vedere se io dico vero? Io fui il primaio uomo a cui egli dicesse che egli era per isposare la Bergamina: vedi oggimai tu!
- Or bene sta dunque, - disse Bruno - se cotestui se ne fidava, ben me ne posso fidare io.
Il modo che voi avrete a tener fia questo.
Noi sì abbiamo a questa nostra brigata un capitano con due consiglieri, li quali di sei in sei mesi si mutano; e senza fallo a calendi sarà capitano Buffalmacco e io consigliere, e così è fermato; e chi è capitano può molto in mettervi e far che messo vi sia chi egli vuole; e per ciò a me parrebbe che voi, in quanto voi poteste, prendeste la dimestichezza di Buffalmacco e facestegli onore.
Egli è uomo che, veggendovi così savio, s'innamorerà di voi incontanente, e quando voi l'avrete col senno vostro e con queste buone cose che avete un poco dimesticato, voi il potrete richiedere: egli non vi saprà dir di no.
Io gli ho già ragionato di voi, e vuolvi il meglio del mondo; e quando voi avrete fatto così, lasciate far me con lui.
Allora disse il maestro:
- Troppo mi piace ciò che tu ragioni; e se egli è uomo che si diletti de' savi uomini, e favellami pure un poco, io farò ben che egli m'andrà sempre cercando, per ciò che io n'ho tanto del senno, che io ne potrei fornire una Città.
e rimarrei savissimo.
Ordinato questo, Bruno disse ogni cosa a Buffalmacco per ordine; di che a Buffalmacco parea mille anni di dovere essere a far quello che questo maestro Scipa andava cercando.
Il medico che oltre modo disiderava d'andare in corso, non mollò mai che egli divenne amico di Buffalmacco, il che agevolmente gli venne fatto; - e cominciogli a dare le più belle cene e i più belli desinari del mondo, e a Bruno con lui - altressì; ed essi si carapinavano,.
come que'signori, li quali sentendogli bonissimi vini e di grossi capponi ed altre buone cose assai, gli si tenevano assai di presso, e senza troppi inviti, dicendo sempre che con uno altro ciò non farebbono, si rimanevan con lui.
Ma pure, quando tempo parve al maestro, sì come Bruno aveva fatto, così Buffalmacco richiese.
Di che Buffalmacco si mostrò molto turbato e fece a Bruno un gran romore in testa, dicendo:
- Io fo boto all'alto Dio da Passignano che io mi tengo a poco che lo non ti do tale in su la testa, che il naso ti caschi nelle calcagna traditor che tu se', ché altri che tu non ha queste cose manifestate al maestro.
Ma il maestro lo scusava forte, dicendo e giurando sè averlo d'altra parte saputo; e dopo molte delle sue savie parole pure il paceficò.
Buffalmacco rivolto al maestro disse:
- Maestro mio, egli si par bene che voi siete stato a Bologna, e che voi infino in questa terra abbiate recata la bocca chiusa; e ancora vi dico più, che voi non apparaste miga l'abbiccì in su la mela, come molti sciocconi voglion fare, anzi l'apparaste bene in sul mellone, ch'è così lungo; e se io non m'inganno, voi foste battezzato in domenica.
E come che Bruno m'abbia detto che voi studiaste là in medicine, a me pare che voi studiaste in apparare a pigliar uomini; il che voi, meglio che altro uomo che io vidi mai, sapete fare con vostro senno e con vostre novelle.
Il medico, rompendogli la parola in bocca, verso Brun disse:
- Che cosa è a favellare e ad usare co' savi! Chi avrebbe così tosto ogni particularità compresa del mio sentimento, come ha questo valente uomo? Tu non te ne avvedesti miga così tosto tu di quel che io valeva, come ha fatto egli; ma di'almeno quello che io ti dissi quando tu mi dicesti che Buffalmacco si dilettava de' savi uomini: parti che io l'abbia fatto?
Disse Bruno:
- Meglio.
Allora il maestro disse a Buffalmacco:
- Altro avresti detto se tu m'avessi veduto a Bologna, dove non era niuno grande né piccolo, né dottore né scolare, che non mi volesse il meglio del mondo, sì tutti gli sapeva appagare col mio ragionare e col senno mio.
E dirotti più, che io.
non vi dissi mai parola che io non facessi ridere ogn'uomo, sì forte piaceva loro; e quando io me ne partii, fecero tutti il maggior pianto del mondo, e volevano tutti che io vi pur rimanessi; e fu a tanto la cosa perch'io vi stessi, che vollono lasciare a me solo che io leggessi, a quanti scolari v'aveva, le medicine; ma io non volli, ché io era pur disposto a venir qua a grandissime eredità che io ci ho, state sempre di quei di casa mia, e così feci.
Disse allora Bruno a Buffalmacco:
- Che ti pare? Tu nol mi credevi, quando io il ti diceva.
Alle guagnele! Egli non ha in questa terra medico che s'intenda d'orina d'asino a petto a costui, e fermamente tu non ne troverresti un altro di qui alle porti di Parigi de' così fatti.
Va, tienti oggimai tu di non fare ciò ch'e'vuole!
Disse il medico:
- Brun dice il vero, ma io non ci sono conosciuto.
Voi siete anzi gente grossa che no; ma io vorrei che voi mi vedeste tra'dottori, come io soglio stare.
Allora disse Buffalmacco:
- Veramente, maestro, voi le sapete troppo più che io non avrei mai creduto; di che io, parlandovi come si vuole parlare a' savi come voi siete, frastagliatamente vi dico che io procaccerò senza fallo che voi di nostra brigata sarete.
Gli onori dal medico fatti a costoro appresso questa promessa multiplicarono; laonde essi, godendo, gli facevan cavalcar la capra delle maggiori sciocchezze del mondo, e impromisongli di dargli per donna la contessa di Civillari, la quale era la più bella cosa che si trovasse in tutto il culattario dell'umana generazione.
Domandò il medico chi fosse questa contessa; al quale Buffalmacco disse:
- Pinca mia da seme, ella è una troppo gran donna, e poche case ha per lo mondo, nelle quali ella non abbia alcuna giurisdizione; e non che altri, ma i frati minori a suon di nacchere le rendon tributo.
E sovvi dire, che quando ella va dattorno, ella si fa ben sentire, benché ella stea il più rinchiusa; ma non ha per ciò molto che ella vi passò innanzi all'uscio, una notte che andava ad Arno a lavarsi i piedi e per pigliare un poco d'aria; ma la sua più continua dimora è in Laterina.
Ben vanno per ciò de' suoi sergenti spesso dattorno, e tutti a dimostrazion della maggioranza di lei portano la verga e 'l piombino.
De' suoi baron si veggon per tutto assai, sì come è il Tamagnin del la porta, don Meta, Manico di Scopa, lo Squacchera e altri, li quali vostri dimestici credo che sieno, ma ora non ve ne ricordate.
A così gran donna adunque, lasciata star quella da Cacavincigli, se 'l pensier non c'inganna, vi metteremo nelle dolci braccia.
Il medico, che a Bologna nato e cresciuto era, non intendeva i vocaboli di costoro, per che egli della donna si chiamò per contento.
Nè guari dopo queste novelle gli recarono i dipintori che egli era per ricevuto.
E venuto il dì che la notte seguente si dovean ragunare, il maestro gli ebbe amenduni a desinare, e desinato ch'egli ebbero, gli domandò che modo gli conveniva tenere a venire a questa brigata.
Al quale Buffalmacco disse:
- Vedete, maestro, a voi conviene esser molto sicuro, per ciò che, se voi non foste molto sicuro, voi potreste ricevere impedimento e fare a noi grandissimo danno; e quello a che egli vi conviene esser molto sicuro, voi l'udirete.
A voi si convien trovar modo che voi siate stasera in sul primo sonno in su uno di quegli avelli rilevati che poco tempo ha si fecero di fuori a Santa Maria Novella, con una delle più belle vostre robe in dosso, acciò che voi per la prima volta compariate orrevole dinanzi alla brigata, e sì ancora per ciò che (per quello che detto ne fosse, ché non vi fummo noi poi), per ciò che voi siete gentile uomo, la contessa intende di farvi cavaliere bagnato alle sue spese; e quivi v'aspettate tanto, che per voi venga colui che noi manderemo.
E acciò che voi siate d'ogni cosa informato, egli verrà per voi una bestia nera e cornuta, non molto grande, e andrà faccendo per la piazza dinanzi da voi un gran sufolare e un gran saltare per ispaventarvi; ma poi, quando vedrà che voi non vi spaventiate, ella vi s'accosterà pianamente; quando accostata vi si sarà, e voi allora senza alcuna paura scendete giù dello avello, e, senza ricordare o Iddio o'santi, vi salite suso, e come suso vi siete acconcio, così, a modo che se steste cortese, vi recate le mani al petto, senza più toccar la bestia.
Ella allora soavemente si moverà e recherravverle a noi; ma infino ad ora, se voi ricordaste o Iddio o'santi, o aveste paura, vi dich'io che ella vi potrebbe gittare o percuotere in parte che vi putirebbe; e per ciò, se non vi dà il cuore d'esser ben sicuro, non vi venite, ché voi fareste danno a voi, senza fare a noi pro veruno.
Allora il medico disse:
- Voi non mi conoscete ancora; voi guardate forse per ché io porto i guanti in mano e'panni lunghi.
Se voi sapeste quello che io ho già fatto di notte a Bologna, quando io andava talvolta co' miei compagni alle femine, voi vi maravigliereste.
In fè di Dio egli fu tal notte che, non volendone una venir con noi (ed era una tristanzuola, ch'è peggio, che non era alta un sommesso), io le diedi in prima di molte pugna, poscia, presala di peso, credo che io la portassi presso ad una balestrata, e pur convenne, sì feci, che ella ne venisse con noi.
E un'altra volta mi ricorda che io, senza esser meco altri che un mio fante, colà un poco dopo l'avemaria passai allato al cimitero de' frati minori, ed eravi il dì stesso stata sotterrata una femina, e non ebbi paura niuna; e per ciò di questo non vi sfidate; ché sicuro e gagliardo son io troppo.
E dicovi che io, per venirvi bene orrevole, mi metterò la roba mia dello scarlatto con la quale io fui con ventato, e vedrete se la brigata si rallegrerà quando mi vedrà, e se io sarò fatto a mano a man capitano.
Vedrete pure come l'opera andrà quando io vi sarò stato, da che, non avendomi ancor quella contessa veduto, ella s'è sì innamorata di me che ella mi vol fare cavalier bagnato; e forse che la cavalleria mi starà così male, e saprolla così mal mantenere o pur bene? Lascerete pur far me!
Buffalmacco disse:
- Troppo dite bene, ma guardate che voi non ci faceste la beffa, e non vi veniste o non vi foste trovato quando per voi manderemo; e questo dico per ciò che egli fa freddo, e voi signor medici ve ne guardate molto.
- Non piaccia a Dio, - disse il medico - io non sono di questi assiderati; io non curo freddo; poche volte è mai che io mi levi la notte così per bisogno del corpo, come l'uom fa talvolta, che io mi metta altro che il pilliccione mio sopra il farsetto; e per ciò io vi sarò fermamente.
Partitisi adunque costoro, come notte si venne faccendo, il maestro trovò sue scuse in casa con la moglie, e trattane celatamente la sua bella roba, come tempo gli parve, messalasi in dosso, se n'andò sopra uno de' detti avelli; e sopra quegli marmi ristrettosi, essendo il freddo grande, cominciò ad aspettar la bestia.
Buffalmacco, il quale era grande e atante della persona, ordinò d'avere una di queste maschere che usare si soleano a certi giuochi li quali oggi non si fanno, e messosi in dosso un pilliccion nero a rovescio, in quello s'acconciò in guisa che pareva pure uno orso; se non che la maschera aveva viso di diavolo ed era cornuta.
E così acconcio, venendoli Bruno appresso per vedere come l'opera andasse, se n'andò nella piazza nuova di Santa Maria Novella.
E come egli si fu accorto che messer lo maestro v'era, così cominciò a saltabellare e a fare un nabissare grandissimo su per la piazza, e a sufolare e ad urlare e a stridere a guisa che se imperversato fosse.
Il quale come il maestro sentì e vide, così tutti i peli gli s'arricciarono addosso, e tutto cominciò a tremare, come colui che era più che una femina pauroso; e fu ora che egli vorrebbe essere stato innanzi a casa sua che quivi.
Ma non per tanto pur, poi che andato v'era, si sforzò d'assicurar si, tanto il vinceva il disidero di giugnere a vedere le maraviglie dettegli da costoro.
Ma poi che Buffalmacco ebbe alquanto imperversato, come è detto, faccendo sembianti di rappacificarsi, s'accostò allo avello sopra il quale era il maestro, e stette fermo.
Il maestro, sì come quegli che tutto tremava di paura, non sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse.
Ultimamente, temendo non gli facesse male se su non vi salisse, con la seconda paura cacciò la prima, e sceso dello avello, pianamente dicendo, - Iddio m'aiuti, - su vi salì, e acconciossi molto bene, e sempre tremando tutto si recò con le mani a star cortese, come detto gli era stato.
Allora Buffalmacco pianamente s'incominciò a dirizzare verso Santa Maria della Scala, e andando carpone infin presso le donne di Ripole il condusse.
Erano allora per quella contrada fosse, nelle quali i lavoratori di que'campi facevan votare la contessa di Civillari, per ingrassare i campi loro.
Alle quali come Buffalmacco fu vicino, accostatosi alla proda d'una e preso tempo, messa la mano sotto all'un de' piedi del medico e con essa sospintolsi da dosso, di netto col capo innanzi il gittò in essa, e cominciò a ringhiare forte e a saltare e ad imperversare e ad andarsene lungo Santa Maria della Scala verso il prato d'Ognissanti, dove ritrovò Bruno che per non poter tener le risa fuggito s'era; e amenduni festa faccendosi, di lontano si misero a veder quello che il medico impastato facesse.
Messer lo medico, sentendosi in questo luogo così abominevole, si sforzò di rilevare e di volersi aiutare per uscirne, e ora in qua e ora in là ricadendo, tutto dal capo al piè impastato, dolente e cattivo, avendone alquante dramme ingozzate, pur n'uscì fuori e lasciovvi il cappuccio; e, spastandosi con le mani come poteva il meglio, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, se ne tornò a casa sua, e picchiò tanto che aperto gli fu.
Nè prima, essendo egli entrato dentro così putente, fu l'uscio riserrato, che Bruno e Buffalmacco furono ivi, per udire come il maestro fosse dalla sua donna raccolto.
Li qua li stando ad udir, sentirono alla donna dirgli la maggior villania che mai si dicesse a niun tristo, dicendo:
- Deh, come ben ti sta! Tu eri ito a qualche altra femina, e volevi comparire molto orrevole con.
la roba dello scarlatto.
Or non ti bastava io? Frate, io sarei sofficiente ad un popolo, non che a te.
Deh, or t'avessono essi affogato, come essi ti gittarono là dove tu eri degno d'esser gittato.
Ecco medico onorato, aver moglie e andar la notte alle femine altrui!
E con queste e con altre assai parole, faccendosi il medico tutto lavare, infino alla mezza notte non rifinò la donna di tormentarlo.
Poi la mattina vegnente Bruno e Buffalmacco, avendosi tutte le carni dipinte soppanno di lividori a guisa che far sogliono le battiture, se ne vennero a casa del medico, e trovaron lui già levato; ed entrati dentro a lui, sentirono ogni cosa putirvi; ché ancora non s'era sì ogni cosa potuta nettare, che non vi putisse.
E sentendo il medico costor venire a lui, si fece loro incontro, dicendo che Iddio desse loro il buon dì.
Al quale Bruno e Buffalmacco, sì come proposto aveano, risposero con turbato viso:
- Questo non diciam noi a voi, anzi preghiamo Iddio che vi dea tanti malanni che voi siate morto a ghiado, sì come il più disleale e il maggior traditor che viva; per ciò che egli non è rimaso per voi, ingegnandoci noi di farvi onore e piacere, che noi non siamo stati morti come cani.
E per la vostra dislealtà abbiamo stanotte avute tante busse, che di meno andrebbe uno asino a Roma; senza che noi siamo stati a pericolo d'essere stati cacciati della compagnia nella quale noi avavamo ordinato di farvi ricevere.
E se voi non ci credete, ponete mente le carni nostre come elle stanno.
- E ad un cotal barlume apertisi i panni dinanzi, gli mostrarono i petti loro tutti dipinti, e richiusongli senza indugio.
Il medico si volea scusare e dir delle sue sciagure, e come e dove egli era stato gittato.
Al quale Buffalmacco disse:
- Io vorrei che egli v'avesse gittato dal ponte in Arno: perché ricordavate voi o Dio o'santi? Non vi fu egli detto dinanzi?
Disse il medico:
- In fè di Dio non ricordava.
- Come, - disse Buffalmacco - non ricordavate! Voi ve ne ricordate molto, ché ne disse il messo nostro che voi tremavate come verga, e non sapavate dove voi vi foste.
Or voi ce l'avete ben fatta; ma mai più persona non la ci farà, e a voi ne faremo ancora quello onore che vi se ne conviene.
Il medico cominciò a chieder perdono, e a pregargli per Dio che nol dovessero vituperare; e con le miglior parole che egli potè, s'ingegnò di pacificargli.
E per paura che essi questo suo vitupero non palesassero, se da indi a dietro onorati gli avea, molto più gli onorò e careggiò con conviti e altre cose da indi innanzi.
Così adunque, come udito avete, senno s'insegna a chi tanto non n'apparò a Bologna.
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Novella Decima
Una ciciliana maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato; il quale, sembiante faccendo d'esservi tornato con molta più mercatantia che prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio.
Quanto la novella della reina in diversi luoghi facesse le donne ridere, non è da domandare: niuna ve n'era a cui per soperchio riso non fossero dodici volte le lagrime venute in su gli occhi.
Ma poi che ella ebbe fine, Dioneo, che sapeva che a lui toccava la volta, disse.
Graziose donne, manifesta cosa è tanto più l'arti piacere, quanto più sottile artefice è per quelle artificiosamente beffato.
E per ciò, quantunque bellissime cose tutte raccontate abbiate, io intendo dl raccontarne una? tanto più che alcuna altra dettane da dovervi aggradire, quanto colei che beffata fu era maggior maestra di beffare altrui, che alcuno altro beffato fosse di quegli o di quelle che avete contate.
Soleva essere, e forse che ancora oggi è, una usanza in tutte le terre marine che hanno porto, così fatta, che tutti i mercatanti che in quelle con mercatantie capitano, faccendole scaricare, tutte in un fondaco il quale in molti luoghi è chiamato dogana, tenuta per lo comune o per lo signor della terra, le portano.
E quivi, dando a coloro che sopra ciò sono per iscritto tutta la mercatantia e il pregio di quella, è dato per li detti al mercatante un magazzino, nel quale esso la sua mercatantia ripone e serralo con la chiave; e li detti doganieri poi scrivono in sul libro della dogana a ragione del mercatante tutta la sua mercatantia, faccendosi poi del lor diritto pagare al mercatante, o per tutta o per parte della mercatantia che egli della dogana traesse.
E da questo libro della dogana assai volte s'informano i sensali e delle qualità e delle quantità delle mercatantie che vi sono, e ancora chi sieno i mercatanti che l'hanno, con li quali poi essi, secondo che lor cade per mano, ragionano di cambi, di baratti e di vendite e d'altri spacci.
La quale usanza, sì come in molti altri luoghi, era in Palermo in Cicilia, dove similmente erano e ancor sono assai femine del corpo bellissime, ma nimiche della onestà; le quali, da chi non le conosce, sarebbono e son tenute grandi e onestissime donne.
Ed essendo, non a radere, ma a scorticare uomini date del tutto, come un mercatante forestiere riveggono, così dal libro della dogana s'informano di ciò che egli v'ha e di quanto può fare; e appresso con lor piacevoli e amorosi atti e con parole dolcissime questi cotali mercatanti s'ingegnano d'adescare e di trarre nel loro amore; e già molti ve n'hanno tratti, a' quali buona parte della lor mercatantia hanno delle mani tratta, e d'assai tutta; e di quelli vi sono stati che la mercatantia e 'navilio e le polpe e l'ossa lasciate v'hanno, sì ha soavemente la barbiera saputo menare il rasoio.
Ora, non è ancora molto tempo, avvenne che quivi, da' suoi maestri mandato, arrivò un giovane nostro fiorentino detto Nicolò da Cignano, come che Salabaetto fosse chiamato, con tanti pannilani che alla fiera di Salerno gli erano avanzati, che potevan valere un cinquecento fiorin d'oro; e dato il legaggio di quegli a' doganieri, gli mise in un magazzino, e senza mostrar troppo gran fretta dello spaccio, s'incominciò ad andare alcuna volta a sollazzo per la terra.
Ed essendo egli bianco e biondo e leggiadro molto, e standogli ben la vita, avvenne che una di queste barbiere, che si faceva chiamare madonna Jancofiore, avendo alcuna cosa sentita de' fatti suoi, gli pose l'occhio addosso.
Di che egli accorgendosi, estimando che ella fosse una gran donna, s'avvisò che per la sua bellezza le piacesse, e pensossi di volere molto cautamente menar questo amore; e senza dirne cosa alcuna a persona, incominciò a far le passate dinanzi alla casa di costei.
La quale accortasene, poi che alquanti dì l'ebbe ben con gli occhi acceso, mostrando ella di consumarsi per lui, segretamente gli mandò una sua femina la quale ottimamente l'arte sapeva del ruffianesimo.
La quale, quasi con le lagrime in su gli occhi, dopo molte novelle, gli disse che egli con la bellezza e con la piacevolezza sua aveva sì la sua donna presa, che ella non trovava luogo né dì né notte; e per ciò, quando a lui piacesse, ella disiderava più che altra cosa di potersi con lui ad un bagno segretamente trovare; e appresso questo, trattosi uno anello dì borsa, da parte della sua donna gliele donò.
Salabaetto, udendo questo, fu il più lieto uomo che mai fosse, e preso l'anello e fregatoselo agli occhi e poi baciatolo sel mise in dito, e rispose alla buona femina che, se madonna Jancofiore l'amava, che ella n'era ben cambiata, per ciò che egli amava più lei che la sua propia vita, e che egli era disposto d'andare dovunque a lei fosse a grado, e ad ogn'ora.
Tornata adunque la messaggiera alla sua donna con questa risposta, a Salabaetto fu a mano a man detto a qual bagno il dì seguente passato vespro la dovesse aspettare.
Il quale, senza dirne cosa del mondo a persona, prestamente all'ora impostagli v'andò, e trovò il bagno per la donna esser preso.
Dove egli non stette guari che due schiave venner cariche: l'una aveva un materasso di bambagia bello e grande in capo, e l'altra un grandissimo paniere pien di cose; e steso questo materasso in una camera del bagno sopra una lettiera, vi miser su un paio di lenzuola sottilissime listate di seta, e poi una coltre di bucherame cipriana bianchissima con due origlieri lavorati a maraviglie.
E appresso questo spogliatesi ed entrate nel bagno, quello tutto lavarono e spazzarono ottima mente.
Né stette guari che la donna con due sue altre schiave appresso al bagno venne; dove ella, come prima ebbe agio, fece.a Salabaetto grandissima festa; e dopo i maggiori sospiri del mondo, poi che molto e abbracciato e baciato l'ebbe, gli disse:
- Non so chi mi s'avesse a questo potuto conducere, altro che tu; tu m'hai miso lo foco all'arma, toscano acanino.
Appresso questo, come a lei piacque, ignudi amenduni se n'entrarono nel bagno, e con loro due delle schiave.
Quivi, senza lasciargli por mano addosso ad altrui,.
ella medesima con sapone moscoleato e con garofanato maravigliosamente e bene tutto lavò Salabaetto; e appresso sé fece e lavare e strapicciare alle schiave.
E fatto questo, recaron le schiave de lenzuoli bianchissimi e sottili, de' quali veniva sì grande odor di rose che ciò che v'era pareva rose; e l'una inviluppò nell'uno Salabaetto e l'altra nell'altro la donna, e in collo levatigli, amenduni nel letto fatto ne gli portarono.
E quivi, poi che di sudare furono restati, dalle schiave fuor di que'lenzuoli tratti, rimasono ignudi negli altri.
E tratti del paniere oricanni d'ariento bellissimi e pieni qual d'acqua rosa, qual d'acqua di fior d'aranci, qual d'acqua di fior di gelsomino e qual d'acqua nanfa, tutti costoro di queste acque spruzzano; e appresso tratte fuori scatole di confetti e preziosissimi vini, alquanto si confortarono.
A Salabaetto pareva essere in paradiso, e mille volte aveva riguardata costei, la quale era per certo bellissima, e cento anni gli pareva ciascuna ora che queste schiave se n'andassero e che egli nelle braccia di costei si ritrovasse.
Le quali poi che per comandamento della donna, lasciato un torchietto acceso nella camera, andate se ne furono fuori, costei abbracciò Salabaetto ed egli lei, e con grandissimo piacer di Salabaetto, al quale pareva che costei tutta si struggesse per suo amore, dimorarono una lunga ora.
Ma poi che tempo parve di levarsi alla donna, fatte venire le schiave, si vestirono, e un'altra volta bevendo e confettando si riconfortarono alquanto, e il viso e le mani di quelle acque odorifere lavatisi e volendosi partire, disse la donna a Salabaetto:
- Quando a te fosse a grado, a me sarebbe grandissima grazia che questa sera te ne venissi a cenare e ad albergo meco.
Salabaetto, il qual già e dalla bellezza e dalla artificiosa piacevolezza di costei era preso, credendosi fermamente da lei essere come il cuor del corpo amato, rispose:
- Madonna, ogni vostro piacere m'è sommamente a grado, e per ciò e istasera e sempre intendo di far quello che vi piacerà e che per voi mi fia comandato.
Tornatasene adunque la donna a casa, e fatta bene di sue robe e di suoi arnesi ornar la camera sua, e fatto splendidamente far da cena, aspettò Salabaetto.
Il quale, come alquanto fu fatto oscuro, là se n'andò, e lietamente ricevuto, con gran festa e ben servito cenò.
Poi, nella camera entratisene, sentì quivi maraviglioso odore di legno aloè, e d'uccelletti cipriani vide il letto ricchissimo, e molte belle robe su per le stanghe.
Le quali cose tutte insieme, e ciascuna per sé, gli fecero stimare costei dovere essere una grande e ricca donna.
E quantunque in contrario avesse della vita di lei udito bucinare, per cosa del mondo nol voleva credere; e se pure alquanto ne credeva lei già alcuno aver beffato, per cosa del mondo non poteva credere questo dovere a lui intervenire.
Egli giacque con grandissimo suo piacere la notte con essolei, sempre più accendendosi.
Venuta la mattina, ella gli cinse una bella e leggiadra cinturetta d'argento con una bella bora, e sì gli disse:
- Salabaetto mio dolce, io mi ti raccomando; e così come la mia persona è al piacer tuio, così è ciò che ci è e ciò che per me si può è allo comando tuio.
Salabaetto lieto abbracciatala e baciatala, s'uscì di casa costei e vennesene là dove usavano gli altri mercatanti.
E usando una volta e altra con costei senza costargli cosa del mondo, e ogni ora più invescandosi, avvenne che egli vendé i panni suoi a contanti e guadagnonne bene; il che la buona donna non da lui, ma da altrui sentì incontanente.
Ed essendo Salabaetto da lei andato una sera, costei incominciò a cianciare e a ruzzare con lui, a baciarlo e abbracciarlo, mostrandosi sì forte di lui infiammata, che pareva che ella gli volesse d'amor morir nelle braccia; e volevagli pur donare due bellissimi nappi d'argento che ella aveva, li quali Salabaetto non voleva torre, sì come colui che da lei tra una volta e altra aveva avuto quello che valeva ben trenta fiorin d'oro, senza aver potuto fare che ella da lui prendesse tanto che valesse un grosso.
Alla fine, avendol costei bene acceso col mostrar sé accesa e liberale, una delle sue schiave, sì come ella aveva ordinato, la chiamò; per che ella, uscita della camera e stata alquanto, tornò dentro piagnendo, e sopra il letto gittatasi boccone, cominciò a fare il più doloroso lamento che mai facesse femina.
Salabaetto, maravigliandosi, la si recò in braccio, e cominciò a piagner con lei e a dire:
- Deh, cuor del corpo mio, che avete voi così subitamente? Che è la cagione di questo dolore? Deh! ditemelo, anima mia.
Poi che la donna s'ebbe assai fatta pregare, ed ella disse:
- Ohimè, signor mio dolce, io non so né che mi far né che mi dire: io ho testé ricevute lettere da Messina, e scrivemi mio fratello, che, se io dovessi vendere e impegnare ciò che ci è, che senza alcun fallo io gli abbia fra qui e otto dì mandati mille fiorin d'oro, se non che gli sarà tagliata la testa; e io non so quello che io mi debba fare, che io gli possa così prestamente avere; ché, se io avessi spazio pur quindici dì, io troverrei modo d'accivirne d'alcun luogo donde io ne debbo avere molti più, o io venderei alcuna delle nostre possessioni; ma, non potendo, io vorrei esser morta prima che quella mala novella mi venisse.
- E detto questo, forte mostrandosi tribolata, non restava di piagnere.
Salabaetto, al quale l'amorose fiamme avevan gran parte del debito conoscimento tolto, credendo quelle verissime lagrime e le parole ancor più vere, disse:
- Madonna, io non vi potrei servire di mille, ma di cinquecento fiorin d'oro sì bene, dove voi crediate potermegli rendere di qui a quindici dì; e questa è vostra ventura che pure ieri mi vennero venduti i panni miei, ché, se così non fosse, io non vi potrei prestare un grosso.
- Ohimè! - disse la donna - dunque hai tu patito disagio di denari? O perché non me ne richiedevi tu? Perché io non n'abbia mille, io ne aveva ben cento e anche dugento da darti; tu m'hai tolta tutta la baldanza da dovere da te ricevere il servigio che tu mi profferi Salabaetto, vie più che preso da queste parole, disse:
- Madonna, per questo non voglio io che voi lasciate; ché, se fosse così bisogno a me come egli fa a voi, io v'avrei ben richiesta.
- Ohimè! - disse la donna - Salabaetto mio, ben conosco che il tuo è vero e perfetto amore verso di me, quando, senza aspettar d'esser richiesto di così gran quantità di moneta, in così fatto bisogno liberamente mi sovvieni.
E per certo io era tutta tua senza questo, e con questo sarò molto maggior mente; né sarà mai che io non riconosca da te la testa di mio fratello.
Ma sallo Iddio che io mal volentier gli prendo, considerando che tu se'mercatante, e i mercatanti fanno co' denari tutti i fatti loro; ma per ciò che il bisogno mi strigne e ho ferma speranza di tosto rendergliti, io gli pur prenderò, e per l'avanzo, se più presta via non troverrò, impegnerò tutte queste mie cose; - e così detto lagrimando, sopra il viso di Salabaetto si lasciò cadere.
Salabaetto la cominciò a confortare; e stato la notte con lei, per mostrarsi bene liberalissimo suo servidore, senza alcuna richiesta di lei aspettare, le portò cinquecento be'fiorin d'oro, li quali ella, ridendo col cuore e piagnendo con gli occhi, prese, attenendosene Salabaetto alla sua semplice promessione.
Come la donna ebbe i denari, così s'incominciarono le 'ndizioni a mutare; e dove prima era libera l'andata alla donna ogni volta che a Salabaetto era in piacere, così incominciaron poi a sopravvenire delle cagioni, per le quali non gli veniva delle sette volte l'una fatto il potervi entrare, né quel viso né quelle carezze né quelle feste più gli eran fatte che prima.
E passato d'un mese e di due il termine, non che venuto, al quale i suoi danari riaver dovea, richiedendogli, gli eran date parole in pagamento.
Laonde, avvedendosi Salabaetto dell'arte della malvagia femina e del suo poco senno, e conoscendo che di lei niuna cosa più che le si piacesse di questo poteva dire, sì come colui che di ciò non aveva né scritta né testimonio, e vergognandosi di ramarricarsene con alcuno, sì perché n'era stato fatto avveduto dinanzi, e sì per le beffe le quali meritamente della sua bestialità n'aspettava, dolente oltre modo, seco medesimo la sua sciocchezza piagnea.
E avendo da' suoi maestri più lettere avute che egli quegli denari cambiasse e mandassegli loro; acciò che, non faccendolo egli, quivi non fosse il suo difetto scoperto, diliberò di partirsi; e in su un legnetto montato, non a Pisa, come dovea, ma a Napoli se ne venne.
Era quivi in quei tempi nostro compar Pietro dello Canigiano, tresorier di madama la 'mperatrice di Costantinopoli, uomo di grande intelletto e di sottile ingegno, grandissimo amico e di Salabaetto e de' suoi; col quale, sì come con discretissimo uomo, dopo alcuno giorno Salabaetto dolendosi, raccontò ciò che fatto aveva e il suo misero accidente, e domandogli aiuto e consiglio in fare che esso quivi potesse sostentar la sua vita, affermando che mai a Firenze non intendeva di ritornare.
Canigiano, dolente di queste cose, disse:
- Male hai fatto; mal ti se'portato; male hai i tuoi maestri ubbiditi; troppi denari ad un tratto hai spesi in dolcitudine; ma che? fatto è, vuolsi vedere altro.
E, sì come avveduto uomo, prestamente ebbe pensato quello che era da fare, e a Salabaetto il disse; al quale piacendo il fatto, si mise in avventura di volerlo seguire.
E avendo alcun denaio, e il Canigiano avendonegli alquanti prestati, fece molte balle ben legate e ben magliate, e comperate da venti botti da olio ed empiutele, e caricato ogni cosa, se ne tornò in Palermo; e il legaggio delle balle dato a` doganieri e similmente il costo delle botti, e fatto ogni cosa scrivere a sua ragione, quelle mise ne'magazzini, dicendo che, infino che altra mercatantia la quale egli aspettava non veniva, quelle non voleva toccare.
Jancofiore, avendo sentito questo e udendo che ben duemilia fiorin d'oro valeva o più quello che al presente aveva recato, senza quello che egli aspettava, che valeva più di tre milia, parendole aver tirato a pochi, pensò di restituirgli i cinquecento, per potere avere la maggior parte de' cinque milia, e mandò per lui.
Salabaetto divenuto malizioso v'andò.
Al quale ella faccendo vista di niente sapere di ciò che recato s'avesse, fece maravigliosa festa e disse:
- Ecco, se tu fossi crucciato meco perché io non ti rende'così al termine i tuoi denari...
Salabaetto cominciò a ridere e disse:
- Madonna, nel vero egli mi dispiacque bene un poco sì come a colui che mi trarrei il cuor per darlovi, se io credessi piacervene; ma io voglio che voi udiate come io son crucciato con voi.
Egli è tanto e tale l'amor che io vi porto, che io ho fatto vendere la maggior parte delle mie possessioni, e ho al presente recata qui tanta mercatantia che vale oltre a duomilia fiorini, e aspettone di ponente tanta che varrà oltre a tremilia, e intendo di fare in questa terra un fondaco e di starmi qui, per esservi sempre presso, parendomi meglio stare del vostro amore che io creda che stia alcuno innamorato dei suo.
A cui la donna disse:
- Vedi, Salabaetto, ogni tuo acconcio mi piace forte, sì come di quello di colui il quale io amo più che la vita mia, e piacemi forte che tu con intendimento di starci tornato ci sii, però che spero d'avere ancora assai di buon tempo con teco; ma io mi ti voglio un poco scusare ch'e, di quei tempi che tu te n'andasti, alcune volte ci volesti venire e non potesti, e alcune ci venisti e non fosti così lietamente veduto come solevi; e oltre a questo, di ciò che io al termine promesso non ti rende'i tuoi denari.
Tu dei sapere che io era allora in grandissimo dolore e in grandissima afflizione, e chi è in così fatta disposizione, quantunque egli ami molto altrui, non gli può far così buon viso né attendere tuttavia a lui come colui vorrebbe; e appresso dei sapere ch'egli è molto malagevole ad una donna il poter trovar mille fiorin d'oro, e sonci tutto il dì dette delle bugie e non c'è attenuto quello che ci è promesso, e per questo conviene che noi altressì mentiamo altrui; e di quinci venne, e non da altro difetto, che io i tuoi denari non ti rendei; ma io gli ebbi poco appresso la tua partita, e se io avessi saputo dove mandargliti, abbi per certo che io te gli avrei mandati; ma perché saputo non l'ho, gli t'ho guardati.
E fattasi venire una borsa dove erano quegli medesimi che esso portati l'avea, gliele pose in mano e disse:
- Annovera se son cinquecento.
Salabaetto non fu mai sì lieto, e annoveratigli e trovatigli cinquecento e ripostigli, disse:
- Madonna, io conosco che voi dite vero, ma voi n'avete fatto assai; e dicovi che per questo e per lo amore che io vi porto, voi non ne vorreste da me per niun vostro bisogno quella quantità che io potessi fare, che io non ve ne servissi; e come io ci sarò acconcio, voi ne potrete essere alla pruova.
E in questa guisa reintegrato con lei l'amore in parole, rincominciò Salabaetto vezzatamente ad usar con lei, ed ella a fargli i maggiori piaceri e i maggiori onori del mondo, e a mostrargli il maggiore amore.
Ma Salabaetto, volendo col suo inganno punire lo 'nganno di lei, avendogli ella il dì mandato che egli a cena e ad albergo con lei andasse, v'andò tanto malinconoso e tanto tristo, che egli pareva che volesse morire.
Jancofiore, abbracciandolo e baciandolo, lo 'ncominciò a domandare perché egli questa malinconia avea.
Egli, poi che una buona pezza s'ebbe fatto pregare, disse:
- Io son diserto per ciò che il legno, sopra il quale e la mercatantia che io aspettava, è stato preso da' corsari di Monaco e riscattasi diecimilia fiorin d'oro, de' quali ne tocca a pagare a me mille, e io non ho un denaio, per ciò che li cinquecento che mi rendesti incontanente mandai a Napoli ad investire in tele per far venir qui; e se io vorrò al presente vendere la mercatantia la quale ho qui, per ciò che non è tempo, appena che io abbia delle due derrate un denaio, e io non ci sono sì ancora conosciuto che io ci trovassi chi di questo mi sovvenisse, e per ciò io non so che mi fare né che mi dire; e se io non mando tosto i denari, la mercatantia ne fia portata a Monaco; e non ne riavrò mai nulla.
La donna, forte crucciosa di questo, sì come colei alla quale tutto il pareva perdere, avvisando che modo ella dovesse tenere acciò che a Monaco non andasse, disse:
- Dio il sa che ben me ne incresce per tuo amore; ma che giova il tribolarsene tanto? Se io avessi questi denari, sallo Iddio che io gli ti presterrei incontanente; ma io non gli ho.
E il vero che egli ci è alcuna persona, il quale l'altrieri mi servì de' cinquecento che mi mancavano, ma grossa usura ne vuole; ché egli non ne vuol meno che a ragion di trenta per centinaio; se da questa cotal persona tu gli volessi, converrebbesi far sicuro di buon pegno, e io per me sono acconcia d'impegnar per te tutte queste robe e la persona per tanto quanto egli ci vorrà su prestare, per poterti servire, ma del rimanente come il sicurerai tu?
Conobbe Salabaetto la cagione che moveva costei a fargli questo servigio, e accorsesi che di lei dovevan essere i denari prestati; il che piacendogli, prima la ringraziò, e appresso disse che già per pregio ingordo non lascerebbe, strignendolo il bisogno; e poi disse che egli il sicurerebbe della mercatantia la quale aveva in dogana, faccendola scrivere in colui che i denar gli prestasse; ma che egli voleva guardar la chiave de' magazzini, sì per poter mostrar la sua mercatantia, se richiesta gli fosse, e sì acciò che niuna cosa gli potesse esser tocca o tramutata o scambiata.
La donna disse che questo era ben detto, ed era assai buona sicurtà.
E per ciò, come il dì fu venuto, ella mandò per un sensale di cui ella si canfidava molto, e ragionato con lui questo fatto, gli diè mille fiorin d'oro li quali il sensale prestò a Salabaetto, e fece in suo nome scrivere alla dogana ciò che Salabaetto dentro v'avea; e fattesi loro scritte e contrascritte insieme, e in concordia rimasi, attesero a' loro altri fatti.
Salabaetto, come più tosto potè, montato in su un legnetto con mille cinquecento fiorin d'oro, a Pietro dello Canigiano se ne tornò a Napoli, e di quindi buona e intera ragione rimandò a Firenze a' suoi maestri che co' panni l'avevan mandato; e pagato Pietro e ogni altro a cui alcuna cosa doveva, più di col Canigiano si diè buon tempo dello inganno fatto alla ciciliana.
Poi di quindi, non volendo più mercatante essere, se ne venne a Ferrara.
Jancofiore, non trovandosi Salabaetto in Palermo, s'incominciò a maravigliare e divenne sospettosa; e poi che ben due mesi aspettato l'ebbe, veggendo che non veniva, fece che 'l sensale fece schiavare i magazzini.
E primieramente tastate le botti, che si credeva che piene d'olio fossero, trovò quelle esser piene d'acqua marina, avendo in ciascuna forse un barile d'olio di sopra vicino al cocchiume.
Poi, sciogliendo le balle, tutte, fuor che due che panni erano, piene le trovò di capecchio; e in brieve, tra ciò che v'era, non valeva oltre a dugento fiorini.
Di che Jancofiore tenendosi scornata, lungamente pianse i cinquecento renduti e troppo più i mille prestati, spesse volte dicendo: - Chi ha a far con tosco, non vuole esser losco.
- E così, rimasasi col danno e colle beffe, trovò che tanto seppe altri quanto altri.
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Conclusione
Come Dioneo ebbe la sua novella finita, così Lauretta, conoscendo il termine esser venuto oltre al quale più regnar non dovea, commendato il consiglio di Pietro Canigiano che apparve dal suo effetto buono, e la sagacità di Salabaetto che non fu minore a mandarlo ad esecuzione, levatasi la laurea di capo, in testa ad Emilia la pose, donnescamente dicendo:
- Madonna, io non so come piacevole reina noi avrem di voi, ma bella la pure avrem noi; fate adunque che alle vostre bellezze l'opere sien rispondenti; - e tornossi a sedere.
Emilia, non tanto dell'esser reina fatta, quanto dell'udirsi così in pubblico commendare di ciò che le donne sogliono essere più vaghe, un pochetto si vergognò, e tal nel viso divenne qual in su l'aurora son le novelle rose.
Ma pur, poi che avendo alquanto gli occhi tenuti bassi ebbe il rossore dato luogo, avendo col suo siniscalco de' fatti pertinenti alla brigata ordinato, così cominciò a parlare:
- Dilettose donne, assai manifestamente veggiamo che, poi che i buoi per alcuna parte del giorno hanno faticato sotto il giogo ristretti, quegli esser dal giogo alleviati e disciolti, e liberamente, dove lor più piace, per li boschi lasciati sono andare alla pastura; e veggiamo ancora non esser men belli, ma molto più, i giardini di varie piante fronzuti, che i boschi ne'quali solamente querce veggiamo; per le quali cose io estimo, avendo riguardo quanti giorni sotto certa legge ristretti ragionato abbiamo, che, sì come a bisognosi, di vagare alquanto, e vagando riprender forze a rientrar sotto il giogo, non sola mente sia utile ma opportuno.
E per ciò quello che domane, seguendo il vostro dilettevole ragionare, sia da dire, non intendo di ristrigneni sotto alcuna spezialità, ma voglio che ciascun secondo che gli piace ragioni, fermamente tenendo che la varietà delle cose che si diranno non meno graziosa ne fia che l'avrete pur d'una parlato; e così avendo fatto, chi appresso di me nel reame verrà, sì come più forti, con maggior sicurtà ne potrà nelle usate leggi ristrignere.
E detto questo, infino all'ora della cena libertà concedette a ciascuno.
Commendò ciascun la reina delle cose dette, sì come savia; e in piè drizzatisi, chi ad un diletto e chi ad un altro si diede: le donne a far ghirlande e a trastullarsi, i giovani a giucare e a cantare, e così infino all'ora della cena passarono; la quale venuta, intorno alla bella fontana con festa e con piacer cenarono; e dopo la cena al modo usato cantando e ballando un gran pezzo si trastullarono.
Alla fine la reina, per seguire de' suoi predecessori lo stilo, non ostanti quelle che volontariamente da più di loro erano state dette, comandò a Panfilo che una ne dovesse cantare.
Il quale così liberamente cominciò:
Tanto è, Amore, il bene
ch'io per te sento e l'allegrezza e 'l gioco
ch'io son felice ardendo nel tuo foco.
L'abbondante allegrezza ch'è nel core
dell'alta gioia e cara,
nella qual m'ha'recato,
non potendo capervi, esce di fore,
e nella faccia chiara
mostra'l mio lieto stato;
ché essendo innamorato
in così alto e ragguardevol loco,
lieve mi fa lo star dov'io mi coco.
Io non so col mio canto dimostrare,
né disegnar col dito,
Amore, il ben ch'io sento;
e s'io sapessi, me'l convien celare;
ché s'el fosse sentito,
torneria in tormento;
ma io son sì contento
ch'ogni parlar sarebbe corto e fioco,
pria n'avessi mostrato pure un poco.
Chi potrebbe estimar che le mie braccia
aggiugnesser giammai
là dov'io l'ho tenute,
e ch'io dovessi giunger la mia faccia
là dov'io l'accostai
per grazia e per salute?
Non mi sarien credute
le mie fortune; ond'io tutto m'infoco,
quel nascondendo ond'io m'allegro e gioco.
La canzone di Panfilo aveva fine, alla quale quantunque per tutti fosse compiutamente risposto, niun ve n'ebbe che, con più attenta sollecitudine che a lui non apparteneva, non notasse le parole di quella, ingegnandosi di quello volersi indovinare che egli di convenirgli tener nascoso cantava.
E quantunque vari varie cose andassero imaginando, niun per ciò alla verità del fatto pervenne.
Ma la reina, poi che vide la canzone di Panfilo finita, e le giovani donne e gli uomini volentier riposarsi, comandò che ciascuno se n'andasse a dormire.
Finisce l'ottava giornata del Decameron
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Nona Giornata
Introduzione alla nona giornata
Novella prima
Madonna Francesca, amata da uno Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l'un per morto in una sepoltura, e l'altro quello trarne per morto, non potendo essi venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso.
Novella seconda
Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de' veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l'accusata e fattalane accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
Novella terza
Maestro Simone, ad instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a' predetti capponi e denari, e guarisce della pregnezza senza partorire.
Novella quarta
Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Buonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiulieri, e in camicia correndogli dietro e dicendo che rubato l'avea, il fa pigliare a' villani e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui, venendosene, lascia in camicia.
Novella quinta
Calandrino s'innamora d'una giovane, al quale Bruno fa un brieve, col quale come egli la tocca, ella va con lui, e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione.
Novella sesta
Due giovani albergano con uno, de' quali l'uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con l'altro.
Quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendosi dire al compagno.
Fanno romore insieme.
La donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e quindi con certe parole ogni cosa pacefica.
Novella settima
Talano d'Imolese sogna che uno lupo squarcia tutta la gola e 'l viso alla moglie; dicele che se ne guardi; ella nol fa, e avvienle.
Novella ottava
Biondello fa una beffa a Ciacco d'un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica, faccendo lui sconciamente battere.
Novella nona
Due giovani domandano consiglio a Salamone, l'uno come possa essere amato, l'altro come gastigar debba la moglie ritrosa.
All'un risponde che ami, all'altro che vada al Ponte all'oca.
Novella decima
Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo 'ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda, guasta tutto lo 'ncantamento.
Conclusione della nona giornata
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Introduzione
Incomincia la nona giornata nella quale sotto il reggimento d'Emilia, si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli aggrada.
La luce, il cui splendore la notte fugge, aveva già l'ottavo cielo d'azzurrino in color cilestro mutato tutto, e cominciavansi i fioretti per li prati a levar suso, quando Emilia, levatasi, fece le sue compagne e i giovani parimente chiamare.
Li quali venuti, e appresso alli lenti passi della reina avviatisi, infino ad un boschetto, non guari al palagio lontano, se n'andarono; e per quello entrati, videro gli animali, sì come cavriuoli, cervi e altri, quasi sicuri da' cacciatori per la sopra stante pistolenzia, non altramente aspettargli che se senza te ma o dimestichi fossero divenuti.
E ora a questo e ora a quell'altro appressandosi, quasi giugnere gli dovessero, faccendogli correre e saltare, per alcuno spazio sollazzo presero.
Ma già inalzando il sole, parve a tutti di ritornare.
Essi eran tutti di frondi di quercia inghirlandati, con le mani piene o d'erbe odorifere o di fiori; e chi scontrati gli avesse, niun'altra cosa avrebbe potuto dire se non: - O costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli ucciderà lieti.
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Così adunque, piede innanzi piede venendosene, cantando e cianciando e motteggiando, pervennero al palagio, do ve ogni cosa ordinatamente disposta e li lor famigliari lieti e festeggianti trovarono.
Quivi riposatisi alquanto, non prima a tavola andarono che sei canzonette, più lieta l'una che l'altra, da' giovani e dalle donne cantate furono; appresso alle quali, data l'acqua alle mani, tutti secondo il piacer.
della reina gli mise il siniscalco a tavola, dove le vivande.
venute, allegri tutti mangiarono; e da quello levati, al carolare e al sonare si dierono per alquanto spazio, e poi, co mandandolo la reina, chi volle s'andò a riposare.
Ma già l'ora usitata venuta, ciascuno nel luogo usato s'adunò a ragionare; dove la reina, a Filomena guardando, disse che principio desse alle novelle del presente giorno, la qual sorridendo cominciò in questa guisa.
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Novella Prima
Madonna Francesca, amata da uno Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l'un per morto in una sepoltura, e l'altro quello trarne per morto, non potendo essi venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso.
Madonna, assai m'aggrada, poi che vi piace, che per questo campo aperto e libero, nel quale la vostra magnificenzia n'ha messi, del novellare, d'esser colei che corra il primo aringo, il quale se ben farò, non dubito che quegli che appresso verranno non facciano bene e meglio.
Molte volte s'è, o vezzose donne, ne'nostri ragionamenti mostrato quante e quali sieno le forze d'amore; né però credo che pienamente se ne sia detto, né sarebbe ancora, se di qui ad uno anno d'altro che di ciò non parlassimo; e per ciò che esso non solamente a vari dubbi di dover morire gli amanti conduce, ma quegli ancora ad entrare nelle case de' morti per morti tira, m'aggrada di ciò raccontarvi, oltre a quelle che dette sono, una novella, nella quale non solamente la potenzia d'amore comprenderete, ma il senno da una valorosa donna usato a torsi da dosso due che contro al suo piacere l'amavan, cognoscerete.
Dico adunque che nella città di Pistoia fu già una bellissima donna vedova, la quale due nostri fiorentini, che per aver bando di Firenze a Pistoia dimoravano, chiamati l'uno Rinuccio Palermini e l'altro Alessandro Chiarmontesi, senza sapere l'un dell'altro, per caso di costei presi, sommamente amavano, operando cautamente ciascuno ciò che per lui si poteva, a dover l'amor di costei acquistare.
Ed essendo questa gentil donna, il cui nome fu madonna Francesca de' Lazzari, assai sovente stimolata da ambasciate e da prieghi di ciascun di costoro, e avendo ella ad esse men saviamente più volte gli orecchi porti, e volendosi saviamente ritrarre e non potendo, le venne, acciò che la lor seccaggine si levasse da dosso, un pensiero; e quel fu di volergli richiedere d'un servigio il quale ella pensò niuno dovergliele fare, quantunque egli fosse possibile, acciò che, non faccendolo essi, ella avesse onesta o colorata ragione di più non volere le loro ambasciate udire; e 'pensiero fu questo.
Era, il giorno che questo pensier le venne, morto in Pistoia uno, il quale, quantunque stati fossero i suoi passati gentili uomini, era reputato il piggiore uomo che, non che in Pistoia, ma in tutto il mondo fosse; e oltre a questo vivendo era sì contraffatto e di sì divisato viso, che chi conosciuto non l'avesse, vedendol da prima, n'avrebbe avuto paura; ed era stato sotterrato in uno avello fuori della chiesa dei frati minori; il quale ella avvisò dovere in parte essere grande acconcio del suo proponimento.
Per la qual cosa ella disse ad una sua fante:
- Tu sai la noia e l'angoscia la quale io tutto il dì ricevo dall'ambasciate di questi due fiorentini, da Rinuccio e da Alessandro; ora io non son disposta a dover loro del mio amore compiacere; e per torglimi da dosso, m'ho posto in cuore, per le grandi profferte che fanno, di volergli in cosa provare, la quale io son certa che non faranno, e così questa seccaggine torrò via: e odi come.
Tu sai che stamane fu sotterrato al luogo de' frati minori lo Scannadio (così era chiamato quel reo uomo di cui dl sopra dicemmo), del quale, non che morto, ma vivo, i più sicuri uomini di questa terra, vedendolo, avevan paura; e però tu te n'andrai segretamente prima ad Alessandro, e sì gli dirai: - Madonna Francesca ti manda dicendo che ora è venuto il tempo che tu puoi avere il suo amore, il qual tu hai cotanto disiderato, ed esser con lei, dove tu vogli, in questa forma.
A lei dee, per alcuna cagione che tu poi saprai, questa notte essere da un suo parente recato a casa il corpo di Scannadio che stamane fu sepellito, ed ella, sì come quel la che ha di lui, così morto come egli è, paura, nol vi vorrebbe; per che ella ti priega in luogo di gran servigio, che ti debbia piacere d'andare stasera in su il primo sonno ed entrare in quella sepoltura dove Scannadio è sepellito, e metterti i suoi panni in dosso, e stare come se tu desso fossi, infino a tanto che per te sia venuto, e senza alcuna cosa dire o motto fare, di quella trarre ti lasci e recare a casa sua, dove ella ti riceverà, e con lei poi ti starai, e a tua posta ti potrai partire, lasciando del rimanente il pensiero a lei.
- E, se egli dice di volerlo fare, bene sta; dove dicesse di non volerlo fare sì gli di'da mia parte che più dove io sia non apparisca, e come egli ha cara la vita, si guardi che più né messo né ambasciata mi mandi.
E appresso questo te n'andrai a Rinuccio Palermini, e sì gli dirai: - Madonna Francesca dice che è presta di volere ogni tuo piacer fare, dove tu a lei facci un gran servigio, cioè che tu stanotte in su la mezza notte te ne vadi allo avello dove fu stamane sotterrato Scannadio, e lui, senza dire alcuna parola di cosa che tu oda o senta, tragghi di quello soavemente e rechigliele a casa.
Quivi perché ella il voglia vedrai, e di lei avrai il piacer tuo; e dove questo non ti piaccia di fare ella infino ad ora t'impone che tu mai più non le mandi né messo né ambasciata.
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La fante n'andò ad amenduni, e ordinatamente a ciascuno, secondo che imposto le fu, disse.
Alla quale risposto fu da ognuno, che non che in una sepoltura, ma in inferno andrebber, quando le piacesse.
La fante fe'la risposta alla donna, la quale aspettò di vedere se sì fosser pazzi che essi il facessero.
Venuta adunque la notte, essendo già primo sonno, Alessandro Chiarmontesi spogliatosi in farsetto, uscì di casa sua per andare a stare in luogo di Scannadio nello avello, e andando gli venne un pensier molto pauroso nell'animo, e cominciò a dir seco: - Deh, che bestia sono io? Dove vo io? che so io se i parenti di costei, forse avvedutisi che io l'amo, credendo essi quel che non è, le fanno far questo per uccidermi in quello avello? Il che se avvenisse, io m'avrei il danno, né mai cosa del mondo se ne saprebbe che lor nocesse.
che so io se forse alcun mio nimico que sto m'ha procacciato, il quale ella forse amando, di questo il vuol servire? -
E poi dicea: - Ma pognam che niuna di queste cose sia, e che pure i suoi parenti a casa di lei portar mi debbano io debbo credere che essi il corpo di Scannadio non vogliono per doverlosi tenere in braccio, o metterlo in braccio a lei; anzi si dee credere che essi ne voglian far qualche strazio, sì come di colui che forse già d'alcuna cosa gli diservì.
Costei dice che di cosa che io senta io non faccia motto.
se essi mi cacciasser gli occhi o mi traessero i denti o mozzasermi le mani o facessermi alcuno altro così fatto giuoco, a che sare'io? Come potre'io star cheto? E se io favello, e'mi conosceranno e per avventura mi faranno male; ma come che essi non me ne facciano, io non avrò fatto nulla, ché essi non mi lasceranno con la donna; e la donna dirà poi che io abbia rotto il suo comandamento e non farà mai cosa che mi piaccia.
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E così dicendo, fu tutto che tornato a casa; ma pure il grande amore il sospinse innanzi con argomenti contrari a questi e di tanta forza, che allo avello il condussero.
Il quale egli aperse, ed entratovi dentro e spogliato Scannadio e sé rivestito e l'avello sopra sé richiuso e nel luogo di Scannadio postosi, gl'incominciò a tornare a mente chi costui era stato, e le cose che già aveva udite dire che di notte erano intervenute, non che nelle sepolture de' morti, ma ancora altrove; e tutti i peli gli s'incominciarono ad arricciare ad dosso, e parevagli tratto tratto che Scannadio si dovesse levar ritto e quivi scannar lui.
Ma da fervente amore aiutato, questi e gli altri paurosi pensier vincendo, stando come se egli il morto fosse, cominciò ad aspettare che di lui dovesse intervenire.
Rinuccio, appressandosi la mezza notte, uscì di casa sua per far quello che dalla sua donna gli era stato mandato a dire; e andando, in molti e vari pensieri entrò delle cose possibili ad intervenirgli; sì come di poter col corpo sopra le spalle di Scannadio venire alle mani della signoria ed esser come malioso condennato al fuoco; o di dovere, se egli si risapesse, venire in odio de' suoi parenti; e d'altri simili, da' quali tutto che rattenuto fu.
Ma poi, rivolto, disse: - Deh! dirò io di no della prima cosa che questa gentil donna, la quale io ho cotanto amata e amo, m'ha richiesto, e spezialmente dovendone la sua grazia acquistare? Non, ne dovess'io di certo morire, che io non me ne metta a fare ciò che promesso l'ho; - e andato avanti giunse alla sepoltura e quella leggermente aperse.
Alessandro, sentendola aprire, ancora che gran paura avesse, stette pur cheto.
Rinuccio, entrato dentro, credendosi il corpo di Scannadio prendere, prese Alessandro pe'piedi e lui fuor ne tirò, e in su le spalle levatoselo, verso la casa della gentil donna cominciò ad andare; e così andando e non riguardandolo altramenti, spesse volte il percoteva ora in un canto e ora in un altro d'alcune panche che allato alla via erano; e la notte era sì buia e sì oscura che egli non poteva discernere ove s'andava.
Ed essendo già Rinuccio a piè dell'uscio della gentil donna, la quale alle finestre con la sua fante stava per sentire se Rinuccio Alessandro recasse, già da sé armata in modo da mandargli amenduni via, avvenne che la famiglia della signoria, in quella contrada ripostasi e chetamente standosi aspettando di dover pigliare uno sbandito, sentendo lo scalpiccio che Rinuccio coi piè faceva, subitamente tratto fuori un lume per veder che si fare e dove andarsi, e mossi i pavesi e le lance, gridò:
- Chi è là?
La quale Rinuccio conoscendo, non avendo tempo da troppa lunga diliberazione, lasciatosi cadere Alessandro, quanto le gambe nel poteron portare andò via.
Alessandro, levatosi prestamente, con tutto che i panni del morto avesse in dosso, li quali erano molto lunghi, pure andò via altressì.
La donna, per lo lume tratto fuori dalla famiglia, ottimamente veduto aveva Rinuccio con Alessandro dietro alle spalle, e similmente aveva scorto Alessandro esser vestito dei panni di Scannadio, e maravigliossi molto del grande ardire di ciascuno; ma con tutta la maraviglia rise assai del veder gittar giuso Alessandro, e del vedergli poscia fuggire.
Ed essendo di tale accidente molto lieta e lodando Iddio che dallo 'mpaccio di costoro tolta l'avea, se ne tornò dentro e andossene in camera, affermando con la fante senza alcun dubbio ciascun di costoro amarla molto, poscia quello avevan fatto, sì come appariva, che ella loro aveva imposto.
Rinuccio, dolente e bestemmiando la sua sventura, non se ne tornò a casa per tutto questo, ma, partita di quella contrada la famiglia, colà tornò dove Alessandro aveva gittato, e cominciò brancolone a cercare se egli il ritrovasse, per fornire il suo servigio, ma non trovandolo, e avvisando la famiglia quindi averlo tolto, dolente a casa se ne tornò.
Alessandro, non sappiendo altro che farsi, sena aver conosciuto chi portato se l'avesse, dolente di tale sciagura, similmente a casa sua se n'andò.
La mattina, trovata aperta la sepoltura di Scannadio né dentro vedendovisi, perciò che nel fondo l'aveva Alessandro voltato, tutta Pistoia ne fu in vari ragionamenti, estimando gli sciocchi lui da' diavoli essere stato portato via.
Nondimeno ciascun de' due amanti, significato alla donna ciò che fatto avea e quello che era intervenuto, e con questo scusandosi se fornito non avean pienamente il suo comandamento, la sua grazia e il suo amore addimandava.
La qual mostrando a niun ciò voler credere, con recisa risposta di mai per lor niente voler fare, poi che essi ciò che essa ad dimandato avea non avean fatto, se gli tolse da dosso.
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Novella Seconda
Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de' veli aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l'accusata e fattalane accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
Già si tacea Filomena, e il senno della donna a torsi da dosso coloro li quali amar non volea da tutti era stato commendato, e così in contrario non amor ma pazzia era stata tenuta da tutti l'ardita presunzione degli amanti, quando la reina ad Elissa vezzosamente disse:
- Elissa, segui.
La quale prestamente incominciò.
Carissime donne, saviamente si seppe madonna Francesca, come detto è, liberar dalla noia sua; ma una giovane monaca, aiutandola la fortuna, sé da un soprastante pericolo, leggiadramente parlando, diliberò.
E, come voi sapete, assai sono li quali, essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e gastigatori, li quali, sì come voi potrete com prendere per la mia novella, la fortuna alcuna volta e meritamente vitupera; e ciò addivenne alla badessa, sotto la cui obbedienza era la monaca della quale debbo dire.
Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione, nel quale, tra l'altre donne monache che v'erano, v'era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dì ad un suo parente alla grata venuta, d'un bel giovane che con lui era s'innamorò.
Ed esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto, similmente di lei s'accese; e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto sostennero.
Ultimamente, essendone ciascun sollicito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi, non una volta ma molte, con gran piacer di ciascuno, la visitò.
Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne di là entro fu veduto, senza avvedersene egli o ella, dall'Isabetta partirsi e andarsene.
Il che costei con alquante altre comunicò.
E prima ebber consiglio d'accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna secondo la oppinione delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo, di volerla far cogliere col giovane alla badessa.
E così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono per incoglier costei.
Or, non guardandosi l'Isabetta da questo, né alcuna cosa sappiendone, avvenne che ella una notte vel fece venire; il che tantosto sepper quelle che a ciò badavano.
Le quali, quando a loro parve tempo, essendo già buona pezza di notte, in due si divisero, e una parte se ne mise a guardia del l'uscio della cella dell'Isabetta, e un'altra n'andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l'uscio, a lei che già rispondeva, dissero:
- Su, madonna, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato che l'Isabetta ha un giovane nella cella.
Era quella notte la badessa accompagnata d'un prete, il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire.
La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose, tanto l'uscio sospignessero che egli s'aprisse, spacciatamente si levò suso, e come il meglio seppe si vestì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamanli il saltero, le venner tolte le brache del prete; e tanta fu la fretta, che, senza avvedersene, in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì fuori, e prestamente l'uscio si riserrò dietro, dicendo:
- Dove è questa maladetta da Dio? - e con l'altre, che sì focose e sì attente erano a dover far trovare in fallo l'Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non s'avvedieno, giunse all'uscio della cella, e quello, dall'altre aiutata, pinse in terra; ed entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti abbracciati, li quali, da cosi subito soprapprendimento storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi.
La giovane fu incontanente dall'altre monache presa, e per comandamento della badessa menata in capitolo.
Il giovane s'era rimaso; e vestitosi, aspettava di veder che fine la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco.
La badessa, postasi a sedere in capitolo, in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità, l'onestà e la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea; e dietro alla villania aggiugneva gravissime minacce.
La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole, non sapeva che si rispondere, ma tacendo, di sé metteva compassion nell'altre; e, multiplicando pur la badessa in novelle, venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in capo, e gli usolieri che di qua e di là pendevano.
Di che ella, avvisando ciò che era, tutta rassicurata disse:
- Madonna, se Iddio v'aiuti, annodatevi la cuffia, e poscia mi dite ciò che voi volete.
La badessa, che non la intendeva, disse:
- Che cuffia, rea femina? Ora hai tu viso di motteggiare? Parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo?
Allora la giovane un'altra volta disse:
- Madonna, io vi priego che voi v'annodiate la cuffia, poi dite a me ciò che vi piace.
Laonde molte delle monache levarono il viso al capo della badessa, ed ella similmente ponendovisi le mani, s'accorsero perché l'Isabetta così diceva.
Di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone, e in tutta altra guisa che fatto non avea cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto s'era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse.
E liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l'Isabetta col suo amante.
Il qual poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fe'venire.
L'altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente procacciaron lor ventura.
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Novella Terza
Maestro Simone, ad instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a' predetti capponi e denari, e guarisce della pregnezza senza partorire.
Poi che Elissa ebbe la sua novella finita, essendo da tutte rendute grazie a Dio che la giovane monaca aveva con lieta uscita tratta dei morsi delle invidiose compagne, la reina a Filostrato comandò che seguitasse; il quale, senza più comandamento aspettare, incominciò.
Bellissime donne, lo scostumato giudice marchigiano, di cui ieri vi novellai, mi trasse di bocca una novella di Calandrino, la quale io era per dirvi.
E per ciò che ciò che di lui si ragiona non può altro che multiplicare la festa, benché di lui e de' suoi compagni assai ragionato si sia, ancor pur quella che ieri aveva in animo vi dirò.
Mostrato è di sopra assai chiaro chi Calandrin fosse e gli altri de' quali in questa novella ragionar debbo; e per ciò, senza più dirne, dico che egli avvenne che una zia di Calandrin si morì e lasciogli dugento lire di piccioli con tanti; per la qual cosa Calandrino cominciò a dire che egli voleva comperare un podere; e con quanti sensali aveva in Firenze, come se da spendere avesse avuti diecimila fiorin d'oro, teneva mercato, il quale sempre si guastava quando al prezzo del poder domandato si perveniva.
Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avevan più volte detto che egli farebbe il meglio a goderglisi con loro insieme, che andar comperando terra, come se egli avesse avuto a far pallottole; ma, non che a questo, essi non l'aveano mai potuto conducere che egli loro una volta desse mangiare.
Per che un dì dolendosene, ed essendo a ciò sopravenuto un lor compagno, che aveva nome Nello, dipintore, di liberar tutti e tre di dover trovar modo da ugnersi il grifo alle spese di Calandrino; e senza troppo indugio darvi, avendo tra sé ordinato quello che a fare avessero, la seguente mattina appostato quando Calandrino di casa uscisse, non essendo egli guari andato, gli si fece incontro Nello e disse:
- Buon dì, Calandrino.
Calandrino gli rispose che Iddio gli desse il buon dì e 'l buono anno.
Appresso questo, Nello rattenutosi un poco, lo 'ncominciò a guardar nel viso.
A cui Calandrino disse:
- Che guati tu?
E Nello disse a lui:
- Haiti tu sentita sta notte cosa niuna? Tu non mi par desso.
Calandrino incontanente incominciò a dubitare e disse:
- Ohimè, come! Che ti pare egli che io abbia?
Disse Nello:
- Deh! io nol dico per ciò; ma tu mi pari tutto cambiato; fia forse altro ; - e lasciollo andare.
Calandrino tutto sospettoso, non sentendosi per ciò cosa del mondo, andò avanti.
Ma Buffalmacco, che guari non era lontano, vedendol partito da Nello, gli si fece incontro, salutatolo il domandò se egli si sentisse niente.
Calandrino rispose:
- Io non so, pur testé mi diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe egli essere che io avessi nulla?
Disse Buffalmacco:
- Sì, potrestu aver cavelle, non che nulla: tu par mezzo morto.
A Calandrino pareva già aver la febbre.
Ed ecco Bruno sopravvenne, e prima che altro dicesse, disse:
- Calandrino, che viso è quello? E'par che tu sia morto: che ti senti tu?
Calandrino, udendo ciascun di costor così dire, per certissimo ebbe seco medesimo d'esser malato; e tutto sgomentato gli domandò:
- Che fo?
Disse Bruno:
- A me pare che tu te ne torni a casa a vaditene in su 'l letto e facciti ben coprire, e che tu mandi il segnal tuo al maestro Simone, che è così nostra cosa come tu sai.
Egli ti dirà incontanente ciò che tu avrai a fare, e noi ne verrem teco, e se bisognerà far cosa niuna, noi la faremo.
E con loro aggiuntosi Nello, con Calandrino se ne tornarono a casa sua, ed egli entratosene tutto affaticato nella camera, disse alla moglie:
- Vieni e cuoprimi bene, ché io mi sento un gran male.
Essendo adunque a giacer posto, il suo segnale per una fanticella mandò al maestro Simone, il quale allora a bottega stava in Mercato Vecchio alla 'nsegna del mellone.
E Bruno disse a' compagni:
- Voi vi rimarrete qui con lui, e io voglio andare a sapere che il medico dirà; e, se bisogno sarà, a menarloci.
Calandrino allora disse:
- Deh! sì, compagno mio, vavvi e sappimi ridire come il fatto sta, ché io mi sento non so che dentro.
Bruno, andatosene al maestro Simone, vi fu prima che la fanticella che il segno portava, ed ebbe informato maestro Simone del fatto.
Per che, venuta la fanticella e il maestro veduto il segno, disse alla fanticella:
- Vattene, e di'a Calandrino che egli si tenga ben caldo, e io verrò a lui incontanente e dirogli ciò che egli ha, e ciò che egli avrà a fare.
La fanticella così rapportò: né stette guari che il maestro e Brun vennero, e postoglisi il medico a sedere allato, gli 'ncominciò a toccare il polso, e dopo alquanto, essendo ivi presente la moglie, disse:
- Vedi, Calandrino, a parlarti come ad amico, tu non hai altro male se non che tu se'pregno.
Come Calandrino udì questo, dolorosamente cominciò a gridare e a dire:
- Ohimè! Tessa, questo m'hai fatto tu, che non vuogli stare altro che di sopra: io il ti diceva bene.
La donna, che assai onesta persona era, udendo così dire al marito, tutta di vergogna arrossò, e abbassata la fronte, senza risponder parola s'uscì della camera.
Calandrino, continuando il suo ramarichio, diceva:
- Ohimè, tristo me! Come farò io? Come partorirò io questo figliuolo? Onde uscirà egli? Ben veggo che io son morto per la rabbia di questa mia moglie, che tanto la faccia Iddio trista quanto io voglio esser lieto; ma, così foss'io sano come io non sono, ché io mi leverei e dare'le tante busse, che io la romperei tutta, avvegna che egli mi stea molto bene, ché io non la doveva mai lasciar salir di sopra; ma per certo, se io scampo di questa, ella se ne potrà ben prima morir di voglia.
Bruno e Buffalmacco e Nello avevan sì gran voglia di ridere che scoppiavano, udendo le parole di Calandrino, ma pur se ne tenevano; ma il maestro Scimmione rideva sì squaccheratamente, che tutti i denti gli si sarebber potuti trarre.
Ma pure al lungo andare, raccomandandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo gli dovesse dar consiglio e aiuto, gli disse il maestro:
- Calandrino, io non voglio che tu ti sgomenti, ché, lodato sia Iddio, noi ci siamo sì tosto accorti del fatto, che con poca fatica e in pochi dì ti dilibererò; ma conviensi un poco spendere.
Disse Calandrino:
- Ohimè! maestro mio, sì per l'amor di Dio.
Io ho qui dugento lire di che io voleva comperare un podere; se tutti bisognano, tutti gli togliete, purché io non abbia a partorire, ché io non so come io mi facessi, ché io odo fare alle femine un sì gran romore quando son per partorire, con tutto che elle abbian buon cotal grande donde farlo, che io credo, se io avessi quel dolore, che io mi morrei prima che io partorissi.
Disse il medico:
- Non aver pensiero.
Io ti farò fare una certa bevanda stillata molto buona e molto piacevole.
a bere, che in tre mattine risolverà ogni cosa, e rimarrai più sano che pesce; ma farai che tu sii poscia savio e più non incappi in queste sciocchezze.
Ora ci bisogna per quella acqua tre paia di buon capponi e grossi, e per altre cose che bisognano darai ad un di costoro cinque lire di piccioli, che le comperi, e fara'mi ogni cosa recare alla bottega, e io al nome di Dio domattina ti manderò di quel beveraggio stillato, e comincera'ne a bere un buon bicchiere grande per volta.
Calandrino, udito questo, disse:
- Maestro mio, ciò siane in voi; - e date cinque lire a Bruno e denari per tre paia di capponi, il pregò che in suo servigio in queste cose durasse fatica.
Il medico, partitosi, gli fece fare un poco di chiarea e mandogliele.
Bruno, comperati i capponi e altre cose necessarie al godere, insieme col medico e co' compagni suoi se li mangiò.
Calandrino bevve tre mattine della chiarea, e il medico venne a lui, e i suoi compagni, e toccatogli il polso gli disse:
- Calandrino, tu se'guerito senza fallo; e però sicuramente oggimai va a fare ogni tuo fatto, né per questo star più in casa.
Calandrino lieto levatosi s'andò a fare i fatti suoi, lodando molto, ovunque con persona a parlar s'avveniva, la bella cura che di lui il maestro Simone aveva fatta, d'averlo fatto in tre dì senza pena alcuna spregnare.
E Bruno e Buffalmacco e Nello rimaser contenti d'aver con ingegni saputo schernire l'avarizia di Calandrino, quantunque monna Tessa, avvedendosene, molto col marito ne brontolasse.
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Novella Quarta
Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Buonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiulieri, e in camicia correndogli dietro e dicendo che rubato l'avea, il fa pigliare a' villani e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui, venendosene, lascia in camicia.
Con grandissime risa di tutta la brigata erano state ascoltate le parole da Calandrino dette della sua moglie; ma, tacendosi Filostrato, Neifile, sì come la reina volle, incominciò.
Valorose donne, se egli non fosse più malagevole agli uomini il mostrare altrui il senno e la virtù loro, che sia la sciocchezza e 'l vizio, invano si faticherebber molti in porre freno alle lor parole; e questo v'ha assai manifestato la stoltizia di Calandrino, al quale di niuna necessità era, a voler guerire del male che la sua simplicità gli faceva accredere, che egli avesse i segreti diletti della sua donna in pubblico a dimostrare.
La qual cosa una a sé contraria nella mente me n'ha recata, cioè come la malizia d'uno il senno soperchiasse d'un altro, con grave danno e scorno del soperchiato; il che mi piace di raccontarvi.
Erano, non sono molti anni passati, in Siena due già per età compiuti uomini, ciascuno chiamato Cecco, ma l'uno di messer Angiulieri, e l'altro di messer Fortarrigo.
Li quali quantunque in molte altre cose male insieme di costumi si convenissero, in uno, cioè che amenduni li lor padri odiavano, tanto si convenivano, che amici n'erano divenuti e spesso n'usavano insieme.
Ma parendo all'Angiulieri, il quale e bello e costumato uomo era, mal dimorare in Siena della provesione che dal padre donata gli era, sentendo nella Marca d'Ancona esser per legato del papa venuto un cardinale che molto suo signore era, si dispose a volersene andare a lui, credendone la sua condizion migliorare.
E fatto questo al padre sentire, con lui ordinò d'avere ad una ora ciò che in sei mesi gli dovesse dare, acciò che vestir si potesse e fornir di cavalcatura e andare orrevole.
E cercando d'alcuno, il qual seco menar potesse al suo servigio, venne questa cosa sentita al Fortarrigo, il qual di presente fu all'Angiulieri, e cominciò, come il meglio seppe, a pregarlo che seco il dovesse menare, e che egli voleva es sere e fante e famiglio e ogni cosa, e senza alcun salario sopra le spese.
Al quale l'Angiulieri rispose che menar nol voleva, non perché egli nol conoscesse bene ad ogni servigio sufficiente, ma per ciò che egli giucava e oltre a ciò s'innebbriava alcuna volta.
A che il Fortarrigo rispose che dell'uno e dell'altro senza dubbio si guarderebbe, e con molti saramenti gliele affermò, tanti prieghi sopraggiugnendo, che l'Angiulieri, sì come vinto, disse che era contento.
Ed entrati una mattina in cammino amenduni, a desinar n'andarono a Buonconvento.
Dove avendo l'Angiulier desinato, ed essendo il caldo grande, fatto acconciare un letto nello albergo e spogliatosi, dal Fortarrigo aiutato s'andò a dormire, e dissegli che come nona sonasse il chiamasse.
Il Fortarrigo, dormendo l'Angiulieri, se n'andò in su la taverna, e quivi, alquanto avendo bevuto, cominciò con alcuni a giucare, li quali, in poca d'ora alcuni denari che egli avea avendogli vinti, similmente quanti panni egli aveva in dosso gli vinsero; onde egli, disideroso di riscuotersi, così in camicia come era, se n'andò là dove dormiva l'Angiulieri, e vedendol dormir forte, di borsa gli trasse quanti denari egli avea, e al giuoco tornatosi, così gli perdè come gli altri.
L'Angiulieri, destatosi, si levò e vestissi e domandò del Fortarrigo, il quale non trovandosi, avvisò l'Angiulieri lui in alcuno luogo ebbro dormirsi, sì come altra volta era usato di fare.
Per che, diliberatosi di lasciarlo stare, fatta mettere la sella e la valigia ad un suo pallafreno, avvisando di fornirsi d'altro famigliare a Corsignano, volendo, per andarsene, l'oste pagare, non si trovò danaio; di che il rumore fu grande e tutta la casa dell'oste fu in turbazione, dicendo l'Angiulieri che egli là entro era stato rubato e minacciando egli di farnegli tutti presi andare a Siena.
Ed ecco venire in camicia il Fortarrigo, il quale per torre i panni, come fatto aveva i denari, veniva.
E veggendo l'Angiulieri in concio di cavalcar, disse:
- Che è questo, Angiulieri? Vogliancene noi andare ancora? Deh aspettati un poco: egli dee venire qui testeso uno che ha pegno il mio farsetto per trentotto soldi; son certo, che egli cel renderà per trentacinque, pagandol testé.
E duranti ancora le parole, sopravvenne uno il quale fece certo l'Angiulieri il Fortarrigo essere stato colui che i suoi denar gli aveva tolti, col mostrargli la quantità di quegli che egli aveva perduti.
Per la qual cosa l'Angiulier turbatissimo disse al Fortarrigo una grandissima villania, e se più d'altrui che di Dio temuto non avesse, gliele avrebbe fatta; e, minacciandolo di farlo impiccar per la gola o fargli dar bando delle forche di Siena, montò a cavallo.
Il Fortarrigo, non come se l'Angiulieri a lui, ma ad un altro dicesse, diceva:
- Deh! Angiulieri, in buona ora lasciamo stare ora co stette parole che non montan cavelle; intendiamo a questo; noi il riavrem per trentacinque soldi, ricogliendol testé, ché, indugiandosi pure di qui a domane, non ne vorrà meno di trentotto come egli me ne prestò; e fammene questo piacere, perché io gli misi a suo senno.
Deh! perché non ci miglioriam noi questi tre soldi?
L'Angiulieri, udendol così parlare, si disperava, e massimamente veggendosi guatare a quegli che v'eran dintorno, li quali parea che credessono non che il Fortarrigo i denari dello Angiulieri avesse giucati, ma che l'Angiulieri ancora avesse dei suoi, e dicevagli:
- Che ho io a fare di tuo farsetto? Che appiccato sia tu per la gola, che non solamente m'hai rubato e giucato il mio, ma sopra ciò hai impedita la mia andata, e anche ti fai beffe di me.
Il Fortarrigo stava pur fermo come se a lui non dicesse, e diceva:
- Deh, perché non mi vuo'tu migliorar que'tre soldi? Non credi tu che io te li possa ancor servire? Deh, fallo, se ti cal di me: per che hai tu questa fretta? Noi giugnerem bene ancora stasera a Torrenieri.
Fa truova la borsa: sappi che io potrei cercar tutta Siena, e non ve ne troverre'uno che così mi stesse ben come questo; e a dire che io il lasciassi a costui per trentotto soldi! Egli vale ancor quaranta o più, sì che tu mi piggiorresti in due modi.
L'Angiulier, di gravissimo dolor punto, veggendosi rubare da costui e ora tenersi a parole, senza più rispondergli, voltata la testa del pallafreno, prese il cammin verso Torrenieri.
Al quale il Fortarrigo, in una sottil malizia entrato, così in camicia cominciò a trottar dietro; ed essendo già ben due miglia andato pur del farsetto pregando, andandone l'Angiulieri forte per levarsi quella seccaggine dagli orecchi, venner veduti al Fortarrigo lavoratori in un campo vicino alla strada dinanzi all'Angiulieri, ai quali il Fortarrigo, gridando forte, incominciò a dire:
- Pigliatel, pigliatelo.
Per che essi chi con vanga e chi con marra nella strada paratisi dinanzi all'Angiulieri, avvisandosi che rubato avesse colui che in camincia dietro gli venia gridando, il ritennero e presono.
Al quale per dir loro chi egli fosse e come il fatto stesse, poco giovava.
Ma il Fortarrigo, giunto là, con un mal viso disse:
- Io non so come io non t'uccido, ladro disleale, che ti fuggivi col mio.
- E a' villani rivolto disse:
- Vedete, signori, come egli m'aveva, nascostamente partendosi, avendo prima ogni sua cosa giucata, lasciato nello albergo in arnese! Ben posso dire che per Dio e per voi io abbia questo cotanto racquistato, di che io sempre vi sarò tenuto.
L'Angiulieri diceva egli altressì, ma le sue parole non erano ascoltate.
Il Fortarrigo con l'aiuto de' villani il mise in terra del pallafreno, e spogliatolo, de' suoi panni si rivestì, e a caval montato, lasciato l'Angiulieri in camicia e scalzo, a Siena se ne tornò, per tutto dicendo sé il pallafreno e'panni aver vinto all'Angiulieri.
L'Angiulieri, che ricco si credeva andare al cardinal nella Marca, povero e in camicia si tornò a Buonconvento, né per vergogna a que'tempi ardì di tornare a Siena, ma statigli panni prestati, in sul ronzino che cavalcava il Fortarrigo se n'andò a' suoi parenti a Corsignano, co' quali si stette tanto che da capo dal padre fu sovvenuto.
E così la malizia del Fortarrigo turbò il buono avviso dello Angiulieri, quantunque da lui non fosse a luogo e a tempo lasciata impunita.
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Novella Quinta
Calandrino s'innamora d'una giovane, al quale Bruno fa un brieve, col quale come egli la tocca, ella va con lui, e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione.
Finita la non lunga novella di Neifile, senza troppo rider ne o parlarne passatasene la brigata, la reina verso la Fiammetta rivolta, che ella seguitasse le comandò, la quale tutta lieta rispose che volentieri, e cominciò.
Gentilissime donne, sì come io credo che voi sappiate, niuna cosa è di cui tanto si parli, che sempre più non piaccia; dove il tempo e il luogo che quella cotal cosa richiede si sappi per colui, che parlar ne vuole, debitamente eleggere.
E per ciò, se io riguardo quello per che noi siam qui (ché per aver festa e buon tempo, e non per altro, ci siamo) stimo che ogni cosa che festa e piacer possa porgere qui abbia e luogo e tempo debito; e benché mille volte ragionato ne fosse, altro che dilettar non debbia altrettanto parlandone.
Per la qual cosa, posto che assai volte de' fatti di Calandrino detto si sia tra noi, riguardando, sì come poco avanti disse Filostrato, che essi son tutti piacevoli, ardirò, oltre alle dette, di dirvene una novella, la quale, se io dalla verità del fatto mi fossi scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e saprei sotto altri nomi comporla e raccontarla; ma per ciò che il partirsi dalla verità delle cose state nel novellare è gran diminuire di diletto negli 'ntendenti, in propia forma, dalla ragion di sopra detta aiutata, la vi dirò.
Niccolò Cornacchini fu nostro cittadino e ricco uomo, e tra l'altre sue possessioni una bella n'ebbe in Camerata, sopra la quale fece fare uno orrevole e bello casamento, e con Bruno e con Buffalmacco che tutto gliele dipignessero si convenne; li quali, per ciò che il lavorio era molto, seco aggiunsero e Nello e Calandrino, e cominciarono a lavorare.
Dove, benché alcuna camera fornita di letto e dell'altre co se opportune fosse, e una fante vecchia dimorasse sì come guardiana del luogo, per ciò che altra famiglia non v'era, era usato un figliuolo del detto Niccolò, che avea nome Filippo, sì come giovane e senza moglie, di menar talvolta alcuna femina a suo diletto, e tenervela un dì o due e poscia mandarla via.
Ora tra l'altre volte avvenne che egli ve ne menò una, che aveva nome la Niccolosa, la quale un tristo, che era chiamato il Mangione, a sua posta tenendola in una casa a Camaldoli, prestava a vettura.
Aveva costei bella persona ed era ben vestita, e, secondo sua pari, assai costumata e ben parlante.
Ed essendo ella un dì di meriggio della camera uscita in un guarnello bianco e co' capelli ravvolti al capo, e ad un pozzo che nella corte era del casamento lavandosi le mani e 'viso, avvenne che Calandrino quivi venne per acqua, e dimesticamente la salutò.
Ella, rispostogli, il cominciò a guatare, più perché Calandrino le pareva un nuovo uomo che per altra vaghezza.
Calandrino cominciò a guatar lei, e parendogli bella, cominciò a trovar sue cagioni, e non tornava a' compagni con l'acqua; ma, non conoscendola, niuna cosa ardiva di dirle.
Ella, che avveduta s'era del guatar di costui, per uccellarlo alcuna volta guatava lui, alcun sospiretto gittando; per la qual cosa Calandrino subitamente di lei s'imbardò, né prima si partì della corte che ella fu da Filippo nella camera richiamata.
Calandrino, tornato a lavorare, altro che soffiare non faceva; di che Bruno accortosi, per ciò che molto gli poneva mente alle mani, sì come quegli che gran diletto prendeva de' fatti suoi, disse:
- Che diavolo hai tu, sozio Calandrino? Tu non fai altro che soffiare.
A cui Calandrino disse:
- Sozio, se io avessi chi m'aiutassi, io starei bene.
- Come? - disse Bruno.
A cui Calandrino disse:
- E'non si vuol dire a persona: egli è una giovane quaggiù, che è più bella che una lammia, la quale è sì forte innamorata di me, che ti parrebbe un gran fatto; io me n'avvidi testé quando io andai per l'acqua.
- Ohimè! - disse Bruno - guarda che ella non sia la moglie di Filippo.
Disse Calandrino:
- Io il credo, per ciò che egli la chiamò, ed ella se n'andò a lui nella camera; ma che vuol per ciò dir questo? Io la fregherei a Cristo di così fatte cose, non che a Filippo.
Io ti vo'dire il vero, sozio: ella mi piace tanto, che io nol ti potrei dire.
Disse allora Bruno:
- Sozio, io ti spierò chi ella è; e se ella è la moglie di Filippo, io acconcierò i fatti tuoi in due parole, per ciò che ella è molto mia domestica.
Ma come farem noi che Buffalmacco nol sappia? Io non le posso mai favellare ch'e'non sia meco.
Disse Calandrino:
- Di Buffalmacco non mi curo io, ma guardianci di Nello, ché egli è parente della Tessa e guasterebbeci ogni cosa.
Disse Bruno:
- Ben di'.
Or sapeva Bruno chi costei era, sì come colui che veduta l'avea venire, e anche Filippo gliele aveva detto.
Per che, essendosi Calandrino un poco dal lavorio partito e andato per vederla, Bruno disse ogni cosa a Nello e a Buffalmacco, e insieme tacitamente ordinarono quello che fare gli dovessero di questo suo innamoramento.
E come egli ritornato fu, disse Bruno pianamente:
- Vedestila?
Rispose Calandrino:
- Ohimè! sì, ella m'ha morto.
Disse Bruno:
- Io voglio andare a vedere se ella è quella che io credo; e se così sarà, lascia poscia far me.
Sceso adunque Bruno giuso, e trovato Filippo e costei, ordinatamente disse loro chi era Calandrino, e quello che egli aveva lor detto, e con loro ordinò quello che ciascun di loro dovesse fare e dire, per avere festa e piacere dello innamoramento di Calandrino.
E a Calandrino tornatosene disse:
- Bene è dessa; e per ciò si vuol questa cosa molto saviamente fare, per ciò che, se Filippo se ne avvedesse, tutta l'acqua d'Arno non ci laverebbe.
Ma che vuo'tu che io le dica da tua parte, se egli avvien che io le favelli?
Rispose Calandrino:
- Gnaffe! tu le dirai imprima imprima che io le voglio mille moggia di quel buon bene da impregnare; e poscia, che io son suo servigiale, e se ella vuol nulla; ha'mi bene inteso?
Disse Bruno:
- Sì, lascia far me.
Venuta l'ora della cena, e costoro avendo lasciata opera e giù nella corte discesi, essendovi Filippo e la Niccolosa, alquanto in servigio di Calandrino ivi si posero a stare.
Dove Calandrino incominciò a guardare la Niccolosa e a fare i più nuovi atti del mondo, tali e tanti che se ne sarebbe avveduto un cieco.
Ella d'altra parte ogni cosa faceva per la quale credesse bene accenderlo, e secondo la informazione avuta da Bruno, il miglior tempo del mondo prendendo de' modi di Calandrino; Filippo con Buffalmacco e con gli altri faceva vista di ragionare e di non avvedersi di questo fatto.
Ma pur dopo alquanto, con grandissima noia di Calandrino, si partirono; e venendosene verso Firenze, disse Bruno a Calandrino:
- Ben ti dico che tu la fai struggere come ghiaccio al sole; per lo corpo di Dio, se tu ci rechi la ribeba tua e canti un poco con essa di quelle tue canzoni innamorate, tu la farai gittare a terra delle finestre per venire a te.
Disse Calandrino:
- Parti, sozio? Parti che io la rechi?
- Sì, - rispose Bruno.
A cui Calandrino disse:
- Tu non mi credevi oggi, quando io il ti diceva; per certo, sozio, io m'avveggio che io so meglio che altro uomo far ciò che io voglio.
Chi avrebbe saputo, altri che io, far così tosto innamorare una così fatta donna come è costei? A buona otta l'avrebber saputo fare questi giovani di tromba marina, che tutto 'l dì vanno in giù e in su, e in mille anni non saprebbero accozzare tre man di noccioli.
Ora io vorrò che tu mi vegghi un poco con la ribeba; vedrai bel giuoco! E intendi sanamente che io non son vecchio come io ti paio, ella se n'è bene accorta ella; ma altramenti ne la farò io accorgere se io le pongo la branca addosso; per lo verace corpo di Cristo, che io le farò giuoco, che ella mi verrà dietro come va la pazza al figliuolo.
- Oh, - disse Bruno - tu te la griferai: e'mi par pur vederti morderle con cotesti tuoi denti fatti a bischeri quella sua bocca vermigliuzza e quelle sue gote che paion due rose, e poscia manicarlati tutta quanta.
Calandrino, udendo queste parole, gli pareva essere a' fatti, e andava cantando e saltando tanto lieto, che non capeva nel cuoio.
Ma l'altro dì recata la ribeba, con gran diletto di tutta la brigata cantò più canzoni con essa.
E in brieve in tanta sista entrò dello spesso veder costei, che egli non lavorava punto, ma mille volte il dì ora alla finestra, ora alla porta e ora nella corte correa per veder costei; la quale astutamente secondo l'ammaestramento di Bruno adoperando, molto bene ne gli dava cagione.
Bruno d'altra parte gli rispondeva alle sue ambasciate e da parte di lei ne gli faceva talvolte; quando ella non v'era, che era il più del tempo, gli faceva venir lettere da lei, nelle quali esso gli dava grande speranza de' desideri suoi, mostrando che ella fosse a casa di suoi parenti là dove egli allora non la poteva vedere.
E in questa guisa Bruno e Buffalmacco, che tenevano mano al fatto, traevano de' fatti di Calandrino il maggior piacer del mondo, faccendosi talvolta dare, sì come domandato dalla sua donna, quando un pettine d'avorio e quando una borsa e quando un coltellino e cotali ciance, allo 'ncontro recandogli cotali anelletti contraffatti di niun valore, de' quali Calandrino faceva maravigliosa festa.
E oltre a questo n'avevan da lui di buone merende e d'altri onoretti, acciò che solliciti fossero a' fatti suoi.
Ora, avendol tenuto costoro ben due mesi in questa forma senza più aver fatto, vedendo Calandrino che il lavorio si veniva finendo, e avvisando che, se egli non recasse ad effetto il suo amore prima che finito fosse il lavorio, mai più fatto non gli potesse venire, cominciò molto a strignere e a sollicitare Bruno.
Per la qual cosa, essendovi la giovane venuta, avendo Bruno prima con Filippo e con lei ordinato quello che fosse da fare, disse a Calandrino:
- Vedi, sozio, questa donna m'ha ben mille volte promesso di dover far ciò che tu vorrai, e poscia non ne fa nulla, e parmi che ella ci meni per lo naso; e per ciò, poscia che ella nol fa come ella promette, noi gliele farem fare o voglia ella o no, se tu vorrai.
Rispose Calandrino:
- Deh! sì, per l'amor di Dio, facciasi tosto.
Disse Bruno:
- Daratti egli il cuore di toccarla con un brieve che io ti darò?
Disse Calandrino:
- Sì bene.
- Adunque, - disse Bruno - fa che tu mi rechi un poco di carta non nata e un vispistrello vivo e tre granella d'incenso e una candela benedetta, e lascia far me.
Calandrino stette tutta la sera vegnente con suoi artifici per pigliare un vispistrello, e alla fine presolo, con l'altre cose il portò a Bruno.
Il quale, tiratosi in una camera, scrisse in su quella carta certe sue frasche con alquante cateratte, e portogliele e disse:
Calandrino, sappi che se tu la toccherai con questa scritta, ella ti verrà incontanente dietro e farà quello che tu vorrai.
E però, se Filippo va oggi in niun luogo, accostaleti in qualche modo e toccala, e vattene nella casa della paglia ch'è qui dallato, che è il miglior luogo che ci sia, per ciò che non vi bazzica mai persona; tu vedrai che ella vi verrà; quando ella v'è, tu sai ben ciò che tu t'hai a fare.
Calandrino fu il più lieto uomo del mondo, e presa la scritta, disse:
- Sozio, lascia far me.
Nello, da cui Calandrino si guardava, avea di questa cosa quel diletto che gli altri, e con loro insieme teneva mano a beffarlo; e per ciò, sì come Bruno gli aveva ordinato, se n'andò a Firenze alla moglie di Calandrino, e dissele:
- Tessa, tu sai quante busse Calandrino ti diè senza ragione il dì che egli ci tornò con le pietre di Mugnone, e per ciò io intendo che tu te ne vendichi, e se tu nol fai, non m'aver mai né per parente né per amico.
Egli si s'è innamorato d'una donna colassù, ed ella è tanto trista che ella si va rinchiudendo assai spesso con essolui: e poco fa si dieder la posta d'essere insieme via via, e per ciò io voglio che tu vi venga e vegghilo e castighil bene.
Come la donna udì questo, non le parve giuoco, ma levatasi in piè cominciò a dire:
- Ohimè! ladro piuvico, fa'mi tu questo? Alla croce di Dio, ella non andrà così, che io non te ne paghi.
E preso suo mantello e una feminetta in compagnia, vie più che di passo insieme con Nello lassù n'andò.
La qual come Bruno vide venire di lontano, disse a Filippo:
- Ecco l'amico nostro.
Per la qual cosa Filippo andato colà dove Calandrino e gli altri lavoravano, disse:
- Maestri, a me conviene andare testé a Firenze: lavorate di forza.
- E partitosi, s'andò a nascondere in parte che egli poteva, senza esser veduto, veder ciò che facesse Calandrino.
Calandrino, come credette che Filippo alquanto dilungato fosse, così se ne scese nella corte, dove egli trovò sola la Niccolosa, ed entrato con lei in novelle, ed ella, che sapeva ben ciò che a fare aveva, accostataglisi, un poco di più dimestichezza che usata non era gli fece.
Donde Calandrino la toccò con la scritta; e come tocca l'ebbe, senza dir nulla volse i passi ver so la casa della paglia, dove la Niccolosa gli andò dietro; e, come dentro fu, chiuso l'uscio, abbracciò Calandrino, e in su la paglia che era ivi in terra il gittò, e saligli addosso a cavalcione, e tenendogli le mani in su gli omeri, senza lasciarlosi appressare al viso, quasi come un suo gran disidero il guardava dicendo:
- O Calandrino mio dolce, cuor del corpo mio, anima mia, ben mio, riposo mio, quanto tempo ho io desiderato d'averti e di poterti tenere a mio senno! Tu m'hai con la piacevolezza tua tratto il filo della camicia; tu m'hai aggratigliato il cuore colla tua ribeba; può egli esser vero che io ti tenga?
Calandrino, appena potendosi muover, diceva:
- Deh! anima mia dolce, lasciamiti baciare.
La Niccolosa diceva:
- O tu hai la gran fretta! lasciamiti prima vedere a mio senno; lasciami saziar gli occhi di questo tuo viso dolce!
Bruno e Buffalmacco n'erano andati da Filippo, e tutti e tre vedevano e udivano questo fatto.
Ed essendo già Calandrino per voler pur la Niccolosa baciare, ed ecco giugner Nello con monna Tessa, il quale come giunse, disse:
- Io fo boto a Dio che sono insieme; - e all'uscio della casa pervenuti, la donna, che arrabbiava, datovi delle mani, il mandò oltre, ed entrata dentro vide la Niccolosa addosso a Calandrino; la quale, come la donna vide, subitamente levatasi, fuggì via e andossene là dove era Filippo.
Monna Tessa corse con l'unghie nel viso a Calandrino, che ancora levato non era, e tutto gliele graffiò e presolo per li capelli, e in qua e in là tirandolo, cominciò a dire:
- Sozzo can vituperato, dunque mi fai tu questo? Vecchio impazzato, che maladetto sia il ben che io t'ho voluto; dunque non ti pare avere tanto a fare a casa tua, che ti vai innamorando per l'altrui? Ecco bello innamorato! Or non ti conosci tu, tristo? Non ti conosci tu, dolente, che premenloti tutto, non uscirebbe tanto sugo che bastasse ad una salsa? Alla fè di Dio, egli non era ora la Tessa quella che ti 'mpregnava, che Dio la faccia trista chiunque ella è, che ella dee ben sicuramente esser cattiva cosa ad aver vaghezza di così bella gioia come tu se'.
Calandrino, vedendo venir la moglie, non rimase né morto né vivo, né ebbe ardire di far contro di lei difesa alcuna; ma pur così graffiato e tutto pelato e rabbuffato, ricolto il cappuccio suo e levatosi, cominciò umilmente a pregar la moglie che non gridasse, se ella non volesse che egli fosse tagliato tutto a pezzi, per ciò che colei che con lui era, era moglie del signor della casa.
La donna disse:
- Sia, che Iddio le dea il mal anno.
Bruno.e Buffalmacco, che con Filippo e con la Niccolosa avevan di questa cosa riso a lor senno, quasi al romor venendo, colà trassero, e dopo molte novelle rappacificata la donna, dieron per consiglio a Calandrino che a Firenze se n'andasse e più non vi tornasse, acciò che Filippo, se niente di questa cosa sentisse, non gli facesse male.
Così adunque Calandrino tristo e cattivo, tutto pelato e tutto graffiato a Firenze tornatosene, più colassù non avendo ardir d'andare, il dì e la notte molestato e afflitto dai rimbrotti della moglie, al suo fervente amor pose fine, avendo molto dato da ridere a' suoi compagni e alla Niccolosa e a Filippo.
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Novella Sesta
Due giovani albergano con uno, de' quali l'uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con l'altro.
Quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendosi dire al compagno.
Fanno romore insieme.
La donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e quindi con certe parole ogni cosa pacefica.
Calandrino, che altre volte la brigata aveva fatta ridere, similmente questa volta la fece; de' fatti del quale poscia che le donne si tacquero, la reina impose a Panfilo che dicesse, il qual disse:
Laudevoli donne, il nome della Niccolosa amata da Calandrino m'ha nella memoria tornata una novella d'un'altra Niccolosa, la quale di raccontarvi mi piace, per ciò che in essa vedrete un subito avvedimento d'una buona donna avere un grande scandalo tolto via.
Nel pian di Mugnone fu, non ha guari, un buon uomo, il quale a' viandanti dava pe'lor danari mangiare e bere; e come che povera persona fosse e avesse piccola casa, alcuna volta per un bisogno grande, non ogni persona, ma alcun conoscente albergava.
Ora aveva costui una sua moglie assai bella femina, della quale aveva due figliuoli; e l'uno era una giovanetta bella e leggiadra, d'età di quindici o di sedici anni, che ancora marito non avea; l'altro era un fanciul piccolino, che ancora non aveva uno anno, il quale la madre stessa allattava.
Alla giovane aveva posto gli occhi addosso un giovanetto leggiadro e piacevole e gentile uomo della nostra città, il quale molto usava per la contrada, e focosamente l'amava.
Ed ella, che d'esser da un così fatto giovane amata forte si gloriava, mentre di ritenerlo con piacevoli sembianti nel suo amor si sforzava, di lui similmente s'innamorò; e più volte per grado di ciascuna delle parti avrebbe tale amore avuto effetto, se Pinuccio (che così aveva nome il giovane non avesse schifato il biasimo della giovane e 'l suo.
Ma pur, di giorno in giorno multiplicando l'ardore, venne disidero a Pinuccio di doversi pur con costei ritrovare, e caddegli nel pensiero di trovar modo di dover col padre albergare, avvisando, sì come colui che la disposizion della casa della giovane sapeva, che, se questo facesse, gli potrebbe venir fatto d'esser con lei, senza avvedersene persona; e co me nell'animo gli venne, così senza indugio mandò ad effetto.
Esso, insieme con un suo fidato compagno chiamato Adriano, il quale questo amor sapeva, tolti una sera al tardi due ronzini a vettura e postevi su due valigie, forse piene di paglia, di Firenze uscirono, e presa una lor volta, sopra il pian di Mugnone cavalcando pervennero, essendo già notte; e di quindi, come se di Romagna tornassero, data la volta, verso le case se ne vennero, e alla casa del buon uom picchiarono; il quale, sì come colui che molto era dimestico di ciascuno, aperse la porta prestamente.
Al quale Pinuccio disse:
- Vedi, a te conviene stanotte albergarci: noi ci credemmo dover potere entrare in Firenze, e non ci siamo sì saputi studiare, che noi non siam qui pure a così fatta ora, come tu vedi, giunti.
A cui l'oste rispose:
- Pinuccio, tu sai bene come io sono agiato di poter così fatti uomini come voi siete albergare; ma pur, poi che questa ora v'ha qui sopraggiunti, né tempo ci è da potere andare altrove, io v'albergherò volentieri com'io potrò.
Ismontati adunque i due giovani e nello alberghetto entrati, primieramente i loro ronzini adagiarono, e appresso, avendo ben seco portato da cena, insieme con l'oste cenarono.
Ora non avea l'oste che una cameretta assai piccola, nella quale eran tre letticelli messi come il meglio l'oste avea saputo, né v'era per tutto ciò tanto di spazio rimaso, essendone due dall'una delle facce della camera e 'l terzo di rincontro a quegli dall'altra, che altro che strettamente andar vi si potesse.
Di questi tre letti fece l'oste il men cattivo acconciar per li due compagni, e fecegli coricare; poi dopo alquanto, non dormendo alcun di loro, come che di dormir mostrassero, fece l'oste nell'un de' due che rimasi erano coricar la figliuola, e nell'altro s'entrò egli e la donna sua; la quale allato del letto dove dormiva pose la culla nella quale il suo piccolo figlioletto teneva.
Ed essendo le cose in questa guisa disposte, e Pinuccio avendo ogni cosa veduta, dopo alquanto spazio, parendogli che ogn'uomo addormentato fosse, pianamente levatosi se n'andò al letticello dove la giovane amata da lui si giaceva, e miselesi a giacere allato; dalla quale, ancora che paurosamente il facesse, fu lietamente raccolto, e con essolei di quel piacere che più disideravano prendendo si stette.
E standosi così Pinuccio con la giovane, avvenne che una gatta fece certe cose cadere, le quali la donna destatasi sentì; per che levatasi temendo non fosse altro, così al buio come era, se n'andò là dove sentito avea il romore.
Adriano, che a ciò non avea l'animo, per avventura per alcuna opportunità natural si levò, alla quale espedire andando, trovò la culla postavi dalla donna, e non potendo senza levarla oltre passare, presala la levò del luogo dove era, e posela allato al letto dove esso dormiva; e fornito quello per che levato s'era e tornandosene, senza della culla curarsi, nel letto se n'entrò.
La donna, avendo cerco e trovato che quello che caduto era non era tal cosa, non si curò d'altrimenti accender lume per vederlo, ma, garrito alla gatta, nella cameretta se ne tornò, e a tentone dirittamente al letto dove il marito dormiva se n'andò.
Ma, non trovandovi la culla, disse se co stessa: - Ohimè, cattiva me, vedi quel che io faceva! In fè di Dio, che io me n'andava dirittamente nel letto degli osti miei.
- E, fattasi un poco più avanti e trovando la culla, in quello letto al quale ella era allato insieme con Adriano si coricò.
credendosi col marito coricare.
Adriano, che ancora raddormentato non era, sentendo questo, la ricevette e bene e lietamente, e senza fare altramenti motto, da una volta in su caricò l'orza con gran piacer della donna.
E così stando, temendo Pinuccio non il sonno con la sua giovane il soprapprendesse, avendone quel piacer preso che egli desiderava, per tornar nel suo letto a dormire le si levò dallato, e là venendone, trovando la culla, credette quello essere quel dell'oste; per che, fattosi un poco più avanti insieme con l'oste si coricò, il quale per la venuta di Pinuccio si destò.
Pinuccio, credendosi essere allato ad Adriano, disse:
- Ben ti dico che mai sì dolce cosa non fu come è la Niccolosa: al corpo di Dio, io ho avuto con lei il maggior diletto che mai uomo avesse con femina, e dicoti che io sono andato da sei volte in su in villa, poscia che io mi partii quinci.
L'oste, udendo queste novelle e non piacendogli troppo, prima disse seco stesso: - Che diavol fa costui qui? - Poi, più turbato che consigliato, disse:
- Pinuccio, la tua è stata una gran villania, e non so perché tu mi t'abbi a far questo; ma, per lo corpo di Dio, io te ne pagherò.
Pinuccio, che non era il più savio giovane del mondo, avveggendosi del suo errore, non ricorse ad emendare come meglio avesse potuto, ma disse:
- Di che mi pagherai? Che mi potrestu fare tu?
La donna dell'oste, che col marito si credeva essere, disse ad Adriano:
- Ohimè! Odi gli osti nostri che hanno non so che parole insieme.
Adriano ridendo disse:
- Lasciali fare, che Iddio gli metta in mal anno: essi bevver troppo iersera.
La donna, parendole avere udito il marito garrire e udendo Adriano, incontanente conobbe là dove stata era e con cui; per che, come savia, senza alcuna parola dire, subitamente si levò, e presa la culla del suo figlioletto, come che punto lume nella camera non si vedesse, per avviso la portò allato al letto dove dormiva la figliuola, e con lei si coricò; e quasi desta fosse per lo rumore del marito, il chiamò e domandollo che parole egli avesse con Pinuccio.
Il marito rispose: - Non odi tu ciò ch'e'dice che ha fatto stanotte alla Niccolosa?
La donna disse:
- Egli mente bene per la gola, ché con la Niccolosa non è egli giaciuto, ché io mi ci coricai io in quel punto, che io non ho mai poscia potuto dormire; e tu se'una bestia che egli credi.
Voi bevete tanto la sera, che poscia sognate la notte e andate in qua e in là senza sentirvi, e parvi far maraviglie: egli è gran peccato che voi non vi fiaccate il collo! Ma che fa egli costì Pinuccio? Perché non si sta egli nel letto suo?
D'altra parte Adriano, veggendo che la donna saviamente la sua vergogna e quella della figliuola ricopriva, disse:
- Pinuccio, io te l'ho detto cento volte che tu non va da attorno, ché questo tuo vizio del levarti in sogno e di dire le favole che tu sogni per vere ti daranno una volta la mala ventura: torna qua, che Dio ti dea la mala notte!
L'oste, udendo quello che la donna diceva e quello che diceva Adriano, cominciò a creder troppo bene che Pinuccio sognasse; per che, presolo per la spalla, lo 'ncominciò a dimenare e a chiamar, dicendo:
- Pinuccio, destati; tornati al letto tuo.
Pinuccio, avendo raccolto ciò che detto s'era, cominciò a guisa d'uom che sognasse ad entrare in altri farnetichi; di che l'oste faceva le maggior risa del mondo.
Alla fine, pur sentendosi dimenare, fece sembiante di destarsi, e chiamando Adrian, disse:
- E' egli ancora dì, che tu mi chiami?
Adriano disse:
- Sì, vienne qua.
Costui, infignendosi e mostrandosi ben sonnocchioso, al fine si levò d'allato all'oste e tornossi al letto con Adriano.
E, venuto il giorno e levatisi, l'oste incominciò a ridere e a farsi beffe di lui e de' suoi sogni.
E così d'uno in altro motto acconci i duo giovani i lor ronzini e messe le lor valigie e bevuto con l'oste, rimontati a cavallo se ne vennero a Firenze, non meno contenti del modo in che la cosa avvenuta era, che dello effetto stesso della cosa.
E poi appresso, trovati altri modi, Pinuccio con la Niccolosa si ritrovò, la quale alla madre affermava lui fermamente aver sognato.
Per la qual cosa la donna, ricordandosi dell'abbracciar d'Adriano, sola seco diceva d'aver vegghiato.
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Novella Settima
Talano d'Imolese sogna che uno lupo squarcia tutta la gola e 'l viso alla moglie; dicele che se ne guardi; ella nol fa, e avvienle.
Essendo la novella di Panfilo finita e l'avvedimento della donna commendato da tutti, la reina a Pampinea disse che dicesse la sua, la quale allora cominciò:
Altra volta, piacevoli donne, delle verità dimostrate da' sogni, le quali molte scherniscono, s'è fra noi ragionato; e però, come che detto ne sia, non lascerò io che con una novelletta assai brieve io non vi narri quello che ad una mia vicina, non è ancor guari, addivenne, per non crederne uno di lei dal marito veduto.
Io non so se voi vi conosceste Talano d'Imolese, uomo assai onorevole.
Costui, avendo una giovane chiamata Margarita, bella tra tutte l'altre, per moglie presa, ma sopra ogni altra bizzarra, spiacevole e ritrosa, intanto che a senno di niuna persona voleva fare alcuna cosa, né altri far la poteva a suo; il che quantunque gravissimo fosse a comportare a Talano, non potendo altro fare, se 'l sofferiva.
Ora avvenne una notte, essendo Talano con questa sua Margarita in contado ad una lor possessione, dormendo egli, gli parve in sogno vedere la donna sua andar per un bosco assai bello, il quale essi non guari lontano alla lor casa avevano; e mentre così andar la vedeva, gli parve che d'una parte del bosco uscisse un grande e fiero lupo, il quale prestamente s'avventava alla gola di costei e tiravala in terra, e lei gridante aiuto si sforzava di tirar via, e poi di bocca uscitagli, tutta la gola e 'l viso pareva l'avesse guasto.
Il quale, la mattina appresso levatosi, disse alla moglie:
- Donna, ancora che la tua ritrosia non abbia mai sofferto che io abbia potuto avere un buon dì con teco, pur sarei dolente quando mal t'avvenisse; e per ciò, se tu crederrai al mio consiglio, tu non uscirai oggi di casa; - e domandato da lei del perché, ordinatamente le contò il sogno suo.
La donna, crollando il capo, disse:
- Chi mal ti vuol, mal ti sogna; tu ti fai molto di me pietoso, ma tu sogni di me quello che tu vorresti vedere; e per certo io me ne guarderò e oggi e sempre di non farti né di questo né d'altro mio male mai allegro.
Disse allora Talano:
- Io sapeva bene che tu dovevi dir così, per ciò che tal grado ha chi tigna pettina; ma credi che ti piace; io per me il dico per bene, e ancora da capo te ne consiglio, che tu oggi ti stea in casa o almeno ti guardi d'andare nel nostro bosco.
La donna disse:
- Bene, io il farò; - e poi seco stessa cominciò a dire: - Hai veduto come costui maliziosamente si crede avermi messa paura d'andare oggi al bosco nostro? là dove egli per certo dee aver data posta a qualche cattiva, e non vuol che io il vi truovi.
Oh, egli avrebbe buon manicar co' ciechi, e io sarei bene sciocca se io nol conoscessi e se io il credessi! Ma per certo e'non gli verrà fatto: e'convien pur che io vegga, se io vi dovessi star tutto dì, che mercatantia debba esser questa che egli oggi far vuole.
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E come questo ebbe detto, uscito il marito da una parte della casa, ed ella uscì dall'altra, e come più nascosamente poté, senza alcuno indugio, se n'andò nel bosco, e in quello nella più folta parte che v'era si nascose, stando attenta e guardando or qua or là, se alcuna persona venir vedesse.
E mentre in questa guisa stava senza alcun sospetto di lupo, ed ecco vicino a lei uscir d'una macchia folta un lupo grande e terribile, né poté ella, poi che veduto l'ebbe, appena dire - Domine, aiutami, - che il lupo le si fu avventato alla gola, e presala forte, la cominciò a portar via come se stata fosse un piccolo agnelletto.
Essa non poteva gridare, sì aveva la gola stretta, né in altra maniera aiutarsi; per che, portandosenela il lupo, senza fallo strangolata l'avrebbe, se in certi pastori non si fosse scontrato, li quali sgridandolo a lasciarla il costrinsero; ed essa misera e cattiva, da' pastori riconosciuta e a casa portatane, dopo lungo studio da' medici fu guarita, ma non sì, che tutta la gola e una parte del viso non avesse per sì fatta maniera guasta, che, dove prima era bella, non paresse poi sempre sozzissima e contraffatta.
Laonde ella, vergognandosi d'apparire dove veduta fosse, assai volte miseramente pianse la sua ritrosia e il non avere, in quello che niente le costava, al vero sogno del marito voluto dar fede.
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Novella Ottava
Biondello fa una beffa a Ciacco d'un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica, faccendo lui sconciamente battere.
Universalmente ciascuno della lieta compagnia disse quello che Talano veduto avea dormendo non essere stato sogno ma visione, sì appunto, senza alcuna cosa mancarne, era avvenuto.
Ma, tacendo ciascuno, impose la reina alla Lauretta che seguitasse, la qual disse.
Come costoro, soavissime donne, che oggi davanti a me hanno parlato, quasi tutti da alcuna cosa già detta mossi sono stati a ragionare, così me muove la rigida vendetta ieri raccontata da Pampinea, che fe'lo scolare, a dover dire d'una assai grave a colui che la sostenne, quantunque non fosse per ciò tanto fiera.
E per ciò dico che, essendo in Firenze uno da tutti chiamato Ciacco, uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai, e non possendo la sua possibilità sostenere le spese che la sua ghiottornia richiedea, essendo per altro assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti, si diede ad essere, non del tutto uom di corte, ma morditore, e ad usare con coloro che ricchi erano e di mangiare delle buone cose si dilettavano; e con questi a desinare e a cena, ancor che chiamato non fosse ogni volta, andava assai sovente.
Era similmente in quei tempi in Firenze uno, il quale era chiamato Biondello, piccoletto della persona, leggiadro molto e più pulito che una mosca, con sua cuffia in capo, con una zazzerina bionda e per punto senza un capel torto avervi, il quale quel medesimo mestiere usava che Ciacco.
Il quale essendo una mattina di quaresima andato là do ve il pesce si vende, e comperando due grossissime lamprede per messer Vieri de' Cerchi, fu veduto da Ciacco; il quale, avvicinatosi a Biondello, disse:
- Che vuol dir questo?
A cui Biondello rispose:
- Iersera ne furono mandate tre altre, troppo più belle che queste non sono e uno storione a messer Corso Donati, le quali non bastandogli per voler dar mangiare a certi gentili uomini, m'ha fatte comperare quest'altre due: non vi verrai tu?
Rispose Ciacco:
- Ben sai che io vi verrò.
E quando tempo gli parve, a casa messer Corso se n'andò, e trovollo con alcuni suoi vicini che ancora non era andato a desinare.
A quale egli, essendo da lui domandato che andasse faccendo, rispose:
- Messere, io vengo a desinar con voi e con la vostra brigata.
A cui messer Corso disse:
- Tu sie 'l ben venuto, e per ciò che egli è tempo, andianne.
Postisi dunque a tavola, primieramente ebbero del cece e della sorra, e appresso del pesce d'Arno fritto, senza più Ciacco, accortosi dello 'nganno di Biondello e in sé non poco turbatosene, propose di dovernel pagare; né passar molti dì che egli in lui si scontrò, il qual già molti aveva fatti ridere di questa beffa.
Biondello, vedutolo, il salutò, e ridendo il domandò chenti la fosser state le lamprede di messer Corso; a cui Ciacco rispondendo disse:
- Avanti che otto giorni passino tu il saprai molto meglio dir di me.
E senza mettere indugio al fatto, partitosi da Biondello, con un saccente barattiere si convenne del prezzo, e datogli un bottaccio di vetro, il menò vicino della loggia de' Cavicciuli, e mostrogli in quella un cavaliere chiamato messer Filippo Argenti, uomo grande e nerboruto e forte, sdegnoso, iracundo e bizzarro più che altro, e dissegli:
- Tu te ne andrai a lui con questo fiasco in mano, e dira'gli così: - Messere, a voi mi manda Biondello, e mandavi pregando che vi piaccia d'arrubinargli questo fiasco del vostro buon vin vermiglio, ch'e'si vuole alquanto sollazzar con suoi zanzeri; - e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani addosso, per ciò che egli ti darebbe il mal dì, e avresti guasti i fatti miei.
Disse il barattiere:
- Ho io a dire altro?
Disse Ciacco:
- No; va pure; e come tu hai questo detto, torna qui a me col fiasco, e io ti pagherò.
Mossosi adunque il barattiere, fece a messer Filippo l'ambasciata.
Messer Filippo, udito costui, come colui che piccola levatura avea, avvisando che Biondello, il quale egli conosceva, si facesse beffe di lui, tutto tinto nel viso, dicendo: Che "arrubinatemi" e che "zanzeri" son questi? Che nel mal anno metta Iddio te e lui, - si levò in piè e distese il braccio per pigliar con la mano il barattiere; ma il barattiere, come colui che attento stava, fu presto e fuggì via, e per altra parte ritornò a Ciacco, il quale ogni cosa veduta avea, e dissegli ciò che messer Filippo aveva detto.
Ciacco contento pagò il barattiere, e non riposò mai ch'egli ebbe ritrovato Biondello, al quale egli disse:
- Fostu a questa pezza dalla loggia de' Cavicciuli?
Rispose Biondello:
- Mai no; perché me ne domandi tu?
Disse Ciacco:
- Per ciò che io ti so dire che messer Filippo ti fa cercare, non so quel ch'e'si vuole.
Disse allora Biondello:
- Bene, io vo verso là, io gli farò motto.
Partitosi Biondello, Ciacco gli andò appresso per vedere come il fatto andasse.
Messer Filippo, non avendo potuto giugnere il barattiere, era rimaso fieramente turbato e tutto in sé medesimo si rodea, non potendo dalle parole dette dal barattiere cosa del mondo trarre altro, se non che Biondello, ad instanzia di cui che sia, si facesse beffe di lui.
E in questo che egli così si rodeva, e Biondel venne.
Il quale come egli vide, fattoglisi incontro, gli diè nel viso un gran punzone.
- Ohimè! messer, - disse Biondel - che è questo?
Messer Filippo, presolo per li capelli e stracciatagli la cuffia in capo e gittato il cappuccio per terra e dandogli tuttavia forte, diceva:
- Traditore, tu il vedrai bene ciò che questo è.
Che "arrubinatemi" e che "zanzeri" mi mandi tu dicendo a me? Paiot'io fanciullo da dovere essere uccellato?
E così dicendo, con le pugna, le quali aveva che parevan di ferro, tutto il viso gli ruppe, né gli lasciò in capo capello che ben gli volesse, e convoltolo per lo fango, tutti i panni in dosso gli stracciò; e sì a questo fatto si studiava, che pure una volta dalla prima innanzi non gli potè Biondello dire una parola, né domandar perché questo gli facesse.
Aveva egli bene inteso dello "arrubinatemi" e de' "zanzeri", ma non sapeva che ciò si volesse dire.
Alla fine, avendol messer Filippo ben battuto, ed essendogli molti dintorno, alla maggior fatica del mondo gliele trasser di mano così rabbuffato e malconcio come era; e dissergli perché messer Filippo questo avea fatto, riprendendolo di ciò che mandato gli avea dicendo, e dicendogli ch'egli doveva bene oggimai cognoscer messer Filippo e che egli non era uomo da motteggiar con lui.
Biondello piagnendo si scusava e diceva che mai a messer Filippo non aveva mandato per vino.
Ma poi che un poco si fu rimesso in assetto, tristo e dolente se ne tornò a casa, avvisando questa essere stata opera di Ciacco.
E poi che dopo molti dì, partiti i lividori del viso, cominciò di casa ad uscire, avvenne che Ciacco il trovò, e ridendo il domandò:
- Biondello, chente ti parve il vino di messer Filippo?
Rispose Biondello:
- Tali fosser parute a te le lamprede di messer Corso!
Allora disse Ciacco:
- A te sta oramai: qualora tu mi vuogli così ben dare da mangiar come facesti, io darò a te così ben da bere come avesti.
Biondello, che conoscea che contro a Ciacco egli poteva più aver mala voglia che opera, pregò Iddio della pace sua, e da indi innanzi si guardò di mai più non beffarlo.
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Novella Nona
Due giovani domandano consiglio a Salamone, l'uno come possa essere amato, l'altro come gastigar debba la moglie ritrosa.
All'un risponde che ami, all'altro che vada al Ponte all'oca.
Niuno altro che la reina, volendo il privilegio servare a Dioneo, restava a dover novellare, la qual, poi che le donne ebbero assai riso dello sventurato Biondello, lieta cominciò così a parlare.
Amabili donne, se con sana mente sarà riguardato l'ordine delle cose, assai leggiermente si conoscerà tutta la universal moltitudine delle femine dalla natura e da' costumi e dalle leggi essere agli uomini sottomessa, e secondo la discrezion di quegli convenirsi reggere e governare; e per ciò ciascuna che quiete, consolazione e riposo vuole con quegli uomini avere a' quali s'appartiene, dee essere umile, paziente e ubidiente, oltre all'essere onesta: il che è sommo e spezial tesoro di ciascuna savia.
E quando a questo le leggi, le quali il ben comune riguardano in tutte le cose, non ci ammaestrassono, e l'usanza o costume che vogliam dire, le cui forze son grandissime e reverende, la natura assai apertamente cel mostra, la quale ci ha fatte ne'corpi dilicate e morbide, negli animi timide e paurose, nelle menti benigne e pietose, e hacci date le corporali forze leggieri, le voci piacevoli e i movimenti de' membri soavi: cose tutte testificanti noi avere dell'altrui governo bisogno.
E chi ha bisogno d'essere aiutato e governato ogni ragion vuol lui dovere essere ubidiente e subietto e reverente all'aiutatore e al governator suo.
E cui abbiam noi governatori e aiutatori, se non gli uomini? Dunque agli uomini dobbiamo, sommamente onorandogli, soggiacere; e qual da questo si parte, estimo che degnissima sia non solamente di riprension grave, ma d'aspro gastigamento.
E a così fatta considerazione, come che altra volta avuta l'abbia, pur poco fa mi ricondusse ciò che Pampinea della ritrosa moglie di Talano raccontò, alla quale Iddio quel gastigamento mandò che il marito dare non aveva saputo; e però nel mio giudicio cape tutte quelle esser degne, come già dissi, di rigido e aspro gastigamento, che dall'esser piacevoli, benivole e pieghevoli, come la natura, l'usanza e le leggi voglion, si partono.
Per che m'aggrada di raccontarvi un consiglio renduto da Salamone, sì come utile medicina a guerire quelle che così son fatte da cotal male.
Il quale niuna, che di tal medicina degna non sia, reputi ciò esser detto per lei, come che gli uomini un cotal proverbio usino: - Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone, e buona femina e mala femina vuol bastone.
- Le quali parole chi volesse sollazzevolmente interpretare, di leggieri si concederebbe da tutte così esser vero; ma pur vogliendole moralmente intendere, dico che è da concedere.
Sono naturalmente le femine tutte labili e inchinevoli, e per ciò a correggere la iniquità di quelle che troppo fuori de' termini posti loro si lasciano andare, si conviene il bastone che le punisca; e a sostentar la virtù dell'altre che trascorrere non si lascino, si conviene il bastone che le sostenga e che le spaventi.
Ma, lasciando ora stare il predicare, a quel venendo che di dire ho nello animo, dico che, essendo già quasi per tutto il mondo l'altissima fama del miracoloso senno di Salamone discorsa, e il suo essere di quello liberalissimo mostratore a chiunque per esperienzia ne voleva certezza, molti di diverse parti del mondo a lui per loro strettissimi e ardui bisogni con correvano per consiglio; e tra gli altri che a ciò andavano, si partì un giovane, il cui nome fu Melisso, nobile e ricco molto, della città di Laiazzo, là onde egli era e dove egli abitava.
E verso Jerusalem cavalcando, avvenne che uscendo d'Antioccia con un altro giovane chiamato Giosefo, il qual quel medesimo cammin teneva che faceva esso, cavalcò per alquanto spazio, e, come costume è de' camminanti, con lui cominciò ad entrare in ragionamento.
Avendo Melisso già da Giosefo di sua condizione e donde fosse saputo, dove egli andasse e per che il domandò; al quale Giosefo disse che a Salamone andava, per aver consiglio da lui che via tener dovesse con una sua moglie più che altra femina ritrosa e perversa, la quale egli né con prieghi né con lusinghe né in alcuna altra guisa dalle sue ritrosie ritrar poteva.
E appresso lui similmente, donde fosse e dove andasse e per che, domandò; al quale Melisso rispose:
- Io son di Laiazzo, e sì come tu hai una disgrazia, così n'ho io un'altra: io sono ricco giovane e spendo il mio in mettere tavola e onorare i miei cittadini, ed è nuova e strana cosa a pensare che per tutto questo io non posso trovare uom che ben mi voglia; e per ciò io vado dove tu vai, per aver consigli come addivenir possa che io amato sia.
Camminarono adunque i due compagni insieme, e in Jerusalem pervenuti per introdotto d'uno de' baroni di Salamone, davanti da lui furon messi, al qual brievemente Melisso disse la sua bisogna.
A cui Salamone rispose: - Ama.
E detto questo prestamente Melisso fu messo fuori, e Giosefo disse quello per che v'era.
Al quale Salamone null'altro rispose, se non: - Va al Ponte all'oca; - il che detto, similmente Giosefo fu senza indugio dalla presenza del re levato, e ritrovò Melisso il quale aspettava, e dissegli ciò che per risposta avea avuto.
Li quali a queste parole pensando e non potendo d'esse comprendere né intendimento né frutto alcuno per la loro bisogna, quasi scornati, a ritornarsi indietro entrarono in cammino.
E poi che alquante giornate camminati furono, pervennero ad un fiume sopra il quale era un bel ponte; e per ciò che una gran carovana di some sopra muli e sopra cavalli passavano, convenne lor sofferir di passar tanto che quelle passate fossero.
Ed essendo già quasi che tutte passate, per ventura v'ebbe un mulo il quale adombrò, sì come sovente gli veggiam fare, né volea per alcuna maniera avanti passare; per la qual cosa un mulattiere presa una stecca, prima assai temperata mente lo 'ncominciò a battere perché passasse.
Ma il mulo ora da questa parte della via e ora da quella attraversandosi, e talvolta indietro tornando, per niun partito passar volea; per la qual cosa il mulattiere oltre modo adirato gl'incominciò con la stecca a dare i maggiori colpi del mondo, ora nella testa e ora nei fianchi e ora sopra la groppa; ma tutto era nulla.
Per che Melisso e Giosefo, li quali questa cosa stavano a vedere, sovente dicevano al mulattiere:
- Deh! cattivo, che farai? Vuo'l tu uccidere? Perché non t'ingegni tu di menarlo bene e pianamente? Egli verrà più tosto che a bastonarlo come tu fai.
A'quali il mulattiere rispose:
- Voi conoscete i vostri cavalli e io conosco il mio mulo; lasciate far me con lui.
- E questo detto rincominciò a bastonarlo, e tante d'una parte e d'altra ne gli diè, che il mulo passò avanti, sì che il mulattiere vinse la pruova.
Essendo adunque i due giovani per partirsi, domandò Giosefo un buono uomo, il quale a capo del ponte sedeva, come quivi si chiamasse.
Al quale il buono uomo rispose:
- Messere, qui si chiama il Ponte all'oca.
Il che come Giosefo ebbe udito, così si ricordò delle parole di Salamone, e disse verso Melisso:
- Or ti dico io, compagno, che il consiglio datomi da Salamone potrebbe esser buono e vero, per ciò che assai manifestamente conosco che io non sapeva battere la donna mia, ma questo mulattiere m'ha mostrato quello che io abbia a fare.
Quindi, dopo alquanti dì divenuti ad Antioccia, ritenne Giosefo Melisso seco a riposarsi alcun dì; ed essendo assai ferialmente dalla donna ricevuto, le disse che così facesse far da cena come Melisso divisasse; il quale, poi vide che a Giosefo piaceva, in poche parole se ne diliberò.
La donna, sì come per lo passato era usata, non come Melisso divisato avea, ma quasi tutto il contrario fece; il che Giosefo vedendo, a turbato disse:
- Non ti fu egli detto in che maniera tu facessi questa cena fare?
La donna, rivoltasi con orgoglio, disse:
- Ora che vuol dir questo? Deh! ché non ceni, se tu vuoi cenare? Se mi fu detto altramenti, a me pare da far così; se ti piace, sì ti piaccia; se non, sì te ne sta.
Maravigliossi Melisso della risposta della donna, e biasimolla assai.
Giosefo, udendo questo, disse: - Donna, ancor se'tu quel che tu suogli; ma credimi che io ti farò mutar modo.
- E a Melisso rivolto disse: - Amico, tosto vedremo chente sia stato il consiglio di Salamone; ma io ti priego non ti sia grave lo stare a vedere, e di reputare per un giuoco quello che io farò.
E acciò che tu non m'impedischi, ricorditi della risposta che ci fece il mulattiere quando del suo mulo c'increbbe.
Al quale Melisso disse:
- Io sono in casa tua, dove dal tuo piacere io non intendo di mutarmi.
Giosefo, trovato un baston tondo d'un querciuolo giovane, se n'andò in camera, dove la donna, per istizza da tavola levatasi, brontolando se n'era andata; e presala per le treccie, la si gittò a' piedi e cominciolla fieramente a battere con questo bastone.
La donna cominciò prima a gridare e poi a minacciare; ma veggendo che per tutto ciò Giosefo non ristava, già tutta rotta cominciò a chiedere mercé per Dio che egli non l'uccidesse, dicendo oltre a ciò mai dal suo piacer non partirsi.
Giosefo per tutto questo non rifinava, anzi con più furia l'una volta che l'altra, or per lo costato, or per l'anche e ora su per le spalle, battendola forte, l'andava le costure ritrovando, né prima ristette che egli fu stanco; e in brieve niuno osso né alcuna parte rimase nel dosso della buona donna, che macerata non fosse.
E questo fatto, ne venne a Melisso e dissegli:
- Doman vedrem che pruova avrà fatto il consiglio del - Va al Ponte all'oca; - e riposatosi alquanto e poi lavatesi le mani, con Melisso cenò, e quando fu tempo, s'andarono a riposare.
La donna cattivella a gran fatica si levò di terra, e in sul letto si gittò, dove, come potè il meglio, riposatasi, la mattina vegnente per tempissimo levatasi, fe'domandar Giosefo quello che voleva si facesse da desinare.
Egli, di ciò insieme ridendosi con Melisso, il divisò, e poi, quando fu ora, tornati, ottimamente ogni cosa e secondo l'ordine dato trovaron fatta; per la qual cosa il consiglio prima da loro male inteso sommamente lodarono.
E dopo alquanti dì partitosi Melisso da Giosefo e tornato a casa sua, ad alcun, che savio uomo era, disse ciò che da Salamone avuto avea.
Il quale gli disse:
- Niuno più vero consiglio né migliore ti potea dare.
Tu sai che tu non ami persona, e gli onori e'servigi li quali tu fai, gli fai, non per amore che tu ad altrui porti, ma per pompa.
Ama adunque, come Salamon ti disse, e sarai amato.
Così adunque fu gastigata la ritrosa, e il giovane amando fu amato.
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Novella Decima
Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo 'ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda, guasta tutto lo 'ncantamento.
Questa novella dalla reina detta diede un poco da mormorare alle donne e da ridere a' giovani; ma poi che ristate furono, Dioneo così cominciò a parlare.
Leggiadre donne, infra molte bianche colombe aggiugne più di bellezza uno nero corvo, che non farebbe un candido cigno; e così tra molti savi alcuna volta un men savio è non solamente un accrescere splendore e bellezza alla lor maturità, ma ancora diletto e sollazzo.
Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e moderate, io, il qual sento anzi dello scemo che no, faccendo la vostra virtù più lucente col mio difetto, più vi debbo esser caro che se con più valore quella facessi divenir più oscura; e per conseguente più largo arbitrio debbo avere in dimostrarmi tal qual io sono, e più pazientemente dee da voi esser sostenuto che non dovrebbe se io più savio fossi, quel dicendo che io dirò.
Dirovvi adunque una novella non troppo lunga, nella quale comprenderete quanto diligentemente si convengano osservare le cose imposte da coloro che alcuna cosa per forza d'incantamento fanno, e quanto piccol fallo in quelle commesso ogni cosa guasti dallo incantator fatta.
L'altr'anno fu a Barletta un prete, chiamato donno Gianni di Barolo, il qual, per ciò che povera chiesa avea, per sostentar la vita sua, con una cavalla cominciò a portar mercatantia in qua e in là per le fiere di Puglia e a comperare e a vendere.
E così andando, prese stretta dimestichezza con uno che si chiamava Pietro da Tresanti, che quello medesimo mestiere con uno suo asino faceva, e in segno d'amorevolezza e d'amistà, alla guisa pugliese, nol chiamava se non compar Pietro; e quante volte in Barletta arrivava, sempre alla chiesa sua nel menava, e quivi il teneva seco ad albergo, e come poteva l'onorava.
Compar Pietro d'altra parte, essendo poverissimo e avendo una piccola casetta in Tresanti, appena bastevole a lui e ad una sua giovane e bella moglie e all'asino suo, quante volte donno Gianni in Tresanti capitava tante sel menava a casa, e come poteva, in riconoscimento dell'onor che da lui in Barletta riceveva, l'onorava.
Ma pure, al fatto dello albergo, non avendo compar Pietro se non un piccol letticello, nel quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva come voleva, ma conveniva che, essendo in una sua stalletta allato all'asino suo allogata la cavalla di donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di paglia si giacesse.
La donna, sappiendo l'onor che il prete al marito faceva a Barletta, era più volte, quando il prete vi veniva, volutasene andare a dormire con una sua vicina, che avea nome zita Carapresa di Giudice Leo, acciò che il prete col marito dormisse nel letto, e avevalo molte volte al prete detto, ma egli non aveva mai voluto; e tra l'altre volte, una le disse:
- Comar Gemmata, non ti tribolar di me, ché io sto, bene, per ciò che quando mi piace io fo questa mia cavalla diventare una bella zitella e stommi con essa, e poi quando voglio la fo diventar cavalla, e perciò da lei non mi partirei.
La giovane si maravigliò e credettelo, e al marito il disse, aggiugnendo:
- Se egli è così tuo come tu di', ché non ti fai tu insegnare quello incantesimo, ché tu possa far cavalla di me e fare i fatti tuoi con l'asino e con la cavalla, e guadagneremo due cotanti, e quando a casa fossimo tornati, mi potresti rifar femina come io sono.
Compar Pietro, che era anzi grossetto uom che no, credette questo fatto e accordossi al consiglio, e come meglio seppe, cominciò a sollicitar donno Gianni, che questa cosa gli dovesse insegnare.
Donno Gianni s'ingegnò assai di trarre costui di questa sciocchezza, ma pur non potendo, disse:
- Ecco, poi che voi pur volete, domattina ci leveremo, come noi sogliamo, anzi dì, e io vi mosterrò come si fa.
E' il vero che quello che più è malagevole in questa cosa si è l'appiccar la coda, come tu vedrai.
Compar Pietro e comar Gemmata, appena avendo la notte dormito (con tanto desidero questo fatto aspettavano), come vicino a dì fu, si levarono e chiamarono donno Gianni, il quale, in camicia levatosi, venne nella cameretta di compar Pietro e disse:
- Io non so al mondo persona a cui io questo facessi, se non a voi, e per ciò, poi che vi pur piace, io il farò; vero è che far vi conviene quello che io vi dirò, se voi volete che venga fatto.
Costoro dissero di far ciò che egli dicesse.
Per che donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a compar Pietro e dissegli:
- Guata ben come io farò, e che tu tenghi bene a men te come io dirò, e guardati, quanto tu hai caro di non guastare ogni cosa, che per cosa che tu oda o veggia, tu non dica una parola sola; e priega Iddio che la coda s'appicchi bene.
Compar Pietro, preso il lume, disse che ben lo farebbe.
Appresso donno Gianni fece spogliare ignuda nata comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co' piedi in terra, a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola similmente che di cosa che avvenisse motto non facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa, cominciò a dire: - Questa sia bella testa di cavalla; - e toccandole i capelli, disse: - Questi sieno belli crini di cavalla; - e poi toccandole le braccia, disse: - E queste sieno belle gambe e belli piedi di cavalla; - poi toccandole il petto e trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e su levandosi, disse: - E questo sia bel petto di cavalla; - e così fece alla schiena e al ventre e alle groppe e alle coscie e alle gambe.
E ultimamente, niuna cosa restandogli a fare se non la coda, levata la camicia e preso il piuolo col quale egli piantava gli uomini e prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse: - E questa sia bella coda di cavalla.
Compar Pietro, che attentamente infino allora aveva ogni cosa guardata, veggendo questa ultima e non parendonegli bene, disse:
- O donno Gianni, io non vi voglio coda, io non vi voglio coda.
Era già l'umido radicale, per lo quale tutte le piante s'appiccano, venuto, quando donno Gianni tiratolo indietro, disse:
- Ohimè, compar Pietro, che hai tu fatto? Non ti diss'io, che tu non facessi motto di cosa che tu vedessi? La cavalla era per esser fatta, ma tu favellando hai guasto ogni cosa, né più ci ha modo di poterla rifare oggimai.
Compar Pietro disse:
- Bene sta, io non vi voleva quella coda io.
Perché non diciavate voi a me -
Falla tu? - E anche l'appiccavate troppo bassa.
Disse donno Gianni:
- Perché tu non l'avresti per la prima volta saputa appiccar sì com'io.
La giovane, queste parole udendo, levatasi in piè, di buona fè disse al marito:
- Deh, bestia che tu se', perché hai tu guasti li tuoi fatti e'miei? Qual cavalla vedestu mai senza coda? Se m'aiuti Iddio, tu se'povero, ma egli sarebbe ragione che tu fossi molto più.
Non avendo adunque più modo a dover fare della giovane cavalla, per le parole che dette avea compar Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar Pietro con uno asino, come usato era, attese a fare il suo mestiere antico, e con donno Gianni insieme n'andò alla fiera di Bitonto, né mai più di tal servigio il richiese.
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Conclusione
Quanto di questa novella si ridesse, meglio dalle donne intesa che Dioneo non voleva, colei sel pensi che ancora ne riderà.
Ma, essendo le novelle finite e il sole già cominciando ad intiepidire, e la reina, conoscendo il fine della sua signoria esser venuto, in piè levatasi e trattasi la corona, quella in capo mise a Panfilo, il quale solo di così fatto onore restava ad onorare; e sorridendo disse:
- Signor mio, gran carico ti resta, sì come è l'avere il mio difetto e degli altri che il luogo hanno tenuto che tu tieni, essendo tu l'ultimo, ad ammendare, di che Iddio ti presti grazia, come a me l'ha prestata di farti re.
Panfilo, lietamente l'onor ricevuto, rispose:
- La vostra virtù e degli altri miei sudditi farà sì che io, come gli altri sono stati, sarò da lodare.
- E secondo il costume de' suoi predecessori col siniscalco delle cose opportune avendo disposto, alle donne aspettanti si rivolse e disse:
- Innamorate donne, la discrezion d'Emilia, nostra reina stata questo giorno, per dare alcun riposo alle vostre forze, arbitrio vi diè di ragionare quel che più vi piacesse.
Per che, già riposati essendo, giudico che sia da ritornare alla legge usata; e per ciò voglio che domane ciascuna di voi pensi di ragionare sopra questo, cioè: di chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a' fatti d'amore o d'altra cosa.
Queste cose e dicendo e udendo, senza dubbio niuno gli animi vostri ben disposti a valorosamente adoperare accenderà; ché la vita nostra, che altro che brieve esser non puote nel mortal corpo, si perpetuerà nella laudevole fama; il che ciascuno che al ventre solamente, a guisa che le bestie fanno, non serve, dee, non solamente desiderare, ma con ogni studio cercare e operare.
La tema piacque alla lieta brigata, la quale con licenzia del nuovo re tutta levatasi da sedere, agli usati di letti si diede, ciascuno secondo quello a che più dal desidero era tirato; e così fecero insino all'ora della cena.
Alla quale con festa venuti, e serviti diligentemente e con ordine, dopo la fine di quella si levarono a' balli costumati, e forse mille canzonette più sollazzevoli di parole che di canto maestrevoli, avendo cantate, comandò il re a Neifile che una ne cantasse a suo nome.
La quale, con voce chiara e lieta, così piacevolmente e senza indugio incominciò:
Io mi son giovinetta, e volentieri
m'allegro e canto en la stagion novella,
merzé d'amore e de' dolci pensieri.
Io vo pe'verdi prati riguardando
i bianchi fiori e'gialli e i vermigli
le rose in su le spine e i bianchi gigli
e tutti quanti gli vo somigliando
al viso di colui che me, amando,
ha presa e terrà sempre, come quella
ch'altro non ha in disio ch'e'suoi piaceri.
De'quai quand'io ne truovo alcun che sia,
al mio parer, ben simile di lui,
il colgo e bacio e parlomi con lui,
e com'io so, così l'anima mia
tutta gli apro, e ciò che 'l cor disia;
quindi con altri il metto in ghirlandella
legato co' miei crin biondi e leggieri.
E quel piacer, che di natura il fiore
agli occhi porge, quel simil mel dona
che s'io vedessi la propia persona
che m'ha accesa del suo dolce amore,
quel che mi faccia più il suo odore
esprimer nol potrei con la favella,
ma i sospir ne son testimon veri.
Li quai non escon già mai del mio petto,
come dell'altre donne, aspri né gravi,
ma se ne vengon fuor caldi e soavi,
e al mio amor sen vanno nel cospetto,
il qual come gli sente, a dar diletto
di sé a me si muove e viene in quella
ch'i' son per dir: Deh vien, ch'i' non disperi.
Assai fu e dal re e da tutte le donne commendata la canzonetta di Neifile; appresso alla quale, per ciò che già molta notte andata n'era, comandò il re che ciascuno per infino al giorno s'andasse a riposare.
Finisce la nona giornata del Decameron
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Decima Giornata
Introduzione alla decima giornata
Novella prima
Un cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia certissima gli mostra non esser colpa di lui, ma della sua malvagia fortuna, altamente donandogli poi.
Novella seconda
Ghino di Tacco piglia l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale.
Novella terza
Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto, come ordinato avea, il quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene.
Novella quarta
Messer Gentil de' Carisendi, venuto da Modona, trae della sepoltura una donna amata da lui, sepellita per morta, la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio, e Messer Gentile lei e 'l figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianimico, marito di lei.
Novella quinta
Madonna Dianora domanda a messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio.
Messer Ansaldo con l'obligarsi ad uno nigromante gliele dà.
Il marito le concede che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito, l'assolve della promessa, e il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo, assolve messer Ansaldo.
Novella sesta
Il re Carlo vecchio, vittorioso, d'una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente marita.
Novella settima
Il re Piero, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, le conforta, e appresso ad un gentil giovane la marita, e lei nella fronte baciata, sempre poi si dice suo cavaliere.
Novella ottava
Sofronia, credendosi esser moglie di Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo, e con lui se ne va a Roma, dove Gisippo in povero stato arriva, e credendo da Tito esser disprezzato, sé avere uno uomo ucciso, per morire, afferma.
Tito, riconosciutolo, per iscamparlo, dice sé averlo morto; il che colui che fatto l'avea vedendo, sé stesso manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono liberati, e Tito dà a Gisippo la sorella per moglie e con lui comunica ogni suo bene.
Novella nona
Il Saladino in forma di mercatante è onorato da messer Torello Fassi il passaggio; messer Torello dà un termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso, e per acconciare uccelli viene in notizia del soldano; il quale, riconosciutolo e sé fatto riconoscere, sommamente l'onora; messer Torello inferma, e per arte magica in una notte n'è recato a Pavia, e alle nozze, che della rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto, con lei a casa sua se ne torna.
Novella decima
Il marchese di Saluzzo, da' prieghi de' suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo modo, piglia una figliuola d'un villano, della quale ha due figlioli, li quali le fa veduto di uccidergli.
Poi, mostrando lei essergli rincresciuta e avere altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se sua moglie fosse, lei avendo in camicia cacciata e ad ogni cosa trovandola paziente, più cara che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli grandi le mostra, e come marchesana l'onora e fa onorare.
Conclusione della decima giornata
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Introduzione
Incomincia la decima e ultima giornata nella quale, sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a fatti d'amore o d'altra cosa.
Ancora eran vermigli certi nuvoletti nell'occidente, essendo già quegli dello oriente nelle loro estremità simili ad oro lucentissimi divenuti, per li solari raggi che molto loro avvicinandosi li ferieno, quando Panfilo levatosi, le donne e'suoi compagni fece chiamare.
E venuti tutti, con loro insieme diliberato del dove andar potessero al lor diletto, con lento passo si mise innanzi, accompagnato da Filomena e da Fiammetta, tutti gli altri appresso seguendogli; e molte cose della loro futura vita insieme parlando e dicendo e rispondendo, per lungo spazio s'andaron diportando; e data una volta assai lunga, cominciando il sole già troppo a riscaldare, al palagio si ritornarono.
E quivi dintorno alla chiara fonte fatti risciacquare i bicchieri, chi volle alquanto bevve, e poi fra le piacevoli ombre del giardino infino ad ora di mangiare s'andarono sollazzando.
E poi ch'ebber mangiato e dormito, come far soleano, dove al re piacque si ragunarono, e quivi il primo ragionamento comandò il re a Neifile, la quale lietamente così cominciò.
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Novella Prima
Un cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia certissima gli mostra non esser colpa di lui, ma della sua malvagia fortuna, altamente donandogli poi.
Grandissima grazia, onorabili donne, reputar mi debbo, che il nostro re me a tanta cosa, come è a raccontar della magnificenzia, m'abbia preposta, la quale, come il sole è di tutto il cielo bellezza e ornamento, è chiarezza e lume di ciascuna altra virtù.
Dironne adunque una novelletta, assai leggiadra al mio parere, la quale rammemorarsi per certo non potrà esser se non utile.
Dovete adunque sapere che, tra gli altri valorosi cavalieri che da gran tempo in qua sono stati nella nostra città, fu un di quegli e forse il più da bene, messer Ruggieri de Figiovanni; il quale essendo e ricco e di grande animo, e veggendo che, considerata la qualità del vivere e de' costumi di Toscana, egli, in quella dimorando, poco o niente potrebbe del suo valor dimostrare, prese per partito di volere un tempo essere appresso ad Anfonso re d'Ispagna, la fama del valore del quale quella di ciascun altro signor trapassava a que'tempi.
E assai onorevolmente in arme e in cavalli e in compagnia a lui se n'andò in Ispagna, e graziosamente fu dal re ricevuto.
Quivi adunque dimorando messer Ruggieri, e splendidamente vivendo, e in fatti d'arme maravigliose cose faccendo, assai tosto si fece per valoroso cognoscere.
Ed essendovi già buon tempo dimorato, e molto alle maniere del re riguardando, gli parve che esso ora ad uno e ora ad un altro donasse castella e città e baronie assai poco discretamente, sì come dandole a chi nol valea; e per ciò che a lui, che da quello che egli era si teneva, niente era donato, estimò che molto ne diminuisse la fama sua; per che di partirsi diliberò, e al re domandò commiato.
Il re gliele concedette, e donogli una delle miglior mule che mai si cavalcasse e la più bella, la quale per lo lungo cammino che a fare avea, fu cara a messer Ruggieri.
Appresso questo, commise il re ad un suo discreto famigliare che, per quella maniera che miglior gli paresse, s'ingegnasse di cavalcare la prima giornata con messer Ruggieri, in guisa che egli non paresse dal re mandato, e ogni cosa che egli dicesse di lui raccogliesse, sì che ridire gliele sapesse, e l'altra mattina appresso gli comandasse che egli indietro al re tornasse.
Il famigliare, stato attento, come messer Ruggieri uscì della terra, così assai acconciamente con lui si fu accompagnato, dandogli a vedere che egli veniva verso Italia.
Cavalcando adunque messer Ruggieri sopra la mula dal re datagli, e con costui d'una cosa e d'altra parlando, essendo vicino ad ora di terza, disse:
- Io credo che sia ben fatto che noi diamo stalla a queste bestie; - ed entrati in una stalla, tutte l'altre, fuor che la mula, stallarono.
Per che cavalcando avanti, stando sempre il famiglio attento alle parole del cavaliere, vennero ad un fiume, e quivi abbeverando le lor bestie, la mula stallò nel fiume.
Il che veggendo messer Ruggieri, disse:
- Deh! dolente ti faccia Dio, bestia, ché tu se'fatta come il signore che a me ti donò.
Il famigliare questa parola ricolse, e come che molte ne ricogliesse camminando tutto il dì seco, niun'altra, se non in somma lode del re, dirne gli udì; per che la mattina seguente, montati a cavallo e volendo cavalcare verso Toscana, il famigliare gli fece il comandamento del re, per lo quale messer Ruggieri incontanente tornò addietro.
E avendo già il re saputo quello che egli della mula aveva detto, fattolsi chiamar con lieto viso il ricevette, e domandollo perché lui alla sua mula avesse assomigliato, ovvero la mula a lui.
Messer Ruggieri con aperto viso gli disse:
- Signor mio, per ciò ve l'assomigliai, perché, come voi donate dove non si conviene, e dove si converrebbe non date, così ella dove si conveniva non stallò, e dove non si convenia sì.
Allora disse il re:
- Messer Ruggieri, il non avervi donato, come fatto ho a molti, li quali a comparazion di voi da niente sono, non è avvenuto perché io non abbia voi valorosissimo cavalier conosciuto e degno d'ogni gran dono, ma la vostra fortuna, che lasciato non m'ha, in ciò ha peccato e non io; e che io dica vero, io il vi mosterrò manifestamente.
A cui messer Ruggieri rispose:
- Signor mio, io non mi turbo di non aver dono ricevuto da voi, per ciò che io nol desiderava per esser più ricco, ma del non aver voi in alcuna cosa testimonianza renduta alla mia virtù; nondimeno io ho la vostra per buona scusa e per onesta, e son presto di veder ciò che vi piacerà, quantunque io vi creda senza testimonio.
Menollo adunque il re in una sua gran sala, dove, sì come egli davanti aveva ordinato, erano due gran forzieri serrati, e in presenzia di molti gli disse:
- Messer Ruggieri, nell'uno di questi forzieri è la mia corona, la verga reale e 'l pomo, e molte mie belle cinture, fermagli, anella e ogn'altra cara gioia che io ho; l'altro è pieno di terra: prendete adunque l'uno, e quello che preso avrete sì sia vostro, e potrete vedere chi è stato verso il vostro valore ingrato, o io o la vostra fortuna.
Messer Ruggieri, poscia che vide così piacere al re, prese l'uno, il quale il re comandò che fosse aperto, e trovossi esser quello che era pien di terra.
Laonde il re ridendo disse:
- Ben potete vedere, messer Ruggieri, che quello è vero che io vi dico della fortuna; ma certo il vostro valor merita che io m'opponga alle sue forze.
Io so che voi non avete animo di divenire spagnuolo, e per ciò non vi voglio qua donare né castel né città, ma quel forziere che la fortuna vi tolse, quello in dispetto di lei voglio che sia vostro, acciò che nelle vostre contrade nel possiate portare, e della vostra virtù con la testimonianza de' miei doni meritamente gloriar vi possiate co' vostri vicini.
Messer Ruggieri presolo, e quelle grazie rendute al re che a tanto dono si confaceano, con esso lieto se ne ritornò in Toscana.
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Novella Seconda
Ghino di Tacco piglia l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale.
Lodata era già stata da tutti la magnificenzia del re Anfonso nel fiorentin cavaliere usata, quando il re, al quale molto era piaciuta, ad Elissa impose che seguitasse, la quale prestamente incominciò.
Dilicate donne, l'essere stato un re magnifico, e l'avere la sua magnificenzia usata verso colui che servito l'avea, non si può dire che laudevole e gran cosa non sia; ma che direm noi se si racconterà un cherico aver mirabil magnificenzia usata verso persona che, se inimicato l'avesse, non ne sarebbe stato biasimato da persona? Certo non altro se non che quella del re fosse virtù, e quella del cherico miracolo, con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi troppo più che le femine sieno, e d'ogni liberalità nimici a spada tratta.
E quantunque ogn'uomo naturalmente appetisca vendetta delle ricevute offese, i cherici, come si vede, quantunque la pazienzia predichino e sommamente la remission delle offese commendino, più focosamente che gli altri uomini a quella discorrono.
La qual cosa, cioè come un cherico magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere aperto.
Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de' conti di Santa Fiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a' suoi masnadieri.
Ora, essendo Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l'abate di Clignì, il quale si crede essere un de' più ricchi prelati del mondo, e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da' medici consigliato che egli andasse a' bagni di Siena, e guerirebbe senza fallo.
Per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con grandissima pompa d'arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino.
Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti, e, senza perderne un sol ragazzetto, l'abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse.
E questo fatto, un de' suoi, il più saccente, bene accompagnato mandò allo abate; il qual da parte di lui assai amorevolmente gli disse, che gli dovesse piacere d'andare a smontare con esso Ghino al castello.
Il che l'abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sì come quegli che con Ghino niente aveva a fare; ma che egli andrebbe avanti, e vorrebbe veder chi l'andar gli vietasse.
Al quale l'ambasciadore umilmente parlando disse:
- Messere, voi siete in parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e dove le scomunicazioni e gl'interdetti sono scomunicati tutti; e per ciò piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo.
Era già, mentre queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circundato; per che l'abate, co' suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l'ambasciadore prese la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui; e smontato, come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d'un palagio assai oscura e disagiata, e ogn'altro uomo secondo la sua qualità per lo castello fu assai bene adagiato, e i cavalli e tutto l'arnese messo in salvo, senza alcuna cosa toccarne.
E questo fatto, se n'andò Ghino all'abate e dissegli:
- Messere, Ghino, di cui voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significarli dove voi andavate, e per qual cagione.
L'abate, che, come savio, aveva l'altierezza giù posta, gli significò dove andasse e perché.
Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno; e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina; e allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dello abate medesimo, e sì disse all'abate:
- Messer, quando Ghino era più giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi farà, della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento; e per ciò prendetele e confortatevi.
L'abate, che maggior fame aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, si mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e di molte domandò e molte ne consigliò, e in ispezieltà chiese di poter veder Ghino.
Ghino, udendo quelle, parte ne lasciò andar sì come vane, e ad alcuna assai cortesemente rispose, affermando che come Ghino più tosto potesse il visiterebbe; e questo detto, da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia; e così il tenne più giorni, tanto che egli s'accorse l'abate aver mangiate fave secche, le quali egli studiosamente e di nascoso portate v'aveva e lasciate.
Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l'abate rispose:
- A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle sue mani; e appresso questo, niun altro talento ho maggiore che di mangiare, sì ben m'hanno le sue medicine guerito.
Ghino adunque avendogli de' suoi arnesi medesimi e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera, e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dello abate, a lui se n'andò la mattina seguente e dissegli:
- Messere, poi che voi ben vi sentite, tempo è d'uscire d'infermeria; - e per la man presolo, nella camera apparecchiatagli nel menò, e in quella co' suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese.
L'abate co' suoi alquanto si ricreò, e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino.
Ma l'ora del mangiar venuta, l'abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all'abate conoscere.
Ma poi che l'abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti li suoi arnesi fatti venire, e in una corte, che di sotto a quella era, tutti i suoi cavalli in fino al più misero ronzino allo abate se n'andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare.
A cui l'abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino.
Menò allora Ghino l'abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse:
- Messer l'abate, voi dovete sapere che l'esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, e avere molti e possenti nimici, hanno, per potere la sua vita e la sua nobiltà difendere, e non malvagità d'animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, ad essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma.
Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito, come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse; ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete.
Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte e il tutto come vi piace prendete, a da questa ora innanzi sia e l'andare e lo stare nel piacer vostro.
Maravigliossi l'abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere, e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenzia mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo:
- Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l'amistà d'uno uomo fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m'è che tu m'abbi fatta.
Maladetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole mestier ti costrigne! E appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime e opportune prendere, e de' cavalli similmente, e l'altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò.
Aveva il papa saputa la presura dello abate e, come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser pro.
Al quale l'abate sorridendo rispose:
- Santo Padre, io trovai più vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m'ha; e contogli il modo; di che il papa rise.
Al quale l'abate, seguitando il suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia.
Il papa, credendo lui dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse.
Allora l'abate disse:
- Santo Padre, quello che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai, egli è per certo un de' più; e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo; la qual se voi con alcuna cosa dandogli, donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare.
Il papa, udendo questo, sì come colui che di grande animo fu e vago de' valenti uomini, disse di farlo volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire.
Venne adunque Ghino fidato, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del papa fu, che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere.
La quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse.
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Novella Terza
Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto, come ordinato avea, il quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene.
Simil cosa a miracolo per certo pareva a tutti avere udito, cioè che un cherico alcuna cosa magnificamente avesse operata; ma riposandosene già il ragionare delle donne, comandò il re a Filostrato che procedesse, il quale prestamente incominciò.
Nobili donne, grande fu la magnificenzia del re di Spagna, e forse cosa più non udita giammai quella dell'abate di Clignì; ma forse non meno maravigliosa cosa vi parrà l'udire che uno, per liberalità usare ad un altro che il suo sangue, anzi il suo spirito, disiderava, cautamente a dargliele si disponesse; e fatto l'avrebbe, se colui prender l'avesse voluto, sì come io in una mia novelletta intendo di dimostrarvi.
Certissima cosa è (se fede si può dare alle parole d'alcuni genovesi e d'altri uomini che in quelle contrade stati sono) che nelle parti del Cattaio fu già uno uomo di legnaggio nobile e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan; il quale, avendo un suo ricetto vicino ad una strada per la qual quasi di necessità passava ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o di Levante venire in Ponente, e avendo l'animo grande e liberale e disideroso che fosse per opera conosciuto, quivi, avendo molti maestri, fece in piccolo spazio di tempo fare un de' più belli e de' maggiori e de' più ricchi palagi che mai fosse stato veduto, e quello di tutte quelle cose che opportune erano a dovere gentili uomini ricevere e onorare, fece ottimamente fornire; e avendo grande e bella famiglia, con piacevolezza e con festa chiunque andava e veniva faceva ricevere e onorare.
E in tanto perseverò in questo laudevol costume, che già, non solamente il Levante, ma quasi tutto il Ponente per fama il conoscea.
Ed essendo egli già d'anni pieno, né però del corteseggiar divenuto stanco, avvenne che la sua fama agli orecchi pervenne d'un giovane chiamato Mitridanes, di paese non guari al suo lontano; il quale, sentendosi non meno ricco che Natan fosse, divenuto della sua fama e della sua virtù invidioso, seco propose con maggior liberalità quella o annullare o offuscare.
E fatto fare un palagio simile a quello di Natan, cominciò a fare le più smisurate cortesie che mai facesse alcuno altro, a chi andava o veniva per quindi, e senza dubbio in piccol tempo assai divenne famoso.
Ora avvenne un giorno che dimorando il giovane tutto g solo nella corte del suo palagio, una feminella, entrata dentro per una delle porti del palagio, gli domandò limosina ed ebbela; e ritornata per la seconda porta pure a lui, ancora l'ebbe, e così successivamente insino alla duodecima; e la tredecima volta tornata, disse Mitridanes:
- Buona femina, tu se'assai sollicita a questo tuo dimandare; - e nondimeno le fece limosina.
La vecchierella, udita questa parola, disse:
- O liberalità di Natan, quanto se'tu maravigliosa! ché per trentadue porti che ha il suo palagio, sì come questo, entrata, e domandatagli limosina, mai da lui, che egli mostrasse, riconosciuta non fui, e sempre l'ebbi; e qui non venuta ancora se non per tredici, e riconosciuta e proverbiata sono stata.
- E così dicendo, senza più ritornarvi si dipartì.
Mitridanes, udite le parole della vecchia, come colui che ciò che della fama di Natan udiva diminuimento della sua estimava, in rabbiosa ira acceso, cominciò a dire:
- Ahi lasso a me! Quando aggiugnerò io alla liberalità delle gran cose di Natan, non che io il trapassi, come io cerco, quando nelle piccolissime io non gli mi posso avvicinare? Veramente io mi fatico invano, se io di terra nol tolgo; la qual cosa, poscia che la vecchiezza nol porta via, convien senza alcuno indugio che io faccia con le mie mani.
E con questo impeto levatosi, senza comunicare il suo consiglio ad alcuno, con poca compagnia montato a cavallo, dopo il terzo dì dove Natan dimorava pervenne; e a' compagni imposto che sembianti facessero di non esser con lui né di conoscerlo, e che distanzia si procacciassero infino che da lui altro avessero, quivi adunque in sul fare della sera pervenuto e solo rimaso, non guari lontano al bel palagio trovò Natan tutto solo, il quale senza alcuno abito pomposo andava a suo diporto; cui egli, non conoscendolo, domandò se insegnar gli sapesse dove Natan dimorasse.
Natan lietamente rispose:
- Figliuol mio, niuno è in questa contrada che meglio di me cotesto ti sappia mostrare, e per ciò, quando ti piaccia, io vi ti menerò.
Il giovane disse che questo gli sarebbe a grado assai; ma che, dove esser potesse, egli non voleva da Natan esser veduto né conosciuto.
Al quale Natan disse:
- E cotesto ancora farò, poi che ti piace.
Ismontato adunque Mitridanes con Natan, che in piacevolissimi ragionamenti assai tosto il mise, infino al suo bel palagio n'andò.
Quivi Natan fece ad un de' suoi famigliari prendere il caval del giovane, e accostatoglisi agli orecchi gl'impose che egli prestamente con tutti quegli della casa facesse che niuno al giovane dicesse lui esser Natan; e così fu fatto.
Ma poi che nel palagio furono, mise Mitridanes in una bellissima camera dove alcuno nol vedeva, se non quegli che egli al suo servigio diputati avea, e sommamente faccendolo onorare, esso stesso gli tenea compagnia.
Col quale dimorando Mitridanes, ancora che in reverenzia come padre l'avesse, pur lo domandò chi el fosse.
Al quale Natan rispose:
- Io sono un picciol servidor di Natan, il quale dalla mia fanciullezza con lui mi sono invecchiato, né mai ad altro che tu mi vegghi mi trasse, per che, come che ogni altro uomo molto di lui si lodi, io me ne posso poco lodare io.
Queste parole porsero alcuna speranza a Mitridanes di potere con più consiglio e con più salvezza dare effetto al suo perverso intendimento.
Il qual Natan assai cortesemente domandò chi egli fosse, e qual bisogno per quindi il portasse, offerendo il suo consiglio e il suo aiuto in ciò che per lui si potesse.
Mitridanes soprastette alquanto al rispondere, e ultimamente diliberando di fidarsi di lui, con una lunga circuizion di parole la sua fede richiese, e appresso il consiglio e l'aiuto, e chi egli era e per che venuto e da che mosso, interamente gli discoperse.
Natan, udendo il ragionare e il fiero proponimento di Mitridanes, in sé tutto si cambiò, ma senza troppo stare, con forte animo e con fermo viso gli rispose:
- Mitridanes, nobile uomo fu il tuo padre, dal quale tu non vuogli degenerare, sì alta impresa avendo fatta come hai, cioè d'essere liberale a tutti, e molto la invidia che alla virtù di Natan porti commendo, per ciò che, se di così fatte fossero assai, il mondo, che è miserissimo, tosto buon diverrebbe.
Il tuo proponimento mostratomi senza dubbio sarà occulto, al quale io più tosto util consiglio che grande aiuto posso donare, il quale è questo.
Tu puoi di quinci vedere forse un mezzo miglio vicin di qui un boschetto, nel quale Natan quasi ogni mattina va tutto solo, prendendo diporto per ben lungo spazio; quivi leggier cosa ti fia il trovarlo e farne il tuo piacere.
Il quale se tu uccidi, acciò che tu possa senza impedimento a casa tua ritornare, non per quella via donde tu qui venisti, ma per quella che tu vedi a sinistra uscir fuor del bosco n'andrai, per ciò che, ancora che un poco più salvatica sia, ella è più vicina a casa tua e per te più sicura.
Mitridanes, ricevuta la informazione, e Natan da lui essendo partito, cautamente a' suoi compagni, che similmente là entro erano, fece sentire dove aspettare il dovessero il dì seguente.
Ma, poi che il nuovo dì fu venuto, Natan, non avendo animo vario al consiglio dato a Mitridanes, né quello in parte alcuna mutato, solo se n'andò al boschetto a dover morire.
Mitridanes, levatosi e preso il suo arco e la sua spada, ché altra arme non avea, e montato a cavallo, n'andò al boschetto, e di lontano vide Natan tutto soletto andar passeggiando per quello, e diliberato, avanti che l'assalisse, di volerlo vedere e d'udirlo parlare, corse verso lui, e presolo per la benda la quale in capo avea, disse:
- Vegliardo, tu se'morto.
Al quale niuna altra cosa rispose Natan, se non:
- Dunque, l'ho io meritato.
Mitridanes, udita la voce e nel viso guardatolo, subitamente riconobbe lui esser colui che benignamente l'avea ricevuto e familiarmente accompagnato e fedelmente consigliato; per che di presente gli cadde il furore e la sua ira si convertì in vergogna.
Laonde egli, gittata via la spada, la qual già per ferirlo aveva tirata fuori, da caval dismontato, piagnendo corse a' piè di Natan e disse:
- Manifestamente conosco, carissimo padre, la vostra liberalità, riguardando con quanta cautela venuto siate per darmi il vostro spirito, del quale io, niuna ragione avendo, a voi medesimo disideroso mostra'mi; ma Iddio, più al mio dover sollicito che io stesso, a quel punto che maggior bisogno è stato gli occhi m'ha aperto dello 'ntelletto, li quali misera invidia m'avea serrati.
E per ciò quanto voi più pronto stato siete a compiacermi, tanto più mi cognosco debito alla penitenzia del mio errore; prendete adunque di me quella vendetta che convenevole estimate al mio peccato.
Natan fece levar Mitridanes in piede, e teneramente l'abbracciò e baciò, e gli disse:
- Figliuol mio, alla tua impresa, chente che tu la vogli chiamare o malvagia o altrimenti, non bisogna di domandar né di dar perdono, per ciò che non per odio la seguivi, ma per potere essere tenuto migliore.
Vivi adunque di me sicuro, e abbi di certo che niuno altro uom vive, il quale te quant'io ami, avendo riguardo all'altezza dello animo tuo, il quale non ad ammassar denari, come i miseri fanno, ma ad ispender gli ammassati se'dato.
Né ti vergognare d'avermi voluto uccidere per divenir famoso, né credere che io me ne maravigli.
I sommi imperadori e i grandissimi re non hanno quasi con altra arte che d'uccidere, non uno uomo come tu volevi fare, ma infiniti, e ardere paesi e abbattere le città, li loro regni ampliati, e per conseguente la fama loro; per che, se tu per più farti famoso me solo uccider volevi, non maravigliosa cosa né nuova facevi, ma molto usata.
Mitridanes, non iscusando il suo disidero perverso, ma commendando l'onesta scusa da Natan trovata ad esso, ragionando pervenne a dire sé oltre modo maravigliarsi come a ciò si fosse Natan potuto disporre e a ciò dargli modo e consiglio.
Al quale Natan disse:
- Mitridanes, io non voglio che tu del mio consiglio e della mia disposizione ti maravigli, per ciò che, poi che io nel mio albitrio fui, e disposto a fare quello medesimo che tu hai a fare impreso, niun fu che mai a casa mia capitasse, che io nol contentasse a mio potere di ciò che da lui mi fu domandato.
Venistivi tu vago della mia vita, per che, sentendolati domandare, acciò che tu non fossi solo colui che senza la sua dimanda di qui si partisse, prestamente diliberai di donarlati, e acciò che tu l'avessi, quel consiglio ti diedi che io credetti che buon ti fosse ad aver la mia e non perder la tua; e per ciò ancora ti dico e priego che, s'ella ti piace, che tu la prenda e te medesimo ne sodisfaccia: io non so come io la mi possa meglio spendere.
Io l'ho adoperata già ottanta anni, e ne'miei diletti e nelle mie consolazioni usata; e so che, seguendo il corso della natura, come gli altri uomini fanno e generalmente tutte le cose, ella mi può omai piccol tempo esser lasciata; per che io giudico molto meglio esser quella donare, come io ho sempre i miei tesori donati e spesi, che tanto volerla guardare, che ella mi sia contro a mia voglia tolta dalla natura.
Piccol dono è donare cento anni; quanto adunque è minor donarne sei o otto che io a star ci abbia? Prendila adunque, se ella t'aggrada, io te ne priego; per ciò che, mentre vivuto ci sono, niuno ho ancor trovato che disiderata l'abbia, né so quando trovar me ne possa veruno, se tu non la prendi che la dimandi.
E se pure avvenisse che io ne dovessi alcun trovare, conosco che, quanto più la guarderò, di minor pregio sarà; e però, anzi che ella divenga più vile, prendila, io te ne priego.
Mitridanes, vergognandosi forte, disse:
- Tolga Iddio che così cara cosa come la vostra vita è, non che io, da voi dividendola, la prenda, ma pur la disideri, come poco avanti faceva; alla quale non che io diminuissi gli anni suoi, ma io l'aggiugnerei volentier de' miei, se io potessi.
A cui prestamente Natan disse:
- E, se tu puoi, vuo'nele tu aggiugnere, e farai a me fare verso di te quello che mai verso alcuno altro non feci, cioè delle tue cose pigliare, che mai dell'altrui non pigliai?
- Sì, - disse subitamente Mitridanes.
- Adunque, - disse Natan - farai tu come io ti dirò.
Tu ti rimarrai, giovane come tu se', qui nella mia casa, e avrai nome Natan, e io me n'andrò nella tua e farommi sempre chiamar Mitridanes.
Allora Mitridanes rispose:
- Se io sapessi così bene operare come voi sapete e avete saputo, io prenderei senza troppa diliberazione quello che m'offerete; ma per ciò che egli mi pare esser molto certo che le mie opere sarebbon diminuimento della fama di Natan, e io non intendo di guastare in altrui quello che in me io non acconciare nol prenderò.
Questi e molti altri piacevoli ragionamenti stati tra Natan e Mitridanes, come a Natan piacque, insieme verso il palagio se ne tornarono, dove Natan più giorni sommamente onorò Mitridanes, e lui con ogni ingegno e saper confortò nel suo alto e grande proponimento.
E volendosi Mitridanes con la sua compagnia ritornare a casa, avendogli Natan assai ben fatto conoscere che mai di liberalità nol potrebbe avanzare, il licenziò.
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Novella Quarta
Messer Gentil de' Carisendi, venuto da Modona, trae della sepoltura una donna amata da lui, sepellita per morta, la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio, e Messer Gentile lei e 'l figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianimico, marito di lei.
Maravigliosa cosa parve a tutti che alcuno del propio sangue fosse liberale; e veramente affermaron Natan aver quella del re di Spagna e dello abate di Clignì trapassata.
Ma poi che assai e una cosa e altra detta ne fu, il re, verso Lauretta riguardando, le dimostrò che egli desiderava che ella dicesse; per la qual cosa Lauretta prestamente incominciò.
Giovani donne, magnifiche cose e belle sono state le raccontate, né mi pare che alcuna parte restata sia a noi che abbiamo a dire, per la qual novellando vagar possiamo, sì son tutte dall'altezza delle magnificenzie raccontate occupate, se noi ne'fatti d'amore già non mettessimo mano, li quali ad ogni materia prestano abbondantissima copia di ragionare; e per ciò, sì per questo e sì per quello a che la nostra età principalmente ci dee inducere, una magnificenzia da uno innamorato fatta mi piace di raccontarvi, la quale, ogni cosa considerata, non vi parrà per avventura minore che alcune delle mostrate, se quello è vero che i tesori si donino, le inimicizie si dimentichino, e pongasi la propia vita, l'onore e la fama, ch'è molto più, in mille pericoli, per potere la cosa amata possedere.
Fu adunque in Bologna, nobilissima città di Lombardia, un cavaliere per virtù e per nobiltà di sangue ragguardevole assai, il qual fu chiamato messer Gentil Carisendi, il qual giovane d'una gentil donna chiamata madonna Catalina, moglie d'un Niccoluccio Caccianimico, s'innamorò; e perché male dello amor della donna era, quasi disperatosene, podestà chiamato di Modona, v'andò.
In questo tempo, non essendo Niccoluccio a Bologna, e la donna ad una sua possessione, forse tre miglia alla terra vicina, essendosi, per ciò che gravida era, andata a stare, avvenne che subitamente un fiero accidente la soprapprese, il quale fu tale e di tanta forza, che in lei spense ogni segno di vita, e per ciò eziandio da alcun medico morta giudicata fu; e per ciò che le sue più congiunte parenti dicevan sé avere avuto da lei non essere ancora di tanto tempo gravida, che perfetta potesse essere la creatura, senza altro impaccio darsi, quale ella era, in uno avello d'una chiesa ivi vicina dopo molto pianto la sepellirono.
La qual cosa subitamente da un suo amico fu significata a messer Gentile, il qual di ciò, ancora che della sua grazia fosse poverissimo, si dolfe molto, ultimamente seco dicendo:
- Ecco, madonna Catalina, tu se'morta; io, mentre che vivesti, mai un solo sguardo da te aver non potei; per che, ora che difender non ti potrai, convien per certo che, così morta come tu se'io alcun bacio li tolga.
E questo detto, essendo già notte, dato ordine come la sua andata occulta fosse, con un suo famigliare montato a cavallo, senza ristare colà pervenne dove sepellita era la donna, e aperta la sepoltura, in quella diligentemente entrò, e postolesi a giacere allato, il suo viso a quello della donna accostò, e più volte con molte lagrime piagnendo il baciò.
Ma, sì come noi veggiamo l'appetito degli uomini a niun termine star contento, ma sempre più avanti desiderare, e spezialmente quello degli amanti, avendo costui seco diliberato di più non starvi, disse: - Deh! perché non le tocco io, poi che io son qui, un poco il petto? Io non la debbo mai più toccare, né mai più la toccai.
Vinto adunque da questo appetito, le mise la mano in seno, e per alquanto spazio tenutalavi, gli parve sentire alcuna cosa battere il cuore a costei.
Il quale, poi che ogni paura ebbe cacciata da sé, con più sentimento cercando, trovò costei per certo non esser morta, quantunque poca e debole estimasse la vita; per che soavemente quanto più potè, dal suo famigliare aiutato, del monimento la trasse, e davanti al caval messalasi, segretamente in casa sua la condusse in Bologna.
Era quivi la madre di lui, valorosa e savia donna, la qual, poscia che dal figliuolo ebbe distesamente ogni cosa udita, da pietà mossa, chetamente con grandissimi fuochi e con alcun bagno in costei rivocò la smarrita vita.
La quale come rivenne, così la donna gittò un gran sospiro e disse:
- Ohimè! ora ove sono io?
A cui la valente donna rispose:
- Confortati, tu se'in buon luogo.
Costei, in sé tornata e dintorno guardandosi, non bene conoscendo dove ella fosse e veggendosi davanti messer Gentile, piena di maraviglia la madre di lui pregò che le dicesse in che guisa ella quivi venuta fosse; alla quale messer Gentile ordinatamente contò ogni cosa.
Di che ella, dolendosi, dopo alquanto quelle grazie gli rendè che ella potè e appresso il pregò per quello amore il quale egli l'aveva già portato, e per cortesia di lui, che in casa sua ella da lui non ricevesse cosa che fosse meno che onor di lei e del suo marito, e come il dì venuto fosse, alla sua propria casa la lasciasse tornare.
Alla quale messer Gentile rispose:
- Madonna, chente che il mio disiderio si sia stato ne'tempi passati, io non intendo al presente né mai per innanzi (poi che Iddio m'ha questa grazia conceduta che da morte a vita mi v'ha renduta, essendone cagione l'amore che io v'ho per addietro portato) di trattarvi né qui né altrove, se non come cara sorella; ma questo mio beneficio, operato in voi questa notte, merita alcun guiderdone; e per ciò io voglio che voi non mi neghiate una grazia la quale io vi domanderò.
Al quale la donna benignamente rispose sé essere apparecchiata, solo che ella potesse, e onesta fosse.
Messer Gentile allora disse:
- Madonna, ciascun vostro parente e ogni bolognese credono e hanno per certo voi esser morta, per che niuna persona è la quale più a casa v'aspetti; e per ciò io voglio di grazia da voi, che vi debbia piacere di dimorarvi tacitamente qui con mia madre infino a tanto che io da Modona torni, che sarà tosto.
E la cagione per che io questo vi cheggio è per ciò che io intendo di voi, in presenzia de' migliori cittadini di questa terra, fare un caro e uno solenne dono al vostro marito.
La donna, conoscendosi al cavaliere obbligata, e che la domanda era onesta, quantunque molto disiderasse di rallegrare della sua vita i suoi parenti, si dispose a far quello che messer Gentile domandava; e così sopra la sua fede gli promise.
E appena erano le parole della sua risposta finite, che ella sentì il tempo del partorire esser venuto; per che, teneramente dalla madre di messer Gentile aiutata, non molto stante partorì un bel figliuol maschio; la qual cosa in molti doppi moltiplicò la letizia di messer Gentile e di lei.
Messer Gentile ordinò che le cose opportune tutte vi fossero, e che così fosse servita costei come se sua propia moglie fosse, e a Modona segretamente se ne tornò.
Quivi fornito il tempo del suo uficio e a Bologna dovendosene tornare, ordinò, quella mattina che in Bologna entrar doveva, di molti e gentili uomini di Bologna, tra'quali fu Niccoluccio Caccianimico, un grande e bel convito in casa sua; e tornato e ismontato e con lor trovatosi, avendo similmente la donna ritrovata più bella e più sana che mai, e il suo figlioletto star bene, con allegrezza incomparabile i suoi forestieri mise a tavola, e quegli fece di più vivande magnificamente servire.
Ed essendo già vicino alla sua fine il mangiare, avendo egli prima alla donna detto quello che di fare intendeva e con lei ordinato il modo che dovesse tenere, così cominciò a parlare:
- Signori, io mi ricordo avere alcuna volta inteso in Persia essere, secondo il mio giudicio, una piacevole usanza, la quale è che, quando alcuno vuole sommamente onorare il suo amico, egli lo 'nvita a casa sua e quivi gli mostra quella cosa, o moglie o amica o figliuola o che che si sia, la quale egli ha più cara, affermando che, se egli potesse, così come questo gli mostra, molto più volentieri gli mosterria il cuor suo; la quale io intendo di volere osservare in Bologna.
Voi, la vostra mercé, avete onorato il mio convito, e io intendo onorar voi alla persesca, mostrandovi la più cara cosa che io abbia nel mondo o che io debbia aver mai.
Ma prima che io faccia questo, vi priego mi diciate quello che sentite d'un dubbio il quale io vi moverò.
Egli è alcuna persona la quale ha in casa un suo buono e fedelissimo servidore, il quale inferma gravemente; questo cotale, senza attendere il fine del servo infermo, il fa portare nel mezzo della strada, né più ha cura di lui; viene uno strano, è mosso a compassione dello 'nfermo, e sel reca a casa, e con gran sollicitudine e con ispesa il torna nella prima sanità.
Vorrei io ora sapere se, tenendolsi e usando i suoi servigi, il primo signore si può a buona equità dolere o ramaricare del secondo, se egli, raddomandandolo, rendere nol volesse.
I gentili uomini, fra sé avuti vari ragionamenti, e tutti in una sentenzia concorrendo, a Niccoluccio Caccianimico, per ciò che bello e ornato favellatore era, commisero la risposta.
Costui, commendata primieramente l'usanza di Persia, disse sé con gli altri insieme essere in questa oppinione, che il primo signore niuna ragione avesse più nel suo servidore, poi che in sì fatto caso non solamente abbandonato, ma gittato l'avea; e che, per li benefici del secondo usati, giustamente parea di lui il servidore divenuto, per che, tenendolo, niuna noia, niuna forza, niuna ingiuria faceva al primiero.
Gli altri tutti che alle tavole erano, ché v'avea di valenti uomini, tutti insieme dissono sé tener quello che da Niccoluccio era stato risposto.
Il cavaliere, contento di tal risposta e che Niccoluccio l'avesse fatta, affermò sé essere in quella oppinione altressì, e appresso disse:
- Tempo è omai che io secondo la promessa v'onori.
- E chiamati due de' suoi famigliari, gli mandò alla donna, la quale egli egregiamente avea fatta vestire e ornare, e mandolla pregando che le dovesse piacere di venire a far lieti i gentili uomini della sua presenzia.
La qual, preso in braccio il figliolin suo bellissimo, da' due famigliari accompagnata, nella sala venne, e come al cavalier piacque, appresso ad un valente uomo si pose a sedere; ed egli disse:
- Signori, questa è quella cosa che io ho più cara e intendo d'avere, che alcun'altra; guardate se egli vi pare che io abbia ragione.
I gentili uomini, onoratola e commendatola molto, e al cavaliere affermato che cara la doveva avere, la cominciarono a riguardare; e assai ve n'eran che lei avrebbon detto colei chi ella era, se lei per morta non avessero avuta.
Ma sopra tutti la riguardava Niccoluccio, il quale, essendosi alquanto partito il cavaliere, sì come colui che ardeva di sapere chi ella fosse, non potendosene tenere, la domandò se bolognese fosse o forestiera.
La donna, sentendosi al suo marito domandare, con fatica di risponder si tenne; ma pur, per servare l'ordine postole, tacque.
Alcun altro la domandò se suo era quel figlioletto, e alcuno se moglie fosse di messer Gentile, o in altra maniera sua parente; a' quali niuna risposta fece.
Ma, sopravvegnendo messer Gentile, disse alcun de' suoi forestieri:
- Messere, bella cosa è questa vostra, ma ella ne par mutola; è ella così?
- Signori, - disse messer Gentile - il non avere ella al presente parlato è non piccolo argomento della sua virtù.
- Diteci adunque voi, - seguitò colui - chi ella è.
Disse il cavaliere:
- Questo farò io volentieri, sol che voi mi promettiate, per cosa che io dica, niuno doversi muovere del luogo suo fino a tanto che io non ho la mia novella finita.
Al quale avendol promesso ciascuno, ed essendo già levate le tavole, messer Gentile allato alla donna sedendo, disse:
- Signori, questa donna è quel leale e fedel servo, del quale io poco avanti vi fe' la dimanda; la quale da' suoi poco avuta cara, e così come vile e più non utile nel mezzo della strada gittata, da me fu ricolta, e con la mia sollicitudine e opera delle mani la trassi alla morte, e Iddio, alla mia buona affezion riguardando, di corpo spaventevole così bella divenir me l'ha fatta.
Ma acciò che voi più apertamente intendiate come questo avvenuto mi sia, brievemente vel farò chiaro.
E cominciatosi dal suo innamorarsi di lei, ciò che avvenuto era infino allora distintamente narrò con gran maraviglia degli ascoltanti, e poi soggiunse:
- Per le quali cose, se mutata non avete sentenzia da poco in qua, e Niccoluccio spezialmente, questa donna meritamente è mia, né alcuno con giusto titolo me la può raddomandare.
A questo niun rispose, anzi tutti attendevan quello che egli più avanti dovesse dire.
Niccoluccio e degli altri che v'erano e la donna, di compassion lagrimavano; ma messer Gentile, levatosi in piè e preso nelle sue braccia il picciol fanciullino e la donna per la mano, e andato verso Niccoluccio, disse:
- Leva su, compare, io non ti rendo tua mogliere, la quale i tuoi parenti e suoi gittarono via; ma io ti voglio donare questa donna mia comare con questo suo figlioletto, il quale io son certo che fu da te generato, e il quale io a battesimo tenni e nomina'lo Gentile; e priegoti che, perch'ella sia nella mia casa vicin di tre mesi stata, che ella non ti sia men cara; ché io ti giuro per quello Iddio, che forse già di lei innamorar mi fece acciò che il mio amore fosse, sì come stato è, cagion della sua salute, che ella mai o col padre o con la madre o con teco più onestamente non visse, che ella appresso di mia madre ha fatto nella mia casa.
E questo detto, si rivolse alla donna e disse:
- Madonna, omai da ogni promessa fatami io v'assolvo, e libera vi lascio di Niccoluccio; - e rimessa la donna e 'l fanciul nelle braccia di Niccoluccio, si tornò a sedere.
Niccoluccio disiderosamente ricevette la sua donna e 'l figliuolo, tanto più lieto quanto più n'era di speranza lontano, e, come meglio potè e seppe, ringraziò il cavaliere; e gli altri che tutti di compassion lagrimavano, di questo il commendaron molto, e commendato fu da chiunque l'udì.
La donna con maravigliosa festa fu in casa sua ricevuta, e quasi risuscitata con ammirazione fu più tempo guatata da' bolognesi; e messer Gentile sempre amico visse di Niccoluccio e de' suoi parenti e di quei della donna.
Che adunque qui, benigne donne, direte? Estimerete l'aver donato un re lo scettro e la corona, e uno abate senza suo costo aver riconciliato un malfattore al papa, o un vecchio porgere la sua gola al coltello del nimico, essere stato da agguagliare al fatto di messer Gentile? Il quale giovane e ardente, e giusto titolo parendogli avere in ciò che la traccutaggine altrui aveva gittato via ed egli per la sua buona fortuna aveva ricolto, non solo temperò onestamente il suo fuoco, ma liberalmente quello che egli soleva con tutto il pensier disiderare e cercar di rubare, avendolo, restituì.
Per certo niuna delle già dette a questa mi par simigliante.
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Novella Quinta
Madonna Dianora domanda a messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio.
Messer Ansaldo con l'obligarsi ad uno nigromante gliele dà.
Il marito le concede che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito, l'assolve della promessa, e il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo, assolve messer Ansaldo.
Per ciascuno della lieta brigata era già stato messer Gentile con somme lode tolto infino al cielo, quando il re impose ad Emilia che seguisse, la qual baldanzosamente, quasi di dire disiderosa, così cominciò.
Morbide donne, niun con ragione dirà messer Gentile non aver magnificamente operato, ma il voler dire che più non si possa, il più potersi non fia forse malagevole a mostrarsi; il che io avviso in una mia novelletta di raccontarvi.
In Frioli, paese, quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora, e moglie d'un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria.
E meritò questa donna per lo suo valore d'essere amata sommamente da un nobile e gran barone, il quale aveva nome messer Ansaldo Gradense, uomo d'alto affare, e per arme e per cortesia conosciuto per tutto.
Il quale, ferventemente amandola e ogni cosa faccendo che per lui si poteva per essere amato da lei, e a ciò spesso per sue ambasciate sollicitandola, invano si faticava.
Ed essendo alla donna gravi le sollicitazioni del cavaliere, e veggendo che, per negare ella ogni cosa da lui domandatole, esso per ciò d'amarla né di sollicitarla si rimaneva, con una nuova e al suo giudicio impossibil domanda si pensò di volerlosi torre da dosso.
E ad una femina che a lei da parte di lui spesse volte veniva, disse un dì così:
- Buona femina, tu m'hai molte volte affermato che messer Ansaldo sopra tutte le cose m'ama e maravigliosi doni m'hai da sua parte proferti, li quali voglio che si rimangano a lui, per ciò che per quegli mai ad amar lui né a compiacergli mi recherei; e se io potessi esser certa che egli cotanto m'amasse quanto tu di', senza fallo io mi recherei ad amar lui e a far quello che egli volesse; e per ciò, dove di ciò mi volesse far fede con quello che io domanderò, io sarei a' suoi comandamenti presta.
Disse la buona femina:
- Che è quello, madonna, che voi disiderate che el faccia?
Rispose la donna:
- Quello che io disidero è questo.
Io voglio del mese di gennaio che viene, appresso di questa terra un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti albori, non altrimenti fatto che se di maggio fosse; il quale dove egli non faccia, né te né altri mi mandi mai più; per ciò che, se più mi stimolasse, come io infino a qui del tutto al mio marito e a' miei parenti tenuto ho nascoso, così dolendomene loro, di levarlomi da dosso m'ingegnerei.
Il cavaliere, udita la domanda e la proferta della sua donna, quantunque grave cosa e quasi impossibile a dover fare gli paresse e conoscesse per niun'altra cosa ciò essere dalla donna addomandato, se non per torlo dalla sua speranza, pur seco propose di voler tentare quantunque fare se ne potesse; e in più parti per lo mondo mandò cercando se in ciò alcun si trovasse che aiuto o consiglio gli desse; e vennegli uno alle mani il quale, dove ben salariato fosse, per arte nigromantica profereva di farlo.
Col quale messer Ansaldo per grandissima quantità di moneta convenutosi, lieto aspettò il tempo postogli.
Il qual venuto, essendo i freddi grandissimi e ogni cosa piena di neve e di ghiaccio, il valente uomo in un bellissimo prato vicino alla città con sue arti fece sì, la notte alla quale il calendi gennaio seguitava, che la mattina apparve, secondo che color che 'l vedevan testimoniavano, un de' più be'giardini che mai per alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d'ogni maniera.
Il quale come messere Ansaldo lietissimo ebbe veduto, fatto cogliere de' più be'frutti e de più be'fior che v'erano, quegli occultamente fe'presentare alla sua donna, e lei invitare a vedere il giardino da lei addomandato, acciò che per quel potesse lui amarla conoscere, e ricordarsi della promission fattagli e con saramento fermata, e come leal donna poi procurar d'attenergliele.
La donna, veduti i fiori e'frutti, e già da molti del maraviglioso giardino avendo udito dire, s'incominciò a pentere della sua promessa.
Ma, con tutto il pentimento, sì come vaga di veder cose nuove, con molte altre donne della città andò il giardino a vedere, e non senza maraviglia commendatolo assai, più che altra femina dolente a casa se ne tornò, a quel pensando a che per quello era obbligata.
E fu il dolore tale, che non potendol ben dentro nascondere, convenne che, di fuori apparendo, il marito di lei se n'accorgesse, e volle del tutto da lei di quello saper la cagione.
La donna per vergogna il tacque molto; ultimamente, costretta, ordinatamente gli aperse ogni cosa.
Gilberto primieramente, ciò udendo, si turbò forte; poi, considerata la pura ìntenzion della donna, con miglior consiglio, cacciata via l'ira.
disse:
- Dianora, egli non è atto di savia né d'onesta donna d'ascoltare alcuna ambasciata delle così fatte né di pattovire sotto alcuna condizione con alcuno la sua castità.
Le parole per gli orecchi dal cuore ricevute hanno maggior forza che molti non stimano, e quasi ogni cosa diviene agli amanti possibile.
Male adunque facesti prima ad ascoltare e poscia a pattovire; ma per ciò che io conosco la purità dello animo tuo, per solverti dal legame della promessa, quello ti concederò che forse alcuno altro non farebbe; inducendomi ancora la paura del nigromante, al qual forse messer Ansaldo, se tu il beffassi, far ci farebbe dolenti.
Voglio io che tu a lui vada, e, se per modo alcun puoi, t'ingegni di far che, servata la tua onestà, tu sii da questa promessa disciolta; dove altramenti non si potesse, per questa volta il corpo, ma non l'animo, gli concedi.
La donna, udendo il marito, piagneva e negava sé cotal grazia voler da lui.
A Gilberto, quantunque la donna il negasse molto, piacque che così fosse.
Per che, venuta la seguente mattina, in su l'aurora, senza troppo ornarsi, con due suoi famigliari innanzi e con una cameriera appresso, n'andò la donna a casa messere Ansaldo.
Il quale, udendo la sua donna a lui esser venuta, si maravigliò forte, e levatosi e fatto il nigromante chiamare, gli disse:
- Io voglio che tu vegghi quanto di bene la tua arte m'ha fatto acquistare.
- E incontro andatile, senza alcun disordinato appetito seguire, con reverenza onestamente la ricevette, e in una bella camera ad un gran fuoco se n'entrar tutti; e fatto lei porre a seder, disse:
- Madonna, io vi priego, se il lungo amore il quale io v'ho portato merita alcun guiderdone, che non vi sia noia d'aprirmi la vera cagione che qui a così fatta ora v'ha fatta venire e con cotal compagnia.
La donna, vergognosa e quasi con le lagrime sopra gli occhi, rispose:
- Messere, né amor che io vi porti né promessa fede mi menan qui, ma il comandamento del mio marito; il quale, avuto più rispetto alle fatiche del vostro disordinato amore che al suo e mio onore, mi ci ha fatta venire; e per comandamento di lui disposta sono per questa volta ad ogni vostro piacere.
Messer Ansaldo, se prima si maravigliava, udendo la donna molto più s'incominciò a maravigliare; e dalla liberalità di Gilberto commosso, il suo fervore in compassione cominciò a cambiare, e disse:
- Madonna, unque a Dio non piaccia, poscia che così è come voi dite, che io sia guastatore dello onore di chi ha compassione al mio amore; e per ciò l'esser qui sarà, quanto vi piacerà, non altramenti che se mia sorella foste, e, quando a grado vi sarà, liberamente vi potrete partire, sì veramente che voi al vostro marito di tanta cortesia, quanta la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servidore.
La donna, queste parole udendo, più lieta che mai, disse:
- Niuna cosa mi potè mai far credere, avendo riguardo a' vostri costumi, che altro mi dovesse seguir della mia venuta che quello che io veggio che voi ne fate, di che io vi sarò sempre obbligata; - e preso commiato, onorevolmente accompagnata si tornò a Gilberto e raccontogli ciò che avvenuto era; di che strettissima e leale amistà lui e messer Ansaldo congiunse.
Il nigromante, al quale messer Ansaldo di dare il promesso premio s'apparecchiava, veduta la liberalità di Gilberto verso messer Ansaldo e quella di messer Ansaldo verso la donna, disse:
- Già Dio non voglia, poi che io ho veduto Gilberto liberale del suo onore e voi del vostro amore, che io similmente non sia liberale del mio guiderdone; e per ciò, conoscendo quello a voi star bene, intendo che vostro sia.
Il cavaliere si vergognò e ingegnossi a suo potere di fargli o tutto o parte prendere; ma poi che in vano si faticava, avendo il nigromante dopo il terzo dì tolto via il suo giardino, e piacendogli di partirsi, il comandò a Dio; e spento del cuore il concupiscibile amore verso la donna, acceso d'onesta carità si rimase.
Che direm qui, amorevoli donne? Preporremo la quasi morta donna e il già rattiepidito amore per la spossata speranza, a questa liberalità di messer Ansaldo, più ferventemente che mai amando ancora e quasi da più speranza acceso e nelle sue mani tenente la preda tanto seguita? Sciocca cosa mi parrebbe a dover creder che quella liberalità a questa comparar si potesse.
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Novella Sesta
Il re Carlo vecchio, vittorioso, d'una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente marita.
Chi potrebbe pienamente raccontare i vari ragionamenti tra le donne stati, qual maggior liberalità usasse o Gilberto o messer Ansaldo o il nigromante, intorno a' fatti di madonna Dianora? troppo sarebbe lungo.
Ma poi che il re alquanto disputare ebbe conceduto, alla Fiammetta guardando, comandò che novellando traesse lor di quistione; la quale, niuno indugio preso, incominciò.
Splendide donne, io fui sempre in oppinione che nelle brigate, come la nostra è, si dovesse sì largamente ragionare che la troppa strettezza della intenzion delle cose dette non fosse altrui materia di disputare.
Il che molto più si conviene nelle scuole tra gli studianti che tra noi, le quali appena alla rocca e al fuso bastiamo.
E per ciò io, che in animo alcuna cosa dubbiosa forse avea, veggendovi per le già dette alla mischia, quella lascerò stare, e una ne dirò, non mica d'uomo di poco affare, ma d'un valoroso re, quello che egli cavallerescamente operasse, in nulla mancando il suo onore.
Ciascuna di voi molte volte può avere udito ricordare il re Carlo vecchio, ovver primo, per la cui magnifica impresa e poi per la gloriosa vittoria avuta del re Manfredi furon di Firenze i ghibellin cacciati e ritornaronvi i guelfi.
Per la qual cosa un cavalier, chiamato messer Neri degli Uberti, con tutta la sua famiglia e con molti denari uscendone, non si volle altrove che sotto le braccia del re Carlo riducere; e per essere in solitario luogo e quivi finire in riposo la vita sua, a Castello a mare di Stabia se n'andò; e ivi forse una balestrata rimosso dall'altre abitazioni della terra, tra ulivi e nocciuoli e castagni, de' quali la contrada è abondevole, comperò una possessione, sopra la quale un bel casamento e agiato fece, e allato a quello un dilettevole giardino, nel mezzo del quale, a nostro modo, avendo d'acqua viva copia, fece un bel vivaio e chiaro, e quello di molto pesce riempiè leggiermente.
E a niun'altra cosa attendendo che a fare ogni dì più bello il suo giardino, avvenne che il re Carlo, nel tempo caldo, per riposarsi alquanto, a Castello a mar se n'andò; dove udita la bellezza del giardino di messer Neri, disiderò di vederlo.
E avendo udito di cui era, pensò che, per ciò che di parte avversa alla sua era il cavaliere, più familiarmente con lui si volesse fare, e mandogli a dire che con quattro compagni chetamente la seguente sera con lui voleva cenare nel suo giardino.
Il che a messer Neri fu molto caro, e magnificamente avendo apparecchiato e con la sua famiglia avendo ordinato ciò che far si dovesse, come più lietamente potè e seppe, il re nel suo bel giardino ricevette.
Il qual, poi che il giardin tutto e la casa di messer Neri ebbe veduta e commendata, essendo le tavole messe allato al vivaio, ad una di quelle, lavato, si mise a sedere, e al conte Guido di Monforte, che l'un de' compagni era, comandò che dall'un de' lati di lui sedesse, e messer Neri dall'altro, e ad altri tre, che con lui eran venuti, comandò che servissero secondo l'ordine posto da messer Neri.
Le vivande vi vennero dilicate, e i vini vi furono ottimi e preziosi, e l'ordine bello e laudevole molto senza alcun sentore e senza noia; il che il re commendò molto.
E mangiando egli lietamente, e del luogo solitario giovandogli, e nel giardino entrarono due giovinette d'età forse di quattordici anni l'una, bionde come fila d'oro, e co' capelli tutti inanellati e sopr'essi sciolti una leggiera ghirlandetta di provinca, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli; ed eran vestite d'un vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla cintura in su era strettissimo e da indi giù largo a guisa d'un padiglione e lungo infino a' piedi.
E quella che dinanzi veniva recava in su le spalle un paio di vangaiole, le quali con la sinistra man tenea, e nella destra aveva un baston lungo.
L'altra che veniva appresso aveva sopra la spalla sinistra una padella, e sotto quel braccio medesimo un fascetto di legne, e nella mano un treppiede, e nell'altra mano uno utel d'olio e una facellina accesa.
Le quali il re vedendo si maravigliò, e sospeso attese quello che questo volesse dire.
Le giovinette, venute innanzi onestamente e vergognose, fecero la reverenzia al re; e appresso là andatesene onde nel vivaio s'entrava, quella che la padella aveva, postala giù e l'altre cose appresso, prese il baston che l'altra portava e amendune nel vivaio, l'acqua del quale loro infino al petto aggiugnea, se n'entrarono.
Uno de' famigliari di messer Neri prestamente quivi accese il fuoco, e posta la padella sopra il treppiè e dell'olio messovi, cominciò ad aspettare che le giovani gli gittasser del pesce.
Delle quali, l'una frugando in quelle parti dove sapeva che i pesci si nascondevano e l'altra le vangaiole parando, con grandissimo piacere del re, che ciò attentamente guardava, in piccolo spazio di tempo presero pesce assai; e al famigliar gittatine che quasi vivi nella padella gli metteva, sì come ammaestrate erano state, cominciarono a prendere de' più belli e a gittare su per la tavola davanti al re e al conte Guido e al padre.
Questi pesci su per la mensa guizzavano, di che il re aveva maraviglioso piacere, e similmente egli prendendo di questi, alle giovani cortesemente gli gittava indietro; e così per alquanto spazio cianciarono, tanto che il famigliare quello ebbe cotto che dato gli era stato, il qual più per uno intramettere, che per molto cara o dilettevol vivanda, avendol messer Neri ordinato, fu messo davanti al re.
Le fanciulle, veggendo il pesce cotto e avendo assai pescato, essendosi tutto il bianco vestimento e sottile loro appiccato alle carni, né quasi cosa alcuna del dilicato lor corpo celando, usciron del vivaio, e ciascuna le cose recate avendo riprese, davanti al re vergognosamente passando, in casa se ne tornarono.
Il re e 'l conte e gli altri che servivano, avevano molto queste giovinette considerate, e molto in sé medesimo l'avea lodate ciascuno per belle e per ben fatte, e oltre a ciò per piacevoli e per costumate, ma sopra ad ogn'altro erano al re piaciute.
Il quale sì attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata, uscendo esse dell'acqua, che chi allora l'avesse punto non si sarebbe sentito.
E più a loro ripensando, senza sapere chi si fossero né come, si sentì nel cuor destare un ferventissimo disidero di piacer loro, per lo quale assai ben conobbe sé divenire innamorato, se guardia non se ne prendesse, né sapeva egli stesso qual di lor due si fosse quella che più gli piacesse, sì era di tutte cose l'una simiglievole all'altra.
Ma, poi che alquanto fu sopra questo pensier dimorato, rivolto a messer Neri, il domandò chi fossero le due damigelle; a cui messer Neri rispose:
- Monsignore, queste son mie figliuole ad un medesimo parto nate, delle quali l'una ha nome Ginevra la bella e l'altra Isotta la bionda.
- A cui il re le commendò molto, confortandolo a maritarle.
Dal che messer Neri, per più non poter, si scusò.
E in questo, niuna cosa fuor che le frutte restando a dar nella cena, vennero le due giovinette in due giubbe di zendado bellissime con due grandissimi piattelli d'argento in mano pieni di vari frutti, secondo che la stagion portava, e quegli davanti al re posarono sopra la tavola.
E questo fatto, alquanto indietro tiratesi, cominciarono a cantare un suono, le cui parole cominciano:
Là ov'io son giunto, Amore,
non si poria contare lungamente,
con tanta dolcezza e sì piacevolmente, che al re, che con diletto le riguardava e ascoltava, pareva che tutte le gerarchie degli angeli quivi fossero discese a cantare.
E quel detto, inginocchiatesi, reverentemente commiato domandarono al re, il quale, ancora che la lor partita gli gravasse, pure in vista lietamente il diede.
Fornita adunque la cena e il re co' suoi compagni rimontati a cavallo e messer Neri lasciato, ragionando d'una cosa e d'altra, al reale ostiere se ne tornarono.
Quivi, tenendo il re la sua affezion nascosa, né per grande affare che sopravvenisse potendo dimenticar la bellezza e la piacevolezza di Ginevra la bella, per amor di cui la sorella a lei simigliante ancor amava, sì nell'amorose panie s'invescò, che quasi ad altro pensar non poteva; e altre cagioni dimostrando, con messer Neri teneva una stretta dimestichezza e assai sovente il suo bel giardin visitava per veder la Ginevra.
E già più avanti sofferir non potendo, ed essendogli non sappiendo altro modo vedere, nel pensier caduto di dover, non solamente l'una, ma amendune le giovinette al padre torre, e il suo amore e la sua intenzione fe'manifesta al conte Guido, il quale, per ciò che valente uomo era, gli disse:
- Monsignore, io ho gran maraviglia di ciò che voi mi dite, e tanto ne l'ho maggiore che un altro non avrebbe, quanto mi par meglio dalla vostra fanciullezza infino a questo dì avere i vostri costumi conosciuti, che alcun altro.
E non essendomi paruto giammai nella vostra giovanezza, nella quale amor più leggiermente doveva i suoi artigli ficcare, aver tal passion conosciuta, sentendovi ora che già siete alla vecchiezza vicino, m'è sì nuovo e sì strano che voi per amore amiate, che quasi un miracol mi pare; e se a me di ciò cadesse il riprendervi, io so bene ciò che io ve ne direi, avendo riguardo che voi ancora siete con l'arme in dosso nel regno nuovamente acquistato, tra nazion non conosciuta e piena d'inganni e di tradimenti, e tutto occupato di grandissime sollicitudini e d'alto affare, né ancora vi siete potuto porre a sedere, e intra tante cose abbiate fatto luogo al lusinghevole amore.
Questo non è atto di re magnanimo, anzi d'un pusillanimo giovinetto.
E oltre a questo, che è molto peggio, dite che diliberato avete di dovere le due figliuole torre al povero cavaliere, il quale, in casa sua, oltre al poter suo v'ha onorato, e, per più onorarvi, quelle quasi ignude v'ha dimostrate, testificando per quello quanta sia la fede che egli ha in voi, e che esso fermamente creda voi essere re e non lupo rapace.
Ora evvi così tosto della memoria caduto le violenze fatte alle donne da Manfredi avervi l'entrata aperta in questo regno? Qual tradimento si commise giammai più degno d'etterno supplicio, che saria questo, che voi a colui che v'onora togliate il suo onore e la sua speranza e la sua consolazione? Che si direbbe di voi, se voi il faceste? Voi forse estimate che sufficiente scusa fosse il dire: - Io il feci per ciò che egli è ghibellino.
- Ora è questo della giustizia dei re, che coloro che nelle lor braccia ricorrono in cotal forma, chi che essi si sieno, in così fatta guisa si trattino? Io vi ricordo, re, che grandissima gloria v'è aver vinto Manfredi e sconfitto Corradino, ma molto maggiore è sé medesimo vincere; e per ciò voi, che avete gli altri a correggere, vincete voi medesimo e questo appetito raffrenate, né vogliate con così fatta macchia ciò che gloriosamente acquistato avete guastare.
Queste parole amaramente punsero l'animo del re, e tanto più l'afflissero quanto più vere le conoscea; per che, dopo alcun caldo sospiro, disse:
- Conte, per certo ogn'altro nimico, quantunque forte estimo che sia al bene ammaestrato guerriere assai debole e agevole a vincere a rispetto del suo medesimo appetito; ma, quantunque l'affanno sia grande e la forza bisogni inestimabile, sì m'hanno le vostre parole spronato, che conviene, avanti che troppi giorni trapassino, che io vi faccia per opera vedere che, come io so altrui vincere, così similmente so a me medesimo soprastare.
Né molti giorni appresso a queste parole passarono, che tornato il re a Napoli, sì per torre a sé stesso materia d'operar vilmente alcuna cosa e sì per premiare il cavaliere dello onore ricevuto da lui, quantunque duro gli fosse il fare altrui possessor di quello che egli sommamente per sé disiderava, nondimen si dispose di voler maritare le due giovani, e non come figliuole di messer Neri, ma come sue.
E con piacer di messer Neri, senza niuno indugio magnificamente dotatele, Ginevra la bella diede a messer Maffeo da Palizzi, e Isotta la bionda a messer Guiglielmo della Magna, nobili cavalieri e gran baron ciascuno; e loro assegnatele, con dolore inestimabile in Puglia se n'andò, e con fatiche continue tanto e sì macerò il suo fiero appetito, che spezzate e rotte l'amorose catene, per quanto viver dovea libero rimase da tal passione.
Saranno forse di quei che diranno piccola cosa essere ad un re l'aver maritate due giovinette; e io il consentirò; ma molto grande e grandissima la dirò, se diremo un re innamorato questo abbia fatto, colei maritando cui egli amava, senza aver preso a pigliare del suo amore fronda o fiore o frutto.
Così adunque il magnifico re operò, il nobile cavaliere altamente premiando, l'amate giovinette laudevolmente onorando, e sé medesimo fortemente vincendo.
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Novella Settima
Il re Piero, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, le conforta, e appresso ad un gentil giovane la marita, e lei nella fronte baciata, sempre poi si dice suo cavaliere.
Venuta era la Fiammetta al fin della sua novella, e commendata era stata molto la virile magnificenzia del re Carlo (quantunque alcuna, che quivi era ghibellina, commendar nol volesse), quando Pampinea, avendogliele il re imposto, incominciò.
Niun discreto, ragguardevoli donne, sarebbe, che non dicesse ciò che voi dite del buon re Carlo, se non costei che gli vuol mal per altro; ma, per ciò che a me va per la memoria una cosa non meno commendevole forse che questa, fatta da un suo avversario ancora in una nostra giovane fiorentina, quella mi piace di raccontarvi.
Nel tempo che i franceschi di Cicilia furon cacciati, era in Palermo un nostro fiorentino speziale, chiamato Bernardo Puccini, ricchissimo uomo, il quale d'una sua donna senza più aveva una figliuola bellissima e già da marito.
Ed essendo il re Pietro di Raona signor della isola divenuto, faceva in Palermo maravigliosa festa co' suoi baroni.
Nel la qual festa armeggiando egli alla catalana, avvenne che la figliuola di Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove ella era con altre donne, il vide correndo egli, e sì maravigliosamente le piacque, che, una volta e altra poi riguardandolo, di lui ferventemente s'innamorò.
E cessata la festa, ed ella in casa del padre standosi, a niun'altra cosa poteva pensare se non a questo suo magnifico e alto amore.
E quello che intorno a ciò più l'offendeva, era il cognoscimento della sua infima condizione, il quale niuna speranza appena le lasciava pigliare di lieto fine; ma non per tanto da amare il re indietro si voleva tirare, e per paura di maggior noia a manifestar non l'ardiva.
Il re di questa cosa non s'era accorto né si curava; di che ella, oltre a quello che si potesse estimare, portava intollerabil dolore.
Per la qual cosa avvenne che, crescendo in lei amor continuamente e una malinconia sopr'altra aggiugnendosi, la bella giovane più non potendo infermò, ed evidentemente di giorno in giorno, come la neve al sole, si consumava.
Il padre di lei e la madre, dolorosi di questo accidente, con conforti continui e con medici e con medicine in ciò che si poteva l'atavano; ma niente era, per ciò che ella, sì come del suo amore disperata, aveva eletto di più non volere vivere.
Ora avvenne che, offerendole il padre di lei ogni suo piacere, le venne in pensiero, se acconciamente potesse, di volere il suo amore e il suo proponimento, prima che morisse, fare al re sentire; e per ciò un dì il pregò che egli le facesse venire Minuccio d'Arezzo.
Era in que'tempi Minuccio tenuto un finissimo cantatore e sonatore, e volentieri dal re Pietro veduto, il quale Bernardo avvisò che la Lisa volesse per udirlo alquanto e sonare e cantare; per che, fattogliele dire, egli, che piacevole uomo era, incontanente a lei venne; e poi che alquanto con amorevoli parole confortata l'ebbe, con una sua vivuola dolcemente sonò alcuna stampita e cantò appresso alcuna canzone; le quali allo amor della giovane erano fuoco e fiamma, là dove egli la credea consolare.
Appresso questo disse la giovane che a lui solo alquante parole voleva dire; per che, partitosi ciascun altro ella gli disse:
- Minuccio, io ho eletto te per fidissimo guardatore d'un mio segreto, sperando primieramente che tu quello a niuna persona, se non a colui che io ti dirò, debbi manifestar giammai; e appresso, che in quello che per te si possa tu mi debbi aiutare: così ti priego.
Dei adunque sapere, Minuccio mio, che il giorno che il nostro signor re Pietro fece la gran festa della sua esaltazione, mel venne, armeggiando egli, in sì forte punto veduto, che dello amor di lui mi s'accese un fuoco nell'anima, che al partito m'ha recata che tu mi vedi; e conoscendo io quanto male il mio amore ad un re si convenga, e non potendolo non che cacciare ma diminuire, ed egli essendomi oltre modo grave a comportare, ho per minor doglia eletto di voler morire, e così farò.
E' il vero che io fieramente n'andrei sconsolata, se prima egli nol sapesse; e non sappiendo per cui potergli questa mia disposizion fargli sentire più acconciamente che per te, a te commettere la voglio, e priegoti che non rifiuti di farlo, e quando fatto l'avrai assapere mel facci, acciò che io, consolata morendo, mi sviluppi da queste pene -; e questo detto piagnendo, si tacque.
Maravigliossi Minuccio dell'altezza dello animo di costei e del suo fiero proponimento, e increbbenegli forte, e subitamente nello animo corsogli come onestamente la poteva servire, le disse:
- Lisa, io t'obbligo la mia fede, della quale vivi sicura che mai ingannata non ti troverrai, e appresso commendandoti di sì alta impresa, come è aver l'animo posto a così gran re, t'offero il mio aiuto, col quale io spero, dove tu confortar ti vogli, sì adoperare, che, avanti che passi il terzo giorno ti credo recar novelle che sommamente ti saran care; e per non perder tempo, voglio andare a cominciare.
La Lisa, di ciò da capo pregatol molto e promessogli di confortarsi, disse che s'andasse con Dio.
Minuccio partitosi, ritrovò un Mico da Siena assai buon dicitore in rima a quei tempi, e con prieghi lo strinse a far la canzonetta che segue:
Muoviti, Amore, e vattene a messere,
e contagli le pene ch'io sostegno;
digli ch'a morte vegno,
celando per temenza il mio volere.
Merzede, Amore, a man giunte ti chiamo,
ch'a messerà dove dimora.
Di'che sovente lui disio e amo,
sì dolcemente lo cor m'innamora;
e per lo foco, ond'io tutta m'infiamo,
temo morire, e già non saccio l'ora
ch'i' parta da sì grave pena dura,
la qual sostegno per lui disiando,
temendo e vergognando.
Deh! il mal mio, per Dio, fagli assapere.
Poi che di lui, Amor, fu'innamorata,
non mi donasti ardir quanto temenza
che io potessi sola una fiata
lo mio voler dimostrare in parvenza
a quegli che mi tien tanto affannata;
così morendo il morir m'è gravenza.
Forse che non gli saria spiacenza,
se el sapesse quanta pena i'sento,
s'a me dato ardimento
avesse in fargli mio stato sapere.
Poi che 'n piacere non ti fu, Amore,
ch'a me donassi tanta sicuranza,
ch'a messer far savessi lo mio core
lasso, per messo mai o per sembianza,
mercé ti chero, dolce mio signore,
che vadi a lui, e donagli membranza
del giorno ch'io il vidi a scudo e lanza
con altri cavalieri arme portare:
presilo a riguardare
innamorata sì che 'l mio cor pere!
Le quali parole Minuccio prestamente intonò d'un suono soave e pietoso, sì come la materia di quelle richiedeva, e il terzo dì se n'andò a corte, essendo ancora il re Pietro a mangiare, dal quale gli fu detto che egli alcuna cosa cantasse con la sua viuola.
Laonde egli cominciò sì dolcemente sonando a cantar questo suono, che quanti nella real sala n'erano parevano uomini adombrati, sì tutti stavano taciti e sospesi ad ascoltare, e il re per poco più che gli altri.
E avendo Minuccio il suo canto fornito, il re il domandò donde questo venisse che mai più non gliele pareva avere udito.
- Monsignore, - rispose Minuccio - e'non sono ancora tre giorni che le parole si fecero e 'l suono.
- Il quale, avendo il re domandato per cui, rispose:
- Io non l'oso scovrir se non a voi.
Il re, disideroso d'udirlo, levate le tavole, nella camera sel fe'venire, dove Minuccio ordinatamente ogni cosa udita gli raccontò.
Di che il re fece gran festa, e commendò la giovane assai, e disse che di sì valorosa giovane si voleva aver compassione; e per ciò andasse da sua parte a lei e la confortasse, e le dicesse che senza fallo quel giorno in sul vespro la verrebbe a visitare.
Minuccio, lietissimo di portare così piacevole novella, alla giovane senza ristare con la sua viuola n'andò, e con lei sola parlando, ogni cosa stata raccontò, e poi la canzone cantò con la sua viuola.
Di questo fu la giovane tanto lieta e tanto contenta, che evidentemente senza alcuno indugio apparver segni grandissimi della sua sanità; e con disidero, senza sapere o presummere alcun della casa che ciò si fosse, cominciò ad aspettare il vespro, nel quale il suo signor veder dovea.
Il re, il qual liberale e benigno signore era, avendo poi più volte pensato alle cose udite da Minuccio e conoscendo ottimamente la giovane e la sua bellezza, divenne ancora più che non era di lei pietoso; e in sull'ora del vespro montato a cavallo, sembiante faccendo d'andare a suo diporto, pervenne là dov'era la casa dello speziale; e quivi fatto domandare che aperto gli fosse un bellissimo giardino il quale lo speziale avea, in quello smontò, e dopo alquanto domandò Bernardo che fosse della figliuola, se egli ancora maritata l'avesse.
Rispose Bernardo:
- Monsignore, ella non è maritata, anzi è stata e ancora è forte malata; è il vero che da nona in qua ella è maravigliosamente migliorata.
Il re intese prestamente quello che questo miglioramento voleva dire, e disse:
- In buona fè danno sarebbe che ancora fosse tolta al mondo sì bella cosa; noi la vogliamo venire a visitare.
E con due compagni solamente e con Bernardo nella camera di lei poco appresso se n'andò, e come là entro fu, s'accostò al letto dove la giovane alquanto sollevata con disio l'aspettava, e lei per la man prese dicendo:
- Madonna, che vuol dir questo? Voi siete giovane e dovreste l'altre confortare, e voi vi lasciate aver male: noi vi vogliam pregare che vi piaccia, per amor di noi, di confortarvi in maniera che voi siate tosto guerita.
La giovane, sentendosi toccare alle mani di colui il quale ella sopra tutte le cose amava, come che ella alquanto si vergognasse, pur sentiva tanto piacer nell'animo, quanto se stata fosse in paradiso; e, come potè, gli rispose:
- Signor mio, il volere io le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi, m'è di questa infermità stata cagione, dal la quale voi, vostra buona mercé, tosto libera mi vedrete.
Solo il re intendeva il coperto parlare della giovane, e da più ogn'ora la reputava, e più volte seco stesso maladisse la fortuna, che di tale uomo l'aveva fatta figliuola; e poi che alquanto fu con lei dimorato e più ancora confortatala, si partì.
Questa umanità del re fu commendata assai, e in grande onor fu attribuita allo speziale e alla figliuola; la quale tanto contenta rimase, quanto altra donna di suo amante fosse giammai; e da migliore speranza aiutata, in pochi giorni guerita, più bella diventò che mai fosse.
Ma poi che guerita fu, avendo il re con la reina diliberato qual merito di tanto amore le volesse rendere, montato un dì a cavallo con molti de' suoi baroni a casa dello spezial se n'andò, e nel giardino entratosene, fece lo spezial chiamare e la sua figliuola; e in questo venuta la reina con molte donne, e la giovane tra lor ricevuta, cominciarono maravigliosa festa.
E dopo alquanto il re insieme con la reina chiamata la Lisa, le disse il re:
- Valorosa giovane, il grande amor che portato n'avete v'ha grande onore da noi impetrato, del quale noi vogliamo che per amor di noi siate contenta; e l'onore è questo, che, con ciò sia cosa che voi da marito siate, noi vogliamo che colui prendiate per marito che noi vi daremo, intendendo sempre, non ostante questo, vostro cavaliere appellarci, senza più di tanto amor voler da voi che un sol bacio.
La giovane, che di vergogna tutta era nel viso divenuta vermiglia, faccendo suo il piacer del re, con bassa voce così rispose:
- Signor mio, io son molto certa che, se egli si sapesse che io di voi innamorata mi fossi, la più della gente me ne reputerebbe matta, credendo forse che io a me medesima fossi uscita di mente e che io la mia condizione e oltre a questo la vostra non conoscessi; ma come Iddio sa, che solo i cuori de' mortali vede, io nell'ora che voi prima mi piaceste, conobbi voi essere re e me figliuola di Bernardo speziale, e male a me convenirsi in sì alto luogo l'ardore dello animo dirizzare.
Ma, sì come voi molto meglio di me conoscete, niuno secondo debita elezione ci s'innamora, ma secondo l'appetito e il piacere; alla qual legge più volte s'opposero le forze mie, e più non potendo, v'amai e amo e amerò sempre.
E' il vero che, com'io ad amore di voi mi sentii prendere, così mi disposi di far sempre, del vostro, voler mio, e per ciò, non che io faccia questo di prender volentier marito e d'aver caro quello il quale vi piacerà di donarmi, che mio onore e stato sarà, ma se voi diceste che io dimorassi nel fuoco, credendovi io piacere mi sarebbe diletto.
Avere uno re per cavaliere, sapete quanto mi si conviene, e per ciò più a ciò non rispondo; né il bacio che solo del mio amor volete, senza licenzia di madama la reina vi sarà per me conceduto.
Nondimeno di tanta benignità verso me, quanta è la vostra e quella di madama la reina che è qui, Iddio per me vi renda e grazie e merito; ché io da render non l'ho.
- E qui si tacque.
Alla reina piacque molto la risposta della giovane, e parvele così savia come il re l'aveva detto.
Il re fece chiamare il padre della giovane e la madre, e sentendogli contenti di ciò che fare intendeva, si fece chiamare un giovane, il quale era gentile uomo ma povero, ch'avea nome Perdicone, e postegli certe anella in mano, a lui, non recusante di farlo, fece sposare la Lisa.
A'quali incontanente il re, oltre a molte gioie e care che egli e la reina alla giovane donarono, gli donò Ceffalù e Calatabellotta, due bonissime terre e di gran frutto, dicendo:
- Queste ti doniamo noi per dote della donna; quello che noi vorremo fare a te, tu tel vedrai nel tempo avvenire.
E questo detto, rivolto alla giovane, disse:
- Ora vogliam noi prender quel frutto che noi del vostro amor aver dobbiamo, - e presole con amendune le mani il capo, le baciò la fronte.
Perdicone e 'l padre e la madre della Lisa ed ella altressì contenti, grandissima festa fecero e liete nozze.
E secondo che molti affermano, il re molto bene servò alla giovane il convenente; per ciò che mentre visse sempre s'appellò suo cavaliere, né mai in alcun fatto d'arme andò, che egli altra sopransegna portasse che quella che dalla giovane mandata gli fosse.
Così adunque operando si pigliano gli animi dei suggetti; dassi altrui materia di bene operare, e le fame etterne s'acquistano.
Alla qual cosa oggi pochi o niuno ha l'arco teso dello 'ntelletto, essendo li più de' signori divenuti crudeli tiranni.
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Novella Ottava
Sofronia, credendosi esser moglie di Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo, e con lui se ne va a Roma, dove Gisippo in povero stato arriva, e credendo da Tito esser disprezzato, sé avere uno uomo ucciso, per morire, afferma.
Tito, riconosciutolo, per iscamparlo, dice sé averlo morto; il che colui che fatto l'avea vedendo, sé stesso manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono liberati, e Tito dà a Gisippo la sorella per moglie e con lui comunica ogni suo bene.
Filomena, per comandamento del re, essendo Pampinea di parlar ristata, e già avendo ciascuna commendato il re Pietro, e più la ghibellina che l'altre, incominciò.
Magnifiche donne, chi non sa li re poter, quando vogliono, ogni gran cosa fare, e loro altressì spezialissimamente richiedersi l'esser magnifichi? Chi adunque, possedendo, fa quello che a lui s'appartiene, fa bene; ma non se ne dee l'uomo tanto maravigliare, né alto con somme lode levarlo, come un altro si converria che il facesse, a cui per poca possa meno si richiedesse.
E per ciò, se voi con tante parole l'opere de' re essaltate e paionvi belle, io non dubito punto che molto più non vi debbian piacere ed esser da voi commendate quelle de' nostri pari, quando sono a quelle de' re simiglianti o maggiori; per che una laudevole opera e magnifica usata tra due cittadini amici ho proposto in una novella di raccontarvi.
Nel tempo adunque che Ottavian Cesare, non ancora s chiamato Augusto, ma nello uficio chiamato triumvirato lo 'mperio di Roma reggeva, fu in Roma un gentile uomo chiamato Publio Quinzio Fulvo, il quale, avendo un suo figliuolo, Tito Quinzio Fulvo nominato, di maraviglioso ingegno, ad imprender filosofia il mandò ad Atene, e quantunque più potè il raccomandò ad un nobile uomo della terra chiamato Cremete, il quale era antichissimo suo amico.
Dal quale Tito nelle propie case di lui fu allogato in compagnia d'un suo figliuolo nominato Gisippo; e sotto la dottrina d'un filosofo chiamato Aristippo, e Tito e Gisippo furon parimente da Cremete posti ad imprendere.
E venendo i due giovani usando insieme, tanto si trovarono i costumi loro esser conformi, che una fratellanza e una amicizia sì grande ne nacque tra loro, che mai poi da altro caso che da morte non fu separata.
Niun di loro aveva né ben né riposo, se non tanto quanto erano insieme.
Essi avevano cominciati gli studi, e parimente ciascuno d'altissimo ingegno dotato saliva alla gloriosa altezza della filosofia con pari passo e con maravigliosa laude; e in cotal vita con grandissimo piacer di Cremete, che quasi l'un più che l'altro non avea per figliuolo, perseveraron ben tre anni.
Nella fine de' quali, sì come di tutte le cose addiviene, addivenne che Cremete, già vecchio, di questa vita passò; di che essi pari compassione, sì come di comun padre, portarono, né si discernea per gli amici né per li parenti di Cremete, qual più fosse per lo sopravvenuto caso da racconsolar di lor due.
Avvenne, dopo alquanti mesi, che gli amici di Gisippo e i parenti furon con lui, e insieme con Tito il confortarono a tor moglie, e trovarongli una giovane di maravigliosa bellezza e di nobilissimi parenti discesa, e cittadina d'Atene, il cui nome era Sofronia, d'età forse di quindici anni.
E appressandosi il termine delle future nozze, Gisippo pregò un dì Tito che con lui andasse a vederla, ché veduta ancora non l'avea; e nella casa di lei venuti, ed essa sedendo in mezzo d'amenduni, Tito, quasi consideratore della bellezza della sposa del suo amico, la cominciò attentissimamente a riguardare, e ogni parte di lei smisuratamente piacendogli mentre quelle seco sommamente lodava, sì fortemente, senza alcun sembiante mostrarne, di lei s'accese, quanto di donna alcuno amante s'accendesse giammai.
Ma poi che alquanto con lei stati furono, partitisi, a casa se ne tornarono.
Quivi Tito, solo nella sua camera entratosene, alla piaciuta giovane cominciò a pensare, tanto più accendendosi quanto più nel pensiero si stendea.
Di che accorgendosi, dopo molti caldi sospiri, seco cominciò a dire: - Ahi! misera la vita tua, Tito! Dove e in che pon tu l'animo e l'amore e la speranza tua? Or non conosci tu, sì per li ricevuti onori da Cremete e dalla sua famiglia, e sì per la intera amicizia la quale è tra te e Gisippo, di cui costei è sposa, questa giovane convenirsi avere in quella reverenza che sorella? Che dunque ami? Dove ti lasci trasportare allo 'ngannevole amore? Dove alla lusinghevole speranza? Apri gli occhi dello 'ntelletto, e te medesimo, o misero, riconosci; dà luogo alla ragione, raffrena il concupiscibile appetito, tempera i disideri non sani, e ad altro dirizza i tuoi pensieri; contrasta in questo cominciamento alla tua libidine, e vinci te medesimo, mentre che tu hai tempo.
Questo non si conviene che tu vuogli, questo non è onesto; questo a che tu seguir ti disponi, eziandio essendo certo di giugnerlo (che non se'), tu il dovresti fuggire, se quello riguardassi che la vera amistà richiede e che tu dei.
Che dunque farai, Tito? Lascerai il non convenevole amore, se quello vorrai fare che si conviene.
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E poi, di Sofronia ricordandosi, in contrario volgendo, ogni cosa detta dannava, dicendo: - Le leggi d'Amore sono di maggior potenzia che alcune altre: elle rompono, non che quelle della amistà, ma le divine.
Quante volte ha già il padre la figliuola amata? il fratello la sorella? la matrigna il figliastro? Cose più mostruose che l'uno amico amar la moglie dell'altro, già fattosi mille volte.
Oltre a questo io son giovane, e la giovanezza è tutta sottoposta all'amorose forze.
Quello adunque che ad Amor piace a me convien che piaccia.
L'oneste cose s'appartengono a' più maturi; io non posso volere se non quello che Amor vuole.
La bellezza di costei merita d'essere amata da ciascheduno; e se io l'amo, che giovane sono, chi me ne potrà meritamente riprendere? Io non l'amo perché ella sia di Gisippo, anzi l'amo che l'amerei di chiunque ella stata fosse.
Qui pecca la Fortuna che a Gisippo mio amico l'ha conceduta più tosto che ad un altro; e se ella dee essere amata (ché dee, e meritamente, per la sua bellezza), più dee esser contento Gisippo, risappiendolo, che io l'ami io che un altro.
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E da questo ragionamento, faccendo beffe di sé medesimo, tornando in sul contrario, e di questo in quello, e di quello in questo, non solamente quel giorno e la notte seguente consumò, ma più altri, intanto che, il cibo e 'l sonno perdutone, per debolezza fu costretto a giacere.
Gisippo, il qual più dì l'avea veduto di pensier pieno e ora il vedeva infermo, se ne doleva forte, e con ogni arte e sollecitudine, mai da lui non partendosi, s'ingegnava di confortarlo, spesso e con instanzia domandandolo della cagione de' suoi pensieri e della infermità.
Ma, avendogli più volte Tito dato favole per risposta, e Gisippo avendole conosciute, sentendosi pur Tito constrignere, con pianti e con sospiri gli rispose in cotal guisa:
- Gisippo, se agli Dii fosse piaciuto, a me era assai più a grado la morte che il più vivere, pensando che la fortuna m'abbi condotto in parte che della mia virtù mi sia convenuto far pruova, e quella con grandissima vergogna di me truovi vinta; ma certo io n'aspetto tosto quel merito che mi si conviene, cioè la morte, la qual mi fia più cara che il vivere con rimembranza della mia viltà, la quale per ciò che a te né posso né debbo alcuna cosa celare, non senza gran rossor ti scoprirrò.
E, cominciatosi da capo, la cagion de' suoi pensieri, e la battaglia di quegli, e ultimamente de' quali fosse la vittoria, e sé per l'amor di Sofronia perire gli discoperse, affermando che, conoscendo egli quanto questo gli si sconvenisse, per penitenzia n'avea preso il voler morire, di che tosto credeva venire a capo.
Gisippo, udendo questo e il suo pianto vedendo, alquanto prima sopra sé stette, sì come quegli che del piacere della bella giovane, avvegna che più temperatamente, era preso; ma senza indugio diliberò la vita dello amico più che Sofronia dovergli esser cara; e così, dalle lagrime di lui a lagrimare invitato, gli rispose piagnendo:
- Tito, se tu non fossi di conforto bisognoso come tu se', io di te a te medesimo mi dorrei, sì come d'uomo il quale hai la nostra amicizia violata, tenendomi sì lungamente la tua gravissima passione nascosa; e come che onesto non ti paresse, non son per ciò le disoneste cose, se non come l'oneste, da celare all'amico, per ciò che chi amico è, come delle oneste con l'amico prende piacere, così le non oneste s'ingegna di torre dello animo dello amico; ma ristarommene al presente, e a quel verrò che di maggior bisogno esser conosco.
Se tu ardentemente ami Sofronia a me sposata, io non me ne maraviglio, ma maravigliere'mi io ben se così non fosse, conoscendo la sua bellezza e la nobiltà dell'animo tuo, atta tanto più a passion sostenere, quanto ha più d'eccellenza la cosa che piaccia.
E quanto tu ragionevolmente ami Sofronia, tanto ingiustamente della fortuna ti duoli (quantunque tu ciò non esprimi) che a me conceduta l'abbia, parendoti il tuo amarla onesto, se d'altrui fosse stata che mia.
Ma, se tu se'savio come suoli, a cui la poteva la fortuna concedere, di cui tu più l'avessi a render grazie, che d'averla a me conceduta? Qualunque altro avuta l'avesse, quantunque il tuo amore onesto stato fosse, l'avrebbe egli a sé amata più tosto che a te, il che di me, se così mi tieni amico come io ti sono, non dei sperare; e la cagione è questa, che io non mi ricordo, poi che amici fummo, che io alcuna cosa avessi che così non fosse tua come mia.
Il che, se tanto fosse la cosa avanti che altramenti esser non potesse, così ne farei come dell'altre; ma ella è ancora in sì fatti termini, che di te solo la posso fare, e così farò; per ciò che io non so quello che la mia amistà ti dovesse esser cara, se io d'una cosa che onestamente far si puote, non sapessi d'un mio voler far tuo.
Egli è il vero che Sofronia è mia sposa, e che io l'amava molto e con gran festa le sue nozze aspettava; ma per ciò che tu, sì come molto più intendente di me, con più fervor disideri così cara cosa come ella è, vivi sicuro che non mia ma tua moglie verrà nella mia camera.
E per ciò lascia il pensiero, caccia la malinconia, richiama la perduta sanità e il conforto e l'allegrezza, e da questa ora innanzi lieto aspetta i meriti del tuo molto più degno amore che il mio non era.
Tito, udendo così parlare a Gisippo, quanto la lusinghevole speranza di quello gli porgeva piacere, tanto la debita ragion gli recava vergogna, mostrandogli che quanto più era di Gisippo la liberalità, tanto di lui ad usarla pareva la sconvenevolezza maggiore.
Per che, non ristando di piagnere, con fatica così gli rispose:
- Gisippo, la tua liberale e vera amistà assai chiaro mi mostra quello che alla mia s'appartenga di fare.
Tolga via Iddio che mai colei, la quale egli sì come a più degno ha a te donata, che io da te la riceva per mia.
Se egli avesse veduto che a me si convenisse costei, né tu né altri dee credere che mai a te conceduta l'avesse.
Usa adunque lieto la tua elezione e il discreto consiglio e il suo dono, e me nelle lagrime, le quali egli, sì come ad indegno di tanto bene, m'ha apparecchiate, consumar lascia, le quali o io vincerò e saratti caro, o esse me vinceranno e sarò fuor di pena.
Al quale Gisippo disse:
- Tito, se la nostra amistà mi può concedere tanto di licenzia, che io a seguire un mio piacer ti sforzi, e te a doverlo seguire puote inducere, questo fia quello in che io sommamente intendo d'usarla; e dove tu non condiscenda piacevole a' prieghi miei, con quella forza che ne'beni dello amico usar si dee, farò che Sofronia fia tua.
Io conosco quanto possono le forze d'amore, e so che elle, non una volta ma molte, hanno ad infelice morte gli amanti condotti; e io veggio te sì presso, che tornare addietro né vincere potresti le lagrime, ma procedendo, vinto verresti meno, al quale io senza alcun dubbio tosto verrei appresso.
Adunque, quando per altro io non t'amassi, m'è, acciò che io viva, cara la vita tua.
Sarà adunque Sofronia tua, ché di leggiere altra che così ti piacesse non troverresti; e io il mio amore leggiermente ad un'altra volgendo, avrò te e me contentato.
Alla qual cosa forse così liberal non sarei, se così rade o con quella difficoltà le mogli si trovasser, che si truovan gli amici; e per ciò, potend'io leggerissimamente altra moglie trovare, ma non altro amico, io voglio innanzi (non vo'dir perder lei, ché non la perderò dandola a te, ma ad un altro me la trasmuterò di bene in meglio) trasmutarla, che perder te.
E per ciò, se alcuna cosa possono in te i prieghi miei, io ti priego che, di questa afflizion togliendoti, ad una ora consoli te e me, e con buona speranza ti disponghi a pigliar quella letizia che il tuo caldo amore della cosa amata disidera.
Come che Tito di consentire a questo, che Sofronia sua moglie divenisse, si vergognasse, e per questo duro stesse ancora, tirandolo da una parte amore, e d'altra i conforti di Gisippo sospignendolo, disse:
- Ecco, Gisippo, io non so quale io mi dica che io faccia più, o il mio piacere o il tuo, faccendo quello che tu pregando mi di'che tanto ti piace; e poi che la tua liberalità è tanta che vince la mia debita vergogna, e io il farò.
Ma di questo ti rendi certo, che io nol fo come uomo che non conosca me da te ricever non solamente la donna amata, ma con quella la vita mia.
Facciano gl'Iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me, più pietoso di me che io medesimo, adoperi.
Appresso queste parole disse Gisippo:
- Tito, in questa cosa, a volere che effetto abbia, mi par da tener questa via.
Come tu sai, dopo lungo trattato de' miei parenti e di quei di Sofronia, essa è divenuta mia sposa, e per ciò, se io andassi ora a dire che io per moglie non la volessi, grandissimo scandalo ne nascerebbe e turberei i suoi e'miei parenti; di che niente mi curerei, se io per questo vedessi lei dover divenir tua; ma io temo, se io a questo partito la lasciassi, che i parenti suoi non la dieno prestamente ad un altro, il qual forse non sarai desso tu, e così tu avrai perduto quello che io non avrò acquistato.
E per ciò mi pare, dove tu sii contento, che io con quello che cominciato ho seguiti avanti, e sì come mia me la meni a casa e faccia le nozze, e tu poi occultamente, sì come noi saprem fare, con lei sì come con tua moglie ti giacerai.
Poi a luogo e a tempo manifesteremo il fatto; il quale, se lor piacerà, bene starà; se non piacerà, sarà pur fatto, e non potendo indietro tornare, converrà per forza che sien contenti.
Piacque a Tito il consiglio: per la qual cosa Gisippo come sua nella sua casa la ricevette, essendo già Tito guarito e ben disposto; e fatta la festa grande, come fu la notte venuta, lasciar le donne la nuova sposa nel letto del suo marito, e andar via.
Era la camera di Tito a quella di Gisippo congiunta, e dell'una si poteva nell'altra andare; per che, essendo Gisippo nella sua camera e ogni lume avendo spento, a Tito tacitamente andatosene, gli disse che con la sua donna s'andasse a coricare.
Tito vedendo questo, vinto da vergogna, si volle pentere e recusava l'andata; ma Gisippo, che con intero animo, come con le parole, al suo piacere era pronto, dopo lunga tencione vel pur mandò.
Il quale, come nel letto giunse, presa la giovane, quasi come sollazzando, chetamente la domandò se sua moglie esser voleva.
Ella, credendo lui esser Gisippo, rispose del sì; ond'egli un bello e ricco anello le mise in dito dicendo:
- E io voglio esser tuo marito.
E quinci consumato il matrimonio, lungo e amoroso piacer prese di lei, senza che ella o altri mai s'accorgesse che altri che Gisippo giacesse con lei.
Stando adunque in questi termini il maritaggio di Sofronia e di Tito, Publio suo padre di questa vita passò; per la qual cosa a lui fu scritto che senza indugio a vedere i fatti suoi a Roma se ne tornasse; e per ciò egli d'andarne e di menarne Sofronia diliberò con Gisippo.
Il che, senza manifestarle come la cosa stesse, far non si dovea né potea acconciamente.
Laonde, un dì nella camera chiamatala, interamente come il fatto stava le dimostrarono, e di ciò Tito per molti accidenti tra lor due stati la fece chiara.
La qual, poi che l'uno e l'altro un poco sdegnosetta ebbe guatato, dirottamente cominciò a piagnere, sé dello inganno di Gisippo ramaricando; e prima che nella casa di Gisippo nulla parola di ciò facesse, se n'andò a casa il padre suo, e quivi a lui e alla madre narrò lo 'nganno il quale ella ed eglino da Gisippo ricevuto avevano; affermando sé esser moglie di Tito, e non di Gisippo come essi credevano.
Questo fu al padre di Sofronia gravissimo, e co' suoi parenti e con que'di Gisippo ne fece una lunga e gran querimonia, e furon le novelle e le turbazioni molte e grandi.
Gisippo era a' suoi e a que'di Sofronia in odio, e ciascun diceva lui degno, non solamente di riprensione, ma d'aspro gastigamento.
Ma egli sé onesta cosa aver fatta affermava e da dovernegli essere rendute grazie da' parenti di Sofronia, avendola a miglior di sé maritata.
Tito d'altra parte ogni cosa sentiva e con gran noia sosteneva; e conoscendo costume esser de' greci tanto innanzi sospignersi con romori e con le minacce, quanto penavano a trovar chi loro rispondesse, e allora non solamente umili ma vilissimi divenire; pensò più non fossero senza risposta da comportare le lor novelle; e avendo esso animo romano e senno ateniese, con assai acconcio modo i parenti di Gisippo e que'di Sofronia in un tempio fe'ragunare, e in quello entrato, accompagnato da Gisippo solo, così agli aspettanti parlò:
- Credesi per molti filosofanti, che ciò che s'adopera da' mortali sia degli iddii immortali disposizione e provvedimento, e per questo vogliono alcuni essere di necessità ciò che ci si fa o farà mai; quantunque alcuni altri sieno che questa necessità impongono a quel che è fatto solamente.
Le quali oppinioni se con alcuno avvedimento riguardate fìeno, assai apertamente si vedrà che il riprender cosa che frastornar non si possa, niuna altra cosa è a fare se non volersi più savio mostrare che gl'iddii, li quali noi dobbiam credere che con ragion perpetua e senza alcuno errore dispongono e governan noi e le nostre cose; per che, quanto le loro operazioni ripigliare sia matta presunzione e bestiale, assai leggiermente il potete vedere, e ancora chenti e quali catene coloro meritino che tanto in ciò si lasciano trasportare dall'ardire.
De' quali, secondo il mio giudicio, voi siete tutti, se quello è vero che io intendo che voi dovete aver detto e continuamente dite, per ciò che mia moglie Sofronia è divenuta, dove lei a Gisippo avavate data; non riguardando che ab etterno disposto fosse che ella non di Gisippo divenisse ma mia, sì come per effetto si conosce al presente.
Ma, per ciò che 'l parlar della segreta provvedenza e intenzion degl'iddii pare a molti duro e grave a comprendere, presupponendo che essi di niuno nostro fatto s'impaccino, mi piace di condiscendere a' consigli degli uomini; de' quali dicendo, mi converrà far due cose molto a' miei costumi contrarie: l'una fia alquanto me commendare, e l'altra il biasimare alquanto altrui o avvilire.
Ma, per ciò che dal vero né nell'una né nell'altra non intendo partirmi, e la presente materia il richiede, il pur farò.
I vostri ramarichii, più da furia che da ragione incitati, con continui mormorii, anzi romori, vituperano, mordono e dannano Gisippo, per ciò che colei m'ha data per moglie col suo consiglio, che voi a lui col vostro avevate data, laddove io estimo che egli sia sommamente da commendare; e le ragioni son queste: l'una, però che egli ha fatto quello che amico dee fare; l'altra, perché egli ha più saviamente fatto che voi non avevate.
Quello che le sante leggi della amicizia vogliono che l'uno amico per l'altro faccia, non è mia intenzion di spiegare al presente, essendo contento d'avervi tanto solamente ricordato di quelle, che il legame della amistà troppo più stringa che quel del sangue o del parentado; con ciò sia cosa che gli amici noi abbiamo quali ce li eleggiamo, e i parenti quali gli ci dà la fortuna.
E per ciò, se Gisippo amò più la mia vita che la vostra benivolenza, essendo io suo amico, come io mi tengo, niuno se ne dee maravigliare.
Ma vegnamo alla seconda ragione, nella quale con più instanzia vi si convien dimostrare lui più essere stato savio che voi non siete, con ciò sia cosa che della provvidenzia degli iddii niente mi pare che voi sentiate, e molto men conosciate della amicizia gli effetti.
Dico che il vostro avvedimento, il vostro consiglio e la vostra diliberazione aveva Sofronia data a Gisippo, giovane e filosafo; quello di Gisippo la diede a giovane e filosafo; il vostro consiglio la diede ad ateniese, e quel di Gisippo a romano; il vostro ad un gentil giovane, quel di Gisippo ad un più gentile; il vostro ad un ricco giovane, quel di Gisippo ad un ricchissimo; il vostro ad un giovane il quale, non solamente non l'amava, ma appena la conosceva; quel di Gisippo ad un giovane, il quale sopra ogni sua felicità e più che la propia vita l'amava.
E che quello che io dico sia vero, e più da commendare che quello che voi fatto avavate, riguardisi a parte a parte.
Che io giovane e filosafo sia come Gisippo, il viso mio e gli studi, senza più lungo sermon farne, il possono dichiarare.
Una medesima età è la sua e la mia, e con pari passo sempre proceduti siamo studiando.
E il vero ch'egli è ateniese e io romano.
Se della gloria della città si disputerà, io dirò che io sia di città libera ed egli di tributaria; io dirò che io sia di città donna di tutto 'l mondo, ed egli di città obbediente alla mia; io dirò che io sia di città fiorentissima d'arme, d'imperio e di studi, dove egli non potrà la sua se non di studi commendare.
Oltre a questo, quantunque voi qui scolar mi veggiate assai umile, io non son nato della feccia del popolazzo di Roma; le mie case e i luoghi publichi di Roma son pieni d'antiche imagini de' miei maggiori, e gli annali romani si troveranno pieni di molti triumfi menati da' Quinzi in sul romano Capitolio, né è per vecchiezza marcita, anzi oggi più che mai fiorisce la gloria del nostro nome.
Io mi taccio, per vergogna, delle mie ricchezze, nella mente avendo che l'onesta povertà sia antico e larghissimo patrimonio de' nobili cittadini di Roma; la quale, se dalla oppinione de' volgari è dannata e son commendati i tesori, io ne sono, non come cupido, ma come amato dalla fortuna, abbondante.
E assai conosco che egli v'era qui, e dovea essere e dee, caro d'aver per parente Gisippo; ma io non vi debbo per alcuna cagione meno essere a Roma caro, considerando che di me là avrete ottimo oste, e utile e sollicito e possente padrone, così nelle pubbliche opportunità come ne'bisogni privati.
Chi dunque, lasciata star la volontà e con ragion riguardando, più i vostri consigli commenderà che quegli del mio Gisippo? Certo niuno.
E adunque Sofronia ben maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco cittadin di Roma e amico di Gisippo; per che chi di ciò si duole o si ramarica, non fa quello che dee né sa quello che egli si fa.
Saranno forse alcuni che diranno non dolersi Sofronia esser moglie di Tito, ma dolersi del modo nel quale sua moglie è divenuta, nascosamente, di furto, senza saperne amico o parente alcuna cosa.
E questo non è miraculo, né cosa che di nuovo avvenga.
Io lascio stare volentieri quelle che già contro a volere de' padri hanno i mariti presi; e quelle che i sono con li loro amanti fuggite, e prima amiche sono state che mogli; e quelle che prima con le gravidezze e co' parti hanno i matrimoni palesati che con la lingua, e hagli fatti la necessità aggradire; quello che di Sofronia non è avvenuto; anzi ordinatamente, discretamente e onestamente da Gisippo a Tito è stata data.
E altri diranno colui averla maritata a cui di maritarla non apparteneva.
Sciocche lamentanze son queste e femminili, e da poca considerazion procedenti.
Non usa ora la fortuna di nuovo varie vie e istrumenti nuovi a recare le cose agli effetti diterminati.
Che ho io a curare se il calzolaio più tosto che il filosafo avrà d'un mio fatto secondo il suo giudicio disposto o in occulto o in palese, se il fine è buono? Debbomi io ben guardare, se il calzolaio non è discreto, che egli più non ne possa fare, e ringraziarlo del fatto.
Se Gisippo ha ben Sofronia maritata, l'andarsi del modo dolendo e di lui è una stultizia superflua.
Se del suo senno voi non vi confidate, guardatevi che egli più maritar non ne possa, e di questa il ringraziate.
Nondimeno dovete sapere che io non cercai ne con ingegno né con fraude d'imporre alcuna macula all'onestà e alla chiarezza del vostro sangue nella persona di Sofronia; e quantunque io l'abbia occultamente per moglie presa, io non venni come rattore a torle la sua virginità, né come nimico la volli men che onestamente avere, il vostro parentado rifiutando, ma ferventemente acceso della sua vaga bellezza e della virtù di lei; conoscendo, se con quello ordine che voi forse volete dire cercata l'avessi, che, essendo ella molto amata da voi, per tema che io a Roma menata non ne l'avessi, avuta non l'avrei.
Usai adunque l'arte occulta che ora vi puote essere aperta, e feci Gisippo, a quello che egli di fare non era disposto, consentire in mio nome; e appresso, quantunque io ardentemente l'amassi, non come amante ma come marito i suoi congiugnimenti cercai, non appressandomi prima a lei, sì come essa medesima può con verità testimoniare, che io con le debite parole e con l'anello l'ebbi sposata, domandandola se ella me per marito volea, a che ella rispose del sì.
Se esser le pare ingannata, non io ne son da riprender, ma ella, che me non domandò chi io fossi.
Questo è adunque il gran male, il gran peccato, il gran fallo adoperato da Gisippo amico e da me amante, che Sofronia occultamente sia divenuta moglie di Tito Quinzio; per questo il lacerate, minacciate e insidiate.
E che ne fareste voi più, se egli ad un villano, ad un ribaldo, ad un servo data l'avesse? Quali catene, qual carcere, quali croci ci basterieno?
Ma lasciamo ora star questo: egli è venuto il tempo il quale io ancora non aspettava, cioè che mio padre sia morto e che a me conviene a Roma tornare, per che, meco volendone Sofronia menare, v'ho palesato quello che io forse ancora v'avrei nascoso; il che, se savi sarete, lietamente comporterete, per ciò che, se ingannare o oltraggiare v'avessi voluto, schernita ve la poteva lasciare; ma tolga Iddio via questo, che in romano spirito tanta viltà albergar possa giammai.
Ella adunque, cioè Sofronia, per consentimento degl'iddii e per vigore delle leggi umane, e per lo laudevole senno del mio Gisippo, e per la mia amorosa astuzia è mia; la qual cosa voi, per avventura più che gli iddii o che gli altri uomini savi tenendovi, bestialmente in due maniere forte a me noiose mostra che voi danniate.
L'una è Sofronia tenendovi, nella quale, più che mi piaccia, alcuna ragion non avete; e l'altra è il trattar Gisippo, al quale meritamente obligati siete, come nimico.
Nelle quali quanto scioccamente facciate, io non intendo al presente di più aprirvi, ma come amici vi consigliare che si pongano giuso gli sdegni vostri, e i crucci presi si lascino tutti, e che Sofronia mi sia restituita, acciò che io lietamente vostro parente mi parta e viva vostro; sicuri di questo che, o piacciavi o non piacciavi quel che è fatto, se altramenti operare intendeste, io vi torrò Gisippo, e senza fallo, se a Roma pervengo, io riavrò colei che è meritamente mia, malgrado che voi n'abbiate; e quanto lo sdegno de' romani animi possa, sempre nimicandovi, vi farò per esperienzia conoscere.
Poi che Tito così ebbe detto, levatosi in piè tutto nel viso turbato, preso Gisippo per mano, mostrando d'aver poco a cura quanti nel tempio n'erano, di quello, crollando la testa e minacciando, s'uscì.
Quegli che là entro rimasono, in parte dalle ragioni di Tito al parentado e alla sua amistà indotti, e in parte spaventati dall'ultime sue parole, di pari concordia diliberarono es sere il miglior d'aver Tito per parente, poi che Gisippo non aveva esser voluto, che aver Gisippo per parente perduto e Tito nimico acquistato.
Per la qual cosa andati, ritrovar Tito e dissero che piaceva lor che Sofronia fosse sua, e d'aver lui per caro parente e Gisippo per buono amico; e fattasi parentevole e amichevole festa insieme, si dipartirono e Sofronia gli rimandarono.
La qua le, sì come savia, fatta della necessità virtù, l'amore il quale aveva a Gisippo prestamente rivolse a Tito; e con lui se n'andò a Roma, dove con grande onore fu ricevuta.
Gisippo rimasosi in Atene, quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo, per certe brighe cittadine, con tutti quegli di casa sua, povero e meschino fu d'Atene cacciato e dannato ad essilio perpetuo.
Nel quale stando Gisippo, e divenuto non solamente povero ma mendico, come potè il men male a Roma se ne venne, per provare se di lui Tito si ricordasse; e saputo lui esser vivo e a tutti i romani grazioso, e le sue case apparate, dinanzi ad esse si mise a star tanto che Tito venne; al quale egli per la miseria nella quale era non ardì di far motto, ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito riconoscendolo il facesse chiamare; per che, passato oltre Tito, e a Gisippo parendo che egli veduto l'avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che già per lui fatto aveva, sdegnoso e disperato si dipartì.
Ed essendo già notte ed esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s'andasse, più che d'altro di morir disideroso, s'avvenne in uno luogo molto salvatico della città, dove veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e sopra la nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto, s'addormentò.
Alla qual grotta due, li quali insieme erano la notte andati ad imbolare, col furto fatto andarono in sul matutino, e a quistion venuti, l'uno, che era più forte, uccise altro e andò via.
La qual cosa avendo Gisippo sentita e veduta, gli parve alla morte molto da lui disiderata, senza uccidersi egli stesso, aver trovata via; e per ciò, senza partirsi, tanto stette che i sergenti della corte, che già il fatto aveva sentito, vi vennero e Gisippo furiosamente ne menarono preso.
Il quale essaminato confessò sé averlo ucciso, né mai poi esser potuto della grotta partirsi; per la qual cosa il pretore, che Marco Varrone era chiamato, comandò che fosse fatto morire in croce, sì come allor s'usava.
Era Tito per ventura in quella ora venuto al pretorio; il quale, guardando nel viso il misero condennato e avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo, e maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse; e ardentissimamente disiderando d'aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua salute se non d'accusar sé e di scusar lui, prestamente si fece avanti e gridò:
- Marco Varrone, richiama il povero uomo il quale tu dannato hai, per ciò che egli è innocente.
Io ho assai con una colpa offesi gl'iddii, uccidendo colui il quale i tuoi sergenti questa mattina morto trovarono, senza volere ora con la morte d'un altro innocente offendergli.
Varrone si maravigliò, e dolfegli che tutto il pretorio l'avesse udito; e non potendo con suo onore ritrarsi di far quello che comandavan le leggi, fece indietro ritornar Gisippo, e in presenzia di Tito gli disse:
- Come fostu sì folle che, senza alcuna pena sentire, tu confessassi quello che tu non facesti giammai, andandone la vita? Tu dicevi che eri colui il quale questa notte avevi ucciso l'uomo, e questi or viene e dice che non tu ma egli l'ha ucciso.
Gisippo guardò e vide che colui era Tito, e assai ben conobbe lui far questo per la sua salute, sì come grato del servigio già ricevuto da lui.
Per che, di pietà piagnendo, disse:
- Varrone, veramente io l'uccisi, e la pietà di Tito alla mia salute è omai troppo tarda.
Tito d'altra parte diceva:
- Pretore, come tu vedi, costui è forestiere, e senza arme fu trovato allato all'ucciso, e veder puoi la sua miseria dargli cagione di voler morire; e per ciò liberalo, e me, che l'ho meritato, punisci.
Maravigliossi Varrone della instanzia di questi due, e già presummeva niuno dovere essere colpevole, e pensando al modo della loro assoluzione, ed ecco venire un giovane, chiamato Publio Ambusto, di perduta speranza e a tutti i Romani notissimo ladrone, il quale veramente l'omicidio aveva commesso; e conoscendo niuno de' due esser colpevole di quello che ciascun s'accusava, tanta fu la tenerezza che nel cuor gli venne per la innocenzia di questi due, che, da grandissima compassion mosso, venne dinanzi a Varrone, e disse:
- Pretore, i miei fati mi traggono a dover solvere la dura quistion di costoro, e non so quale iddio dentro mi stimola e infesta a doverti il mio peccato manifestare; e per ciò sappi niun di costoro esser colpevole di quello che ciascuno sé medesimo accusa.
Io son veramente colui che quello uomo uccisi istamane in sul dì, e questo cattivello che qui è, là vid'io che si dormiva, mentre che io i furti fatti divideva con colui cui io uccisi.
Tito non bisogna che io scusi: la sua fama è chiara per tutto, lui non essere uomo di tal condizione; adunque liberagli, e di me quella pena piglia che le leggi m'impongono.
Aveva già Ottaviano questa cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, udir volle che cagion movesse ciascuno a volere essere il condannato, la quale ciascun narrò.
Ottaviano li due, per ciò che erano innocenti, e il terzo per amor di loro liberò.
Tito, preso il suo Gisippo, e molto prima della sua tiepidezza e diffidenzia ripresolo, gli fece maravigliosa festa, e a casa sua nel menò, là dove Sofronia con pietose lagrime il ricevette come fratello; e ricreatolo alquanto, e rivestitolo e ritornatolo nello abito debito alla sua virtù e gentilezza, primieramente con lui ogni suo tesoro e possessione fece comune, e appresso, una sua sorella giovinetta, chiamata Fulvia, gli diè per moglie; e quindi gli disse:
- Gisippo, a te sta omai o il volere qui appresso di me dimorare, o volerti con ogni cosa che donata t'ho in Acaia tornare.
Gisippo, costrignendolo da una parte l'essilio che aveva della sua città e d'altra l'amore il qual portava debitamente alla grata amistà di Tito, a divenir romano s'accordò.
Dove con la sua Fulvia, e Tito con la sua Sofronia, sempre in una casa gran tempo e lietamente vissero, più ciascun giorno, se più potevano essere, divenendo amici.
Santissima cosa adunque è l'amistà, e non solamente di singular reverenzia degna, ma d'essere con perpetua laude commendata, sì come discretissima madre di magnificenzia e d'onestà, sorella di gratitudine e di carità, e d'odio e d'avarizia nimica, sempre, senza priego aspettar, pronta a quello in altrui virtuosamente operare che in sé vorrebbe che fosse operato.
Li cui sacratissimi effetti oggi radissime volte si veggono in due, colpa e vergogna della misera cupidigia de' mortali, la qual solo alla propria utilità riguardando, ha costei fuor degli estremi termini della terra in essilio perpetuo re legata.
Quale amore, qual ricchezza, qual parentado avrebbe il fervore, le lagrime e'sospiri di Tito con tanta efficacia fatti a Gisippo nel cuor sentire, che egli per ciò la bella sposa gentile e amata da lui avesse fatta divenir di Tito, se non costei? Quali leggi, quali minacce, qual paura le giovanili braccia di Gisippo ne'luoghi solitari, ne'luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere dagli abbracciamenti della vaga giovane, forse talvolta invitatrice, se non costei? Quali stati, qua'meriti, quali avanzi avrebbon fatto Gisippo non curar di perdere i suoi parenti e quei di Sofronia, non curar de' disonesti mormorii del popolazzo, non curar delle beffe e de gli scherni, per sodisfare all'amico, se non costei?
E d'altra parte, chi avrebbe Tito, senza alcuna diliberazione (possendosi egli onestamente infignere di vedere) fatto prontissimo a procurar la propria morte per levar Gisippo dalla croce la quale egli stesso si procacciava, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna dilazione fatto liberalissimo a comunicare il suo ampissimo patrimonio con Gisippo, al quale la fortuna il suo aveva tolto, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna suspizione fatto ferventissimo a concedere la propia sorella per moglie a Gisippo, il quale vedeva poverissimo e in estrema miseria posto, se non costei?
Disiderino adunque gli uomini la moltitudine dei consorti, le turbe de' fratelli, e la gran quantità de' figliuoli, e con gli lor denari il numero de' servidori s'accrescano, e non guardino, qualunque s'è l'uno di questi, ogni minimo suo pericolo più temere, che sollicitudine aver di tor via i grandi del padre o del fratello o del signore, dove tutto il contrario far si vede all'amico.
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Novella Nona
Il Saladino in forma di mercatante è onorato da messer Torello Fassi il passaggio; messer Torello dà un termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso, e per acconciare uccelli viene in notizia del soldano; il quale, riconosciutolo e sé fatto riconoscere, sommamente l'onora; messer Torello inferma, e per arte magica in una notte n'è recato a Pavia, e alle nozze, che della rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto, con lei a casa sua se ne torna.
Aveva alle sue parole già Filomena fatta fine, e la magnifica gratitudine di Tito da tutti parimente era stata commendata molto, quando il re, il deretano luogo riservando a Dioneo, così cominciò a parlare.
Vaghe donne, senza alcun fallo Filomena in ciò che del l'amistà dice racconta 'l vero, e con ragione nel fine delle sue parole si dolfe lei oggi così poco da' mortali esser gradita.
E se noi qui per dover correggere i difetti mondani, o pur per riprendergli, fossimo, io seguiterei con diffuso sermone le sue parole; ma per ciò che altro è il nostro fine, a me è caduto nel animo di dimostrarvi forse con una istoria assai lunga, ma piacevol per tutto, una delle magnificenzie del Saladino, acciò che per le cose che nella mia novella udirete, se pienamente l'amicizia d'alcuno non si può per li nostri vizi acquistare, al meno diletto prendiamo del servire, sperando che, quando che sia, di ciò merito ci debba seguire.
Dico adunque che, secondo che alcuni affermano, al tempo dello imperadore Federigo primo a racquistare la Terra Santa si fece per li cristiani un general passaggio.
La qual cosa il Saladino, valentissimo signore e allora soldano di Babilonia, alquanto dinanzi sentendo, seco propose di volere personalmente vedere gli apparecchiamenti de' signori cristiani a quel passaggio, per meglio poter provvedersi.
E ordinato in Egitto ogni suo fatto, sembiante faccendo d'andare in pellegrinaggio, con due de' suoi maggiori e più savi uomini e con tre famigliari solamente, in forma di mercatante si mise in cammino.
E avendo cerche molte provincie cristiane, e per Lombardia cavalcando per passare oltre a' monti, avvenne che, andando da Melano a Pavia, ed essendo già vespro, si scontrarono in un gentile uomo, il cui nome era messer Torello di Strà da Pavia, il quale con suoi famigliari e con cani e con falconi se n'andava a dimorare ad un suo bel luogo il quale sopra 'l Tesino aveva.
Li quali come messer Torel vide, avvisò che gentili uomini e stranier fossero, e disiderò d'onorargli.
Per che, domandando il Saladino un de' suoi famigliari quanto ancora avesse di quivi a Pavia, e se ad ora giugner potesser d'entrarvi, Torello non lasciò rispondere al famigliare, ma rispose egli:
- Signori, voi non potrete a Pavia pervenire ad ora che dentro possiate entrare.
- Adunque, - disse il Saladino - piacciavi d'insegnarne, per ciò che stranier siamo, dove noi possiamo meglio albergare.
Messer Torello disse:
- Questo farò io volentieri; io era testé in pensiero di mandare un di questi miei infin vicin di Pavia per alcuna cosa; io nel manderò con voi, ed egli vi conducerà in parte dove voi albergherete assai convenevolmente.
E al più discreto de' suoi accostatosi, gl'impose quello che egli avesse a fare, e mandol con loro; ed egli al suo luogo andatosene prestamente, come si potè il meglio fece ordinare una bella cena e metter le tavole in un suo giardino; e questo fatto, sopra la porta se ne venne ad aspettargli.
Il famigliare, ragionando co' gentili uomini di diverse cose, per certe strade gli trasviò, e al luogo del suo signore, senza che essi se n'accorgessero, condotti gli ebbe.
Li quali come messer Torel vide, tutto a piè fattosi loro incontro, ridendo disse:
- Signori, voi siate i molto ben venuti.
Il Saladino, il quale accortissimo era, s'avvide che questo cavaliere aveva dubitato che essi non avesser tenuto lo 'nvito, se quando gli trovò invitati gli avesse; per ciò, acciò che negar non potesser d'esser la sera con lui, con ingegno a casa sua gli aveva condotti; e risposto al suo saluto, disse:
- Messere, se dei cortesi uomini l'uom si potesse ramaricare, noi ci dorremmo di voi, il quale, lasciamo stare del nostro cammino che impedito alquanto avete, ma, senza altro essere stata da noi la vostra benivolenza meritata che d'un sol saluto, a prender sì alta cortesia, come la vostra è, n'avete quasi costretti.
Il cavaliere, savio e ben parlante, disse:
- Signori, questa che voi ricevete da me, a rispetto di quella che vi si converrebbe, per quello che io ne'vostri aspetti comprenda, fia povera cortesia; ma nel vero fuor di Pavia voi non potreste essere stati in luogo alcun che buon fosse; e per ciò non vi sia grave l'avere alquanto la via traversata, per un poco men disagio avere.
E così dicendo, la sua famiglia venuta dattorno a costoro, come smontati furono, i cavalli adagiarono; e messer Torello i tre gentili uomini menò alle camere per loro apparecchiate, dove gli fece scalzare e rinfrescare alquanto con freschissimi vini, e in ragionamenti piacevoli infino all'ora di poter cenare gli ritenne.
Il Saladino e'compagni e'famigliari tutti sapevan latino, per che molto bene intendevano ed erano intesi, e pareva a ciascun di loro che questo cavaliere fosse il più piacevole e 'l più costumato uomo, e quegli che meglio ragionasse che alcun altro che ancora n'avesser veduto.
A messer Torello d'altra parte pareva che costoro fossero magnifichi uomini e da molto più che avanti stimato non avea, per che seco stesso si dolea che di compagnia e di più solenne convito quella sera non gli poteva onorare; laonde egli pensò di volere la seguente mattina ristorare, e informato un de' suoi famigli di ciò che far voleva, alla sua donna, che savissima era e di grandissimo animo, nel mandò a Pavia assai quivi vicina e dove porta alcuna non si serrava.
E appresso questo menati i gentili uomini nel giardino, cortesemente gli domandò chi e'fossero e donde e dove andassero; al quale il Saladino rispose:
- Noi siamo mercatanti cipriani e di Cipri vegniamo, e per nostre bisogne andiamo a Parigi.
Allora disse messer Torello:
- Piacesse a Dio che questa nostra contrada producesse così fatti gentili uomini, chenti io veggio che Cipri fa mercatanti.
E di questi ragionamenti in altri stati alquanto, fu di cenar tempo; per che a loro l'onorarsi alla tavola commise, e quivi, secondo cena sprovveduta, furono assai bene e ordinatamente serviti.
Né guari, dopo le tavole levate, stettero che, avvisandosi messer Torello loro essere stanchi, in bellissimi letti gli mise a riposare, ed esso similmente poco appresso s'andò a dormire.
Il famigliare mandato a Pavia fe'l'ambasciata alla donna, la quale non con feminile animo, ma con reale, fatti prestamente chiamare degli amici e de' servidori di messer Torello assai, ogni cosa opportuna a grandissimo convito fece apparecchiare, e a lume di torchio molti de' più nobili cittadini fece al convito invitare, e fe'torre panni e drappi e vai, e compiutamente mettere in ordine ciò che dal marito l'era stato mandato a dire.
Venuto il giorno, i gentili uomini si levarono, coi quali messer Torello montato a cavallo e fatti venire i suoi falconi, ad un guazzo vicin gli menò, e mostrò loro come essi volassero.
Ma dimandando il Saladin di alcuno che a Pavia e al migliore albergo gli conducesse, disse messer Torello:
- Io sarò desso, per ciò che esser mi vi conviene.
Costoro credendolsi furon contenti, e insieme con lui entrarono in cammino; ed essendo già terza ed essi alla città pervenuti, avvisando d'essere al migliore albergo inviati, con messer Torello alle sue case pervennero, dove già ben cinquanta de' maggiori cittadini eran venuti per ricevere i gentili uomini, a' quali subitamente furon dintorno a' freni e alle staffe.
La qual cosa il Saladino e'compagni veggendo, troppo s'avvisaron ciò che era, e dissono:
- Messer Torello, questo non è ciò che noi v'avam domandato; assai n'avete questa notte passata fatto, e troppo più che noi non vagliamo, per che acconciamente ne potevate lasciare andare al cammin nostro.
A'quali messer Torello rispose:
- Signori, di ciò che iersera vi fu fatto, so io grado alla fortuna più che a voi, la quale ad ora vi colse in cammino che bisogno vi fu di venire alla mia piccola casa; di questo di stamattina sarò io tenuto a voi, e con meco insieme tutti questi gentili uomini che dintorno vi sono, a' quali, se cortesia vi par fare il negar di voler con loro desinare, far lo potete se voi volete.
Il Saladino e'compagni vinti smontarono, e ricevuti da' gentili uomini lietamente furono alle camere menati, le quali ricchissimamente per loro erano apparecchiate; e posti giù gli arnesi da camminare e rinfrescatisi alquanto, nella sala, dove splendidamente era apparecchiato, vennero.
E data l'acqua alle mani e a tavola messi con grandissimo ordine e bello, di molte vivande magnificamente furon serviti, in tanto che, se lo 'mperadore venuto vi fosse, non si sarebbe più potuto fargli d'onore.
E quantunque il Saladino e'compagni fossero gran signori e usi di vedere grandissime cose, nondimeno si maravigliarono essi molto di questa, e lor pareva delle maggiori, avendo rispetto alla qualità del cavaliere, il qual sapevano che era cittadino e non signore.
Finito il mangiare e le tavole levate, avendo alquanto d'alte cose parlato, essendo il caldo grande, come a messer Torel piacque, i gentili uomini di Pavia tutti s'andarono a riposare, ed esso con li suoi tre rimase, e con loro in una camera entratosene, acciò che niuna sua cara cosa rimanesse che essi veduta non avessero, quivi si fece la sua valente donna chiamare.
La quale, essendo bellissima e grande della persona, e di ricchi vestimenti ornata, in mezzo di due suoi figlioletti, che parevano due agnoli, se ne venne davanti a costoro e piacevolmente gli salutò.
Essi vedendola si levarono in piè, e con reverenzia la ricevettono, e fattala sedere fra loro, gran festa fecero de' due belli suoi figlioletti.
Ma poi che con loro in piacevoli ragionamenti entrata fu, essendosi alquanto partito messer Torello, essa piacevolmente donde fossero e dove andassero gli domandò; alla qual i gentili uomini così risposero come a messer Torello avevan fatto.
Allora la donna con lieto viso disse:
- Adunque veggo che il mio feminile avviso sarà utile, e per ciò vi priego, che di spezial grazia mi facciate di non rifiutare né avere a vile quel piccioletto dono il quale io vi farò venire; ma, considerando che le donne secondo il lor piccol cuore piccole cose danno, più al buono animo di chi dà riguardando che alla quantità del dono, il prendiate.
E fattesi venire per ciascuno due paia di robe, l'un foderato di drappo e l'altro di vaio, non miga cittadine né da mercatanti, ma da signore, e tre giubbe di zendalo e pannilini, disse:
- Prendete queste: io ho delle robe il mio signore vestito con voi; l'altre cose, considerando che voi siete alle vostre donne lontani, e la lunghezza del cammin fatto e quel la di quel che è a fare, e che i mercatanti son netti e dilicati uomini, ancor che elle vaglian poco, vi potranno esser care.
I gentili uomini si maravigliarono, e apertamente conobber messer Torello niuna parte di cortesia voler lasciare a far loro, e dubitarono, veggendo la nobiltà delle robe non mercatantesche, di non esser da messer Torello conosciuti; ma pure alla donna rispose l'un di loro:
- Queste son, madonna, grandissime cose e da non dover di leggier pigliare, se i vostri prieghi a ciò non ci strignessero, alli quali dir di no non si puote.
Questo fatto, essendo già messer Torello ritornato, la donna, accomandatigli a Dio, da lor si partì, e di simili cose di ciò, quali a loro si convenieno, fece provvedere a' famigliari.
Messer Torello con molti prieghi impetrò da loro che tutto quel dì dimorasson con lui; per che, poi che dormito ebbero, vestitisi le robe loro, con messer Torello alquanto cavalcar per la città, e l'ora della cena venuta, con molti onorevoli compagni magnificamente cenarono.
E, quando tempo fu, andatisi a riposare, come il giorno venne su si levarono, e trovarono in luogo de' loro ronzini stanchi tre grossi pallafreni e buoni, e similmente nuovi cavalli e forti alli loro famigliari.
La qual cosa veggendo il Saladino, rivolto a' suoi compagni disse:
- Io giuro a Dio, che più compiuto uomo né più corte se né più avveduto di costui non fu mai; e se li re cristiani son così fatti re verso di sé chente costui è cavaliere, al soldano di Babilonia non ha luogo d'aspettare pure un, non che tanti, quanti, per addosso andargliene, veggiam che s'apparecchiano; - ma sappiendo che il rinunziargli non avrebbe luogo, assai cortesemente ringraziandolne, montarono a cavallo.
Messer Torello con molti compagni gran pezza di via gli accompagnò fuor della città; e quantunque al Saladino il partirsi da messer Torello gravasse (tanto già innamorato se n'era), pure, strignendolo l'andata, il pregò che indietro se ne tornasse.
Il quale, quantunque duro gli fosse il partirsi da loro, disse:
- Signori, io il farò poi che vi piace, ma così vi vo' dire: io non so chi voi vi siete, né di saperlo, più che vi piaccia, addomando; ma chi che voi vi siate, che voi siate mercatanti non lascerete voi per credenza a me questa volta; e a Dio vi comando.
Il Saladino, avendo già da tutti i compagni di messer Torello preso commiato, gli rispose dicendo:
- Messere, egli potrà ancora avvenire che noi vi farem vedere di nostra mercatantia, per la quale noi la vostra credenza raffermeremo; e andatevi con Dio.
Partissi adunque il Saladino e'compagni, con grandissimo animo, se vita gli durasse e la guerra la quale aspettava nol disfacesse, di fare ancora non minore onore a messer Torello che egli a lui fatto avesse; e molto e di lui e del la sua donna e di tutte le sue cose e atti e fatti ragionò co' compagni, ogni cosa più commendando.
Ma poi che tutto il Ponente non senza gran fatica ebbe cercato, entrato in mare, co' suoi compagni se ne tornò in Alessandria, e pienamente informato si dispose alla difesa.
Messer Torello se ne tornò in Pavia, e in lungo pensier fu chi questi tre esser potessero, né mai al vero non aggiunse né s'appressò.
Venuto il tempo del passaggio, e faccendosi l'apparecchiamento grande per tutto, messer Torello, non ostante i prieghi della sua donna e le lagrime, si dispose ad andarvi del tutto; e avendo ogni appresto fatto, ed essendo per cavalcare, disse alla sua donna, la quale egli sommamente amava:
- Donna come tu vedi, io vado in questo passaggio sì per onor del corpo e sì per salute dell'anima; io ti raccomando le nostre cose, e 'l nostro onore; e per ciò che io sono dell'andar certo, e del tornare, per mille casi che posson sopravvenire, niuna certezza ho, voglio io che tu mi facci una grazia; che che di me s'avvegna, ove tu non abbi certa novella della mia vita, che tu m'aspetti uno anno e un mese e un dì senza rimaritarti, incominciando da questo dì che io mi parto.
La donna, che forte piagneva, rispose:
- Messer Torello, io non so come io mi comporterò il dolore nel qual, partendovi voi, mi lasciate; ma, dove la mia vita sia più forte di lui e altro di voi avvenisse, vivete e morite sicuro che io viverò e morrò moglie di messer Torello e della sua memoria.
Alla qual messer Torello disse:
- Donna, certissimo sono, che, quanto in te sarà, che questo che tu mi prometti avverrà; ma tu se'giovane donna, e se'bella e se'di gran parentado, e la tua virtù è molta ed è conosciuta per tutto; per la qual cosa io non dubito che molti grandi e gentili uomini, se niente di me si suspicherà, non ti domandino a' tuoi fratelli e a' parenti; dagli stimoli de' quali, quantunque tu vogli, non ti potrai difendere, e per forza ti converrà compiacere a' voler loro; e questa è la cagion per la quale io questo termine, e non maggiore, ti dimando.
La donna disse:
- Io farò ciò che io potrò di quello che detto v'ho; e quando pure altro far mi convenisse, io v'ubidirò, di questo che m'imponete, certamente.
Priego io Iddio che a così fatti termini né voi né me rechi a questi tempi.
Finite le parole, la donna piagnendo abbracciò messer Torello, e trattosi di dito un anello, gliele diede dicendo:
- Se egli avviene che io muoia prima che io vi rivegga, ricordivi di me quando il vedrete.
Ed egli presolo montò a cavallo, e detto ad ogn'uomo addio, andò a suo viaggio; e pervenuto a Genova con sua compagnia, montato in galea andò via, e in poco tempo per venne ad Acri, e con l'altro essercito de' cristiani si congiunse.
Nel quale quasi a mano a man cominciò una grandissima infermeria e mortalità; la qual durante, qual che si fosse l'arte o la fortuna del Saladino, quasi tutto il rimaso degli scampati cristiani da lui a man salva fur presi, e per molte città divisi e imprigionati; fra'quali presi messer Torello fu uno, e in Alessandria menato in prigione.
Dove non essendo conosciuto e temendo esso di farsi conoscere, da necessità costretto si diede a conciare uccelli, di che egli era grandissimo maestro, e per questo a notizia venne del Saladino: laonde egli di prigione il trasse, e ritennelo per suo falconiere.
Messer Torello, che per altro nome che il Cristiano dal Saladino non era chiamato, il quale egli non riconosceva né il soldano lui, solamente in Pavia l'animo avea e più volte di fuggirsi aveva tentato, né gli era venuto fatto; per che esso, venuti certi genovesi per ambasciadori al Saladino per la ricompera di certi lor cittadini, e dovendosi partire, pensò di scrivere alla donna sua come egli era vivo e a lei come più tosto potesse tornerebbe, e che ella l'attendesse; e così fece; e caramente pregò un degli ambasciadori che conoscea, che facesse che quelle alle mani dell'abate di San Pietro in Ciel d'oro, il qual suo zio era, pervenissero.
E in questi termini stando messer Torello, avvenne un giorno che, ragionando con lui il Saladino di suoi uccelli, messer Torello cominciò a sorridere e fece uno atto con la bocca, il quale il Saladino, essendo a casa sua a Pavia, aveva molto notato.
Per lo quale atto al Saladino tornò alla mente messer Torello, e cominciò fiso a riguardallo e parvegli desso; per che, lasciato il primo ragionamento, disse:
- Dimmi, Cristiano, di che paese se'tu di Ponente?
- Signor mio, - disse messer Torello - io sono lombardo, d'una città chiamata Pavia, povero uomo e di bassa condizione.
Come il Saladino udì questo, quasi certo di quello che dubitava, fra sé lieto disse: - Dato m'ha Iddio tempo di mostrare a costui quanto mi fosse a grado la sua cortesia; - e senza altro dire, fattisi tutti i suoi vestimenti in una camera acconciare, vel menò dentro e disse:
- Guarda, Cristiano, se tra queste robe n'è alcuna che tu vedessi giammai.
Messer Torello cominciò a guardare, e vide quelle che al Saladino aveva la sua donna donate, ma non estimò dover potere essere che desse fossero, ma tuttavia rispose:
- Signor mio, niuna ce ne conosco; è ben vero, che quelle due somiglian robe di che io già con tre mercatanti, che a casa mia capitarono, vestito ne fui.
Allora il Saladino, più non potendo tenersi, teneramente l'abbracciò, dicendo:
- Voi siete messer Torel di Strà, e io sono l'uno de' tre mercatanti a' quali la donna vostra donò queste robe; e ora è venuto il tempo di far certa la vostra credenza qual sia la mia mercatantia, come nel partirmi da voi dissi che potrebbe avvenire.
Messer Torello questo udendo, cominciò ad esser lietissimo e a vergognarsi; ad esser lieto d'avere avuto così fatto oste; a vergognarsi che poveramente gliele pareva aver ricevuto.
A cui il Saladin disse:
- Messer Torello, poi che Iddio qui mandato mi v'ha, pensate che non io oramai, ma voi qui siate il signore.
E fattasi la festa insieme grande, di reali vestimenti il fe'vestire, e nel cospetto menatolo di tutti i suoi maggiori baroni, e molte cose in laude del suo valor dette, comandò che da ciascun che la sua grazia avesse cara, così onorato fosse come la sua persona.
Il che da quindi innanzi ciascun fece, ma molto più che gli altri i due signori li quali compagni erano stati del Saladino in casa sua.
L'altezza della subita gloria, nella qual messer Torel si vide, alquanto le cose di Lombardia gli trassero della mente, e massimamente per ciò che sperava fermamente le sue lettere dovere essere al zio pervenute.
Era nel campo ovvero essercito de' cristiani, il dì che dal Saladino furon presi, morto e sepellito un cavalier provenzale di piccol valore, il cui nome era messer Torello di Dignes; per la qual cosa, essendo messer Torello di Strà - per la sua nobiltà per lo essercito conosciuto, chiunque udir dir: - messer Torello è morto, - credette di messer Torel di Strà, e non di quel di Dignes; e il caso, che sopravvenne, della presura, non lasciò sgannar gl'ingannati; per che molti italici tornarono con questa novella, tra'quali furono de' sì presuntuosi che ardiron di dire sé averlo veduto morto ed essere stati alla sepoltura.
La qual cosa saputa dalla donna e da' parenti di lui fu di grandissima e inestimabile doglia cagione, non solamente a loro, ma a ciascuno che conosciuto l'avea.
Lungo sarebbe a mostrare qual fosse e quanto il dolore e la tristizia e 'pianto della sua donna, la quale dopo al quanti mesi che con tribulazion continua doluta s'era e a men dolersi avea cominciato, essendo ella da' maggiori uomini di Lombardia domandata, da' fratelli e dagli altri suoi parenti fu cominciata a sollicitare di rimaritarsi.
Il che ella molte volte e con grandissimo pianto avendo negato, costretta, alla fine le convenne far quello che vollero i suoi parenti, con questa condizione che ella dovesse stare senza a marito andarne tanto quanto ella aveva promesso a messer Torello.
Mentre in Pavia eran le cose della donna in questi termini, e già forse otto dì al termine del doverne ella andare a marito eran vicini, avvenne che messer Torello in Alessandria vide un dì uno, il qual veduto avea con gli ambasciadori genovesi montar sopra la galea che a Genova ne venia; per che, fattolsi chiamare, il domandò che viaggio avuto avessero, e quando a Genova fosser giunti.
Al quale costui disse:
- Signor mio, malvagio viaggio fece la galea, sì come in Creti sentii, là dove io rimasi; per ciò che, essendo ella vicina di Cicilia, si levò una tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la percosse, né ne scampò testa, e intra gli altri, due miei fratelli vi perirono.
Messer Torello, dando alle parole di costui fede, che eran verissime, e ricordandosi che il termine ivi a pochi dì finiva da lui domandato alla donna, e avvisando niuna cosa di suo stato doversi sapere a Pavia, ebbe per constante la donna dovere essere rimaritata; di che egli in tanto dolor cadde, che, perdutone il mangiare e a giacer postosi, diliberò di morire.
La qual cosa come il Saladin sentì, che sommamente l'amava, venne da lui; e dopo molti prieghi e grandi fattigli, saputa la cagion del suo dolore e della sua infermità, il biasimò molto che avanti non gliele aveva detto, e appresso il pregò che si confortasse, affermandogli che, dove questo facesse, egli adopererebbe sì che egli sarebbe in Pavia al termine dato, e dissegli come.
Messer Torello, dando fede alle parole del Saladino, e avendo molte volte udito dire che ciò era possibile e fatto s'era assai volte, si 'ncominciò a confortare, e a sollicitare il Saladino che di ciò si diliberasse.
Il Saladino ad un suo nigromante, la cui arte già espermentata aveva, impose che egli vedesse via come messer Torello sopra un letto in una notte fosse portato a Pavia; a cui il nigromante rispose che ciò saria fatto, ma che egli per ben di lui il facesse dormire.
Ordinato questo, tornò il Saladino a messer Torello, e trovandol del tutto disposto a volere pure essere in Pavia al termine dato, se esser potesse, e se non potesse, a voler morire, gli disse così:
- Messer Torello, se voi affettuosamente amate la donna vostra e che ella d'altrui non divegna dubitate, sallo Iddio che io in parte alcuna non ve ne so riprendere, per ciò che di quante donne mi parve veder mai ella è colei li cui costumi, le cui maniere e il cui abito, lasciamo star la bellezza che è fior caduco, più mi paion da commendare e da aver care.
Sarebbemi stato carissimo, poi che la fortuna qui v'aveva mandato, che quel tempo che voi e io viver dobbiamo, nel governo del regno che io tengo, parimente signori vivuti fossimo insieme; e se questo pur non mi dovea esser conceduto da Dio, dovendovi questo cader nell'animo, o di morire o di ritrovarvi al termine posto in Pavia, sommamente avrei disiderato d'averlo saputo a tempo, che io con quello onore, con quella grandezza, con quella compagnia che la vostra virtù merita, v'avessi fatto porre a casa vostra; il che poi che conceduto non m'è, e voi pur disiderate d'esser là di presente, come io posso, nella forma che detta v'ho, ve ne manderò.
Al qual messer Torello disse:
- Signor mio, senza le vostre parole m'hanno gli effetti assai dimostrato della vostra benivolenzia, la qual mai da me in sì supremo grado non fu meritata, e di ciò che voi dite, eziandio non dicendolo, vivo e morrò certissimo; ma poi che così preso ho per partito, io vi priego che quello che mi dite di fare si faccia tosto, per ciò che domane è l'ultimo dì che io debbo essere aspettato.
Il Saladino disse che ciò senza fallo era fornito; e il seguente dì, attendendo di mandarlo via la veniente notte, fece il Saladin fare in una gran sala un bellissimo e ricco letto di materassi, secondo la loro usanza, tutti di velluti e di drappi ad oro, e fecevi por suso una coltre lavorata a certi compassi di perle grossissime e di carissime pietre preziose, la qual fu poi di qua stimata infinito tesoro, e due guanciali quali a così fatto letto si richiedeano.
E questo fatto, comandò che a messer Torello, il quale era già forte, fosse messa in dosso una roba alla guisa saracinesca, la più ricca e la più bella cosa che mai fosse stata veduta per alcuno, e in testa alla lor guisa gli fece una del le sue lunghissime bende ravvolgere.
Ed essendo già l'ora tarda, il Saladino con molti de' suoi baroni nella camera là dove messer Torello era, se n'andò, e postoglisi a sedere allato, quasi lagrimando a dir cominciò:
- Messer Torello, l'ora che da voi divider mi dee s'appressa, e per ciò che io non posso né accompagnarvi né far vi accompagnare, per la qualità del cammino che a fare ave te che nol sostiene, qui in camera da voi mi convien prender commiato, al qual prendere venuto sono.
E per ciò, prima che io a Dio v'accomandi, vi priego per quello amore e per quella amistà, la qual è tra noi, che di me vi ricordi; e, se possibile è, anzi che i nostri tempi finiscano, che voi, avendo in ordine poste le vostre cose di Lombardia, una volta almeno a veder mi vegniate, acciò che io possa in quella, essendomi d'avervi veduto rallegrato, quel difetto supplire che ora per la vostra fretta mi convien commettere; e infino che questo avvenga, non vi sia grave visitarmi con lettere, e di quelle cose che vi piaceranno richiedermi, che più volentier per voi che per alcuno uom che viva le farò certamente.
Messer Torello non potè le lagrime ritenere, e per ciò da quelle impedito, con poche parole rispose impossibil dover essere che mai i suoi benefici e il suo valore di mente gli uscissero, e che senza fallo quello che egli gli domandava farebbe, dove tempo gli fosse prestato.
Per che il Sa ladino, teneramente abbracciatolo e baciatolo, con molte lagrime gli disse: - Andate con Dio; - e della camera s'uscì, e gli altri baroni appresso tutti da lui s'accomiatarono, e col Saladino in quella sala ne vennero, là dove egli avea fatto il letto acconciare.
Ma, essendo già tardi e il nigromante aspettando lo spaccio e affrettandolo, venne un medico con un beveraggio, e fattogli vedere che per fortificamento di lui gliele dava, gliel fece bere; né stette guari che addormentato fu.
E così dormendo fu portato per comandamento del Saladino in su il bel letto, sopra il quale esso una grande e bella corona pose di gran valore, e sì la segnò, che apertamente fu poi compreso quella dal Saladino alla donna di messer Torello esser mandata.
Appresso mise in dito a messer Torello uno anello, nel quale era legato un carbunculo, tanto lucente che un torchio acceso pareva, il valor del quale appena si poteva stimare; quindi gli fece una spada cignere, il cui guernimento non si saria di leggieri apprezzato; e oltre a questo un fermaglio gli fe'davanti appiccare, nel qual erano perle mai simili non vedute, con altre care pietre assai; e poi da ciascun de' lati di lui due grandissimi bacin d'oro pieni di doble fe'porre, e molte reti di perle e anella e cinture e altre cose, le quali lungo sarebbe a raccontare, gli fece metter da torno.
E questo fatto, da capo baciò messer Torello, e al nigromante disse che si spedisse; per che incontanente in presenzia del Saladino il letto con tutto messer Torello fu tolto via, e il Saladino co' suoi baroni di lui ragionando si rimase.
Era già nella chiesa di San Piero in Ciel d'oro di Pavia, sì come dimandato avea, stato posato messer Torello con tutti i sopradetti gioielli e ornamenti, e ancor si dormiva, quando, sonato già il matutino, il sagrestano nella chiesa entrò con un lume in mano, e occorsogli subitamente di vedere il ricco letto, non solamente si maravigliò, ma, avuta grandissima paura, indietro fuggendo si tornò; il quale l'abate e'monaci veggendo fuggire, si maravigliarono e domandarono della cagione.
Il monaco la disse.
- Oh, - disse l'abate e sì non se'tu oggimai fanciullo né se'in questa chiesa nuovo, che tu così leggermente spaventar ti debbi; ora andiam noi, veggiamo chi t'ha fatto baco.
Accesi adunque più lumi, l'abate con tutti i suoi monaci nella chiesa entrati videro questo letto così maraviglioso e ricco, e sopra quello il cavalier che dormiva; e mentre dubitosi e timidi, senza punto al letto accostarsi, le nobili gioie riguardavano, avvenne che, essendo la virtù del beveraggio consumata, che messer Torello destatosi gittò un gran sospiro.
Li monaci come questo videro, e l'abate con loro, spaventati e gridando: - Domine aiutaci, - tutti fuggirono.
Messer Torello, aperti gli occhi e dattorno guatatosi, conobbe manifestamente sé essere là dove al Saladino domandato avea, di che forte fu seco contento; per che, a seder levatosi e partitamente guardando ciò che dattorno avea, quantunque prima avesse la magnificenzia del Saladin conosciuta, ora gli parve maggiore e più la conobbe.
Non per tanto, senza altramenti mutarsi, sentendo i monaci fuggire e avvisatosi il perché, cominciò per nome a chiamar l'abate e a pregarlo che egli non dubitasse, per ciò che egli era Torel suo nepote.
L'abate, udendo questo, divenne più pauroso, come co lui che per morto l'avea di molti mesi innanzi; ma dopo alquanto, da veri argomenti rassicurato, sentendosi pur chiamare, fattosi il segno della santa croce, andò a lui.
Al quale messer Torel disse:
- O padre mio, di che dubitate voi? Io son vivo, la Dio mercé, e qui d'oltre mar ritornato.
L'abate, con tutto che egli avesse la barba grande e in abito arabesco fosse, pure dopo alquanto il raffigurò e, rassicuratosi tutto, il prese per la mano e disse: - Figliuol mio, tu sii il ben tornato; - e seguitò: - Tu non ti dei maravigliare della nostra paura, per ciò che in questa terra non ha uomo che non creda fermamente che tu morto sii, tanto che io ti so dire che madonna Adalieta tua moglie, vinta dai prieghi e dalle minacce de' parenti suoi, e contro a suo volere, è rimaritata, e questa mattina ne dee ire al nuovo marito, e le nozze e ciò che a festa bisogno fa è apparecchiato.
Messer Torello, levatosi d'in su il ricco letto e fatta all'abate e a' monaci maravigliosa festa, ognun pregò che di questa sua tornata con alcun non parlasse, infino a tanto che egli non avesse una sua bisogna fornita.
Appresso questo, fatto le ricche gioie porre in salvo, ciò che avvenuto gli fosse infino a quel punto raccontò all'abate.
L'abate, lieto delle sue fortune, con lui insieme rendè grazie a Dio.
Appresso questo domandò messer Torel l'abate, chi fosse il nuovo marito della sua donna.
L'abate gliele disse.
A cui messer Torel disse:
- Avanti che di mia tornata si sappia, io intendo di veder che contenenza sia quella di mia mogliere in queste nozze; e per ciò, quantunque usanza non sia le persone religiose andare a così fatti conviti, io voglio che per amor di me voi ordiniate che noi v'andiamo.
L'abate rispose che volentieri; e come giorno fu fatto, mandò al nuovo sposo dicendo che con un compagno voleva essere alle sue nozze; a cui il gentile uomo rispose che molto gli piaceva.
Venuta dunque l'ora del mangiare, messer Torello, in quello abito che era, con lo abate se n'andò alla casa del novello sposo, con maraviglia guatato da chiunque il vedeva, ma riconosciuto da nullo; e l'abate a tutti diceva lui essere un saracino mandato dal soldano al re di Francia ambasciadore.
Fu adunque messer Torel messo ad una tavola appunto rimpetto alla donna sua, la quale egli con grandissimo piacer riguardava, e nel viso gli pareva turbata di queste nozze.
Ella similmente alcuna volta guardava lui; non già per conoscenza alcuna che ella n'avesse, ché la barba grande e lo strano abito e la ferma credenza che ella aveva che fosse morto, gliele toglievano, ma per la novità dell'abito.
Ma poi che tempo parve a messer Torello di volerla tentare se di lui si ricordasse, recatosi in mano l'anello che dalla donna nella sua partita gli era stato donato, si fece chiamare un giovinetto che davanti a lei serviva, e dissegli:
- Di'da mia parte alla nuova sposa, che nelle mie contrade s'usa quando alcun forestiere, come io son qui, mangia al convito d'alcuna sposa nuova, come ella è, in segno d'aver caro che egli venuto vi sia a mangiare, ella la coppa con la quale bee gli manda piena di vino, con la quale, poi che il forestiere ha bevuto quello che gli piace, ricoperchiata la coppa, la sposa bee il rimanente.
Il giovinetto fe'l'ambasciata alla donna, la quale, sì come costumata e savia, credendo costui essere un gran barbassoro, per mostrare d'avere a grado la sua venuta, una gran coppa dorata, la qual davanti avea, comandò che lavata fosse ed empiuta di vino e portata al gentile uomo, e così fu fatto.
Messer Torello, avendosi l'anello di lei messo in bocca, sì fece che bevendo il lasciò cadere nella coppa, senza avvedersene alcuno, e poco vino lasciatovi, quella ricoperchiò e mandò alla donna.
La quale presala, acciò che l'usanza di lui compiesse, scoperchiatala, se la mise a bocca e vide l'anello, e senza dire alcuna cosa alquanto il riguardò; e riconosciuto che egli era quello che dato avea nel suo partire a messer Torello, presolo e fiso guardato colui il qual forestiere credeva, e già conoscendolo, quasi furiosa divenuta fosse, gittata in terra la tavola che davanti aveva, gridò:
- Questi è il mio signore; questi veramente è messer Torello.
E corsa alla tavola alla quale esso sedeva, senza aver riguardo a' suoi drappi o a cosa che sopra la tavola fosse, gittatasi oltre quanto potè, l'abbracciò strettamente, né mai dal suo collo fu potuta, per detto o per fatto d'alcuno che quivi fosse, levare, infino a tanto che per messer Torello non le fu detto che alquanto sopra sé stesse, per ciò che tempo da abbracciarlo le sarebbe ancor prestato assai.
Allora ella dirizzatasi, essendo già le nozze tutte turbate, e in parte più liete che mai per lo racquisto d'un così fatto cavaliere, pregandone egli, ogni uomo stette cheto; per che messer Torello dal dì della sua partita infino a quel punto ciò che avvenuto gli era a tutti narrò, conchiudendo che al gentile uomo, il quale, lui morto credendo, aveva la sua donna per moglie presa, se egli essendo vivo la si ritoglieva, non doveva spiacere.
Il nuovo sposo, quantunque alquanto scornato fosse, liberamente e come amico rispose che delle sue cose era nel suo volere quel farne che più gli piacesse.
La donna e l'anella e la corona avute dal nuovo sposo quivi lasciò, e quello che della coppa aveva tratto si mise, e similmente la corona mandatale dal soldano; e usciti della casa dove erano, con tutta la pompa delle nozze infino alla casa di messer Torel se n'andarono; e quivi gli sconsolati amici e parenti e tutti i cittadini, che quasi per un miracolo il riguardavano, con lunga e lieta festa racconsolarono.
Messer Torello, fatta delle sue care gioie parte a colui che avute avea le spese delle nozze e all'abate e a molti altri, e per più d'un messo significata la sua felice repatriazione al Saladino, suo amico e suo servidore ritenendosi, più anni con la sua valente donna poi visse, più cortesia usando che mai.
Cotale adunque fu il fin delle noie di messer Torello e di quelle della sua cara donna, e il guiderdone delle lor liete e preste cortesie.
Le quali molti si sforzano di fare, che, benché abbian di che, sì mal far le sanno, che prima le fanno assai più comperar che non vagliono, che fatte l'abbiano, per che, se loro merito non ne segue, né essi né altri maravigliar se ne dee.
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Novella Decima
Il marchese di Saluzzo, da' prieghi de' suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo modo, piglia una figliuola d'un villano, della quale ha due figlioli, li quali le fa veduto di uccidergli.
Poi, mostrando lei essergli rincresciuta e avere altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se sua moglie fosse, lei avendo in camicia cacciata e ad ogni cosa trovandola paziente, più cara che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli grandi le mostra, e come marchesana l'onora e fa onorare.
Finita la lunga novella del re, molto a tutti nel sembiante piaciuta, Dioneo ridendo disse:
- Il buono uomo che aspettava la seguente notte di fare abbassare la coda ritta della fantasima, avrebbe dati men di due denari di tutte le lode che voi date a messer Torello; - e appresso, sappiendo che a lui solo restava il dire, incominciò.
Mansuete mie donne, per quel che mi paia, questo dì d'oggi è stato dato a re e a soldani e a così fatta gente; e per ciò, acciò che io troppo da voi non mi scosti, vo'ragionar d'un marchese, non cosa magnifica, ma una matta bestialità, come che bene ne gli seguisse alla fine.
La quale io non consiglio alcun che segua, per ciò che gran peccato fu che a costui ben n'avvenisse.
Già è gran tempo, fu tra'marchesi di Saluzzo il maggior della casa un giovane chiamato Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, né di prender moglie né d'aver figliuoli alcun pensiere avea, di che egli era da reputar molto savio.
La qual cosa a' suoi uomini non piacendo, più volte il pregarono che moglie prendesse, acciò che egli senza erede né essi senza signor rimanessero, offerendosi di trovargliele tale e di sì fatto padre e madre discesa, che buona speranza se ne potrebbe avere, ed esso contentarsene molto.
A'quali Gualtieri rispose:
- Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co' suoi costumi ben si convenga, e quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé conveniente s'abbatte.
E il dire che voi vi crediate a' costumi de' padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che mi piacerà, è una sciocchezza; con ciò sia cosa che io non sappia dove i padri possiate conoscere, né come i segreti delle madri di quelle; quantunque, pur conoscendoli, sieno spesse volte le figliuole a' padri e alle madri dissimili.
Ma poi che pure in queste catene vi piace d'annodarmi, e io voglio esser contento; e acciò che io non abbia da dolermi d'altrui che di me, se mal venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi che, cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete con gran vostro danno quanto grave mi sia l'aver contra mia voglia presa mogliere a' vostri prieghi.
I valenti uomini risposon ch'eran contenti, sol che esso si recasse a prender moglie.
Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i costumi d'una povera giovinetta che d'una villa vicina a casa sua era, e parendogli bella assai, estimò che con costei dovesse aver vita assai consolata; e per ciò, senza più avanti cercare, costei propose di volere sposare; e fattosi il padre chiamare, con lui, che poverissimo era, si convenne di torla per moglie.
Fatto questo, fece Gualtieri tutti i suoi amici della contrada adunare, e disse loro:
- Amici miei, egli v'è piaciuto e piace che io mi disponga a tor moglie, e io mi vi son disposto più per compiacere a voi che per disiderio che io di moglie avessi.
Voi sapete quello che voi mi prometteste, cioè d'esser contenti e d'onorar come donna qualunque quella fosse che io togliessi; e per ciò venuto è il tempo che io sono per servare a voi la promessa, e che io voglio che voi a me la serviate.
Io ho trovata una giovane secondo il cuor mio, assai presso di qui, la quale io intendo di tor per moglie e di menarlami fra qui a pochi dì a casa; e per ciò pensate come la festa delle nozze sia bella, e come voi onorevolmente ricever la possiate, acciò che io mi possa della vostra promession chiamar contento, come voi della mia vi potrete chiamare.
I buoni uomini lieti tutti risposero ciò piacer loro, e che, fosse chi volesse, essi l'avrebber per donna e onorerebbonla in tutte cose sì come donna.
Appresso questo, tutti si misero in assetto di far bella e grande e lieta festa, e il simigliante fece Gualtieri.
Egli fece preparare le nozze grandissime e belle, e invitarvi molti suoi amici e parenti e gran gentili uomini e altri dattorno; e oltre a questo fece tagliare e far più robe belle e ricche al dosso d'una giovane, la quale della persona gli pareva che la giovinetta la quale avea proposto di sposare; e oltre a questo apparecchiò cinture e anella e una ricca e bella corona, e tutto ciò che a novella sposa si richiedea.
E venuto il dì che alle nozze predetto avea, Gualtieri in su la mezza terza montò a cavallo, e ciascuno altro che ad onorarlo era venuto; e ogni cosa opportuna avendo disposta, disse:
- Signori, tempo è d'andare per la novella sposa; - e messosi in via con tutta la compagnia sua pervennero alla villetta.
E giunti a casa del padre della fanciulla, e lei trovata che con acqua tornava dalla fonte in gran fretta, per andar poi con altre femine a veder venire la sposa di Gualtieri, la quale come Gualtieri vide, chiamatala per nome, cioè Griselda, domandò dove il padre fosse; al quale ella vergognosamente rispose:
- Signor mio, egli è in casa.
Allora Gualtieri smontato e comandato ad ogn'uomo che l'aspettasse, solo se n'entrò nella povera casa, dove trovò il padre di lei che aveva nome Giannucole, e dissegli:
- Io son venuto a sposar la Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenzia; - e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie, s'ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non turbarsi, e s'ella sarebbe obbediente, e simili altre cose assai, delle quali ella a tutte rispose del sì.
Allora Gualtieri, presala per mano, la menò fuori, e in presenzia di tutta la sua compagnia e d'ogni altra persona la fece spogliare ignuda, e fattisi quegli vestimenti venire che fatti aveva fare, prestamente la fece vestire e calzare, e sopra i suoi capegli così scarmigliati com'egli erano le fece mettere una corona, e appresso questo, maravigliandosi ogn'uomo di questa cosa, disse:
- Signori, costei è colei la quale io intendo che mia moglie sia, dove ella me voglia per marito; - e poi a lei rivolto, che di sé medesima vergognosa e sospesa stava, le disse: - Griselda, vuo'mi tu per tuo marito?
A cui ella rispose:
- Signor mio, sì.
Ed egli disse:
- E io voglio te per mia moglie; - e in presenza di tutti la sposò.
E fattala sopra un pallafren montare, onorevolmente accompagnata a casa la si menò.
Quivi furon le nozze belle e grandi e la festa non altramenti che se presa avesse la figliuola del re di Francia.
La giovane sposa parve che co' vestimenti insieme l'animo e i costumi mutasse.
Ella era, come già dicemmo, di persona e di viso bella, e così come bella era, divenne tanto avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata, che non figliuola di Giannucole e guardiana di pecore pareva stata, ma d'alcun nobile signore; di che ella faceva maravigliare ogn'uom che prima conosciuta l'avea.
E oltre a questo era tanto obbediente al marito e tanto servente, che egli si teneva il più contento e il più appagato uomo del mondo; e similmente verso i sudditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna, che niun ve n'era che più che sé non l'amasse e che non l'onorasse di grado, tutti per lo suo bene e per lo suo stato e per lo suo essaltamento pregando; dicendo, dove dir solieno Gualtieri aver fatto come poco savio d'averla per moglie presa, che egli era il più savio e il più avveduto uomo che al mondo fosse; per ciò che niun altro che egli avrebbe mai potuto conoscere l'alta virtù di costei nascosa sotto i poveri panni e sotto l'abito villesco.
E in brieve non solamente nel suo marchesato, ma per tutto, anzi che gran tempo fosse passato, seppe ella sì fare che ella fece ragionare del suo valore e del suo bene adoperare, e in contrario rivolgere, se alcuna cosa detta s'era contra 'l marito per lei quando sposata l'avea.
Ella non fu guari con Gualtieri dimorata, che ella ingravidò, e al tempo partorì una fanciulla, di che Gualtieri fece gran festa.
Ma poco appresso, entratogli un nuovo pensier nell'animo, cioè di volere con lunga esperienzia e con cose intollerabili provare la pazienzia di lei, primieramente la punse con parole, mostrandosi turbato e dicendo che i suoi uomini pessimamente si contentavano di lei per la sua bassa condizione, e spezialmente poi che vedevano che ella portava figliuoli; e della figliuola che nata era tristissimi, altro che mormorar non facevano.
Le quali parole udendo la donna, senza mutar viso o buon proponimento in alcuno atto, disse:
- Signor mio, fa di me quello che tu credi che più tuo onore e consolazion sia, ché io sarò di tutto contenta, sì come colei che conosco che io sono da men di loro, e che io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi recasti.
Questa risposta fu molto cara a Gualtieri, conoscendo costei non essere in alcuna superbia levata, per onor che egli o altri fatto l'avesse.
Poco tempo appresso, avendo con parole generali detto alla moglie che i sudditi non potevan patir quella fanciulla di lei nata, informato un suo famigliare, il mandò a lei, il quale con assai dolente viso le disse:
- Madonna, se io non voglio morire, a me conviene far quello che il mio signor mi comanda.
Egli m'ha comandato che io prenda questa vostra figliuola e ch'io...
- e non disse più.
La donna, udendo le parole e vedendo il viso del famigliare, e delle parole dette ricordandosi, comprese che a costui fosse imposto che egli l'uccidesse; per che prestamente presala della culla e baciatala e benedettala, come che gran noia nel cuor sentisse, senza mutar viso in braccio la pose al famigliare e dissegli:
- Te': fa compiutamente quello che il tuo e mio signore t'ha imposto; ma non la lasciar per modo che le bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse.
Il famigliare, presa la fanciulla, e fatto a Gualtieri sentire ciò che detto aveva la donna, maravigliandosi egli della sua costanzia, lui con essa ne mandò a Bologna ad una sua parente, pregandola che, senza mai dire cui figliuola si fosse, diligentemente l'allevasse e costumasse.
Sopravenne appresso che la donna da capo ingravidò, e al tempo debito partorì un figliuol maschio, il che carissimo fu a Gualtieri; ma, non bastandogli quello che fatto avea, con maggior puntura trafisse la donna, e con sembiante turbato un dì le disse:
- Donna, poscia che tu questo figliuol maschio facesti, per niuna guisa con questi miei viver son potuto, sì duramente si ramaricano che uno nepote di Giannucole dopo me debba rimaner lor signore; di che io mi dotto, se io non ci vorrò esser cacciato, che non mi convenga far di quello che io altra volta feci, e alla fine lasciar te e prendere un'altra moglie.
La donna con paziente animo l'ascoltò, né altro rispose se non:
- Signor mio, pensa di contentar te e di sodisfare al piacer tuo, e di me non avere pensiere alcuno, per ciò che niuna cosa m'è cara se non quant'io la veggo a te piacere.
Dopo non molti dì Gualtieri, in quella medesima maniera che mandato avea per la figliuola, mandò per lo figliuolo, e similmente dimostrato d'averlo fatto uccidere, a nutricar nel mandò a Bologna, come la fanciulla aveva mandata; della qual cosa la donna né altro viso né altre parole fece che della fanciulla fatto avesse; di che Gualtieri si maravigliava forte e seco stesso affermava niun'altra femina questo poter fare che ella faceva; e se non fosse che carnalissima de' figliuoli, mentre gli piacea, la vedea, lei avrebbe creduto ciò fare per più non curarsene, dove come savia lei farlo cognobbe.
I sudditi suoi, credendo che egli uccidere avesse fatti i figliuoli, il biasimavan forte e reputavanlo crudele uomo, e alla donna avevan grandissima compassione; la quale con le donne, le quali con lei de' figliuoli così morti si condoleano, mai altro non disse se non che quello ne piaceva a lei che a colui che generati gli avea.
Ma, essendo più anni passati dopo la natività della fanciulla, parendo tempo a Gualtieri di fare l'ultima pruova della sofferenza di costei, con molti de' suoi disse che per niuna guisa più sofferir poteva d'aver per moglie Griselda e che egli cognosceva che male e giovenilmente aveva fatto quando l'aveva presa, e per ciò a suo poter voleva procacciar col papa che con lui dispensasse che un'altra donna prender potesse e lasciar Griselda; di che egli da assai buoni uomini fu molto ripreso.
A che null'altro rispose, se non che convenia che così fosse.
La donna, sentendo queste cose e parendole dovere sperare di ritornare a casa del padre e forse a guardar le pecore come altra volta aveva fatto e vedere ad un'altra donna tener colui al quale ella voleva tutto il suo bene, forte in sé medesima si dolea; ma pur, come l'altre ingiurie della fortuna avea sostenute, così con fermo viso si dispose a questa dover sostenere.
Non dopo molto tempo Gualtieri fece venire sue lettere contraffatte da Roma, e fece veduto a' suoi sudditi il papa per quelle aver seco dispensato di poter torre altra moglie e lasciar Griselda.
Per che, fattalasi venir dinanzi, in presenza di molti le disse:
- Donna, per concession fattami dal papa, io posso altra donna pigliare e lasciar te; e per ciò che i miei passati sono stati gran gentili uomini e signori di queste contrade, dove i tuoi stati son sempre lavoratori, io intendo che tu più mia moglie non sia, ma che tu a casa Giannucole te ne torni con la dote che tu mi recasti, e io poi un'altra, che trovata n'ho convenevole a me, ce ne menerò.
La donna, udendo queste parole, non senza grandissima fatica, oltre alla natura delle femine, ritenne le lagrime, e rispose:
- Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra nobilità in alcun modo non convenirsi, e quello che io stata son con voi, da Dio e da voi il riconoscea, né mai, come donatolmi, mio il feci o tenni, ma sempre l'ebbi come prestatomi; piacevi di rivolerlo, e a me dee piacere e piace di renderlovi; ecco il vostro anello col quale voi mi sposaste, prendetelo.
Comandatemi che io quella dote me ne porti che io ci recai, alla qual cosa fare, né a voi pagator né a me borsa bisognerà né somiere, per ciò che di mente uscito non m'è che ignuda m'aveste: e se voi giudicate onesto che quel corpo, nel qual io ho portati figliuoli da voi generati, sia da tutti veduto, io me n'andrò ignuda; ma io vi priego, in premio della mia verginità, che io ci recai e non ne la porto, che almeno una sola camicia sopra la dote mia vi piaccia che io portar ne possa.
Gualtieri, che maggior voglia di piagnere avea che d'altro, stando pur col viso duro, disse:
- E tu una camicia ne porta.
Quanti dintorno v'erano il pregavano che egli una roba le donasse, ché non fosse veduta colei, che sua moglie tredici anni e più era stata, di casa sua così poveramente e così vituperosamente uscire, come era uscirne in camicia; ma in vano andarono i prieghi; di che la donna, in camicia e scalza e senza alcuna cosa in capo, accomandatili a Dio, gli uscì di casa, e al padre se ne tornò con lagrime e con pianto di tutti coloro che la videro.
Giannucole, che creder non avea mai potuto questo esser vero che Gualtieri la figliuola dovesse tener moglie, e ogni dì questo caso aspettando guardati l'aveva i panni che spogliati s'avea quella mattina che Gualtieri la sposò; per che recatigliele ed ella rivestitiglisi, ai piccoli servigi della paterna casa si diede, sì come far soleva, con forte animo sostenendo il fiero assalto della nimica fortuna.
Come Gualtieri questo ebbe fatto, così fece veduto a' suoi che presa aveva una figliuola d'uno dei conti da Panago; e faccendo fare l'appresto grande per le nozze, mandò per Griselda che a lui venisse, alla quale venuta disse:
- Io meno questa donna la quale io ho nuovamente tolta, e intendo in questa sua prima venuta d'onorarla; e tu sai che io non ho in casa donne che mi sappiano acconciare le camere né fare molte cose che a così fatta festa si richeggiono; e per ciò tu, che meglio che altra persona queste cose di casa sai, metti in ordine quello che da far ci è, e quelle donne fa invitare che ti pare, e ricevile come se donna di qui fossi; poi, fatte le nozze, te ne potrai a casa tua tornare.
Come che queste parole fossero tutte coltella al cuore di Griselda, come a colei che non aveva così potuto por giù l'amore che ella gli portava, come fatto avea la buona fortuna, rispose:
- Signor mio, io son presta e apparecchiata.
Ed entratasene co' suoi pannicelli romagnuoli e grossi in quella casa, della qual poco avanti era uscita in camicia, cominciò a spazzare le camere e ordinarle, e a far porre capoletti e pancali per le sale, a fare apprestare la cucina, e ad ogni cosa, come se una piccola fanticella della casa fosse, porre le mani; né mai ristette che ella ebbe tutto acconcio e ordinato quanto si convenia.
E appresso questo, fatto da parte di Gualtieri invitare tutte le donne della contrada, cominciò ad attender la festa; e venuto il giorno delle nozze, come che i panni avesse poveri in dosso, con animo e con costume donnesco tutte le donne che a quelle vennero, e con lieto viso, ricevette.
Gualtieri, il quale diligentemente aveva i figliuoli fatti allevare in Bologna alla sua parente, che maritata era in casa de' conti da Panago, essendo già la fanciulla d'età di dodici anni la più bella cosa che mai si vedesse, e il fanciullo era di sei, avea mandato a Bologna al parente suo, pregandol che gli piacesse di dovere con questa sua figliuola e col figliuolo venire a Saluzzo, e ordinare di menare bella e orrevole compagnia con seco, e di dire a tutti che costei per sua mogliere gli menasse, senza manifestare alcuna cosa ad alcuno chi ella si fosse altramenti.
Il gentile uomo, fatto secondo che il marchese il pregava, entrato in cammino, dopo alquanti dì con la fanciulla e col fratello e con nobile compagnia in su l'ora del desinare giunse a Saluzzo, dove tutti i paesani e molti altri vicini dattorno trovò, che attendevan questa novella sposa di Gualtieri.
La quale dalle donne ricevuta, e nella sala dove erano messe le tavole venuta, Griselda, così come era, le si fece lietamente incontro dicendo: - Ben venga la mia donna.
- Le donne (che molto avevano, ma invano, pregato Gualtieri che o facesse che la Griselda si stesse in una camera, o che egli alcuna delle robe che sue erano state le prestasse, acciò che così non andasse davanti a' suoi forestieri) furon messe a tavola, e cominciate a servire.
La fanciulla era guardata da ogn'uomo, e ciascun diceva che Gualtieri aveva fatto buon cambio; ma intra gli altri Griselda la lodava molto, e lei e il suo fratellino.
Gualtieri, al qual pareva pienamente aver veduto quantunque disiderava della pazienza della sua donna, veggendo che di niente la novità delle cose la cambiava, ed essendo certo ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò che savia molto la conoscea, gli parve tempo di doverla trarre dell'amaritudine, la quale estimava che ella sotto il forte viso nascosa tenesse.
Per che, fattalasi venire, in presenzia d'ogn'uomo sorridendo le disse:
- Che ti par della nostra sposa?
- Signor mio, - rispose Griselda - a me ne par molto bene; e se così è savia come ella è bella, che 'l credo, io non dubito punto che voi non dobbiate con lei vivere il più consolato signore del mondo; ma quanto posso vi priego che quelle punture, le quali all'altra, che vostra fu, già deste, non diate a questa; ché appena che io creda che ella le potesse sostenere, sì perché più giovane è, e sì ancora perché in dilicatezze è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata.
Gualtieri, veggendo che ella fermamente credeva costei dovere esser sua moglie, né per ciò in alcuna cosa men che ben parlava, la si fece sedere allato, e disse:
- Griselda, tempo è omai che tu senta frutto della tua lunga pazienza, e che coloro, li quali me hanno reputato crudele e iniquo e bestiale, conoscano che ciò che io faceva, ad antiveduto fine operava, vogliendo a te insegnar d'esser moglie e a loro di saperla torre e tenere, e a me partorire perpetua quiete mentre teco a vivere avessi; il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non mi intervenisse, e per ciò, per prova pigliarne, in quanti modi tu sai ti punsi e trafissi.
E però che io mai non mi sono accorto che in parola né in fatto dal mio piacer partita ti sii, parendo a me aver di te quella consolazione che io disiderava, intendo di rendere a te ad una ora ciò che io tra molte ti tolsi, e con somma dolcezza le punture ristorare che io ti diedi; e per ciò con lieto animo prendi questa, che tu mia sposa credi, e il suo fratello: sono i nostri figliuoli, li quali e tu e molti altri lungamente stimato avete che io crudelmente uccider facessi; e io sono il tuo marito, il quale sopra ogn'altra cosa t'amo, credendomi poter dar vanto che niuno altro sia che, sì com'io, si possa di sua moglie contentare.
E così detto, l'abbracciò e baciò, e con lei insieme, la qual d'allegrezza piagnea, levatosi, n'andarono là dove la figliuola tutta stupefatta queste cose ascoltando sedea, e abbracciatala teneramente e il fratello altressì, lei e molti altri che quivi erano sgannarono.
Le donne lietissime levate dalle tavole, con Griselda n'andarono in camera, e con migliore augurio trattile i suoi pannicelli, d'una nobile roba delle sue la rivestirono, e come donna, la quale ella eziandio negli stracci pareva, nella sala la rimenarono.
E quivi fattasi co' figliuoli maravigliosa festa, essendo ogn'uomo lietissimo di questa cosa, il sollazzo e ' festeggiare multiplicarono e in più giorni tirarono; e savissimo reputaron Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili l'esperienze prese della sua donna; e sopra tutti savissima tenner Griselda.
Il conte da Panago si tornò dopo alquanti dì a Bologna, e Gualtieri, tolto Giannucole dal suo lavorio, come suocero il puose in istato, che egli onoratamente e con gran consolazione visse e finì la sua vecchiezza.
Ed egli appresso, maritata altamente la sua figliuola, con Griselda, onorandola sempre quanto più si potea, lungamente e consolato visse.
Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de' divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d'avere soprauomini signoria? Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso, non solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più non udite prove da Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d'essersi abbattuto a una, che quando fuor di casa l'avesse in camicia cacciata, s'avesse sì ad un altro fatto scuotere il pelliccione, che riuscita ne fosse una bella roba.
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Conclusione
La novella di Dioneo era finita, e assai le donne, chi d'una parte e chi d'altra tirando, chi biasimando una cosa e chi un'altra intorno ad essa lodandone, n'avevan favellato, quando il re, levato il viso verso il cielo, e vedendo che il sole era già basso all'ora di vespro, senza da seder levarsi, così cominciò a parlare:
- Adorne donne, come io credo che voi conosciate, il senno de' mortali non consiste solamente nell'avere memoria le cose preterite o conoscere le presenti, ma per l'una e per l'altra di queste sapere antiveder le future è da' solenni uomini senno grandissimo reputato.
Noi, come voi sapete, domane saranno quindici dì, per dovere alcun diporto pigliare a sostentamento della nostra sanità e della vita, cessando le malinconie e'dolori e l'angoscie, le quali per la nostra città continuamente, poi che questo pestilenzioso tempo incominciò, si veggono, uscimmo di Firenze; il che secondo il mio giudicio noi onestamente abbiam fatto; per ciò che, se io ho saputo ben riguardare, quantunque liete novelle e forse attrattive a concupiscenzia dette ci sieno, e del continuo mangiato e bevuto bene, e sonato e cantato, cose tutte da incitare le deboli menti a cose meno oneste, niuno atto, niuna parola, niuna cosa né dalla vostra parte né dalla nostra ci ho conosciuta da biasimare; continua onestà, continua concordia, continua fraternal dimestichezza mi ci è paruta vedere e sentire.
Il che senza dubbio in onore e servigio di voi e di me m'è carissimo.
E per ciò, acciò che per troppa lunga consuetudine alcuna cosa che in fastidio si convertisse nascer non ne potesse, e perché alcuno la nostra troppo lunga dimoranza gavillar non potesse, e avendo ciascun di noi, la sua giornata, avuta la sua parte dell'onore che in me ancora dimora, giudicherei, quando piacer fosse di voi, che convenevole cosa fosse omai il tornarci là onde ci partimmo.
Senza che, se voi ben riguardate, la nostra brigata, già da più altre saputa dattorno, per maniera potrebbe multiplicare che ogni nostra consolazion ci torrebbe; e per ciò, se voi il mio consiglio approvate, io mi serverò la corona donatami per infino alla nostra partita, che intendo che sia domattina; ove voi altramenti diliberaste, io ho già pronto cui per lo dì seguente ne debbia incoronare.
I ragionamenti furon molti tra le donne e tra'giovani, ma ultimamente presero per utile e per onesto il consiglio del re, e così di fare diliberarono come egli aveva ragionato; per la qual cosa esso, fattosi il siniscalco chiamare, con lui del modo che a tenere avesse nella seguente mattina parlò, e licenziata la brigata infino all'ora della cena, in piè si levò.
Le donne e gli altri levatisi, non altramenti che usati si fossero, chi ad un diletto e chi ad un altro si diede.
E l'ora del la cena venuta, con sommo piacere furono a quella, e dopo quella a cantare e a sonare e a carolare cominciarono; e menando la Lauretta una danza, comandò il re alla Fiammetta che dicesse una canzone, la quale assai piacevolmente così in cominciò a cantare:
S'amor venisse senza gelosia,
io non so donna nata
lieta com'io sarei, e qual vuol sia.
Se gaia giovinezza
in bello amante dee donna appagare,
o pregio di virtute,
o ardire o prodezza,
senno, costume o ornato parlare,
o leggiadrie compiute,
io son colei per certo in cui salute,
essendo innamorata,
tutte le veggio en la speranza mia.
Ma per ciò ch'io m'avveggio
che altre donne savie son com'io,
io triemo di paura,
e pur credendo il peggio,
di quello avviso en l'altre esser disio
ch'a me l'anima fura,
e così quel che m'è somma ventura
mi fa isconsolata
sospirar forte e stare in vita ria.
Se io sentissi fede
nel mio signor, quant'io sento valore,
gelosa non sarei;
ma tanto se ne vede,
pur che sia chi 'nviti l'amadore,
ch'io gli ho tutti per rei.
Questo m'accuora, e volentier morrei,
e di chiunque il guata
sospetto, e temo non mel porti via.
Per Dio dunque ciascuna
donna pregata sia che non s'attenti
di farmi in ciò oltraggio;
ché, se ne fia nessuna
che con parole o cenni o blandimenti
in questo il mio dannaggio
cerchi o procuri, s'io il risapraggio,
se io non sia svisata,
piagner farolle amara tal follia.
Come la Fiammetta ebbe la sua canzone finita, così Dioneo, che allato l'era, ridendo disse:
- Madonna, voi fareste una gran cortesia a farlo cognoscere a tutte, acciò che per ignoranza non vi fosse tolta la possessione, poi che così ve ne dovete adirare.
Appresso questa se ne cantarono più altre, e già essendo la notte presso che mezza, come al re piacque, tutti s'andarono a riposare.
E come il nuovo giorno apparve, levati, avendo già il siniscalco via ogni lor cosa mandata, dietro alla guida del discreto re verso Firenze si ritornarono.
E i tre giovani, lasciate le sette donne in Santa Maria Novella, donde con loro partiti s'erano, da esse accommiatatisi, a loro altri piaceri attesero; ed esse, quando tempo lor parve, se ne tornarono alle loro case..
Finisce la decima giornata del Decameron
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Conclusioni dell'Autore
Nobilissime giovani, a consolazion delle quali io a così lunga fatica messo mi sono, io mi credo, aiutantemi la divina grazia, sì come io avviso, per li vostri pietosi prieghi, non già per li miei meriti, quello compiutamente aver fornito che io nel principio della presente opera promisi di dover fare; per la qual cosa Iddio primieramente, e appresso voi ringraziando, è da dare alla penna e alla man faticata riposo.
Il quale prima che io le conceda, brievemente ad alcune cosette, le quali forse alcuna di voi o altri potrebbe dire (con ciò sia cosa che a me paia esser certissimo queste non dovere avere spezial privilegio più che l'altre cose, anzi non averlo mi ricorda nel principio della quarta giornata aver mostrato), quasi a tacite quistioni mosse, di rispondere intendo.
Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa licenzia usata, sì come fare alcuna volta dire alle donne e molte spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né ad ascoltare ad oneste donne.
La qual cosa io nego, per ciò che niuna sì disonesta n'è, che, con onesti vocaboli dicendola, si disdica ad alcuno; il che qui mi pare assai convenevolmente bene aver fatto.
Ma presupponiamo che così sia (ché non intendo di piatir con voi, che mi vincereste), dico, a rispondere perché io abbia ciò fatto, assai ragioni vengon prontissime.
Primieramente se alcuna cosa in alcuna n'è, la qualità delle novelle l'hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente persona fien riguardate, assai aperto sarà conosciuto (se io quelle della lor forma trar non avessi voluto) altramenti raccontar non poterle.
E se forse pure alcuna particella è in quelle, alcuna paroletta più liberale che forse a spigolistra donna non si conviene, le quali più le parole pesano che'fatti e più d'apparer s'ingegnano che d'esser buone, dico che più non si dee a me esser disdetto d'averle scritte, che generalmente si disdica agli uomini e alle donne di dir tutto dì "foro e caviglia e mortaio e pestello e salciccia e mortadello",e tutto pieno di simiglianti cose.
Senza che alla mia penna non dee essere meno d'autorità conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia, e a san Giorgio il dragone dove gli piace; ma egli fa Cristo maschio ed Eva femina, e a Lui medesimo che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella.
Appresso assai ben si può cognoscere queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con animi e con vocaboli onestissimi si convien dire (quantunque nelle sue istorie d'altramenti fatte, che le scritte da me, si truovino assai), né ancora nelle scuole de' filosofanti, dove l'onestà non meno che in altra par te è richesta, dette sono, né tra'cherici né tra'filosofi in alcun luogo, ma ne'giardini, in luogo di sollazzo, tra persone giovani, benché mature e non pieghevoli per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in capo per iscampo di sé era alli più onesti non disdicevole, dette sono.
Le quali, chenti che elle si sieno, e nuocere e giovar possono, sì come possono tutte l'altre cose, avendo riguardo allo ascoltatore.
Chi non sa ch'è il vino ottima cosa a' viventi, secondo Cinciglione e Scolaio e assai altri, e a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, per ciò che nuoce a' febricitanti, che sia malvagio? Chi non sa che 'l fuoco è utilissimo, anzi necessario a' mortali? Direm noi, per ciò che egli arde le case e le ville e le città, che sia malvagio? L'arme similmente la salute difendon di coloro che pacificamente di viver disiderano, e anche uccidon gli uomini molte volte, non per malizia di loro, ma di coloro che malvagiamente l'adoperano.
Niuna corrotta mente intese mai sanamente parola; e così come le oneste a quella non giovano, così quelle che tanto oneste non sono la ben disposta non posson contaminare, se non come il loto i solari raggi o le terrene brutture le bellezze del cielo.
Quali libri, quali parole, quali lettere son più sante, più degne, più riverende, che quelle della divina Scrittura? E sì sono egli stati assai che, quelle perversamente intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto.
Ciascuna cosa in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle.
Chi vorrà da quelle malvagio consiglio o malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno ad alcuno, se forse in sé l'hanno, e torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro che utili e oneste sien dette o tenute, se a que'tempi o a quelle persone si leggeranno, per cui s e pe'quali state sono raccontate.
Chi ha a dir paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare: elle non correranno di dietro a niuna a farsi leggere; benché e le pinzochere altressì dicono e anche fanno delle cosette otta per vicenda.
Saranno similmente di quelle che diranno qui esserne alcune, che non essendoci sarebbe stato assai meglio.
Concedasi: ma io non poteva né doveva scrivere se non le raccontate, e per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle, e io l'avrei scritte belle.
Ma se pur presupporre si volesse che io fossi stato di quelle e lo 'nventore e lo scrittore (che non fui), dico che io non mi vergognerei che tutte belle non fossero per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente; e Carlo Magno, che fu il primo facitore de' Paladini, non ne seppe tanti creare che esso di lor soli potesse fare oste.
Conviene nella moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi.
Niun campo fu mai sì ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l'erbe migliori.
Senza che, ad avere a favellare a semplici giovinette come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata l'andar cercando e faticandosi in trovar cose molto esquisite, e gran cura porre di molto misuratamente parlare.
Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci star quelle che pungono, e quelle che dilettano legga.
Esse, per non ingannare alcuna personar tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascoso tengono.
E ancora, credo, sarà tal che dirà che ce ne son di troppo lunghe.
Alle quali ancora dico, che chi ha altra cosa a fare, follia fa a queste leggere, eziandio se brievi fossero.
E come che molto tempo passato sia da poi che io a scriver cominciai, infino a questa ora che io al fine vengo della mia fatica, non m'è per ciò uscito di mente me avere questo mio affanno offerto alle oziose e non all'altre; e a chi per tempo passar legge, niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che egli l'adopera.
Le cose brievi si convengon molto meglio agli studianti, li quali non per passare ma per utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi, donne, alle quali tanto del tempo avanza quanto negli amorosi piaceri non ispendete.
E oltre a questo, per ciò che né ad Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di voi non va a studiare, più distesamente parlar vi si conviene che a quegli che hanno negli studi gl'ingegni assottigliati.
Né dubito punto che non sien di quelle ancor che diranno le cose dette esser troppo piene e di motti e di ciance e mal convenirsi ad uno uom pesato e grave aver così fattamente scritto.
A queste son io tenuto di render grazie e rendo, per ciò che, da buon zelo movendosi, tenere son della mia fama.
Ma così alla loro opposizione vo'rispondere: io confesso d'esser pesato, e molte volte de' miei dì essere stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non m'hanno, affermo che io non son grave, anzi son io sì lieve che io sto a galla nell'acqua; e considerato che le prediche fatte da' frati, per rimorder delle lor colpe gli uomini, il più oggi piene di motti e di ciance e di scede [sono], estimai che quegli medesimi non stesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle femine.
Tuttavia, se troppo per questo ridessero, il lamento di Geremia, la passione del Salvatore e il ramarichio della Maddalena ne le potrà agevolmente guerire.
E chi starà in pensiero che di quelle ancor non si truovino che diranno che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò che in alcun luogo scrivo il ver de' frati? A queste che così diranno si vuol perdonare, per ciò che non è da credere che altra che giusta cagione le muova, per ciò che i frati son buone persone e fuggono il disagio per l'amor di Dio, e macinano a raccolta e nol ridicono; e se non che di tutti un poco viene del caprino, troppo sarebbe più piacevole il piato loro.
Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma sempre essere in mutamento, e così potrebbe della mia lingua esser intervenuto; la quale, non credendo io al mio giudicio (il quale a mio potere io fuggo nelle mie cose) non ha guari mi disse una mia vicina che io l'aveva la migliore e la più dolce del mondo; e in verità, quando questo fu, egli erano poche a scrivere delle soprascritte novelle.
E per ciò che animosamente ragionan quelle cotali, voglio che quello che è detto basti lor per risposta.
E lasciando omai a ciascheduna e dire e credere come le pare, tempo è da por fine alle parole, Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga fatica col suo aiuto n'ha al desiderato fine condotto.
E voi, piacevoli donne, con la sua grazia in pace vi rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse alcuna cosa giova l'averle lette.
QUI FINISCE LA DECIMA E ULTIMA GIORNATA DEL LIBRO CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO
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