CANTI DI CASTELVECCHIO, di Giovanni Pascoli - pagina 4
...
.
Noi scambiavamo rade le ginocchia
sotto le stelle.
Ad ogni nostro passo
trenta miglia la terra era trascorsa,
coi duri monti e le maree sonore.
E seco noi riconduceva al Sole,
e intorno al Sole essa vedea rotare
gli altri prigioni, come lei, nel cielo,
di quella fiamma, che con sé li mena.
Come le sfingi, fosche atropi ossute,
l'acri zanzare e l'esili tignuole,
e qualche spolverìo di moscerini,
girano intorno una lanterna accesa:
una lanterna pendula che oscilla
nella mano d'un bimbo: egli perduta
la monetina in una landa immensa,
la cerca invano per la via che fece
e rifà ora singhiozzando al buio:
e nessun ode e vede lui, ch'è ombra,
ma vede e svede un lume che cammina,
né par che vada, e sempre con lui vanno,
gravi ronzando intorno a lui, le sfingi:
lontan lontano son per tutto il cielo
altri lumi che stanno, ombre che vanno,
che per meglio vedere alzano in vano
verso le solitarie Nebulose
l'ardor di Mira e il folgorio di Vega.
Così pensavo; e non trovai me stesso
più, né l'alta marmorea Pietrapana,
sopra un grano di polvere dell'ala
della falena che ronzava al lume:
dell'ala che in quel punto era nell'ombra;
della falena che coi duri monti
e col sonoro risciacquar dei mari
mille miglia in quel punto era trascorsa.
Ed incrociò con la sua via la strada
d'un mondo infranto, e nella strada ardeva,
come brillante nuvola di fuoco,
la polvere del suo lungo passaggio.
Ma niuno sa donde venisse, e quanto
lontane plaghe già battesse il carro
che senza più l'auriga ora sfavilla
passando rotto per le vie del Sole.
Né sa che cosa carreggiasse intorno
ad uno sconosciuto astro di vita,
allora forse di su lui cantando
i viatori per la via tranquilla;
quando urtò, forviò, si spezzò, corse
in fumo e fiamme per gli eterei borri,
precipitando contro il nostro Sole,
versando il suo tesoro oltresolare:
stelle; che accese in un attimo e spente,
rigano il cielo d'un pensier di luce.
Là, dove i mondi sembrano con lenti
passi, come concorde immensa mandra,
pascere il fior dell'etere pian piano,
beati della eternità serena;
pieno è di crolli, e per le vie, battute
da stelle in fuga, come rossa nube
fuma la densa polvere del cielo;
e una mischia incessante arde tra il fumo
delle rovine, come se Titani
aeriformi, agli angoli del Cosmo,
l'un l'altro ardendo di ferir, lo spazio
fendessero con grandi astri divelti.
Ma verrà tempo che sia pace, e i mondi,
fatti più densi dal cader dei mondi,
stringan le vene e succhino d'intorno
e in sé serrino ogni atomo di vita:
quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto
gelido oscuro tacito perenne;
e il Tutto si confonderà nel Nulla,
come il bronzo nel cavo della forma;
e più la morte non sarà.
Ma il vento
freddo che sibilando odo staccare
le foglie secche, non sarà più forse,
quando si spiccherà l'ultima foglia?
E nel silenzio tutto avrà riposo
dalle sue morti; e ciò sarà la morte.
Io riguardava il placido universo
e il breve incendio che v'ardea da un canto.
Tempo sarà (ma è! poi ch'il veloce
immobilmente fiume della vita
è nella fonte, sempre, e nella foce),
tempo, che persuasa da due dita
leggiere, mi si chiuda la pupilla:
né però sia la vision finita.
Oh! il cieco io sia che, nella sua tranquilla
anima, vede, fin che sa che intorno
a lui c'è qualche aperto occhio che brilla!
Così, quand'io, nel nostro breve giorno,
guardo, e poi, quasi in ciò che guardo un velo
fosse, un'ombra, col lento occhio ritorno
a un guizzo d'ala, a un tremolìo di stelo:
qundo a mirar torniamo anche una volta
ciò ch'arde in cuore, ciò che brilla in cielo;
noi s'è la buona umanità che ascolta
l'esile strido, il subito richiamo,
il dubbio della umanità sepolta:
e le risponde: - Io vivo, sì, viviamo.
-
Tempo sarà che tu, Terra, percossa
dall'urto d'una vagabonda mole,
divampi come una meteora rossa;
e in te scompaia, in te mutata in Sole,
morte con vita, come arde e scompare
la carta scritta con le sue parole.
Ma forse allora ondeggerà nel Mare
del nettare l'azzurra acqua, e la vita
verzicherà su l'Appennin lunare.
La vecchia tomba rivivrà, fiorita
di ninfèe grandi, e più di noi sereno
vedrà la luce il primo Selenita.
Poi, la placida notte, quando il Seno
dell'iridi ed il Lago alto e selvaggio
dei sogni trema sotto il Sol terreno;
errerà forse, in quell'eremitaggio
del Cosmo, alcuno in cerca del mistero;
e nello spettro ammirerà d'un raggio
la traccia ignita dell'uman pensiero.
O sarà tempo, che di là, da quella
profondità dell'infinito abisso,
dove niuno mai vide orma di stella;
un atomo d'un altro atomo scisso
in mille nulla, a mezzo il dì, da un canto
guardi la Terra come un occhio fisso;
e venga, e sembri come un elianto,
la notte, e il giorno, come luna piena;
e la Terra alzi il cupo ultimo pianto;
e sotto il nuovo Sole che balena
nella notte non più notte, risplenda
la Terra, come una deserta arena;
e Sole avanzi contro Sole, e prenda
già mezzo il cielo, e come un cielo immenso
su noi discenda, e tutto in lui discenda...
Io guardo là dove biancheggia un denso
sciame di mondi, quanti atomi a volo
sono in un raggio: alla Galassia: e penso:
O Sole, eterno tu non sei - né solo! -
Anima nostra! fanciulletto mesto!
nostro buono malato fanciulletto,
che non t'addormi, s'altri non è desto!
felice, se vicina al bianco letto
s'indugia la tua madre che conduce
la tua manina dalla fronte al petto;
contento almeno, se per te traluce
l'uscio da canto, e tu senti il respiro
uguale della madre tua che cuce;
il respiro o il sospiro; anche il sospiro;
o almeno che tu oda uno in faccende
per casa, o almeno per le strade a giro;
o veda almeno un lume che s'accende
da lungi, e senta un suono di campane
che lento ascende e che dal cielo pende;
almeno un lume, e l'uggiolìo d'un cane:
un fioco lume, un debole uggiolìo:
un lumicino...
Sirio: occhio del Cane
che veglia sopra il limitar di Dio!
Ma se al fine dei tempi entra il silenzio?
se tutto nel silenzio entra? la stella
della rugiada e l'astro dell'assenzio?
Atair, Algol? se, dopo la procella
dell'Universo, lenta cade e i Soli
la neve della Eternità cancella?
che poseranno senza mai più voli
né mai più urti né mai più faville,
fermi per sempre ed in eterno soli!
Una cripta di morti astri, di mille
fossili mondi, ove non più risuoni
né un appartato gocciolìo di stille;
non fiumi più, di tanti milioni
d'esseri, un fiato; non rimanga un moto,
delle infinite costellazioni!
Un sepolcreto in cui da sé remoto
dorma il gran Tutto, e dalle larghe porte
non entri un sogno ad aleggiar nel vuoto
sonno di ciò che fu! - Questa è la morte! -
Questa, la morte! questa sol, la tomba...
se già l'ignoto Spirito non piova
con un gran tuono, con una gran romba;
e forse le macerie anco sommuova,
e batta a Vega Aldebaran che forse
dian, le due selci, la scintilla nuova;
e prenda in mano, e getti alle lor corse,
sotto una nuova lampada polare,
altri Cigni, altri Aurighi, altre Grand'Orse;
e li getti a cozzare, a naufragare,
a seminare dei rottami sparsi
del lor naufragio il loro etereo mare;
e li getti a impietrarsi a consumarsi,
fermi i lunghi millenni de' millenni
nell'impietrarsi, ed in un attimo arsi;
all'infinito lor volo li impenni,
anzi no, li abbandoni all'infinita
loro caduta: a rimorir perenni:
alla vita alla vita, anzi: alla vita!
Io mi rivolgo al segno del Leone
dond'arde il fuoco in che si muta un astro,
alle Pleiadi, ai Carri, alle Corone,
indifferenti al tacito disastro;
ai tanti Soli, ai Soli bianchi, ai rossi
Soli, lucenti appena come crune,
ai lor pianeti, ignoti a noi, ma scossi
dalla misteriosa ansia comune;
a voi, a voi, girovaghe Comete
che sapete le vie del ciel profondo;
o Nebulose oscure, a voi che siete
granai del cielo, ogni cui grano è un mondo:
di là di voi, di là del firmamento,
di là del più lontano ultimo Sole;
io grido il lungo fievole lamento
d'un fanciulletto che non può, non vuole
dormire! di questa anima fanciulla
che non ci vuole, non ci sa morire!
che chiuder gli occhi, e non veder più nulla,
vuole sotto il chiaror dell'avvenire!
morire, sì; ma che si viva ancora
intorno al suo gran sonno, al suo profondo
oblìo; per sempre, ov'ella visse un'ora;
nella sua casa, nel suo dolce mondo:
anche, se questa Terra arsa, distrutto
questo Sole, dall'ultimo sfacelo
un astro nuovo emerga, uno, tra tutto
il polverìo del nostro vecchio cielo.
Così pensavo: e lo Zi Meo guardando
ciò ch'io guardava, mormorò tranquillo:
«Stellato fisso: domattina piove».
Era andato alle porche il suo pensiero.
Bene egli aveva sementato il grano
nella polvere, all'aspro; e San Martino
avea tenuta per più dì la pioggia
per non scoprire e portar via la seme.
Ma era già durata assai la state
di San Martino, e facea bono l'acqua.
E lo Zi Meo, sicuro di svegliarsi
domani al rombo d'una grande acquata,
era contento, e andava a riposare,
parlando di Chioccetta e di Mercanti,
sopra le nuove spoglie di granturco,
la cara vita cui nutrisce il pane.
18.
La tovaglia
Le dicevano: - Bambina!
che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l'hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch'è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte intorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta.
-
E` già grande la bambina:
la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d'allora.
Pensa a tutto, ma non pensa
a sparecchiare la mensa.
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.
Oh! la notte nera nera,
di vento, d'acqua, di neve,
lascia ch'entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.
Dalla sera alla mattina,
cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lagrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!
- Pane, sì...
pane si chiama,
che noi spezzammo concordi:
ricordate?...
E` tela, a dama:
ce n'era tanta: ricordi?...
Queste?...
Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lagrime amare
cadute nel ricordare! -
19.
La schilletta di Caprona
I
Sonata già l'Avemaria
dalla chiesa di Caprona,
si sente correre via via
la schilletta che risòna.
Il poco viene dopo il tanto;
come là nella capanna:
un pianto ancora, un po' di pianto,
dopo tanta ninnananna!
II
Un'ombra va col tintinnìo
di quel vecchio campanello;
e l'ombra passa lungo il rio,
gira il piccolo castello,
si ferma un poco ad ogni soglia,
come vuole ancor quel primo
che non si sa chi fu, che voglia;
ch'era Nimo, il vecchio Nimo.
III
Fu quando non c'era la fonte,
né la chiesa né il becchino.
Il suo muletto cadde in monte;
gli lasciò solo il bronzino,
che avea maravigliato i botri
e le polle col suo canto,
quand'egli andava a su con gli otri,
al Saltello, al Lago Santo.
IV
Al suon di questo che, le notti,
nell'immobile abetina
squillava tra i silenzi rotti
dal crocchiar di qualche pina,
che su gli abissi senza voce
mise il suo dondolìo blando;
ognuno fa il segno di croce
che si fa pericolando.
V
O vecchio, o nostro vecchio buono,
or ci sono due campane;
ma quel tuo piccoletto suono
nel castello tuo rimane.
O Nimo, o nostro vecchio Nimo!
or c'è un doppio bello e grave;
ma tu per noi sei stato il primo
a dirci Ave! Ave! Ave!
VI
E noi l'amiamo, il tuo bronzino,
che ci mandi, quando imbruna:
lo mandi per un fanciullino:
io lo vidi a un po' di luna.
A un raggio pallido lo vidi:
è un ragazzo ch'hai, là, teco:
un garzonetto che ti guidi,
perché forse tu sei cieco.
VII
Lo mandi a noi su la sericcia,
che si chiudono le porte:
ha i piedi scalzi, ma scalpiccia
sopra tante foglie morte;
non parla, ma passando in fretta
sgrolla qualche secco ramo;
per farci udir la tua schilletta
prima che ci addormentiamo.
20.
Il primo cantore
I
Il primo a cantare d'amore
chi è?
Non si vede un boccio di fiore,
non ancora un albero ha mosso;
la calta sola e il titimalo
verdeggia su l'acqua del fosso:
e tu già canti, o saltimpalo,
sicceccè...
sicceccè...
II
Un ramo non c'è, con due frasche,
per te!
Brulli sono meli e marasche;
forse il mandorlo ha imbottonato:
tu nella vigna sur un palo,
tu sul palancato d'un prato,
d'amore canti, o saltimpalo,
sicceccè...
sicceccè...
III
Hai fretta di fare il tuo nido...
perché?
Per un prato gira il tuo grido,
porti a un prato radiche e pappi:
non rischi dunque che sul calo
del verno si vanghi e si zappi!
Eppure gridi, o saltimpalo,
sicceccè...
sicceccè...
IV
Hai fretta, sei savio, sai bene
perché!
Viene il maggio, subito viene
la frullana grande che taglia...
Frulla, o falce! Forti su l'ali,
dal nido di musco e di paglia,
frullano i nuovi saltimpali...
sicceccè...
sicceccè...
21.
La capinera
Il tempo si cambia: stasera
vuol l'acqua venire a ruscelli.
L'annunzia la capinera
tra li àlbatri e li avornielli:
tac tac.
Non mettere, o bionda mammina,
ai bimbi i vestiti da fuori.
Restate, che l'acqua è vicina:
udite tra i pini e gli allori:
tac tac.
Anch'essa nel tiepido nido
s'alleva i suoi quattro piccini:
per questo ripete il suo grido,
guardando il suo nido di crini:
tac tac.
Già vede una nuvola a mare:
già, sotto le goccie dirotte,
vedrà tutto il bosco tremare,
covando tra il vento e la notte:
tac tac.
22.
Foglie morte
Oh! che già il vento volta
e porta via le pioggie!
Dentro la quercia folta
ruma le foglie roggie
che si staccano, e fru...
partono; un branco ad ogni
soffio che l'avviluppi.
Par che la quercia sogni
ora, gemendo, i gruppi
del novembre che fu.
Volano come uccelli,
morte nel bel sereno:
picchiano nei ramelli
del roseo pesco, pieno
de' suoi cuccoli già.
E il roseo pesco oscilla
pieno di morte foglie:
quale s'appende e prilla,
quale da lui si toglie
con un sibilo, e va.
Ma quelle foglie morte
che il vento, come roccia,
spazza, non già di morte
parlano ai fiori in boccia,
ma sussurrano: - Orsù!
Dentro ogni cocco all'uscio
vedo dei gialli ugnoli:
tu che costì nel guscio
di più covar ti duoli,
che ti pèriti più?
Fuori le alucce pure,
tu che costì sei vivo!
Il vento ruglia...
eppure
esso non è cattivo.
Ruglia, brontola: ma...
contende a noi! Ché tutto
vuol che sia mondo l'orto
pei nuovi fiori, e il brutto,
il secco, il vecchio, il morto,
vuol che netti di qua.
Noi c'indugiammo dove
nascemmo, un po', ma era
per ricoprir le nuove
gemme di primavera...
-
Così dicono, e fru...
partono, ad un rabbuffo
più stridulo e più forte.
E tra un voletto e un tuffo
vanno le foglie morte,
e non tornano più.
23.
Canzone di marzo
Che torbida notte di marzo!
Ma che mattinata tranquilla!
che cielo pulito! che sfarzo
di perle! Ogni stelo, una stilla
che ride: sorriso che brilla
su lunghe parole.
Le serpi si sono destate
col tuono che rimbombò primo
Guizzavano, udendo l'estate,
le verdi cicigne tra il timo;
battevan la coda sul limo
le biscie acquaiole.
Ancor le fanciulle si sono
destate, ma per un momento;
pensarono serpi, a quel tuono;
sognarono l'incantamento.
In sogno gettavano al vento
le loro pezzuole.
Nell'aride bresche anco l'api
si sono destate agli schiocchi.
La vite gemeva dai capi,
fremevano i gelsi nei nocchi.
Ai lampi sbattevano gli occhi
le prime viole.
Han fatto, venendo dal mare,
le rondini tristo viaggio.
Ma ora, vedendo tremare
sopr'ogni acquitrino il suo raggio,
cinguettano in loro linguaggio,
ch'è ciò che ci vuole.
Sì, ciò che ci vuole.
Le loro
casine, qualcuna si sfalda,
qualcuna è già rotta.
Lavoro
ci vuole, ed argilla più salda;
perché ci stia comoda e calda
la garrula prole.
24.
Valentino
Oh! Valentino vestito di nuovo,
come le brocche dei biancospini!
Solo, ai piedini provati dal rovo
porti la pelle de' tuoi piedini;
porti le scarpe che mamma ti fece,
che non mutasti mai da quel dì,
che non costarono un picciolo: in vece
costa il vestito che ti cucì.
Costa; ché mamma già tutto ci spese
quel tintinnante salvadanaio:
ora esso è vuoto; e cantò più d'un mese
per riempirlo, tutto il pollaio.
Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco
non ti bastava, tremavi, ahimè!,
e le galline cantavano, Un cocco!
ecco ecco un cocco un cocco per te!
Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello:
come l'uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch'oltre il beccare, il cantare, l'amare,
ci sia qualch'altra felicità
25.
Il croco
I
O pallido croco,
nel vaso d'argilla,
ch'è bello, e non l'ami,
coi petali lilla
tu chiudi gli stami
di fuoco:
le miche di fuoco
coi lunghi tuoi petali
chiudi nel cuore
tu leso, o poeta
dei pascoli, fiore
di croco!
Voi l'acqua di polla
ravvivi, o viole,
non chi la sua zolla
rivuole!
II
Ma messo ad un riso
di luce e di cielo,
per subito inganno
ritorna il tuo stelo
colà donde l'hanno
diviso:
tu pallido, e fiso
nel raggio che accora,
nel raggio che piace,
dimentichi ch'ora
sei esule, lacero,
ucciso:
tu apri il tuo cuore,
ch'è chiuso, che duole,
ch'è rotto, che muore,
nel sole!
26.
Fanciullo mendico
Ho nel cuore la mesta parola
d'un bimbo ch'all'uscio mi viene.
Una lagrima sparsi, una sola,
per tante sue povere pene;
e pur quella pensai che vanisse
negl'ispidi riccioli ignota:
egli alzò le pupille sue fisse,
sentendosi molle la gota.
E io, quasi chiedendo perdono,
gli tersi la stilla smarrita,
con un bacio, e ponevo il mio dono
tra quelle sue povere dita.
Ed allora ne intesi nel cuore
la voce che ancora vi sta:
Non li voglio: non voglio, signore,
che scemi le vostra pietà.
E quand'egli già fuor del cancello
riprese il solingo sentiero,
io sentii, che, il suo grave fardello,
godeva a portarselo intiero:
e chiamava sua madre, che sorta
pareva da nebbie lontane,
a vederlo; poi ch'erano, morta
lei, morta! ma lui senza pane.
27.
La vite
Or che il cucco forse è vicino,
mentre i peschi mettono il fiore,
cammino, e mi pende all'uncino
la spada dell'agricoltore.
Il pennato porto, ché odo
già la prima voce del cucco...
cu...
cu... io rispondo a suo modo:
mi dice ch'io cucchi, e sì, cucco.
Sì, ti cucco, vite, ché sento
già nel sole stridere l'api:
ti taglio ogni vecchio sarmento,
ti lascio tre occhi e due capi.
O che piangi, vite gentile,
perché al vento stai nuda nata?
Se anch'io tra i fioretti d'aprile
sembravo una vite tagliata!
Piangi quello che ti si toglie?
Ma ti cucco, taglio ed accollo,
perché, quando cadon le foglie,
tu abbia un tuo qualche grispollo!
O mia vite...
no, o mia vita,
così torta meglio riscoppi!
E poi...
com'è buono, alle dita,
l'odore di gemme di pioppi!
E parlare, ritto su loro,
col venuto di là dal mare,
chiedendogli, in mezzo al lavoro,
quant'anni si deve campare!
28.
Il sonnellino
Guardai, di tra l'ombra, già nera,
del sonno, smarrendo qualcosa
lì dentro: nell'aria non era
che un cirro di rosa.
E il cirro dal limpido azzurro
splendeva sui grigi castelli,
levando per tutto un sussurro
d'uccelli;
che sopra le tegole rosse
del tetto e su l'acque del rio
cantavano, e non che non fosse
silenzio ed oblìo:
cantavano come non sanno
cantare che i sogni nel cuore,
che cantano forte e non fanno
rumore.
E io mi rivolsi nel blando
mio sonno, in un sonno di rosa,
cercando cercando cercando
quel vecchio qualcosa;
e forse lo vidi e lo presi,
guidato da un canto d'uccelli,
non so per che ignoti paesi
più belli...
che pure ravviso, e mi volgo,
più belli, a guardarli più buono...
Ma tutto mi toglie la folgore...
O subito tuono!
ch'hai fatto succedere a un'alba
piaciuta tra il sonno, passata
nel sonno, una stridula e scialba
giornata!
29.
La bicicletta
I
Mi parve d'udir nella siepe
la sveglia d'un querulo implume.
Un attimo...
Intesi lo strepere
cupo del fiume.
Mi parve di scorgere un mare
dorato di tremule mèssi.
Un battito...
Vidi un filare
di neri cipressi.
Mi parve di fendere il pianto
d'un lungo corteo di dolore.
Un palpito...
M'erano accanto
le nozze e l'amore.
dlin...
dlin...
II
Ancora echeggiavano i gridi
dell'innominabile folla;
che udivo stridire gli acrìdi
su l'umida zolla.
Mi disse parole sue brevi
qualcuno che arava nel piano:
tu, quando risposi, tenevi
la falce alla mano.
Io dissi un'alata parola,
fuggevole vergine, a te;
la intese una vecchia che sola
parlava con sé.
dlin...
dlin...
III
Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io?
Che importa? Ch'io venga o tu vada,
non è che un addio!
Ma bello è quest'impeto d'ala,
ma grata è l'ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo...
Già cala
la notte: io ritorno.
La piccola lampada brilla
per mezzo all'oscura città.
Più lenta la piccola squilla
dà un palpito, e va...
dlin...
dlin...
30.
Il ritorno delle bestie
Non sul pioppo picchia il pennato
più, né l'eco più gli risponde.
L'erta sale un uomo celato
dal carico folto di fronde.
E il martello d'un legnaiuolo,
più lontano, più non rimbomba.
Passa il grido d'un bimbo solo:
Turella! Bianchina! Colomba!
Porta in collo l'erba ch'ha fatta,
nella sua crinella di salcio.
Le sue bestie al greppo, alla fratta,
s'indugiano, al cesto ed al tralcio.
Ei che vede sopra ogni tetto
già la nuvola celestina,
le minaccia col suo falcetto:
Colomba! Turella! Bianchina!
C'è un falcetto lucido ancora
su la Pania, al fior del sereno,
dentro l'aria dolce ch'odora
d'un tiepido odore di fieno.
C'è silenzio lassù, dov'erra
quel falcetto con qualche stella.
Solo il bimbo strilla da terra:
Bianchina! Colomba! Turella!
31.
La figlia maggiore
Ninnava ai piccini la culla,
cuciva ai fratelli le fasce:
non sapeva, madre fanciulla,
come si nasce.
Nel cantuccio, zitta, da brava,
preparava cercine e telo
pei bimbi che mamma le andava
a prendere in cielo.
Or cantano i passeri intorno
la piccola croce, in amore...
ché lo seppe, misera, un giorno,
come si muore!
L'erba è verde, piena di grilli.
Non un passo, non una voce
mai.
Vivono, loro, tranquilli
intorno la croce.
Si beccano, s'amano, pascono,
in mezzo a quel pieno di cose
e di silenzio, dove il verbasco
fa tra le rose.
No, passeri! su le sue zolle,
no! non fate tanto vicino!
Là fitto di bianche corolle
è il pero e il susino.
Andate su l'albero in fiore
che al vento si dondola e culla!
Non turbate l'umile cuore
che non sa nulla!
Passa il vento come un respiro
caldo, lungo, dolce, che porta
su l'alito il polline in giro...
sopra la morta.
No, vento d'aprile, no, vento
d'amore, no tanto vicino!
Là nei campi bacia il frumento,
soffia tra il lino!
Fa che venga l'anima ai cardi,
che le viti tengano il raspo:
fa che abbiano l'accia, più tardi,
il guindolo e l'aspo!
Ma l'erba qui prima del fiore,
ma il fiore qui prima del seme,
la frullana taglia, e due ore
sibila e freme.
Un vecchione falcia e raduna
l'erbe e i fiori di primavera;
poi tutto egli brucia, là, una
limpida sera:
la sera, una sera di maggio,
che s'odono tanti stornelli
di sui gelsi, e sente, il villaggio,
di filugelli.
Dal villaggio vedon la fiamma
ch'arde sola, rossa, in quel canto:
la vedono gli occhi di mamma
pieni di pianto.
Oh! piange, ché il vecchio le toglie
qualcosa più che le togliesse:
fili d'erba, piccole foglie,
povera mèsse,
fioritura, sì, bianca e rossa,
della bimba, che non lo sa:
sua sola, laggiù, nella fossa,
maternità.
32.
L'usignolo e i suoi rivali
Egli coglieva ed ammucchiava al suolo
secche le foglie del suo marzo primo
(era il suo nuovo marzo), il rosignolo,
per farsi il nido.
E gorgheggiava in tanto
tutto il gran giorno; e dolce più del timo
e più puro dell'acqua era il suo canto.
Cantava, quando, per le valli intorno,
cu...
cu... sentì ripetere, cu...
cu...
Ecco: al cuculo egli cedette il giorno,
e di giorno non volle cantar più.
Non più di giorno.
Ma la notte! Appena
la luna estiva, di tra l'alabastro
delle rugiade, tremolò serena,
riprese il verso; e d'ora in poi soltanto
cantava a notte; e lucido com'astro
e soave com'ombra era il suo canto.
Cantava, quando, da non so che grotte,
sentì gemere, chiù... piangere, chiù...
All'assiuolo egli lasciò la notte,
anche la notte; e non cantò mai più.
Or né canta né ode: abita presso
il brusìo d'una fonte e d'un cipresso.
33.
Il fringuello cieco
Finch... finché nel cielo volai,
finch... finch'ebbi il nido sul moro,
c'era un lume, lassù, in ma' mai,
un gran lume di fuoco e d'oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo...
Il sole!...
Ogni alba nella macchia,
ogni mattina per il brolo,
- Ci sarà? - chiedea la cornacchia;
- Non c'è più! - gemea l'assiuolo;
e cantava già l'usignolo:
- Addio, addio dio dio dio dio... -
Ma la lodola su dal grano
saliva a vedere ove fosse.
Lo vedeva lontan lontano
con le belle nuvole rosse.
E, scesa al solco donde mosse,
trillava: - C'è, c'è, lode a Dio! -
«Finch...
finché non vedo, non credo»
però dicevo a quando a quando.
Il merlo fischiava - Io lo vedo -;
l'usignolo zittìa spiando.
Poi cantava gracile e blando:
- Anch'io anch'io chio chio chio chio...
-
Ma il dì ch'io persi cieli e nidi,
ahimè che fu vero, e s'è spento!
Sentii gli occhi pungermi, e vidi
che s'annerava lento lento.
Ed ora perciò mi risento:
- O sol sol sol sol...
sole mio? -
34.
La canzone dell'ulivo
I
A' piedi del vecchio maniero
che ingombrano l'edera e il rovo;
dove abita un bruno sparviero,
non altro, di vivo;
che strilla e si leva, ed a spire
poi torna, turbato nel covo,
chi sa? dall'andare e venire
d'un vecchio balivo:
a' piedi dell'odio che, alfine,
solo è con le proprie rovine,
piantiamo l'ulivo!
II
l'ulivo che a gli uomini appresti
la bacca ch'è cibo e ch'è luce,
gremita, che alcuna ne resti
pel tordo sassello;
l'ulivo che ombreggi d'un glauco
pallore la rupe già truce,
dov'erri la pecora, e rauco
la chiami l'agnello;
l'ulivo che dia le vermene
pel figlio dell'uomo, che viene
sul mite asinello.
III
Portate il piccone; rimanga
l'aratro nell'ozio dell'aie.
Respinge il marrello e la vanga
lo sterile clivo.
Il clivo che ripido sale,
biancheggia di sassi e di ghiaie;
lo assordano l'ebbre cicale
col grido solivo.
Qui radichi e cresca! Non vuole,
per crescere, ch'aria, che sole,
che tempo, l'ulivo!
IV
Nei massi le barbe, e nel cielo
le piccole foglie d'argento!
Serbate a più gracile stelo
più soffici zolle!
Tra i massi s'avvinchia, e non cede,
se i massi non cedono, al vento.
Lì, soffre, ma cresce, né chiede
più ciò che non volle.
L'ulivo che soffre ma bea,
che ciò ch'è più duro, ciò crea
che scorre più molle.
V
Per sé, c'è chi semina i biondi
solleciti grani cui copra
la neve del verno e cui mondi
lo zefiro estivo.
Per sé, c'è chi pianta l'alloro
che presto l'ombreggi e che sopra
lui regni, al sussurro canoro
del labile rivo.
Non male.
Noi mèsse pei figli,
noi, ombra pei figli de' figli,
piantiamo l'ulivo!
VI
Voi, alberi sùbiti, date
pur ombra a chi pianta ed innesta;
voi, frutto; e le brevi fiammate
col rombo seguace!
Tu, placido e pallido ulivo,
non dare a noi nulla; ma resta!
ma cresci, sicuro e tardivo,
nel tempo che tace!
ma nutri il lumino soletto
che, dopo, ci brilli sul letto
dell'ultima pace!
35.
Passeri a sera
L'uomo che intende gli uccelli, i gridi
dei falchi, i pianti delle colombe,
ciò che le cincie dicono ai nidi,
e il chiù, che vuole più dalle tombe;
siede a un cipresso.
Passa, e lavora
sempre, un aratro, là, là, soletto,
con qualche voce ruvida.
E` l'ora
che vanno i bruni passeri a letto.
Chi vien dal monte, chi vien dal piano:
tutti al cipresso.
Cantano: - Sì...
Ora, sebbene tu non ti scopra,
sappiamo quanto buono tu fossi
ponendo pietra su pietra, e sopra
facendo un tetto d'embrici rossi.
Per chi? Per questi passeri...
E` breve,
di verno, il giorno, la notte è lunga:
tu vuoi che prima ci esca la neve,
tu vuoi che il sole prima ci giunga.
Le case fece la tua gran mano
pei tetti, e i tetti per noi coprì.
Hai cibi grati per noi, che sono
grandi pel nostro piccolo becco:
giorno per giorno, rompi tu buono
con i tuoi denti stessi il pan secco;
spargi le bianche briciole, scuoti
la bianca tela; le spazzi fuori;
ma un po' lontano, come è nei voti
di questi buoni tuoi peccatori;
che, sì, vediamo tutto da un ramo,
lieti, ma in cuore timidi un po'.
Ed altro pensi, che spetrerebbe
tra l'alte nubi l'aquila e il falco!
Tu prendi, appena sai che ci crebbe
famiglia, i chicchi d'oro dal palco;
esci all'aperto; spargi quei chicchi,
prodigo e cauto, tra due filari;
anzi, a che l'oro meglio ne spicchi
su quel pulito, v'erpichi ed ari.
E noi da un ramo, comodi, udiamo
quelle tue lunghe grida, Bi...
Ro...
Vero che a volte ce li nascondi,
quei chicchi; vero; ma fai per giuoco.
Ma ecco, a volte son così fondi,
che noi diremmo, Badaci un poco!
Pure il tuo male mai non fa male:
quelli che copre l'invida zappa,
poi, col frinire delle cicale,
mettono un gambo, fanno una rappa:
che poi ci sgrani...
Dal male il bene:
bene che nasce, male che fu.
-
Ma già i minori dormono.
Soli
vegliano i vecchi.
C'è chi sospira:
- Ahimè! talvolta di noi ti duoli!
Sei giusto, eppure grave nell'ira.
Or che i novelli tengono i capi
sotto le alucce, vicino al cuore,
lo dico, mentre tacciono l'api,
le mosche, i ragni, tutto: si muore!
Tu ci vuoi bene, certo...
ma il bene
tuo lo vorremmo per un po' più...
-
E` già nell'ombra tutta la valle:
sui monti un raggio trema del giorno.
Già le notturne grandi farfalle,
coi neri teschi, ronzano intorno.
- Oh! quel diluvio con che noi vivi
tu pigli, grandi, piccoli, troppi!
Oh! quel baleno con che ci arrivi
fino su l'alte cime dei pioppi!
Ma da te viene ciò che ci piace:
forse anche questo ci piacerà.
-
Dormono.
L'uomo parte.
Il cipresso
freme di nuovi brevi bisbigli.
- C'era non visto dunque sì presso!?
Su, la zampina...
non c'è più, figli! -
Va l'uomo, e nero tu nell'azzurro,
cipresso pieno d'anime, affondi.
Va l'uomo, ed ora bada al sussurro
che fan tra loro fievole i mondi,
su, fitti fitti, piccoli, in pace,
nell'infinita serenità.
36.
Il gelsomino notturno
E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento...
E` l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
37.
Il poeta solitario
O dolce usignolo che ascolto
(non sai dove), in questa gran pace
cantare cantare tra il folto,
là, dei sanguini e delle acace;
t'ho presa - perdona, usignolo -
una dolce nota, sol una,
ch'io canto tra me, solo solo,
nella sera, al lume di luna.
E pare una tremula bolla
tra l'odore acuto del fieno,
un molle gorgoglio di polla,
un lontano fischio di treno...
Chi passa, al morire del giorno,
ch'ode un fischio lungo laggiù
riprende nel cuore il ritorno
verso quello che non è più.
Si trova al nativo villaggio,
vi ritrova quello che c'era:
l'odore di mesi-di-maggio
buon odor di rose e di cera.
Ne ronzano le litanie,
come l'api intorno una culla:
ci sono due voci sì pie!
di sua madre e d'una fanciulla.
Poi fatto silenzio, pian piano,
nella nota mia, che t'ho presa,
risente squillare il lontano
campanello della sua chiesa.
Riprende l'antica preghiera,
ch'ora ora non ha perché;
si trova con quello che c'era,
ch'ora ora ora non c'è...
..........................................
Chi sono? Non chiederlo.
Io piango,
ma di notte, perch'ho vergogna.
O alato, io qui vivo nel fango.
Sono un gramo rospo che sogna.
38.
La guazza
Laggiù, nella notte, tra scosse
d'un lento sonaglio, uno scalpito
è fermo.
Non anco son rosse
le cime dell'Alpi.
Nel cielo d'un languido azzurro,
le stelle si sbiancano appena:
si sente un confuso sussurro
nell'aria serena.
Chi passa per tacite strade?
Chi parla da tacite soglie?
Nessuno.
E` la guazza che cade
sopr'aride foglie.
Si parte, ch'è ora, né giorno,
sbarrando le vane pupille;
si parte tra un murmure intorno
di piccole stille.
In mezzo alle tenebre sole,
qualcuna riluce un minuto;
riflette il tuo Sole, o mio Sole;
poi cade: ha veduto.
39.
Primo canto
Quando apparisce l'oro nel grano
col verdolino nuovo dei tralci,
e già nell'ore d'ozio il villano
sopra una pietra batte le falci;
dall'aie, dalle prode, dal fimo
che vaporando sente la state,
voi con la gioia del canto primo,
primi galletti, tutti cantate:
Vita da re...!
A tutte l'ore gettate all'aria,
chi di tra i solchi, chi di sui rami,
la vostra voce stridula e varia,
chi, che ripeta, chi, che richiami.
Chi fioco i versi muta e rimuta,
chi strilla quasi lo correggesse:
e l'uno dopo l'altro saluta
la casa, il sole, l'ombra, la mèsse:
Vita da re...!
Galletti arguti, gloria dell'aia
che da due mesi v'ospita e pasce,
ora la vostra vecchia massaia,
quando vi sente, pensa alle grasce:
quando vi sente, pensa ai padroni
il contadino vostro che miete,
e mentre lega manne e covoni,
galletti arguti, con voi ripete:
Vita da re...!
Quando, odorati sempre di lolla,
lasciate i campi dove nasceste,
perché, se un'aspra mano vi sgrolla,
voi vi beccate tra voi le creste?
Lunga è la strada, grave la state,
vi stringe il duro cappio di tozzo:
voi l'uno all'altro rimproverate
quel vostro canto chiuso nel gozzo:
Vita da re...!
Poi nel paese, tra quattro mura,
sotto il barlume forse d'un moggio,
nella cucina tacita e scura
voi ricordate l'aia ed il poggio;
e mentre tutti dormono, e scialba
geme la luce dalle finestre,
come un lamento lungo su l'alba
suona l'antico grido silvestre:
Vita da re...!
40.
La canzone del girarrosto
I
Domenica! il dì che a mattina
sorride e sospira al tramonto!...
Che ha quella teglia in cucina?
che brontola brontola brontola...
E` fuori un frastuono di giuoco,
per casa è un sentore di spigo...
Che ha quella pentola al fuoco?
che sfrigola sfrigola sfrigola...
E già la massaia ritorna
da messa;
così come trovasi adorna,
s'appressa:
la brage qua copre, là desta,
passando, frr, come in un volo,
spargendo un odore di festa,
di nuovo, di tela e giaggiolo.
II
La macchina è in punto; l'agnello
nel lungo schidione è già pronto;
la teglia è sul chiuso fornello,
che brontola brontola brontola...
Ed ecco la macchina parte
da sé, col suo trepido intrigo:
la pentola nera è da parte,
che sfrigola sfrigola sfrigola...
Ed ecco che scende, che sale,
che frulla,
che va con un dondolo eguale
di culla.
La legna scoppietta; ed un fioco
fragore all'orecchio risuona
di qualche invitato, che un poco
s'è fermo su l'uscio, e ragiona.
III
E` l'ora, in cucina, che troppi
due sono, ed un solo non basta:
si cuoce, tra murmuri e scoppi,
la bionda matassa di pasta.
Qua, nella cucina, lo svolo
di piccole grida d'impero;
là, in sala, il ronzare, ormai solo,
d'un ospite molto ciarliero.
Avanti i suoi ciocchi, senz'ira
né pena,
la docile macchina gira
serena,
qual docile servo, una volta
ch'ha inteso, né altro bisogna:
lavora nel mentre che ascolta,
lavora nel mentre che sogna.
IV
Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora,
con una vertigine molle:
con qualche suo fremito incuora
la pentola grande che bolle.
E` l'ora: s'affretta, né tace,
ché sgrida, rimprovera, accusa,
col suo ticchettìo pertinace,
la teglia che brontola chiusa.
Campana lontana si sente
sonare.
Un'altra con onde più lente,
più chiare,
risponde.
Ed il piccolo schiavo
già stanco, girando bel bello,
già mormora, in tavola! in tavola!,
e dondola il suo campanello.
41.
L'ora di Barga
Al mio cantuccio, donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell'ore viene col vento
dal non veduto borgo montano:
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade.
Tu dici, E` l'ora; tu dici, E` tardi,
voce che cadi blanda dal cielo.
Ma un poco ancora lascia che guardi
l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo,
cose ch'han molti secoli o un anno
o un'ora, e quelle nubi che vanno.
Lasciami immoto qui rimanere
fra tanto moto d'ale e di fronde;
e udire il gallo che da un podere
chiama, e da un altro l'altro risponde,
e, quando altrove l'anima è fissa,
gli strilli d'una cincia che rissa.
E suona ancora l'ora, e mi manda
prima un suo grido di meraviglia
tinnulo, e quindi con la sua blanda
voce di prima parla e consiglia,
e grave grave grave m'incuora:
mi dice, E` tardi; mi dice, E` l'ora.
Tu vuoi che pensi dunque al ritorno,
voce che cadi blanda dal cielo!
Ma bello è questo poco di giorno
che mi traluce come da un velo!
Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi;
ma un poco ancora lascia che guardi.
Lascia che guardi dentro il mio cuore,
lascia ch'io viva del mio passato;
se c'è sul bronco sempre quel fiore,
s'io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d'ombra romita
lascia ch'io pianga su la mia vita!
E suona ancora l'ora, e mi squilla
due volte un grido quasi di cruccio,
e poi, tornata blanda e tranquilla,
mi persuade nel mio cantuccio:
è tardi! è l'ora! Sì, ritorniamo
dove son quelli ch'amano ed amo.
42.
Il viatico
Là, suonano a doppio.
Si sente,
qua presso, uno struscio di gente,
e suona suona un campanello
sul dolce mezzodì.
Si sente una lauda che sale
tra il fremito delle cicale
per il sentiero, ove il fringuello
cauto via via zittì.
E passa un branchetto...
Son quelli.
Son poveri bimbi in capelli,
poi donne salmeggianti in coro:
O vivo pan del ciel!...
E` un vecchio che parte; e il paese
gli porta qualcosa che chiese,
cantando sotto il cielo d'oro:
O vivo pan del ciel!...
qualcosa che in tanti e tanti anni,
cercando tra gioie ed affanni,
ancora non poté riporre
da portar via con sé.
E gli altri si assidono a mensa,
ma egli ancor cerca, ancor pensa
al niente, al niente che gli occorre,
a un piccolo perché,
nel piccolo passo, ch'è un volo
di mosca, ch'è un attimo solo...
Quel giorno anche per me, campane,
sonate pur così,
quel canto, in quell'ora, s'inalzi,
portatemi, o piccoli scalzi,
portatelo anche a me quel pane,
sul vostro mezzodì.
43.
L'imbrunire
Cielo e Terra dicono qualcosa
l'uno all'altro nella dolce sera.
Una stella nell'aria di rosa,
un lumino nell'oscurità.
I Terreni parlano ai Celesti,
quando, o Terra, ridiventi nera;
quando sembra che l'ora s'arresti,
nell'attesa di ciò che sarà.
Tre pianeti su l'azzurro gorgo,
tre finestre lungo il fiume oscuro;
sette case nel tacito borgo,
sette Pleiadi un poco più su.
Case nere: bianche gallinelle!
Case sparse: Sirio, Algol, Arturo!
Una stella od un gruppo di stelle
per ogni uomo o per ogni tribù.
Quelle case sono ognuna un mondo
con la fiamma dentro, che traspare;
e c'è dentro un tumulto giocondo
che non s'ode a due passi di là.
E tra i mondi, come un grigio velo,
erra il fumo d'ogni focolare.
La Via Lattea s'esala nel cielo,
per la tremola serenità.
44.
La fonte di Castelvecchio
O voi che, mentre i culmini Apuani
il sole cinge d'un vapor vermiglio,
e fa di contro splendere i lontani
vetri di Tiglio;
venite a questa fonte nuova, sulle
teste la brocca, netta come specchio,
equilibrando tremula, fanciulle
di Castelvecchio;
e nella strada che già s'ombra, il busso
picchia de' duri zoccoli, e la gonna
stiocca passando, e suona eterno il flusso
della Corsonna:
fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
dove brusivo con un lieve rombo
sotto i castagni; ora convien che corra
chiusa nel piombo.
A voi, prigione dalle verdi alture,
pura di vena, vergine di fango,
scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
vergini, piango:
non come piange nel salir grondando
l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
io solo mando tra il gorgoglio blando
qualche singhiozzo.
Oh! la mia vita di solinga polla
nel taciturno colle delle capre!
udir soltanto foglia che si crolla,
cardo che s'apre,
vespa che ronza, e queruli richiami
del forasiepe! Il mio cantar sommesso
era tra i poggi ornati di ciclami
sempre lo stesso;
sempre sì dolce! E nelle estive notti,
più, se l'eterno mio lamento solo
s'accompagnava ai gemiti interrotti
dell'assiuolo,
più dolce, più! Ma date a me, ragazze
di Castelvecchio, date a me le nuove
del mondo bello: che si fa? le guazze
cadono, o piove?
e per le selve ancora si tracoglie,
o fate appietto? ed il metato fuma,
o già picchiate? aspettano le foglie
molli la bruma,
o le crinelle empite ne' frondai
in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
frasca di faggio? od è già l'Alpe ormai
bianca di neve?
Più nulla io vedo, io che vedea non molto
quando chiamavo, con il mio rumore
fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
macole e more.
Col nepotino a me venìa la bianca
vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
andare come vaccherella stanca
va col suo redo.
Nella deserta chiesa che rovina,
vive la bianca Matta dei Beghelli
più? desta lei la sveglia mattutina
più, de' fringuelli?
Essa veniva al garrulo mio rivo
sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
e io, garrendo ancora più, l'empivo
sempre la secchia.
Ah! che credevo d'essere sua cosa!
Con lei parlavo, ella parlava meco,
come una voce nella valle ombrosa
parla con l'eco.
Però singhiozzo ripensando a questa
che lasciai nella chiesa solitaria,
che avea due cose al mondo, e gliene resta
l'una, ch'è l'aria.
45.
Temporale
E` mezzodì.
Rintomba.
Tacciono le cicale
nelle stridule seccie.
E chiaro un tuon rimbomba
dopo uno stanco, uguale,
rotolare di breccie.
Rondini ad ali aperte
fanno echeggiar la loggia
de' lor piccoli scoppi.
Già, dopo l'afa inerte,
fanno rumor di pioggia
le fogline dei pioppi.
Un tuon sgretola l'aria.
Sembra venuto sera.
Picchia ogni anta su l'anta.
Serrano.
Solitaria
s'ode una capinera,
là, che canta...
che canta...
E l'acqua cade, a grosse
goccie, poi giù a torrenti,
sopra i fumidi campi.
S'è sfatto il cielo: a scosse
v'entrano urlando i venti
e vi sbisciano i lampi.
Cresce in un gran sussulto
l'acqua, dopo ogni rotto
schianto ch'aspro diroccia;
mentre, col suo singulto
trepido, passa sotto
l'acquazzone una chioccia.
Appena tace il tuono,
che quando al fin già pare,
fa tremare ogni vetro,
tra il vento e l'acqua, buono,
s'ode quel croccolare
co' suoi pigolìi dietro.
46.
La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle.
Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E`, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Né io...
e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don...
Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era...
sentivo mia madre...
poi nulla...
sul far della sera.
47.
In viaggio
Si ferma, e già fischia, ed insieme,
tra il ferreo strepito del treno,
si sente una squilla che geme,
là da un paesello sereno,
paesello lungo la via:
Ave Maria...
Un poco, tra l'ansia crescente
della nera vaporiera,
l'addio della sera si sente
seguire come una preghiera,
seguire il treno che s'avvia:
Ave Maria...
E, come se voglia e non voglia,
il treno nel partir vacilla:
quel suono ci chiama alla soglia
e alla lampada che brilla,
nella casa, ch'è una badia:
Ave Maria...
Il padre a quel suono rincasa
facendo un passo ad ogni tocco;
e subito all'uscio di casa
trova il visino del suo cocco,
del più piccino che ci sia...
Ave Maria...
Si chiude, la casa; e s'appanna
d'un tratto il vocerìo che c'è;
si chiude, ristringe, accapanna,
per parlare tra sé e sé;
e saluta la compagnia...
Ave Maria...
O, tinta d'un lieve rossore,
casina che sorridi al sole!
per noi c'è la notte con l'ore
lunghe lunghe, con l'ore sole,
con l'ore di malinconia...
Ave Maria...
Il treno già vola e ci porta
sbuffando l'alito di fuoco;
e ancora nell'aria più smorta
ci giunge quell'addio più fioco,
dal paese che fugge via:
Ave Maria...
E cessa.
Ma uno che vuole
velar gli occhi, pensar lontano,
tra gemiti e strilli e parole,
tra il frastuono or tremolo or piano,
ode il suono che non s'oblia:
Ave Maria...
Con l'uomo che va nella notte,
tra gli aspri urli, i lunghi racconti
del treno che corre per grotte
di monti, sopra lenti ponti,
vien nell'ombrìa la voce pia:
Ave Maria...
48.
Maria
Ti splende su l'umile testa
la sera d'autunno, Maria!
Ti vedo sorridere mesta
tra i tocchi d'un'Avemaria:
sorride il tuo gracile viso;
né trova, il tuo dolce sorriso,
nessuno:
così, con quelli occhi che nuovi
si fissano in ciò che tu trovi
per via; che nessuno ti sa;
quelli occhi sì puri e sì grandi,
coi quali perdoni, e domandi
pietà:
quelli occhi sì grandi, sì buoni,
sì pii, che da quando li apristi,
ne diedero dolci perdoni!
ne sparsero lagrime tristi!
quelli occhi cui nulla mai diede
nessuno, cui nulla mai chiede
nessuno!
quelli occhi che toccano appena
le cose! due poveri a cena
dal ricco, ignorati dai più;
due umili in fondo alla mensa,
due ospiti a cui non si pensa
già più!
49.
La mia malattia
I
L'altr'anno, ero malato, ero lontano,
a Messina: col tifo.
All'improvviso
udivo spesso camminar pian piano,
a piedi scalzi.
Era Maria, col viso
tutt'ombra, dove un mio levar di ciglia
gettava sempre un lampo di sorriso.
A volte erano i morti, la famiglia
nostra...
Io pian piano mi sentia toccare
il polso, e sussurrare: - Oh! la mia figlia!
sola! con nulla! con di mezzo il mare! -
II
Quelle sere, Maria non, come suole,
pregava al mio guanciale, co' suoi lenti
bisbigli, con le sue dolci parole:
dolci parole dette per gli assenti
al buon Gesù, dette per me: preghiere
perché in pace riposi e m'addormenti.
Prega, e vuol ch'io ripeta.
Quelle sere,
nulla, o diceva: «Dormi, ch'hai la voce
debole; è meglio ora per te tacere,
dormire; fatti il segno della croce».
III
Io pensava: - Ma dunque ella non crede
più, tanto? Che sarà della sua vita,
un vilucchio avvoltato alla sua fede? -
E pensando, alla mente illanguidita
io richiamava le devozioni
già dette con le mie tra le sue dita.
E ricordai che tra quei fiochi suoni
che a un Angiolo bisbiglia che li porti
su, c'era il Requiem; c'era anche: Vi doni
nostro Signore eterna pace, o morti!
IV
Morti che amate, morti che piangete,
morti che udivo camminar pian piano
nella mia, nella sua stanza a parete:
che sempre in dubbio d'aspettare in vano
sempre aspettate con pupille fisse,
come il mendico, tesa ch'ha la mano,
quelle preghiere; oh! sì, Maria le disse,
quelle preghiere, ma da sé, ma ebbre
di pianto, ma di là...
che non sentisse
suo fratello, che aveva alta la febbre...
50.
Un ricordo
Andavano e tornavano le rondini,
intorno alle grondaie della Torre,
ai rondinotti nuovi.
Era d'agosto.
Avanti la rimessa era già pronto
il calessino.
La cavalla storna
calava giù, seccata dalle
...
[Pagina successiva]