CANTI DI CASTELVECCHIO, di Giovanni Pascoli - pagina 5
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VII
Lo mandi a noi su la sericcia,
che si chiudono le porte:
ha i piedi scalzi, ma scalpiccia
sopra tante foglie morte;
non parla, ma passando in fretta
sgrolla qualche secco ramo;
per farci udir la tua schilletta
prima che ci addormentiamo.
20.
Il primo cantore
I
Il primo a cantare d'amore
chi è?
Non si vede un boccio di fiore,
non ancora un albero ha mosso;
la calta sola e il titimalo
verdeggia su l'acqua del fosso:
e tu già canti, o saltimpalo,
sicceccè...
sicceccè...
II
Un ramo non c'è, con due frasche,
per te!
Brulli sono meli e marasche;
forse il mandorlo ha imbottonato:
tu nella vigna sur un palo,
tu sul palancato d'un prato,
d'amore canti, o saltimpalo,
sicceccè...
sicceccè...
III
Hai fretta di fare il tuo nido...
perché?
Per un prato gira il tuo grido,
porti a un prato radiche e pappi:
non rischi dunque che sul calo
del verno si vanghi e si zappi!
Eppure gridi, o saltimpalo,
sicceccè...
sicceccè...
IV
Hai fretta, sei savio, sai bene
perché!
Viene il maggio, subito viene
la frullana grande che taglia...
Frulla, o falce! Forti su l'ali,
dal nido di musco e di paglia,
frullano i nuovi saltimpali...
sicceccè...
sicceccè...
21.
La capinera
Il tempo si cambia: stasera
vuol l'acqua venire a ruscelli.
L'annunzia la capinera
tra li àlbatri e li avornielli:
tac tac.
Non mettere, o bionda mammina,
ai bimbi i vestiti da fuori.
Restate, che l'acqua è vicina:
udite tra i pini e gli allori:
tac tac.
Anch'essa nel tiepido nido
s'alleva i suoi quattro piccini:
per questo ripete il suo grido,
guardando il suo nido di crini:
tac tac.
Già vede una nuvola a mare:
già, sotto le goccie dirotte,
vedrà tutto il bosco tremare,
covando tra il vento e la notte:
tac tac.
22.
Foglie morte
Oh! che già il vento volta
e porta via le pioggie!
Dentro la quercia folta
ruma le foglie roggie
che si staccano, e fru...
partono; un branco ad ogni
soffio che l'avviluppi.
Par che la quercia sogni
ora, gemendo, i gruppi
del novembre che fu.
Volano come uccelli,
morte nel bel sereno:
picchiano nei ramelli
del roseo pesco, pieno
de' suoi cuccoli già.
E il roseo pesco oscilla
pieno di morte foglie:
quale s'appende e prilla,
quale da lui si toglie
con un sibilo, e va.
Ma quelle foglie morte
che il vento, come roccia,
spazza, non già di morte
parlano ai fiori in boccia,
ma sussurrano: - Orsù!
Dentro ogni cocco all'uscio
vedo dei gialli ugnoli:
tu che costì nel guscio
di più covar ti duoli,
che ti pèriti più?
Fuori le alucce pure,
tu che costì sei vivo!
Il vento ruglia...
eppure
esso non è cattivo.
Ruglia, brontola: ma...
contende a noi! Ché tutto
vuol che sia mondo l'orto
pei nuovi fiori, e il brutto,
il secco, il vecchio, il morto,
vuol che netti di qua.
Noi c'indugiammo dove
nascemmo, un po', ma era
per ricoprir le nuove
gemme di primavera...
-
Così dicono, e fru...
partono, ad un rabbuffo
più stridulo e più forte.
E tra un voletto e un tuffo
vanno le foglie morte,
e non tornano più.
23.
Canzone di marzo
Che torbida notte di marzo!
Ma che mattinata tranquilla!
che cielo pulito! che sfarzo
di perle! Ogni stelo, una stilla
che ride: sorriso che brilla
su lunghe parole.
Le serpi si sono destate
col tuono che rimbombò primo
Guizzavano, udendo l'estate,
le verdi cicigne tra il timo;
battevan la coda sul limo
le biscie acquaiole.
Ancor le fanciulle si sono
destate, ma per un momento;
pensarono serpi, a quel tuono;
sognarono l'incantamento.
In sogno gettavano al vento
le loro pezzuole.
Nell'aride bresche anco l'api
si sono destate agli schiocchi.
La vite gemeva dai capi,
fremevano i gelsi nei nocchi.
Ai lampi sbattevano gli occhi
le prime viole.
Han fatto, venendo dal mare,
le rondini tristo viaggio.
Ma ora, vedendo tremare
sopr'ogni acquitrino il suo raggio,
cinguettano in loro linguaggio,
ch'è ciò che ci vuole.
Sì, ciò che ci vuole.
Le loro
casine, qualcuna si sfalda,
qualcuna è già rotta.
Lavoro
ci vuole, ed argilla più salda;
perché ci stia comoda e calda
la garrula prole.
24.
Valentino
Oh! Valentino vestito di nuovo,
come le brocche dei biancospini!
Solo, ai piedini provati dal rovo
porti la pelle de' tuoi piedini;
porti le scarpe che mamma ti fece,
che non mutasti mai da quel dì,
che non costarono un picciolo: in vece
costa il vestito che ti cucì.
Costa; ché mamma già tutto ci spese
quel tintinnante salvadanaio:
ora esso è vuoto; e cantò più d'un mese
per riempirlo, tutto il pollaio.
Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco
non ti bastava, tremavi, ahimè!,
e le galline cantavano, Un cocco!
ecco ecco un cocco un cocco per te!
Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello:
come l'uccello venuto dal mare,
che tra il ciliegio salta, e non sa
ch'oltre il beccare, il cantare, l'amare,
ci sia qualch'altra felicità
25.
Il croco
I
O pallido croco,
nel vaso d'argilla,
ch'è bello, e non l'ami,
coi petali lilla
tu chiudi gli stami
di fuoco:
le miche di fuoco
coi lunghi tuoi petali
chiudi nel cuore
tu leso, o poeta
dei pascoli, fiore
di croco!
Voi l'acqua di polla
ravvivi, o viole,
non chi la sua zolla
rivuole!
II
Ma messo ad un riso
di luce e di cielo,
per subito inganno
ritorna il tuo stelo
colà donde l'hanno
diviso:
tu pallido, e fiso
nel raggio che accora,
nel raggio che piace,
dimentichi ch'ora
sei esule, lacero,
ucciso:
tu apri il tuo cuore,
ch'è chiuso, che duole,
ch'è rotto, che muore,
nel sole!
26.
Fanciullo mendico
Ho nel cuore la mesta parola
d'un bimbo ch'all'uscio mi viene.
Una lagrima sparsi, una sola,
per tante sue povere pene;
e pur quella pensai che vanisse
negl'ispidi riccioli ignota:
egli alzò le pupille sue fisse,
sentendosi molle la gota.
E io, quasi chiedendo perdono,
gli tersi la stilla smarrita,
con un bacio, e ponevo il mio dono
tra quelle sue povere dita.
Ed allora ne intesi nel cuore
la voce che ancora vi sta:
Non li voglio: non voglio, signore,
che scemi le vostra pietà.
E quand'egli già fuor del cancello
riprese il solingo sentiero,
io sentii, che, il suo grave fardello,
godeva a portarselo intiero:
e chiamava sua madre, che sorta
pareva da nebbie lontane,
a vederlo; poi ch'erano, morta
lei, morta! ma lui senza pane.
27.
La vite
Or che il cucco forse è vicino,
mentre i peschi mettono il fiore,
cammino, e mi pende all'uncino
la spada dell'agricoltore.
Il pennato porto, ché odo
già la prima voce del cucco...
cu...
cu... io rispondo a suo modo:
mi dice ch'io cucchi, e sì, cucco.
Sì, ti cucco, vite, ché sento
già nel sole stridere l'api:
ti taglio ogni vecchio sarmento,
ti lascio tre occhi e due capi.
O che piangi, vite gentile,
perché al vento stai nuda nata?
Se anch'io tra i fioretti d'aprile
sembravo una vite tagliata!
Piangi quello che ti si toglie?
Ma ti cucco, taglio ed accollo,
perché, quando cadon le foglie,
tu abbia un tuo qualche grispollo!
O mia vite...
no, o mia vita,
così torta meglio riscoppi!
E poi...
com'è buono, alle dita,
l'odore di gemme di pioppi!
E parlare, ritto su loro,
col venuto di là dal mare,
chiedendogli, in mezzo al lavoro,
quant'anni si deve campare!
28.
Il sonnellino
Guardai, di tra l'ombra, già nera,
del sonno, smarrendo qualcosa
lì dentro: nell'aria non era
che un cirro di rosa.
E il cirro dal limpido azzurro
splendeva sui grigi castelli,
levando per tutto un sussurro
d'uccelli;
che sopra le tegole rosse
del tetto e su l'acque del rio
cantavano, e non che non fosse
silenzio ed oblìo:
cantavano come non sanno
cantare che i sogni nel cuore,
che cantano forte e non fanno
rumore.
E io mi rivolsi nel blando
mio sonno, in un sonno di rosa,
cercando cercando cercando
quel vecchio qualcosa;
e forse lo vidi e lo presi,
guidato da un canto d'uccelli,
non so per che ignoti paesi
più belli...
che pure ravviso, e mi volgo,
più belli, a guardarli più buono...
Ma tutto mi toglie la folgore...
O subito tuono!
ch'hai fatto succedere a un'alba
piaciuta tra il sonno, passata
nel sonno, una stridula e scialba
giornata!
29.
La bicicletta
I
Mi parve d'udir nella siepe
la sveglia d'un querulo implume.
Un attimo...
Intesi lo strepere
cupo del fiume.
Mi parve di scorgere un mare
dorato di tremule mèssi.
Un battito...
Vidi un filare
di neri cipressi.
Mi parve di fendere il pianto
d'un lungo corteo di dolore.
Un palpito...
M'erano accanto
le nozze e l'amore.
dlin...
dlin...
II
Ancora echeggiavano i gridi
dell'innominabile folla;
che udivo stridire gli acrìdi
su l'umida zolla.
Mi disse parole sue brevi
qualcuno che arava nel piano:
tu, quando risposi, tenevi
la falce alla mano.
Io dissi un'alata parola,
fuggevole vergine, a te;
la intese una vecchia che sola
parlava con sé.
dlin...
dlin...
III
Mia terra, mia labile strada,
sei tu che trascorri o son io?
Che importa? Ch'io venga o tu vada,
non è che un addio!
Ma bello è quest'impeto d'ala,
ma grata è l'ebbrezza del giorno.
Pur dolce è il riposo...
Già cala
la notte: io ritorno.
La piccola lampada brilla
per mezzo all'oscura città.
Più lenta la piccola squilla
dà un palpito, e va...
dlin...
dlin...
30.
Il ritorno delle bestie
Non sul pioppo picchia il pennato
più, né l'eco più gli risponde.
L'erta sale un uomo celato
dal carico folto di fronde.
E il martello d'un legnaiuolo,
più lontano, più non rimbomba.
Passa il grido d'un bimbo solo:
Turella! Bianchina! Colomba!
Porta in collo l'erba ch'ha fatta,
nella sua crinella di salcio.
Le sue bestie al greppo, alla fratta,
s'indugiano, al cesto ed al tralcio.
Ei che vede sopra ogni tetto
già la nuvola celestina,
le minaccia col suo falcetto:
Colomba! Turella! Bianchina!
C'è un falcetto lucido ancora
su la Pania, al fior del sereno,
dentro l'aria dolce ch'odora
d'un tiepido odore di fieno.
C'è silenzio lassù, dov'erra
quel falcetto con qualche stella.
Solo il bimbo strilla da terra:
Bianchina! Colomba! Turella!
31.
La figlia maggiore
Ninnava ai piccini la culla,
cuciva ai fratelli le fasce:
non sapeva, madre fanciulla,
come si nasce.
Nel cantuccio, zitta, da brava,
preparava cercine e telo
pei bimbi che mamma le andava
a prendere in cielo.
Or cantano i passeri intorno
la piccola croce, in amore...
ché lo seppe, misera, un giorno,
come si muore!
L'erba è verde, piena di grilli.
Non un passo, non una voce
mai.
Vivono, loro, tranquilli
intorno la croce.
Si beccano, s'amano, pascono,
in mezzo a quel pieno di cose
e di silenzio, dove il verbasco
fa tra le rose.
No, passeri! su le sue zolle,
no! non fate tanto vicino!
Là fitto di bianche corolle
è il pero e il susino.
Andate su l'albero in fiore
che al vento si dondola e culla!
Non turbate l'umile cuore
che non sa nulla!
Passa il vento come un respiro
caldo, lungo, dolce, che porta
su l'alito il polline in giro...
sopra la morta.
No, vento d'aprile, no, vento
d'amore, no tanto vicino!
Là nei campi bacia il frumento,
soffia tra il lino!
Fa che venga l'anima ai cardi,
che le viti tengano il raspo:
fa che abbiano l'accia, più tardi,
il guindolo e l'aspo!
Ma l'erba qui prima del fiore,
ma il fiore qui prima del seme,
la frullana taglia, e due ore
sibila e freme.
Un vecchione falcia e raduna
l'erbe e i fiori di primavera;
poi tutto egli brucia, là, una
limpida sera:
la sera, una sera di maggio,
che s'odono tanti stornelli
di sui gelsi, e sente, il villaggio,
di filugelli.
Dal villaggio vedon la fiamma
ch'arde sola, rossa, in quel canto:
la vedono gli occhi di mamma
pieni di pianto.
Oh! piange, ché il vecchio le toglie
qualcosa più che le togliesse:
fili d'erba, piccole foglie,
povera mèsse,
fioritura, sì, bianca e rossa,
della bimba, che non lo sa:
sua sola, laggiù, nella fossa,
maternità.
32.
L'usignolo e i suoi rivali
Egli coglieva ed ammucchiava al suolo
secche le foglie del suo marzo primo
(era il suo nuovo marzo), il rosignolo,
per farsi il nido.
E gorgheggiava in tanto
tutto il gran giorno; e dolce più del timo
e più puro dell'acqua era il suo canto.
Cantava, quando, per le valli intorno,
cu...
cu... sentì ripetere, cu...
cu...
Ecco: al cuculo egli cedette il giorno,
e di giorno non volle cantar più.
Non più di giorno.
Ma la notte! Appena
la luna estiva, di tra l'alabastro
delle rugiade, tremolò serena,
riprese il verso; e d'ora in poi soltanto
cantava a notte; e lucido com'astro
e soave com'ombra era il suo canto.
Cantava, quando, da non so che grotte,
sentì gemere, chiù... piangere, chiù...
All'assiuolo egli lasciò la notte,
anche la notte; e non cantò mai più.
Or né canta né ode: abita presso
il brusìo d'una fonte e d'un cipresso.
33.
Il fringuello cieco
Finch... finché nel cielo volai,
finch... finch'ebbi il nido sul moro,
c'era un lume, lassù, in ma' mai,
un gran lume di fuoco e d'oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo...
Il sole!...
Ogni alba nella macchia,
ogni mattina per il brolo,
- Ci sarà? - chiedea la cornacchia;
- Non c'è più! - gemea l'assiuolo;
e cantava già l'usignolo:
- Addio, addio dio dio dio dio... -
Ma la lodola su dal grano
saliva a vedere ove fosse.
Lo vedeva lontan lontano
con le belle nuvole rosse.
E, scesa al solco donde mosse,
trillava: - C'è, c'è, lode a Dio! -
«Finch...
finché non vedo, non credo»
però dicevo a quando a quando.
Il merlo fischiava - Io lo vedo -;
l'usignolo zittìa spiando.
Poi cantava gracile e blando:
- Anch'io anch'io chio chio chio chio...
-
Ma il dì ch'io persi cieli e nidi,
ahimè che fu vero, e s'è spento!
Sentii gli occhi pungermi, e vidi
che s'annerava lento lento.
Ed ora perciò mi risento:
- O sol sol sol sol...
sole mio? -
34.
La canzone dell'ulivo
I
A' piedi del vecchio maniero
che ingombrano l'edera e il rovo;
dove abita un bruno sparviero,
non altro, di vivo;
che strilla e si leva, ed a spire
poi torna, turbato nel covo,
chi sa? dall'andare e venire
d'un vecchio balivo:
a' piedi dell'odio che, alfine,
solo è con le proprie rovine,
piantiamo l'ulivo!
II
l'ulivo che a gli uomini appresti
la bacca ch'è cibo e ch'è luce,
gremita, che alcuna ne resti
pel tordo sassello;
l'ulivo che ombreggi d'un glauco
pallore la rupe già truce,
dov'erri la pecora, e rauco
la chiami l'agnello;
l'ulivo che dia le vermene
pel figlio dell'uomo, che viene
sul mite asinello.
III
Portate il piccone; rimanga
l'aratro nell'ozio dell'aie.
Respinge il marrello e la vanga
lo sterile clivo.
Il clivo che ripido sale,
biancheggia di sassi e di ghiaie;
lo assordano l'ebbre cicale
col grido solivo.
Qui radichi e cresca! Non vuole,
per crescere, ch'aria, che sole,
che tempo, l'ulivo!
IV
Nei massi le barbe, e nel cielo
le piccole foglie d'argento!
Serbate a più gracile stelo
più soffici zolle!
Tra i massi s'avvinchia, e non cede,
se i massi non cedono, al vento.
Lì, soffre, ma cresce, né chiede
più ciò che non volle.
L'ulivo che soffre ma bea,
che ciò ch'è più duro, ciò crea
che scorre più molle.
V
Per sé, c'è chi semina i biondi
solleciti grani cui copra
la neve del verno e cui mondi
lo zefiro estivo.
Per sé, c'è chi pianta l'alloro
che presto l'ombreggi e che sopra
lui regni, al sussurro canoro
del labile rivo.
Non male.
Noi mèsse pei figli,
noi, ombra pei figli de' figli,
piantiamo l'ulivo!
VI
Voi, alberi sùbiti, date
pur ombra a chi pianta ed innesta;
voi, frutto; e le brevi fiammate
col rombo seguace!
Tu, placido e pallido ulivo,
non dare a noi nulla; ma resta!
ma cresci, sicuro e tardivo,
nel tempo che tace!
ma nutri il lumino soletto
che, dopo, ci brilli sul letto
dell'ultima pace!
35.
Passeri a sera
L'uomo che intende gli uccelli, i gridi
dei falchi, i pianti delle colombe,
ciò che le cincie dicono ai nidi,
e il chiù, che vuole più dalle tombe;
siede a un cipresso.
Passa, e lavora
sempre, un aratro, là, là, soletto,
con qualche voce ruvida.
E` l'ora
che vanno i bruni passeri a letto.
Chi vien dal monte, chi vien dal piano:
tutti al cipresso.
Cantano: - Sì...
Ora, sebbene tu non ti scopra,
sappiamo quanto buono tu fossi
ponendo pietra su pietra, e sopra
facendo un tetto d'embrici rossi.
Per chi? Per questi passeri...
E` breve,
di verno, il giorno, la notte è lunga:
tu vuoi che prima ci esca la neve,
tu vuoi che il sole prima ci giunga.
Le case fece la tua gran mano
pei tetti, e i tetti per noi coprì.
Hai cibi grati per noi, che sono
grandi pel nostro piccolo becco:
giorno per giorno, rompi tu buono
con i tuoi denti stessi il pan secco;
spargi le bianche briciole, scuoti
la bianca tela; le spazzi fuori;
ma un po' lontano, come è nei voti
di questi buoni tuoi peccatori;
che, sì, vediamo tutto da un ramo,
lieti, ma in cuore timidi un po'.
Ed altro pensi, che spetrerebbe
tra l'alte nubi l'aquila e il falco!
Tu prendi, appena sai che ci crebbe
famiglia, i chicchi d'oro dal palco;
esci all'aperto; spargi quei chicchi,
prodigo e cauto, tra due filari;
anzi, a che l'oro meglio ne spicchi
su quel pulito, v'erpichi ed ari.
E noi da un ramo, comodi, udiamo
quelle tue lunghe grida, Bi...
Ro...
Vero che a volte ce li nascondi,
quei chicchi; vero; ma fai per giuoco.
Ma ecco, a volte son così fondi,
che noi diremmo, Badaci un poco!
Pure il tuo male mai non fa male:
quelli che copre l'invida zappa,
poi, col frinire delle cicale,
mettono un gambo, fanno una rappa:
che poi ci sgrani...
Dal male il bene:
bene che nasce, male che fu.
-
Ma già i minori dormono.
Soli
vegliano i vecchi.
C'è chi sospira:
- Ahimè! talvolta di noi ti duoli!
Sei giusto, eppure grave nell'ira.
Or che i novelli tengono i capi
sotto le alucce, vicino al cuore,
lo dico, mentre tacciono l'api,
le mosche, i ragni, tutto: si muore!
Tu ci vuoi bene, certo...
ma il bene
tuo lo vorremmo per un po' più...
-
E` già nell'ombra tutta la valle:
sui monti un raggio trema del giorno.
Già le notturne grandi farfalle,
coi neri teschi, ronzano intorno.
- Oh! quel diluvio con che noi vivi
tu pigli, grandi, piccoli, troppi!
Oh! quel baleno con che ci arrivi
fino su l'alte cime dei pioppi!
Ma da te viene ciò che ci piace:
forse anche questo ci piacerà.
-
Dormono.
L'uomo parte.
Il cipresso
freme di nuovi brevi bisbigli.
- C'era non visto dunque sì presso!?
Su, la zampina...
non c'è più, figli! -
Va l'uomo, e nero tu nell'azzurro,
cipresso pieno d'anime, affondi.
Va l'uomo, ed ora bada al sussurro
che fan tra loro fievole i mondi,
su, fitti fitti, piccoli, in pace,
nell'infinita serenità.
36.
Il gelsomino notturno
E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento...
E` l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
37.
Il poeta solitario
O dolce usignolo che ascolto
(non sai dove), in questa gran pace
cantare cantare tra il folto,
là, dei sanguini e delle acace;
t'ho presa - perdona, usignolo -
una dolce nota, sol una,
ch'io canto tra me, solo solo,
nella sera, al lume di luna.
E pare una tremula bolla
tra l'odore acuto del fieno,
un molle gorgoglio di polla,
un lontano fischio di treno...
Chi passa, al morire del giorno,
ch'ode un fischio lungo laggiù
riprende nel cuore il ritorno
verso quello che non è più.
Si trova al nativo villaggio,
vi ritrova quello che c'era:
l'odore di mesi-di-maggio
buon odor di rose e di cera.
Ne ronzano le litanie,
come l'api intorno una culla:
ci sono due voci sì pie!
di sua madre e d'una fanciulla.
Poi fatto silenzio, pian piano,
nella nota mia, che t'ho presa,
risente squillare il lontano
campanello della sua chiesa.
Riprende l'antica preghiera,
ch'ora ora non ha perché;
si trova con quello che c'era,
ch'ora ora ora non c'è...
..........................................
Chi sono? Non chiederlo.
Io piango,
ma di notte, perch'ho vergogna.
O alato, io qui vivo nel fango.
Sono un gramo rospo che sogna.
38.
La guazza
Laggiù, nella notte, tra scosse
d'un lento sonaglio, uno scalpito
è fermo.
Non anco son rosse
le cime dell'Alpi.
Nel cielo d'un languido azzurro,
le stelle si sbiancano appena:
si sente un confuso sussurro
nell'aria serena.
Chi passa per tacite strade?
Chi parla da tacite soglie?
Nessuno.
E` la guazza che cade
sopr'aride foglie.
Si parte, ch'è ora, né giorno,
sbarrando le vane pupille;
si parte tra un murmure intorno
di piccole stille.
In mezzo alle tenebre sole,
qualcuna riluce un minuto;
riflette il tuo Sole, o mio Sole;
poi cade: ha veduto.
39.
Primo canto
Quando apparisce l'oro nel grano
col verdolino nuovo dei tralci,
e già nell'ore d'ozio il villano
sopra una pietra batte le falci;
dall'aie, dalle prode, dal fimo
che vaporando sente la state,
voi con la gioia del canto primo,
primi galletti, tutti cantate:
Vita da re...!
A tutte l'ore gettate all'aria,
chi di tra i solchi, chi di sui rami,
la vostra voce stridula e varia,
chi, che ripeta, chi, che richiami.
Chi fioco i versi muta e rimuta,
chi strilla quasi lo correggesse:
e l'uno dopo l'altro saluta
la casa, il sole, l'ombra, la mèsse:
Vita da re...!
Galletti arguti, gloria dell'aia
che da due mesi v'ospita e pasce,
ora la vostra vecchia massaia,
quando vi sente, pensa alle grasce:
quando vi sente, pensa ai padroni
il contadino vostro che miete,
e mentre lega manne e covoni,
galletti arguti, con voi ripete:
Vita da re...!
Quando, odorati sempre di lolla,
lasciate i campi dove nasceste,
perché, se un'aspra mano vi sgrolla,
voi vi beccate tra voi le creste?
Lunga è la strada, grave la state,
vi stringe il duro cappio di tozzo:
voi l'uno all'altro rimproverate
quel vostro canto chiuso nel gozzo:
Vita da re...!
Poi nel paese, tra quattro mura,
sotto il barlume forse d'un moggio,
nella cucina tacita e scura
voi ricordate l'aia ed il poggio;
e mentre tutti dormono, e scialba
geme la luce dalle finestre,
come un lamento lungo su l'alba
suona l'antico grido silvestre:
Vita da re...!
40.
La canzone del girarrosto
I
Domenica! il dì che a mattina
sorride e sospira al tramonto!...
Che ha quella teglia in cucina?
che brontola brontola brontola...
E` fuori un frastuono di giuoco,
per casa è un sentore di spigo...
Che ha quella pentola al fuoco?
che sfrigola sfrigola sfrigola...
E già la massaia ritorna
da messa;
così come trovasi adorna,
s'appressa:
la brage qua copre, là desta,
passando, frr, come in un volo,
spargendo un odore di festa,
di nuovo, di tela e giaggiolo.
II
La macchina è in punto; l'agnello
nel lungo schidione è già pronto;
la teglia è sul chiuso fornello,
che brontola brontola brontola...
Ed ecco la macchina parte
da sé, col suo trepido intrigo:
la pentola nera è da parte,
che sfrigola sfrigola sfrigola...
Ed ecco che scende, che sale,
che frulla,
che va con un dondolo eguale
di culla.
La legna scoppietta; ed un fioco
fragore all'orecchio risuona
di qualche invitato, che un poco
s'è fermo su l'uscio, e ragiona.
III
E` l'ora, in cucina, che troppi
due sono, ed un solo non basta:
si cuoce, tra murmuri e scoppi,
la bionda matassa di pasta.
Qua, nella cucina, lo svolo
di piccole grida d'impero;
là, in sala, il ronzare, ormai solo,
d'un ospite molto ciarliero.
Avanti i suoi ciocchi, senz'ira
né pena,
la docile macchina gira
serena,
qual docile servo, una volta
ch'ha inteso, né altro bisogna:
lavora nel mentre che ascolta,
lavora nel mentre che sogna.
IV
Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora,
con una vertigine molle:
con qualche suo fremito incuora
la pentola grande che bolle.
E` l'ora: s'affretta, né tace,
ché sgrida, rimprovera, accusa,
col suo ticchettìo pertinace,
la teglia che brontola chiusa.
Campana lontana si sente
sonare.
Un'altra con onde più lente,
più chiare,
risponde.
Ed il piccolo schiavo
già stanco, girando bel bello,
già mormora, in tavola! in tavola!,
e dondola il suo campanello.
41.
L'ora di Barga
Al mio cantuccio, donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell'ore viene col vento
dal non veduto borgo montano:
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade.
Tu dici, E` l'ora; tu dici, E` tardi,
voce che cadi blanda dal cielo.
Ma un poco ancora lascia che guardi
l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo,
cose ch'han molti secoli o un anno
o un'ora, e quelle nubi che vanno.
Lasciami immoto qui rimanere
fra tanto moto d'ale e di fronde;
e udire il gallo che da un podere
chiama, e da un altro l'altro risponde,
e, quando altrove l'anima è fissa,
gli strilli d'una cincia che rissa.
E suona ancora l'ora, e mi manda
prima un suo grido di meraviglia
tinnulo, e quindi con la sua blanda
voce di prima parla e consiglia,
e grave grave grave m'incuora:
mi dice, E` tardi; mi dice, E` l'ora.
Tu vuoi che pensi dunque al ritorno,
voce che cadi blanda dal cielo!
Ma bello è questo poco di giorno
che mi traluce come da un velo!
Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi;
ma un poco ancora lascia che guardi.
Lascia che guardi dentro il mio cuore,
lascia ch'io viva del mio passato;
se c'è sul bronco sempre quel fiore,
s'io trovi un bacio che non ho dato!
Nel mio cantuccio d'ombra romita
lascia ch'io pianga su la mia vita!
E suona ancora l'ora, e mi squilla
due volte un grido quasi di cruccio,
e poi, tornata blanda e tranquilla,
mi persuade nel mio cantuccio:
è tardi! è l'ora! Sì, ritorniamo
dove son quelli ch'amano ed amo.
42.
Il viatico
Là, suonano a doppio.
Si sente,
qua presso, uno struscio di gente,
e suona suona un campanello
sul dolce mezzodì.
Si sente una lauda che sale
tra il fremito delle cicale
per il sentiero, ove il fringuello
cauto via via zittì.
E passa un branchetto...
Son quelli.
Son poveri bimbi in capelli,
poi donne salmeggianti in coro:
O vivo pan del ciel!...
E` un vecchio che parte; e il paese
gli porta qualcosa che chiese,
cantando sotto il cielo d'oro:
O vivo pan del ciel!...
qualcosa che in tanti e tanti anni,
cercando tra gioie ed affanni,
ancora non poté riporre
da portar via con sé.
E gli altri si assidono a mensa,
ma egli ancor cerca, ancor pensa
al niente, al niente che gli occorre,
a un piccolo perché,
nel piccolo passo, ch'è un volo
di mosca, ch'è un attimo solo...
Quel giorno anche per me, campane,
sonate pur così,
quel canto, in quell'ora, s'inalzi,
portatemi, o piccoli scalzi,
portatelo anche a me quel pane,
sul vostro mezzodì.
43.
L'imbrunire
Cielo e Terra dicono qualcosa
l'uno all'altro nella dolce sera.
Una stella nell'aria di rosa,
un lumino nell'oscurità.
I Terreni parlano ai Celesti,
quando, o Terra, ridiventi nera;
quando sembra che l'ora s'arresti,
nell'attesa di ciò che sarà.
Tre pianeti su l'azzurro gorgo,
tre finestre lungo il fiume oscuro;
sette case nel tacito borgo,
sette Pleiadi un poco più su.
Case nere: bianche gallinelle!
Case sparse: Sirio, Algol, Arturo!
Una stella od un gruppo di stelle
per ogni uomo o per ogni tribù.
Quelle case sono ognuna un mondo
con la fiamma dentro, che traspare;
e c'è dentro un tumulto giocondo
che non s'ode a due passi di là.
E tra i mondi, come un grigio velo,
erra il fumo d'ogni focolare.
La Via Lattea s'esala nel cielo,
per la tremola serenità.
44.
La fonte di Castelvecchio
O voi che, mentre i culmini Apuani
il sole cinge d'un vapor vermiglio,
e fa di contro splendere i lontani
vetri di Tiglio;
venite a questa fonte nuova, sulle
teste la brocca, netta come specchio,
equilibrando tremula, fanciulle
di Castelvecchio;
e nella strada che già s'ombra, il busso
picchia de' duri zoccoli, e la gonna
stiocca passando, e suona eterno il flusso
della Corsonna:
fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
dove brusivo con un lieve rombo
sotto i castagni; ora convien che corra
chiusa nel piombo.
A voi, prigione dalle verdi alture,
pura di vena, vergine di fango,
scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
vergini, piango:
non come piange nel salir grondando
l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
io solo mando tra il gorgoglio blando
qualche singhiozzo.
Oh! la mia vita di solinga polla
nel taciturno colle delle capre!
udir soltanto foglia che si crolla,
cardo che s'apre,
vespa che ronza, e queruli richiami
del forasiepe! Il mio cantar sommesso
era tra i poggi ornati di ciclami
sempre lo stesso;
sempre sì dolce! E nelle estive notti,
più, se l'eterno mio lamento solo
s'accompagnava ai gemiti interrotti
dell'assiuolo,
più dolce, più! Ma date a me, ragazze
di Castelvecchio, date a me le nuove
del mondo bello: che si fa? le guazze
cadono, o piove?
e per le selve ancora si tracoglie,
o fate appietto? ed il metato fuma,
o già picchiate? aspettano le foglie
molli la bruma,
o le crinelle empite ne' frondai
in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
frasca di faggio? od è già l'Alpe ormai
bianca di neve?
Più nulla io vedo, io che vedea non molto
quando chiamavo, con il mio rumore
fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
macole e more.
Col nepotino a me venìa la bianca
vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
andare come vaccherella stanca
va col suo redo.
Nella deserta chiesa che rovina,
vive la bianca Matta dei Beghelli
più? desta lei la sveglia mattutina
più, de' fringuelli?
Essa veniva al garrulo mio rivo
sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
e io, garrendo ancora più, l'empivo
sempre la secchia.
Ah! che credevo d'essere sua cosa!
Con lei parlavo, ella parlava meco,
come una voce nella valle ombrosa
parla con l'eco.
Però singhiozzo ripensando a questa
che lasciai nella chiesa solitaria,
che avea due cose al mondo, e gliene resta
l'una, ch'è l'aria.
45.
Temporale
E` mezzodì.
Rintomba.
Tacciono le cicale
nelle stridule seccie.
E chiaro un tuon rimbomba
dopo uno stanco, uguale,
rotolare di breccie.
Rondini ad ali aperte
fanno echeggiar la loggia
de' lor piccoli scoppi.
Già, dopo l'afa inerte,
fanno rumor di pioggia
le fogline dei pioppi.
Un tuon sgretola l'aria.
Sembra venuto sera.
Picchia ogni anta su l'anta.
Serrano.
Solitaria
s'ode una capinera,
là, che canta...
che canta...
E l'acqua cade, a grosse
goccie, poi giù a torrenti,
sopra i fumidi campi.
S'è sfatto il cielo: a scosse
v'entrano urlando i venti
e vi sbisciano i lampi.
Cresce in un gran sussulto
l'acqua, dopo ogni rotto
schianto ch'aspro diroccia;
mentre, col suo singulto
trepido, passa sotto
l'acquazzone una chioccia.
Appena tace il tuono,
che quando al fin già pare,
fa tremare ogni vetro,
tra il vento e l'acqua, buono,
s'ode quel croccolare
co' suoi pigolìi dietro.
46.
La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle.
Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E`, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Né io...
e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don...
Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era...
sentivo mia madre...
poi nulla...
sul far della sera.
47.
In viaggio
Si ferma, e già fischia, ed insieme,
tra il ferreo strepito del treno,
si sente una squilla che geme,
là da un paesello sereno,
paesello lungo la via:
Ave Maria...
Un poco, tra l'ansia crescente
della nera vaporiera,
l'addio della sera si sente
seguire come una preghiera,
seguire il treno che s'avvia:
Ave Maria...
E, come se voglia e non voglia,
il treno nel partir vacilla:
quel suono ci chiama alla soglia
e alla lampada che brilla,
nella casa, ch'è una badia:
Ave Maria...
Il padre a quel suono rincasa
facendo un passo ad ogni tocco;
e subito all'uscio di casa
trova il visino del suo cocco,
del più piccino che ci sia...
Ave Maria...
Si chiude, la casa; e s'appanna
d'un tratto il vocerìo che c'è;
si chiude, ristringe, accapanna,
per parlare tra sé e sé;
e saluta la compagnia...
Ave Maria...
O, tinta d'un lieve rossore,
casina che sorridi al sole!
per noi c'è la notte con l'ore
lunghe lunghe, con l'ore sole,
con l'ore di malinconia...
Ave Maria...
Il treno già vola e ci porta
sbuffando l'alito di fuoco;
e ancora nell'aria più smorta
ci giunge quell'addio più fioco,
dal paese che fugge via:
Ave Maria...
E cessa.
Ma uno che vuole
velar gli occhi, pensar lontano,
tra gemiti e strilli e parole,
tra il frastuono or tremolo or piano,
ode il suono che non s'oblia:
Ave Maria...
Con l'uomo che va nella notte,
tra gli aspri urli, i lunghi racconti
del treno che corre per grotte
di monti, sopra lenti ponti,
vien nell'ombrìa la voce pia:
Ave Maria...
48.
Maria
Ti splende su l'umile testa
la sera d'autunno, Maria!
Ti vedo sorridere mesta
tra i tocchi d'un'Avemaria:
sorride il tuo gracile viso;
né trova, il tuo dolce sorriso,
nessuno:
così, con quelli occhi che nuovi
si fissano in ciò che tu trovi
per via; che nessuno ti sa;
quelli occhi sì puri e sì grandi,
coi quali perdoni, e domandi
pietà:
quelli occhi sì grandi, sì buoni,
sì pii, che da quando li apristi,
ne diedero dolci perdoni!
ne sparsero lagrime tristi!
quelli occhi cui nulla mai diede
nessuno, cui nulla mai chiede
nessuno!
quelli occhi che toccano appena
le cose! due poveri a cena
dal ricco, ignorati dai più;
due umili in fondo alla mensa,
due ospiti a cui non si pensa
già più!
49.
La mia malattia
I
L'altr'anno, ero malato, ero lontano,
a Messina: col tifo.
All'improvviso
udivo spesso camminar pian piano,
a piedi scalzi.
Era Maria, col viso
tutt'ombra, dove un mio levar di ciglia
gettava sempre un lampo di sorriso.
A volte erano i morti, la famiglia
nostra...
Io pian piano mi sentia toccare
il polso, e sussurrare: - Oh! la mia figlia!
sola! con nulla! con di mezzo il mare! -
II
Quelle sere, Maria non, come suole,
pregava al mio guanciale, co' suoi lenti
bisbigli, con le sue dolci parole:
dolci parole dette per gli assenti
al buon Gesù, dette per me: preghiere
perché in pace riposi e m'addormenti.
Prega, e vuol ch'io ripeta.
Quelle sere,
nulla, o diceva: «Dormi, ch'hai la voce
debole; è meglio ora per te tacere,
dormire; fatti il segno della croce».
III
Io pensava: - Ma dunque ella non crede
più, tanto? Che sarà della sua vita,
un vilucchio avvoltato alla sua fede? -
E pensando, alla mente illanguidita
io richiamava le devozioni
già dette con le mie tra le sue dita.
E ricordai che tra quei fiochi suoni
che a un Angiolo bisbiglia che li porti
su, c'era il Requiem; c'era anche: Vi doni
nostro Signore eterna pace, o morti!
IV
Morti che amate, morti che piangete,
morti che udivo camminar pian piano
nella mia, nella sua stanza a parete:
che sempre in dubbio d'aspettare in vano
sempre aspettate con pupille fisse,
come il mendico, tesa ch'ha la mano,
quelle preghiere; oh! sì, Maria le disse,
quelle preghiere, ma da sé, ma ebbre
di pianto, ma di là...
che non sentisse
suo fratello, che aveva alta la febbre...
50.
Un ricordo
Andavano e tornavano le rondini,
intorno alle grondaie della Torre,
ai rondinotti nuovi.
Era d'agosto.
Avanti la rimessa era già pronto
il calessino.
La cavalla storna
calava giù, seccata dalle mosche,
l'un dopo l'altro tutti quattro i tonfi
dell'unghie su le selci della corte.
Era un dolce mattino, era un bel giorno:
di San Lorenzo.
Il babbo disse: «Io vo».
E in un gruppo tubarono le tortori.
Esse là nella paglia erano in cova.
Tra quel hu hu, mia madre disse: «Torna
prestino».
«Sai che volerò!» «Non correr
tanto: la tua stornella è appena doma».
«Eh! mi vuol bene!» «Addio».
«Addio».
«Vai solo?
non prendi Jên?» «Aspetto quel signore
da Roma...» «E` vero.
Ti verremo incontro
a San Mauro.
Io sarò sotto la Croce.
Tu ci vedrai passando».
«Io vi vedrò».
E Margherita, la sorella grande,
di sedici anni, disse adagio: «Babbo...»
«Che hai?» «Ho, che leggemmo nel giornale
che c'è gente che uccide per le strade...»
Chinò mio padre tentennando il capo
con un sorriso verso lei.
Mia madre
la guardò coi suoi cari occhi di mamma,
come dicendo: A cosa puoi pensare!
E le rondini andavano e tornavano,
ai nidi, piene di felicità.
Mio padre palpeggiò la sua cavalla
che l'ammusò con cenno familiare.
Riguardò le tirelle e il sottopancia,
e raccolte le briglie, calmo e grave,
si volse ancora a dire: «Addio!» Mia madre
s'appressò con le due bimbe per mano:
la più piccina a lui toccò la mazza.
Egli teneva il piede sul montante.
E in un gruppo le tortori tubarono,
e si sentì: «Papà! Papà! Papà!»
E un poco presa egli sentì, ma poco
poco, la canna come in un vignuolo,
come v'avesse cominciato il nodo
un vilucchino od una passiflora.
Sì: era presa in una mano molle,
manina ancora nuova, così nuova
che tutto ancora non chiudeva a modo.
Era la bimba che vi avea ravvolte,
come poteva, le sue dita rosa,
e che gemeva: «No! no! no! no! no!»
Mio padre prese la sua bimba in collo,
col suo gran pianto ch'era di già roco;
e la baciò, la ribaciò negli occhi
zuppi di già per non so che martoro.
«Non vuoi che vada?» «No!» «Perché non vuoi?»
«No! no!» «Ti porto tante belle cose!»
«No! no!» La pose in terra: essa di nuovo
stese alla canna le sue dita rosa,
gli mise l'altro braccio ad un ginocchio:
«No! no! papà! no! no! papà! no! no!»
Non s'udì che quel pianto e quei singulti
nel tranquillo mattino tutto luce.
Più non raspava i ciottoli con l'unghia
la cavalla, e volgea la testa smunta
alla bimba.
E le tortori, hu, hu!
Povera bimba! non avea compiuti
due anni, e ancor dormiva nella culla.
Sapea di latte il suo gran pianto lungo:
assomigliava ad un vagir notturno.
Mio padre disse: «Non partirò più».
Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro
la cavalla, aspettando ad un altro uscio.
Lontanò essa con un ringhio acuto.
E mio padre baciò la creatura,
e le disse: «Non vado: entro; mi muto,
e sto con te.
Perché tu sia sicura,
prendi la canna».
Rabbrividì tutta
essa, come un uccello quando arruffa
le piume; le spianò; poi con le due
braccia abbracciò la canna di bambù.
Ed aspettò.
Aspetta ancora.
Il babbo
non tornò più.
Non si rivide a casa.
Lo portarono a sera in camposanto,
lo stesero in un tavolo di marmo,
dissero, oh! sì! dissero ch'era sano,
e che avrebbe vissuto anche molti anni.
Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
ma piena del suo sangue era una mano.
Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,
ciò che di lui rimase, ove sarà?
Sorella, a volte penso che tu l'abbia,
che tu lo tenga ancora fra le braccia.
Così mi pare a volte, che ti guardo
e tu non vedi, ché tu stai pregando.
Tieni le braccia in croce, un poco lasse;
e tieni ancora gli occhi fissi in alto.
Stai come quando ti lasciò tuo padre;
sicura, come allora.
Ma una lagrima
ancora scorre a te, di quelle, e il labbro
balbetta ancora, sì: «Papà! Papà!»
51.
Il nido di «farlotti»
Tra gli autunnali giorni ricorre
al mio pensiero sempre quel giorno,
che dal palazzo, dalla gran Torre,
facemmo un tanto mesto ritorno:
ritorno tanto mesto, sebbene
fosse alla bianca nostra casina
che aveva ai piedi tante verbene
e su pei muri tanta cedrina;
dov'era, dietro siepi riquadre
di biancospino, dietro un cancello
verde, ciò ch'era della mia madre,
nostro, ma poco; poco, ma bello.
Io non credeva, fuori che in sogno,
fossero altrove gigli e giaggioli,
e il dolce odore del catalogno
e gli agri pomi de' lazzeruoli:
e ch'altro al mondo fosse che il troppo,
dopo le canne fitte dell'orto
e la mimosa, ch'è morta, e il pioppo,
ch'è morto, e l'alto cedro, ch'è morto.
Oh! sì, com'era mesto il ritorno,
e sì, la sera com'era mesta,
ben ch'in San Mauro fosse, quel giorno,
un'argentina romba di festa!
Ma morto il babbo da più d'un mese,
non c'era posto per i suoi nati
più, nella Torre, sì che al paese
ritornavamo come scacciati.
Noi s'era in otto, nove con essa,
nella carrozza, piccoli, stretti
a lei che stava bianca e dimessa
tra lo scoppiare dei mortaretti;
che si vedeva pallida e magra
tra il rintoccare delle campane.
Noi si tornava per una sagra
senza più padre senza più pane.
E disse un uomo; disse: e l'udiva
ella e ne pianse le lunghe notti
e ne fu trista fin che fu viva,
un anno: «Un nido, ve', di farlotti!»
Verlette, quando v'odo cantare,
nunzie che il caldo viene e la state,
nelle mattine tacite e chiare,
nelle opaline lunghe serate;
Oh! - dico - il nido fatto tra i rovi.
il vostro nido messo tra il rusco,
oh! che il villano non ve lo trovi,
il molle nido pieno di musco!
che rozzo è fuori, radiche e stecchi,
ma dentro è tutto lana e lichene,
dove d'un solo tratto sei becchi
s'aprono a un solo grillo che viene!
viene nel becco vostro, che intanto
state sur una vetta vicine
spiando il cibo raro e col canto
cullando il nido ch'è tra le spine!
Oh! voi non, mentre gettate il grido
che salva gli altri, predi l'astore;
né il bruco e il grillo manchi nel nido,
né il calduccino di sotto il cuore!
E quando viene Santa Maria
che rende all'uomo l'arma sua lunga,
oh! la covata vostra già sia
buona a volare; ch'e' non vi giunga!
Siano volastri per mezzo agosto,
né con la mano l'uomo li pigli
dopo un voletto, poco discosto
dal nido...
come, madre, i tuoi figli!
E come, o madre, quella parola
ti si confisse tanto nel petto,
che assomigliava la famigliuola
tua nuda a quella d'un uccelletto?
O madre! o madre! non era vero?
non eran ali dunque le tue?
non anche prese te lo sparviero
lasciando il nido senza voi due?
prima con otto bocche, poi sette,
sei, cinque...
aperte sempre al tuo volo,
aperte invano...
sì, di verlette:
nido fra i duri triboli solo.
Tra quei che il falco non ghermì poi,
o l'uomo vile, madre mia santa,
tra quei farlotti piccoli tuoi,
uno non vola dunque? non canta?
non era vero vero? le prime
arie non canta, semplici e tristi?
non vola, in alto, poi dalle cime
scende là dove tu gli sparisti?
52.
Il sogno della vergine
I
La vergine dorme.
Ma lenta
la fiamma del puro alabastro
le immemori palpebre tenta;
bussa alla chiusa anima.
Il lume
vacilla nell'ombra, come astro
di vita tra un velo di brume.
Echeggia nell'anima, invasa
dal sonno, quel battere, e pare
destare la tacita casa.
La casa si desta: un sorriso
s'accende, si muove ed appare
via via qua e là per il viso...
La vergine sogna: ed un rivo
di sangue stupisce le intatte
sue vene, d'un sangue più vivo,
più tiepido: come di latte...
II
Stupisce le placide vene
quel flutto soave e straniero,
quel rivolo, labile, lene,
d'ignota sorgente, che sembra
che inondi di blando mistero
le pie sigillate sue membra.
Le gracili membra non sanno
lo schianto, non sanno l'amplesso:
nel cuore, sì, forse un affanno
c'è, l'ombra di un palpito, l'orma
d'un grido: il respiro sommesso
d'un vago ricordo che dorma;
che dorma nel cuore ed esali
nel cuore il suo sonno romito.
La vergine sogna: ecco un alito
piccolo, accanto...
un vagito...
III
Un figlio! che posa nel letto
suo vergine! e cerca assetato
le fonti del vergine petto!
O figlio d'un intimo riso
dell'anima! o fiore non nato
da seme, e sbocciato improvviso!
Tu fiore non retto da stelo,
tu luce non nata da fuoco,
tu simile a stella del cielo;
dal cielo dell'anima, ov'ora
sbocciasti improvviso, tra poco
tu dileguerai nell'aurora.
In tanto tu vivi per una
breve ora; in un'anima, in tanto,
di vergine; in quella tua cuna
tu piangi il tuo tacito pianto.
IV
Si dondola dondola dondola
senza rumore la cuna
nel mezzo al silenzio profondo;
così, come tacito al vento,
nel tacito lume di luna,
si dondola un cirro d'argento.
Oh! dormi col tremolìo muto
dell'esile cuna che avesti!
non piangerlo tutto, il minuto
che avesti, dell'esile vita!
nel cuore di mamma non resti
quell'eco di pianto, infinita!
Sorridile, guardala; appressati
a mamma, ch'ormai non ha più,
per vivere un poco ancor essa,
che il poco di fiato ch'hai tu!
V
Il lume inquieto ora salta
guizzando, ora crepita e scende:
s'è spento.
Quiete più alta.
Nell'ombra già rara, già scialba
traverso le immobili tende
si sfuma la nebbia dell'alba.
Il fiore improvviso, non sorto
da seme, non retto da stelo...
svanito! Non nato, non morto:
svanito nell'alito chiaro
dell'alba! svanito dal cielo
notturno del sogno! - Cantarono
i galli, rabbrividì l'aria,
s'empì di scalpicci la via;
da lungi squillò solitaria
la voce dell'Avemaria.
53.
Il mendico
I
Soletto su l'orlo di un lago
che al rosso tramonto riluce,
v'è un uomo col refe e con l'ago
che cuce
tra l'erica bassa.
E cuce; e nel cielo turchino
già ridono l'aspre civette,
e il lago sul capo suo chino
riflette
qualche ala che passa.
E cuce; e i suoi cenci nell'acqua,
trapunta di tacite bolle,
si specchiano, e l'ombra li sciacqua
con murmure molle.
II
Ma in tanto che, ombrato da un velo,
nell'acqua il lavoro suo fiotta,
tra l'urto dei cirri del cielo
s'è rotta
la tenue gugliata.
Egli alza la testa.
Il suo filo
s'è rotto; e si sente dai tufi,
dall'inaccessibile asilo
dei gufi,
la morte che fiata.
E piccolo il sole che muore,
gli appare traverso la cruna
dell'ago.
Egli dice nel cuore:
- Ti lodo, Fortuna!
III
Nel mondo a te piacque gettare
tuo figlio, terribile e gaia,
siccome al fanciullo, nel mare,
la ghiaia
che sbalzi su l'onde.
Ma tutto m'hai dato a ch'io viva:
la mano, che regge la croce,
il piede, che mai non arriva,
la voce,
cui niuno risponde.
M'hai dato la dolce speranza
che arretra se il cuore si avvia,
l'immemore cuore che avanza
su nave che scìa.
IV
Ho errato seguendo le foglie
che il vento sospinge per gioco,
sostando non più che alle soglie,
per poco,
tra l'ira dei cani.
Ho errato nel mondo sì bello,
seguìto da un cupo latrato,
tendendo all'oblìo del fratello
mutato
le simili mani.
Son giunto: alla tomba; che trova
contigua la querula cuna,
com'onda, ad ogni attimo nuova,
ritrova la duna.
V
Se a me non fu dato vederti
mai, ora non, avida ancora,
tentando le palpebre inerti,
lavora
la cieca pupilla.
Se non mi porgesti né un sorso
di dolce, le fauci inquiete
non m'arde con vano rimorso
la sete
dell'ultima stilla.
Non vidi che nero, non bebbi
che fiele; ma ingrato non sono:
ti lodo per ciò che non ebbi;
che non abbandono.
VI
Non ebbi il superbo banchetto
tra quelli che aspettano al canto
le miche: e né letto né tetto,
tra tanto
di popolo nudo.
Non verso nell'ultimo istante
la lagrima vile a versarsi:
la prima! la sola! E le tante
ch'io sparsi,
con gli occhi le chiudo.
Io nudo, bussando alle porte,
ti dico, nell'ora che imbruna:
Di dolce sol ebbi la morte;
ma tutto è quest'una!
VII
Io t'amo pel freddo e lo stento,
l'insonnia, il digiuno, l'affanno,
cui devo che senza sgomento,
che fanno
ch'esperto io rimuoia.
Io t'amo perch'ora meschino
non chiedo, felice non rendo;
ma stanco del lungo cammino
discendo
senz'onta di gioia;
discendo laggiù tra le grame
mie genti, nel mondo che tace,
tra gli umili morti di fame
che dormono in pace.
-
VIII
Su l'orlo d'un lago nei monti,
fra stridulo ansare di grilli,
sul lago in cui, luna che monti,
scintilli,
c'è un nero, c'è un mucchio
di squallidi cenci e di membra,
c'è un uomo con gli occhi rivolti
nel lago, e che attonito sembra
che ascolti
l'eterno risucchio:
e simile a sogno di nulla,
nell'acqua c'è l'ombra sua bruna,
che appena si dondola e culla
nel lume di luna.
54.
Ov'è?
C'è uno di nuovo stamane
su nella casa solitaria.
Dall'uscio leva il muso il cane,
ne odora la vocina in aria.
Eppure fu notte serena!
né l'uscio sui gangheri appena
ciulì...
Non l'hanno (che dicono?) preso
in una ceppa di castagno!
Stanotte si sarebbe inteso
nel gran silenzio quel suo lagno.
Invece nei prati tranquilli
non c'era che il canto dei grilli:
tri...
tri...
Non l'hanno comprato alla fiera,
non l'hanno avuto dal convento.
Stanotte per le vie non c'era
che qualche scalpiccìo del vento;
e intorno alle tacite case
poi sola la voce rimase
del chiù.
Le case eran tacite, chiare
le vie; dormiva il cane all'uscio.
In casa egli dovette entrare,
come il pulcino nel suo guscio!
Cadevano stelle celesti,
brillando...
Oh! dal cielo cadesti
pur tu!
Dal cielo! Dal cielo! che piove
la guazza su le dure zolle.
Tu sei caduto, e non sai dove,
e giri l'occhio tutto molle.
Non fu la caduta di nulla!
Ma c'era una morbida culla
per te!
Oh! il mondo in cui oggi ti trovi,
del tuo cielo non t'è più caro!
fai tante rughe! e sempre muovi
la bocca, che ci senti amaro!
Oh! il cielo! il tuo cielo! e ne chiedi
col fievole grido a chi vedi:
ov'è? ov'è?
Ne chiedi ai ragazzi, col giorno
venuti sopra il piè leggieri,
e alle rondini che intorno
passano come lampi neri.
Né più, tra il bisbiglio e il sussurro,
capisci il tuo cielo d'azzurro
dov'è!
Zitti!...
ora non chiede più nulla:
dov'è, sua madre gliel'ha detto.
A lei lo porser dalla culla;
la mamma se l'è messo al petto.
Oh! ecco il suo cielo infinito!
e più non si sente il vagito:
ov'è? ov'è?
55.
La servetta di monte
Sono usciti tutti.
La serva
è in cucina, sola e selvaggia.
In un canto siede ed osserva
tanti rami appesi alla staggia.
Fa un giro con gli occhi, e bel bello
ritorna a guardarsi il pannello.
Non c'è nulla ch'essa conosca.
Tutto pende tacito e tetro.
E non ode che qualche mosca
che d'un tratto ronza ad un vetro;
non ode che il croccolìo roco
che rende la pentola al fuoco.
Il musino aguzzo del topo
è apparito ad uno spiraglio.
E` sparito, per venir dopo:
fa già l'acqua qualche sonaglio...
Lontano lontano lontano
si sente sonare un campano.
E` un muletto per il sentiero,
che s'arrampica su su su;
che tra i faggi piccolo e nero
si vede e non si vede più.
Ma il suo campanaccio si sente
sonare continuamente.
E` forse anco un'ora di giorno.
C'è nell'aria un fiocco di luna.
Come è dolce questo ritorno
nella sera che non imbruna!
per una di queste serate!
tra tanto odorino d'estate!
La ragazza guarda, e non sente
più il campano che a quando a quando.
Glielo vela forse il torrente
che a' suoi piedi cade scrosciando;
se forse non glielo nasconde
la brezza che scuote le fronde;
od il canto dell'usignolo
che, tacendo passero e cincia,
solo solo con l'assiuolo
la sua lunga veglia comincia,
ch'ha fine su l'alba, alla squilla,
nel cielo, della tottavilla.
56.
Addio!
Dunque, rondini rondini, addio!
Dunque andate, dunque ci lasciate
per paesi tanto a noi lontani.
E` finita qui la rossa estate.
Appassisce l'orto: i miei gerani
più non hanno che i becchi di gru.
Dunque, rondini rondini, addio!
Il rosaio qui non fa più rose.
Lungo il Nilo voi le rivedrete.
Volerete sopra le mimose
della Khala, dentro le ulivete
del solingo Achilleo di Corfù.
Oh! se, rondini rondini, anch'io...
Voi cantate forse morti eroi,
su quest'albe, dalle vostre altane,
quando ascolto voi parlar tra voi
nella vostra lingua di gitane,
una lingua che più non si sa.
Oh! se, rondini rondini, anch'io...
O son forse gli ultimi consigli
ai piccini per il lungo volo.
Rampicati stanno al muro i figli
che al lor nido con un grido solo
si rivolgono a dire: Si va?
Dunque, rondini rondini, addio!
Non saranno quelle che le case
han murato questo marzo scorso,
che a rifarne forse le cimase
strisceranno sopra il Rio dell'Orso,
che rugliava, e non mormora più.
Dunque, rondini rondini, addio!
Ma saranno pur gli stessi voli;
ma saranno pur gli stessi gridi;
quella gioia, per gli stessi soli;
quell'amore, negli stessi nidi;
risarà tutto quello che fu.
Oh! se, rondini rondini, anch'io...
io li avessi quattro rondinotti
dentro questo nido mio di sassi!
ch'io vegliassi nelle dolci notti,
che in un mesto giorno abbandonassi
alla libera serenità!
Oh! se, rondini rondini, anch'io...
rivolando su le vite loro,
ritrovando l'alba del mio giorno,
rimurassi sempre il mio lavoro,
ricantassi sempre il mio ritorno,
mio ritorno dal mondo di là!
57.
Il ritratto
I
Nel collegio d'Urbino il mio fratello
faceva in grande un piccolo ritratto.
Quando il già fatto a noi parea pur bello,
sotto la gomma il bello era già sfatto.
Tornavamo scontenti alla finestra
per guardare, intrecciati alla ringhiera,
se una carrozza per la via maestra
montava nella pace della sera.
Era pace nei cuori.
Era l'esame
passato alfine con le sue lunghe ore:
tranquillo alfine da più dì lo sciame
ronzava nella nuova arnia maggiore.
Più grande all'improvviso ogni fanciullo
si ritrovava dopo tante acquate;
il boccio apriva i petali in un frullo
meravigliando che già fosse estate;
e che fosse già colto, anzi, il ciliegio,
ma che di rosa si tingesse il melo;
che fosse tanto verde oltre il collegio,
ch'oltre la scuola fosse tanto cielo.
Si ronzava: non altro.
Fra due scuole
già chiuse, una di fronte, una alle spalle,
nel mezzo c'era l'aria, c'era il sole,
odor di timo e voli di farfalle.
Ma nell'ore, più brevi ma più lente,
di studio, tra due libri, ch'uno troppo
sapeva e l'altro non sapea più niente,
stanchi del nostro insolito galoppo,
con tra le mani che sentian di lauro
e di busso, le guancie ancor di fiamma,
noi pensavamo al nostro bel San Mauro,
al babbo atteso d'ora in ora, a mamma...
Se il babbo, a casa, col più grande ch'era
già di liceo, portava anche noi tre!...
Era quello, lo studio: una preghiera,
prima che al babbo, o Dio presente, a te!
II
Il più grande, un fanciullo esile e bianco,
nostro babbo d'Urbino, al suo ritratto
calmo attendeva; ed ogni tanto al fianco
gli era un di noi che gli chiedeva: E` fatto?
Quasi...
Ma il babbo arriva questa sera.
ed il ritratto non sarà finito!
Tornavamo a intrecciarci alla ringhiera,
a riguardare, ad appuntare il dito,
a dire, Vedi? a dire, Viene! O belle
serate, fin che il cielo era celeste,
e le vie bianche, e non ardean le stelle
sopra il nero di monti e di foreste!
Ma crescendo il silenzio, come triste
sonava la campana della cena;
mentre stelle lassù, viste e non viste,
cadevan per l'oscurità serena!
Oh! non veniva, non veniva ancora!
Il ritratto, sì, forse era venuto.
Anche due segni, l'opera d'un'ora,
di due: sarebbe vivo, benché muto.
Sì: finito in alcune ore, domani!
e sì: domani, ci sarebbe anch'esso!
Lo spiegherebbe tra le sue due mani,
sorriderebbe tacito a sé stesso;
e quindi al figlio, al caro primo, al vanto
di casa, al fiore che già dava il frutto:
e poi, con gli occhi molli un po' di pianto;
anche ai minori - Eh! sapevate tutto? ! -
troverebbe una lode anche per loro...
Domani, dunque, all'ora del tramonto.
Il fanciullo, il domani, era al lavoro;
verso sera il lavoro era già pronto.
Mancava un nulla.
Noi fissi alla via,
a una carrozza che montava su...
Oh! gittò un grido, spinse tutto via,
e tutto in pianto non lavorò più!
III
Era il dieci d'agosto.
Era su l'ora
dello scurire.
L'ora del ritorno.
Non attese al ritratto egli d'allora
più.
Mai più, da quell'ora e da quel giorno.
Quella sera restammo alla finestra,
ancora, ancora.
Ma pareva in vano.
Sì: era, il babbo, in una via maestra:
sì, ma come, ma quanto era lontano!
Oltre monti, oltre fiumi, oltre pianure,
oltre città.
Veniva da Cesena.
Di buon trotto.
Non anco erano oscure
le strade.
Solo.
L'anima, serena.
Oltre fiumi, città, monti, da un monte,
il caro figlio lo guardava in viso:
ne sfiorava la bianca larga fronte,
sorrideva al suo placido sorriso.
Oh! mio fratello, che fu mai? La bianca
fronte d'un tratto si macchiò di stille
rosse, la testa in un attimo stanca
per sempre, si piegò, con le pupille
ferme in eterno...
O tu che sei congiunto
a lui, ch'oltre lo spazio, oltre la vita,
vedevi allora, oh! non egli in quel punto
si sentì su la fronte le tue dita?
La tua carezza non gli fu conforto
tra il sudor freddo e il rompere del sangue?
Non gli fu meglio, o mio fratello morto,
non veder là un doppio teschio esangue
dietro la siepe, e due vili ombre nere
fuggir nell'ombra; ma veder te, noi?
miseri, sì, per sempre, ma vedere
nella via sola quattro figli suoi?
Nella via sola, dopo il soprassalto
di pianto, tutti quattro, orfani già,
guardammo ancora.
E poi guardammo in alto
cader le stelle nell'oscurità.
58.
La cavalla storna
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d'otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l'uragano,
tu dài retta alla sua piccola mano.
Tu ch'hai nel cuore la marina brulla,
tu dài retta alla sua voce fanciulla».
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l'amavi forte!
Con lui c'eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l'ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l'agonia...»
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l'eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole».
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l'abbracciò su la criniera
«O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona...
Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
esso t'è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno.
Dio t'insegni, come».
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l'unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome...
Sonò alto un nitrito.
59.
In ritardo
E l'acqua cade su la morta estate,
e l'acqua scroscia su le morte foglie;
e tutto è chiuso, e intorno le ventate
gettano l'acqua alle inverdite soglie;
e intorno i tuoni brontolano in aria;
se non qualcuno che rotola giù.
Apersi un poco la finestra: udii
rugliare in piena due torrenti e un fiume;
e mi parve d'udir due scoppiettìi
e di vedere un nereggiar di piume.
O rondinella spersa e solitaria,
per questo tempo come sei qui tu?
Oh! non è questo un temporale estivo
col giorno buio e con la rosea sera,
sera che par la sera dell'arrivo,
tenera e fresca come
...
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