BRUTO SECONDO, di Vittorio Alfieri - pagina 2
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Cesare, un incarco,
alto piú assai di quel che assumi, avanza.
Speme hai di farti l'oppressor di Roma;
liberator fartene ardisci, e n'abbi
certezza intera.
- Assai ben scorgi, al modo
con cui Bruto ti parla, che se pensi
esser giá fatto a noi signor, non io
suddito a te per anco esser mi estimo.
ANTONIO
Del temerario tuo parlar la pena,
in breve, io 'l giuro...
CESARE
Or basti.
- Io nell'udirvi
sí lungamente tacito, non lieve
prova novella ho di me dato; e, dove
me signor d'ogni cosa io pur tenessi,
non indegno il sarei; poich'io l'ardito
licenzioso altrui parlare osava,
non solo udir, ma provocare.
A voi
abbastanza pur libera non pare
quest'adunanza ancor; benché d'oltraggi
carco v'abbiate il dittator, che oltraggi
può non udir, s'ei vuole.
Al sol novello,
lungi dal foro, e senza armate scorte
che voi difendan dalla plebe, io, dunque
entro alla curia di Pompeo v'invito
a consesso piú franco.
Ivi, piú a lungo,
piú duri ancora e piú insultanti detti,
udrò da voi: ma quivi, esser de' fermo
il destino dei Parti.
Ove ai piú giovi,
non io dissento, ch'ivi fermo a un tempo
sia, ma dai piú, di Cesare il destino.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
CICERONE, CIMBRO.
CICERONE
Securo asilo, ove di Roma i casi
trattar, non resta, altro che questo...
CIMBRO
Ah! poco
ne resta a dir; solo ad oprar ne avanza.
In tuo nome invitati ho Cassio e Bruto
a qui venirne; e qui saranno in breve.
Nulla indugiar, fia il meglio; al sol novello
corre (ahi pur troppo!) il suo periglio estremo
la patria nostra.
CICERONE
È ver, che indugio nullo
piú non ponendo egli al disegno iniquo,
la baldanza di Cesare secura
ogni indugio a noi toglie.
Altro ei non vuole,
che un esercito in armi; or, che convinto
per prova egli è, che della compra plebe
può men l'amore in suo favor, che il fero
terror di tutti.
Ei degli oltraggi nostri
ride in suo cor; gridar noi lascia a vuoto:
pur che l'esercito abbia: e n'ha certezza
dalle piú voci, che in senato ei merca.
Di libertá le nostre ultime grida
scontar faranne al suo ritorno ei poscia
I romani guerrieri ai Parti incontro
guida ei, per dar l'ultimo crollo a Roma,
come a lei diè, del Reno in riva, i primi.
Tropp'oltre, troppo, è omai trascorso: or tempo,
anch'io il confesso, all'indugiar non havvi.
Ma, come il de' buon cittadino, io tremo:
rabbrividisco, in sol pensar, che forse
da quanto stiam noi per risolver, pende
il destino di Roma.
CIMBRO
Ecco venirne
Cassio ver noi.
SCENA SECONDA
CASSIO, CICERONE, CIMBRO.
CASSIO
Tardo venn'io? Ma pure,
non v'è per anco Bruto.
CIMBRO
In breve, ei giunge.
CASSIO
Me qui seguir volean molti de' nostri:
ma i delatori, in queste triste mura,
tanti son piú che i cittadini omai,
che a tormi appieno ogni sospetto, io volli
solo affatto venirne.
Alla severa
virtú di Cimbro, e del gran Tullio al senno,
e all'implacabil ira mia, sol basti
aggiunger ora la sublime altezza
dello sdegno di Bruto.
Altro consiglio
puossi unir mai, meglio temprato, ed atto
quindi a meglio adoprarsi a pro di Roma?
CICERONE
Deh, pur cosí voglian di Roma i Numi!
Io, quant'è in me, presto a giovar di tutto
sono alla patria mia: duolmi, che solo
debile un fiato di non verde etade
mi resti a dar per essa.
Omai, con mano
poco oprar può la consunta mia forza;
ma, se con lingua mai liberi audaci
sensi, o nel foro, o nel senato, io porsi;
piú che il mai fossi, intrepid'oggi udrammi
Roma tuonar liberi accenti: Roma,
a cui, se estinta infra suoi ceppi or cade,
né sopravviver pur d'un giorno, io giuro.
CASSIO
Vero orator di libertá tu sempre
eri, e sublime il tuo parlar, fea forza
a Roma spesso: ma, chi omai rimane
degno di udirti? Od atterriti, o compri
son tutti omai; né intenderebber pure
sublimi tuoi sensi...
CICERONE
Il popol nostro,
benché non piú romano, è popol sempre:
e sia ogni uomo per sé, quanto piú il puote,
corrotto e vile, i piú si cangian, tosto
che si adunano i molti: io direi quasi,
che in comun puossi a lor prestar nel foro
alma tutt'altra, appien diversa in tutto,
da quella c'ha fra i lari suoi ciascuno.
Il vero, il falso, ira, pietá, dolore,
ragion, giustizia, onor, gloria per anco;
affetti son, che in cor si ponno
destar d'uomini molti (quai ch'ei sieno)
dall'uom che in cor, come fra' labri, gli abbia
tutti davvero.
Ove pur vaglian detti
forti, liberi, ardenti, io non indarno
oggi salir spero in ringhiera; e voglio
ivi morir, s'è d'uopo.
- Al poter rio
di quel Cesare stesso, onde or si trema,
quale origine base ei stesso dava?
La opinion dei piú.
Col brando ei doma,
le Gallie, è ver; ma con la lingua ei doma,
coi lusinghieri artificiosi accenti,
le sue legion da prima, e in parte poscia
il popol anco: ei sol, né spegner tutti,
né comprar tutti allor potea: far servi
ben tutti or può quei che ingannati ha pria.
E noi del par con lingua non potremmo
disingannare, illuminar, far sani,
e gl'intelletti e i cuori? Infra il mio dire,
e il favellar del dittator tiranno,
sta la forza per lui, per me sta il vero:
se mi si presta orecchio, ancor pur tanto
mi affido io, sí, nel mio sublime tema,
ch'armi non curo.
A orecchi e cor, giá stati
romani un dí, giunger può voce ancora,
che romani per breve almen li torni.
Svelato appien, Cesare vinto è appieno.
CIMBRO
Dubbio non v'ha: se ti ascoltasse Roma,
potria il maschio tuo dir tornarla in vita:
ma, s'anco tu scegliessi, generoso,
di ascender solo, e di morir su i rostri,
ch'or son morte a chi il nome osa portarvi
di libertá; s'anco tu sol ciò ardissi;
tolto pur sempre dalle infami grida
di prezzolata vil genía ti fora,
l'esser udito.
Ella omai sola tiene
del foro il campo, e ogni dritt'uom sbandisce.
Non è piú al Tebro Roma: armi, e virtudi,
e cittadini, or ricercar si denno
nelle estreme provincie.
A guerra aperta
duro assai troppo è il ritornar; ma pace
pur non è questa.
I pravi umor, che tanti
tra viva e morta opprimon Roma, è forza
(pur troppo!) ancor col sangue ripurgarli.
Romano al certo era Catone; e il sangue
dei cittadini spargere abborriva;
pur, quel giusto de' giusti anco il dicea:
«Dall'armi nata, e omai dall'armi spenta,
non può riviver che dall'armi, Roma».
Ch'altro a far ne rimane? O Roma è vinta,
e con lei tutti i cittadin veraci
cadono; o vince, e annichiliti spersi
sono, o cangiati, i rei.
Cesare forse
la vittoria allacciò? sconfitto ei venga
solo una volta; e la sua stessa plebe,
convinta che invincibile ei non era,
conoscerallo allora; a un grido allora
tutti ardiran tiranno empio nomarlo,
e come tal proscriverlo.
CASSIO
Proscritto
perché non pria da noi? Da un popol vile
tal sentenza aspettiam, qualor noi darla,
quando eseguirla il possiam noi primieri?
Fin che ad arbitrio nostro, a Roma in mezzo,
entro a sue case, infra il senato istesso,
possiam combatter Cesare, e compiuta
noi riportarne palma; in campo, a costo
di tante vite della sua men empie,
a pugna iniqua ei provocar dovrassi,
e forse per non vincerlo? Ove un brando,
questo mio solo, e la indomabil ira
che snudar mel fará, bastano, e troppo
fiano, a troncar quella sprezzabil vita,
che Roma or tutta indegnamente in pianto
tiene allacciata e serva; ove non altro
a trucidar qual sia il tiranno vuolsi,
che solo un brando, ed un Roman che il tratti;
perché, perché, tanti adoprarne? - Ah! segga
altri a consiglio, e ponderi, e discúta,
e ondeggi, e indugi, infin che manchi il tempo:
io tra i mezzi il miglior stimo il piú breve:
or piú, di tanto, che il piú breve a un tratto
fia 'l piú ardito, il piú nobile, il piú certo.
Degno è di Roma il trucidar quest'uno
apertamente; e di morir pur merta,
di man di Cassio, Cesare.
All'altrui
giusto furor lascio il punir l'infame
servo-console Antonio.
- Ecco, vien Bruto:
udiam, udiam, s'ei dal mio dir dissenta.
SCENA TERZA
BRUTO, CICERONE, CASSIO, CIMBRO.
CICERONE
Sí tardo giunge a cotant'alto affare
Bruto?...
BRUTO
Ah! primiero io vi giungea, se tolto
finor non m'era...
CIMBRO
E da chi mai?
BRUTO
Pensarlo,
nullo il potria di voi.
Parlarmi a lungo
volle Antonio finora.
CICERONE
Antonio?
CASSIO
E il vile
satellite di Cesare otteneva
udienza da Bruto?
BRUTO
Ebbela, e in nome
del suo Cesare stesso.
Egli abboccarsi
vuol meco, ad ogni patto: a lui venirne
m'offre, s'io il voglio; o ch'egli a me...
CIMBRO
Certo, ebbe
da te ripulsa...
BRUTO
No.
Cesare amico,
al cor mio schietto or piú terror non reca,
che Cesare nemico.
Udirlo io quindi
voglio, e fra breve, e in questo tempio stesso.
BRUTO
Ma, che mai vuol da te?
CASSIO
Comprarmi; forse.
Ma in Bruto ancor, voi vi affidate, io spero.
CASSIO
Piú che in noi stessi.
CIMBRO
Affidan tutti in Bruto;
anco i piú vili.
BRUTO
E a risvegliarmi, in fatti,
(quasi io dormissi) infra' miei passi io trovo
disseminati incitatori avvisi:
brevi, forti, romani; a me di laude
e biasmo in un, come se lento io fossi
a ciò che vuol Roma da me.
Nol sono;
ed ogni spron mi è vano.
CASSIO
Ma, che speri
dal favellar con Cesare?...
CICERONE
Cangiarlo
tu speri forse...
BRUTO
E piacemi, che il senno
del magnanimo Tullio, al mio disegno
si apponga in parte.
CASSIO
Oh! che di' tu? Noi tutti,
lungamente aspettandoti, qui esposto
abbiamo a lungo il parer nostro: un solo
fummo in Cesare odiar, nell'amar Roma,
e nel voler morir per lei: ma fummo
tre diversi nel modo.
Infra il tornarne
alla civile guerra; o il popol trarre
d'inganno, e all'armi; o col privato ferro
svenar Cesare in Roma; or di', qual fora
il partito di Bruto?
BRUTO
Il mio? - Nessuno,
per or, di questi.
Ove fia vano poscia
il mio, scerrò pur sempre il terzo.
CASSIO
Il tuo?
E qual altro ne resta?
BRUTO
A voi son noto:
parlar non soglio invan: piacciavi udirmi.
-
Per sanarsi in un giorno, inferma troppo
è Roma ormai.
Puossi infiammar la plebe,
ma per breve, a virtú; che mai coll'oro
non si tragge al ben far, come coll'oro
altri a viltá la tragge.
Esser può compra
la virtú vera, mai? Fallace base
a libertá novella il popol guasto
sarebbe adunque.
Ma, il senato è forse
piú sano? annoverar si pon gli schietti;
odian Cesare in core i rei pur anco,
non perch'ei toglie libertade a tutti
ma perché a lor, tiranno unico, ei toglie
d'esser tiranni.
A lui succeder vonno;
lo abborriscon perciò.
CICERONE
Cosí non fosse
come vero è, pur troppo!
BRUTO
Ir cauto il buono
cittadin debbe, infra bruttura tanta,
per non far peggio.
Cesare è tiranno;
ma non sempre lo è stato.
Il vil desio
d'esser pieno signore, in cor gli sorge
da non gran tempo: e il vile Antonio, ad arte,
inspirando gliel va, per trarlo forse
a sua rovina, e innalzar sé sovr'esso.
Tali amici ha il tiranno.
CASSIO
Innata in petto
la iniqua brama di regnar sempr'ebbe
Cesare...
BRUTO
No; non di regnar: mai tanto
non osava ei bramare.
Or tu l'estimi
piú grande, e ardito, che nol fosse ei mai.
Necessitá di gloria, animo ardente,
anco il desir non alto di vendetta
dei privati nemici, e in fin piú ch'altro,
l'occasion felice, ivi l'han spinto,
dove giunge ora attonito egli stesso
del suo salire.
Entro il suo cuor può ancora
desio d'onor, piú che desio di regno.
Provar vel deggio? Or, non disegna ei forse
d'ir contra i Parti, e abbandonar pur Roma,
ove tanti ha nemici?
CIMBRO
Ei mercar spera
con l'alloro dei Parti il regio serto.
BRUTO
Dunque a virtú, piú assai che a forza, ei vuole
del regio serto esser tenuto: ei dunque
ambizioso è piú che reo...
CASSIO
Sue laudi
a noi tu intessi?...
BRUTO
Udite il fine.
- Ondeggia
Cesare ancora infra se stesso; ei brama
la gloria ancor; non è dunqu'egli in core
perfetto ancor tiranno: ma, ei comincia
a tremar pure, e finor non tremava;
vero tiranno ei sta per esser dunque.
Timor lo invase, ha pochi dí, nel punto
che il venduto suo popolo ei vedea
la corona negargli.
Ma, qual sia,
non è sprezzabil Cesare, né indegno
ch'altri a lui schiuda al ravvedersi strada.
Io per me deggio, o dispregiar me stesso,
o lui stimar; poiché pur volli a lui
esser tenuto io della vita, il giorno
ch'io ne' campi farsalici in sue mani
vinto cadeva.
Io vivo; e assai gran macchia
è il mio vivere a Bruto; ma saprolla
io scancellar, senza esser vil, né ingrato.
CICERONE
Dell'armi è tal spesso la sorte: avresti
tu, se il vincevi, la vittoria seco
pure usata cosí.
Non ebbe in dono
Cesare stesso anch'ei sua vita, a Roma
or sí fatale? in don la vita anch'egli,
per grazia espressa, e vieppiú espresso errore,
non ricevea da Silla?
BRUTO
È vero; eppure
mai non mi scordo i beneficj altrui:
ma il mio dover, e la mia patria a un tempo,
in cor ben fitti io porto.
A Bruto, in somma,
Cesare è tal, che dittator tiranno,
(qual è, qual fassi ogni dí piú) nol vuole
Bruto lasciare a patto nullo in vita;
e vuol svenarlo, o esser svenato ei stesso...
Ma, tale in un Cesare a Bruto appare,
che libertade, e impero, e nerbo, e vita
render, per ora, ei solo il puote a Roma,
s'ei cittadin ritorna.
È della plebe
l'idolo giá; norma divenga ai buoni;
faccia de' rei terrore esser le leggi:
e, finché torni al prisco stato il tutto,
dal disfar leggi al custodirle sia
il suo poter converso.
Ei d'alti sensi
nacque; ei fu cittadino: ancor di fama
egli arde: è cieco, sí; ma tal lo han fatto
sol la prospera sorte, e gli empj amici,
che fatto gli hanno della gloria vera
l'orme smarrire.
O che il mio dire è un nulla;
o ch'io parole sí incalzanti e calde
trar dal mio petto, e sí veraci e forti
ragion tremende addur saprogli, e tante,
ch'io sí, sforzar Cesare spero; e farlo
grande davvero, e di virtú sí pura,
ch'ei sia d'ogni uom, d'ogni Romano, il primo;
senza esser piú che un cittadin di Roma.
Sol che sua gloria a Roma giovi, innanzi
io la pongo alla mia: ben salda prova
questo disegno mio, parmi, saranne.
-
Ma, se a Cesare or parla indarno Bruto,
tu il vedi, o Cassio con me sempre io 'l reco;
ecco il pugnal, ch'a uccider lui fia ratto,
piú che il tuo brando...
CICERONE
Oh cittadin verace!
Grande sei troppo tu; mal da te stesso
tu puoi conoscer Cesare tiranno.
CASSIO
Sublime Bruto, una impossibil cosa,
ma di te degna, in mente volgi; e solo
tentarla puoi.
Non io mi oppongo: ah! trarti
d'inganno appien, Cesare solo il puote.
CIMBRO
Far d'un tiranno un cittadino? O Bruto,
questa tua speme generosa, è prova
ch'esser tu mai tiranno non potresti.
BRUTO
Chiaro in breve fia ciò: d'ogni oprar mio
qui poi darovvi pieno conto io stesso.
-
Ov'io vano orator perdente n'esca,
tanto piú acerbo feritor gagliardo
a' cenni tuoi, Cassio, mi avrai; tel giuro.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
CESARE, ANTONIO.
ANTONIO
Cesare, sí; fra poco a te vien Bruto
in questo tempio stesso, ove a te piacque
gli arroganti suoi sensi udir pur dianzi,
e tollerarli.
Il riudrai fra breve
da solo a sol, poiché tu il vuoi.
CESARE
Ten sono
tenuto assai: lieve non era impresa
il piegar Bruto ad abboccarsi or meco;
né ad altri mai, fuorché ad Antonio, darne
osato avrei lo incarco.
ANTONIO
Oh! quanto duolmi,
che a' detti miei tu sordo ognor, ti ostini
in sopportar codesto Bruto! Il primo
de' tuoi voler fia questo, a cui si arrenda
di mala voglia Antonio.
In suon d'amico
pregar pur volli, e in nome tuo, colui,
che mortal tuo nemico a certa prova
esser conosco, e come tale abborro.
CESARE
Odian Cesare molti: eppur, sol uno
nemico io conto, che di me sia degno:
e Bruto egli è.
ANTONIO
Quindi or, non Bruto solo,
ma Bruto prima, e i Cassj, e i Cimbri poscia,
e i Tullj, e tanti uccider densi, e tanti.
CESARE
Quant'alto è piú, quanto piú acerbo e forte
il nemico, di tanto a me piú sempre
piacque il vincerlo; e il fea, piú che con l'armi,
spesso assai col perdono.
Ai queti detti
ricorrer, quando adoprar puossi il ferro;
persuader, convincere, far forza
a un cor pien d'odio, e farsi essere amico
l'uomo, a cui torre ogni esser puossi; ah! questa
contro a degno nemico è la vendetta
la piú illustre; e la mia.
ANTONIO
Cesare apprenda
sol da se stesso ad esser grande: il fea
natura a ciò: ma il far securi a un tempo
Roma e sé, da chi gli ama ambo del pari
oggi ei l'apprenda: e sovra ogni uom, quell'uno
son io.
Non cesso di ridirti io mai,
che se Bruto non spegni, in ciò ti preme
piú assai la vana tua gloria privata,
che non la vera della patria; e poco
mostri curar la securtá di entrambi.
CESARE
E atterrir tu con vil sospetto forse
Cesare vuoi?
ANTONIO
Se non per sé, per Roma
tremar ben può Cesare anch'egli, e il debbe.
CESARE
Morir per Roma, e per la gloria ei debbe;
non per sé mai tremar, né mai per essa.
Vinti ho di Roma io gl'inimici in campo;
quei soli eran di Cesare i nemici.
Tra quei che il ferro contro a lei snudaro,
un d'essi è Bruto; io giá coll'armi in mano
preso l'ebbi, e perire allor nol fea
col giusto brando della guerra; ed ora
fra le mura di Roma, inerme (oh cielo!)
col reo pugnal di fraude, o con la ingiusta
scure, il farei trucidar io? Non havvi
ragion, che trarmi a eccesso tal mai possa:
s'anco il volessi, ...
ah! forse...
io nol...
potrei.
-
Ma in somma, ai tanti mie' trionfi manca
quello ancora dei Parti, e quel di Bruto:
questo all'altro fia scala.
Amico farmi
Bruto voglio, a ogni costo.
Il far vendetta
del trucidato Crasso, a tutto innanzi
per ora io pongo; e può giovarmi assai
Bruto all'impresa, in cui riposta a un tempo
fia la gloria di Cesare e di Roma.
ANTONIO
Puoi tu accrescerti fama?
CESARE
Ove da farsi
altro piú resta, il da me fatto io stimo
un nulla: è tal l'animo mio.
Mi tragge
or contra il Parto irresistibil forza.
Vivo me, Roma rimanersi vinta?
Ah! mille volte pria Cesare pera.
-
Ma, di discordie, e d'atri umor perversi,
piena lasciar pur la cittá non posso,
mentre in Asia guerreggio: né lasciarla
piena di sangue e di terror vorrei;
benché a frenarla sia tal mezzo il certo.
Bruto può sol tutto appianarmi...
ANTONIO
E un nulla
reputi Antonio dunque?
CESARE
- Di me parte
sei tu nelle guerriere imprese mie:
quindi terror dei Parti anche te voglio
al fianco mio.
Giovarmi in altra guisa
di Bruto io penso.
ANTONIO
Io ogni guisa io presto
sono a servirti; e il sai.
Ma, cieco troppo
sei, quanto a Bruto.
CESARE
Assai piú cieco è forse
ei quanto a me.
Ma il dí fia questo, io spero,
che il potrò tor d'inganno: oggi mi è forza
ciò almen tentare...
ANTONIO
Eccolo appunto.
CESARE
Or, seco
lasciami; in breve a te verronne.
ANTONIO
Appieno,
deh! tu d'inganno trar te stesso possa;
e in tempo ancor conoscer ben costui!
SCENA SECONDA
BRUTO, CESARE.
BRUTO
Cesare, antichi noi nemici siamo:
ma il vincitor sei tu finora, ed anco
il piú felice sembri.
Io, benché il vinto
paia, di te men misero pur sono.
Ma, qual che il nostro animo sia, battuta,
vinta, egra, oppressa, moribonda, è Roma.
Pari desir, cagion diversa molto,
tratti qui ci hanno ad abboccarci.
A dirmi
gran cose hai tu, se Antonio il ver narrommi;
ed io pure alte cose a dirti vengo,
se ascoltarle tu ardisci.
CESARE
Ancor che Bruto
stato sia sempre a me nemico, a Bruto
non l'era io mai, né il son; né, se il volessi,
esserlo mai potrei.
Venuto io stesso
a favellarti in tua magion saria;
ma temea, che ad oltraggio tel recassi;
Cesare osarne andar, dove consorte
a Bruto sta del gran Caton la suora:
quind'io con preghi a qui venirne invito
ti fea.
- Me sol, senza littori, e senza
pompa nessuna, vedi; in tutto pari
a Bruto; ove pur tale ei me non sdegni.
Qui non udrai, né il dittator di Roma,
né il vincitor del gran Pompeo...
BRUTO
Corteggio
sol di Cesare degno, è il valor suo:
e vieppiú quando ei si appresenta a Bruto.
-
Felice te, se addietro anco tu puoi,
come le scuri ed i littor, lasciarti
ed i rimorsi e il perpetuo terrore,
di un dittator perpetuo!
CESARE
Terrore?
Non che al mio cor, non è parola questa,
nota pure al mio orecchio.
BRUTO
Ignota ell'era
al gran Cesare in campo invitto duce;
non l'è a Cesare in Roma, ora per forza
suo dittatore.
È generoso troppo,
per negarmelo.
Cesare: e, senz'onta,
può confessarlo a Bruto.
Osar ciò dirmi,
di tua stessa grandezza è assai gran parte.
Franchi parliam: degno è d'entrambi.
- Ai molti
incuter mai timor non puote un solo,
senza ei primo tremare.
Odine, in prova
qual sia ver me il tuo stato.
Uccider Bruto,
senza contrasto il puoi: sai, ch'io non t'amo;
sai, che a tua iniqua ambizione inciampo
esser poss'io: ma pur, perché nol fai?
Perché temi, che a te piú danno arrechi
l'uccidermi ora.
Favellarmi, intanto,
e udirmi vuoi, perché il timor ti è norma
unica omai; né il sai tu stesso forse;
o di saperlo sfuggi.
CESARE
Ingrato! ...
e il torre
di Farsaglia nei campi a te la vita,
forse in mia man non stette?
BRUTO
Ebro tu allora
di gloria, e ancor della battaglia caldo,
eri grande: e per esserlo sei nato:
ma qui, te di te stesso fai minore,
ogni dí piú.
- Ravvediti; conosci,
che tu, freddo pacifico tiranno
mai non nascesti, io te l'affermo...
CESARE
Eppure,
misto di oltraggi il tuo laudar mi piace.
T'amo; ti estimo: io vorrei solo al mondo
esser Bruto, s'io Cesare non fossi.
BRUTO
Ambo esser puoi; molto aggiungendo a Bruto,
nulla togliendo a Cesare: ten vengo
a far l'invito io stesso.
In te sta solo
l'esser grande davvero: oltre ogni sommo
prisco Romano, essere tu il puoi: fia il mezzo
semplice molto; osa adoprarlo: io primo
te ne scongiuro; e di romano pianto,
in ciò dirti, mi sento umido il ciglio...
-
Ma, tu non parli? Ah! tu ben sai, qual fora
l'alto mio mezzo: in cor tu 'l senti, il grido
di veritá, che imperiosa tuona.
Ardisci, ardisci; il laccio infame scuoti,
che ti fa nullo a' tuoi stessi occhi; e avvinto
ti tiene, e schiavo, piú che altrui non tieni.
A esser Cesare impara oggi da Bruto.
S'io di tua gloria invido fossi, udresti
or me pregarti ad annullar la mia?
Conosco il ver; me non lusingo: in Roma,
a te minor di dignitade, e d'anni,
e di possanza, e di trionfi, io sono,
come di fama.
Se innalzarsi il nome
di Bruto può col proprio volo, il puote
soltanto omai su la rovina intera
del nome tuo.
Sommessa odo una voce,
timida, e quindi non romana affatto,
Bruto appellar liberator di Roma,
come oppressor ten chiama.
A farmi io tale,
ch'io ti sconfigga, o ch'io ti spenga, è d'uopo.
Lieve il primo non è; piú che nol credi
lieve il secondo: e, se a me sol pensassi,
tolto il signor giá mi sarei: ma penso,
romano, a Roma; e sol per essa io scelgo
di te pregar, quando te uccider debbo,
Cesare, ah! sí, tu cittadin tornarne
a forza dei, da me convinto.
A Roma
tu primo puoi, tu sol, tu mille volte
piú il puoi di Bruto, a Roma render tutto;
pace, e salvezza, e gloria, e libertade:
quanto le hai tolto, in somma.
Ancor per breve
tu cittadin tua regia possa adopra,
nel render forza alle abbattute leggi,
nel tor per sempre a ogni uom l'ardire e i mezzi
d'imitarti tiranno; e hai tolto a un tempo
a ogni uom, per quanto ei sia roman, l'ardire
di pareggiarti cittadino.
- Or, dimmi:
ti estimi tu minor di Silla? Ei, reo
piú assai di te, piú crudo, di piú sangue
bagnato e sazio; ei, cittadin pur anco
farsi ardiva, e fu grande.
Oh! quanto il fora
Cesare piú, che di possanza è giunto
oltre a Silla di tanto! Altra, ben altra
fia gloria a te, se tu spontaneo rendi
a chi si aspetta, ciò che possa ed arte
ti dier; se sai meglio apprezzar te stesso;
se togli, in somma, che in eterno in Roma
nullo Cesare mai, né Silla, rieda.
CESARE
- Sublime ardente giovine; il tuo ratto
forte facondo favellar, pur troppo!
vero è fors'anche.
Ignota forza al core
mi fan tuoi detti; e allora che a me ti chiami
minore, io 'l sento, ad onta mia, di quanto
maggior mi sei.
Ma, il confessarlo io primo,
e il non n'essere offeso, e il non odiarti
sicure prove esser ti denno, e immense,
che un qualche strano affetto io pur nudrisco
per te nel seno.
- A me sei caro, il credi;
e molto il sei.
- Ciò ch'io di compier, tempo
omai non ho, meglio da te compiuto
vo' ch'ei sia, dopo me.
Lascia, ch'io aggiunga
a' miei trionfi i debellati Parti:
ed io contento muojo.
In campo ho tratto
di mia vita gran parte; il campo tomba
mi fia sol degna.
Ho tolta, è vero, in parte
la libertá, ma in maggior copia ho aggiunto
gloria a Roma, e possanza: al cessar mio,
ammenderai di mie vittorie all'ombra
tu, Bruto, i danni, ch'io le fea.
Secura
posare in me piú non può Roma: il bene
ch'io vorrei farle, avvelenato ognora
fia dal mal che le ho fatto.
Io quindi ho scelto,
in mio pensiero, alle sue interne piaghe
te sanatore: integro sempre, e grande,
stato sei tu: meglio di me, puoi grandi
far tu i Romani, ed integri tornarli.
Io, qual padre, ti parlo;...
e, piú che figlio,
o Bruto mio, mi sei.
BRUTO
...
Non m'è ben chiaro
questo
...
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