[Pagina precedente]... in essi avere. Colui, nel guale poco avanti pareva ogni publica speranza esser posta, ogni affezione cittadina, ogni rifugio populare; subitamente, senza cagione legittima, senza offesa, senza peccato, da quel romore, il quale per addietro s'era molte volte udito le sue laude portare infino alle stelle, è furiosamente mandato in inrevocabile esilio. Questa fu la marmorea statua fattagli ad etterna memoria della sua virtù! con queste lettere fu il suo nome tra quegli de' padri della patria scritto in tavole d'oro! con così favorevole romore gli furono rendute grazie de' suoi benefici! Chi sarà dunque colui che, a queste cose guardando, non dica la nostra republica da questo piè non andare sciancata?
Oh vana fidanza de' mortali, da quanti esempli altissimi se' tu continuamente ripresa, ammonita e gastigata! Deh! se Cammillo, Rutilio, Coriolano, e l'uno e l'altro Scipione, e gli altri antichi valenti uomini per la lunghezza del tempo interposto ti sono della memoria caduti, questo ricente caso ti faccia con più temperate redine correr ne' tuoi piaceri. Niuna cosa ci ha meno stabilita che la popolesca grazia; niuna più pazza speranza, niuno più folle consiglio che quello che a crederle conforta nessuno. Levinsi adunque gli animi al cielo, nella cui perpetua legge, nelli cui eterni splendori, nella cui vera bellezza si potrà senza alcuna oscurità conoscere la stabilità di Colui che lui e le altre cose con ragione muove; acciò che, sì come in termine fisso, lasciando le transitorie cose, in lui si fermi ogni nostra speranza, se trovare non ci vogliamo ingannati.
XI
La vita del poeta esule sino alla venuta in Italia di Arrigo VII
Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella città , della quale egli non solamente era cittadino ma n'erano li suoi maggiori stati reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l'altra famiglia, male per picciola età alla fuga disposta, di lei sicuro, perciò che di consanguinità la sapeva ad alcuno de' prencipi della parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or là incerto, andava vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla donna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia stata con fatica difesa, de' frutti della quale essa sé e i piccioli figliuoli di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con industria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimo procacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, più duri a lui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi dover esser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre al suo stimare, parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer Alberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo il tempo e secondo la loro possibilità , onorato si stette. Quindi poi se n'andò a Bologna, dove poco stato n'andò a Padova, e quindi da capo si ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e di dì in dì più divenire vana la sua speranza, non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienzie ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempo studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo, conte di Luzimborgo, con volontà e mandato di Clemente papa V, il quale allora sedea, fu eletto in re de' Romani, e appresso coronato imperadore. Il quale sentendo Dante della Magna partirsi per soggiogarsi Italia, alla sua maestà in parte rebelle, e già con potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte ragioni dovere essere vincitore, prese speranza con la sua forza e dalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare, come che a lui la sentisse contraria. Per che ripassate l'Alpi, con molti nemici di Fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere s'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio di Brescia, acciò che a Fiorenza il ponesse, sì come a principale membro de' suoi nemici; mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o piccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il dominio di tutta Italia. E come che a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto il trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato: le resistenze furono grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate non erano; per che, senza avere niuna notevole cosa operata, lo 'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suo cammino. E come che in una parte e in altra più cose facesse, assai ne ordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare di suo ritorno più avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò in Romagna, là dove l'ultimo suo dì, e che alle sue fatiche doveva por fine, l'aspettava.
XII
Dante ospite di Guido Novel da Polenta
Era in que' tempi signore di Ravenna, famosa e antica città di Romagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta; il quale, ne' liberali studii ammaestrato, sommamente i valorosi uomini onorava, e massimamente quegli che per iscienza gli altri avanzavano. Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d'ogni speranza, essere in Romagna, avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo valore, in tanta disperazione, si dispose di riceverlo e d'onorarlo. Né aspettò di ciò da lui essere richiesto, ma con liberale animo, considerata qual sia a' valorosi la vergogna del domandare, e con proferte, gli si fece davanti, richiedendo di spezial grazia a Dante quello ch'egli sapeva che Dante a lui dovea dimandare: cioè che seco li piacesse di dover essere. Concorrendo adunque i due voleri ad un medesimo fine, e del domandato e del domandatore, e piacendo sommamente a Dante la liberalità del nobile cavaliere, e d'altra parte il bisogno strignendolo, senza aspettare più inviti che 'l primo, se n'andò a Ravenna, dove onorevolmente dal signore di quella ricevuto, e con piacevoli conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamente le cose opportune donandogli, in quella seco per più anni il tenne, anzi infino a l'ultimo della vita di lui.
XIII
Sua perseveranza al lavoro
Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici, né il miserabile esilio, né la intollerabile povertà giammai con le lor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da' sacri studii; perciò che, sì come si vederà dove appresso partitamente dell'opere da lui fatte si farà menzione, egli, nel mezzo di qualunque fu più fiera delle passioni sopra dette, si troverà componendo essersi esercitato. E se, ostanti cotanti e così fatti avversarii, quanti e quali di sopra sono stati mostrati, egli per forza d'ingegno e di perseveranza riuscì chiaro qual noi veggiamo, che si può sperare che esso fosse divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori, o almeno niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so; ma se licito fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto uno Iddio.
XIV
Grandezza del poeta volgare - Sua morte
Abitò adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornare mai in Firenze, (come che tolto non fosse il disio), più anni sotto la protezione del grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni fece più scolari in poesia e massimamente nella volgare; la quale, secondo il mio giudicio, egli primo non altramenti fra noi Italici esaltò e recò in pregio, che la sua Omero tra' Greci o Virgilio tra' Latini. Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si creda che innanzi trovata fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse, dal numero delle sillabe e dalla consonanza delle parti estreme in fuori, di farla essere strumento d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente in leggerissime cose d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò con effetto con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopra ogni altro fece il volgar nostro.
Ma, poi che la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli già nel mezzo o presso del cinquantesimo sesto suo anno infermato, e secondo la cristiana religione ogni ecclesiastico sacramento umilmente e con divozione ricevuto, e a Dio per contrizione d'ogni cosa commessa da lui contra al suo piacere, sì come da uomo, riconciliatosi; del mese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI, nel dì che la esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa, non sanza grandissimo dolore del sopra detto Guido, e generalmente di tutti gli altri cittadini ravignani, al suo Creatore rendé il faticato spirito; il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della sua nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommo bene, lasciate le miserie della presente vita, ora lietissimamente vive in quella, alla cui felicità fine giammai non s'aspetta.
XV
Sepoltura e onori funebri
Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti poetici sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra gli omeri de' suoi cittadini più solenni infino al luogo de' frati minori in Ravenna, con quello onore che a sì fatto corpo degno estimava, infino quivi quasi con publico pianto seguitolo, in una arca lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato alla casa nella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume, esso medesimo, sì a commendazione dell'alta scienzia e della vertù del defunto, e sì a consolazione de' suoi amici, li quali egli avea in amarissima vita lasciati, fece uno ornato e lungo sermone; disposto, se lo stato e la vita fossero durati, di sì egregia sepoltura onorarlo, che, se mai alcuno altro suo merito non l'avesse memorevole renduto a' futuri, quella l'avrebbe fatto.
XVI
Gara di poeti per l'epitafio di Dante
Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fu manifesto ad alquanti, li quali in quel tempo erano in poesì solennissimi in Romagna; per che ciascuno sì per mostrare la sua sofficienzia, sì per rendere testimonianza della portata benivolenzia da loro al morto poeta, sì per cattare la grazia e l'amore del signore, il quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi, li quali, posti per epitafio alla futura sepultura, con debite lode facessero la posterità certa chi dentro da essa giacesse; e al magnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato della Fortuna, non dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morì a Bologna; per la qual cosa e il fare il sepolcro e il porvi li mandati versi si rimase. Li quali versi stati a me mostrati poi più tempo appresso, e veggendo loro [non] avere avuto luogo per lo caso già dimostrato, pensando le presenti cose per me scritte, come che sepoltura non sieno corporale, ma sieno, sì come quella sarebbe stata, perpetue conservatrici della colui memoria; imaginai non essere sconvenevole quegli aggiugnere a queste cose. Ma, perciò che più che quegli che l'uno di coloro avesse fatti (che furon più) non si sarebbero ne' marmi intagliati, così solamente quegli d'uno qui estimai che fosser da scrivere; per che, tutti meco esaminatigli, per arte e per intendimento più degni estimai che fossero quattordici fattine da maestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e gran poeta, e di Dante stato singularissimo amico; li quali sono questi appresso scritti:
XVII
Epitafio
Theologus Dantes, nullius dogmatis expers,
quod foveat claro philosophya sinu:
gloria musarum, vulgo gratissimus auctor...
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