STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, di Francesco De Sanctis - pagina 141
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Uscivano dal suo pennello la Sfida di Barletta, il Brindisi di Francesco Ferruccio, la Battaglia di Gavinana, la Difesa di Nizza, la Battaglia di Torino.
Il medesimo era del misticismo.
L'ispirazione artistica, da cui erano usciti gl'Inni e il Cinque maggio e l'Ermengarda, non fu più il quadro, fu l'accessorio, un semplice colore attaccaticcio sopra un fondo estraneo, filosofico e politico.
Vennero gl'inni alle scienze, alle arti, gl'inni di guerra.
Rimasero madonne, angioli, santi e paradiso, a quel medesimo modo che prima Pallade, Venere e Cupido, semplici ornamenti e macchine poetiche, estranee all'intimo spirito della composizione, o puramente arcadiche.
Dove la poesia gitta via ogni involucro romantico e classico, è ne' versi del Berchet.
E non poco vi contribuì lord Byron, vivuto lungo tempo in Venezia, di cui si sentono i fieri accenti nell'Esule di Parga.
Se Giovanni Berchet fosse rimasto in Italia, probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle allusioni e nelle ombre del romanticismo.
Ma esule portava a Londra i dolori e i furori della patria tradita e vinta.
Fu l'accento della collera nazionale in una lirica, che, lasciate le generalità de' sonetti e delle canzoni, s'innestò al dramma, e colse la vita nelle più patetiche situazioni.
La voce possente di questa lirica drammatica giunse solitaria in un'Italia, dove i secondi fini della prudenza politica avevano rintuzzata la verità e virilità dell'espressione.
Si era trovata una specie di modus vivendi, come si direbbe oggi, una conciliazione provvisoria tra principi e popoli.
I freni si allentavano, ci era una maggiore libertà di scrivere, di parlare, di riunirsi, sempre in nome del progresso, della coltura, della civiltà: gli avversari erano detti «oscurantisti».
I principi facevano bocca da ridere; promettevano riforme; e sino il più restio, Ferdinando II, chiamava alle cattedre, alla magistratura, a' ministeri uomini colti, e per bocca di monsignor Mazzetti annunziava un largo riordinamento degli studi.
Che si voleva più? I liberali, con quel senso squisito dell'opportunità che ha ciascuno nell'interesse proprio, inneggiavano a' principi, stringevano la mano a' preti, fino ridevano a' gesuiti.
Fu allora che apparve in Italia un'opera stranissima, il Primato di Vincenzo Gioberti.
Ivi con molta facilità di eloquio, con grande apparato di erudizione, con superbia e ricercatezza di formole si proclamava il primato della civiltà italiana riannodata attraverso le glorie romane alle tradizioni italo-pelasgiche, fondata sul papato restitutore della religione nella sua purità, riconciliato con le idee moderne, e tendente all'autocrazia dell'ingegno e al riscatto delle plebi.
La creazione sostituita al divenire egheliano rimetteva le gambe al soprannaturale e alla rivelazione, tutto il Risorgimento era dichiarato eterodosso o acattolico, e il presente si ricongiungeva immediatamente col medio evo.
Era la conciliazione politica sublimata a filosofia, era la filosofia costruita ad uso del popolo italiano.
Frate Campanella pareva uscito dalla sua tomba.
L'impressione fu immensa.
Sembrò che ci fosse alfine una filosofia italiana.
Vi si vedevano conciliate tutte le opposizioni, il papa a braccetto co' principi, i principi riamicati a' popoli, Il misticismo internato nel socialismo, Dio e progresso, gerarchia e democrazia, un bilanciere universale.
Il movimento era visibilmente politico, non religioso e non filosofico.
E ciò che ne uscì, non fu già nè una riforma religiosa nè un movimento intellettuale, ma un moto politico, tenuto in piede dall'equivoco, e crollato al primo urto de' fatti.
Questa era la faccia della società italiana.
Era un ambiente, nel quale anche i più fieri si accomodavano, non scontenti del presente, fiduciosi nell'avvenire: i liberali biascicavano «paternostri», e i gesuiti biascicavano «progresso e riforme».
La situazione in fondo era comica, e il poeta che seppe coglierne tutt'i segreti fu Giuseppe Giusti.
La Toscana, dopo una prodigiosa produzione di tre secoli, non aveva più in mano l'indirizzo letterario d'Italia.
Si era addormentata col riso del Berni sul labbro.
La Crusca l'aveva inventariata e imbalsamata.
Resistè più che potè nel suo sonno, respingendo da sè gl'impulsi del secolo decimottavo.
Quando si sentì il bisogno di una lingua meno accademica, prossima per naturalezza e brio al linguaggio parlato, molti si diedero al dialetto locale, altri si gittarono alle forme francesi, altri col padre Cesari a capo l'andavano pescando nel Trecento.
Non veniva innanzi la soluzione più naturale: cercarla colà dove era parlata, cercarla in Toscana.
La rivoluzione avea ravvicinati gl'italiani, suscitati interessi, idee, speranze comuni.
Firenze, la città prediletta di Alfieri e di Foscolo, dopo il Ventuno vide nelle sue mura accolti esuli illustri di altre parti d'Italia.
Grazie al Vieusseux, vi sorgeva un centro letterario in gara con quello di Milano.
Manzoni e D'Azeglio andavano pe' colli di Pistoia raccattando voci e proverbi della lingua viva.
Gl'italiani si studiavano di comparire toscani; i toscani, come Niccolini e Guerrazzi, si studiavano di assimilarsi lo spirito italiano.
Risorgeva in Firenze una vita letteraria, dove l'elemento locale prima timido e come sopraffatto ripigliava la sua forza con la coscienza della sua vitalità.
Firenze riacquistava il suo posto nella coltura italiana per opera di Giuseppe Giusti.
Sembrava un contemporaneo di Lorenzo de' Medici che gittasse una occhiata ironica sulla società quale l'aveva fatta il secolo decimonono.
Quelle finezze politiche, quelle ipocrisie dottrinali, quella mascherata universale, sotto la quale ammiccavano le idee liberali gli «Arlecchini», i «Girella», gli «eroi da poltrona», furono materia di un riso non privo di tristezza.
Era Parini tradotto dal popolino di Firenze, con una grazia e una vivezza che dava l'ultimo contorno alle immagini e le fissava nella memoria.
Ciascun sistema d'idee medie nel suo studio di contentare e conciliare gli estremi va a finire irreparabilmente nel comico.
Tutto quell'equilibrio dottrinale così laboriosamente formato del secolo decimonono, tutta quella vasta sistemazione e conciliazione dello scibile in costruzioni ideali, quel misticismo impregnato di metafisica, quella metafisica del divino e dell'assoluto declinante in teologia, quel volterianismo inverniciato d'acqua benedetta, tutto si dissolveva innanzi al ghigno di Giuseppe Giusti.
Giacomo Leopardi segna il termine di questo periodo.
La metafisica in lotta con la teologia si era esaurita in questo tentativo di conciliazione.
La moltiplicità de' sistemi avea tolto credito alla stessa scienza.
Sorgeva un nuovo scetticismo che non colpiva più solo la religione o il soprannaturale, colpiva la stessa ragione.
La metafisica era tenuta come una succursale della teologia.
L'idea sembrava un sostituto della provvidenza.
Quelle filosofie della storia, delle religioni, dell'umanità, del dritto avevano aria di costruzioni poetiche.
La teoria del progresso o del fato storico nelle sue evoluzioni sembrava una fantasmagoria.
L'abuso degli elementi provvidenziali e collettivi conduceva diritto all'onnipotenza dello Stato, al centralismo governativo.
L'ecletismo pareva una stagnazione intellettuale, un mare morto.
L'apoteosi del successo rintuzzava il senso morale, incoraggiava tutte le violenze.
Quella conciliazione tra il vecchio ed il nuovo, tollerata pure come temporanea necessità politica, sembrava in fondo una profanazione della scienza, una fiacchezza morale.
Il sistema non attecchiva più: cominciava la ribellione.
Mancata era la fede nella rivelazione: mancava ora la fede nella stessa filosofia.
Ricompariva ii mistero.
Il filosofo sapeva quanto il pastore.
Di questo mistero fu l'eco Giacomo Leopardi nella solitudine del suo pensiero e del suo dolore.
Il suo scetticismo annunzia la dissoluzione di questo mondo teologico-metafisico, e inaugura il regno dell'arido vero, del reale.
I suoi Canti sono le più profonde e occulte voci di quella transizione laboriosa che si chiamava «secolo decimonono».
Ci si vede la vita interiore sviluppatissima.
Ciò che ha importanza, non è la brillante esteriorità di quel secolo del progresso, e non senza ironia vi si parla delle «sorti progressive» dell'umanità.
Ciò che ha importanza è l'esplorazione del proprio petto, il mondo interno, virtù, libertà, amore, tutti gl'ideali della religione, della scienza e della poesia, ombre e illusioni innanzi alla sua ragione e che pur gli scaldano il cuore, e non vogliono morire.
Il mistero distrugge il suo mondo intellettuale, lascia inviolato il suo mondo morale.
Questa vita tenace di un mondo interno, malgrado la caduta di ogni mondo teologico e metafisico, è l'originalità di Leopardi, e dà al suo scetticismo una impronta religiosa.
Anzi è lo scetticismo di un quarto d'ora quello in cui vibra un così energico sentimento del mondo morale.
Ciascuno sente lì dentro una nuova formazione.
L'istrumento di questa rinnovazione è la critica, covata e cresciuta nel seno stesso dell'ecletismo.
Il secolo sorto con tendenze ontologiche e ideali avea posto esso medesimo il principio della sua dissoluzione: l'idea vivente, calata nel reale.
Nel suo cammino il senso del reale si va sempre più sviluppando, e le scienze positive prendono il di sopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche.
I nuovi dogmi perdono il credito.
Rimane intatta la critica.
Ricomincia il lavoro paziente dell'analisi.
Ritorna a splendere sull'orizzonte intellettuale Galileo accompagnato con Vico.
La rivoluzione, arrestata e sistemata in organismi provvisori ripiglia la sua libertà, si riannoda all'Ottantanove, tira le conseguenze.
Comparisce il socialismo nell'ordine politico, il positivismo nell'ordine intellettuale.
Il verbo non è più solo «libertà», ma «giustizia», la parte fatta a tutti gli elementi reali dell'esistenza, la democrazia non solo giuridica ma effettiva.
La letteratura si va anche essa trasformando.
Rigetta le classi, le distinzioni, i privilegi.
Il brutto sta accanto al bello, o, per dir meglio, non c'è più nè bello, nè brutto, non ideale, e non reale, non infinito, e non finito.
L'idea non si stacca, non soprastà al contenuto.
Il contenuto non si spicca dalla forma.
Non ci è che una cosa, il vivente.
Dal seno dell'idealismo comparisce il realismo nella scienza, nell'arte, nella storia.
È un'ultima eliminazione di elementi fantastici, mistici, metafisici e rettorici.
La nuova letteratura, rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore, emancipata da involucri classici e romantici, eco della vita contemporanea universale e nazionale, come filosofia, come storia, come arte, come critica, intenta a realizzare sempre più il suo contenuto, si chiama oggi ed è la «letteratura moderna».
L'Italia, costretta a lottare tutto un secolo per acquistare l'indipendenza e le istituzioni liberali, rimasta in un cerchio d'idee e di sentimenti troppo uniforme e generale, subordinato a' suoi fini politici, assiste ora al disfacimento di tutto quel sistema teologico-metafisico-politico, che ha dato quello che le potea dare.
L'ontologia con le sue brillanti sintesi avea soverchiate le tendenze positive del secolo.
Ora è visibilmente esaurita, ripete se stessa, diviene accademica, perchè accademia e arcadia è la forma ultima delle dottrine stazionarie.
Vedete Cousin col suo ecletismo dottrinario.
Vedete il Prati in Satana e le Grazie e nell'Armando.
Vedete la Storia universale di Cesare Cantù.
Erede dell'ontologia è la critica, nata con essa, non ancor libera di elementi fantastici e dommatici attinti nel suo seno, come si vede in Proudhon, in Renan, in Ferrari, ma con visibile tendenza meno a porre e a dimostrare che a investigare.
La paziente e modesta monografia prende il posto delle sintesi filosofiche e letterarie.
I sistemi sono sospetti, le leggi sono accolte con diffidenza, i princìpi più inconcussi sono messi nel crogiuolo, niente si ammette più, che non esca da una serie di fatti accertati.
Accertare un fatto desta più interesse che stabilire una legge.
Le idee, i motti, le formole, che un giorno destavano tante lotte e tante passioni, sono un repertorio di convenzione, non rispondenti più allo stato reale dello spirito.
C'è passato sopra Giacomo Leopardi.
Diresti che proprio appunto, quando s'è formata l'Italia, si sia sformato il mondo intellettuale e politico da cui è nata.
Parrebbe una dissoluzione, se non si disegnasse in modo vago ancora ma visibile un nuovo orizzonte.
Una forza instancabile ci sospinge, e, appena quietate certe aspirazioni, si affacciano le altre.
L'Italia è stata finora avviluppata come di una sfera brillante, la sfera della libertà e della nazionalità, e ne è nata una filosofia e una letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorchè intorno a lei.
Ora si dee guardare in seno, dee cercare se stessa: la sfera dee svilupparsi e concretarsi come sua vita interiore.
L'ipocrisia religiosa, la prevalenza delle necessità politiche, le abitudini accademiche, i lunghi ozi, le reminiscenze d'una servitù e abbiezione di parecchi secoli, gl'impulsi estranei soprapposti al suo libero sviluppo, hanno creata una coscienza artificiale e vacillante, le tolgono ogni raccoglimento, ogn'intimità.
La sua vita è ancora esteriore e superficiale.
Dee cercare se stessa, con vista chiara, sgombra da ogni velo e da ogni involucro, guardando alla cosa effettuale, con lo spirito di Galileo, di Machiavelli.
In questa ricerca degli elementi reali della sua esistenza, lo spirito italiano rifarà la sua coltura, ristaurerà il suo mondo morale, rinfrescherà le sue impressioni, troverà nella sua intimità nuove fonti d'ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l'amore, la libertà, la patria, la scienza, la virtù, non come idee brillanti, viste nello spazio, che gli girino intorno, ma come oggetti concreti e familiari, divenuti il suo contenuto.
Una letteratura simile suppone una seria preparazione di studi originali e diretti in tutt'i rami dello scibile, guidati da una critica libera da preconcetti e paziente esploratrice, e suppone pure una vita nazionale, pubblica e privata, lungamente sviluppata.
Guardare in noi, ne' nostri costumi, nelle nostre idee, ne' nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive, convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo, «esplorare il proprio petto» secondo il motto testamentario di Giacomo Leopardi: questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste ombre.
Abbiamo il romanzo storico, ci manca la storia e il romanzo.
E ci manca il dramma.
Da Giuseppe Giusti non è uscita ancora la commedia.
E da Leopardi non è uscita ancora la lirica.
C'incalza ancora l'accademia, l'arcadia, il classicismo e il romanticismo.
Continua l'enfasi e la rettorica, argomento di poca serietà di studi e di vita.
Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui.
Non ci è vita nostra e lavoro nostro.
E da' nostri vanti s'intravede la coscienza della nostra inferiorità.
Il grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine.
Assistiamo ad una nuova fermentazione d'idee, nunzia di una nuova formazione.
Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo.
E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a' secondi posti.
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