POEMI ITALICI, di Giovanni Pascoli - pagina 1
Giovanni Pascoli
Poemi italici
[1911]
AD ALFREDO STRACCALI
A FEDELE ROMANI
A GIOVANNI SETTI
SANTI CUORI CHE NON BATTONO PIU'
NOBILI MENTI CHE PENSANO ANCORA
DOLCI MEMORIE CHE RESTERANNO
SEMPRE
PAULO UCELLO -- ROSSINI -- TOLSTOI
CAP.
I
In prima come Paulo dipintore fiorentino s'invogliò d'un monachino o ciuffolotto e non poté comprarlo e allora lo dipinse.
Di buona ora tornato all'abituro
Paulo di Dono non finì un mazzocchio
ch'egli scortava.
Dipingea sul muro
un monachino che tenea nell'occhio
dalla mattina, che con Donatello
e ser Filippo era ristato a crocchio.
Quelli compravan uova.
Esso un fringuello
in gabbia vide, dietro il banco, rosso
cinabro il petto, e nero un suo mantello;
nero un cappuccio ed un mantello indosso.
Paulo di Dono era assai trito e parco;
ma lo comprava, se ci aveva un grosso.
Ma non l'aveva.
Andò a dipinger l'arco
di porta a San Tomaso.
E gli avveniva
di dire: E` un fraticino di San Marco.
Ne tornò presto.
Era una sera estiva
piena di voli.
Il vecchio quella sera
dimenticò la dolce prospettiva.
Dipingea con la sua bella maniera
nella parete, al fiammeggiar del cielo.
E il monachino rosso, ecco, lì era,
posato sopra un ramuscel di melo.
CAP.II
Della parete che Paulo dipingeva nella stanzuola, per sua gioia, con alberi e campi in prospettiva.
Ché la parete verzicava tutta
d'alberi: pini dalle ombrelle nere
e fichi e meli; ed erbe e fiori e frutta.
E sì, meraviglioso era a vedere
che biancheggiava il mandorlo di fiori,
e gialle al pero già pendean le pere.
Lustravano nel sole alti gli allori:
sur una bruna bruna acqua di polle
l'edera andava con le foglie a cuori.
Sorgeva in fondo a grado a grado un colle,
o gremito di rosse uve sui tralci
o nereggiante d'ancor fresche zolle.
Lenti lungo il ruscello erano i salci,
lunghi per la sassosa erta i cipressi.
Qua zappe in terra si vedean, là falci.
E qua tra siepi quadre erano impressi
diritti solchi nel terren già rotto,
e là fiottava un biondo mar di messi.
E là, stupore, due bovi che sotto
il giogo aprivan grandi grandi un solco,
non eran grandi come era un leprotto
qua, che fuggiva a un urlo del bifolco.
CAP.
III
Come in essa parete avea dipinti d'ogni sorta uccelli, per dilettarsi in vederli, poi che averli non poteva.
E uccelli, uccelli, uccelli, che il buon uomo
via via vedeva, e non potea comprare:
per terra, in acqua, presso un fiore o un pomo:
col ciuffo, con la cresta, col collare:
uccelli usi alla macchia, usi alla valle:
scesi dal monte, reduci dal mare:
con l'ali azzurre, rosse, verdi, gialle:
di neve, fuoco, terra, aria, le piume:
con entro il becco pippoli o farfalle.
Stormi di gru fuggivano le brume,
schiere di cigni come bianche navi
fendeano l'acqua d'un ceruleo fiume.
Veniano sparse alle lor note travi
le rondini.
E tu, bruna aquila, a piombo
dal cielo in vano sopra lor calavi.
Ella era lì, pur così lungi! E il rombo
del suo gran volo, non l'udian le quaglie,
non l'udiva la tortore e il colombo.
Sicuri sulle stipe di sodaglie,
tranquilli su' falaschi di paduli,
stavano rosignoli, forapaglie,
cincie, verle, luì, fife, cuculi.
CAP.
IV
Come mirando le creature del suo pennello non disse l'Angelus e fu tentato.
Poi che senza né vischio ebbe né rete
anche, nella stanzuola, il ciuffolotto,
Paulo mirò la bella sua parete.
E non udì che gli avea fatto motto
la vecchia moglie; e non udì sonare
l'Avemaria dal campanil di Giotto.
Le creature sue piccole e care
mirava il terziario canuto
nella serenità crepuscolare.
E non disse, com'era uso, il saluto
dell'angelo.
Saliva alla finestra
un suono di vivuola e di leuto.
Chiara la sera, l'aria era silvestra:
regamo e persa uliva sui balconi,
e giuncava le vie fior di ginestra.
Passeri arguti empìan gli archi e gli sproni
incominciati di ser Brunellesco.
Cantavano laggiù donne e garzoni.
C'era tanto sussurro e tanto fresco
intorno a te, Santa Maria del fiore!
E Paulo si scordò Santo Francesco,
e fu tentato, e mormorò nel cuore.
CAP.
V
Della mormorazione che fece Paulo, il quale avrebbe pur voluto alcun uccellino vivo.
Pensava: "Io sono delle pecorelle,
Madonna Povertà, di tua pastura.
E qui non ha né fanti né fancelle.
E vivo di pan d'orzo e d'acqua pura.
E vo come la chiocciola ch'ha solo
quello ch'ha seco, a schiccherar le mura.
Oh! non voglio un podere in Cafaggiolo,
come Donato: ma un cantuccio d'orto
sì, con un pero, un melo, un azzeruolo.
Ch'egli è pur, credo, il singolar conforto
un capodaglio per chi l'ha piantato!
Basta.
Di bene, io ho questo in iscorto,
dipinto a secco.
E s'io non son Donato,
son primo in far paesi, alberi, e sono
pur da quanto chi vende uova in mercato.
Ora, al nome di Dio, Paulo di Dono
sta contento, poderi, orti, a vederli:
ma un rosignolo io lo vorrei di buono.
Uno di questi picchi o questi merli,
in casa, che ci sia, non che ci paia!
un uccellino vero, uno che sverli,
e mi consoli nella mia vecchiaia".
CAP.
VI
Come santo Francesco discese per la bella prospettiva che Paulo aveva dipinta, e lo rimbrottò.
Cotale fu la mormorazione,
sommessa, in cuore.
Ma dagli alti cieli
l'intese il fi di Pietro Bernardone.
Ecco e dal colle tra le viti e i meli
Santo Francesco discendea bel bello
sull'erba senza ripiegar gli steli.
Era scalzo, e vestito di bigello.
E di lunge, venendo a fronte a fronte,
diceva: "O frate Paulo cattivello!
Dunque tu non vuoi più che, presso un fonte,
del tuo pezzuol di pane ora ti pasca
la Povertà che sta con Dio sul monte!
Non vuoi più, frate Paulo, ciò che casca
dalla mensa degli angeli, e vorresti
danaro e verga e calzamenti e tasca!
O Paulo uccello, sii come i foresti
fratelli tuoi! Ché chi non ha, non pecca.
Non disfare argento, oro, due vesti.
Buona è codesta, color foglia secca,
tale qual ha la tua sirocchia santa,
la lodoletta, che ben sai che becca
due grani in terra, e vola in cielo, e canta".
CAP.
VII
Come il santo intese che il desìo di Paulo era di poco ed ei gli mostrò che era di tanto.
Così dicendo egli aggrandìa pian piano,
e gli fu presso, e con un gesto pio
gli pose al petto sopra il cuor la mano.
Non vi sentì se non un tremolìo,
d'ale d'uccello.
Onde riprese il Santo:
"O frate Paulo, poverel di Dio!
E` poco a te quel che desii, ma tanto
per l'uccellino che tu vuoi prigione
perché gioia a te faccia del suo pianto!
E' bramerebbe sempre il suo Mugnone
o il suo Galluzzo, in cui vivea mendico
dando per ogni bruco una canzone.
O frate Paulo, in verità ti dico
che meglio al bosco un vermicciòl gli aggrada
che in gabbia un alberello di panico.
Lasciali andare per la loro strada
cantando laudi, il bel mese di maggio,
odorati di sole e di rugiada!
A' miei frati minori il mio retaggio
lascia! la dolce vita solitaria,
i monti, la celluzza sur un faggio,
il chiostro con la gran cupola d'aria!"
CAP.
VIII
Come il santo partendosi da Paulo, che pur bramava sì piccola cosa, disse a lui una grande parola.
Partiva, rialzando ora il cappuccio:
ché con l'ignuda Povertà tranquilla
Paulo avea pace dopo il breve cruccio.
Lasciava Paulo, al suono d'una squilla
lontana, quando quel tremolìo d'ale
d'uccello vide nella sua pupilla.
Ne lagrimò, ché ben sapea che male
non era in quel desìo povero e vano,
ch'unico aveva il fratel suo mortale.
Venìa quel suono fievole e lontano
di squilla, lì dai monti, da un convento
che Paulo vi avea messo di sua mano.
Veniva il suono or sì or no col vento,
dai monti azzurri, per le valli cave;
e cullava il paese sonnolento.
Santo Francesco sussurrò: "Di' Ave
Maria"; poi senza ripiegar gli steli
movea sull'erba, e pur dicea soave:
"Sei come uccello ch'uomini crudeli
hanno accecato, o dolce frate uccello!
E cerchi il sole, e ne son pieni i cieli,
e cerchi un chicco, e pieno è l'alberello".
CAP.
IX
Come il santo gli mostrò che gli uccelli che Paulo aveva dipinti, erano veri e vivi anch'essi, e suoi sol essi.
E lontanando si gettava avanti,
a mo' di pio seminator, le brice
cadute al vostro desco, angeli santi.
Paulo guardava, timido, in tralice.
Le miche egli attingeva dallo scollo
del cappuccio, e spargea per la pendice.
Ecco avveniva un murmure, uno sgrollo
di foglie, come a un soffio di libeccio.
Scattò il colombo mollemente il collo.
Si levava un sommesso cicaleccio,
fin che sonò la dolce voce mesta
delle fedeli tortole del Greccio.
Dal campo, dal verzier, dalla foresta
scesero a lui gli uccelli, ai piedi, ai fianchi,
in grembo, sulle braccia, sulla testa.
Vennero a lui le quaglie coi lor branchi
di piccolini, a lui vennero a schiera
sull'acque azzurre i grandi cigni bianchi.
E sminuiva, e già di lui non c'era,
sui monti, che cinque stelline d'oro.
E, come bruscinar di primavera,
rimase un trito becchettìo sonoro.
CAP.
X
All'ultimo come cantò il rosignolo, e Paulo era addormito.
E poi sparì.
Poi, come fu sparito,
l'usignolo cantò da un arbuscello,
e chiese dov'era ito...
ito...
ito...
Ne stormì con le foglie dell'ornello,
ne sibilò coi gambi del frumento,
ne gorgogliò con l'acqua del ruscello.
E tacque un poco, e poi sommesso e lento
ne interrogò le nubi a una a una;
poi con un trillo alto ne chiese al vento.
E poi ne pianse al lume della luna,
bianca sul greto, tremula sul prato;
che alluminava nella stanza bruna
il vecchio dipintore addormentato.
- ROSSINI -
PRELUDIO
Di sghembo entrò, cantarellando roco,
nella sua stanza, e s'avviò pian piano
alla finestra.
Aveva, dentro, il fuoco.
Nella via scura, ormai deserta, un coro
ebbro e discorde si perdea lontano.
Ma il cielo pieno era di note d'oro.
Era la Lira, appesa al cielo, in riva
della Galassia, sovra il monte santo.
Al soffio eterno ella da sé tinniva.
Al suo tinnir cantava il Cigno immerso
nell'onde bianche, e col suo grande canto
placido navigava l'Universo.
Ma no: Rossini non udia che quelle
voci ebbre e scabre.
L'uggiolìo terreno
velava tutto il canto delle stelle.
Prese una carta e la lasciò cadere.
S'alzò, sedé, non la guardò nemmeno.
La carta piena era di note nere.
Imprecò muto.
Minacciò per aria
Otello e Iago.
Prese un foglio, e disse:
"Che altro occorre? una romanza? un'aria?
Assisa a piè..." Rise, e piantò nel cielo
della sua stanza due pupille fisse.
Pensava a un roseo fiore senza stelo...
Poi sbadigliò, poi chiuse pari pari
gli occhi, e nella dolcezza di quell'ora
dormì, sbuffando il sonno dalle nari.
Quegli stridori come d'aspra sega
stupì la Lira risonante ancora
del cilestrino tremolìo di Vega;
e sobbalzò dall'angolo solingo
il clavicembalo, e ronzava a lungo...
CANTO PRIMO
I.
E si levò la Parvoletta in pianto.
Piangea, la povera anima, e mirava
il suo fratello rauco gramo franto...
"Se tu crescesti, se, qual ero, io resto,
piccola, perché farne la tua schiava,
di me che nacqui, tu lo sai, più presto?"
Piangea la semplice anima fanciulla:
"Sono più grande! Quando tu, smarrito
del mondo immenso, pigolavi in culla,
io era là, tra l'ombre mute e sole,
fui io che il tenero umido tuo dito
guidai ver' gli occhi di tua madre e il sole!
Fui io che prima, per un tuo gran male,
ti dissi, St! ascolta!...
Una soave
nenia sonava presso il tuo guanciale.
E tu la udisti, e ti chetavi, attento
attento, di sulla tua lieve nave
che uguale uguale dondolava al vento...
Io, che così, con una piuma, il viso
ti vellicai, che tu torcesti alquanto
le labbra, e nacque il primo tuo sorriso!
Io, che picchiando sulla sponda un giglio,
battevo il tempo, e tu movesti al canto
la bocca, e nacque il tuo primo bisbiglio!
Io, che girai, per darti gioia, il talco
d'una stellina, che agitai gli squilli
d'un sistro, onde stridivi come un falco
di nido; e quando, solo, in mano a Dio,
restavi, a sera, in casa, coi gingilli
tuoi, bono bono, era che c'ero anch'io!"
II
Lagrime salse le piovean dagli occhi.
Piangea la povera anima, una mano
sul tenue seno e l'altra sui ginocchi.
"Oh! la tua buona Parvola, che chiudi
sola, laggiù, nel carcere lontano,
pieno di spettri e di fantasmi nudi!
E mi spaura, chiusa in fondo anch'ella
come son chiusa io così pura e saggia,
fragrante ancora dell'odor di stella,
la Bestia, ahimè! che mangia e ringhia e freme
sopra il presepe, e scalpita selvaggia
tutta la notte! Noi vegliamo insieme,
la Bestia e io! così che i dolci modi
che ti cantai, che andavi zingarello
di fiera in fiera, ora non più tu li odi.
...
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