PAMELA NUBILE, di Carlo Goldoni - pagina 1
Carlo Goldoni
PAMELA NUBILE
COMMEDIA
Rappresentata per la prima volta in Mantova la Primavera dell'anno 1750.
L'AUTORE A CHI LEGGE
Potrà ciascheduno riconoscere facilmente aver io tratto l'argomento della Pamela da un graziosissimo Romanzo Inglese che porta in fronte lo stesso nome, e chi le carte ha lette di tal Romanzo, vedrà sin dove ho seguitata la traccia del Romanziere, e dove ho lavorata con invenzione la favola.
Il premio della virtù è l'oggetto dell'Autore Inglese; a me piacque assaissimo una tal mira, ma non vorrei che al merito della virtù si sagrificasse il decoro delle Famiglie.
Pamela, benchè vile ed abbietta, merita di essere da un Cavaliere sposata; ma un Cavaliere dona troppo al merito di Pamela, se non ostante la viltà de' natali, la prende in isposa.
Vero è che in Londra poco scrupolo si fanno alcuni di cotai nozze, e legge non vi è colà che le vieti; ma vero è non meno, che niuno amerà per questo che il figliuolo, il fratello, il congiunto sposi una bassa femmina, anzichè una sua pari, quantunque sia, più di questa, virtuosa quella e gentile.
Il Romanziere medesimo arma gli sdegni di Miledi, sorella dell'affascinato Milord, sul dubbio ch'egli discenda ad isposare una serva, e crede alla famiglia ingiuriosissime tali nozze, come le credo io altresì, ad onta del contrario costume.
O non doveva l'Autore Inglese, secondo me, disputare su tale articolo, o lo doveva risolvere con più decoro della sua Nazione.
Piacque a me immaginare una peripezia avvantaggiosa per li due Amanti, e cambiando la condizion di Pamela, premiar la di lei virtù, senza oltraggiare il puro sangue di un Cavaliere, che al pari degli stimoli dell'amore, quelli ascolta eziandio dell'onore.
Sembra che ciò in Italia stato sia dall'unanime consenso degli ascoltatori approvato, e certamente fra noi sconvenevole troppo riuscito sulle nostre scene sarebbe il matrimonio di un Cavaliere colla virtuosa sua Cameriera.
Non so, se su tal punto saranno i perspicacissimi ingegni dell'Inghilterra di me contenti.
Io non intendo disapprovare ciò che da essi non si condanna; accordar voglio ancora, che coi principi della natura sia preferibile la virtù alla nobiltà e alla ricchezza, ma siccome devesi sul Teatro far valere quella morale che viene dalla pratica più comune approvata, perdoneranno a me la necessità, in cui ritrovato mi sono, di non offendere il più lodato costume.
Poteva io, egli è vero, per ischivare tale scoglio, valermi d'altro argomento, o trasportarlo ad altra Nazione, come sembra abbia fatto il celebre Monsieur Voltaire colla sua Nanine, argomento stessissimo di Pamela; ma troppo compiaciuto mi sono de' bei caratteri Inglesi, ed è mia delizia internarmi, per quant'io posso, nelle massime, nei costumi di quella illustre Nazione.
Quantunque riescita siami felicemente questa Commedia, che da un Romanzo, come diceva, io trassi, non ardirei consigliare alcuno di farlo, nè io medesimo da cotal fonte penso volerne trarre alcun'altra.
È troppo malagevole impegno restringere in poche ore una favola, a cui si è data dal primo Autore una estensione di mesi ed anni.
Oltre a ciò manca il maggior merito, che nell'invenzione consiste, e rade volte succede ciò che a me questa fiata è riuscito, di valersi dei caratteri solamente, e prendendo della favola il buono, raggirar la catastrofe con un pensier nuovo, e rendere lo scioglimento più dilettevole.
Questa è una Commedia, in cui le passioni sono con tanta forza e tanta delicatezza trattate, quanto in una Tragedia richiederebbesi.
Malgrado l'esito fortunato di questa, e d'altre mie di tal carattere e di somigliante passione, non mancan taluni, che dicono non esser buona Commedia quella in cui trionfano le virtuose passioni, si destan gli affetti, si moralizza sui vizi, sul mal costume, su gli accidenti dell'uman vivere.
Codesti tali vorrebbono la Commedia o ridicola sempre o sempre critica e mai di nobili sentimenti maestra; quasichè fra gli Eroi solamente si avessero a figurar le virtù, e queste considerarsi in quella iperbolica vista, in cui si pongono gli Eroi medesimi della Tragedia.
Il cuore umano risentesi più facilmente all'aspetto di quelli avvenimenti, a' quali o fu soggetto, o divenir potrebbe, e sarà sempre lodevole impresa, se colle Comiche rappresentazioni, movendo degli uditori gli affetti, si tenterà di correggerli, o di animarli, secondo ch'essi o al vizio, o alla virtù sieno variamente inclinati.
PERSONAGGI
MILORD BONFIL.
MILEDI DAURE, sua sorella.
IL CAVALIERE ERNOLD, nipote di Miledi Daure.
MILORD ARTUR.
MILORD COUBRECH.
PAMELA, fu cameriera della defunta madre di Bonfil.
ANDREUVE, vecchio padre di Pamela.
MADAMA JEVRE, governante.
MONSIEUR LONGMAN, maggiordomo.
MONSIEUR VILLIOME, segretario.
ISACCO, cameriere.
La Scena si rappresenta in Londra, in casa di Milord Bonfil, in una camera con varie porte.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Pamela a sedere a un picciolo tavolino, cucendo qualche cosa di bianco.
Madama Jevre filando della bavella sul mulinello.
JEV.
Pamela, che avete voi, che piangete?
PAM.
Piango sempre, quando mi ricordo della povera mia padrona.
JEV.
Vi lodo, ma sono tre mesi che è morta.
PAM.
Non me ne scorderò mai.
Sono una povera giovane, figlia d'un padre povero, che colle proprie braccia coltiva le terre che gli somministrano il pane.
Ella mi ha fatto passare dallo stato misero allo stato comodo; dalla coltura d'un orticello all'onor di essere sua cameriera.
Mi ha fatto istruire, mi ha seco allevata, mi amava, mi voleva sempre vicina; e volete ch'io me ne scordi? Sarei troppo ingrata, e troppo immeritevole di quella sorte che il cielo mi ha benignamente concessa.
JEV.
È vero; la padrona vi voleva assai bene, ma voi, per dirla, meritate di essere amata.
Siete una giovane savia, virtuosa e prudente.
Siete adorabile.
PAM.
Madama Jevre, voi mi mortificate.
JEV.
Ve lo dico di cuore.
Sono ormai vent'anni, che ho l'onore di essere al servizio di questa casa, e di quante cameriere sono qui capitate, non ho veduta la più discreta di voi.
PAM.
Effetto della vostra bontà, madama, che sa compatire i miei difetti.
JEV.
Voi fra le altre prerogative avete quella d'uno spirito così pronto, che tutto apprende con facilità.
PAM.
Tutto quel poco ch'io so, me l'ha insegnato la mia padrona.
JEV.
E poi, Pamela mia, siete assai bella!
PAM.
Voi mi fate arrossire.
JEV.
Io v'amo come mia figlia.
PAM.
Ed io vi rispetto come una madre.
JEV.
Sono consolatissima che voi, non ostante la di lei morte, restiate in casa con noi.
PAM.
Povera padrona! Con che amore mi ha ella raccomandata a Milord suo figlio! Pareva che negli ultimi respiri di vita non sapesse parlar che di me.
Quando me ne rammento, non posso trattenere le lagrime.
JEV.
Il vostro buon padrone vi ama, non meno della defunta sua genitrice.
PAM.
Il cielo lo benedica, e gli dia sempre salute.
JEV.
Quando prenderà moglie, voi sarete la sua cameriera.
PAM.
(sospira) Ah!
JEV.
Sospirate? Perchè?
PAM.
Il cielo dia al mio padrone tutto quello ch'egli desidera.
JEV.
Parlate di lui con una gran tenerezza.
PAM.
Come volete ch'io parli di uno che m'assicura della mia fortuna?
JEV.
Quand'egli vi nomina, lo fa sempre col labbro ridente.
PAM.
Ha il più bel cuore del mondo.
JEV.
E sapete ch'egli ha tutta la serietà che si conviene a questa nostra nazione.
PAM.
Bella prerogativa è il parlar poco e bene.
JEV.
(si alza) Pamela, trattenetevi, che ora torno.
PAM.
Non mi lasciate lungamente senza di voi.
JEV.
Vedete: il fuso è pieno.
Ne prendo un altro, e subito qui ritorno.
PAM.
Non vorrei che mi trovasse sola il padrone.
JEV.
Egli è un cavaliere onesto.
PAM.
Egli è uomo.
JEV.
Via, via, non vi date a pensar male.
Ora torno.
PAM.
S'egli venisse, avvisatemi.
JEV.
Sì, lo farò.
(M'entra un pensiero nel capo.
Pamela parla troppo del suo padrone.
Me ne saprò assicurare.) (parte)
SCENA II
PAMELA sola.
Ora che non vi è madama Jevre, posso piangere liberamente.
Ma queste lagrime ch'io spargo, sono tutte per la mia defunta padrona? Io mi vorrei lusingare di sì, ma il cuore tristarello mi suggerisce di no.
Il mio padrone parla spesso di me; mi nomina col labbro ridente.
Quando m'incontra con l'occhio, non lo ritira sì presto; m'ha dette delle parole ripiene di somma bontà.
E che vogl'io lusingarmi perciò? Egli mi fa tutto questo per le amorose parole della sua cara madre.
Sì, egli lo fa per questa sola ragione; che se altro a far ciò lo movesse, dovrei subito allontanarmi da questa casa; salvarmi fra le braccia degli onorati miei genitori, e sagrificare la mia fortuna alla mia onoratezza.
Ma giacchè ora son sola, voglio terminare di scrivere la lettera, che mandar destino a mio padre.
Voglio farlo esser a parte, unitamente alla mia cara madre, delle mie contentezze: assicurarli che la fortuna non m'abbandona; che resto in casa, non ostante la morte della padrona; e che il mio caro padrone mi tratta con tanto amore, quanto faceva la di lui madre.
Tutto ciò è già scritto; non ho d'aggiungere, se non che mando loro alcune ghinee lasciatemi dalla mia padrona per sovvenire ai loro bisogni.
(cava di tasca un foglio piegato e dal cassettino del tavolino il calamaio, e si pone a scrivere) Quanto vedrei volentieri i miei amorosissimi genitori! Almen mio padre venisse a vedermi.
È un mese ch'ei mi lusinga di farlo, e ancora non lo vedo.
Finalmente la distanza non è che di venti miglia.
SCENA III
Milord Bonfil e detta.
BON.
(da sè in distanza) (Cara Pamela! Scrive.)
PAM.
(scrivendo) Sì, sì, spero verrà.
BON.
Pamela.
PAM.
(si alza) Signore? (s'inchina)
BON.
A chi scrivi?
PAM.
Scrivo al mio genitore.
BON.
Lascia vedere.
PAM.
Signore...
Io non so scrivere.
BON.
So che scrivi bene.
PAM.
(vorrebbe ritirar la lettera) Permettetemi...
BON.
No; voglio vedere.
PAM.
(gli dà la lettera) Voi siete il padrone.
BON.
(legge piano)
PAM.
(da sè) (Oimè! Sentirà ch'io scrivo di lui.
Arrossisco in pensarlo.)
BON.
(guarda Pamela leggendo, e ride)
PAM.
(da sè) (Ride? O di me, o della lettera.)
BON.
(fa come sopra)
PAM.
(da sè) (Finalmente non dico che la verità.)
BON.
(rende a Pamela la lettera) Tieni.
PAM.
Compatitemi.
BON.
Tu scrivi perfettamente.
PAM.
Fo tutto quello ch'io so.
BON.
Io sono il tuo caro padrone.
PAM.
Oh signore, vi dimando perdono, se ho scritto di voi con poco rispetto.
BON.
Il tuo caro padrone ti perdona e ti loda.
PAM.
Siete la stessa bontà.
BON.
E tu sei la stessa bellezza.
PAM.
Signore, con vostra buona licenza.
(s'inchina per partire)
BON.
Dove vai?
PAM.
Madama Jevre mi aspetta.
BON.
Io sono il padrone.
PAM.
Vi obbedisco.
BON.
(le presenta un anello) Tieni.
PAM.
Cos'è questo, signore?
BON.
Non lo conosci? Quest'anello era di mia madre.
PAM.
È vero.
Che volete ch'io ne faccia?
BON.
Lo terrai per memoria di lei.
PAM.
Oh, le mie mani non portano di quelle gioje.
BON.
Mia madre a te l'ha lasciato.
PAM.
Non mi pare, signore, non mi pare.
BON.
Pare a me.
Lo dico.
Non si replica.
Prendi l'anello.
PAM.
E poi...
BON.
(alterato) Prendi l'anello.
PAM.
Obbedisco.
(lo prende, e lo tiene stretto in mano)
BON.
Ponilo al dito.
PAM.
Non andrà bene.
BON.
Rendimi quell'anello.
PAM.
(glielo rende) Eccolo.
BON.
Lascia vedere la mano.
PAM.
No, signore.
BON.
(alterato) La mano, dico, la mano.
PAM.
Oimè!
BON.
Non mi far adirare.
PAM.
Tremo tutta.
(si guarda d'intorno, e gli dà la mano)
BON.
(le mette l'anello in dito) Ecco, ti sta benissimo.
PAM.
(parte, coprendosi il volto col grembiale)
BON.
Bello è il rossore, ma è incomodo qualche volta.
(chiama) Jevre?
SCENA IV
Madama Jevre e detto.
JEV.
Eccomi.
BON.
Avete veduta Pamela?
JEV.
Che le avete fatto, che piange?
BON.
Un male assai grande.
Le ho donato un anello.
JEV.
Dunque piangerà d'allegrezza.
BON.
No; piange per verecondia.
JEV.
Questa sorta di lagrime in oggi si usa poco.
BON.
Jevre, io amo Pamela.
JEV.
Me ne sono accorta.
BON.
Vi pare che Pamela lo sappia?
JEV.
Non so che dire; ho qualche sospetto.
BON.
Come parla di me?
JEV.
Con un rispetto che par tenerezza.
BON.
(ridente) Cara Pamela!
JEV.
Ma è tant'onesta, che non si saprà niente di più.
BON.
Parlatele.
JEV.
...
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