LE SMANIE PER LA VILLEGGIATURA, di Carlo Goldoni - pagina 1
di Carlo Goldoni
Commedia di tre atti
(1761)
PERSONAGGI
Filippo, cittadino, vecchio, e gioviale
Giacinta, figliuola di Filippo
Leonardo, amante di Giacinta
Guglielmo, amante di Giacinta
Fulgenzio, attempato amico di Filippo
Paolo, cameriere di Leonardo
Brigida, cameriera di Giacinta
Cecco, servitore di Leonardo
Berto, servitore di Leonardo
La scena si rappresenta a Livorno, parte in casa di Leonardo, e parte in quella di Filippo.
L'AUTORE A CHI LEGGE
L'innocente divertimento della campagna è divenuto a' dì nostri una passione, una manìa, un disordine.
Virgilio, il Sannazzaro, e tanti altri panegiristi della vita campestre, hanno innamorato gli uomini dell'amena tranquillità del ritiro; ma l'ambizione ha penetrato nelle foreste: i villeggianti portano seco loro in campagna la pompa ed il tumulto delle Città, ed hanno avvelenato il piacere dei villici e dei pastori, i quali dalla superbia de' loro padroni apprendono la loro miseria.
Quest'argomento è sì fecondo di ridicolo e di stravaganze, che mi hanno fornito materia per comporre cinque Commedie, le quali sono tutte fondate sulla verità: eppure non si somigliano.
Dopo aver dato al pubblico i Malcontenti e la Villeggiatura, la prima nel Tomo terzo, la seconda nel Tomo quarto del mio Teatro Comico dell'edizion del Pitteri; ho trovato ancora di che soddisfarmi e di che fornire, non so s'io dica il mio capriccio o il mio zelo, contro un simile fanatismo.
Ho concepita nel medesimo tempo l'idea di tre commedie consecutive.
La prima intitolata: Le Smanie per la Villeggiatura; la seconda: Le Avventure della Villeggiatura; la terza; Il Ritorno dalla Villeggiatura.
Nella prima si vedono i pazzi preparativi; nella seconda la folle condotta; nella terza le conseguenze dolorose che ne provengono.
I personaggi principali di queste tre rappresentazioni, che sono sempre gli stessi, sono di quell'ordine di persone che ho voluto prendere precisamente di mira; cioè di un rango civile, non nobile e non ricco; poiché i nobili e ricchi sono autorizzati dal grado e dalla fortuna a fare qualche cosa di più degli altri.
L'ambizione de' piccioli vuol figurare coi grandi, e questo è il ridicolo ch'io ho cercato di porre in veduta, per correggerlo, se fia possibile.
Queste tre Commedie, fortunate egualmente pel loro incontro, e per l'universale aggradimento del pubblico, sono state separatamente rappresentate con una distanza di qualche tempo dall'una all'altra, essendo con tal arte composte, che ciascheduna può figurare da sé, e tutte e tre insieme si uniscono perfettamente.
Poteva io dunque per la stessa ragione separarle ne' Tomi della mia novella edizione, contentandomi di dare una Commedia inedita per ciascheduno, a tenore della promessa.
Ma ho esaminato il fondo che ho ancora delle cose inedite: veggo che posso abbondare senza timor che mi manchino, ed ho piacere di dar unito un quadro, che piacerà davantaggio.
Osserverà meglio così il Leggitore la continuazion de' caratteri sostenuti in tre differenti azioni; e se una delle difficoltà del Dramma consiste nel sostenere i caratteri in un'opera sola, piacerà ancor più vederli in tre sostenuti.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera in casa di Leonardo.
Paolo che sta riponendo degli abiti e della biancheria in un baule, poi Leonardo.
(A Paolo.)
PAOLO: Perdoni, signore.
Io credo che allestire il baule sia una delle cose necessarie da farsi.
LEONARDO: Ho bisogno di voi per qualche cosa di più importante.
Il baule fatelo riempir dalle donne.
PAOLO: Le donne stanno intorno della padrona; sono occupate per essa, e non vi è caso di poterle nemmen vedere.
LEONARDO: Quest'è il diffetto di mia sorella.
Non si contenta mai.
Vorrebbe sempre la servitù occupata per lei.
Per andare in villeggiatura non le basta un mese per allestirsi.
Due donne impiegate un mese per lei.
È una cosa insoffribile.
PAOLO: Aggiunga, che non bastandole le due donne, ne ha chiamate due altre ancora in aiuto.
LEONARDO: E che fa ella di tanta gente? Si fa fare in casa qualche nuovo vestito?
PAOLO: Non, signore.
Il vestito nuovo glielo fa il sarto.
In casa da queste donne fa rinovare i vestiti usati.
Si fa fare delle mantiglie, de' mantiglioni, delle cuffie da giorno, delle cuffie da notte, una quantità di forniture di pizzi, di nastri, di fioretti, un arsenale di roba; e tutto questo per andare in campagna.
In oggi la campagna è di maggior soggezione della città.
LEONARDO: Sì, è pur troppo vero, chi vuol figurare nel mondo, convien che faccia quello che fanno gli altri.
La nostra villeggiatura di Montenero è una delle più frequentate, e di maggior impegno dell'altre.
La compagnia, con cui si ha da andare, è di soggezione.
Sono io pure in necessità di far di più di quello che far vorrei.
Però ho bisogno di voi.
Le ore passano, si ha da partir da Livorno innanzi sera, e vo' che tutto sia lesto, e non voglio, che manchi niente.
PAOLO: Ella comandi, ed io farò tutto quello che potrò fare.
LEONARDO: Prima di tutto, facciamo un poco di scandaglio di quel, che c'è, e di quello, che ci vorrebbe.
Le posate ho timore che siano poche.
PAOLO: Due dozzine dovrebbero essere sufficienti.
LEONARDO: Per l'ordinario lo credo anch'io.
Ma chi mi assicura, che non vengano delle truppe d'amici? In campagna si suol tenere tavola aperta.
Convien essere preparati.
Le posate si mutano frequentemente, e due coltelliere non bastano.
PAOLO: La prego perdonarmi, se parlo troppo liberamente.
Vossignoria non è obbligata di fare tutto quello che fanno i marchesi fiorentini, che hanno feudi e tenute grandissime, e cariche, e dignità grandiose.
LEONARDO: Io non ho bisogno che il mio cameriere mi venga a fare il pedante.
PAOLO: Perdoni; non parlo più.
LEONARDO: Nel caso, in cui sono, ho da eccedere le bisogna.
Il mio casino di campagna è contiguo a quello del signor Filippo.
Egli è avvezzo a trattarsi bene; è uomo splendido, generoso; le sue villeggiature sono magnifiche, ed io non ho da farmi scorgere, non ho da scomparire in faccia di lui.
PAOLO: Faccia tutto quello che le detta la sua prudenza.
LEONARDO: Andate da monsieur Gurland, e pregatelo per parte mia, che mi favorisca prestarmi due coltelliere, quattro sottocoppe, e sei candelieri d'argento.
PAOLO: Sarà servita.
LEONARDO: Andate poscia dal mio droghiere, fatevi dare dieci libbre di caffè, cinquanta libbre di cioccolata, venti libbre di zucchero, e un sortimento di spezierie per cucina.
PAOLO: Si ha da pagare?
LEONARDO: No, ditegli, che lo pagherò al mio ritorno.
PAOLO: Compatisca; mi disse l'altrieri, che sperava prima ch'ella andasse in campagna, che lo saldasse del conto vecchio.
LEONARDO: Non serve.
Ditegli, che lo pagherò al mio ritorno.
PAOLO: Benissimo.
LEONARDO: Fate, che vi sia il bisogno di carte da giuoco con quel che può occorrere per sei, o sette tavolini, e soprattutto che non manchino candele di cera.
PAOLO: Anche la cereria di Pisa, prima di far conto nuovo, vorrebbe esser pagata del vecchio.
LEONARDO: Comprate della cera di Venezia.
Costa più, ma dura più, ed è più bella.
PAOLO: Ho da prenderla coi contanti?
LEONARDO: Fatevi dare il bisogno; si pagherà al mio ritorno.
PAOLO: Signore, al suo ritorno ella avrà una folla di creditori, che l'inquieteranno.
LEONARDO: Voi m'inquietate più di tutti.
Sono dieci anni che siete meco, e ogni anno diventate più impertinente.
Perderò la pazienza.
PAOLO: Ella è padrona di mandarmi via; ma io, se parlo, parlo per l'amore che le professo.
LEONARDO: Impiegate il vostro amore a servirmi, e non a seccarmi.
Fate quel che vi ho detto, e mandatemi Cecco.
PAOLO: Sarà obbedita.
(Oh! vuol passar poco tempo, che le grandezze di villa lo vogliono ridurre miserabile nella città).
(Parte.)
SCENA SECONDA
Leonardo, poi Cecco.
LEONARDO: Lo veggo anch'io, che faccio più di quello che posso fare; ma lo fanno gli altri, e non voglio esser di meno.
Quell'avaraccio di mio zio potrebbe aiutarmi, e non vuole.
Ma se i conti non fallano, ha da crepare prima di me, e se non vuol fare un'ingiustizia al suo sangue, ho da esser io l'erede delle sue facoltà.
CECCO: Comandi.
LEONARDO: Va' dal signor Filippo Ghiandinelli; se è in casa, fagli i miei complimenti, e digli che ho ordinato i cavalli di posta, e che verso le ventidue partiremo insieme.
Passa poi all'appartamento della signora Giacinta di lui figliuola; dille, o falle dir dalla cameriera, che mando a riverirla, e ad intendere come ha riposato la scorsa notte, e che da qui a qualche ora sarò da lei.
Osserva frattanto, se vi fosse per avventura il signor Guglielmo, e informati bene dalla gente di casa, se vi sia stato, se ha mandato, e se credono ch'ei possa andarvi.
Fa bene tutto, e torna colla risposta.
CECCO: Sarà obbedita.
(Parte.)
SCENA TERZA
Leonardo, poi Vittoria.
LEONARDO: Non posso soffrire che la signora Giacinta tratti Guglielmo.
Ella dice che dee tollerarlo per compiacere il padre; che è un amico di casa, che non ha veruna inclinazione per lui; ma io non sono in obbligo di creder tutto, e questa pratica non mi piace.
Sarà bene che io medesimo solleciti di terminare il baule.
VITTORIA: Signor fratello, è egli vero che avete ordinato i cavalli di posta, e che si ha da partir questa sera?
LEONARDO: Sì certo.
Non si stabilì così fin da ieri?
VITTORIA: Ieri vi ho detto che sperava di poter essere all'ordine per partire; ma ora vi dico che non lo sono, e mandate a sospendere l'ordinazion dei cavalli, perché assolutamente per oggi non si può partire.
LEONARDO: E perché per oggi non si può partire?
VITTORIA: Perché il sarto non mi ha terminato il mio mariage.
LEONARDO: Che diavolo è questo mariage?
VITTORIA: È un vestito all'ultima moda.
LEONARDO: Se non è finito, ve lo potrà mandare in campagna.
VITTORIA: No, certo.
Voglio che me lo provi, e lo voglio veder finito.
LEONARDO: Ma la partenza non si può differire.
Siamo in concerto d'andar insieme col signor Filippo, e colla signora Giacinta, e si ha detto di partir oggi.
VITTORIA: Tanto peggio.
So che la signora Giacinta è di buon gusto, e non voglio venire col pericolo di scomparire in faccia di lei.
LEONARDO: Degli abiti ne avete in abbondanza; potete comparire al par di chi che sia.
VITTORIA: Io non ho che delle anticaglie.
LEONARDO: Non ve ne avete fatto uno nuovo anche l'anno passato?
VITTORIA: Da un anno all'altro gli abiti non si possono più dire alla moda.
È vero, che li ho fatti rifar quasi tutti; ma un vestito novo ci vuole, è necessario, e non si può far senza.
LEONARDO: Quest'anno corre il mariage dunque.
VITTORIA: Sì, certo.
L'ha portato di Torino madama Granon.
Finora in Livorno non credo che se ne siano veduti, e spero d'esser io delle prime.
LEONARDO: Ma che abito è questo? Vi vuol tanto a farlo?
VITTORIA: Vi vuol pochissimo.
È un abito di seta di un color solo, colla guarnizione intrecciata di due colori.
Tutto consiste nel buon gusto di scegliere colori buoni, che si uniscano bene, che risaltino, e non facciano confusione.
LEONARDO: Orsù, non so che dire.
Mi spiacerebbe di vedervi scontenta; ma in ogni modo s'ha da partire.
LEONARDO: Se non ci verrete voi, ci anderò io.
VITTORIA: Come! Senza di me? Avrete cuore di lasciarmi in Livorno?
LEONARDO: Verrò poi a pigliarvi.
VITTORIA: No, non mi fido.
Sa il Cielo, quando verrete, e se resto qui senza di voi, ho paura che quel tisico di nostro zio mi obblighi a restar in Livorno con lui; e se dovessi star qui, in tempo che l'altre vanno in villeggiatura, mi ammalerei di rabbia, di disperazione.
LEONARDO: Dunque risolvetevi di venire.
VITTORIA: Andate dal sarto, ed obbligatelo a lasciar tutto, ed a terminare il mio mariage.
LEONARDO: Io non ho tempo da perdere.
Ho da far cento cose.
VITTORIA: Maledetta la mia disgrazia!
LEONARDO: Oh gran disgrazia invero! Un abito di meno è una disgrazia lacrimosa, intollerabile, estrema.
(Ironico.)
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