LA VILLEGGIATURA, di Carlo Goldoni - pagina 1
Carlo Goldoni
LA VILLEGGIATURA
Questa Commedia fu per la prima volta rappresentata in Venezia
nel Carnovale dell'anno 1756.
AL CHIARISSIMO SIGNOR ABBATE
GIO BATTISTA VICINI
ACCADEMICO DUCALE E POETA PRIMARIO
DI SUA ALTEZZA SERENISSIMA
IL SIGNOR DUCA DI MODONA
Fu delle maggiori che dar si possano la mia allegrezza, Chiarissimo Signor Abbate, allora quando il nostro comune Amico, il signor Avvocato Gio: Francesco Renzi, Segretario perpetuo di codesta illustre Accademia Ducale, si compiacque con un suo gentilissimo foglio darmi la notizia ber me onorevole, inaspettata, d'esser io stato ascritto fra i valorosi Accademici compagni vostri.
Si accrebbe ancora più il mio giubilo e la mia sorpresa, nell'annunziarmi ch'ei fece essere stato Voi il promotore di questo fregio al mio nome, con che darmi voleste una nuova testimonianza dell'amor Vostro; di quell'amore che nell'anno 1754 mi avete in Modona liberalmente manifestato, consolandomi colla presenza vostra in una mia penosa convalescenza, e frammischiando agli eruditi vostri ragionamenti tali osservazioni e tai giudizi sulle opere mie, che mi facevano insuperbire.
Fu dono dell'ingenuo amabilissimo Renzi nostro l'incontro per me felice della preziosa vostra amicizia; ma partito di Modona poco sano, ed assalito in Milano da una tenace malattia di spirito, che mi accompagnò crudelmente fino al mio ritorno in Venezia, non ho avuto agio di coltivarla, e ho trascurato, fra tanti altri, ancor questo bene.
Non è colpa vostra, se poi in qualche occasione, in cui giovar mi poteva la grazia vostra, vi siete di me scordato.
L'amicizia forma tra gli uomini il più utile, il più necessario commercio, e se ogni altro commercio devesi con assiduità coltivare, questo principalmente, che non d'interesse ma sol d'amore si pasce, va più di tutti con parzialità coltivato.
Oh quanti amici mi ha atto perdere la mia mala fortuna; ma lode al Signore, col tempo e colla verità facendo loro conoscere che, più dei loro sdegni mi si doveva la compassione, li ho quasi tutti ricuperati.
Foste Voi dei più facili a ridonarmi l'affetto vostro, segno che avete l'animo assai ben fatto, che non arrivano le passioni a guadagnarvi lo spirito, che un luogo sempre serbate nel vostro cuore per accogliere la verità, qualunque volta vi si presenta, e che malgrado gli adombramenti, sperate sempre di ritrovare la luce.
Piansi la vostra perdita amaramente, ed era ben ragionevole il mio cordoglio.
Noi non viviamo di solo pane.
L'onore è il nutrimento dei galantuomini, e questo vien dalla stima degli uomini somministrato.
Quanto sono più in credito gli estimatori, tanto più onorati si reputa chi ne va in traccia, e siccome Voi, per lettere e per dottrina, in altissimo loco siete dal merito collocato, potete colla vostra benevolenza felicitare, siccome, per lo contrario, non meritare la grazia vostra è lo stesso che viver senza credito e senza fama.
Voi dunque, nel ridonarmi l'affetto vostro, mi avete resa la miglior vita, e perché un simil dono, se non è pubblico, al donatario non giova, registrato lo avete in una rinomata Accademia, alla presenza di tanti Nobili valorosi Soggetti, onore e gloria del Panaro non solo, ma della nostra cara alle Muse, colta, invidiabile Italia.
Ma a un segno sì manifesto della vostra sincerissima dilezione non cercherò io corrispondere comunque possa? Vero è, che qualunque sforzo ch'io faccia per dimostrarvi la mia gratitudine, sarà sempre dal benefizio vostro distante, ma posso, se non adempiere alla ricompensa, far almeno valere la confessione del debito e la brama di soddisfarlo.
Trovansi a' giorni nostri dei debitori che si vergognano di esser tali, e, abboniscono i creditori, non potendo nemmen soffrire i discreti rimproveri dei loro sguardi.
Se pagar possono, sono ingrati; se non le possono, sono vili.
Quando non si può pagare, si prega; si offerisce quel che si ha.
Così ho pensato far io con Voi, ornatissimo Signor Abbate; non potendovi soddisfar per intiero, vi offro quella miserabile ricompensa che mi somministrano le mie forze.
Ma che parlo io di pagamento e di ricompensa? Chi dona, non aspetta mercede; e qualunque minima cosa che il donatario al donatore destina, è sempre un dono arbitrario, e sempre un dono novello.
Voi mi donaste assai perché assai dar potete; poco io vi dono, perché non posso darvi di più; e siam del pari, se non per la forza, almen per l'animo certamente.
Il dono dunque ch'io vi presento, è di una miserabile mia Commedia.
Quel che sono opere mie, lo sapete.
Niuno meglio di Voi ne può formare giudizio; è vano dunque ch'io ve ne parli.
Di una sola cosa, intorno a questa che or vi presento, vi devo render ragione.
Forse vi recherà meraviglia, che ad un Poeta, quale Voi siete, una commedia in prosa, anziché in verso, abbia voluto io dedicare.
Ma ditemi, se Dio vi salvi, ad un poeta del vostro merito quai versi si dovevano presentare? Possono i miei in verun conto paragonarsi coi vostri? Non rispondete Voi; mi rispondano tutti quelli che vi conoscono.
Dicalo prima di tutti il SERENISSIMO SIGNOR DUCA DI MODONA, che avendo ereditata dagli Avi la protezion delle Lettere, vari Poeti onora coll'augusto suo nome, ma Voi distingue col fregio di suo Poeta PRIMARIO.
Dicalo l'Eccelsa Illustre Accademia Ducale, e tante altre a cui foste gelosamente ascritto.
Ma quando finirei di scrivere, se tutti invitassi a rispondermi quei che del vostro sapere e dell'ammirabile vostra Poesia far possono testimonianza? Ciascuno sa che pochi Lirici al giorno d'oggi vi eguagliano; che i vostri sciolti hanno tutte le grazie italiane e tutta la forza greca; e se parliamo dei Martelliani (che Voi sapete aver io primo, dopo il Martelli, nelle commedie usati), sono i vostri così eleganti, così espressivi e vivaci, che si vergognano i miei di comparire al confronto.
Pure vi degnaste più volte, dopo quei giorni per me torbidi e calamitosi, frammischiare il mio nome fra le dolcissime rime vostre, farlo risuonar dalle scene e uscir glorioso dai torchi.
Grande è la vostra bontà, ma non voglio cimentarla presentandovi Commedia in versi.
Pur troppo ne avete lette di queste arie mal rimate, e ne potete leggere in questo Tomo, ma a Voi non sono dirette; non mi potrete dir prosontuoso.
Spero sarete ben persuaso, che l'essere scritta in prosa questa Commedia, non le accrescerà un difetto di più e che se altri non la oscurassero, questo solo non la renderebbe imperfetta.
Io trovo il verso nelle Commedie più comodo assai per me, che per gli Uditori.
Quante volte ho io l'obbligazione alla rima di una bella espressione, di un bel concetto! quanto più spiegasi concisamente in verso! e quanto più diletto ritrovasi nel faticare! Ma il numero degli ascoltatori è diviso.
Alcuni mi danno animo a seguitare i versi, altri mi vorrebbero ricondurre alla prosa.
A Roma principalmente dove soffrono assaissimo le Commedie mie, non le vogliono sentire in versi, e deggio far la fatica di tradurle io medesimo in prosa.
So che siete Voi per i versi; ciò non ostante il mio rispetto fa che in questa, che vi offerisco, sia preferita la prosa; spero non per tanto l'aggradirete comunque sia, all'opera non riflettendo, ma al cuore che ve la porge, con cui vi assicuro di essere ossequiosamente.
Di Voi, Chiarissimo Signor Abbate,
Devotiss.
Obbligatiss.
Servidore ed Amico
CARLO GOLDONI
L'AUTORE A CHI LEGGE
Questa commedia sarebbe stata più fortunata, se alcune scene fossero state scritte con meno studio e con minor volontà di dir bene.
Parve ad alcuni (o ad alcune) che i pensieri portati in Italia dal viaggiatore abbiano un po' dell'impertinente, e se mai tali massime venissero in qualche parte adottate, temono che si sconvoglierebbe il regno della galanteria.
Oh verità benedetta, pochi ti vedono di buon occhio!
Lettor carissimo, avrei da dirti parecchie cose, ma il tempo stringe, e si avvicina la mia partenza per Roma.
Come! (pare che tu mi dica) vai a Roma? Sì, vado a Roma.
Ed abbandoni Venezia? No, spero in Dio di tornare.
Ma perché vai a Roma? In pubblico i fatti miei non li voglio dire.
Sei chiamato? Son chiamato.
Da chi? Dal Teatro di Tordinona.
A far che? A dirigere alcune Commedie mie, di quelle già fatte, e da me trasportate dal verso alla prosa; e mi danno di regalo...
Non voleva dir niente, e ho quasi detto anche quello che non mi vien domandato.
E il tuo Teatro in Venezia lo abbandoni così? Lo abbandono? Perché lo abbandono? A tenor della mia scrittura il mio dover l'ho adempiuto.
Quando è così, va a buon viaggio.
Sì, Lettor gentilissimo, spero che il Signore mi darà un buon viaggio e un felice ritorno, e che l'anno venturo ci rivedremo.
Intanto pregoti non fare sopra di me di quelle scene che si fecero due anni sono, quando per essere stato in Parma al servizio di S.A.R., mio Padron clementissimo, si sono inventate di me tante favole, e che ero morto, e che ero decapitato, e che ero andato in Francia, in Spagna, nell'Indie, e che so io quante diavolerie si sono dette di me.
Circa alle mie Commedie, i Comici son provveduti.
Non mancherà loro il bisogno, e fra l'abilità loro e la mia preventiva assistenza, spero che il Pubblico non resterà malcontento.
Dirà taluno: Questo discorso al Lettore si potea risparmiare.
È vero, ma costa tanto poco, che ciascuno lo può soffrire pazientemente.
PERSONAGGI
Don GASPARO
Donna LAVINIA sua moglie
Donna FLORIDA
Don MAURO
Don PAOLUCCIO
Don EUSTACHIO
Don RIMINALDO
Don CICCIO
La LIBERA
La MENICHINA
ZERBINO
SERVITORE
La Scena si rappresenta in una casa di villeggiatura di don Gasparo.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Sala terrena di conversazione in casa di don Gasparo.
DON RIMINALDO che taglia al faraone, DON CICCIO, DON MAURO, che puntano; DONNA FLORIDA e DON EUSTACHIO ad un altro tavolino, che giocano a picchetto.
DONNA LAVINIA sedendo da un'altra parte, leggendo un libro.
FLO.
Facciamo che questa partita sia l'ultima; già non vi è gran differenza.
EUS.
Finiamola presto dunque, che voglio veder di rifarmi alla bassetta.
Colà giocano ancora.
FLO.
Sì, sì, andate anche voi al tavolino di quei viziosi.
Giocherebbono la loro parte di sole.
Bella vita che fanno! giorno e notte colle carte in mano.
Vengono in villa per divertirsi, e stanno lì a struggersi ad un tavolino.
Questi giochi d'invito non ci dovrebbono essere in villeggiatura.
Sturbano affatto la conversazione.
(sempre giocando)
EUS.
So che donna Lavinia ci patisce, che in casa sua si giochi d'invito.
FLO.
Anch'ella ieri sera ha perduto vari zecchini, ed ora eccola lì con un libro in mano.
Ma se ci fosse il suo cavaliere, non farebbe così.
EUS.
Mi maraviglio di don Mauro, che fa il terzo in quella bella partita.
FLO.
Tutto il giorno a giocare, e a me non bada come se non ci fossi.
EUS.
Veramente un cavaliere polito, com'egli è, non dovrebbe far cosa che dispiacesse alla dama.
FLO.
Sa che io ci patisco, quand'egli gioca, e vuol giocare per farmi dispetto.
EUS.
Sapete che cosa m'ha egli detto ieri sera?
FLO.
Che cosa v'ha detto?
EUS.
Ve lo dirò, ma promettetemi di non dirgli niente.
FLO.
Non dubitate: non glielo dirò certamente.
EUS.
Mi ha detto che voi lo tormentate un po' troppo; che tutto quello che fa, secondo voi è mal fatto; che se parla, lo riprendete, se tace, lo rimproverate: onde, per ischivare d'essere tormentato, gioca in tempo che non giocherebbe.
FLO.
Gioca, e non giocherebbe! don Mauro garbato! per non essere tormentato! (forte verso don Mauro)
EUS.
Ma signora, voi mi avete dato parola di non parlare.
FLO.
Io non gli dico, che voi me l'abbiate detto.
Gioca per forza; per non essere tormentato.
(forte come sopra)
EUS.
Capirà bene che possa venir da me...
FLO.
Non ci pensi, che avrà finito di essere tormentato.
(forte come sopra)
EUS.
Ho inteso.
Abusate della mia confidenza.
FLO.
No, don Eustachio.
Dico così per ridere.
Avete fatto lo scarto?
EUS.
L'ho fatto.
Gran cosa, che una donna non possa tacere.
FLO.
Io non dico più di così.
Cinquantaquattro del punto.
EUS.
Non vale.
FLO.
Quinta bassa.
EUS.
Non è buona.
FLO.
Tre re.
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