LA PUTTA ONORATA, di Carlo Goldoni - pagina 1
LA PUTTA ONORATA
COMMEDIA VENEZIANA
di Carlo Goldoni
Rappresentata per la prima volta in Venezia il Carnovale dell'Anno 1748
A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR CONTE DON
GIUSEPPE ARCONATI VISCONTI
REGIO FEUDATARIO DI ARCONATE, LOMAZZO, CERIMEDO, FENEGRÒ, GUANZATE E ROVELASCA, GENTILUOMO DI CAMERA ED INTIMO ATTUAL CONSIGLIERE DI STATO DELLE LORO MAESTÀ IMPERIALI, CONSIGLIERE NEL SUPREMO CONSIGLIO D'ITALIA E COMMISSARIO GENERALE DE' CONFINI DELLO STATO DI MILANO, ALTRO DE' SIGNORI LX.
DECURIONI DI QUELL'ECCELLENTISSIMO GENERAL CONSIGLIO E REGIO L.
T.
DEL V.
SPEDAL MAGGIORE DELLA MEDESIMA CITTÀ DI MILANO ECC.
Io, per dir vero, del numero di quei non sono, che possano la ragione della fortuna lagnarsi.
Ella mi ha fatto sempre del bene, e me lo ha fatto anche quando meno lo meritavo, e mi ha ella porta la mano più d'una fiata a risorgere, qualora ingrato a' suoi doni le voltai, per così dire, le spalle.
Pregiatissimo dono della fortuna rimarco io l'onor massimo dell'alto Patrocinio vostro, Eccellentissimo Signore, onore e dono che io confesso non meritare, e che di custodir mi prefiggo gelosamente quanto la mia medesima vita, giacché del pari nell'animo mio risento il piacer di essere, e quello di essere cosa vostra.
Quelli che hanno l'immagine della fortuna nell'oro e nell'argento e nella vita comoda collocata, si rideranno di me, che in mezzo alle fatiche e alli stenti, e assai mediocremente in arnese, e incerto sempre del mio destino, fortunato mi vanto; ma io conosco me stesso, e so di meritar molto meno, e assaissimo mi compiaccio di quel cortese compatimento, che dall'Universale esigono le mie fatiche; e molto più di consolazione mi empie e di giubilo, quello che degnossi di accordarmi l'E.
V., Cavaliere di tanta scienza ripieno, e di sì fino discernimento, i di cui giudizi possono assicurar chi che sia nel dubbio e incerto cammino della Virtù e del Merito.
Fu nel mese di Giugno dell'anno scorso ch'io ebbi la prima volta l'invidiabil contento di baciarvi la mano, e di vedere cogli occhi miei nel vostro venerabile aspetto i raggi luminosi di quella grand'anima, che ripiena di tutte le morali virtù rende Voi la delizia della vostra gran Patria, l'esempio dell'uomo nobile e del vero Cavaliere Cristiano.
Oh qual giornata per me felice fu quella! Non so ricordarmene senza novello giubilo, facendo in me una tal rimembranza l'effetto che suol produrre nei ciechi l'immagine delle più belle e più rare cose vedute.
In fatti, se io sapessi descrivere le delizie della vostra Villa di Castellazzo (ove in quel felice giorno vi trovai), cose avrei a scrivere degne di maraviglia, né poche pagine basterebbono a dare altrui un'idea vera di tutte quelle magnifiche cose, che formano un soggiorno degno di Voi.
La vastità del palazzo, la ricchezza delle suppellettili, la estensione del gran giardino, in cui si vedono variamente architettati e distinti i più bei verdi d'Italia; la quantità delle fontane e de' giochi d'acqua, tuttoché procurata dall'arte ed estratta di sotterra a forza di macchine, e mantenuta con una eccedente spesa; il parco de' cervi; il serraglio delle fiere, il grato e scelto pomario; la biblioteca, ricca di scelti e copiosi libri; la camera delle Matematiche, in cui si vedono tutte le più scelte macchine che servono allo studio ed alle esperienze della meccanica Filosofia; una Statuaria di antichi celebrati marmi, fra' quali ammirasi la magnifica statua colossale di Pompeo, la quale dal Campidoglio di Roma con immensa spesa fu trasportata dal vostro grand'Avo ad arricchire la Lombardia con uno de' più preziosi avanzi dell'antichità, cose queste son tutte che richiederebbono altro luogo per essere scritte, ed altra mano che le scrivesse; cose elleno sono, che richiamano tutto giorno e i lontani e i vicini all'ammirazione, e voi con tanta umanità e cortesia trattar solete i quotidiani numerosi Ospiti vostri, ai quali non manca mai, nel tempo della Vostra villeggiatura, né lauta mensa, né agiato riposo, né musica, né altri piaceri di questa vita, il condimento dei quali si è la Vostra erudita, graziosa, amabile conversazione.
E non dovrò io render grazie alla mia fortuna per avermi ella fatto partecipe di tante sì rare cose ? Sì, che le sarò sempre grato, ed or piucché mai, poiché fortuna sola, e non grado alcuna di merito fa sì ch'io possa porre in fronte ad una delle miserabili mie Commedie il nome grande, il venerabile nome di V.
E., e fregiando in sì alto modo le imperfette Opere mie, tentar gloriosamente gli auspici di un Protettore eccelso e magnanimo.
Ma no, non è questo puro dono della fortuna; egli è, Eccellentissimo Signore, un tratto della vostra benignità, la quale non sa che spargere a larga mano le beneficenze e le grazie, e Voi formate la fortuna di quelli che vi servono, riconoscono, e ammirano da vicino le Vostre peregrine virtù.
Che manca in Voi di ammirabile e grandioso? Non la antichità del sangue, il quale sino nel decimoquarto Secolo sparso fu da' gloriosi Vostri Antenati a pro della Patria, ed in servigio di Filippo Maria Visconti Duca di Milano.
Non grado e dignità, poiché tante ne ha profuse in Voi l'imperadore Carlo Sesto, e tante la Invitta e Gloriosa Regina Vostra Sovrana, che vi rendono in altra guisa noto al Mondo e ragguardevole per ogni dove.
Non virtù, non valore, non ottima, regolata prudenza, onde negli affari economici, politici e militari, e nei Consigli e nei Governi ove foste con tanto merito destinato, deste saggio mai sempre di pronto spirito e di robustezza di animo, e sopra tutto di dolce adorabile benignità, la quale siccome è a Voi medesimo la virtù prediletta, così porge a me la dolce lusinga, che aggradire vi degnerete quest'umile offerta dell'ossequioso rispetto mio, concedendomi ch'io possa in faccia del Mondo gloriarmi di essere, quale con profonda umiliazione ho l'onore di protestarmi
Di V.
E.
Torino, il primo di Maggio 1751.
Umiliss.
Devotiss.
ed Obbligatiss.
Serv.
CARLO GOLDONI
LETTERA DELL'AUTORE
AL BETTINELLI
Scrittagli l'anno 1751 da Turino, mandandogli la presente Commedia.
Dappoiché pare a voi che la Putta Onorata possa apportarvi qualche utilità coll'essere data al pubblico, io voglio compiacervi anche di questa, quantunque non abbia quella opinione di essa, che voi avete.
Sia stata qual si voglia la sua riuscita sul Teatro, non potrà certamente ritrovare quel gradimento fra' Leggitori fuori di Venezia, che ritrovò fra gli Spettatori sulle Scene Veneziane.
Otto personaggi, che dentro vi favellano nel nativo linguaggio di quella Città, mi fanno dubitare che perdendosi nella non bene intesa lingua il sapore de' sentimenti, rimanga scipita e forse rincrescevole.
Né mi sgomenterei gran fatto, se la favella in essa usata fosse stata tratta dal parlare degli uomini colti, perciocché non si discosterebbe lungo tratto da quella, che per tutta l'Italia è intesa; ma avendo io in più luoghi imitato le azioni e i ragionamenti della minuta gente, mi convenne attenermi a que' modi di dire, che più a tal qualità di persone si confanno.
È a ciascheduno palese, quanto sia diverso in ogni Città il ragionare degli uomini qualificati da quello delle genti d'altra condizione, e che queste ultime sì dagli altri lo hanno diverso, che quasi nati sembrano in altro Paese; perciocché oltre alla differenza di molti vocaboli e della pronuncia ancora, hanno altresì certe forme particolari o di sentenze, o di proverbi, o di diciture in gergo, che piacevolissime sono a chi le intende, ma riescono a chi non è più che pratico oscurissime.
Fra tutti quelli che hanno grandissima copia di sì fatte forme di favellare, sono i Gondolieri di Venezia, i quali furono da me nella presente Commedia imitati con tanta attenzione che più volte mi posi ad ascoltarli, quando quistionavano, sollazzavansi o altre funzioni facevano, per poterli ricopiare nella mia Commedia naturalmente.
Questa stessa esattezza, che fece così grata la mia fatica in una Città, dove tali cose sono sotto gli occhi ogni dì, e tali vocaboli si odono sempre; temo che la renderà forse noiosa a quelli che, nati lontani da essa, non intendono la proprietà de' vocaboli Veneziani.
E più mi conferma l'osservazione che ho fatta nel vederla a recitare; poiché in Venezia dovete ricordarvi quante e quante sere fu replicata la prima volta, e come in calca venivano le persone per aver luogo nel Teatro ad udirla, e nell'anno susseguente ancora non ebbe peggior fortuna; né minor piacere fece agli ascoltanti di Verona, come quelli a' quali quel ragionare non è affatto nuovo; ma allontanata di là, non ebbe la stessa riuscita; appunto perché, rimanendo oscura per metà, non poteva più essere gradita interamente.
Quello ch'io vidi quando fu rappresentata dubito che accada quando sarà venuta alla luce, e tanto più perché nel leggere il movimento dell'azione è perduto; che pur talvolta dà tanto spirito anche alle cose non affatto evidenti, che le fa comprendere agli ascoltanti.
Con tutto ciò, poiché voi così desiderate, io non sono per contrastare alla vostra volontà; ma in ciò solamente a Voi mi raccomando, che i più oscuri modi di favellare sieno almeno, come nel primo tomo si è fatto, con alcune postille dichiarati; e quanto si può venga aperto il senso di quelli, acciocché il non intenderli non disgusti altrui dal leggere.
In questa forma facendo, son certo che, se non darà tutto quel diletto a' Forestieri che può dare a' Leggitori Veneziani, si renderà almeno men faticosa, e perciò più facilmente si potrà ritrovare chi la legga senza rincrescimento.
Non dubito che adoprerete in ciò tutta la diligenza, e promettendovi pel venturo ordinario la Buona Moglie, che a questa, quasi secondogenita, vien dietro, col cuore vi abbraccio.
Personaggi
Ottavio, marchese di Ripaverde.
La marchesa Beatrice, sua moglie.
Pantalone de' Bisognosi, mercante veneziano creduto padre di Lelio e protettore di
Bettina, fanciulla veneziana.
Catte, lavandaia moglie di Arlecchino e sorella di Bettina.
Messer Menego Cainello, barcaiuolo del marchese, e creduto padre di Pasqualino.
Lelio, creduto figlio di Pantalone, poi scoperto figlio di messer Menego.
Pasqualino, creduto figlio di messer Menego, poi scoperto figlio di Pantalone.
Donna Pasqua, da Pelestrina moglie di messer Menego.
Brighella, servitore del marchese.
Arlecchino, marito di Catte.
Nane, barcaiuolo.
Tita, barcaiuolo.
Un giovane, caffettiere.
Un ragazzo, che all'uso di Venezia accenna ad alta voce dove si vendono i viglietti della commedia.
Scanna, usuraio.
Un capitano di sbirri con i suoi uomini.
La scena si rappresenta in Venezia.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera del Marchese.
Il marchese Ottavio in veste da camera al tavolino scrivendo
e la marchesa Beatrice in abito di gala.
OTT.
Sì signora, v'ho inteso; lasciatemi scrivere questa lettera.
BEAT.
Questa sera vi è la conversazione in casa della Contessa.
OTT.
Ho piacere.
Amico carissimo.
(scrivendo)
BEAT.
Spero che verrete anche voi.
OTT.
Non posso.
Se non ho risposto alla vostra lettera...
BEAT.
Ma a casa chi mi accompagnerà?
OTT.
Manderò la gondola.
Vi prego perdonarmi, perché...
BEAT.
E volete ch'io torni a casa sola?
OTT.
Fatevi accompagnare.
Vi prego perdonarmi, perché gli affari miei...
BEAT.
Ma da chi mi ho da far accompagnare?
OTT.
Dal diavolo che vi porti.
Gli affari miei me l'hanno impedito.
BEAT.
Andate là, marito mio, siete una gran bestia.
OTT.
Per altro non ho mancato di servirvi...
BEAT.
Con voi non posso più vivere.
OTT.
E voi crepate.
Ho parlato al consaputo mercante...
BEAT.
Bella creanza!
OTT.
E mi ha assicurato, che quanto prima...
BEAT.
Quanto prima me n'andrei da questa casa.
OTT.
Oh volesse il cielo! Quanto prima vi manderà la stoffa...
BEAT.
Questa è una commissione di qualche dama.
OTT.
Sì, signora.
(scrive)
BEAT.
Me ne rallegro con lei.
OTT.
Ed io con lei.
(scrive)
BEAT.
Fareste meglio a provvederla per me quella stoffa, che ne ho bisogno.
OTT.
Cara signora marchesa, favorisca d'andarsene.
BEAT.
Meritereste d'aver una moglie come dico io...
OTT.
Peggio di voi non la troverei mai.
(scrive)
BEAT.
...
[Pagina successiva]