LA GUERRA DEI TOPI E DELLE RANE, di Giacomo Leopardi - pagina 1
LA GUERRA DEI TOPI E DELLE RANE
Poema
[1815]
CANTO PRIMO
1
Grande impresa disegno, arduo lavoro:
O Muse, voi dall'Eliconie cime
A me scendete, il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia dei topi e delle rane.
2
Sulle ginocchia ho le mie carte, or fate
Che nota a ogni mortal sia l'opra mia,
Che alla più lenta, alla più tarda etate
Salva pur giunga, e che di quanto fia
Che sulle carte a voi sacrate io scriva,
La fama sempre e la memoria viva.
3
I nati già dal suol vasti giganti,
Di que' topi imitò la razza audace,
Da nobil fuoco accesi, ira spiranti
Vennero al campo, e se non è mendace
Il grido che tuttor va per la terra,
Questa l'origin fu di quella guerra.
4
Un topo un dì, fra' topi il più ben fatto,
Venne d'un lago alla fangosa sponda:
Scampato egli era allor da un tristo gatto,
E calmava il timor colla fresc'onda:
Mentre beveva, un garrulo ranocchio
Dalla palude a lui rivolse l'occhio.
5
Se gli fece dappresso, e a dirgli prese:
A che venisti? donde qua? straniero,
Di qual nazione sei, di qual paese?
Qual è l'origin tua? narrami il vero;
Che se dabben ritroverotti e umano,
Valicar ti farò questo pantano.
6
Io guida ti sarò, meco verrai
Alle mie terre ed al palazzo mio;
Quivi ospitali e ricchi doni avrai,
Che Gonfiagote, il gran Signor son io;
Ho sullo stagno autorità sovrana,
E mi rispetta e venera ogni rana.
7
La Donna già mi partorì dell'acque,
Che, per amor, dell'Eridano in riva
Con Fango il mio gran padre un dì si giacque:
Ma bel corpo hai tu pur, faccia giuliva,
Sembri possente Re, prode guerriero;
Su via dimmi chi sei, parla sincero.
8
Rispose il topo: Amico, e che mai brami?
Non v'ha Dio che m'ignori, augello, o uomo,
E pur tu vuoi saper come mi chiami?
Or bene, Rubabriciole io mi nomo;
Il mio buon padre Rodipan si appella,
Topo di raro cor, d'anima bella.
9
Mia madre è Leccamacine, la figlia
Del rinomato Re Mangiaprosciutti.
Con gioia universal della famiglia
Mi partorì dentro una buca, e tutti
I più squisiti cibi, e noci, e fichi
Furo il mio pasto in que' bei giorni antichi.
10
Ma come vuoi che amico tuo diventi,
Se di noi sì diversa è la natura?
Tu di vagar per l'acqua ti contenti;
D'ogni vivanda io fo mia nutritura,
Di quanto mangia l'uom gustare ho in uso,
Luogo non avvi, ove non ficchi il muso.
11
Rodo il più bianco pane e il più ben cotto,
Che dal suo cesto la mia fame invita,
Buoni bocconi di focaccia inghiotto
Di granelli di sesamo condita,
E fette di prosciutto e fegatelli
Con bianca veste ingrassanmi i budelli.
12
Appena fu compresso il dolce latte,
Assaggio il cacio fabbricato appena;
Frugo cucine e visito pignatte,
E quanto all'uomo apprestasi per cena.
È mio qualunque cibo inzuccherato,
Che Giove stesso invidia al mio palato.
13
Non temo delle pugne il fiero aspetto,
Ma mi fo innanzi, e al ferro mi presento.
Spesso dell'uomo insinuomi nel letto:
Benché sì grande, ei non mi dà spavento.
Del piè rodergli un dito ho fin l'ardire,
Ed ei nol sente, e seguita a dormire.
14
Due cose io temo, lo sparvier maligno,
E il gatto, ch'è per noi sempre in agguato.
Misero è ben chi cade in quell'ordigno,
Che trappola si chiama; egli è spacciato:
Ma il gatto più che mai mi fa paura,
Da cui buca non v'ha che sia sicura.
15
Non mangio ravanelli, o zucche, o biete;
Questi cibi non son per il mio dente:
E pur nell'acqua voi null'altro avete:
Ben volentieri ve ne fo presente.
Rise la rana, e disse: Hai molta boria,
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.
16
Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose
E negli stagni loro e fuor dell'onde.
Ciascun di noi sopra le sponde erbose
Scherza a sua posta, o nel pantan s'asconde,
Ch'alle ranocchie mie dal ciel fu dato
Viver nell'acqua e saltellar nel prato.
17
Se vuoi vedere or quanto il nuoto piaccia,
Montami sulla schiena, abbi giudizio,
Sta saldo, e al collo gettami le braccia,
Onde a cader non abbi a precipizio;
Così senz'alcun rischio a casa mia
Meco verrai per quest'ignota via.
18
Sì disse, e tosto gli omeri gli porse;
Saltovvi il topo, e colle mani il collo
Del ranocchio abbracciò, che via sen corse,
E sulle spalle seco trasportollo.
Ridea dapprima il sorcio malaccorto,
Che si vedeva ancor vicino al porto.
19
Ma poi che in mezzo del pantan trovossi,
E che la riva omai vide lontana,
Conobbe il rischio, si pentì, turbossi.
Forte co' piè stringevasi alla rana,
Col pianto si dolea, svelleva i crini,
Il suo fallo accusava ed i destini.
20
Pregava i Numi, e in suo soccorso il cielo
Chiamava, e già credevasi all'estremo,
Tremava tutto, ed avea molle il pelo;
Stese la coda in acqua, e come un remo
Dietro se la traea, girando l'occhio
Ora alla riva opposta, ora al ranocchio.
21
Pallido disse alfin: Che reo cammino,
Che strada è questa mai! quando alla meta,
Deh quando arriverem! quel bue divino
No così non condusse Europa in Creta,
Portandola per mar sopra la schiena,
Come ora a casa sua questi mi mena.
22
Dicea: quand'ecco fuor della sua tana
Con alto collo un serpe uscir sull'onda.
Il topo inorridì, gelò la rana;
Ma questa giù nell'acque si profonda,
Fugge il periglio, e il topo sventurato
Vittima lascia al suo funesto fato.
23
Cade sull'acqua, e vòlto sottosopra
Il miserel teneramente stride,
Col corpo e colle zampe invan s'adopra
Per sostenersi a galla; or poi che vide
Ch'era già molle, e che il suo proprio pondo
Del lago già lo strascinava al fondo:
24
Co' calci la fatale onda spingendo,
Disse con fioca voce: alfin sei pago,
Barbaro Gonfiagote, intendo, intendo
I tradimenti tuoi; su questo lago
Mi traesti per vincermi sui flutti,
Che vano era affrontarmi a piedi asciutti.
25
Tu mi cedevi in lotta e al corso, e m'hai
Qua condotto a morir per nera invidia,
Ma dagli Dei giusta mercede avrai,
I topi puniran la tua perfidia;
Veggo le schiere, veggo l'armi e l'ira,
Vendicato sarò.
Sì dice, e spira.
CANTO SECONDO
1
Leccapiatti, che allor sedea sul lido,
Fu testimonio dell'orrenda scena:
Raccapricciò, mise in vederla un grido,
Corse a recar la trista nuova, e appena
Udito ei fu, che di furor, di sdegno
Tutto quanto avvampò de' topi il regno.
2
Banditori n'andàr per ogni parte,
Che chiamàr tutti a general consiglio.
Concorde si levò grido di Marte,
Mentre di Rodipan l'estinto figlio
Nel mezzo del pantan giacea supino,
Né per anco alla ripa era vicino.
3
Ognun nel giorno appresso di buon'ora
Levossi, e a casa andò di Rodipane.
Tutti sedean: rizzossi quegli allora,
E così prese a dire: Ahi triste rane,
Che a me recaro atroce, immenso affanno,
A voi tutti però comune è il danno.
4
Infelice ch'io son! tre figli miei
Nel più bel mi rapì morte immatura;
Per il ribaldo gatto un ne perdei,
Che il rubò mentre uscia da una fessura:
La trappola, invenzion dell'uomo scaltro,
Che strage fa di noi, men tolse un altro.
5
Restava il terzo, quel sì accorto e vago,
A me sì caro ed alla moglie mia.
Da Gonfiagote a naufragar nel lago
Questi fu tratto.
E che si tarda? or via
Usciam contro le rane, armiamci in fretta,
Peran tutte, ché giusta è la vendetta.
6
Poiché si tacque il venerando topo,
Fecer plauso gli astanti al suo discorso:
Ognuno corse all'armi, e al grande scopo
Marte contribuì col suo soccorso,
E la persona a render più sicura,
Tutti i topi provvide d'armatura.
7
Con cortecce di fave aperte e rotte
Si fero in un momento i stivaletti,
Che rose già le avean la scorsa notte:
Di canne si formaro i corsaletti;
Colla pelle le unirono di un gatto
Che scorticato avean da lungo tratto.
8
Gli scudi fur di quelle ardite schiere
Unti coperchi di lucerne antiche:
Gusci di noci furo elmi e visiere:
Aghi fur lance.
Alfin d'aste e loriche
Fornita, e d'elmi, e scudi, e ben montata,
In campo uscì la spaventosa armata.
9
Delle ranocchie il popolo si scosse,
Poiché n'ebbe novella, e venne in terra.
S'unì sul lido, onde cercar qual fosse
Pei topi la cagion di quella guerra;
Quand'ecco vien Montapignatte il saggio,
Figliuolo del guerrier Scavaformaggio.
10
Fermossi tra la folla, e la cagione
Di sua venuta espose in questi accenti:
Rane, da parte della mia nazione,
De' topi miei magnanimi e possenti,
Qua ne vengo, ove lor piacque inviarmi
Nunzio di guerra ad invitarvi all'armi.
11
Rubabriciole vider coi lor occhi
In mezzo al lago, ove lo trasse a morte
Gonfiagote il Re vostro.
Or tra i ranocchi
Chi ha più gagliardo cor, braccio più forte,
S'armi tosto, e a pugnar venga con noi:
Sì disse il topo, e fe' ritorno ai suoi.
12
Fra i ranocchi un tumulto allor si desta,
Di Gonfiagote il Rege ognun si duole,
Palpita e trema ognun per la sua testa,
Niun la sfida de' topi accettar vuole:
Ma della funestissima novella
Per consolarli il Re così favella:
13
Calmate, rane mie, questi timori,
Ch'io, come tutti voi, sono innocente;
Non date fede ai topi mentitori:
Ben so che certo sorcio impertinente,
Il navigar di noi d'imitar vago,
Gittossi in acqua, e s'affogò nel lago.
14
Ma nol vidi però quando annegossi,
Né la cagione io fui della sua morte.
Or se da' topi contro noi levossi
Sì numeroso esercito e sì forte,
Armiamoci noi pur; del loro ardire
Fra poco in campo li farem pentire.
15
Udite attentamente il pensier mio.
Ben armati porremci sulla riva
Tutti là dove ertissimo è il pendìo:
Aspetteremo i topi, e quando arriva
La loro armata, tutti lor dall'alto
Costringerem nell'acqua a fare un salto.
16
Così senz'alcun rischio in un sol giorno
Distruggerem l'esercito nemico,
Che dal pantan più non farà ritorno.
Orsù dunque badate a quel ch'io dico;
L'armi indossiamo, e stiamo allegramente,
Che or or ci sbrigherem di quella gente.
17
Ubbidiscono tutti, e colle foglie
Delle malve si fanno le gambiere,
Bieta per far corazze ognun raccoglie,
Col cavolo ciascun fassi il brocchiere,
Con chiocciole ricuopresi la testa,
E per servir di lancia un giunco appresta.
18
Mentre vestita già con fiero volto
Sta l'armata sul lido, e i topi attende,
Giove allo stuol de' numi in ciel raccolto
Le opposte squadre addita, e a parlar prende:
Vedete là quei tanti armati e tanti,
Emuli de' Centauri e de' Giganti?
19
Verran presto alle mani.
Or chi di voi
Per i topi sarà, chi per le rane?
Giuro, o Palla, che i topi aiutar vuoi,
Che corsi all'are tue dalle lor tane,
Usano ai sacrifizi esser presenti,
E col naso v'assistono e co' denti.
20
Rispose Palla: O padre mio, t'inganni:
Perano i topi pur nella tenzone,
Mai li soccorrerò, che mille danni
Fan ne' miei tempii e guastan le corone
Che i devoti consacrano al mio nume,
E suggon l'olio, onde si spegne il lume.
21
Ma ciò che più mi duole, e che giammai
Saprò dimenticare, è che persino
Mi rosero il mio manto; io ne filai
La sottil trama; egli era bello e fino
Ch'io pur l'avea tessuto, ed or mel trovo
Inutile e forato, benché nuovo.
22
Il peggio è poi che ognor mi sta d'intorno
Il cucitor, che vuol la sua mercede.
Pagar non posso, ed egli tutto il giorno
Mi viene appresso, e il suo denar mi chiede.
La trama, che già fecimi prestare,
Ora né render posso, né pagare.
23
Ma i lor difetti hanno le rane ancora,
E con pena una sera io lo provai.
Venia dal campo, e tarda era già l'ora:
Stanca per riposar mi coricai,
Ma non potei dormir né chiuder gli occhi,
Pel gracidar continuo de' ranocchi.
24
Vegliar dovei con fiero duol di testa
Fino a quel tempo, in cui spunta la luce,
Allor che il gallo svegliasi e fa festa.
Orsù, nessun di noi si faccia duce
De' combattenti che a pugnar sen vanno,
Abbiasi chicchessia vittoria, o danno.
25
Ferito esser potria da quelle schiere
Un nume ancor, se fossevi presente.
Meglio è fuggire il rischio, ed a sedere
Porci a veder la pugna allegramente.
Disse Palla: agli Dei piacque il consiglio,
E al campo ognun di lor rivolse il ciglio.
CANTO TERZO
1
Eran le schiere una dell'altra a fronte,
E de' guerrieri gridi udiasi il suono:
Giove fe' rimbombar la valle e il monte
Con un lungo, improvviso, immenso tuono,
E colle trombe lor mille zanzare
Della pugna il segnal vennero a dare.
2
Strillaforte primier fattosi avanti,
Ferì nel ventre Leccaluom coll'asta.
Non muor, ma sulle gambe vacillanti
Il miserello a reggersi non basta:
Cade, e a Fanghigno Sbucatore intanto
Passa il ventre dall'uno all'altro canto.
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