LA CASA NOVA, di Carlo Goldoni - pagina 1
Carlo Goldoni
La casa nova
Commedia veneziana in tre atti in prosa
Rappresentata per la prima volta in Venezia
il carnovale dell'anno 1761
AL MIO CARISSIMO AMICO N.
N
Voi non volete che io vi dedichi una Commedia, ed lo voglio dedicarvela ad ogni modo.
Impeditelo, se potete.
Non vi nomino, non vi prevengo, non potete dire che sia per Voi, e quando ne concepiste qualche sospetto, quella modestia che vi fa ricusare la Dedica, non vi permetterà forse di attribuirvela.
Dirà più d'uno, e Voi lo direte cogli altri: Quale soddisfazione può aver un Autore a dedicare l'opera sua ad una persona, che non è consapevole di quel presente, buono o cattivo, che tu le fai? Le dediche si fanno per tre ragioni: o per affetto, o per rispetto, o per interesse: agindo con tale estraordinaria cautela, non otterrai alcuno di questi effetti.
L'amico non ti ringrazia, il protettore non si obbliga, il liberal non ti ricompensa.
L'obbietto è ragionevole, ma io rispondo che la mia soddisfazione è nel cuore, che rendendo giustizia ad un amico, non ho bisogno che mi ringrazi, e che la buona amicizia val più d'ogni protezione e d'ogni liberal ricompensa.
Avrei certamente maggior piacere, se potessi parlare liberamente, ma farlo non potrei senza offendere la vostra moderazione, o senza tradire la verità.
Non si può parlare di voi senza formar elogi al vostro talento, al vostro cuore, ed al vostro costume; e facendolo anche con parsimonia, sarei sicuro di dispiacervi.
Potrei parlare delle vostre virtù senza nominarvi, ma non sono elleno sì comuni, che confonder vi possano con molti altri, onde per poco ch'io mi diffondessi a narrarle, sareste subito riconosciuto, e malgrado la bassa opinione che avete di voi medesimo, vi riconoscereste voi stesso, e mi sapreste mal grado di avervi fatto virtuosamente arrossire.
Voglio per altro soddisfar voi e me medesimo nello stesso tempo.
Tacerò il vostro nome, ma farò in modo che qualcheduno potrà indovinarlo.
Voi conoscete i Logogrifi.
Se ne trovano in tutti i Mercurî di Francia e sono anch'essi una specie d'indovinelli.
Differiscono però dagli enigmi, poiché questi sotto il velame delle parole nascondono la cosa da indovinarsi, e il Logogrifo conduce con diversi anagrami a rilevar la parola, per la quale è formato.
Nell'ottava che leggerete a piedi di questa lettera, evvi il vostro nome ed il vostro cognome, composti da quattro parole, ogni una delle quali ha il proprio significato.
Non dico quali sieno queste parole; ma invito le persone dì spirito ad indovinarle.
Se siete per questa via conosciuto, deh soffritelo in pace, in grazia almeno di veder per la prima volta comparir in pubblico un Logogrifo italiano.
Non credo che la nostra lingua, sia meno delle altre felice per esercitarla in simili tratti di spirito, così comuni ai Francesi.
Ho veduto in Parigi nelle più serie e più erudite conversazioni prendere con avidità il Mercurio, che esce di mese in mese e correre ai Logogrifi per il piacere d'indovinarli, e farvi sopra delle quistioni e delle scommesse, ed attendere, qualche volta, il Mercurio dell'altro mese che seguita, per vederne la spiegazion dell'autore, o per compiacersi di aver dato nel vero, o per cedere, se ha mal pensato.
Voi che siete uomo di spirito, e di acuta e facile penetrazione, interpreterete forse prima d'ogni altro il Logogrifo che vi riguarda.
In tal caso scoprirete l'arbitrio che mi son preso, malgrado la vostra proibizione, ma sarete almeno contento, che la maniera con cui vi dedico la mia Commedia, m'impedisca di darvi quelle lodi che meritate.
Sono e sarò sempre con vera stima e sincero affetto
II vostro fedele Amico e Servitore
GOLDONI
LOGOGRIFO
Lettor, se il nome risaper ti cale
di quello a cui queste mie righe io scrivo,
parte ne addita una città papale,
parte il lusso comune in tempo estivo;
cocco, noce, pistacchio, o frutto eguale
altra parte ne trae dal succo attivo;
e se un'elle tu aggiugni a quel che avvanza,
il resto trovi del cognome in Franza.
L'AU.
L'AUTORE A CHI LEGGE
S'io non avessi composto che questa sola Commedia, credo che essa bastato avrebbe a proccurarmi quella riputazione che acquistata mi sono con tante altre.
Leggendola e rileggendola, mi pare di non avere in essa niente a rimproverarmi, ed oserei proporla altrui per modello, se lusingar mi potessi che le opere mie fossero degne d'imitazione.
L'esposizione è facile, la condotta è semplice, la critica è vera, l'interesse è vivo, e la morale è ragionevole, e non pedantesca.
I caratteri sono tutti presi dalla natura.
Il dialogo pure non lo può essere d'avantaggio.7 La favola è verisimile in tutte le parti, e quantunque vi appaia un doppio interesse, l'azione è una sola, poiché una sola persona, cioè Cristofolo, ne forma lo scioglimento.
Non istupire, Lettor carissimo, s'io faccio l'elogio della mia Commedia.
Io non la metto in paragone con quelle degli altri Autori, ma colle mie, e credo mi sia lecito di preferirla a molt'altre, e di collocarla nel numero delle mie dilette.
Il pubblico mi rese questa giustizia, allora quando fu sulle Scene rappresentata, e fu, in Venezia non solo, ma per tutto, con egual fortuna applaudita.
PERSONAGGI
ANZOLETTO, cittadino
CECILIA, moglie d'Anzoletto
MENEGHINA, sorella d'Anzoletto
CHECCA, cittadina maritata
ROSINA, sorella nubile di Checca
LORENZINO, cittadino, cugino di Checca
CRISTOFOLO, zio di Anzoletto
Il CONTE, forestiere servente di Cecilia
FABRIZIO, forestiere amico di Anzoletto
SGUALDO, tappezziere
PROSDOCIMO, agente
Fabbri
Falegnami
Pittori
Facchini
Servitori
La scena si rappresenta in Venezia in casa di Anzoletto e in casa di Checca, che abita al secondo piano
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera d'udienza nella casa nova.
SGUALDO Tappezziere, Pittori, Fabbri, Falegnami che lavorano intorno alla camera,
poi LUCIETTA
SGU.
Fenimo sta camera za che ghe semo.
Questa ha da esser la camera da recever; e el paron el vol che la sia all'ordene avanti sera.
Intanto, che i fenisse de far la massarìa(1), el vol sta camera destrigada(2).
Da bravo, sior Onofrio fenì de dar i chiari scuri a quei sfrisi.
Vu, mistro Prospero, mettè quei caenazzetti(3) a quela porta; e vu, mistro Lauro, insoazè(4) quella erta, e destrighèmose, se se pol.
(i lavoratori eseguiscono)
LUC.
Disème, sior tappezzier, no avè gnancora fenio de marangonar(5)? Xè debotto do mesi che sè drio a sta gran fabbrica e no la xè gnancora fenìa? Gnanca se avessi tirà suso la casa dai fondamenti! Tanto ghe vol a spegazzar i travi, a insporcar i muri, e a metter suso quattro strazzi de fornimenti? (a Sgualdo)
SGU.
Cara siora Lucietta, per cossa ve scaldeu el figà in sta maniera?
LUC.
Caro sior Sgualdo, me scaldo co la mia rason.
Ancuo(6) ha da vegnir in casa la novizza del patron; e el patron m'ha dà ordene, che netta(7) el portego(8), el tinelo(9), e un per de camere almanco.
Xè do zorni che no fazzo altro che scoar(10), che forbir(11); e costori, siei maledetti, no i fa mai altro che far polvere, e far scoazze(12).
SGU.
Ve compatisso, gh'avè rason.
Ma gnanca i me omeni no i gh'ha torto.
Averessimo fenìo, che sarave un pezzo; ma sior Anzoletto, el vostro patron, ogni zorno, el se mua(13) de opinion.
L'ascolta tutti.
Chi ghe dise una cossa, chi ghe ne dise un'altra.
Ancuo se fa, e doman besogna desfar.
Ghe giera tre camere col camin; perché uno gh'ha ditto che i camini in te le camere no i sta ben, el li ha fatti stropar(14).
Dopo xè vegnù un altro a dirghe che una camera senza un camin da scaldarse xè una minchioneria, e lu: presto, averzì sto camin; e po: no più questo, st'altro; e po: femo el tinelo arente la cusina, e po: sior no.
La cusina fa fumo, portemo el tinelo da un'altra banda.
Tramezzemo(15) el portego, perché el xè longo.
Desfemo(16) la tramezura perché la fa scuro.
Fatture sora fatture, spese sora spese: e po co ghe domando bezzi el strepita, el cria, el pesta i pi per terra, el maledise la casa, e anca chi ghe l'ha fatta tôr.
LUC.
Chi glie l'ha fatta tôr xè stada la so novizza.
La xè un boccòn de spuzzetta de vintiquattro carati(17).
No la s'ha degnà de la casa dove che stevimo, perché no ghe giera la riva(18) in casa, perché el portego giera piccolo, perché no la gh'aveva l'appartamento co le tre camere in fila; e perché ghe pareva che la fusse fornia all'antiga; la gh'ha fatto cresser sessanta ducati de fito, la gh'ha fatto buttar via un mondo de bezzi in massarìa, in fatture, in mobili da niovo, e po no la xè gnancora contenta.
SGU.
La gh'averà dà della bona dota?
LUC.
Eh, caro vu, no me fè parlar.
La gh'ha dà dei totani(19), della spuzza(20) tanta, che fa paura.
Nol gh'ha un fià(21) de giudizio el mio paron.
El s'ha incapricià mi no so de cossa.
La xè una putta civil, ma arlevada con un aria spaventosonazza; e per mantegnirla in quell'aria, ghe voria tre o quattro mile ducati d'intrada.
E sì, savè, sior Anzoletto, dopo che xè morto so pare, el ghe n'ha buttà via tanti, che el xè al giazzo(22); poveretto, el gh'ha una sorella da maridar, e adesso sto boccon de peso da mantegnir.
Credo de sì, che el sbaterà i pìe, e el maledirà, co(23) ghe domanderè bezzi.
Oe, volèu che ve la conta? Ma no disè gnente a nissun, vedè, che no vorave mai, che i disesse che conto i fatti de casa.
De là(24) dove stevimo el vien via, e l'ha da dar ancora un anno de fitto; e qua in casa nova, no l'ha gnancora pagà i siei mesi anticipai(25), e ogni zorno vien el fattor dela casa nova e dela casa vecchia, e el dà ordene, che se ghe diga che nol ghe xè, e no so dove l'anderà a fenir; e anca mi ho d'aver el salario de sette mesi.
Sì, anca da putta da ben, che la xè cussì.
SGU.
Cospetto de diana! m'avè ben dà una botta al cuor.
Gh'ho fora dei bezzi de mia scarsèla, e gh'ho sti omeni sora de mi; no vorave, che el me avesse da far sospirar.
LUC.
Caro sior Sgualdo, ve prego no disè gnente a nissun.
Savè che no fazzo pettegolezzi, ma gh'ho tanta rabbia de sta maledetta casa, che son propriamente ingossada(26) e se nome sfogo, crepo.
SGU.
Xè el mal, che sior Anzoletto spende più de quello che el pol; per altro no se pol negar, che no la sia una bella casa.
LUC.
Bela ghe disè? Sia pur benedetta quell'altra.
No vedè che malinconia? La xè una casa sepolta, no se vede passar un can.
Almanco in quell'altra se me buttava un fiaetin(27) al balcon, me consolava el cuor.
E po gh'aveva tre o quattro amighe da devertirme.
Co aveva destrigà la mia casa, andava in terrazza, o in altana, o, sul lumina.
Co le altre serve me sentiva, le saltava fora anca ele, se chiaccolava, se rideva, se contevimo le nostre passion, se sfoghevimo un pochetin.
Le me contava tutti i pettegolezzi delle so parone, e godevimo mille mondi, e fevimo un tibidoi(28) da no dir.
Qua mi no so, in ste case darente, che zente rustega che ghe staga.
Me son buttada tante volte al balcon, e nissun gnancora m'ha saludà.
E tocca a ele a saludarme.
Oe, sta mattina un'asena de una furlana(29) la m'ha vardà, e po la m'ha serà el balcon in tel muso.
SGU.
Eh, no v'indubitè.
Col tempo farè anca qua delle amicizie.
Co no ve preme altro, che massère da chiaccolar, per tutto ghe ne troverè.
LUC.
Eh quel, che gh'aveva là, xè difficile che qua lo gh'abbia.
SGU.
Disè la verità, Lucietta, ve dispiase per le serve, o per qualche bel servitor?
LUC.
Un poco per uno, un poco per l'altro.
SGU.
I omeni i ve pol vegnir a trovar.
LUC.
Sì, sì, ma mi no son de quelle che fa vegnir i omeni in casa.
Qualche volta, se pol dar, cusì de sbrisson(30), co vago a trar el vin; ma do parole, e via: no voggio che i possa dir, se me capì...
SGU.
Eh siora sì, ve capisso.
LUC.
Credème, sior Sgualdo, che no me despiase tanto per mi d'esser vegnua via de quella casa, quanto per la mia povera paronzina.
SGU.
Perché? No la xè contenta siora Meneghina? No la ghe piase gnanca a ela sta casa?
LUC.
Ve dirò, ma vardè ben, vedè, no disè gnente a nissun; e po so, che omo che sè.
De là, vedèu, la gh'aveva el moroso in fazza, e la lo vedeva da tutte le ore; e la notte la vegneva dessuso in te la mia camera, e stevimo le ore e le ore a parlar, ella col patron, e mi col servitor, e se divertivimo, e se consolevimo un pochetin.
...
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