IRCANA IN ISPAAN, di Carlo Goldoni - pagina 1
CARLO GOLDONI
IRCANA IN ISPAAN
[Prefazione]
Terza Rappresentazione ed ultima sull'Argomento
della Sposa Persiana La presente Tragicomedia
fu rappresentata per la prima volta
nell'Autunno dell'anno 1756
A SUA ECCELLENZA
LA SIGNORA
MATILDE ERIZZO
NATA MARCHESA BENTIVOGLIO
Sono parecchi anni ch'io vengo onorato dalla protezione di due Nobilissime Dame Sorelle, Zie Paterne dell'E.V: in Bologna l'Eccellentissima Signora Marchesa Eleonora Albergati, ed in Ferrara l'Eccellentissima Signora Lucrezia Rondinelli.
Ragionarono esse meco sì dolcemente dei pregi ammirabili di V.E.
e tanto nelledue suddette Città sentii con ammirazione parlarne, che m'invogliai di conoscerla, e di acquistarmi il di Lei Patrocinio.
Parvemi che la sorte favorisse i miei voti, allorché intesi essere l'Eccel.
V ostra destinata in Isposa all'Eccellentissimo Signore Marcantonio Erizzo, Patri-
zio Veneto, dicendo fra me medesimo: Viene l'Illustre Dama a felicitare la nostra Patria, e potrò forse più agevolmente accostarmi a Lei davvicino, e conseguire il bene desiderato.
Non m'ingannò la speranza.
Cercai la permissione di poter a Lei presentarmi, e con mia estrema consolazione trovai il di Lei animo benignamente in favor mio prevenuto; e assicurato ch'Ella delle opere mie compiacevasi, mi lusingai di esser io stesso dalla protezione sua decorato.
Giunto il giorno per me felice, in cui ebbi l'onore la prima volta di inchinarmi all'E.V.
conobbi da me medesimo quanto giustamente la Fama empie il mondo delle ammirabili qualità che l'adornano, poiché la pratica, che ho del mondo, e l'uso fatto per abito, e per mestiere, rade volte m'inganna.
Trovai nell'E.V.
una dolcezza e affabilità di contegno, che nell'atto medesimo attrae l'animo di chi la tratta, e gl'infonde ammirazione e rispetto.
I suoi ragionamenti senza affettazione eruditi, e le sue massime pronunziate col cuore, mostrano la chiarezza del suo intelletto e la moderata oppinione di se medesima, cose in vero pregievolissime, e non sì spesso in una persona sola accoppiate.
Due caratteri sono assai da compiangere: l'ignorante ed il prosontuoso.
Il primo desta la compassione, il secondo il dispregio.
Chi non sa, per povertà d'intelletto, trova nella natura ingrata la scusa, ma chi sa, ed invanisce, perde il merito del sapere, e la volontaria colpa lo aggrava; e siccome ingiusti sono coloro che oltraggiano gl'ignoranti, resi tali o dalla macchina sconcertata, o dalla educazione infelice, così vili e adulatori son quelli che soffrono l'alteriggia di chi dell'intelletto e delle cognizioni acquistate abusa con vanità ed orgoglio.
De' due caratteri, che ho accennati, il primo è inutile alla società; ma il secondo è incomodo e fastidioso.
Si può facilmente soffrire uno stolido; ma non si può senza sdegno tollerare un altero; e siccome l'immagine più odiosa sopra la terra è quella dell'ignorante, e superbo, non vi è la più amabile oltre quella del dotto ed umile.
Tale è l'E.V.
Ne io qui intendo confondere coll'adulazione la lode, spendendo il termine di dottrina per quello che comunemente risuona.
La scienza del costume, quella del mondo, quella di noi medesimi credo io preferibile agli studi metodici, che confondono l'intelletto, vincolandolo a duri precetti ordinati da quei che furono prima di noi, quasi che noi non potessimo per avventura pensar meglio di loro.
Beati quelli che formano il cuor da se stessi, coll'esempio de' buoni, colla scorta del buon criterio, coll'ammaestramento della sana Filosofia destata in seno dalla Natura, e perfezionata dalla Religione.
Con tali buoni princìpi si può leggere senza temer di guastarsi, in quella maniera che le industriose api succhiano da vari fiori quei succhi che più convengono ai loro stomachi delicati, e li convertono in dolce mele.
La ragione, per cui molti invaniscono del lor sapere si è perché credono di sapere molto più che non sanno; e perché giunti ad intendere qualche cosa di una scienza all'intelletto loro difficile, si persuadono di possederla, ed alzano la stima di se medesimi al di sopra della ragione.
Altrimenti ho scorto io contenersi l'E.V.
Ella non ama i studi che adulano l'intelletto, ma quei che perfezionano la volontà; quindi è, che conoscendo per pratica la vera virtù, fa di questa quell'uso che la rende quieta in se stessa, ed amabile alla società.
Quest'elogio ch'io formo a V.E., comecchè comune a tutti quelli che pensano com'Ella pensa, non sembrerà ad alcuni bastante per una Dama nata di sì illustre Sangue, e da un sì sublime nodo legata.
Ma lascio altrui la briga di fantasticare a suo senno; se ho da parlare di Lei, non crederei di farle quell'onor, ch'Ella merita, mendicando le lodi dai doni eccelsi della Fortuna.
Sa tutto il Mondo, che la Famiglia illustre de' Bentivogli, e sovrana, e privata, vantò in tutti i Secoli Gloria, Dignità, Onori, e tutti sanno egualmente, che unendo un sì gran sangue a quello degli Erizzi, la provvidenza si è meritata anche in ciò le acclamazioni e gl'incensi.
Ma quel, che forma il bene della Repubblica non basterebbe a far Lei felice, se la Virtù non prevalesse nel di Lei animo; ed io per questo seco Lei mi congratulo e le do quelle laudi che dar le posso.
La felicità ch'Ella gode, forma quella di chi ha l'onor di conoscerla e di trattarla; ed io, che di un piccolo raggio restai contento, misurar posso il bene di chi le vive dappresso, e molto più del felicissimo Sposo, che la possiede.
Iddio, dator d'ogni bene, conoscitore del vero merito e Fonte d'ogni virtù, benedica, e prosperi, e d'ogni grazia ricolmi il Pargoletto che le ha concesso, e sia di consolazione alla Madre; ed ella serva ad esso d'esempio.
Cresciuto il caro germe in età, fra le grandezze della Famiglia, e fra gli onori che gli prepara la Patria, se mai gli giungono per avventura i miei volumi dinanzi agli occhi, deh! non isdegni mirarvi impresso il nome grande della sua venerabile Genitrice.
Ammiri per una parte l'animo suo benefico e generoso, onde ha Ella fregiato chi di esserle servidore si vanta, e impari da così egregia Maestra che l'onesta Commedia non è spregievole e indegna.
Sì, nobilissima Dama, la scienza del buon costume, che voi amate, spicca nelle morigerate Commedie; e da ciò nacque il diletto che in tali opere voi prendete, conoscendo da voi medesima che se io non giunsi alla meta, non cessai almeno di battere questa strada.
Il vostro genio felice può incoraggirmi a tentar più oltre i progressi, e già sento validamente animarmi, dacché vi degnate l'offerta di quest'Opera mia benignamente accettare, e l'onore mi concedete di potermi umilmente ed ossequiosamente soscrivere
Di V.E.
Umiliss.
Devotiss.
Obbligatiss.
Servidore
L'AUTORE A CHI LEGGE
Eccoti finalmente, Lettor carissimo, quella Commedia comunemente chiamata la Terza Ircana, in grazia delle altre due che precedono.
Sono ormai tre anni, che si è sospeso il corso delle mie stampe, ed ora sono ammassati più Tomi che, a Dio piacendo, usciranno metodicamente un dopo l'altro alla luce.
Gran parte vi ebbe in questa remora la malattia lunghissima ed indi la morte dell'onorato Editore Francesco Pitteri, che Dio Signore nella sua eterna Beatitudine pietosamente comprenda.
Merita il di lui bellissimo cuore, e la illibatezza de' suoi costumi, che rimanga di lui onorevole memoria al mondo, per consolazione de' suoi Amici, e per esempio de' buoni.
Egli ha sudato mai sempre per il decoroso stato di sua Famiglia, unica sollecitudine delle sue cure e delle sue incessanti fatiche.
Non lasciò non pertanto d'interessarsi con vero amore per gli Amici suoi, ed io fra gli altri prove ho avuto costanti e vere della sua perfetta Amicizia, onestà e politezza.
Abilissimo egli era nell'arte Libraia, e quantunque a fondo non instruito nell'arti e nelle scienze, sapea distinguere il buono, e conosceva dei libri qualcosa più del frontispizio e dei prezzi.
Le protezioni, le aderenze, le amicizie ch'egli ha goduto in vita, onorano la sua memoria, e quanto fu egli amato e stimato vivendo, altrettanto fu compianta universalmente la di lui morte.
Vive tuttavia il di lui nome non solo nel cuore e nella bocca de' suoi benevoli, ma nel negozio medesimo ch'ei dirigeva, continuandosi la Ditta, o sia Ragione medesima; e continueranno con questa anche le opere mie ad uscire dai Torchi.
Nulla dirò, Lettore carissimo, di questa Commedia che or ti presento.
Ho detto di lei bastantemente nel produr la seconda.
La fortuna ch'ella ebbe sopra le Scene, mi dà coraggio a sperarla gradita ancor nelle Stampe.
Pregoti solamente volere un'altra volta considerare quanto sia malagevole impegno sullo stesso Argomento, e cogli stessi caratteri principali, condur tre azioni diverse; e prega il Signore per me, che m'avvalori la fantasia ormai stanca, ma pregalo di cuore, e non ridere, che or non è tempo.
Personaggi
MACHMUT;
TAMAS;
IRCANA;
FATIMA;
OSMANO;
ALÌ;
IBRAIMA;
ZAMA;
LISCA;
BULGANZAR;
SCACH BEY;
VAJASSA;
Un SOLDATO, che parla;
Soldati di Osmano, che non parlano;
Schiave di Machmut, che non parlano.
ATTO I
SCENA I: Stanze in casa di Machmut
MACHMUT e servi
MACHMUT:
Servi, udite la legge che Machmut v'impone,
Mosso al fiero comando da sdegno e da ragione.
Se intorno a questo tetto Tamas errar si vede,
Di por più non ardisca fra le mie soglie il piede.
L'empio veder non voglio, fin ch'io respiro e vivo;
Del mio amor, del mio nome, d'ogni mio ben lo privo;
In odio al ciel sdegnato, in odio al genitore
Perfido figlio, ingrato, del genitore a scorno
Vada a soffrir la pena di un pertinace amore.
(partono i servi)
Abbandonar crudele la sposa il primo giorno?
Per riparare ai danni di un'infelice oppressa,
Al generoso Alì ho la sua man concessa;
D'amore o d'amicizia fu provvido il consiglio,
Ma l'odio in me non puote scemar contro del figlio:
Figlio, che fu sinora mia pace e mio diletto,
E in avvenire è forza ch'io l'odii a mio dispetto;
Che se mi piacque in lui della virtude il dono,
Or che virtù calpesta, il suo nemico io sono.
SCENA II: FATIMA ed il suddetto
FATIMA:
Signore, un de' tuoi servi da Julfa or or venuto
Tamas per via, mi disse, aver testé veduto.
Ircana al fianco ha seco; verrà al paterno tetto
Insulti dall'ingrata soffrire ancor mi aspetto.
Tarda Alì il suo ritorno, di lui sono ancor priva:
Vuole il destino avverso ch'io tremi infin ch'io viva.
Fammi passar, ti priego, pria che s'innoltri il giorno,
D'Alì, benché lontano, all'amico soggiorno.
Alla sua sposa alfine tal libertà è concessa;
Non aspettar vedermi novellamente oppressa.
Deh tu, signor, che tanto per me soffristi, e tanto,
Fatima non esporre d'una nemica accanto!
Per me, sai che vendetta, ch'ira nutrir non soglio;
Ma non so ben d'Ircana quando avrà fin l'orgoglio.
MACHMUT:
Fatima, non temere di quel furore insano;
Tamas al patrio tetto spera condurla invano.
Ei non è più mio figlio; nuora soffrir non degno,
Cagion del mio dispetto, principio del mio sdegno.
Vadan raminghi in Persia, vadano erranti al mondo;
Provin fra le sventure dei lor deliri il pondo;
Privarli d'ogni speme giustizia mi consiglia.
Alì viverà meco; Fatima è la mia figlia.
FATIMA:
Signore, a me un tal dono so che goder non lice;
Sarei, se l'accettassi, più misera e infelice.
Potrei rimproverarmi, privando altrui d'un bene,
Di meritar gl'insulti, di meritar mie pene.
Finor soffersi in pace destin meco inclemente,
Godendo fra me stessa di un'anima innocente,
E crederei, cangiando il mio costume antico
Giustificar le colpe d'un barbaro nemico.
MACHMUT:
Quei che la mia pietade offre a' tuoi merti in dono,
Son di giustizia effetti, stimoli tuoi non sono.
FATIMA:
Chiamali del tuo sdegno, a vendicarsi intento,
Oggetti perigliosi, soggetti al pentimento.
Ora tu miri il figlio colle sue colpe intorno;
Gli accorderà il perdono tenero padre un giorno:
Ché lungamente, il sai, sdegno, furor non dura
Ad onta delle voci di provvida natura.
Né ti pensar, signore, ch'io condannar pretenda
Che il tuo paterno amore al sangue tuo si renda;
Anzi, se forza teco avesse un mio consiglio,.
Vorrei spingerti io stessa ad abbracciare un figlio
Che alfin, chi reo lo fece in faccia al genitore,
Fu il seduttor Cupido, dell'alme ingannatore.
...
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