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CLAR. Il vostro spirito fa vergogna ad un giovane di venti anni.
PANT. E de spirito, e de carne, son quel che giera de vinti anni.
CLAR. Si vede. Sarete stato il più bel giovane di questo mondo.
PANT. No digo per dir, ma co sto muso ghe n'ho fatto delle belle.
CLAR. E siete in grado di farne ancora.
PANT. Perché no? Un soldà veterano no recusa battaggia.
CLAR. Oh che caro signor Pantalone!
PANT. Qualche volta son caro, e qualche volta son a bon marcà .
CLAR. Io non ho capitali per comprare la vostra grazia.
PANT. Podemo contrattar.
CLAR. (Sta a vedere che il vecchietto ci casca). (da sé)
PANT. No se pol dir, de sto pan no ghe ne voggio magnar.
CLAR. In verità mi pare impossibile che non siate stato mai innamorato.
PANT. Perché mo ghe par impussibile?
CLAR. Perché avete un certo non so che di simpatico, di dolce, di manieroso, che mi fa credere diversamente.
PANT. Pol esser che sia, perché fin adesso no averò trovà gnente che me daga in tel genio.
CLAR. Siete ancora in tempo di ritrovarlo.
PANT. Fina alla morte no se sa la sorte.
CLAR. Che mai vi vorrebbe per contentare il genio del signor Pantalone?
PANT. Poche cosse, fia mia.
CLAR. Se foss'io la fortunata che le possedessi...
PANT. Ve degneressi de mi?
CLAR. Così voi foste di me contento.
PANT. A poco alla volta se giusteremo.
CLAR. (Il merlotto vien nella rete). (da sé)
PANT. (No ghe credo una maledetta). (da sé)
CLAR. Ah signor Pantalone! (sospirando)
PANT. Ah signora Clarice! (sospirando)
CLAR. Che vuol dire questo sospiro?
PANT. Lasso che la lo interpreta ella.
CLAR. Quasi, quasi... mi lusingherei.
PANT. Ma! chi va al molin, s'infarina.
CLAR. Ma con una spazzatina si netta.
PANT. Co la penetra, no se se spolvera.
CLAR. Vien gente. Ci rivedremo, signor Pantalone.
PANT. Se vederemo, e se parleremo.
CLAR. (La biscia beccherà il ciarlatano). (da sé, e parte)
PANT. (So el fatto mio. No ti me la ficchi). (da sé, e parte)
SCENA UNDICESIMA
FLAMINIA ed ARGENTINA.
FLA. Peggior nuova non mi poteva dare di questa.
ARG. Il signor Florindo, di lei fratello, è uomo molto risoluto. Ieri non si sognava di partire di Venezia; ed ora tutto ad un tratto ordina che si facciano li bauli.
FLA. E di più, non mi vuol dir nemmeno il motivo.
ARG. Partirà , m'immagino, anche il signor Ottavio.
FLA. Non so; è qualche giorno che io non lo vedo.
ARG. Può essere... sarà così senz'altro. Vorranno far le nozze a Livorno per dar piacere ai parenti.
FLA. Io non ho congiunti che mi premano. Sto volentieri a Venezia, e se stesse a me, Livorno non mi rivedrebbe mai più.
ARG. Le piace dunque stare a Venezia?
FLA. Cara Argentina, lo sai ch'io sono figlia d'un veneziano. Mio fratello ogni anno mi fa fare un viaggetto con lui. Ho veduta in tre anni quasi tutta l'Italia, e non ho trovato un paese che più di questo mi piaccia.
ARG. Anch'io ho servito in qualche città , e quando ho gustato la libertà di Venezia, ho proposto di non partirvi mai più. Servo un padrone, che per la sua ipocondria è fastidioso un poco, ma soffro volentieri più tosto che cambiar paese.
FLA. In fatti per ogni genere di persone trovo essere Venezia una città assai comoda. Qui ciascheduno può vivere a misura del proprio stato, senza impegno di eccedere e di rovinarsi per comparire cogli altri. I passatempi sono comuni a tutti, e può goderne tanto il povero, quanto il ricco. La maschera poi è il più bel comodo di questo mondo.
SCENA DODICESIMA
FLORINDO e dette.
FLOR. Signora sorella, dubito che non vi abbiano fatta la mia ambasciata.
FLA. Se intendete parlare della partenza da voi intimatami, me l'hanno detto.
FLOR. Da qui a domani c'è poco. Se non date principio ad unire le vostre robe, voi mi farete arrabbiare al solito.
ARG. Per far arrabbiare il signor Florindo, non ci vuol molto.
FLA. Posso sapere almeno il motivo di questa vostra risoluzione?
FLOR. Ve lo dirò.
FLA. Quando me lo direte?
FLOR. Argentina, per ora non abbiamo bisogno di voi; potete andare.
ARG. Signore, se ha paura ch'io parli, mi fa torto.
FLOR. Non vi è niente che a voi appartenga. Potete andarvene.
ARG. Se la signora ha bisogno...
FLOR. Non ha bisogno di nulla.
ARG. (Sia maledetto! Muoio di curiosità ). (da sé)
FLOR. Flaminia, andiamo in un altra camera.
ARG. Vado, vado. La non si scaldi. Quando non vuol che si senta, vi sarà qualche cosa di contrabbando.
FLOR. Voi siete un'impertinente.
ARG. Vada, vada a Livorno!
FLOR. Che vorreste voi dire?
ARG. Vada, vada, signore, prima di essere mandato. (parte)
FLOR. Un'altra ragione per andarmene sarebbe l'impertinenza di colei.
FLA. Questa sarebbe una ragione per andarsene da questa casa, non per abbandonare questa città .
FLOR. Il motivo, per cui partire intendo, è molto più interessante.
FLA. Son curiosa d'intenderlo.
FLOR. Ottavio non è per voi.
FLA. Ottavio non è veneziano.
FLOR. Le liti ch'egli ha, l'obbligheranno a trattenersi qui molto tempo. Egli è un giuocatore violento, che si rovina del tutto. È un uomo ardito, che non rispetta nessuno. È un ingrato, che mi cimenta, e sarebbe per voi un consorte, che vi renderebbe infelice.
FLA. E per questo volete voi risolutamente partire?
FLOR. Sì, per troncare con esso lui l'amicizia ed il trattato delle vostre nozze.
FLA. Tutto ciò si può fare per altra strada, senza lasciar Venezia.
FLOR. La vostra resistenza mi sollecita ancora più. Voi amate Ottavio e il vostro amore potrebbe...
FLA. No, fratello ascoltatemi. Se ho aderito alle nozze di Ottavio, non l'ho fatto che per compiacer voi medesimo. Eravate in Livorno due buoni amici. Mi fu proposto da voi; ed io che vi amo, e che vi tengo in luogo di padre, mi sono fatta una legge del piacer vostro. Se ora Ottavio non è più vostro amico, se di me non lo credete voi degno, sta in vostra mano lacerare il contratto, escluderlo dalla nostra conversazione, assicurandovi ch'io lo scancellerò dalla mia memoria.
FLOR. Flaminia, compatitemi, se questa sì umile rassegnazione mi pone in qualche sospetto.
FLA. Che potete voi di me sospettare?
FLOR. Che amando violentemente Ottavio, vogliate ottenere dalla indifferenza palliata quello che dubitate di perdere col manifestare l'affetto vostro.
FLA. Florindo, voi fate torto alla mia sincerità . Non avete motivo di dubitare di me. Sono sei anni, che avvezzo siete a disporre dell'arbitrio mio.
FLOR. Qual altro rincrescimento potete voi avere di qui partendo, oltre quello di abbandonare un amante?
FLA. Credetemi, fratello mio, che più di lui mi dispiacerebbe lasciar Venezia.
FLOR. Scusa ridicola, sorella mia.
FLA. Se non vi dico il vero, possa morire.
FLOR. Potrebbe darsi un altro accidente.
FLA. E quale?
FLOR. Che foste invaghita di qualche bel veneziano.
FLA. Possibile che di noi donne abbiano sempre gli uomini da pensare sinistramente? Non siamo noi d'altro amore capaci, che di quello alle più volgari comune? D'ogni nostra parola s'ha da dubitare? Ogni nostra passione sarà sospetta? Di tutto, rispetto a noi, s'ha da formare un mistero? Anche la virtù in una donna si vuol far passar per difetto? Fratello mio, se la rassegnazione e il rispetto non vagliono a meritarmi la vostra fede, comandatemi, ed attendete che in avvenire io vi obbedisca con pena, col desiderio di scuotere un giogo, che ormai diviene indiscreto. (parte)
FLOR. Flaminia. Ella parte adirata. Spiacemi disgustarla, perché non lo merita. Parmi strano ch'ella ami tanto il soggiorno d'una città , non avendo penato mai ad abbandonarne alcun'altra. Venezia per ragione del padre può dirsi nostra patria, egli è vero, ma non credea che una donna giungesse tanto ad amarla. Capisco che mia sorella è assai ragionevole, ed io le fo torto a dubitare della sua virtù. Penserò a qualche altra risoluzione, e se Ottavio ardirà pretendere... Ottavio potrebbe anche cambiar costume. Il tempo mi darà regola, e nelle mie risoluzioni non lascierò di consigliare una donna, che supera tante altre nella virtù. (parte)
SCENA TREDICESIMA
Strada.
BRIGHELLA, poi MARTINO
BRIGH. Mi no so dove diavolo dar la testa per impegnar sto anello. I vol troppo de usura. I vol magnar tutto lori; e mi vorria che ghe fusse qualcossa da magnar anca per mi.
MART. Sior Pantalon voggio che el me la paga. Per causa soa perderò quaranta ducatelli d'arzento?
BRIGH. (Anca questo qualche volta el se diletta de tor roba in pegno). (da sé)
MART. Se no giera quel sior bravazzo della favetta, sangue de diana, m'averave fatto pagar. El foresto no andava via del casin senza darme o bezzi, o pegno.
BRIGH. (Sì ben. Vôi provarme anca con lu). (da sé)
MART. Ma i troverò tutti do. No voggio che i me la fazza portar.
BRIGH. Sior Martin, ghe son servitor.
MART. Bondì sioria. Cossa xe del vostro patron?
BRIGH. Sarà do ore che no lo vedo.
MART. Quando valo a Livorno el vostro patron?
BRIGH. Finché dura la lite, bisogna che el staga qua.
MART. Come falo de bezzi? Ghe ne vien dal so paese?
BRIGH. Ghe ne vien, ma el zoga, el li perde, e spesse volte nol ghe n'ha un.
MART. Ghe ne aspettelo presto?
BRIGH. No so dirghe, ma so ben che el ghe n'ha bisogno. Anzi, per dirghela in confidenza, el vorria impegnar un anello per cinquanta zecchini.
MART. Un anello per cinquanta zecchini? Bisogna che el sia bello.
BRIGH. L'è de una piera sola. El val più de dusento.
MART. Chi lo gh'ha sto anello?
BRIGH. Lo gh'ho mi. De mi el se fida. El m'ha confidà el so bisogno, e vado cercando per impegnarlo.
MART. Se porlo véder sto anello?
BRIGH. Perché no? Anzi, sior Martin, se volessi, me poderessi far vu sto servizio.
MART. Lassè che lo veda, e po parleremo.
BRIGH. Se sa, che non avè da perder i vostri utili.
MART. Lassè che lo veda.
BRIGH. Alle cosse oneste ghe stago.
MART. Mo via, lassèmelo véder.
BRIGH. Eccolo qua, ve par che el vala sti bezzi?
MART. Sì ben, el xe un brillante de fondo.
BRIGH. Donca me li dareu sti cinquanta zecchini?
MART. Mi, compare, no ve darò gnente.
BRIGH. Donca...
MART. Donca diseghe al vostro patron, che col me darà i mi quaranta ducati d'arzento, ghe darò el so anello. (lo mette via)
BRIGH. Come! l'anello ve l'ho fidà mi in te le man.
MART. No xelo del vostro patron?
BRIGH. El xe del mio patron; ma per questo...
MART. Se el lo vol, che el me manda quaranta ducati.
BRIGH. Questa no xe la maniera de trattar.
MART. Amigo, no femo chiaccole.
BRIGH. Voleu che ve la diga, sior Martin?
MART. Cossa me vorressi dir?
BRIGH. La xe una baronada.
MART. Bisognerave che ve respondesse.
BRIGH. Respondème, se ve basta l'anemo.
MART. Ve respondo cussì. (gli dà uno schiaffo)
BRIGH. Corpo del diavolo! a mi un schiaffo?
MART. Quella xe la mostra; se tirerè de longo, metterò man al baril.
BRIGH. Le man le gh'ho anca mi.
MART. Se averè ardir gnanca de parlar, quel muso ve lo taggierò in quattro tocchi.
BRIGH. Averè da far col patron.
MART. No gh'ho paura né de lu, né de vu, né de diese della vostra sorte.
BRIGH. Prepotenze, baronade, insolenze.
MART. Via, sier buffon. (mette mano allo stile)
SCENA QUATTORDICESIMA
PANTALONE e detti.
PANT. Com'ela, sier buletto dal stilo? Seu nato per far paura? Doveressi andar in ti campi a spaventar le passere.
MART. Ve porto respetto, perché sè vecchio.
BRIGH. El mio anello, la mia roba. No se tratta cussì.
PANT. Com'ela, compare Martin?
MART. Ve torno a dir, che col vostro patron me manderà i mi quaranta ducati, ghe darò el so anello.
PANT. Un anello de sior Ottavio?
BRIGH. Sior sì, el me l'ha cavà dalle man.
PANT. E vu gh'averè tanto ardir de tegnir un anello in pegno, quando un omo della mia sorte v'ha dito che sarè pagà ?
MART. Mi no so gnente. Co gh'averò i mi bezzi, darò l'anello.
PANT. Sior Ottavio xe un galantomo.
MART. I mi quaranta ducati.
PANT. Mi son un omo d'onor.
MART. Quaranta ducati.
PANT. Vintiquattro ore no xe passae.
MART. In vintiquattro ore se va a Ferrara.
PANT. Quel signor no xe capace de una mala azion.
MART. I mi quaranta ducati.
PANT. I vostri quaranta ducati i xe qua parecchiai. (tira fuori una borsa)
BRIGH. Fora l'anello, patron. (a Martino)
MART. Contème i mi quaranta ducati.
PANT. Tegnì saldo. Quaranta ducati d'arzento i fa tresento e vinti lire de sta moneda. Quattordese zecchi...
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