IL PADRE DI FAMIGLIA, di Carlo Goldoni - pagina 1
IL PADRE DI FAMIGLIA.
di Carlo Goldoni
Commedia rappresentata per la prima volta in Venezia il Carnevale dell'anno 1750.
ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNOR
FRANCESCO HIARCA
SEGRETARIO DELL'ECCELLENTISSIMO SENATO
E PER LA SERENISSIMA REPUBBLICA DI VENEZIA RESIDENTE IN MILANO
Grazie non cesserò mai di rendere, Illustrissimo Signor Francesco, al carissimo amico vostro il Signor Girolamo Maria Piccini, poiché per il cortese affabile di lui mezzo mi fu data occasione di conoscere ed ammirare l'infinita gentilezza vostra, e godere di essa li graziosissimi effetti.
Preso a prima giunta restai dalle soavi maniere vostre, tosto che con tal mezzo potei in Venezia della vostra amabile conversazione partecipare; ma indi a poco in Milano, ove per la Repubblica Serenissima di Venezia a sostenere passaste l'illustre grado di Residente, ebbi agio di penetrar più addentro alla grandezza dell'animo vostro, fornito di tante belle virtù, le quali in pochi giorni vi resero e noto e amato e venerato in quella magnifica Città, in cui si distingue, si conosce e si apprezza il merito.
Un ottimo Ministro, che grato si renda alla nazione appresso di cui in nome del proprio Principe gravissime cose a trattare egli abbia, tanto più può rendere profittevole il di lui servigio, quanto più dell'amore e della stima degli uomini può compromettersi.
Quindi è che nell'atto medesimo in cui vi cattivate l'animo de' Milanesi, scopritori ed ammiratori delle vere virtù vostre, benemerito vi rendete appresso l'Augusto vostro Senato, che sempremai con ugual fede e zelo servito avete per il lungo corso di diciotto anni continui in Roma, per alcuni altri in Napoli, e in tutti gli altri frapposti giorni della vostra vita, nei gravosissimi laboriosi impieghi della Dominante medesima: ne' quali fatta avete autentica prova di quella premurosa fèdeltà per la Patria, che ereditata avete insieme colla chiarezza del sangue degli Illustri Progenitori, dappoiché sino dal secolo decimoquarto si sono questi per le guerre civili d'Italia trapiantati sotto il Veneto felicissimo Cielo, ove non cessarono mai di produrre uomini per dottrina e probità rispettabilissimi, onde la pubblica riconoscenza in un Fratello dell'Avolo vostro paterno ha rimunerati gl'infiniti meriti loro, ammettendolo alla Ducale Cancelleria, che vale a dire in quell'ordine prestantissimo in cui voi medesimo nato siete e con tanti meriti risplendete.
Dagli Uberti antichissimi di Firenze la vostra Famiglia illustre discende; e fu il terzavolo vostro paterno il quale, eccellente essendo nella Filosofia e Medicina, e nell'Astrologia parimente, fu detto con un grecismo Sophiarca, che eccellenza di sapere significa.
Si compiacque egli di ciò moltissimo, lo adottò per cognome, e quello degli Uberti a poco a poco si andò smarrendo, e finalmente accorciandosi la parola, come d'infinite altre s'hanno le tradizioni e gli esempi, Hiarca si chiamarono i maggiori vostri, non però rinunziato avendo agli onori dell'antico ceppo degli Uberti, se per un cotale accidente al nome sol rinunziarono.
Io nel pubblicare col mezzo della stampa le mie Commedie, due cose principalmente prefisse mi sono: l'urna, di decorare la mia Raccolta co' rispettabili nomi de' magnanimi miei Protettori e Padroni; l'altra di altrui dimostrare la gratitudine mia per li benefizi dalla protezion loro ricevuti.
Per ambedue ragioni a voi, Illustrissimo Signor Francesco, questa, cioè l'ottava delle mie Commedie consacro; poiché onor massimo le recherà certamente portare in fronte il vostro illustre nome; e tanti sono gli obblighi miei verso la vostra generosità, che del dono che vi presento ho ragione di arrossire.
Ma poiché gentile siete cotanto, e delle grazie vostre liberalissimo, impartitemi ancora questa, cioè d'accogliere e aggradire la tenue piccolissima offerta che or vi presento, e mi darete per questa via una nuova testimonianza della vostra bontà, ed io nuova obbligazione mi vedrò accrescere inverso di voi, per la quale, siccome per tante altre, con piena venerazione mi protesto di essere
Di V.
S.
Illustrissima
Torino, li 15 Maggio 1751.
Umiliss.
Devotiss.
ed Obbligatiss.
Servitore
CARLO GOLDONI
L'AUTORE A CHI LEGGE
Questa Commedia, più morale assai che ridicola, ha avuto più partigiani ch'io non credeva.
Prova evidente del cangiamento notabile del Teatro Italiano, in cui cominciava a prevalere il buon costume alla scorrezione ordinaria.
Io me ne rallegrai infinitamente coi miei carissimi compatrioti.
Non mancai dal canto mio di contribuire al loro buon genio, e mi lusingai sempre che altri più valenti di me volessero fare lo stesso.
Quantunque sieno due famiglie che agiscono in questa comica Rappresentazione, quella cioè di Pancrazio e quella di Geronio, l'azione principale si rapporta al primo, ed è quegli a cui ho appropriato il titolo della Commedia.
Egli lo merita per la sua condotta, per la sua giustizia e per la sua prudenza; e può servire d'esempio nelle circostanze più difficili delle famiglie.
Egli ha una moglie, il cui carattere è di mala tempra, ma che pur troppo ha degli esempi viventi.
Ella predilige un secondogenito al primo, e non ha rimorso a tutto sagrificare alla sua passione.
Voglia il Cielo che qualche madre che ne ha di bisogno, si specchi nel suo ritratto, ed arrossisca e si corregga.
Ottavio non è carattere certamente ideale.
È uno di que' cattivi Precettori, pericolosi, che accoppiano la villania all'impostura e che rovinano la Gioventù.
Io ne ho conosciuto il prototipo, e l'ho mascherato per onestà.
Come pure mi sembra non essermi scostato dal vero, facendo rilevare nelle due figliuole di Geronio, che sia preferibile una buona educazione domestica a quella di una Casa di Pensionario; e Rosaura farà arrossire qualche modestina affettata, come Eleonora potrà consolare le figliuole di buon carattere.
Trasportando ora questa Commedia nella nuova edizione, le ho fatto moltissimi cambiamenti, forse più che in ogni altra.
Mi parve, rileggendola, avervi riconosciuto alcune cose non necessarie che la guastavano per abbondanza, e parmi ora di averla ridotta a migliore semplicità.
Fra le cose che vi ho levato, evvi il personaggio dell'Arlecchino, affatto inutile alla Commedia; lo aveva introdotto per compiacenza, per uno di que' sagrifizi a' quali sono talvolta gli Autori costretti; ma ora scrivo più per la stampa che per il Teatro, e non vi è alcuno che m'imponga la legge.
Questa Commedia e quella del Vero Amico sono state tradotte e stampate a Parigi che sono parecchi anni.
Ha dato motivo a ciò il Vero amico, per la ragione che io dirò nella prefazione seguente.
PERSONAGGI
PANCRAZIO mercante;
BEATRICE sua seconda moglie;
LELIO figlio di Pancrazio, del primo letto;
FLORINDO figlio di Pancrazio e di Beatrice;
GERONIO dottore;
ROSAURA figlia di Geronio;
ELEONORA figlia di Geronio;
OTTAVIO maestro de' figliuoli di Pancrazio;
FIAMMETTA serva di Pancrazio;
TRASTULLO servo di Pancrazio;
TIBURZIO mercante.
La Scena si rappresenta in Venezia.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Camera in casa di Pancrazio con due tavolini, con sopra libri, carta e calamaio.
LELIO ad un tavolino, che studia.
FLORINDO all'altro tavolino, che scrive.
OTTAVIO, che assiste all'uno ed all'altro.
OTT.
Testa dura, durissima come un marmo.
(a Lelio)
LEL.
Avete ragione, signor maestro; sono un poco duro di cervello; ma poi sapete che, quando ho inteso, non fo disonore al maestro.
OTT.
Bell'onore che mi fate! Ignorantaccio! Guardate un poco vostro fratello.
Egli è molto più giovane di voi, e impara più facilmente.
LEL.
Beato lui che ha questa bella felicità.
Non ho però veduto gran miracoli del suo bel talento.
Si spaccia per bravo e per virtuoso, ma credo ne sappia molto meno di me.
OTT.
Arrogante! Impertinente!
LEL.
(Il signor maestro vuol andar via colla testa rotta).
(da sé)
OTT.
Orsù, vado a riveder la lezione a Florindo, che m'immagino sarà esattissima; voi intanto applicate, e risolvete bene il quesito mercantile che v'ho proposto.
Fate che il signor Pancrazio sia contento di voi.
LEL.
Ma questo è un quesito che richiede tempo e pratica; e senza la vostra assistenza non so se mi riuscirà dilucidarlo.
OTT.
Le regole ve l'ho insegnate; affaticatevi, studiate.
LEL.
Che indiscretezza! Che manieraccia rozza e incivile! Ho tanta antipatia con questo maestro, che è impossibile ch'io possa apprendere sotto di lui cosa alcuna.
Basta, mi proverò.
Sto zitto per non inquietar mio padre, e per non far credere ch'io sia quel discolo e disattento che mi vogliono far comparire.
OTT.
(S'accosta al tavolino di Florindo e siede vicino a lui) Florindo mio, state bene? Avete voi bisogno di nulla?
FLOR.
In grazia, lasciatemi stare.
OTT.
Se avete bisogno d'assistenza, son qui tutto amore per voi.
La vostra signora madre m'ha raccomandato voi specialmente.
FLOR.
So benissimo ch'ella v'ha detto che non mi facciate affaticar troppo, che non mi gridiate e che non mi disgustiate.
OTT.
E chi ve l'ha detto, figliuol mio?
FLOR.
Il servitor di casa, che l'ha intesa.
OTT.
(Poca prudenza delle madri far sentire queste cose alla servitù).
(da sé) E bene, che fate voi?
FLOR.
Caro signor maestro, vi torno a dire che per adesso mi lasciate stare.
OTT.
Ma si può sapere che cosa state scrivendo?
FLOR.
Signor no.
Io fo una cosa che voi non l'avete da vedere.
OTT.
Di me vi potete fidare.
FLOR.
No no, se lo saprete, lo direte a mio padre.
OTT.
Non farò mai questa cattiva azione.
FLOR.
Se mi potessi fidare, vorrei anco pregarvi della vostra assistenza.
OTT.
Sì, caro Florindo mio, sì, fidatevi di me, e non temete.
FLOR.
Per dirvela, stava scrivendo una lettera amorosa.
OTT.
Una lettera amorosa? Ah gioventù, gioventù! Basta, è a fin di bene o a fin di male?
FLOR.
Oh! a fin di bene.
OTT.
Via, quand'è così, si può concedere: vediamola.
(la prende)
FLOR.
Vorrei che dove sta male, la correggeste.
OTT.
Sì, figliuolo mio, la correggerò.
(legge piano) Oh! il principio non va male.
LEL.
Signor maestro, ho incontrato una difficoltà, che senza il vostro aiuto non la so risolvere.
OTT.
Ora non vi posso badare.
Sto rivedendo la lezione di Florindo.
LEL.
Convertire le lire di banco di Venezia in scudi di banco di Genova con l'aggio e sopr'aggio, a ragguaglio delle due piazze, non è cosa ch'io sappia fare.
OTT.
Questo sentimento potrebbe essere un poco più tenero.
Qui dove dice: siete da me amata, vi potreste aggiungere: con tutto il cuore.
FLOR.
Bravo, bravo, date qui.
LEL.
Signor maestro, voi non mi badate?
OTT.
Bado a vostro fratello.
Vedete: appena gli suggerisco una cosa, ei la fa subito.
Ha la più bella mente del mondo.
LEL.
Ed io sudo come una bestia.
Voler che impari, senza insegnarmi? Questa è una scuola di casa del diavolo.
FLOR.
E il resto della lettera vi par che vada bene?
OTT.
Sì, va benissimo; ma aggiungetevi nella sottoscrizione: fedelissimo sino alla morte.
FLOR.
Sì sì, bene, bene: sino alla morte.
SCENA SECONDA
BEATRICE e detti.
BEAT.
Via, via, basta così, non ti affaticar tanto, caro il mio Florindo: ti ammalerai, se starai tanto applicato.
Signor maestro, ve l'ho detto, non voglio che s'ammazzi: il troppo studio fa impazzire.
Levati, levati da quel tavolino.
FLOR.
Eccomi, signora madre, ho finito.
(dopo aver nascosta la lettera)
OTT.
Ha fatta la più bella lezione che si possa sentire.
FLOR.
Ed il signor maestro me l'ha corretta da par suo.
BEAT.
Caro amor mio, sei stracco? Ti sei affaticato? Vuoi niente? Vuoi caffè? Vuoi rosolio?
LEL.
Tutto a lui, e a me niente.
Sono tre ore che mi vo dicervellando con questo maladetto conto, e nessuno ha compassione di me.
BEAT.
Oh disgrazia, poverino! È grande e grosso come un somaro, e vorrebbe si facessero anche a lui le carezze.
LEL.
Eh! lo so che le matrigne non fanno le carezze a' figliastri.
BEAT.
Io non fo differenza da voi, che mi siete figliastro, a Florindo, che è mio figlio.
Amo tutti e due egualmente; sono per tutti e due la stessa.
Caro Florindo, vien qua; lascia ch'io senta se sei sudato.
LEL.
Eh! signora, ci conosciamo.
Basta, avete ragione.
Prego il cielo che mio padre viva fino a cent'anni, ma se morisse, vorrei pagarvi della stessa moneta.
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