Luigi Pirandello
Giustino Roncella nato Boggiòlo
CAPITOLO PRIMO
IL BANCHETTO
Da quindici giorni Attilio Raceni, direttore della rassegna femminile Le Grazie, scontava con infinite noje, arrabbiature e dispiaceri d'ogni genere una sua gentile idea: quella di salutare con un banchetto la giovane e già illustre scrittrice Silvia Roncella, venuta da poco tempo col marito a stabilirsi da Taranto a Roma.
Partendo l'invito da una rassegna come la sua, la quale, piú che a una qualche reputazione letteraria, aspirava a esser considerata òrgano della mondanità intellettuale romana, e mirando quell'invito nella sua intenzione, non tanto a rendere onore alla scrittrice quanto a mostrar viva la rassegna con un atto di pura cortesia fuori d'ogni competizione letteraria, non s'aspettava da parte dei letterati colleghi della Roncella, dei critici piú autorevoli della letteratura contemporanea nei grandi giornali quotidiani e, in genere, degli amici giornalisti, tanti tentennamenti e "ma" e "se" e "forse", ombrosità , riserve, anche recisi e sgarbati rifiuti, che gli avevano rappresentato la letteratura militante in Italia come una meschina pettegola farmacia di villaggio; e piú d'una volta aveva sospirato per l'amara considerazione che un'idea come la sua ben altre accoglienze avrebbe avute certamente a Parigi, dove in parte il comune orgoglio nazionale (sia benedetto!) in parte quella piú diffusa e sentita cognizione delle cose ordinarie del viver civile, che affievolisce risentimenti e gelosie pur non impedendo la stima particolare che ciascuno in segreto può fare dell'altro, consigliano di non negare onore a chi per giudizio ormai universale se lo sia comunque meritato; come a lui pareva che fosse il caso della Roncella, dopo il grande successo del romanzo La casa dei nani.
Lo confortava la fervida adesione del senatore Romualdo Borghi che era stato del resto il vero padrino della fama di Silvia Roncella. Nell'antica autorevolissima rassegna La vita italiana il Borghi aveva accolto infatti le prime novelle, i primi racconti della giovanissima scrittrice. C'era poi la promessa di partecipazione, se non proprio sicura molto probabile, di Maurizio Gueli, l'insigne maestro da tutti rispettato forse per il fatto che da circa dieci anni, vale a dire dal suo ultimo libro Favole di Roma, né sollecitazioni d'amici né ricche profferte di editori riuscivano a smuoverlo dal silenzio in cui s'era chiuso.
Piú delle opere, che non avevano mai avuto in verità molti lettori, questo silenzio e la vita appartata e schiva ch'egli conduceva, quasi tutto l'anno relegato nella malinconica villa di Monteporzio presso Roma, gli meritavano, a detta dei maligni, il rispetto anche da parte d'una certa accolta di giovani letterati, i quali, macerandosi nella nobilissima ambizione di far cose grandi e comunque nuove che reggessero al paragone delle antiche nostre, o moderne straniere secondo un loro gusto particolare, o preferivano non far niente, o se qualche cosa intanto facevano, piccola, a modo d'assaggio o di studio, per l'animo stesso con cui la facevano, doveva dar loro ambasce crudelissime d'insoddisfazione, delle quali s'alleviavano e sfogavano tramutandole in un superiore disdegno contro chiunque s'arrischiava a fare quanto poteva, senz'affanno, non solo, ma anzi con allegra spensieratezza.
Il guajo per il Raceni era questo: che alcuni di tali giovani (non piú tanto giovani) degnissimi certo di considerazione ma troppo difficoltosi, in luogo di combattere le loro battaglie in private rassegnine da leggersi tra di loro, erano riusciti da qualche tempo a trovar posto nei maggiori fogli politici quotidiani d'Italia, i quali, santo cielo, non si rivolgevano solamente ai pochi letterati di professione ma a ogni specie di lettori: e di là seminavano il discredito sulla grama letteratura italiana contemporanea, che in fondo, se di piú non sapeva, pur quanto poteva dare, dava.
Ora il marito della Roncella gli s'era tanto raccomandato perché a quella "fraterna à gape letteraria" com'egli bellamente l'aveva chiamata nell'ultimo fascicolo de Le Grazie, tutti i quotidiani piú in vista fossero rappresentati dai loro redattori letterari; e, proprio da costoro, aveva avuto i rifiuti piú recisi e sdegnosi. Ma sperava ancora d'indurre a venire altri redattori di quegli stessi giornali, di piú facile contentatura. E poi, e poi voleva comporre attorno alla Roncella una magnifica corona di belle dame, amiche e collaboratrici de Le Grazie.
Fin dalla nascita era quasi predestinato e votato alla letteratura femminile. Perché sua "mammà ", Teresa Raceni-Villardi, era stata un'esimia poetessa, e in casa di "mammà " convenivano tante scrittrici, alcune già morte, altre adesso attempatelle, su le cui ginocchia poteva dire quasi quasi d'esser cresciuto. E dei loro vezzi e delle loro carezze gli era rimasta come una levigatura indelebile in tutta la persona, quasiché quelle mani lievi e delicate, lisciandolo, lisciandolo, lo avessero composto per sempre in quella sua ambigua beltà artificiale, per cui, se si umettava le labbra con la punta della lingua, se s'inchinava sorridente ad ascoltare, se si rizzava sul busto se volgeva il capo o si ravviava i capelli, mosse, gesti, aria atteggiamenti erano piú da donna che da uomo.
Presa sotto braccio la busta di cuojo, dove, tra articoli e bozze di stampa della rassegna, aveva ficcato un fascio di carte che si riferivano al banchetto, s'avviava verso la casa di Dora Barmis, sapientissima consigliera dalle colonne de Le Grazie alle signore e signorine italiane della bellezza e di tutte le raffinatezze intellettuali, quand'ecco, verso Piazza Venezia, un clamor confuso, lontano, e un corri corri di gente.
Costernato, s'accostò in via San Marco a un grosso mercante di stoviglie d'alluminio che, sbuffando, tirava giú le bande su le vetrine della bottega.
- Perché? Cos'è?
- Mah, dice... non so, - grugnà quello in risposta, senza voltarsi.
Uno spazzino, seduto tranquillamente su una stanga del carretto con la giornata in ispalla a mo' di bandiera e un braccio a contrappeso sul bastone di essa, si cavò la pipetta di bocca; sputò; disse:
- Ciarifanno.
Il Raceni si voltò a guardarlo.
- Dimostrazione? E perché?
- Cani! - gridò il mercante panciuto, rizzandosi, ansante e paonazzo.
Stava sdrajato sotto il carretto dello spazzino un vecchio cane spelato, con gli occhi tra le cispe socchiusi; al "Cani!" del mercante levò appena il capo dalle zampe senza schiudere gli occhi, solo raggrinzando un po' le orecchie. Dicevano a lui? S'aspettava un calcio. Il calcio non venne; dunque non dicevano a lui. E si ricompose a dormire, mentre un turbine di fischi si levava dalla prossima piazza e, subito dopo, un urlÃo che arrivava al cielo.
Il tumulto vi doveva esser grande.
Il Raceni s'avviò di fretta. Bell'affare se non si passava! Come se fossero pochi i pensieri, le noje, le cure per quel maledettissimo banchetto, ecco qua, ci voleva ora quest'altro impedimento della canaglia che reclamava per le vie di Roma qualche nuovo diritto. E, santo cielo, s'era d'aprile e faceva una bellissima giornata!
Davanti a Piazza Venezia il volto gli s'allungò, come se un filo interno tutta un tratto glielo tirasse. Lo spettacolo violento gli riempà la vista e lo tenne là un pezzo a bocca aperta, sopraffatto e compreso.
La piazza rigurgitava di popolo. I cordoni dei soldati erano all'imboccatura di via del Plebiscito e del Corso. Parecchi dimostranti s'erano arrampicati sul tram d'aspetto e di là urlavano a squarciagola:
- Morte ai traditorÃÃÃ!
- Mortèèè!
Nel dispetto rabbioso contro tutta quella feccia dell'umanità che non voleva starsi quieta, gli sorse d'improvviso il proposito disperato d'attraversare a furia di gomiti la piazza. Se vi fosse riuscito, avrebbe pregato l'ufficiale che stava di guardia al Corso, che lo facesse passare per favore. Ma sÃ! Tutta un tratto, dal mezzo della piazza:
- Pè, pè-pèèèè!
La tromba. Il primo squillo. Scompiglio, serra serra: molti, sospinti dalla piena nel forte del tumulto, volevano sguizzare e bà ttersela, ma non potevano far altro che divincolarsi rabbiosamente, presi com'erano, pigiati e incalzati tutt'intorno da altri a ridosso, mentre i piú facinorosi, concitando, volevano rompere la calca, o meglio, cacciarsela davanti, tra fischi e urli piú tempestosi di prima:
- Via! AvantÃÃÃ!
- Sforziamo i cordonÃÃÃ!
E la tromba, di nuovo:
- Pè, pè-pèèèè!
D'improvviso, senza saper come, Attilio Raceni, soffocato, pesto, boccheggiante come un pesce, si ritrovò rimbalzato al Foro Trajano in mezzo alla folla fuggiasca e delirante.
Gli sembrò che la Colonna vacillasse.
Dove riparare? Per dove prendere?
Poiché il grosso della folla s'avventava sú per Magnanapoli, pensò di scappare per la salita delle Tre Cannelle; ma intoppò anche là nei soldati che già si disponevano in cordone per Via Nazionale.
- Non si passa!
- Senta, per favore, io dovrei...
Una spinta furiosa gli troncò la spiegazione, facendolo schizzar col naso sulla faccia dell'ufficiale. Questi, furibondo lo respinse subito indietro con un pugno nello stomaco; ma un nuovo violentissimo spintone lo scaraventò tra i soldati che cedettero all'impeto.
Rimbombò tremenda dalla piazza una scarica di fucili.
E Attilio Raceni, tra la folla impazzita dal terrore si trovò perduto in mezzo alla cavalleria sopravvenuta di corsa, forse da piazza della Pilotta. Via, via con gli altri a gambe levate inseguito dai cavalli, tra tutta quella torma di bruti in fuga.
S'arrestò, che non tirava piú fiato, all'imboccatura di Via Quattro Fontane.
- Vigliacchi! Farabutti! - gridava tra i denti, svoltando per quella via; e quasi piangeva dalla rabbia, pallido e stravolto; e si tastava le costole, i fianchi, e tremava tutto e cercava di rassettarsi gli abiti addosso, per toglier via subito ogni traccia della violenza patita e della fuga che l'avviliva di fronte a se stesso.
- Vigliacchi! Farabutti!
Si voltò a guardare indietro, se mai qualcuno lo vedesse in quello stato.
Sissignori, un vecchietto. Eccolo lÃ. Affacciato alla finestra d'un mezzanino, se lo stava a godere, e dal piacere che provava nel vederlo cosà tutto rimescolato, persino si grattava sul mento la barbetta gialliccia.
Il Raceni abbassò subito gli occhi. Ma, guardandosi le mani, s'accorse d'aver perduto nella fuga la busta di cuojo.
- Oh Dio!
Come avrebbe fatto ora a rammentarsi di tutti coloro che aveva invitati al banchetto? di coloro che avevano aderito o s'erano scusati di non potervi partecipare? E le bozze? E gli articoli?
D'un tratto, nella cresciuta agitazione, diventata prima smarrimento e ora rabbia, si sovvenne del vecchietto che stava a goderselo dalla finestra del mezzanino. Si voltò di nuovo a guardarlo. E sissignori, eccolo ancora là che rideva, rideva...
- Cretino! - gli gridò; e si mise a salire in fretta per poi scendere a via Sistina, dove Dora Barmis abitava in quattro stanzette d'una vecchia casa dal tetto basso basso e quasi buje.
Piaceva a Dora Barmis far sapere a tutti ch'era povera; e tutti lo credevano, sorridendo intanto agli abiti che le ammiravano addosso, squisitamente capricciosi. Il salottino ch'era anche scrittojo, l'alcova, la saletta da pranzo e quella d'ingresso erano, come la padrona, addobbati alla bizzarra, e certo non poveramente.
Divisa da anni da un marito che nessuno aveva mai conosciuto, bruna, agile, pieghevole, dagli occhi bistrati violentemente, la voce un po' rauca, dimostrava con tutte le mosse del corpo e gli sguardi e i sorrisi come e quanto conoscesse l'arte di svegliare e irritare i piú raffinati e veementi desiderii maschili. Rideva poi come una pazza, quando li vedeva fiammeggiare ben svegli in certi occhi; ma ancor piú forse rideva quando certi altri occhi vedeva invece illanguidirsi nella promessa d'un sentimento duraturo.
Il Raceni la trovò nel salottino, in una bella vestaglia giapponese ampiamente scollata, presso una piccola scrivania di ghisa nichelata, intenta a leggere un nuovo romanzo francese.
- Povero Attilio, povero Attilio, - gli diss...
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