ELEGIA DI MADONNA FIAMMETTA, di Giovanni Boccaccio - pagina 1
Giovanni Boccaccio
Incomincia il libro chiamato Elegia di Madonna Fiammetta,
da lei alle innamorate donne mandato.
Prologo
Adunque, acciò che in me, volonterosa più che altra a dolermi, di ciò per lunga usanza non menomi la cagione, ma s'avanzi, mi piace, o nobili donne, ne' cuori delle quali amore più che nel mio forse felicemente dimora, narrando i casi miei, di farvi, s'io posso, pietose.
Né m'è cura perché il mio parlare agli uomini non pervenga, anzi, in quanto io posso, del tutto il niego loro, però che sì miseramente in me l'acerbità d'alcuno si discuopre, che gli altri simili imaginando, piuttosto schernevole riso che pietose lagrime ne vedrei.
Le quali cose, se con quel cuore che sogliono essere le donne vederete, ciascuna per sé e tutte insieme adunate, sono certa che li dilicati visi con lagrime bagnerete, le quali a me, che altro non cerco, di dolore perpetuo fieno cagione.
Priegovi che d'averle non rifiutate, pensando che, sì come li miei, così poco sono stabili li vostri casi, li quali se a' miei simili ritornassero, il che cessilo Iddio, care vi sarebbero rendendolevi.
E acciò che il tempo più nel parlare che nel piagnere non trascorra, brievemente allo impromesso mi sforzerò di venire, da' miei amori più felici che stabili cominciando, acciò che da quella felicità allo stato presente argomento prendendo, me più che altra conosciate infelice; e quindi a' casi infelici, onde io con ragione piango, con lagrimevole stilo seguirò come io posso.
Ma primieramente, se de' miseri sono li prieghi ascoltati, afflitta sì come io sono, bagnata delle mie lagrime, priego, se alcuna deità è nel cielo la cui santa mente per me sia da pietà tocca, che la dolente memoria aiuti, e sostenga la tremante mano alla presente opera, e così le faccia possenti, che quali nella mente io ho sentite e sento l'angoscie, cotali l'una profferi le parole, l'altra, più a tale oficio volonterosa che forte, le scriva.
Capitolo I.
Nel quale la donna discrive chi essa fosse, e per quali segnali li suoi futuri mali le fossero premostrati, e in che tempo, e dove, e in che modo, e di cui ella si innamorasse, col seguito diletto.
Nel tempo nel quale la rinvestita terra più che tutto l'altro anno si mostra bella, da parenti nobili procreata venni io nel mondo, da benigna fortuna e abondevole ricevuta.
Oh maladetto quello giorno, a me più abominevole che alcuno altro, nel quale io nacqui! Oh quanto più felice sarebbe stato se nata non fossi, o se dal tristo parto alla sepultura fossi stata portata, né più lunga età avessi avuta, che i denti seminati da Cadmo, e ad una ora rotte e cominciate avesse Lachesis le sue fila! Nella piccola età si sarebbero rinchiusi gl'infiniti guai, che ora di scrivere trista cagione mi sono.
Ma che giova ora di ciò dolersi? Io ci pur sono, e così è piaciuto e piace a Dio che io ci sia.
Ricevuta adunque, sì come è detto, in altissime delizie, e in esse nutrita, e dall'infanzia nella vaga puerizia tratta, sotto reverenda maestra, qualunque costume a nobile giovine si conviene apparai.
E come la mia persona negli anni trapassanti crescea, così le mie bellezze, de' miei mali speciale cagione, multiplicavano.
Ohimè, che io, ancora che piccola fossi, udendole a molti lodare, me ne gloriava, e loro con sollecitudini e arti faceva maggiori.
Ma già dalla fanciullezza venuta ad età più compiuta, meco dalla natura ammaestrata sentendo quali disii a' giovini possono porgere le vaghe donne, conobbi che la mia bellezza, miserabile dono a chi virtuosamente di vivere disidera, più miei coetanei giovinetti e altri nobili accese di fuoco amoroso.
Io, adunque, debitamente contenta di tale marito, felicissima dimorai infino a tanto che il furioso amore, con fuoco non mai sentito, non entrò nella giovine mente.
Ohimè! che niuna cosa fu mai che il mio disio o d'alcuna altra donna dovesse chetare, che prestamente a mia satisfazione non venisse.
Io era unico bene e felicità singulare del giovine sposo, e così egli da me era igualmente amato, come egli mi amava.
Oh quanto più che altra mi potrei io dire felice, se sempre in me fosse durato cotale amore!
Vivendo adunque contenta, e in festa continua dimorando, la fortuna, sùbita volvitrice delle cose mondane, invidiosa de' beni medesimi che essa avea prestati, volendo ritrarre la mano, né sappiendo da qual parte mettere li suoi veleni, con sottile argomento a' miei occhi medesimi fece all'avversità trovare via; e certo niuna altra che quella onde entrò v'era al presente.
Ma gl'iddii, a me favorevoli ancora, e a' miei fatti di me più solleciti, sentendo le occulte insidie di costei, vollero, se io prendere l'avessi sapute, armi porgere al petto mio, acciò che disarmata non venissi alla battaglia nella quale io dovea cadere; e con aperta visione ne' miei sonni, la notte precedente al giorno il quale a' miei danni dovea dare principio, mi chiarirono le future cose in cotale guisa.
A me, nello ampissimo letto dimorante con tutti li membri risoluti nell'alto sonno, pareva, in un giorno bellissimo e più chiaro che alcuno altro, essere, non so di che, più lieta che mai; e con questa letizia, a me, sola fra verdi erbette, era avviso sedere in un prato dal cielo difeso e da' suoi lumi da diverse ombre d'alberi vestiti di nuove frondi; e in quello diversi fiori avendo còlti, de' quali tutto il luogo era dipinto, con le candide mani, in uno lembo de' miei vestimenti raccoltili, fiore da fiore sceglieva, e degli scelti leggiadra ghirlandetta faccendo, ne ornava la testa mia.
E così ornata levatami, quale Proserpina allora che Pluto la rapì alla madre, cotale m'andava per la nuova primavera cantando; poi, forse stanca, tra la più folta erba a giacere postami, mi posava.
Ma non altramente il tenero piè d'Euridice trafisse il nascoso animale, che me sopra l'erbe distesa, una nascosa serpe vegnente tra quelle, parve che sotto la sinistra mammella mi trafiggesse; il cui morso, nella prima entrata degli acuti denti, parea che mi cocesse; ma poi, assicurata, quasi di peggio temendo, mi pareva mettere nel mio seno la fredda serpe, imaginando lei dovere, col beneficio del caldo del proprio petto, rendere a me più benigna.
La quale, più sicura fatta per quello e più fiera, al dato morso raggiunse la iniqua bocca, e dopo lungo spazio, avendo molto del nostro sangue bevuto, mi pareva che, me renitente, uscendo del mio seno, vaga vaga fra le prime erbe col mio spirito si partisse.
Nel cui partire il chiaro giorno turbato, dietro a me vegnendo, mi copria tutta, e secondo l'andare di quella così la turbazione seguitava, quasi come a lei tirante fosse la moltitudine de' nuvoli appiccata, e seguissela; e non dopo molto, come bianca pietra gittata in profonda acqua a poco a poco si toglie alla vista de' riguardanti, così si tolse agli occhi miei.
Allora il cielo di somme tenebre chiuso vidi, e quasi partitosi il sole, e la notte tornata pensai, quale a' Greci tornò nel peccato d'Atreo; e le corruscazioni correano per quello senza alcuno ordine, e i crepitanti tuoni spaventavano le terre e me similemente.
Ma la piaga, la quale infino a quella ora per la sola morsura m'avea stimolata, piena rimasa di veleno vipereo, non valendovi medicina, quasi tutto il corpo con enfiatura sozzissima parea che occupasse; laonde io, prima senza spirito non so come parendomi essere rimasa, e ora sentendo la forza del veleno il cuore cercare per vie molto sottili, per le fresche erbe aspettando la morte mi voltolava.
E già l'ora di quella venuta parendomi, offesa ancora dalla paura del tempo avverso, sì fu grave la doglia del cuore quella aspettante, che tutto il corpo dormente riscosse, e ruppe il forte sonno; dopo il quale rotto, sùbito, paurosa ancora delle cose vedute, con la destra mano corsi al morso lato, quello nel presente cercando che nel futuro m'era apparecchiato; e senza alcuna piaga trovandolo, quasi rallegrata e sicura, le sciocchezze de' sogni cominciai a deridere, e così vana feci degl'iddii la fatica.
Ahi, misera me! Quanto giustamente, se io li schernii allora, poi con mia grave doglia gli ho veri creduti, e piantili senza frutto, non meno degl'iddii dolendomi, li quali con tanta oscurità alle grosse menti dimostrano i loro secreti, che quasi non mostrati se non avvenuti si possono dire! Io, adunque, escitata, alzai il sonnacchioso capo, e per piccolo buco vidi entrare nella mia camera il nuovo sole; per che, ogni altro pensiero gittato via, sùbito mi levai.
Quello giorno era solennissimo quasi a tutto il mondo; per che, io con sollecitudine li drappi di molto oro rilucenti vestitami e con maestra mano di me ornata ciascuna parte, simile alle dèe vedute da Parìs nella valle d'Ida tenendomi, per andare alla somma festa m'apparecchiai.
E mentre che io tutta mi mirava, non altramente che il pavone le sue penne, imaginando di così piacere ad altrui come io a me piacea, non so come, uno fiore della mia corona preso dalla cortina del letto mio o forse da celestiale mano da me non veduta, quella, di capo trattami, cadde in terra; ma io, non curante alle occulte cose dagl'iddii dimostrate, quasi come non fosse, ripresala, sopra il capo la mi riposi, e oltre andai.
Ohimè! che segnale più manifesto di quello che avvenne mi poteano dare gl'iddii? Certo niuno.
Questo bastava a dimostrarmi che quello giorno la mia libera anima, e di sé donna, disposta la sua signoria, serva dovea divenire, come avvenne.
La fortuna mia adunque me vana e non curante sospinse fuori; e accompagnata da molte, con lento passo pervenni al sacro tempio, nel quale già il solenne oficio debito a quel giorno si celebrava.
La vecchia usanza e la mia nobiltà m'avea tra l'altre donne assai eccellente luogo servato; nel quale poi che assisa fui, servato il mio costume, gli occhi subitamente in giro vòlti, vidi il tempio d'uomini e di donne parimente ripieno, e in varie caterve diversamente operare.
Né prima, celebrandosi il sacro oficio, nel tempio sentita fui, che, sì come l'altre volte soleva avvenire, così e quella avvenne, che non solamente gli uomini gli occhi torsero a riguardarmi, ma eziandio le donne, non altramente che se Venere o Minerva, mai più da loro non vedute, fossero in quello luogo, là dove io era, nuovamente discese.
Oh, quante fiate, tra me stessa ne risi, essendone meco contenta, e non meno che una dèa gloriandomi di tale cosa! Lasciate adunque quasi tutte le schiere de' giovini di mirare l'altre, a me mi posero d'intorno, e diritti quasi in forma di corona mi circuivano, e variamente fra loro della mia bellezza parlando, quasi in una sentenza medesima concludendo la laudavano.
Ma io che, con gli occhi in altra parte voltati, mostrava me d'altra cura sospesa, tenendo gli orecchi a' ragionamenti di quelli sentiva disiderata dolcezza, e quasi loro parendomene essere obligata, tale fiata con più benigno occhio li rimirava; e non una volta m'accorsi, ma molte, che di ciò alcuni, vana speranza pigliando, co' compagni vanamente se ne gloriavano.
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