Dal Naso al Cielo
Luigi Pirandello
DAL NASO AL CIELO
I
I pochi ospiti del vecchio albergo in vetta al monte Gajo avevano da una settimana il piacere di sentir parlare il senatore Romualdo Reda.
- Finalmente!
Da una ventina di giorni lassú, l'illustre chimico, accademico dei Lincei, non aveva ancora scambiato una parola con nessuno. Non si sentiva bene; era stanco; anzi si diceva che ultimamente a Roma era stato colto da un lieve deliquio nella Sala di chimica, dove soleva trattenersi dalla mattina alla sera; e i medici l'avevano addirittura forzato a darsi un po' di riposo, a interrompere almeno per qualche mese gli studii ch'egli, da vecchio, seguitava con inflessibile tenacia e il solito ispido rigore.
Della stessa tenacia, dello stesso rigore era regolata la sua condotta nella vita. Pregato insistentemente due volte d'accettar la carica di ministro della pubblica istruzione, tutt'e due le volte aveva opposto un reciso rifiuto, non volendo distrarsi dai suoi studii e dai suoi doveri d'insegnante.
Piccolissimo di statura, quasi senza collo, con quella faccia piatta, cuojacea, tutta rasa, e quelle pà lpebre gonfie come due borse, che gli nascondevano le ciglia, e quei capelli lunghi, grigi, lisci e umidicci, che gli nascondevano gli orecchi, aveva l'aspetto d'una vecchia serva pettegola.
Ogni giorno, sul pomeriggio, scendeva su lo spiazzo davanti all'albergo, seguÃto da un cameriere che gli recava un grosso fascio di riviste e di giornali o qualche libro; e, su una sedia di giunco a sdraio, s'immergeva per alcune ore nella lettura, all'ombra del maestoso faggio secolare che dominava la vetta.
Maestoso, per modo di dire, quel faggio: doveva essere ormai mortalmente seccato di star lassú, esposto a tutti i venti, e dava a veder chiaramente che non apprezzava l'altissimo onore e la fortuna che gli toccava in quei giorni di riparare con le fronde copiose un cosà illustre personaggio. Si sarebbe detto che non se n'accorgeva nemmeno.
Anche l'albergo pareva non si sentisse per nulla onorato d'ospitarlo, e serbava tranquillamente l'aria umile e malinconica di vecchio convento abbandonato. Ma l'albergatore... ah, bisognava vederlo, l'albergatore: aveva subito assunto verso gli altri avventori un sussiego da diplomatico; e i camerieri... anche i camerieri, bisognava vederli, s'erano messi a prestare i loro servizii con un'impagabile sprezzatura, per fare intender bene che non avrebbero potuto piú che tanto occuparsi degli altri, intenti com'erano tutti agli ordini di quell'uno.
Il giovane avvocato e dilettante giornalista Torello Scamozzi n'era addirittura stomacato; non tanto per sé, diceva, quanto per le signore. E minacciava di far le sue vendette su i molti giornali di cui si diceva collaboratore. Ma le signore generosamente lo pregavano di non cimentarsi per loro.
Erano quattro, le signore: cioè, le Gilli, mamma e figlia, Miss Green, inglesina alquanto attempatella, bionda e cerulea, sempre fornita di mal di capo e d'antipirina, e la moglie del dottor Sandrocca, atassico e relegato perpetuamente su una sedia a ruote.
Molto piú saggio, cioè a dire piú pratico, un altro giovane ospite, Leone Borisi, lasciava allo Scamozzi il gusto di far cosà il paladino delle signore e specialmente della cara e vivacissima signorina Ninà Gilli, e per conto suo s'era messo a spingere la sedia del dottor Sandrocca giú per i viottoli del monte, sotto gl'ippocà stani: a spinger la sedia con una mano e a cinger con l'altra la vita alla moglie del bravo dottore, ch'era una brunotta ricciuta, dal nasino ritto e gli occhietti ardenti, simpaticissima. Oh, cosÃ, badiamo! innocentemente, quasi per distrazione, dietro le spalle del marito che rideva, rideva e parlava e fumava la pipa, senza mai smettere un momento.
II
Il miracolo di far parlare l'illustre senatore Romualdo Reda lo aveva operato un nuovo ospite che, a prima giunta, aveva fatto arricciare il nasino alle quattro signore e storcere il muso all'albergatore.
Sciamannato, tutto gocciolante di sudore, col testone raso e la cotenna ridondante su la nuca, le lenti che gli scivolavano sempre di traverso sul naso a gnocco, e quei grossi occhi biavi che pareva le andassero cercando per guardare, obbligando il capo a certi buffi rigiramenti sul collo che facevano pensare a un bue smanioso sotto il giogo, il professor Dionisio Vernoni non era fatto in verità per attirar la confidenza. Ma poi, a sentirlo parlare...
Forse, dentro di sé, il professor Dionisio Vernoni soffriva dei vulcanici rimescolamenti delle sue tante passioni dentro il capace petto; ma, per quel che poi se ne vedeva di fuori, faceva tanto ridere. Ridere sopra tutto perché, con quella montagna di carne sudata addosso, era un incorreggibile idealista, il professor Dionisio Vernoni: un idealista che, anche a costo d'essere scannato, non s'acquietava, non sapeva, non voleva acquietarsi all'irritante rinunzia della scienza di fronte ai formidabili problemi dell'esistenza, al comodo (egli diceva vigliacco) ripararsi del cosà detto pensiero filosofico entro i confini del conoscibile. E cacciava di qua e di là con le due manacce le ostinatissime mosche che volevano attaccarglisi al faccione sudato.
Vedendo sotto il faggio il senatore, ch'era stato suo maestro, tant'anni addietro, all'Università (tutti i professori di parecchie Università erano stati suoi maestri, perché aveva preso tre o quattro lauree, una dopo l'altra, Dionisio Vernoni), tra lo stupore di tutti e l'indignazione dell'albergatore, gli era corso innanzi, gli s'era anzi precipitato addosso, gridando con le braccia levate:
- Oh, lei qua, illustrissimo signor professore?
E quasi subito s'erano riaccese tra l'antico scolaro e il vecchio maestro le fervide discussioni rimaste famose per molti anni all'Università romana.
Fervide, da una parte sola, s'intende: da parte del Vernoni; perché il senatore rispondeva asciutto e mordace, con un frigido sogghignetto su le labbra, il quale dava a vedere com'egli degnasse di qualche risposta quel suo strambo discepolo, solamente per pigliarselo a godere.
Lo avevano compreso bene tutti gli altri avventori, i quali a poco a poco s'erano fatti intorno a sentire. Ora, ogni dopo pranzo, si assisteva a quel duello intellettuale sotto il faggio, come a un vero spasso.
Tutti scoppiavano a ridere, di tratto in tratto, a certe argute risposte dell'illustre senatore, mentre il Vernoni ora balzava in piedi con tanto d'occhi sbarrati, ora, tutto sospeso, spalmava sul petto le due manacce come a trattenere una valanga di precipitose proteste.
La vecchia signora Gilli e Miss Green, però, trascinate spesso dalla foga appassionata con cui il professor Vernoni perorava in favore delle sue nobili e magnanime teorie, approvavano involontariamente col capo. Allora il senatore rispondeva con una certa vocetta agra di stizza. E il Vernoni, o s'insaccava nelle spalle, o borbottava con amaro disdegno:
- L'erba, dunque, eh? L'erba! Come se fossimo tante pecorelle...
Ninà Gilli, a queste parole, prorompeva in una irrefrenabile risata, a cui tutti gli altri facevano eco, mentre il senatore guardava in giro come se non avesse inteso bene, e domandava:
- L'erba? Perché, l'erba? Non capisco.
- L'erba! L'erba! - raffermava, quasi piangendo dalla stizza, il Vernoni. - Qual è per le pecore la sola verità che esista? L'erba. L'erba che cresce loro sotto il mento. Ma noi, vivaddio, possiamo guardare anche in sú, illustrissimo signor senatore! In sú, in sú, le stelle!
La vecchia signora Gilli e Miss Green tornavano ad approvare col capo, convintissime, questa volta.
E il senatore allora masticava:
- Anche in sú, già , come dice Sallustio.
- Come dice Sallustio, sissignore, - rimbeccava pronto il Vernoni. - Ma anche guardando in giú, scusi... la talpa, signor senatore: guardiamo la talpa e seguiamo la logica della natura.
- Ah no!
Il senatore Romualdo Reda, sentendo nominar la natura, s'inquietava sul serio: scattava battendo ambo le mani su i braccioli:
- Ma via! ma mi faccia il piacere! ma la sua logica, caro Vernoni! Tanto per ridere... Lasciamo star la natura, per carità !
- Scusi, scusi, scusi, - s'affrettava allora a spiegare il Vernoni, ponendo avanti le mani. - Che la natura abbia una logica, si può forse mettere in dubbio? Ma ne abbiamo una prova lampantissima, scusi, nella sua economia! Mi lasci dire, illustrissimo signor professore! La talpa... Perché la talpa ha cosà debole l'organo visivo? Ma perché deve star sottoterra! Logica della natura. E l'uomo? Scusi, perché deve poter vedere le stelle, l'uomo? Una ragione ci dev'essere, scusi!
Tutti restavano sospesi per un momento nell'attesa della risposta del signor senatore; ma questi socchiudeva gli occhi stanchi, enfiati, tentennava il capo, apriva le labbra a un sorrisetto di sdegnosa commiserazione e lasciava tutti delusi recitando:
- Gestit enim mens exilire ad magis generalia ut acquiescat: et post parvam moram fastidit experientiam. Sed haec mala demum aucta sunt a dialectica ob pompas disputationum.
- Bacone? - domandava il professor Dionisio Vernoni, asciugandosi il copioso sudore dalla fronte e dalla nuca.
E il senatore:
- Bacone.
III
Se non che, una di quelle mattine, per tempissimo, tutti gli ospiti dell'albergo in vetta al monte furono destati all'improvviso dalle grida acutissime della signorina Ninà Gilli e della madre. Che cosa era accaduto?
Dapprima si disse che la cara NinÃ, essendosi recata sola, all'alba, giú nelle macchie del Conventino, aveva fatto un brutto incontro.
Brutto? Come? Forse aggredita? Ma non s'era sentito mai che nelle macchie del Conventino bazzicassero... ah, non si trattava di malandrini? E che incontro, allora?
La cara NinÃ, o la Gillina come la chiamavano, era venuta sú dalle macchie di corsa, di corsa, scarmigliata, urlando, in preda a un terror pazzo. Adesso si dibatteva, sú in camera, in una terribile convulsione di nervi.
Ma che incontro era stato, insomma? Che le avevano fatto?
Le macchie del Conventino erano su la costa occidentale del monte: fittissime e intricate. Macchie propriamente non erano, perché tutti quegl'ippocà stani là , sebbene rimasti sottili, erano ormai divenuti d'altissimo fusto e dritti come aghi: un bosco. Si chiamavano del Conventino perché, in una breve radura in mezzo, era un piccolo convento antico, in rovina e abbandonato, con la chiesuola da una parte, il cui interno misterioso s'intravedeva appena appena attraverso le fessure del portone imporrito.
Lo Scamozzi, pallido, costernatissimo, incitava il Borisi, incitava i camerieri a correr con lui, armati, giú nelle macchie, a vedere. Ma a vedere che cosa? Se ancora non si sapeva nulla di certo! Che diceva il senator Reda accorso in camera della signorina? Era anche medico il Reda, benché non avesse mai esercitato la professione.
Soltanto il professor Dionisio Vernoni si dichiarava pronto a seguire lo Scamozzi. Ma questi non se ne fidava, e fingeva di non udirlo e di non vederlo.
Finalmente, ecco il Reda! Uh, lodato Dio, sorrideva... Ebbene?
- Nulla, signori miei. Stiano tranquilli. Una lieve psicosi passeggera. Crisi isterica, ecco. Passerà .
Ma il professor Dionisio Vernoni si fece avanti accigliato, rabbuffato:
- Psicosi? - disse. - Giú nelle macchie del Conventino? Se lei dice psicosi, io so di che si tratta! So tutto, so tutto! La signorina Gilli ha veduto! La signorina Gilli ha sentito anche lei!
Lo Scamozzi, il Borisi, il dottor Sandrocca, la moglie, Miss Green si voltarono a guardarlo a bocca aperta:
- Veduto... che cosa?
- Ma non gli diano retta, per carità ! - esclamò il senatore.
- Allucinazione, è vero? - gridò allora il Vernoni, con aria beffarda e di sfida.- Psicosi... crisi isterica... E come spiega lei allora che anch'io, sissignore, anch'io, l'altro giorno, verso sera, ho udito... sissignori, ho udito mentr'ero là solo, nella macchia, presso il Conventino, una musica... una musica di paradiso, che partiva dalla chiesetta... organo e arpe... melodia divina! Non l'ho detto a nessuno; lo dico adesso perché son certo che la signorina Gi...
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