LE VITE DE' PIU' ECCELLENTI PITTORI, SCULTORI, E ARCHITETTORI, di Giorgio Vasari - pagina 95
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Cassano, fece molti quadri e ritratti a molti gentiluomini viniziani; e Messer Bernardo Vecchietti fiorentino ha di sua mano in uno stesso quadro S.
Francesco e S.
Domenico, molto belli.
Quando poi gl'erano state allogate dalla Signoria alcune storie in palazzo, le quali non avevano voluto concedere a Francesco di Monsignore veronese, ancora che molto fusse stato favorito dal duca di Mantoa, egli si ammalò di mal di punta, e si morì d'anni 49 senza avere pur messo mano all'opera.
Fu dagl'artefici nell'essequie molto onorato, per il dono fatto all'arte della nuova maniera di colorire, come testifica questo epitaffio:
D.
O.
M.
Antonius pictor, praecipuum Messanae suae, et Siciliae totius ornamentum, hac humo contegitur.
Non solum suis picturis, in quibus singulare Artificium et Venustas fuit, sed et quod coloribus oleo miscendis splendorem et perpetuitatem primus Italicae picturae contulit, summo semper artificum studio celebratus.
Rincrebbe la morte d'Antonello a molti suoi amici, e particolarmente ad Andrea Riccio scultore, che in Vinezia nella corte del palazzo della Signoria lavorò di marmo le due statue che si veggiono ignude di Adamo e Eva, che sono tenute belle.
Tale fu la fine d'Antonello, al quale deono certamente gl'artefici nostri avere non meno obligazione dell'avere portato in Italia il modo di colorire a olio, che a Giovanni da Bruggia d'averlo trovato in Fiandra, avendo l'uno e l'altro beneficato et arricchito quest'arte; perché, mediante questa invenzione sono venuti di poi sì eccellenti gl'artefici, che hanno potuto far quasi vive le loro figure.
La qual cosa tanto più debbe essere in pregio, quanto manco si trova scrittore alcuno che questa maniera di colorire assegni agl'antichi.
E se si potesse sapere che ella non fusse stata veramente appresso di loro, avanzarebbe pure questo secolo l'eccellenze dell'antico in questa perfezzione; ma perché, sì come non si dice cosa che non sia stata altra volta detta, così forse non si fa cosa che forse non sia stata fatta, me la passerò senza dir altro.
E lodando sommamente coloro che oltre al disegno aggiungono sempre all'arte qualche cosa, attenderò a scrivere degl'altri.
FINE DELLA VITA D'ANTONELLO DA MESSINA
VITA DI ALESSO BALDOVINETTI PITTORE FIORENTINO
Ha tanta forza la nobiltà dell'arte della pittura, che molti nobili uomini si sono partiti dall'arti nelle quali sarebbero potuti ricchissimi divenire, e dalla inclinazione tirati, contra il volere de' padri hanno seguito l'appetito loro naturale e datisi alla pittura o alla scultura o altro somigliante esercizio.
E per vero dire, che stimando le ricchezze quanto si deve e non più, ha per fine delle sue azzioni la virtù, si acquista altri tesori che l'argento e l'oro non sono, senzaché non temono mai niuna di quelle cose che in breve ora ne spogliano di queste ricchezze terrene, che più del dover scioccamente sono dagli uomini stimate.
Ciò conoscendo, Alesso Baldovinetti da propria volontà tirato, abbandonò la mercanzia a che sempre avevano atteso i suoi, e nella quale esercitandosi onorevolmente si avevano acquistato ricchezze e vivuti da nobili cittadini, e si diede alla pittura, nella quale ebbe questa proprietà di benissimo contrafare le cose della natura, come si può vedere nelle pitture di sua mano.
Costui, essendo ancora fanciulletto, quasi contra la volontà del padre che arebbe voluto che egli avesse atteso alla mercatura si diede a disegnare, et in poco tempo vi fece tanto profitto che il padre si contentò di lasciarlo seguire la inclinazione della natura.
La prima opera che lavorasse a fresco Alesso fu in S.
Maria Nuova la cappella di San Gilio, cioè la facciata dinanzi, la quale fu in quel tempo molto lodata, perché fra l'altre cose vi era un Santo Egidio, tenuto bellissima figura.
Fece similmente a tempera la tavola maggiore e la cappella a fresco di Santa Trinita, per Messer Gherardo e Messer Bongianni Gianfigliazzi onoratissimi e ricchi gentiluomini fiorentini, dipignendo in quella alcune storie del Testamento Vecchio, le quali Alesso abozzò a fresco e poi finì a secco, temperando i colori con rosso d'uovo mescolato con vernice liquida fatta a fuoco.
La qual tempera pensò che dovesse le pitture diffendere dall'acqua; ma ella fu di maniera forte che, dove ella fu data troppo gagliarda, si è in molti luoghi l'opera scrostata; e così dove egli si pensò aver trovato un raro e bellissimo segreto, rimase della sua openione ingannato.
Ritrasse costui assai di naturale, e dove nella detta cappella fece la storia della reina Sabba, che va a udire la sapienza di Salamone, ritrasse il Magnifico Lorenzo de' Medici, che fu padre di papa Leone Decimo, Lorenzo della Volpaia eccellentissimo maestro d'oriuoli e ottimo astrologo, il quale fu quello che fece per il detto Lorenzo de' Medici il bellissimo oriuolo che ha oggi il signor duca Cosimo in palazzo; nel quale oriuolo tutte le ruote de' pianeti caminano di continuo, il che è cosa rara e la prima che fusse mai fatta di questa maniera.
Nell'altra storia, che è dirimpetto a questa, ritrasse Alesso Luigi Guicciardini il vecchio, Luca Pitti, Diotisalvi Neroni, Giuliano de' Medici, padre di papa Clemente Settimo et a canto al pilastro di pietra, Gherardo Gianfigliazzi vecchio e Messer Bongianni cavaliere, con una vesta azzurra in dosso et una collana al collo, e Iacopo e Giovanni della medesima famiglia.
A canto a questi è Filippo Strozzi vecchio, Messer Paulo astrologo dal Pozzo Toscanelli.
Nella volta sono quattro patriarchi e nella tavola una Trinità e S.
Giovanni Gualberto inginocchioni con un altro Santo.
I quali tutti ritratti si riconoscono benissimo, per essere simili a quelli che si veggiono in altre opere, e particolarmente nelle case dei discendenti loro, o di gesso o di pittura.
Mise in questa opera Alesso molto tempo, perché era pazientissimo e voleva condurre l'opere con suo agio e commodo.
Disegnò molto bene, come nel nostro libro si vede un mulo ritratto di naturale, dov'è fatto il girare de' peli per tutta la persona, con molta pazienza e con bella grazia.
Fu Alesso diligentissimo nelle cose sue, e di tutte le minuzie che la madre natura sa fare, si sforzò d'essere imitatore.
Ebbe la maniera alquanto secca e crudetta, massimamente ne' panni.
Dilettossi molto di far paesi, ritraendoli dal vivo e naturale, come stanno a punto.
Onde si veggiono nelle sue pitture fiumi, ponti, sassi, erbe, frutti, vie, campi, città, castella, arena et altre infinite simili cose.
Fece nella Nunziata di Firenze, nel cortile dietro a punto al muro dove è dipinta la stessa Nunziata, una storia a fresco, e ritocca a secco, nel quale è una Natività di Cristo, fatta con tanta fatica e diligenza, che in una capanna che vi è, si potrebbono annoverar le fila et i nodi della paglia.
Vi contrafece ancora in una rovina d'una casa, le pietre muffate, e dalla pioggia e dal ghiaccio logore e consumate; con una radice d'ellera grossa, si ricuopre una parte di quel muro, nella quale è da considerare che con lunga pazienza fece d'un color verde il ritto delle foglie e d'un altro il rovescio, come fa la natura né più né meno, e oltra ai pastori vi fece una serpe, o vero biscia, che camina su per un muro, naturalissima.
Dicesi che Alesso s'affaticò molto per trovare il vero modo del musaico, e che non gl'essendo mai riuscito cosa che volesse, gli capitò finalmente alle mani un tedesco che andava a Roma alle perdonanze, e che alloggiandolo imparò da lui interamente il modo e la regola di condurlo.
Di maniera che essendosi messo poi arditamente a lavorare in San Giovanni, sopra le porte di bronzo, fece dalla banda di dentro negl'archi alcuni Angeli che tengono la testa di Cristo.
Per la quale opera, conosciuto il suo buon modo di fare, gli fu ordinato dai consoli dell'Arte de' Mercatanti che rinettasse e pulisse tutta la volta di quel tempio, stata lavorata, come si disse, da Andrea Tafi, perché essendo in molti luoghi guasta, aveva bisogno d'esser rassettata e racconcia.
Il che fece Alesso con amore e diligenza, servendosi in ciò d'un edifizio di legname, che gli fece il Cecca, il quale fu il migliore architetto di quell'età.
Insegnò Alesso il magisterio de' musaici a Domenico Ghirlandaio, il quale a canto sé poi lo ritrasse nella cappella de' Tornabuoni in Santa Maria Novella, nella storia dove Giovacchino è cacciato del tempio, nella figura d'un vecchio raso con un cappuccio rosso in testa.
Visse Alesso anni ottanta.
E quando cominciò ad avicinarsi alla vecchiezza, come quello che voleva poter con animo quieto attender agli studi della sua professione, sì come fanno spesso molti uomini, si commise nello spedale di S.
Paulo.
Et a cagione forse d'esservi ricevuto più volentieri e meglio trattato (potette anco essere a caso), fece portare nelle sue stanze del detto spedale un gran cassone, sembiante facendo che dentro vi fusse buona somma di danari, perché così credendo che fusse, lo spedalingo e gl'altri ministri, i quali sapevano che egli aveva fatto allo spedale donazione di qualunque cosa si trovasse alla morte sua, gli facevano le maggior carezze del mondo.
Ma venuto a morte Alesso, vi si trovò dentro solamente disegni, ritratti in carta et un libretto che insegnava a far le pietre del musaico, lo stucco, et il modo di lavorare.
Né fu gran fatto, secondo che si disse, che non si trovassero danari, perché fu tanto cortese che niuna cosa aveva, che così non fusse degl'amici come sua.
Fu suo discepolo il Graffione fiorentino, che sopra la porta degl'Innocenti fece a fresco il Dio Padre, con quegli Angeli che vi sono ancora.
Dicono che il Magnifico Lorenzo de' Medici ragionando un dì col Graffione che era un stravagante cervello, gli disse: "Io voglio far fare di musaico e di stucchi tutti gli spigoli della cupola di dentro".
E che il Graffione rispose: "Voi non ci avete maestri".
A che replicò Lorenzo: "Noi abbiam tanti danari, che ne faremo!".
Il Graffione subitamente soggiunse: "Eh, Lorenzo, i danari non fanno maestri, ma i maestri fanno i danari".
Fu costui bizzarra e fantastica persona.
Non mangiò mai in casa sua a tavola che fusse apparecchiata d'altro che di suoi cartoni, e non dormì in altro letto che in un cassone pien di paglia, senza lenzuola.
Ma tornando ad Alesso, egli finì l'arte e la vita nel 1448, e fu dai suoi parenti e cittadini sotterrato onorevolmente.
IL FINE DELLA VITA DI ALESSO BALDOVINETTI PITTORE FIORENTINO
VITA DI VELLANO DA PADOVA SCULTORE
Tanto grande è la forza del contraffare con amore e studio alcuna cosa, che il più delle volte essendo bene imitata la maniera d'una di queste nostre arti da coloro che nell'opere di qualcuno si compiacciono, sì fattamente somiglia la cosa che imita quella che è imitata, che non si discerne, se non da chi ha più che buon occhio, alcuna differenza.
E rade volte avviene che un discepolo amorevole non apprenda almeno in gran parte la maniera del suo maestro.
Vellano da Padova s'ingegnò con tanto studio di contrafare la maniera et il fare di Donato nella scultura, e massimamente ne' bronzi, che rimase in Padova sua patria, erede della virtù di Donatello fiorentino, come ne dimostrano l'opere sue nel Santo dalle quali pensando quasi ognuno, che non ha di ciò cognizione intera, ch'elle siano di Donato, se non sono avvertiti restano tutto giorno ingannati.
Costui dunque, infiammato dalle molte lodi che sentiva dare a Donato scultore fiorentino che allora lavorava in Padova, e dal disiderio dell'utile che mediante l'eccellenza dell'opere viene in mano de' buoni artefici, si acconciò con esso Donato per imparar la scultura, e vi attese di maniera che con l'aiuto di tanto maestro conseguì finalmente l'intento suo; onde prima che Donatello partisse di Padova finite l'opere sue, aveva tanto acquisto fatto nell'arte che già era in buona aspettazione, e di tanta speranza appresso al maestro che meritò che da lui gli fussero lasciate tutte le masserizie, i disegni e i modelli delle storie, che si avevano a fare di bronzo intorno al coro del Santo in quella città.
La qual cosa fu cagione che partito Donato, come si è detto, fu tutta quell'opera publicamente allogata al Vellano nella patria, con suo molto onore.
Egli dunque fece tutte le storie di bronzo che sono nel coro del Santo dalla banda di fuori; dove fra l'altre è la storia quando Sansone, abbracciata la colonna, rovina il tempio de' Filistei, dove si vede con ordine venir giù i pezzi delle rovine, e la morte di tanto popolo, et inoltre la diversità di molte attitudini in coloro che muoiono, chi per la rovina e chi per la paura; il che maravigliosamente espresse Vellano.
Nel medesimo luogo sono alcune cere et i modelli di queste cose, e così alcuni candelieri di bronzo lavorati dal medesimo con molto giudizio et invenzione.
E per quanto si vede, ebbe questo artefice estremo disiderio d'arivare al segno di Donatello; ma non vi arrivò, perché si pose colui troppo alto in un'arte difficilissima.
E perché Vellano si dilettò anco dell'architettura e fu più che ragionevole in quella professione, andato a Roma al tempo di papa Paulo viniziano l'anno 1464, per il quale Pontefice era architettore nelle fabriche del Vaticano Giuliano da Maiano, fu anch'egli adoperato a molte cose; e fra l'altre opere che vi fece sono di sua mano l'arme che vi si veggiono di quel Pontefice, col nome appresso.
Lavorò ancora al palazzo di S.
Marco molti degl'ornamenti di quella fabrica per lo medesimo Papa, la testa del quale è di mano di Vellano a sommo le scale.
Disegnò il medesimo per quel luogo un cortile stupendo, con una salita di scale commode e piacevoli, ma ogni cosa, sopravenendo la morte del Pontefice, rimase imperfetta.
Nel qual tempo che stette in Roma, il Vellano fece per il detto Papa e per altri, molte cose piccole di marmo e di bronzo, ma non l'ho potute rinvenire.
Fece il medesimo in Perugia una statua di bronzo maggior che il vivo, nella quale figurò di naturale il detto Papa a sedere in pontificale, e da piè vi mise il nome suo e l'anno ch'ella fu fatta.
La qual figura posa in una nicchia di più sorte pietre, lavorate con molta diligenza fuor della porta di S.
Lorenzo, che è il Duomo di quella città.
Fece il medesimo molte medaglie, delle quali ancora si veggiono alcune e particolarmente quella di quel Papa e quelle d'Antonio Rosello aretino e di Battista Platina, ambi di quello segretarii.
Tornato dopo queste cose Vellano a Padoa con bonissimo nome, era in pregio non solo nella propria patria, ma in tutta la Lombardia e Marca Trivisana; sì perché non erano insino allora stati in quelle parti artefici eccellenti, sì perché aveva bonissima pratica nel fondere i metalli.
Dopo, essendo già vecchio Vellano, deliberando la Signoria di Vinegia che si facesse di bronzo la statua di Bartolomeo da Bergamo a cavallo, allogò il cavallo ad Andrea del Verrocchio fiorentino e la figura a Vellano.
La qual cosa udendo, Andrea, che pensava che a lui toccasse tutta l'opera, venne in tanta collera, conoscendosi, come era in vero, altro maestro che Vellano non era, che, fracassato e rotto tutto il modello che già aveva finito del cavallo, se ne venne a Firenze.
Ma poi, essendo richiamato dalla Signoria che gli diede a fare tutta l'opera, di nuovo tornò a finirla.
Della qual cosa prese Vellano tanto dispiacere, che partito di Vinegia senza far motto o risentirsi di ciò in niuna maniera, se ne tornò a Padoa, dove poi visse il rimanente della sua vita onoratamente, contentandosi dell'opere che aveva fatto, e di essere, come fu sempre, nella sua patria amato et onorato.
Morì d'età d'anni 92, e fu sotterrato nel Santo con quell'onore che la sua virtù, avendo sé e la patria onorato, meritava.
Il suo ritratto mi fu mandato da Padoa da alcuni amici miei che l'ebbono, per quanto mi avisarono, dal dottissimo e reverendissimo cardinal Bembo, che fu tanto amatore delle nostre arti, quanto in tutte le più rare virtù e doti d'animo e di corpo, fu sopra tutti gl'altri uomini dell'età nostra eccellentissimo.
FINE DELLA VITA DI VELLANO DA PADOA SCULTORE
VITA DI FRA' FILIPPO LIPPI PITTORE FIORENTINO
Fra' Filippo di Tommaso Lippi, carmelitano, il quale nacque in Fiorenza, in una contrada detta Ardiglione, sotto il canto alla Cuculia, dietro al convento de' frati Carmelitani, per la morte di Tommaso suo padre restò povero fanciullino d'anni due, senza alcuna custodia, essendosi ancora morta la madre non molto dopo averlo partorito.
Rimaso dunque costui in governo d'una Mona Lapaccia sua zia, sorella di Tommaso suo padre, poi che l'ebbe allevato con suo disagio grandissimo, quando non potette più sostentarlo, essendo egli già di 8 anni lo fece frate nel sopra detto convento del Carmine, dove standosi, quanto era destro et ingenioso nelle azzioni di mano, tanto era nella erudizione delle lettere grosso e male atto ad imparare, onde non volle applicarvi lo ingegno mai, né averle per amiche.
Questo putto, il quale fu chiamato col nome del secolo Filippo, essendo tenuto con gl'altri in noviziato e sotto la disciplina del maestro della gramatica, pur per vedere quello che sapesse fare, in cambio di studiare non faceva mai altro che imbrattare con fantocci i libri suoi e degl'altri.
Onde il priore si risolvette a dargli ogni commodità et agio d'imparare a dipignere.
Era allora nel Carmine la cappella da Masaccio nuovamente stata dipinta, la quale, perciò che bellissima era, piaceva molto a fra' Filippo; laonde ogni giorno per suo diporto la frequentava e quivi esercitandosi del continovo in compagnia di molti giovani che sempre vi disegnavano, di gran lunga gl'altri avanzava di destrezza e di sapere, di maniera che e' si teneva per fermo che e' dovesse fare col tempo qualche maravigliosa cosa.
Ma negl'anni acerbi, nonché ne' maturi, tante lodevoli opere fece che fu un miracolo.
Perché di lì a poco tempo lavorò di verde terra nel chiostro vicino alla sagra di Masaccio, un papa che conferma la Regola de' Carmelitani, et in molti luoghi in chiesa in più pareti, in fresco dipinse, e particolarmente un San Giovanni Batista et alcune storie della sua vita; e così ogni giorno facendo meglio, aveva preso la mano di Masaccio, sì che le cose sue in modo simili a quelle faceva che molti dicevano lo spirito di Masaccio era entrato nel corpo di fra' Filippo.
Fece in un pilastro in chiesa la figura di San Marziale presso all'organo, la quale gli arrecò infinita fama, potendo stare a paragone con le cose che Masaccio aveva dipinte.
Per il che sentitosi lodar tanto per il grido d'ognuno, animosamente si cavò l'abito, d'età d'anni XVII.
E trovandosi nella Marca d'Ancona, diportandosi un giorno con certi amici suoi in una barchetta per mare, furono tutti insieme dalle fuste de' Mori, che per quei luoghi scorrevano, presi e menati in Barberia, e messo ciascuno di loro alla catena e tenuto schiavo, dove stette con molto disagio per XVIII mesi.
Ma perché un giorno, avendo egli molto in pratica il padrone, gli venne commodità e capriccio di ritrarlo, preso un carbone spento del fuoco, con quello tutto intero lo ritrasse co' suoi abiti indosso alla moresca, in un muro bianco; onde, essendo dagli altri schiavi detto questo al padrone, perché a tutti un miracolo pareva, non s'usando il disegno né la pittura in quelle parti, ciò fu causa della sua liberazione dalla catena dove per tanto tempo era stato tenuto.
Veramente è gloria di questa virtù grandissima, che uno a cui è conceduto per legge di poter condennare e punire, faccia tutto il contrario, anzi in cambio di supplicio e di morte, s'induca a far carezze e dare libertà.
Avendo poi lavorato alcune cose di colore al detto suo padrone, fu condotto sicuramente a Napoli, dove egli dipinse al re Alfonso, allora Duca di Calavria, una tavola a tempera nella cappella del castello dove oggi sta la guardia.
Appresso gli venne volontà di ritornare a Fiorenza dove dimorò alcuni mesi; e lavorò alle donne di S.
Ambruogio all'altare maggiore una bellissima tavola, la quale molto grato lo fece a Cosimo de' Medici, che per questa cagione divenne suo amicissimo.
Fece anco nel capitolo di Santa Croce una tavola, et un'altra che fu posta nella cappella in casa Medici, e dentro vi fece la Natività di Cristo; lavorò ancora per la moglie di Cosimo detto, una tavola con la medesima Natività di Cristo e San Giovanni Batista, per mettere all'ermo di Camaldoli, in una delle celle de' romiti che ella aveva fatta fare per sua divozione, intitolata a S.
Giovanni Batista; et alcune storiette che si mandarono a donare da Cosimo a Papa Eugenio IIII viniziano, laonde fra' Filippo molta grazia di quest'opera acquistò appresso il Papa.
Dicesi ch'era tanto venereo, che vedendo donne che gli piacessero, se le poteva avere, ogni sua facultà donato le arebbe; e non potendo, per via di mezzi, ritraendole in pittura, con ragionamenti la fiamma del suo amore intiepidiva.
Et era tanto perduto dietro a questo appetito, che all'opere prese da lui quando era di questo umore, poco o nulla attendeva.
Onde una volta fra l'altre, Cosimo de' Medici, faccendoli fare una opera in casa sua, lo rinchiuse perché fuori a perder tempo non andasse, ma egli statoci già due giorni, spinto da furore amoroso, anzi bestiale, una sera con un paio di forbici fece alcune liste de' lenzuoli del letto, e da una finestra calatosi, attese per molti giorni a' suoi piaceri.
Onde, non lo trovando e facendone Cosimo cercare, alfine pur lo ritornò al lavoro; e da allora in poi gli diede libertà che a suo piacere andasse, pentito assai d'averlo per lo passato rinchiuso, pensando alla pazzia sua et al pericolo che poteva incorrere; per il che sempre con carezze s'ingegnò di tenerlo per l'avvenire, e così da lui fu servito con più prestezza, dicendo egli che l'eccellenze degli ingegni rari sono forme celesti e non asini vetturini.
Lavorò una tavola nella chiesa di S.
Maria Primerana in su la piazza di Fiesole, dentrovi una Nostra Donna annunziata dall'Angelo, nella quale è una diligenza grandissima, e nella figura dell'Angelo tanta bellezza che e' pare veramente cosa celeste.
Fece alle monache delle Murate due tavole, una della Annunziata, posta allo altar maggiore, l'altra nella medesima chiesa a un altare, dentrovi storie di San Benedetto e di San Bernardo, e nel palazzo della Signoria dipinse in tavola un'Annunziata sopra una porta, e similmente fece in detto palazzo un San Bernardo sopra un'altra porta, e nella sagrestia di San Spirito di Fiorenza una tavola con una Nostra Donna et Angeli d'attorno e Santi da lato, opera rara e da questi nostri maestri stata sempre tenuta in grandissima venerazione.
In S.
Lorenzo, alla cappella degli Operai, lavorò una tavola con un'altra Annunziata; et a quella della Stufa, una che non è finita.
In S.
Apostolo di detta città, in una cappella, dipinse in tavola alcune figure intorno a una nostra Donna; et in Arezzo, a Messer Carlo Marsupini, la tavola della cappella di S.
Bernardo ne' monaci di Monte Oliveto, con la incoronazione di Nostra Donna e molti santi attorno, mantenutasi così fresca che pare fatta dalle mani di fra' Filippo al presente.
Dove dal sopra detto Messer Carlo gli fu detto che egli avvertisse alle mani che dipigneva, perché molto le sue cose erano biasimate.
Per il che fra' Filippo nel dipignere da indi innanzi, la maggior parte, o con panni o con altra invenzione, ricoperse per fuggire il predetto biasimo.
Nella quale opera ritrasse di naturale detto Messer Carlo.
Lavorò in Fiorenza alle monache di Analena una tavola d'un presepio, et in Padova si veggono ancora alcune pitture.
Mandò di sua mano a Roma due storiette di figure picciole al cardinal Barbo, le quali erano molto eccellentemente lavorate e condotte con diligenzia.
E certamente egli con maravigliosa grazia lavorò, e finitissimamente unì le cose sue, per le quali sempre dagli artefici in pregio e da' moderni maestri è stato con somma lode celebrato; et ancora mentre che l'eccellenza di tante sue fatiche la voracità del tempo terrà vive, sarà da ogni secolo avuto in venerazione.
In Prato ancora vicino a Fiorenza dove aveva alcuni parenti, in compagnia di fra' Diamante del Carmine, stato suo compagno e novizio insieme, dimorò molti mesi lavorando per tutta la terra assai cose.
Essendogli poi, dalle monache di Santa Margherita, data a fare la tavola dell'altar maggiore, mentre vi lavorava gli venne un giorno veduta una figliuola di Francesco Buti cittadin fiorentino, la quale o in serbanza o per monaca era quivi.
Fra' Filippo dato l'occhio alla Lucrezia, che così era il nome della fanciulla, la quale aveva bellissima grazia et aria, tanto operò con le monache che ottenne di farne un ritratto, per metterlo in una figura di Nostra Donna per l'opra loro; e con questa occasione innamoratosi maggiormente, fece poi tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia da le monache e la menò via il giorno appunto ch'ella andava a vedere mostrar la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello.
Di che le monache molto per tal caso furono svergognate, e Francesco suo padre non fu mai più allegro e fece ogni opera per riaverla, ma ella o per paura o per altra cagione, non volle mai ritornare, anzi starsi con Filippo il quale n'ebbe un figliuol maschio, che fu chiamato Filippo egli ancora, e fu poi, come il padre, molto eccellente e famoso pittore.
In S.
Domenico di detto Prato sono due tavole, et una Nostra Donna nella chiesa di S.
Francesco nel tramezzo, il quale levandosi di dove prima era, per non guastarla, tagliarono il muro dove era dipinto, et allacciatolo con legni attorno lo trasportarono in una parete della chiesa dove si vede ancora oggi.
E nel Ceppo di Francesco di Marco, sopra un pozzo in un cortile, è una tavoletta di man del medesimo col ritratto di detto Francesco di Marco, autore e fondatore di quella casa pia.
E nella pieve di detto castello fece in una tavolina sopra la porta del fianco, salendo le scale, la morte di S.
Bernardo, che rende la sanità, toccando la bara, a molti storpiati; dove sono frati che piangono il loro morto maestro, ch'è cosa mirabile a vedere le belle arie di teste, nella mestizia del pianto con arteficio e naturale similitudine contrafatte.
Sonvi alcuni panni di cocolle di frati che hanno bellissime pieghe e meritano infinite lodi, per lo buon disegno, colorito, componimento e per la grazia e proporzione, che in detta opra si vede, condotta dalla delicatissima mano di fra' Filippo.
Gli fu allogato dagli Operai della detta pieve per avere memoria di lui, la cappella dello altar maggiore di detto luogo, dove mostrò tanto del valor suo in questa opera ch'oltra la bontà e l'arteficio di essa, vi sono panni e teste mirabilissime.
Fece in questo lavoro le figure maggiori del vivo, dove introdusse poi negli altri artefici moderni il modo di dar grandezza, alla maniera d'oggi.
Sonvi alcune figure con abbigliamenti in quel tempo poco usati, dove cominciò a destare gli animi delle genti a uscire di quella semplicità che più tosto vecchia che antica si può nominare.
In questo lavoro sono le storie di S.
Stefano, titolo di detta pieve, partite nella faccia della banda destra, cioè la disputazione, lapidazione e morte di detto protomartire; nella faccia del quale disputante contra i Giudei dimostrò tanto zelo e tanto fervore, che egli è cosa difficile ad imaginarlo nonché ad esprimerlo, e nei volti e nelle varie attitudini di essi Giudei l'odio, lo sdegno e la collera del vedersi vinto da lui; sì come più apertamente ancora fece apparire la bestialità e la rabbia in coloro che l'uccidono con le pietre, avendole afferrate chi grandi e chi piccole, con uno strignere di denti orribile, e con gesti tutti crudeli e rabbiosi.
E nientedimeno, infra sì terribile assalto, S.
Stefano sicurissimo e col viso levato al cielo, si dimostra con grandissima carità e fervore supplicare a l'Eterno Padre, per quegli stessi che lo uccidono.
Considerazioni certo bellissime e da far conoscere altrui quanto vaglia la invenzione et il saper esprimer gl'affetti nelle pitture.
Il che sì bene osservò costui, che in coloro che sotterrano S.
Stefano fece attitudini sì dolenti et alcune teste sì afflitte e dirotte nel pianto, che non è a pena possibile di guardarle senza commuoversi.
Da l'altra banda fece la natività, la predica, il battesimo, la cena d'Erode, e la decollazione di S.
Giovanni Batista, dove nella faccia di lui predicante, si conosce il divino spirito, e nelle turbe che ascoltano, i diversi movimenti e l'allegrezza e l'afflizione, così nelle donne come negli uomini, astratti e sospesi tutti negli ammaestramenti di S.
Giovanni.
Nel battesimo si riconosce la bellezza e la bontà; e nella cena di Erode, la maestà del convito, la destrezza di Erodiana, lo stupore de' convitati e lo attristamento fuori di maniera nel presentarsi la testa tagliata dentro al bacino.
Veggonsi intorno al convito infinite figure con molto belle attitudini e ben condotte, e di panni e di arie di visi, tra i quali ritrasse allo specchio se stesso vestito di nero in abito da prelato, et il suo discepolo fra' Diamante dove si piange S.
Stefano.
Et invero questa opera fu la più eccellente di tutte le cose sue, sì per le considerazioni dette di sopra, e sì per aver fatto le figure alquanto maggiori che il vivo; il che dette animo a chi venne dopo lui di ringrandire la maniera.
Fu tanto per le sue buone qualità stimato, che molte cose che di biasimo erano alla vita sua, furono ricoperte mediante il grado di tanta virtù.
Ritrasse in questa opera Messer Carlo figlio naturale di Cosimo de' Medici, il quale era allora proposto di quella chiesa, la quale fu da lui e dalla sua casa molto beneficata.
Finita che ebbe quest'opera l'anno 1463, dipinse a tempera una tavola per la chiesa di S.
Iacopo di Pistoia, dentrovi una Nunziata molto bella per Messer Iacopo Bellucci, il qual vi ritrasse di naturale molto vivamente.
In casa di Pulidoro Bracciolini è in un quadro una Natività di Nostra Donna di sua mano; e nel magistrato degl'Otto di Firenze è, in un mezzo tondo dipinto a tempera, una Nostra Donna col Figliuolo in braccio.
In casa Lodovico Caponi in un altro quadro una Nostra Donna bellissima; et appresso di Bernardo Vecchietto gentiluomo fiorentino, e tanto virtuoso e da bene quanto più non saperei dire, è di mano del medesimo in un quadretto piccolo un S.
Agostino che studia, bellissimo.
Ma molto meglio è un S.
Ieronimo in penitenzia, della medesima grandezza in guardaroba del duca Cosimo.
E se fra' Filippo fu raro in tutte le sue pitture, nelle piccole superò se stesso, perché le fece tanto graziose e belle, che non si può far meglio, come si può vedere nelle predelle di tutte le tavole che fece.
Insomma fu egli tale che ne' tempi suoi niuno lo trapassò, e ne' nostri, pochi; e Michelagnolo l'ha non pur celebrato sempre, ma imitato in molte cose.
Fece ancora per la chiesa di S.
Domenico vecchio di Perugia, che poi è stata posta all'altar maggiore, una tavola, dentrovi la Nostra Donna, S.
Piero, S.
Paulo, S.
Lodovico e S.
Antonio abbate.
Messer Alessandro degl'Alessandri, allora cavaliere et amico suo, gli fece fare per la sua chiesa di Villa a Vincigliata nel poggio di Fiesole, in una tavola, un S.
Lorenzo et altri Santi, ritraendovi lui e dua suoi figliuoli.
Fu fra' Filippo molto amico delle persone allegre e sempre lietamente visse.
A fra' Diamante fece imparare l'arte della pittura, il quale nel Carmino di Prato lavorò molte pitture, e della maniera sua imitandola, assai si fece onore, perché e' venne a ottima perfezzione.
Stette con fra' Filippo in sua gioventù Sandro Boticello, Pisello, Iacopo del Sellaio fiorentino, che in S.
Friano fece due tavole et una nel Carmino lavorata a tempera, et infiniti altri maestri ai quali sempre con amorevolezza insegnò l'arte.
De le fatiche sue visse onoratamente, e straordinariamente spese nelle cose d'amore; delle quali del continuo, mentre che visse, fino a la morte si dilettò.
Fu richiesto, per via di Cosimo de' Medici, dalla comunità di Spoleti di fare la cappella nella chiesa principale della Nostra Donna, la quale lavorando insieme con fra' Diamante condusse a bonissimo termine, ma sopravenuto dalla morte non la potette finire.
Perciò che dicono che essendo egli tanto inclinato a questi suoi beati amori, alcuni parenti della donna da lui amata lo fecero avvelenare.
Finì il corso della vita sua fra' Filippo di età d'anni 57 nel 1438, et a fra' Diamante lasciò in governo per testamento Filippo suo figliuolo, il quale, fanciullo di dieci anni, imparando l'arte da fra' Diamante, seco se ne tornò a Fiorenza, portandosene fra' Diamante 300 ducati che per l'opera fatta si restavano ad avere da le comunità, de' quali comperati alcuni beni per sé proprio, poca parte fece al fanciullo.
Fu acconcio Filippo con Sandro Botticello, tenuto allora maestro bonissimo; et il vecchio fu sotterrato in un sepolcro di marmo rosso e bianco, fatto porre dagli Spoletini nella chiesa che e' dipigneva.
Dolse la morte sua a molti amici et a Cosimo de' Medici particolarmente et a papa Eugenio, il quale in vita sua volle dispensarlo, che potesse avere per sua donna legitima la Lucrezia di Francesco Buti, la quale per potere far di sé e dell'appetito suo come gli paresse, non si volse curare d'avere.
Mentre che Sisto IIII viveva, Lorenzo de' Medici, fatto ambasciator da' Fiorentini, fece la via di Spoleti, per chiedere a quella comunità il corpo di fra' Filippo per metterlo in S.
Maria del Fiore in Fiorenza; ma gli fu risposto da loro che essi avevano carestia d'ornamento, e massimamente d'uomini eccellenti, per che per onorarsi gliel domandarono in grazia, aggiugnendo che avendo in Fiorenza infiniti uomini famosi, e quasi di superchio, che e' volesse fare senza questo, e così non l'ebbe altrimenti.
Bene è vero che deliberatosi poi di onorarlo in quel miglior modo ch'e' poteva, mandò Filippino suo figliuolo a Roma al cardinale di Napoli, per fargli una cappella.
Il quale passando da Spoleti, per commessione di Lorenzo, fece fargli una sepoltura di marmo sotto l'organo e sopra la sagrestia, dove spese cento ducati d'oro, i quali pagò Nofri Tornaboni maestro del banco de' Medici, e da Messer Agnolo Poliziano gli fece fare il presente epigramma, intagliato in detta sepoltura di lettere antiche:
Conditus hic ego sum picturae fama Philippus;
nulli ignota meae est gratia mira manus.
Artifices potui digitis animare colores;
sperataque animos fallere voce diu.
Ipsa meis stupuit natura expressa figuris;
meque suis fassa est artibus esse parem.
Marmoreo tumulo Medices Laurentius hic me
condidit; ante humili pulvere tectus eram.
Disegnò fra' Filippo benissimo, come si può vedere nel nostro libro di disegni de' più famosi dipintori, e particolarmente in alcune carte, dove è disegnata la tavola di S.
Spirito et in altre dove è la cappella di Prato.
FINE DELLA VITA DI FRA' FILIPPO PITTORE FIORENTINO
VITA DI PAULO ROMANO E DI MAESTRO MINO SCULTORI E DI CHIMENTI CAMICIA ARCHITETTO
Segue ora che noi parliamo di Paolo Romano e di Mino del Regno, coetanei e della medesima professione, ma molto differenti nelle qualità de' costumi e dell'arte, perché Pagolo fu modesto et assai valente, Mino di molto minor valore ma tanto prosuntuoso et arrogante, che oltra il far suo pien di superbia con le parole, ancora alzava fuor di modo le proprie fatiche.
Nel farsi allogazione da Pio Secondo pontefice a Paulo scultor romano d'una figura, egli tanto per invidia lo stimolò et infestollo, che Paolo, il quale era buona et umilissima persona, fu sforzato a risentirsi.
Laonde Mino, sbuffando, con Paulo voleva giucare mille ducati a fare una figura con esso lui, e questo con grandissima prosunzione et audacia diceva, conoscendo egli la natura di Paulo, che non voleva fastidi, non credendo egli che tal partito accettasse.
Ma Paulo accettò l'invito; e Mino mezzo pentito, solo per onore suo cento ducati giuocò.
Fatta la figura fu dato a Paulo il vanto, come raro et eccellente ch'egli era; e Mino fu scorto per quella persona nell'arte, che più con le parole che con l'opre valeva.
Sono di mano di Mino a Monte Cassino, luogo de' Monaci neri del regno di Napoli, una sepoltura, et in Napoli alcune cose di marmo.
In Roma il San Piero e San Paolo, che sono a' piè delle scale di San Pietro et in San Pietro la sepoltura di papa Paolo Secondo.
E la figura che fece Paulo a concorrenza di Mino fu il San Paulo, ch'all'entrata del ponte Sant'Angelo, su un basamento di marmo si vede; il quale molto tempo stette inanzi alla cappella di Sisto Quarto, non conosciuto.
Avvenne poi che Clemente Settimo pontefice un giorno diede d'occhio a questa figura, e per essere egli di tali essercizii intendente e giudicioso, gli piacque molto.
Per il che egli deliberò di far fare un San Pietro della grandezza medesima, et insieme, alla entrata di Ponte Sant'Angelo, dove erano dedicate a questi apostoli due cappellette di marmo, levar quelle che impedivano la vista al castello e mettervi queste due statue.
Si legge nell'opera d'Antonio Filareto che Paulo fu non pure scultore ma valente orefice e che lavorò in parte i dodici Apostoli d'argento che inanzi al sacco di Roma si tenevano sopra l'altar della capella papale, nei quali lavorò ancora Niccolò della Guardia e Pietropaulo da Todi, che furono discepoli di Paulo e poi ragionevoli maestri nella scultura: come si vede nelle sepolture di papa Pio II e del Terzo, nelle quali sono i detti duoi pontefici ritratti di naturale; e di mano dei medesimi si veggiono in medaglia tre imperadori et altri personaggi grandi, et il detto Paulo fece una statua d'un uomo armato a cavallo che oggi è per terra in San Piero, vicino alla cappella di Santo Andrea.
Fu creato di Paulo Iancristoforo romano, che fu valente scultore, e sono alcune opere di sua mano in Santa Maria [in] Trastevere et altrove.
Chimenti Camicia, del quale non si sa altro quanto all'origine sua, se non che fu fiorentino, stando al servigio del re d'Ungheria, gli fece palazzi, giardini, fontane, tempii, fortezze et altre molte muraglie d'importanza, con ornamenti, intagli, palchi lavorati et altre simili cose, che furono con molta diligenza condotti da Baccio Cellini.
Dopo le quali opere, Chimenti, come amorevole della patria, se ne tornò a Firenze, et a Baccio che là si rimase, mandò, perché le desse al re, alcune pitture di mano di Berto linaiuolo, le quali furono in Ungheria tenute bellissime e da quel re molto lodate.
Il qual Berto (non tacerò anco questo di lui) dopo aver molti quadri con bella maniera lavorati, che sono nelle case di molti cittadini, si morì appunto in sul fiorire, troncando la buona speranza che si aveva di lui.
Ma tornando a Chimenti, egli, stato non molto tempo in Firenze, se ne tornò in Ungheria dove, continuando nel servizio del re, prese, andando su per il Danubio a dar disegni di molina, per la stracchezza un'infermità, che in pochi giorni lo condusse all'altra vita.
L'opere di questi maestri furono nel 1470 in circa.
Visse ne' medesimi tempi et abitò Roma al tempo di papa Sisto Quarto, Baccio Pintelli fiorentino, il qual per la buona pratica che ebbe nelle cose d'architettura, meritò che il detto Papa in ogni sua impresa di fabriche se ne servisse.
Fu fatta dunque col disegno di costui la chiesa e convento di S.
Maria del Popolo, et in quella alcune cappelle con molti ornamenti, e particolarmente quella di Domenico della Rovere cardinale di San Clemente e nipote di quel Papa.
Il medesimo fece fare col disegno di Baccio un palazzo in Borgo vecchio, che fu allora tenuto molto bello e ben considerato edifizio.
Fece il medesimo sotto le stanze di Nicola la libreria maggiore, et in palazzo la cappella detta di Sisto, la quale è ornata di belle pitture.
Rifece similmente la fabrica del nuovo spedale di Santo Spirito in Sassi, la quale era l'anno 1471 arsa quasi tutta da' fondamenti; aggiugnendovi una lunghissima loggia e tutte quelle utili commodità che si possono disiderare.
E dentro nella lunghezza dello spedale fece dipignere storie della vita di papa Sisto dalla nascita insino alla fine di quella fabrica, anzi insino al fine della sua vita.
Fece anco il ponte, che dal nome di quel pontefice è detto ponte Sisto, che fu tenuto opera eccellente per averlo fatto Baccio sì gagliardo di spalle e così ben carico di peso, che egli è fortissimo e benissimo fondato.
Parimente l'anno del Giubileo del 1475 fece molte nuove chiesette per Roma, che si conoscono all'arme di papa Sisto, et in particolare Santo Apostolo, San Pietro in Vincula e San Sisto.
Et al cardinal Guglielmo, vescovo d'Ostia, fece il modello della sua chiesa e della facciata e delle scale, in quel modo che oggi si veggiono.
Affermano molti che il disegno della chiesa a San Piero a Montorio in Roma fu di mano di Baccio, ma io non posso dire con verità d'avere trovato che così sia.
La qual chiesa fu fabricata a spese del re di Portogallo, quasi nel medesimo tempo che la nazione spagnuola fece far in Roma la chiesa di San Iacopo.
Fu la virtù di Baccio tanto da quel Pontefice stimata, che non averebbe fatto cosa alcuna di muraglia senza il parere di lui; onde l'anno 1480, intendendo che minacciava rovina la chiesa e convento di S.
Francesco d'Ascesi, vi mandò Baccio, il quale facendo di verso il piano un puntone gagliardissimo, assicurò del tutto quella maravigliosa fabrica.
Et in uno sprone fece porre la statua di quel Pontefice, il quale non molti anni inanzi aveva fatto fare in quel convento medesimo molti apartamenti di camere e sale, che si riconoscono, oltre all'esser magnifiche, all'arme che vi si vede del detto Papa; e nel cortile n'è una molto maggior che l'altre, con alcuni versi latini in lode d'esso papa Sisto IIII, il qual dimostrò a' molti segni aver quel santo luogo in molta venerazione.
VITA D'ANDREA DAL CASTAGNO DI MUGELLO E DI DOMENICO VINIZIANO PITTORI
Quanto sia biasimevole in una persona eccellente il vizio della invidia, che in nessuno doverebbe ritrovarsi, e quanto scelerata et orribil cosa il cercare sotto spezie d'una simulata amicizia, spegnere in altri, non solamente la fama e la gloria, ma la vita stessa, non credo io certamente che ben sia possibile esprimersi con parole, vincendo la sceleratezza del fatto ogni virtù e forza di lingua, ancora che eloquente.
Per il che, senza altrimenti distendermi in questo discorso, dirò solo che ne' sì fatti alberga spirito, non dirò inumano e fero, ma crudele in tutto e diabolico, tanto lontano da ogni virtù, che non solamente non sono più uomini, ma né animali ancora, né degni di vivere.
Conciò sia che quanto la emulazione e la concorrenza, che virtuosamente operando cerca vincere e soverchiare i da più di sé per acquistarsi gloria et onore, è cosa lodevole e da essere tenuta in pregio come necessaria ed utile al mondo, tanto per l'opposito, e molto più, merita biasimo e vituperio la sceleratissima invidia, che non sopportando onore o pregio in altrui si dispone a privar di vita chi ella non può spogliare de la gloria, come fece lo sciaurato Andrea dal Castagno, la pittura e disegno del quale fu per il vero eccellente e grande, ma molto maggiore il rancore e la invidia che e' portava agli altri pittori, di maniera che con le tenebre del peccato sotterrò e nascose lo splendor della sua virtù.
Costui per esser nato in una piccola villetta detta il Castagno, nel Mugello, contado di Firenze, se la prese per suo cognome quando venne a stare in Fiorenza; il che successe in questa maniera; essendo egli nella prima sua fanciullezza rimaso senza padre, fu raccolto da un suo zio che lo tenne molti anni a guardare gli armenti, per vederlo pronto e svegliato e tanto terribile, che sapeva far riguardare non solamente le sue bestiuole, ma le pasture et ogni altra cosa che attenesse al suo interesse.
Continuando, adunque, in tale esercizio, avvenne che fuggendo un giorno la pioggia, si abbatté a caso in un luogo, dove uno di questi dipintori di contado che lavorano a poco pregio dipigneva un tabernacolo d'un contadino, onde Andrea, che mai più non aveva veduta simil cosa, assalito da una sùbita maraviglia, cominciò attentissimamente a guardare e considerare la maniera di tale lavoro.
E gli venne subito un desiderio grandissimo et una voglia sì spasimata di quell'arte, che senza mettere tempo in mezzo, cominciò per le mure e su per le pietre co' carboni o con la punta del coltello, a sgraffiare et a disegnare animali e figure, sì fattamente che e' moveva non piccola maraviglia in chi le vedeva.
Cominciò dunque a correr la fama tra' contadini, di questo nuovo studio di Andrea onde, pervenendo (come volle la sua ventura) questa cosa agli orecchi d'un gentiluomo fiorentino, chiamato Bernardetto de' Medici, che quivi aveva sue possessioni, volle conoscere questo fanciullo; e vedutolo finalmente et uditolo ragionare con molta prontezza, lo dimandò se egli farebbe volentieri l'arte del dipintore; e rispondendoli Andrea che e' non potrebbe avvenirli cosa più grata, né che quanto questa mai gli piacesse, a cagione che e' venisse perfetto in quella, ne lo menò con seco a Fiorenza, e con uno di que' maestri che erano allora tenuti migliori, lo acconciò a lavorare.
Per il che seguendo Andrea l'arte della pittura, et agli studii di quella datosi tutto, mostrò grandissima intelligenza nelle difficultà dell'arte, e massimamente nel disegno.
Non fece già così poi nel colorire le sue opere, le quali facendo alquanto crudette et aspre, diminuì gran parte della bontà e grazia di quelle, e massimamente una certa vaghezza che nel suo colorito non si ritruova.
Era gagliardissimo nelle movenze delle figure e terribile nelle teste de' maschi e delle femmine, faccendo gravi gli aspetti loro e con buon disegno.
Le opere di man sua furono da lui dipinte, nel principio della sua giovanezza, nel chiostro di San Miniato al Monte, quando si scende di chiesa per andare in convento, di colori a fresco, una storia di San Miniato e San Cresci, quando dal padre e dalla madre si partono.
Erano in San Benedetto, bellissimo monasterio fuor della porta a Pinti, molte pitture di mano d'Andrea in un chiostro et in chiesa, delle quali non accade far menzione, essendo andate in terra per l'assedio di Firenze.
Dentro alla città, nel monasterio de' monaci degl'Angeli, nel primo chiostro dirimpetto alla porta principale, dipinse il Crucifisso che vi è ancor oggi, la Nostra Donna, San Giovanni, e San Benedetto e San Romualdo.
E nella testa del chiostro che è sopra l'orto, ne fece un altro simile, variando solamente le teste e poche altre cose.
In Santa Trinita, allato alla cappella di maestro Luca, fece un Santo Andrea.
A Legnaia dipinse a Pandolfo Pandolfini in una sala molti uomini illustri.
E per la Compagnia del Vangelista un segno da portare a processione, tenuto bellissimo.
Ne' Servi di detta città lavorò in fresco tre nicchie piane, in certe cappelle; l'una è quella di San Giuliano, dove sono storie della vita d'esso Santo con buon numero di figure et un cane in iscorto che fu molto lodato; sopra questa, nella cappella intitolata a S.
Girolamo, dipinse quel Santo secco e raso, con buon disegno e molta fatica, e sopra vi fece una Trinità, con un Crucifisso che scorta, tanto ben fatto, che Andrea merita per ciò esser molto lodato, avendo condotto gli scorti con molto miglior e più moderna maniera, che gl'altri inanzi a lui fatto non avevano.
Ma questa pittura, essendovi stato posto sopra dalla famiglia de' Montaguti una tavola, non si può più vedere.
Nella terza, che è a lato a quella che è sotto l'organo, la quale fece fare Messer Orlando de' Medici, dipinse Lazzaro, Marta e Maddalena.
Alle monache di San Giuliano fece un Crucifisso a fresco sopra la porta, una Nostra Donna, un San Domenico, un San Giuliano et uno San Giovanni, la quale pittura, che è delle migliori che facesse Andrea, è da tutti gl'artefici universalmente lodata.
Lavorò in Santa Croce alla cappella de' Cavalcanti un San Giovanni Battista et un San Francesco, che sono tenute bonissime figure; ma quello che fece stupire gl'artefici, fu che nel chiostro nuovo del detto convento, cioè in testa dirimpetto alla porta, dipinse a fresco un Cristo battuto alla colonna, bellissimo, facendovi una loggia con colonne in prospettiva, con crociere di volte a liste diminuite, e le pareti commesse a mandorle, con tanta arte e con tanto studio, che mostrò di non meno intendere le difficultà della prospettiva, che si facesse il disegno nella pittura.
Nella medesima storia sono belle e sforzatissime l'attitudini di coloro che flagellano Cristo, dimostrando così essi nei volti l'odio e la rabbia, sì come pazienza et umiltà Gesù Cristo, nel corpo del quale, arrandellato e stretto con funi alla colonna, pare che Andrea tentasse di mostrare il patir della carne, e che la divinità nascosa in quel corpo serbasse in sé un certo splendore di nobiltà; dal quale mosso, Pilato che siede tra' suoi consiglieri, pare che cerchi di trovar modo per liberarlo.
Et insomma è così fatta questa pittura che s'ella non fusse stata graffiata e guasta, per la poca cura che l'è stata avuta, da' fanciulli et altre persone semplici che hanno sgraffiate le teste tutte e le braccia e quasi il resto della persona de' Giudei, come se così avessino vendicato l'ingiuria del Nostro Signore contro di loro, ella sarebbe certo bellissima tra tutte le cose d'Andrea.
Al quale, se la natura avesse dato gentilezza nel colorire, come ella gli diede invenzione e disegno, egli sarebbe veramente stato tenuto maraviglioso.
Dipinse in Santa Maria del Fiore l'imagine di Niccolò da Tolentino a cavallo, e perché lavorandola un fanciullo che passava dimenò la scala, egli venne in tanta còlera, come bestiale uomo che egli era, che sceso gli corse dietro insino al canto de' Pazzi.
Fece ancora nel cimitero di S.
Maria Nuova in fra l'Ossa un Santo Andrea che piacque tanto, che gli fu fatto poi dipignere nel reffettorio dove i servigiali et altri ministri mangiano, la cena di Cristo con gl'Apostoli, per lo che acquistato grazia con la casa de' Portinari e con lo spedalingo, fu datogli a dipignere una parte della cappella maggiore, essendo stata allogata l'altra ad Alesso Baldovinetti, e la terza al molto allora celebrato pittore Domenico da Vinezia, il quale era stato condotto a Firenze per lo nuovo modo che egli aveva di colorire a olio.
Attendendo dunque ciascuno di costoro all'opera sua, aveva Andrea grandissima invidia a Domenico, perché se bene si conosceva più eccellente di lui nel disegno, aveva nondimeno per male che, essendo forestiero, egli fusse da' cittadini carezzato e trattenuto; e tanta ebbe forza in lui perciò la còlera e lo sdegno, che cominciò andar pensando, o per una o per altra via di levarselo dinanzi.
E perché era Andrea non meno sagace simulatore che egregio pittore, allegro quando voleva nel volto, della lingua spedito e d'animo fiero et in ogni azzione del corpo, così come era della mente, risoluto, ebbe così fatto animo con altri come con Domenico, usando nell'opere degl'artefici di segnare nascosamente col graffiare dell'ugna, se errore vi conosceva.
E quando nella sua giovanezza furono in qualche cosa biasimate l'opere sue, fece a cotali biasimatori con percosse et altre ingiurie conoscere che sapeva e voleva sempre, in qualunche modo, vendicarsi delle ingiurie.
Ma per dire alcuna cosa di Domenico, prima che venghiamo all'opera della cappella, avanti che venisse a Firenze, egli aveva nella sagrestia di S.
Maria di Loreto, in compagnia di Piero della Francesca, dipinto alcune cose con molta grazia, che l'avevano fatto per fama, oltre quello che aveva fatto in altri luoghi, come in Perugia una camera in casa de' Baglioni, che oggi è rovinata, conoscere in Fiorenza.
Dove essendo poi chiamato, prima che altro facesse, dipinse in sul canto de' Carnesecchi, nell'angolo delle due vie che vanno l'una alla nuova, l'altra alla vecchia piazza di S.
Maria Novella, in un tabernacolo a fresco una Nostra Donna in mezzo d'alcuni santi.
La qual cosa, perché piacque e molto fu lodata dai cittadini e dagl'artefici di que' tempi, fu cagione che s'accendesse maggiore sdegno et invidia nel maladetto animo d'Andrea contra il povero Domenico: per che, deliberato di far con inganno e tradimento quello che senza suo manifesto pericolo non poteva fare alla scoperta, si finse amicissimo d'esso Domenico; il quale, perché buona persona era et amorevole, cantava di musica e si dilettava di sonare il liuto, lo ricevette volentieri in amicizia, parendogli Andrea persona d'ingegno e sollazzevole.
E così continuando questa, da un lato vera e dall'altro finta, amicizia, ogni notte si trovavano insieme a far buon tempo e serenate a loro inamorate; di che molto si dilettava Domenico; il qual amando Andrea da dovero, gli insegnò il modo di colorire a olio che ancora in Toscana non si sapeva.
Fece dunque Andrea, per procedere ordinatamente, nella sua facciata della cappella di S.
Maria Nuova, una Nunziata che è tenuta bellissima per avere egli in quell'opera dipinto l'Angelo in aria, il che non si era insino allora usato.
Ma molto più bell'opera è tenuta dove fece la Nostra Donna che sale i gradi del tempio, sopra i quali figurò molti poveri, e fra gl'altri uno che con un boccale dà in su la testa ad un altro; e non solo questa figura ma tutte l'altre sono belle affatto, avendole egli lavorate con molto studio et amore, per la concorrenza di Domenico.
Vi si vede anco tirato in prospettiva, in mezzo d'una piazza, un tempio a otto facce isolato e pieno di pilastri e nicchie, e nella facciata dinanzi benissimo adornato di figure finte di marmo; et intorno alla piazza è una varietà di bellissimi casamenti, i quali da un lato ribatte l'ombra del tempio, mediante il lume del sole, con molto bella, difficile et artifiziosa considerazione.
Dall'altra parte fece maestro Domenico, a olio, Gioachino che visita S.
Anna sua consorte, e di sotto il nascere di Nostra Donna, fingendovi una camera molto ornata et un putto che batte col martello l'uscio di detta camera con molta buona grazia.
Di sotto fece lo sposalizio d'essa Vergine con buon numero di ritratti di naturale, fra i quali è Messer Bernardetto de' Medici, conestabile de' Fiorentini, con un berettone rosso, Bernardo Guadagni, che era gonfaloniere, Folco Portinari et altri di quella famiglia.
Vi fece anco un nano che rompe una mazza, molto vivace, et alcune femine con abiti indosso vaghi e graziosi fuor di modo, secondo che si usavano in que' tempi.
Ma questa opera rimase imperfetta, per le cagioni che di sotto si diranno.
Intanto aveva Andrea nella sua facciata fatta a olio la morte di Nostra Donna, nella quale, per la detta concorrenza di Domenico e per essere tenuto quello che egli era veramente, si vede fatto con incredibile diligenza in iscorto un cataletto dentrovi la Vergine morta, il quale, ancora che non sia più che un braccio e mezzo di lunghezza, pare tre.
Intorno le sono gl'Apostoli fatti in una maniera che, se bene si conosce ne' visi loro l'allegrezza di veder esser portata la loro Madonna in cielo da Gesù Cristo, vi si conosce ancora l'amaritudine del rimanere in terra senz'essa.
Tra essi apostoli sono alcuni Angeli che tengono lumi accesi, con bell'aria di teste e sì ben condotti, che si conosce che egli così bene seppe maneggiare i colori a olio, come Domenico suo concorrente.
Ritrasse Andrea in queste pitture, di naturale, Messer Rinaldo degl'Albizi, Puccio Pucci, il Falgavaccio che fu cagione della liberazione di Cosimo de' Medici, insieme con Federigo Malevolti, che teneva le chiavi dell'Alberghetto; parimente vi ritrasse Messer Bernardo di Domenico della Volta, spedalingo di quel luogo, inginocchioni, che par vivo; et in un tondo nel principio dell'opere se stesso, con viso di Giuda Scariotto, come egl'era nella presenza e ne' fatti.
Avendo dunque Andrea condotta questa opera a bonissimo termine, accecato dall'invidia per le lodi che alla virtù di Domenico udiva dare, si deliberò levarselo d'attorno, e dopo aver pensato molte vie, una ne mise in essecuzione in questo modo; una sera di state, sì come era solito, tolto Domenico il liuto, uscì di S.
Maria Nuova, lasciando Andrea nella sua camera a disegnare, non avendo egli voluto accettar l'invito d'andar seco a spasso, con mostrare d'avere a fare certi disegni d'importanza.
Andato dunque Domenico da sé solo a' suoi piaceri, Andrea, sconosciuto, si mise ad aspettarlo dopo un canto, et arrivando a lui Domenico nel tornarsene a casa, gli sfondò con certi piombi il liuto e lo stomaco in un medesimo tempo; ma non parendogli d'averlo anco acconcio a suo modo, con i medesimi lo percosse in su la testa malamente, poi lasciatolo in terra se ne tornò in S.
Maria Nuova alla sua stanza e, socchiuso l'uscio, si rimase a disegnare in quel modo che da Domenico era stato lasciato.
Intanto essendo stato sentito il rumore, erano corsi i servigiali, intesa la cosa, a chiamare e dar la mala nuova allo stesso Andrea micidiale e traditore; il qual, corso dove erano gl'altri intorno a Domenico non si poteva consolare, né restar di dir: "Oimè fratel mio, oimè fratel mio".
Finalmente Domenico gli spirò nelle braccia, né si seppe, per diligenza che fusse fatta, chi morto l'avesse; e se Andrea, venendo a morte, non l'avesse nella confessione manifestato, non si saprebbe anco.
Dipinse Andrea in S.
Miniato fra le torri di Fiorenza una tavola, nella quale è una Assunzione di Nostra Donna con due figure, et alla Nave a l'Anchetta, fuor della porta alla Croce, in un tabernacolo, una Nostra Donna.
Lavorò il medesimo in casa de' Carducci, oggi de' Pandolfini, alcuni uomini famosi, parte imaginati e parte ritratti di naturale; fra questi è Filippo Spano degli Scolari, Dante, Petrarca, il Boccaccio et altri.
Alla Scarperia in Mugello dipinse sopra la porta del palazzo del vicario una Carità ignuda molto bella, che poi è stata guasta.
L'anno 1478, quando dalla famiglia de' Pazzi et altri loro aderenti e congiurati, fu morto in S.
Maria del Fiore Giuliano de' Medici e Lorenzo suo fratello ferito, fu deliberato dalla Signoria che tutti quelli della congiura fussino come traditori dipinti nella facciata del palagio del Podestà; onde essendo questa opera offerta ad Andrea, egli come servitore et obligato alla casa de' Medici, l'accettò molto ben volentieri; e messovisi la fece tanto bella che fu uno stupore, né si potrebbe dire quanta arte e giudizio si conosceva in que' personaggi ritratti per lo più di naturale, et impiccati per i piedi in strane attitudini e tutte varie e bellissime.
La qual opera perché piacque a tutta la città e particolarmente agl'intendenti delle cose di pittura, fu cagione che da quella in poi, non più Andrea dal Castagno, ma Andrea degl'Impiccati fusse chiamato.
Visse Andrea onoratamente, e perché spendava assai e particolarmente in vestire et in stare onorevolmente in casa, lasciò poche facultà quando d'anni 71 passò ad altra vita.
Ma perché si riseppe, poco dopo la morte sua, l'impietà adoperata verso Domenico che tanto l'amava, fu con odiose essequie sepolto in S.
Maria Nuova, dove similmente era stato sotterrato l'infelice Domenico d'anni cinquantasei.
E l'opera sua cominciata in S.
Maria Nuova rimase imperfetta e non finita del tutto; come aveva fatto la tavola dell'altar maggiore di S.
Lucia de' Bardi, nella quale è condotta con molta diligenza una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, S.
Giovanni Battista, S.
Nicolò, S.
Francesco e S.
Lucia; la qual tavola aveva poco inanzi che fusse morto, all'ultimo fine perfettamente condotta, etc.
Furono discepoli d'Andrea, Iacopo del Corso, che fu ragionevole maestro, Pisanello, il Marchino, Piero del Pollaiuolo e Giovanni da Rovezzano, etc.
FINE DELLA VITA D'ANDREA DAL CASTAGNO E DI DOMENICO VINIZIANO
VITA DI GENTILE DA FABRIANO E DI VITTORE PISANELLO VERONESE PITTORI
Grandissimo vantaggio ha chi resta in un avviamento dopo la morte d'uno che si abbia con qualche rara virtù onore procacciato e fama, perciò che senza molta fatica, solo che seguiti in qualche parte le vestigie del maestro, perviene quasi sempre ad onorato fine, dove, se per sé solo avesse a pervenire, bisognarebbe più lungo tempo e fatiche maggiori assai.
Il che, oltre molti altri, si potette vedere e toccare, come si dice, con mano in Pisano o vero Pisanello, pittore veronese; il quale, essendo stato molti anni in Fiorenza con Andrea dal Castagno, et avendo l'opere di lui finito, dopo che fu morto, s'acquistò tanto credito col nome d'Andrea, che venendo in Fiorenza papa Martino Quinto, ne lo menò seco a Roma, dove in S.
Ianni Laterano gli fece fare in fresco alcune storie, che sono vaghissime e belle al possibile; perché egli in quelle abondantissimamente mise una sorte d'azzurro oltramarino datogli dal detto Papa, sì bello e sì colorito che non ha avuto ancora paragone.
Et a concorrenza di costui dipinse Gentile da Fabriano alcune altre storie, sotto alle sopra dette; di che fa menzione il Platina nella vita di quel Pontefice, il quale narra che avendo fatto rifare il pavimento di San Giovanni Laterano, et il palco et il tetto, Gentile dipinse molte cose, et in fra l'altre figure, di terretta tra le finestre, in chiaro e scuro, alcuni profeti, che sono tenuti le migliori pitture di tutta quell'opera.
Fece il medesimo Gentile infiniti lavori nella Marca, e particolarmente in Agobbio, dove ancora se ne veggiono alcuni, e similmente per tutto lo stato d'Urbino.
Lavorò in S.
Giovanni di Siena, et in Fiorenza, nella sagrestia di Santa Trinita, fece in una tavola la storia de' Magi, nella quale ritrasse se stesso di naturale.
Et in San Niccolò alla porta a S.
Miniato, per la famiglia de' Quaratesi, fece la tavola dell'altar maggiore, che di quante cose ho veduto di mano di costui a me senza dubbio pare la migliore, perché oltre alla Nostra Donna e molti Santi che le sono intorno tutti ben fatti, la predella di detta tavola, piena di storie della vita di San Niccolò, di figure piccole non può essere più bella né meglio fatta di quello che ell'è.
Dipinse in Roma in S.
Maria Nuova sopra la sepoltura del cardinale Adimari fiorentino et arcivescovo di Pisa, la quale è allato a quella di papa Gregorio Nono in un archetto, la Nostra Donna col Figliuolo in collo, in mezzo a San Benedetto e San Giuseppo; la qual opera era tenuta in pregio dal divino Michelagnolo, il quale parlando di Gentile usava dire che nel dipignere aveva avuto la mano simile al nome.
In Perugia fece il medesimo una tavola in San Domenico, molto bella; et in S.
Agostino di Bari un Crucifisso dintornato nel legno, con tre mezze figure bellissime che sono sopra la porta del coro.
Ma tornando a Vittore Pisano, le cose che di lui si sono di sopra raccontate furono scritte da noi senza più, quando la prima volta fu stampato questo nostro libro, perché io non aveva ancora dell'opere di questo eccellente artefice quella cognizione e quel ragguaglio avuto, che ho avuto poi.
Per avisi dunque del molto reverendo e dottissimo padre fra' Marco de' Medici veronese, dell'ordine de' frati predicatori, sì come ancora racconta il Biondo da Furlì, dove nella sua Italia illustrata parla di Verona, fu costui in eccellenza pari a tutti i pittori dell'età sua, come oltre l'opere raccontate di sopra possono di ciò fare amplissima fede molte altre, che in Verona sua nobilissima patria si veggiono, se bene in parte quasi consumate dal tempo.
E perché si dilettò particolarmente di fare animali, nella chiesa di S.
Nastasia di Verona, nella cappella della famiglia de' Pellegrini, dipinse un Santo Eustachio, che fa carezze a un cane pezzato di tané e bianco, il quale co' piedi alzati et appoggiati alla gamba di detto Santo si rivolta col capo indietro, quasi che abbia sentito rumore, e fa questo atto con tanta vivezza che non lo farebbe meglio il naturale.
Sotto la qual figura si vede dipinto il nome d'esso Pisano, il quale usò di chiamarsi quando Pisano e quando Pisanello, come si vede e nelle pitture e nelle medaglie di sua mano.
Dopo la detta figura di S.
Eustachio, la quale è delle migliori che questo artefice lavorasse e veramente bellissima, dipinse tutta la facciata di fuori di detta cappella: dall'altra parte un S.
Giorgio armato d'armi bianche fatte d'argento, come in quell'età non pur egli, ma tutti gl'altri pittori costumavano; il quale S.
Giorgio, dopo aver morto il dragone, volendo rimettere la spada nel fodero alza la mano diritta che tien la spada già con la punta nel fodero, et abbassando la sinistra acciò che la maggior distanza gli faccia agevolezza a infoderar la spada che è lunga, fa ciò con tanta grazia e con sì bella maniera, che non si può veder meglio; e Michele Sanmichele veronese, architetto della illustrissima Signoria di Vinezia e persona intendentissima di queste belle arti, fu più volte, vivendo, veduto contemplare queste opere di Vittore con maraviglia, e poi dire che poco meglio si poteva vedere del Santo Eustachio, del cane e del San Giorgio sopra detto.
Sopra l'arco poi di detta cappella è dipinto quando San Giorgio, ucciso il dragone, libera la figliuola di quel re, la quale si vede vicina al Santo con una veste lunga secondo l'uso di que' tempi; nella qual parte è maravigliosa ancora la figura del medesimo San Giorgio, il quale, armato come di sopra, mentre è per rimontar a cavallo, sta volto con la persona e con la faccia verso il popolo, e messo un piè nella staffa e la man manca alla sella, si vede quasi in moto di salire sopra il cavallo che ha volto la groppa verso il popolo, e si vede tutto, essendo in iscorcio in piccolo spazio, benissimo.
E, per dirlo in una parola, non si può senza infinita maraviglia, anzi stupore, contemplare questa opera fatta con disegno, con grazia e con giudizio straordinario.
Dipinse il medesimo Pisano in San Fermo Maggiore di Verona, chiesa de' frati di San Francesco conventuali, nella cappella de' Brenzoni a man manca quando s'entra per la porta principale di detta chiesa, sopra la sepoltura della Resurrezzione del Signore, fatta di scultura e secondo que' tempi molto bella, dipinse dico, per ornamento di quell'opera, la Vergine annunziata dall'Angelo; le quali due figure, che sono tocche d'oro secondo l'uso di que' tempi, sono bellissime, sì come sono ancora certi casamenti molto ben tirati et alcuni piccioli animali et uccelli, sparsi per l'opera, tanto proprii e vivi quanto è possibile imaginarsi.
Il medesimo Vittore fece in medaglioni di getto infiniti ritratti di prìncipi de' suoi tempi e d'altri, dai quali poi sono stati fatti molti quadri di ritratti in pittura.
E monsignor Giovio in una lettera volgare, che egli scrive al signor duca Cosimo, la quale si legge stampata con molte altre, dice parlando di Vittore Pisano queste parole:
Costui fu ancora prestantissimo nell'opera de' bassi rilievi, stimati difficilissimi dagl'artefici, perché sono il mezzo tra il piano delle pitture e 'l tondo delle statue.
E perciò si veggiono di sua mano molte lodate medaglie di gran principi, fatte in forma maiuscola della misura propria di quel riverso che il Guidi mi ha mandato del cavallo armato.
Fra le quali io ho quella del gran re Alfonso in Zazzera, con un riverso d'una celata capitanale; quella di papa Martino, con l'arme di casa Colonna per riverso; quella di sultan Maomete che prese Costantinupoli, con lui medesimo a cavallo in abito turchesco, con una sferza in mano; Sigismondo Malatesta, con un riverso di madonna Isotta d'Arimino, e Niccolò Piccinino con un berettone bislungo in testa, col detto riverso del Guidi, il quale rimando.
Oltra questo ho ancora una bellissima medaglia di Giovanni Paleologo imperatore de Costantinopoli, con quel bizzarro cappello alla grecanica, che solevano portare gl'imperatori; e fu fatta da esso Pisano in Fiorenza, al tempo del Concilio d'Eugenio, ove si trovò il prefato imperadore, ch'ha per riverso la croce di Cristo, sostentata da due mani, verbigrazia dalla latina e dalla greca.
In sin qui il Giovio, con quello che seguita.
Ritrasse anco in medaglia Filippo de' Medici, arcivescovo di Pisa, Braccio da Montone, Giovan Galeazzo Visconti, Carlo Malatesta signor d'Arimino, Giovan Caracciolo gran siniscalco di Napoli, Borso et Ercole da Este e molti altri signori et uomini segnalati per arme e per lettere.
Costui meritò per la fama e riputazione sua in questa arte, essere celebrato da grandissimi uomini e rari scrittori, perché oltre quello che ne scrisse il Biondo, come si è detto, fu molto lodato in un poema latino da Guerino Vecchio suo compatriota e grandissimo litterato e scrittore di que' tempi; del qual poema, che dal cognome di costui fu intitolato il Pisano del Guerino, fa onorata menzione esso Biondo.
Fu anco celebrato dallo Strozzi vecchio, cioè da Tito Vespasiano padre dell'altro Strozzi, ambiduoi poeti rarissimi nella lingua latina.
Il padre dunque onorò con un bellissimo epigramma, il qual è in stampa con gl'altri, la memoria di Vittore Pisano; e questi sono i frutti che dal viver virtuosamente si traggono.
Dicono alcuni che quando costui imparava l'arte, essendo giovanetto, in Fiorenza, che dipinse nella vecchia chiesa del tempio, che era dove è oggi la cittadella vecchia, le storie di quel pellegrino a cui andando a San Iacopo di Galizia, mise la figliuola d'un oste una tazza d'argento nella tasca, perché fusse come ladro punito, ma fu da S.
Iacopo aiutato e ricondotto a casa salvo; nella qual opera mostrò Pisano dover riuscire, come fece, eccellente pittore.
Finalmente assai ben vecchio passò a miglior vita.
E Gentile avendo lavorato molte cose in Città di Castello, si condusse a tale, essendo fatto parletico, che non operava più cosa buona.
In ultimo consumato dalla vecchiezza, trovandosi d'ottanta anni si morì.
Il ritratto di Pisano, non ho potuto aver di luogo nessuno.
Dissegnarono ambiduoi questi pittori molto bene, come si può vedere nel nostro libro, etc.
FINE DELLA VITA DI GENTILE DA FABRIANO E DI VITTORE PISANO VERONESE
VITA DI PESELLO E FRANCESCO PESELLI PITTORI FIORENTINI
Rare volte suole avvenire che i discepoli de' maestri rari, se osservano i documenti di quegli, non divenghino molto eccellenti, e che se pure non se gli lasciano dopo le spalle, non gli pareggino almeno, e si agguaglino a loro in tutto.
Perché il sollecito fervore della imitazione, con la assiduità dello studio, ha forza di pareggiare la virtù di chi gli dimostra il vero modo dell'operare.
Laonde vengono i discepoli a farsi tali che e' concorrono poi co' maestri e gli avanzano agevolmente, per essere sempre poca fatica lo aggiugnere a quello che è stato da altri trovato.
E che questo sia il vero, Francesco di Pesello imitò talmente la maniera di fra' Filippo, che se la morte non ce lo toglieva così acerbo di gran lunga lo superava.
Conoscesi ancora che Pesello imitò la maniera d'Andrea dal Castagno e tanto prese piacer del contrafare animali e di tenerne sempre in casa vivi d'ogni specie, che e' fece quegli sì pronti e vivaci, che in quella professione non ebbe alcuno nel suo tempo che gli facesse paragone.
Stette fino all'età di trent'anni sotto la disciplina d'Andrea, imparando da lui, e divenne bonissimo maestro.
Onde, avendo dato buon saggio del saper suo, gli fu dalla Signoria di Fiorenza fatto dipignere una tavola a tempera, quando i Magi offeriscono a Cristo, che fu collocata a mezza scala del loro palazzo, per la quale Pesello acquistò gran fama, e massimamente avendo in essa fatto alcuni ritratti, e fra gl'altri quello di Donato Acciaiuoli.
Fece ancora alla cappella de' Cavalcanti in Santa Croce, sotto la Nunziata di Donato, una predella con figurine piccole, dentrovi storie di San Niccolò, e lavorò in casa de' Medici una spalliera d'animali molto bella, et alcuni corpi di cassoni, con storiette piccole di giostre di cavalli.
E veggonsi in detta casa sino al dì d'oggi di mano sua alcune tele di leoni, i quali s'affacciano a una grata, che paiono vivissimi; et altri ne fece fuori, e similmente uno che con un serpente combatte; e colorì in un'altra tela un bue et una volpe con altri animali molto pronti e vivaci.
Et in San Pier Maggiore, nella cappella degl'Alessandri, fece quattro storiette di figure piccole, di San Piero, di San Paulo, di San Zanobi quando resuscita il figliuolo della vedova, e di San Benedetto.
Et in Santa Maria Maggiore della medesima città di Firenze, fece nella cappella degl'Orlandini una Nostra Donna, e due altre figure bellissime.
Ai fanciulli della Compagnia di S.
Giorgio un Crucifisso, San Girolamo e San Francesco; e nella chiesa di San Giorgio in una tavola, una Nunziata.
In Pistoia, nella chiesa di San Iacopo, una Trinità, San Zeno e San Iacopo, e per Firenze in casa de' cittadini sono molti tondi e quadri di mano del medesimo.
Fu persona, Pesello, moderata e gentile, e sempre che poteva giovare agli amici con amorevolezza e volentieri lo faceva.
Tolse moglie giovane et èbbene Francesco detto Pesellino suo figliuolo, che attese alla pittura imitando gl'andari di fra' Filippo infinitamente.
Costui se più tempo viveva, per quello che si conosce, arebbe fatto molto più che egli non fece; perché era studioso nell'arte, né mai restava né dì né notte di disegnare.
Per che si vede ancora nella cappella del noviziato di Santa Croce, sotto la tavola di fra' Filippo, una maravigliosissima predella di figure piccole, le quali paiono di mano di fra' Filippo.
Egli fece molti quadretti di figure piccole per Fiorenza, et in quella acquistato nome se ne morì d'anni XXXI, per che Pesello ne rimase dolente; né molto stette che lo seguì d'anni LXXVII.
FINE DELLA VITA DI PESELLO E FRANCESCO PESELLI PITTORI FIORENTINI
VITA DI BENOZZO PITTORE FIORENTINO
Chi camina con le fatiche per la strada della virtù, ancora che ella sia (come dicono) e sassosa e piena di spine, alla fine della salita si ritrova pur finalmente in un largo piano, con tutte le bramate felicità.
E nel riguardare a basso, veggendo i cattivi passi con periglio fatti da lui, ringrazia Dio, che a salvamento ve l'ha condotto, e con grandissimo contento suo benedice quelle fatiche che già tanto gli rincrescevano.
E così ristorando i passati affanni con la letizia del bene presente, senza fatica si affatica per far conoscere a chi lo guarda come i caldi, i geli, i sudori, la fame, la sete e gli incomodi che si patiscono per acquistare la virtù, liberano altrui da la povertà e lo conducono a quel sicuro e tranquillo stato, dove con tanto contento suo lo affaticato Benozzo Gozzoli si riposò.
Costui fu discepolo dello Angelico fra' Giovanni, e a ragione amato da lui, e da chi lo conobbe tenuto pratico di grandissima invenzione, e molto copioso negli animali, nelle prospettive, ne' paesi e negli ornamenti.
Fece tanto lavoro nella età sua, che e' mostrò non essersi molto curato d'altri diletti; et ancora che e' non fusse molto eccellente a comparazione di molti che lo avanzarono di disegno, superò nientedimeno col tanto fare tutti gli altri della età sua, perché in tanta moltitudine di opere gli vennero fatte pure delle buone.
Dipinse in Fiorenza nella sua giovanezza alla Compagnia di S.
Marco la tavola dello altare; et in S.
Friano un transito di S.
Ieronimo, che è stato guasto per acconciare la facciata della chiesa lungo la strada.
Nel palazzo de' Medici fece in fresco la cappella con la storia de' Magi, et a Roma in Araceli, nella cappella de' Cesarini, le storie di S.
Antonio da Padova, dove ritrasse di naturale Giuliano Cesarini cardinale et Antonio Colonna.
Similmente nella Torre de' Conti, cioè sopra una porta sotto cui si passa, fece in fresco una Nostra Donna con molti Santi; et in Santa Maria Maggiore, all'entrar di chiesa per la porta principale, fece a man ritta in una cappella, a fresco, molte figure che sono ragionevoli.
Da Roma tornato Benozzo a Firenze, se n'andò a Pisa, dove lavorò nel cimiterio che è allato al Duomo, detto Camposanto, una facciata di muro lunga quanto tutto l'edifizio, facendovi storie del Testamento Vecchio con grandissima invenzione.
E si può dire che questa sia veramente un'opera terribilissima, veggendosi in essa tutte le storie della creazione del mondo distinte a giorno per giorno.
Dopo l'Arca di Noè, l'innondazione del diluvio espressa con bellissimi componimenti e copiosità di figure, appresso la superba edificazione della torre di Nebrot, l'incendio di Soddoma e dell'altre città vicine, l'istorie d'Abramo, nelle quali sono da considerare affetti bellissimi; perciò che se bene non aveva Benozzo molto singular disegno nelle figure, dimostrò nondimeno l'arte efficacemente nel sacrificio d'Isaac, per avere situato in iscorto un asino per tal maniera che si volta per ogni banda, il che è tenuto cosa bellissima.
Segue appresso il nascere di Moisè, che que' tanti segni e prodigii insino a che trasse il popolo suo d'Egitto e lo cibò tanti anni nel deserto.
Aggiunse a queste tutte le storie ebree insino a Davit e Salomone suo figliuolo, e dimostrò veramente Benozzo in questo lavoro un animo più che grande, perché dove sì grande impresa arebbe giustamente fatto paura a una legione di pittori, egli solo la fece tutta e la condusse a perfezione.
Di manier che, avendone acquistato fama grandissima, meritò che nel mezzo dell'opera gli fusse posto questo epigramma:
Quid spectas volucres, pisces, et monstra ferarum
et virides silvas, aethereasque domos?
Et pueros, iuvenes, matres, canosque parentes
queis semper vivum spirat in ore decus?
Non haec tam variis finxit simulacra figuris
natura; ingenio foetibus apta suo:
est opus artificis; pinxit viva ora Benoxus.
O superi vivos fundite in ora sonos.
Sono in tutta questa opera sparsi infiniti ritratti di naturale, ma perché di tutti non si ha cognizione, dirò quelli solamente che io vi ho conosciuti di importanza, e quelli di che ho per qualche ricordo cognizione.
Nella storia dunque dove la reina Saba va a Salamone è ritratto Marsilio Ficino fra certi prelati, l'Argiropolo dottissimo greco e Battista Platina, il quale aveva prima ritratto in Roma, et egli stesso sopra un cavallo, nella figura d'un vecchiotto raso con una beretta nera, che ha nella piega una carta bianca, forse per segno o perché ebbe volontà di scrivervi dentro il nome suo.
Nella medesima città di Pisa, alle monache di San Benedetto a ripa d'Arno, dipinse tutte le storie della vita di quel santo; e nella Compagnia de' Fiorentini, che allora era dove è oggi il monasterio di San Vito, similmente la tavola e molte altre pitture, nel Duomo dietro alla sedia dell'arcivescovo in una tavoletta a tempera dipinse un San Tommaso d'Aquino, con infinito numero di dotti, che disputano sopra l'opere sue, e fra gl'altri vi è ritratto papa Sisto IIII con un numero di cardinali, e molti capi e generali di diversi Ordini.
E questa è la più finita e meglio opera che facesse mai Benozzo.
In Santa Caterina de' frati predicatori, nella medesima città, fece due tavole a tempera, che benissimo si conoscono alla maniera; e nella chiesa di San Nicola ne fece similmente un'altra, e due in Santa Croce fuor di Pisa.
Lavorò anco quando era giovanetto, nella Pieve di San Gimignano l'altare di San Bastiano nel mezzo della chiesa riscontro alla cappella maggiore, e nella sala del consiglio sono alcune figure, parte di sua mano e parte da lui, essendo vecchie, restaurate.
Ai monaci di Monte Oliveto nella medesima terra, fece un Crucifisso et altre pitture, ma la migliore opera che in quel luogo facesse, fu in San Agostino nella cappella maggiore a fresco storie di Sant'Agostino, cioè dalla conversione insino alla morte; la quale opera ho tutta disegnata di sua mano nel nostro libro, insieme con molte carte delle storie sopra dette di Camposanto di Pisa.
In Volterra ancora fece alcune opere, delle quali non accade far menzione.
E perché quando Benozzo lavorò in Roma vi era un altro dipintore, chiamato Melozzo, il quale fu da Furlì, molti che non sanno più che tanto, avendo trovato scritto Melozzo, e riscontrato i tempi, hanno creduto che quel Melozzo voglia dir Benozzo; ma sono in errore, perché il detto pittore fu ne' medesimi tempi e fu molto studioso delle cose dell'arte, e particolarmente mise molto studio e diligenza in fare gli scorti, come si può vedere in S.
Apostolo di Roma nella tribuna dell'altar maggiore, dove in un fregio tirato in prospettiva, per ornamento di quell'opera sono alcune figure che colgono uve et una botte, che hanno molto del buono.
Ma ciò si vede più apertamente nell'Ascensione di Gesù Cristo in un coro d'Angeli che lo conducono in cielo, dove la figura di Cristo scorta tanto bene, che pare che buchi quella volta; et il simile fanno gl'Angeli, che con diversi movimenti girano per lo campo di quell'aria.
Parimente gl'Apostoli che sono in terra scortano in diverse attitudini tanto bene, che ne fu allora et ancora è lodato dagl'artefici che molto hanno imparato dalle fatiche di costui, il quale fu grandissimo prospettivo, come ne dimostrano i casamenti dipinti in questa opera, la quale gli fu fatta fare dal cardinale Riario, nipote di papa Sisto Quarto, dal quale fu molto rimunerato.
Ma tornando a Benozzo, consumato finalmente dagl'anni e dalle fatiche, d'anni 78 se n'andò al vero riposo nella città di Pisa, abitando in una casetta che in sì lunga dimora vi si aveva comperata in carraia di S.
Francesco; la qual casa lasciò morendo alla sua figliuola, e con dispiacere di tutta quella città fu onoratamente sepellito in Camposanto con questo epitaffio, che ancora si legge:
HIC TUMULUS EST BENOTII FLORENTINI QUI PROXIME HAS PINXIT
HISTORIAS - HUNC SIBI PISANORUM DONAVIT HUMANITAS
MCCCCLXXVIII.
Visse Benozzo costumatissimamente sempre e da vero cristiano, consumando tutta la vita sua in esercizio onorato; per il che e per la buona maniera e qualità sue lungamente fu ben veduto in quella città.
Lasciò dopo sé, discepoli suoi, Zanobi Machiavelli fiorentino, et altri, de' quali non accade far altra memoria.
FINE DELLA VITA DI BENOZZO PITTOR FIORENTINO
VITA DI FRANCESCO DI GIORGIO SCULTORE ET ARCHITETTO E DI LORENZO VECCHIETTO SCULTORE E PITTORE, SANESI
Francesco di Giorgio sanese, il quale fu scultore et architetto eccellente, fece i due Angeli di bronzo che sono in sull'altar maggiore del Duomo di quella città, i quali furono veramente un bellissimo getto, e furon poi rinetti da lui medesimo con quanta diligenza sia possibile imaginarsi.
E ciò potette egli fare comodamente, essendo persona non meno dotata di buone facultà che di raro ingegno, onde non per avarizia, ma per suo piacere lavorava quando bene gli veniva, e per lasciar dopo sé qualche onorata memoria.
Diede anco opera alla pittura e fece alcune cose, ma non simili alle sculture.
Nell'architettura ebbe grandissimo giudizio e mostrò di molto bene intender quella professione, e ne può far ampia fede il palazzo che egli fece in Urbino al duca Federigo Feltro, i cui spartimenti sono fatti con belle e commode considerazioni, e la stravaganza delle scale sono bene intese e piacevoli più che altre che fussino state fatte insino al suo tempo.
Le sale sono grande e magnifiche, e gl'appartamenti delle camere utili et onorati fuor di modo; e per dirlo in poche parole è così bello e ben fatto tutto quel palazzo, quanto altro che insin a ora sia stato fatto già mai.
Fu Francesco grandissimo ingegnere, e massimamente di machine da guerra, come mostrò in un fregio che dipinse di sua mano nel detto palazzo d'Urbino, il qual è tutto pieno di simili cose rare, apartenenti alla guerra.
Disegnò anco alcuni libri tutti pieni di così fatti instrumenti; il miglior de' quali ha il signor duca Cosimo de' Medici fra le sue cose più care.
Fu il medesimo tanto curioso in cercar d'intender le machine et instrumenti bellici degl'antichi, e tanto andò investigando il modo degl'antichi anfiteatri e d'altre cose somiglianti, ch'elleno furono cagione che mise manco studio nella scultura; ma non però gli furono, né sono state di manco onore che le sculture gli potessino esser state.
Per le quali tutte cose fu di maniera grato al detto duca Federigo, del qual fece il ritratto et in medaglia e di pittura, che quando se ne tornò a Siena sua patria, si trovò non meno essere stato onorato che beneficato.
Fece per papa Pio Secondo tutti i disegni e modelli del palazzo e Vescovado di Pienza, patria del detto papa, e da lui fatta città e dal suo nome chiamata Pienza, che prima era detta Corfignano, che furon per quel luogo, magnifici et onorati quanto potessino essere, e così la forma e fortificazione di detta città, et insieme il palazzo e loggia pel medesimo Pontefice.
Onde poi sempre visse onoratamente e fu, nella sua città, del supremo magistrato de' Signori onorato.
Ma pervenuto finalmente all'età d'anni 47, si morì.
Furono le sue opere intorno al 1480.
Lasciò costui suo compagno e carissimo amico, Iacopo Cozzerello, il quale attese alla scultura et all'architettura, e fece alcune figure di legno in Siena; e d'architettura S.
Maria Maddalena fuor della porta a' Tufi, la quale rimase imperfetta per la sua morte.
E noi gl'avemo pur questo obligo, che da lui si ebbe il ritratto di Francesco sopra detto, il quale fece di sua mano.
Il quale Francesco merita che gli sia avuto grande obligo, per avere facilitato le cose d'architettura, e recatole più giovamento che alcun altro avesse fatto, da Filippo di ser Brunellesco insino al tempo suo.
Fu sanese e scultore similmente molto lodato, Lorenzo di Piero Vecchietti, il qual essendo prima stato orefice molto stimato, si diede finalmente alla scultura et a gettar di bronzo, nelle quali arti mise tanto studio che divenuto eccellente gli fu dato a fare, di bronzo, il tabernacolo dell'altar maggiore del Duomo di Siena sua patria, con quegli ornamenti di marmo che ancor vi si veggiono.
Il qual getto, che fu mirabile, gl'acquistò nome e riputazione grandissima per la proporzione e grazia che egli ha in tutte le parti; e chi bene considera questa opera, vede in essa buon disegno e che l'artefice suo fu giudizioso e pratico valent'uomo.
Fece il medesimo in un bel getto di metallo, per la cappella de' pittori sanesi nello spedale grande della Scala, un Cristo nudo che tiene la croce in mano, d'altezza quanto il vivo; la qual opera, come venne benissimo nel getto così fu rinetta con amore e diligenza.
Nella medesima casa, nel peregrinario, è una storia dipinta da Lorenzo di colori.
E sopra la porta di San Giovanni un arco con figure lavorate a fresco.
Similmente, perché il battesimo non era finito, vi lavorò alcune figure di bronzo e vi finì pur di bronzo una storia cominciata già da Donatello.
Nel qual luogo aveva ancora lavorato due storie di bronzo Iacopo della Fonte, la maniera del quale imitò sempre Lorenzo quanto potette maggiormente.
Il qual Lorenzo condusse il detto battesimo all'ultima perfezione, ponendovi ancora alcune figure di bronzo gettate già da Donato, ma da sé finite del tutto, che sono tenute cosa bellissima.
Alla loggia degl'ufficiali in banchi fece Lorenzo, di marmo, all'altezza del naturale, un San Piero et un San Paulo, lavorati con somma grazia e condotti con buona pratica.
Accommodò costui talmente le cose, che fece che ne merita molte lode così morto come fece vivo.
Fu persona malinconica e soletaria, e che sempre stette in considerazione; il che forse gli fu cagione di non più oltre vivere, conciò sia che di cinquantaotto anni passò all'altra vita.
Furono le sue opere circa l'anno 1482.
FINE DELLA VITA DI FRANCESCO DI GIORGIO
E DI LORENZO VECCHIETTI
VITA DI GALASSO GALASSI PITTORE
Quando in una città dove non sono eccellenti artefici vengono forestieri a fare opere, sempre si desta l'ingegno a qualch'uno, che si sforza di poi con l'apprendere quella medesima arte far sì che nella sua città non abbino più a venire gli strani, per abbellirla, da quivi inanzi e portarne le facultà; le quali si ingegna di meritare egli con la virtù e di acquistarsi quelle ricchezze che troppo gli parsono belle ne' forestieri.
Il che chiaramente fu manifesto in Galasso ferrarese, il quale, veggendo Pietro dal Borgo a San Sepolcro rimunerato da quel Duca dell'opre e delle cose che lavorò, et oltra ciò onoratamente tratenuto in Ferrara, fu per tale esempio incitato, dopo la partita di quello, di darsi alla pittura, talmente che in Ferrara acquistò fama di buono et eccellente maestro.
La qual cosa lo fece tanto più grato in quel luogo, quanto nello andare a Vinegia imparò il colorire a olio e lo portò a Ferrara, per che fece poi infinite figure in tal maniera, che sono per Ferrara sparte in molte chiese.
Appresso, venutosene a Bologna, condottovi da alcuni frati di San Domenico, fece ad olio una cappella in San Domenico; e così il grido di lui crebbe insieme col credito.
Per che appresso questo lavorò a Santa Maria del Monte fuor di Bologna, luogo de' Monaci Neri, e fuor della porta di San Mammolo, molte pitture in fresco; e così alla Casa di Mezzo per questa medesima strada fu la chiesa tutta dipinta di man sua et a fresco lavorata nella quale egli fece le storie del Testamento Vecchio.
Visse sempre costumatissimamente e si dimostrò molto cortese e piacevole, nascendo ciò per lo essere più uso fuor della patria sua a vivere et a abitare che in quella.
Vero è che per non essere egli molto regolato nel viver suo, non durò molto tempo in vita, andandosene di anni cinquanta, o circa, a quella vita che non ha fine; onorato dopo la morte da uno amico, di questo epitaffio:
GALASSUS FERRARIENSIS
Sum tanto studio naturam imitatus et arte
dum pingo, rerum quae creat illa parens,
haec ut saepe quidem, non picta putaverit a me,
a se crediderit sed generata magis.
In questi tempi medesimi fu Cosmè da Ferrara pure.
Del quale si veggono, in San Domenico di detta città, una cappella, e nel Duomo duoi sportelli che serrano lo organo di quello.
Costui fu migliore disegnatore che pittore; e per quanto io ne abbia possuto ritrarre, non dovette dipigner molto.
VITA D'ANTONIO ROSSELLINO SCULTORE E DI BERNARDO SUO FRATELLO
Fu veramente sempre cosa lodevole e virtuosa la modestia e l'essere ornato di gentilezza e di quelle rare virtù che agevolmente si riconoscono nell'onorate azioni d'Antonio Rossellino scultore; il quale fece la sua arte con tanta grazia, che da ogni suo conoscente fu stimato assai più che uomo et adorato quasi per santo, per quelle ottime qualità che erano unite alla virtù sua.
Fu chiamato Antonio il Rossellino dal Proconsolo, perché e' tenne sempre la sua bottega in un luogo che così si chiama in Fiorenza.
Fu costui sì dolce e sì delicato ne' suoi lavori, e di finezza e pulitezza tanto perfetta, che la maniera sua giustamente si può dir vera, e veramente chiamare moderna.
Fece nel palazzo de' Medici la fontana di marmo che è nel secondo cortile, nella quale sono alcuni fanciulli, che sbarrano delfini che gettano acqua, et è finita con somma grazia e con maniera diligentissima.
Nella chiesa di Santa Croce a la pila dell'acqua santa, fece la sepoltura di Francesco Nori, e sopra quella una Nostra Donna di basso rilievo et una altra Nostra Donna in casa de' Tornabuoni, e molte altre cose mandate fuori in diverse parti, sì come a Lione di Francia una sepoltura di marmo.
A San Miniato a Monte, monasterio de' monaci bianchi fuor delle mura di Fiorenza, gli fu fatto fare la sepoltura del cardinale di Portogallo, la quale sì maravigliosamente fu condotta da lui, e con diligenza et artifizio così grande, che non si imagini artefice alcuno di poter mai vedere cosa alcuna che di pulitezza o di grazia passare la possa in maniera alcuna.
E certamente a chi la considera pare impossibile, non che difficile, che ella sia condotta così, vedendosi in alcuni Angeli che vi sono tanta grazia e bellezza d'arie, di panni e d'artifizio, che e' non paiono più di marmo, ma vivissimi: di questi, l'uno tiene la corona della verginità di quel cardinale, il quale si dice che morì vergine, l'altro la palma della vittoria che egli acquistò contra il mondo.
E fra le molte cose artifiziosissime che vi sono, vi si vede un arco di macigno che regge una cortina di marmo aggruppata, tanto netta, che fra il bianco del marmo et il bigio del macigno, ella pare molto più simile al vero panno, che al marmo.
In su la cassa del corpo sono alcuni fanciulli veramente bellissimi et il morto stesso, con una Nostra Donna in un tondo, lavorata molto bene.
La cassa tiene il garbo di quella di porfido, che è in Roma su la piazza della Ritonda.
Questa sepoltura del cardinale fu posta su nel 1459 e tanto piacque la forma sua e l'architettura della cappella al Duca di Malfi nipote di papa Pio Secondo, che dalle mani del maestro medesimo ne fece fare in Napoli un'altra per la donna sua, simile a questa in tutte le cose, fuori che nel morto.
Di più vi fece una tavola di una Natività di Cristo nel presepio con un ballo d'Angeli in su la capanna, che cantano a bocca aperta, in una maniera che ben pare che dal fiato in fuori Antonio desse loro ogn'altra movenza et affetto, con tanta grazia e con tanta pulitezza, che più operare non possono nel marmo il ferro e l'ingegno.
Per il che sono state molto stimate le cose sue da Michelagnolo e da tutto il restante degl'artefici più che eccellenti.
Nella Pieve d'Empoli fece di marmo un San Bastiano che è tenuto cosa bellissima; e di questo avemo un disegno di sua mano nel nostro libro, con tutta l'architettura e figure della cappella detta di San Miniato in Monte, et insieme il ritratto di lui stesso.
Antonio finalmente si morì in Fiorenza d'età d'anni 46, lasciando un suo fratello architettore e scultore, chiamato Bernardo, il quale in Santa Croce fece di marmo la sepoltura di Messer Lionardo Bruni aretino, che scrisse la storia fiorentina e fu quel gran dotto che sa tutto il mondo.
Questo Bernardo fu nelle cose d'architettura molto stimato da papa Nicola Quinto, il quale l'amò assai, e di lui si servì in moltissime opere che fece nel suo pontificato; e più averebbe fatto, se a quell'opere che aveva in animo di far quel Pontefice, non si fusse interposta la morte.
Gli fece dunque rifare, secondo che racconta Giannozzo Manetti, la piazza di Fabriano, l'anno che per la peste vi stette alcuni mesi; e dove era stretta e malfatta, la riallargò e ridusse in buona forma, facendovi intorno intorno un ordine di botteghe utili e molto commode e belle.
Ristaurò appresso e rifondò la chiesa di S.
Francesco della detta terra, che andava in rovina; a Gualdo rifece si può dir di nuovo, con l'aggiunta di belle e buone fabriche, la chiesa di San Benedetto; in Ascesi, la chiesa di S.
Francesco, che in certi luoghi era rovinata et in certi altri minacciava rovina, rifondò gagliardamente e ricoperse; a Civitavecchia fece molti belli e magnifici edifizii; a Civita Castellana rifece meglio che la terza parte delle mura, con buon garbo; a Narni rifece et ampliò di belle e buone muraglie, la fortezza; a Orvieto fece una gran fortezza con un bellissimo palazzo, opera di grande spesa e non minore magnificenza; a Spoleti similmente accrebbe e fortificò la fortezza, facendovi dentro abitazioni tanto belle e tanto commode e bene intese, che non si poteva veder meglio.
Rassettò i Bagni di Viterbo con gran spesa e con animo regio, facendovi abitazioni, che non solo per gl'amalati che giornalmente andavano a bagnarsi sarebbono state recipienti, ma ad ogni gran prencipe.
Tutte queste opere fece il detto Pontefice col disegno di Bernardo, fuori della città.
In Roma ristaurò et in molti luoghi rinovò le mura della città, che per la maggior parte erano rovinate, aggiugnendo loro alcune torri e comprendendo in queste una nuova fortificazione, che fece a Castel S.
Angelo di fuora, e molte stanze et ornamenti che fece dentro.
Parimente aveva il detto Pontefice in animo, e la maggior parte condusse a buon termine, di restaurare e riedificare, secondo che più avevano di bisogno, le quaranta chiese delle stazioni già institute da San Gregorio Primo, che fu chiamato per sopranome Grande.
Così restaurò S.
Maria Trastevere, S.
Prasedia, S.
Teodoro, S.
Piero in Vincula, e molte altre delle minori.
Ma con maggiore animo ornamento e diligenza fece questo in sei delle sette maggiori e principali, cioè: S.
Giovanni Laterano, S.
Maria Maggiore, S.
Stefano in Celio Monte, S.
Apostolo, S.
Paolo e S.
Lorenzo extra muros; non dico di S.
Piero, perché ne fece impresa a parte.
Il medesimo ebbe animo di ridurre in fortezza e fare come una città appartata il Vaticano tutto; nella quale disegnava tre vie che si dirizzavano a S.
Piero, credo dove è ora Borgo Vecchio e Nuovo, le quali copriva di loggie di qua e di là con botteghe commodissime, separando l'arti più nobili e più ricche dalle minori, e mettendo insieme ciascuna in una via da per sé; e già aveva fatto il torrione tondo che si chiama ancora il Torrione di Nicola.
E sopra quelle botteghe e loggie venivano case magnifiche e commode, e fatte con bellissima architettura et utilissima, essendo disegnate in modo che erano difese e coperte da tutti que' venti, che sono pestiferi in Roma, e levati via tutti gl'impedimenti o d'acque o di fastidii che sogliono generar mal'aria.
E tutto averebbe finito, ogni poco più che gli fusse stato conceduto di vita il detto Pontefice, il quale era d'animo grande e risoluto, et indendeva tanto, che non meno guidava e reggeva gl'artefici, che eglino lui.
La qual cosa fa che le imprese grandi si conducono facilmente a fine, quando il padrone intende da per sé, e come capace può risolvere subito; dove uno irresoluto et incapace nello star fra il sì e il no, fra varii disegni et openioni, lascia passar molte volte inutilmente il tempo senz'operare.
Ma di questo disegno di Nicola non accade dire altro che non ebbe effetto.
Voleva oltre ciò, edificare il palazzo papale con tanta magnificenza e grandezza, e con tante commodità e vaghezza, che e' fusse per l'uno e per l'altro conto il più bello e maggior edifizio di cristianità, volendo che servisse non solo alla persona del sommo Pontefice, capo de' Cristiani, e non solo al sacro collegio de' cardinali, che essendo il suo consiglio et aiuto, gl'arebbono a esser sempre intorno, ma che ancora vi stessino commodamente tutti i negozii spedizioni e giudizi della corte, dove ridotti insieme tutti gl'uffizii e le corti arebbono fatto una magnificenza e grandezza, e, se questa voce si potesse usare in simili cose, una pompa incredibile.
E, che è più infinitamente, aveva a ricevere imperadori, re, duchi et altri principi cristiani che o per faccende loro, o per divozione visitassero quella santissima apostolica sede.
E chi crederà che egli volesse farvi un teatro per le coronazioni de' pontefici? et i giardini, loggie, acquidotti, fontane, cappelle, librerie et un conclave appartato bellissimo? Insomma, questo (non so se palazzo, castello o città, debbo nominarlo) sarebbe stata la più superba cosa che mai fusse stata fatta dalla creazione del mondo, per quello che si sa, insino a oggi.
Che grandezza sarebbe stata quella della Santa Chiesa romana, veder il sommo pontefice e capo di quella, avere, come in un famosissimo e santissimo monasterio, raccolti tutti i ministri di Dio che abitano la città di Roma, et in quello, quasi un nuovo paradiso terrestre, vivere vita celeste, angelica e santissima con dare essempio a tutto il cristianesimo et accender gl'animi degl'infedeli al vero culto di Dio e di Gesù Cristo benedetto.
Ma tanta opera rimase imperfetta, anzi quasi non cominciata, per la morte di quel Pontefice; e quel poco che n'è fatto, si conosce all'arme sua o che egli usava per arme, che erano due chiavi intraversate in campo rosso.
La quinta delle cinque cose che il medesimo aveva in animo di fare, era la chiesa di San Piero, la quale aveva disegnata di fare tanto grande, tanto ricca e tanto ornata, che meglio è tacere che metter mano per non poter mai dirne anco una minima parte, e massimamente essendo poi andato male il modello e statone fatti altri da altri architettori.
E chi pure volesse in ciò sapere interamente il grand'animo di papa Nicola V, legga quello che Giannozzo Manetti, nobile e dotto cittadin fiorentino, scrisse minutissimamente nella vita di detto pontefice; il quale oltre gl'altri in tutti i sopra detti disegni si servì, come si è detto, dell'ingegno e molta industria di Bernardo Rossellini; Antonio, fratel del quale, per tornare oggi mai donde mi partii con sì bella occasione, lavorò le sue sculture circa l'anno 1490.
E perché quanto l'opere si veggiono piene di diligenza e di difficultà gl'uomini restano più ammirati, conoscendosi massimamente queste due cose ne' suoi lavori, merita egli e fama et onore, come esempio certissimo donde i moderni scultori hanno potuto imparare come si deono far le statue, che mediante le difficultà, arrechino lode e fama grandissima.
Conciò sia che dopo Donatello aggiunse egli all'arte della scultura una certa pulitezza e fine, cercando bucare e ritondare in maniera le sue figure, ch'elle appariscono per tutto e tonde e finite.
La qual cosa nella scultura infino allora non si era veduta sì perfetta; e perché egli primo l'introdusse, dopo lui nell'età seguenti e nella nostra appare maravigliosa.
VITA DI DESIDERIO DA SETTIGNANO SCULTORE
Grandissimo obligo hanno al cielo et alla natura coloro che senza fatiche partoriscono le cose loro, con una certa grazia che non si può dare alle opere che altri fa, né per istudio né per imitazione; ma è dono veramente celeste che piove in maniera su quelle cose, che elle portano sempre seco tanta leggiadria e tanta gentilezza, che elle tirano a sé non solamente quegli ch'intendono il mestiero, ma molti altri ancora che non sono di quella professione; e nasce ciò dalla facilità del buono che non si rende aspro e duro agl'occhi, come le cose stentate e fatte con difficultà, molte volte si rendono; la qual grazia e simplicità, che piace universalmente e da ognuno è conosciuta, hanno tutte l'opere che fece Desiderio, il quale dicono alcuni che fu da Settignano, luogo vicino a Fiorenza due miglia, alcuni altri lo tengono fiorentino; ma questo rilieva nulla, per essere sì poca distanza da l'un luogo all'altro.
Fu costui imitatore della maniera di Donato, quantunque da la natura avesse egli grazia grandissima e leggiadria nelle teste.
E veggonsi l'arie sue di femmine e di fanciulli, con delicata, dolce e vezzosa maniera aiutate tanto dalla natura che inclinato a questo lo aveva, quanto era ancora da lui esercitato l'ingegno dall'arte.
Fece nella sua giovanezza il basamento del David di Donato, ch'è nel palazzo del duca di Fiorenza, nel quale Desiderio fece di marmo alcune arpie bellissime et alcuni viticci di bronzo molto graziosi e bene intesi, e nella facciata della casa de' Gianfigliazzi un'arme grande con un lione, bellissima, et altre cose di pietra, le quali sono in detta città.
Fece nel Carmine alla cappella de' Brancacci uno Agnolo di legno; et in S.
Lorenzo finì di marmo la cappella del Sacramento, la quale egli con molta diligenza condusse a perfezzione.
Eravi un fanciullo di marmo tondo, il qual fu levato, et oggi si mette in sull'altar per le feste della Natività di Cristo, per cosa mirabile; in cambio del quale ne fece un altro Baccio da Montelupo, di marmo pure, che sta continuamente sopra il tabernacolo del Sacramento.
In S.
Maria Novella fece di marmo la sepoltura della Beata Villana, con certi Angioletti graziosi, e lei vi ritrasse di naturale che non par morta, ma che dorma, e nelle monache delle Murate, sopra una colonna in un tabernacolo, una Nostra Donna piccola di leggiadra e graziata maniera, onde l'una e l'altra cosa è in grandissima stima et in bonissimo pregio.
Fece ancora, a S.
Piero Maggiore, il tabernacolo del Sacramento, di marmo con la solita diligenza.
Et ancora che in quello non siano figure e' vi si vede però una bella maniera et una grazia infinita, come nell'altre cose sue.
Egli similmente di marmo ritrasse di naturale la testa della Marietta degli Strozzi, la quale essendo bellissima gli riuscì molto eccellente.
Fece la sepoltura di Messer Carlo Marsupini aretino in S.
Croce, la quale non solo in quel tempo fece stupire gl'artefici e le persone intelligenti che la guardarono, ma quegli ancora che al presente la veggono se ne maravigliano; dove egli avendo lavorato in una cassa fogliami, benché un poco spinosi e secchi, per non essere allora scoperte molte antichità, furono tenuti cosa bellissima.
Ma fra l'altre parti che in detta opera sono, vi si veggono alcune ali che a una nicchia fanno ornamento a' piè della cassa, che non di marmo, ma piumose si mostrano; cosa difficile a potere imitare nel marmo, atteso ch'ai peli et alle piume non può lo scarpello aggiugnere; èvvi di marmo una nicchia grande, più viva che se d'osso proprio fosse; sonvi ancora alcuni fanciulli et alcuni Angeli condotti con maniera bella e vivace; similmente è di somma bontà e d'artifizio il morto su la cassa, ritratto di naturale; et in un tondo una Nostra Donna di basso rilievo, lavorato secondo la maniera di Donato, con giudizio e con grazia mirabilissima; sì come sono ancora molti altri bassi rilievi di marmo ch'egli fece, delli quali alcuni sono nella guardaroba del signor Duca Cosimo; e particolarmente, in un tondo, la testa del nostro Signore Gesù Cristo e di San Giovanni Battista quando era fanciulletto.
A' piè della sepoltura del detto Messer Carlo fece una lapida grande per Messer Giorgio dottore famoso e segretario della Signoria di Fiorenza, con un basso rilievo molto bello, nel quale è ritratto esso Messer Giorgio con abito da dottore secondo l'usanza di que' tempi.
Ma se la morte sì tosto non toglieva al mondo quello spirito che tanto egregiamente operò, arebbe sì per l'avvenire con la esperienza e con lo studio operato, che vinto avrebbe d'arte tutti coloro che di grazia aveva superati.
Troncogli la morte il filo della vita nella età di 28 anni; per che molto ne dolse a tutti quegli che stimavano dover vedere la perfezzione di tanto ingegno nella vecchiezza di lui: e ne rimasero più che storditi, per tanta perdita.
Fu da' parenti e da molti amici accompagnato nella chiesa de' Servi, continuandosi per molto tempo alla sepoltura sua di mettersi infiniti epigrammi e sonetti; del numero de' quali mi è bastato mettere solamente questo:
Come vide natura
dar Desiderio ai freddi marmi vita,
e poter la scultura
agguagliar sua bellezza alma e infinita,
si fermò sbigottita,
e disse: "omai sarà mia gloria oscura".
E piena d'alto sdegno
troncò la vita a così bell'ingegno.
Ma in van: ché se costui
diè vita eterna ai marmi, e i marmi a lui.
Furono le sculture di Desiderio fatte nel 1485, lasciò abbozzata una S.
Maria Maddalena in penitenza, la quale fu poi finita da Benedetto da Maiano et è oggi in Santa Trinita di Firenze, entrando in chiesa a man destra, la quale figura è bella quanto più dir si possa.
Nel nostro libro sono alcune carte disegnate di penna da Desiderio, bellissime, et il suo ritratto si è avuto da alcuni suoi da Settignano.
FINE DELLA VITA DI DESIDERIO DA SETTIGNANO, SCULTORE
VITA DI MINO SCULTORE DA FIESOLE
Quando gli artefici nostri non cercano altro, nell'opere che fanno, che imitare la maniera del loro maestro o d'altro eccellente, del quale piaccia loro il modo dell'operare, o nell'attitudini delle figure, o nell'arie delle teste, o nel piegheggiare de' panni, e studiano quelle solamente, se bene col tempo e con lo studio le fanno simili, non arrivano però mai con questo solo a la perfezione dell'arte; avvenga che manifestissimamente si vede che rare volte passa inanzi chi camina sempre dietro; perché la imitazione della natura è ferma nella maniera di quello artefice che ha fatto la lunga pratica diventare maniera.
Conciò sia che l'imitazione è una ferma arte di fare apunto quel che tu fai, come sta il più bello delle cose della natura, pigliandola schietta senza la maniera del tuo maestro o d'altri; i quali ancora eglino ridussono in maniera le cose che tolsono da la natura.
E se ben pare che le cose degl'artefici eccellenti siano cose naturali o verisimili, non è che mai si possa usar tanta diligenza che si facci tanto simile che elle sieno com'essa natura; né ancora, scegliendo le migliori, si possa fare composizion di corpo tanto perfetto che l'arte la trapassi; e se questo è, ne segue che le cose tolte da lei, fa le pitture e le sculture perfette, e chi studia strettamente le maniere degli artefici solamente e non i corpi o le cose naturali, è necessario che facci l'opere sue e men buone della natura e di quelle di colui da chi si toglie la maniera; laonde s'è visto molti de' nostri artefici non avere voluto studiare altro che l'opere de' loro maestri e lasciato da parte la natura; de' quali n'è avenuto che non le hanno apprese del tutto e non passato il maestro loro, ma hanno fatto ingiuria grandissima all'ingegno ch'egli hanno avuto, ché s'eglino avessino studiato la maniera e le cose naturali insieme, arebbon fatto maggior frutto nell'opere loro che e' non feciono.
Come si vede nell'opere di Mino scultore da Fiesole, il quale avendo l'ingegno atto a far quel che e' voleva, invaghito della maniera di Desiderio da Settignano suo maestro, per la bella grazia che dava alle teste delle femmine e de' putti e d'ogni sua figura, parendoli al suo giudizio meglio della natura, esercitò et andò dietro a quella, abandonando e tenendo cosa inutile le naturali; onde fu più graziato che fondato nell'arte.
Nel monte dunque di Fiesole, già città antichissima vicino a Fiorenza, nacque Mino di Giovanni scultore, il quale posto a l'arte dello squadrar le pietre con Desiderio da Settignano, giovane eccellente nella scultura, come inclinato a quel mestiero, imparò, mentre lavorava le pietre squadrate, a far di terra dalle cose che aveva fatte di marmo Desiderio sì simili, che egli vedendolo volto a far profitto in quell'arte lo tirò innanzi, e lo messe a lavorare di marmo sopra le cose sue, nelle quali con una osservanza grandissima cercava di mantenere la bozza di sotto; né molto tempo andò seguitando che egli si fece assai pratico in quel mestiero, del che se ne sodisfaceva Desiderio infinitamente, ma più Mino dell'amorevolezza di lui, vedendo che continuamente gli insegnava a guardarsi dagl'errori che si possono fare in quell'arte; mentre che egli era per venire in quella professione eccellente, la disgrazia sua volse che Desiderio passasse a miglior vita; la qual perdita fu di grandissimo danno a Mino il quale come disperato si partì da Fiorenza e se ne andò a Roma, et aiutando a' maestri che lavoravano allora opere di marmo e sepolture di cardinali, che andorono in San Pietro di Roma, le quali sono oggi ite per terra per la nuova fabbrica, fu conosciuto per maestro molto prattico e sufficiente, e gli fu fatto fare dal cardinale Guglielmo Destovilla, che li piaceva la sua maniera, l'altare di marmo dove è il corpo di S.
Girolamo nella chiesa di S.
Maria Maggiore, con istorie di basso rilievo della vita sua, le quali egli condusse a perfezione e vi ritrasse quel cardinale.
Facendo poi papa Paulo II veneziano fare il suo palazzo a S.
Marco, vi si adoperò Mino in fare cert'arme.
Dopo morto quel papa, a Mino fu fatto alogazione della sua sepoltura, la quale egli dopo due anni diede finita e murata in S.
Pietro, che fu allora tenuta la più ricca sepoltura che fusse stata fatta d'ornamenti e di figure, a pontefice nessuno, la quale da Bramante fu messa in terra nella rovina di S.
Piero, e quivi stette sotterrata fra i calcinacci parecchi anni, e nel MDXLVII fu fatta rimurare d'alcuni veneziani in S.
Piero nel vecchio, in una pariete vicino alla cappella di papa Innocenzio.
E se bene alcuni credono che tal sepoltura sia di mano di Mino del Reame, ancor che fussino quasi a un tempo, ella è senza dubio di mano di Mino di Fiesole; ben è vero che il detto Mino del Reame vi fece alcune figurette nel basamento che si conoscono, se però ebbe nome Mino, e non più tosto, come alcuni affermano, Dino.
Ma per tornare al nostro, acquistato che egli si ebbe nome in Roma per la detta sepoltura e per la cassa che fece nella Minerva, e sopra essa di marmo la statua di Francesco Tornabuoni di naturale che è tenuta assai bella, e per altre opere, non isté molto ch'egli, con buon numero di danari avanzati, a Fiesole se ne ritornò e tolse donna.
Né molto tempo andò ch'egli per servigio delle donne delle murate fece un tabernacolo di marmo di mezzo rilievo, per tenervi il Sacramento, il quale fu da lui con tutta quella diligenza ch'e' sapeva, condotto a perfezzione.
Il qual non aveva ancora murato, quando inteso le monache di S.
Ambruogio - le quali erano desiderose di far fare un ornamento simile nell'invenzione, ma più ricco d'ornamento, per tenervi dentro la santissima reliquia del miracolo del Sacramento - la sufficienza di Mino, gli diedero a fare quell'opera, la quale egli finì con tanta diligenza, che satisfatte da lui quelle donne gli diedono tutto quello ch'e' dimandò per prezzo di quell'opera; e così poco di poi prese a fare una tavoletta con figure d'una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, messa in mezzo da San Lorenzo e da San Lionardo, di mezzo rilievo, che doveva servire per i preti o capitolo di San Lorenzo, ad instanza di Messer Dietisalvi Neroni; ma è rimasta nella sagrestia della Badia di Firenze.
Et a que' monaci fece un tondo di marmo, drentovi una Nostra Donna di rilievo col suo Figliuolo in collo, qual posono sopra la porta principale che entra in chiesa; il quale piacendo molto all'universale, fu fattogli allogazione di una sepoltura per il Magnifico Messer Bernardo cavaliere di Giugni, il quale per essere stato persona onorevole e molto stimata meritò questa memoria da' suoi fratelli.
Condusse Mino in questa sepoltura oltre alla cassa et il morto, ritrattovi di naturale sopra, una giustizia la quale imita la maniera di Desiderio molto, se non avesse i panni di quella un poco tritati dall'intaglio.
La quale opera fu cagione che l'abate e' monaci della Badia di Firenze, nel qual luogo fu collocata la detta sepoltura, gli dessero a far quella del conte Ugo figliuolo del marchese Uberto di Madeborgo, il quale lasciò a quella badia molte facultà e privilegii; e così, desiderosi d'onorarlo il più ch'e' potevano, feciono fare a Mino, di marmo di Carrara, una sepoltura che fu la più bella opera che Mino facesse mai; perché vi sono alcuni putti che tengono l'arme di quel conte, che stanno molto arditamente e con una fanciullesca grazia; et oltre alla figura del conte morto, con l'effigie di lui ch'egli fece in su la cassa, è in mezzo sopra la bara, nella faccia, una figura d'una Carità con certi putti, lavorata molto diligentemente et accordata insieme molto bene; il simile si vede in una Nostra Donna, in un mezzo tondo col Putto in collo, la quale fece Mino più simile alla maniera di Desiderio che potette, e se egli avesse aiutato il far suo con le cose vive et avesse studiato, non è dubbio che egli arebbe fatto grandissimo profitto nell'arte.
Costò questa sepoltura a tutte sue spese lire 1600 e la finì nel 1481; della quale acquistò molto onore, e per questo gli fu allogato a fare nel Vescovado di Fiesole, a una cappella vicina alla maggiore a man dritta salendo, un'altra sepoltura per il vescovo Lionardo Salutati, vescovo di detto luogo; nella quale egli lo ritrasse in pontificale, simile al vivo quanto sia possibile.
Fece per lo medesimo vescovo una testa d'un Cristo di marmo grande quanto il vivo e molto ben lavorata, la quale fra l'altre cose dell'eredità rimase allo spedale degl'Innocenti; et oggi l'ha il molto reverendo don Vincenzio Borghini, priore di quello spedale, fra le sue più care cose di quest'arti delle quali si diletta quanto più non saprei dire.
Fece Mino nella pieve di Prato un pergamo tutto di marmo, nel quale sono storie di Nostra Donna condotte con molta diligenza e tanto ben commesse, che quell'opera par tutta d'un pezzo.
È questo pergamo in sur un canto del coro, quasi nel mezzo della chiesa, sopra certi ornamenti fatti d'ordine dello stesso Mino; il quale fece il ritratto di Piero di Lorenzo de' Medici e quello della moglie, naturali e simili affatto.
Queste due teste stettono molti anni sopra due porte in camera di Piero, in casa Medici, sotto un mezzo tondo; dopo, sono state ridotte con molti altri ritratti d'uomini illustri di detta casa nella guardaroba del signor duca Cosimo.
Fece anco una Nostra Donna di marmo, ch'è oggi nell'udienza dell'Arte de' Fabricanti; et a Perugia mandò una tavola di marmo a Messer Baglione Ribi, che fu posta in San Piero alla cappella del Sagramento, la qual opera è un tabernacolo in mezzo d'un San Giovanni e d'un San Girolamo, che sono due buone figure di mezzo rilievo.
Nel Duomo di Volterra parimente è di sua mano il tabernacolo del Sagramento, e due Angeli che lo mettono in mezzo, tanto ben condotti e con diligenza, che è questa opera meritamente lodata da tutti gl'artefici.
Finalmente volendo un giorno Mino muovere certe pietre si affaticò, non avendo quegli aiuti che gli bisognavano, di maniera che, presa una calda, se ne morì; e fu nella calonaca di Fiesole dagl'amici e parenti suoi onorevolmente sepellito l'anno 1486.
Il ritratto di Mino è nel nostro libro de' disegni non so di cui mano; perché a me fu dato con alcuni disegni fatti col piombo dallo stesso Mino, che sono assai belli.
FINE DELLA VITA DI MINO, SCULTORE DA FIESOLE
VITA DI LORENZO COSTA FERRARESE PITTORE
Se bene in Toscana più che in tutte l'altre provincie d'Italia e forse d'Europa, si sono sempre esercitati gl'uomini nelle cose del disegno, non è per questo che nell'altre provincie non si sia d'ogni tempo risvegliato qualche ingegno, che nelle medesime professioni sia stato raro et eccellente, come si è in fin qui in molte vite dimostrato, e più si mostrerà per l'avvenire.
Ben è vero che dove non sono gli studi e gl'uomini, per usanza inclinati ad imparare, non se ne può né così tosto, né così eccellente divenire, come in que' luoghi si fa, dove a concorrenza si esercitano e studiano gl'artefici di continuo.
Ma tosto che uno o due cominciano, pare che sempre avenga che molti altri (tanta forza ha la virtù) s'ingegnino di seguitargli con onore di se stessi e delle patrie loro.
Lorenzo Costa ferrarese, essendo da natura inclinato alle cose della pittura e sentendo esser celebre e molto reputato in Toscana fra' Filippo, Benozzo et altri, se ne venne in Firenze per vedere l'opere loro; e qua arrivato, perché molto gli piacque la maniera loro, ci si fermò per molti mesi, ingegnandosi quanto potette il più d'imitargli e particolarmente nel ritrarre di naturale; il che così felicemente gli riuscì, che tornato alla patria (se bene ebbe la maniera un poco secca e tagliente) vi fece molto opere lodevoli, come si può vedere nel coro della chiesa di S.
Domenico in Ferrara, che è tutto di sua mano dove si conosce la diligenza che egli usò nell'arte, e che egli mise molto studio nelle sue opere.
E nella guardaroba del signor Duca di Ferrara si veggiono di mano di costui, in molti quadri, ritratti di naturale che sono benissimo fatti e molto simili al vivo.
Similmente per le case de' gentiluomini sono opere di sua mano tenute in molta venerazione.
A Ravenna, nella chiesa di S.
Domenico, alla cappella di S.
Bastiano, dipinse a olio la tavola, et a fresco alcune storie, che furono molto lodate.
Di poi condotto a Bologna dipinse in S.
Petronio nella cappella de' Mariscotti, in una tavola, un S.
Bastiano saettato alla colonna, con molte altre figure, la qual opera per cosa lavorata a tempera fu la migliore che insino allora fusse stata fatta in quella città.
Fu anco opera sua la tavola di San Ieronimo nella cappella de' Castelli e parimente quella di San Vincenzio, che è similmente lavorata a tempera, nella cappella de' Griffoni, la predella della quale fece dipignere a un suo creato, che si portò molto meglio che non fece egli nella tavola, come a suo luogo si dirà.
Nella medesima città fece Lorenzo, e nella chiesa medesima alla cappella de' Rossi, in una tavola, la Nostra Donna, San Iacopo, San Giorgio, San Bastiano e San Girolamo, la quale opera è la migliore e di più dolce maniera di qual si voglia altra che costui facesse già mai.
Andato poi Lorenzo al servigio del signor Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, gli dipinse nel palazzo di San Sebastiano, in una camera lavorata parte a guazzo e parte a olio, molte storie.
In una è la marchesa Isabella ritratta di naturale, che ha seco molte signore, che con varii suoni cantando fanno dolce armonia; in un'altra è la dea Latona, che converte, secondo la favola, certi villani in ranocchi; nella terza è il marchese Francesco, condotto da Ercole per la via della virtù sopra la cima d'un monte consecrato all'eternità; in un altro quadro si vede il medesimo Marchese sopra un piedistallo, trionfante con un bastone in mano, et intorno gli sono molti signori e servitori suoi con stendardi in mano, tutti lietissimi e pieni di giubilo per la grandezza di lui, fra i quali tutti è un infinito numero di ritratti di naturale.
Dipinse ancora nella sala grande, dove oggi sono i trionfi di mano del Mantegna, due quadri, cioè in ciascuna testa uno.
Nel primo, che è a guazzo, sono molti nudi che fanno fuochi e sacrifizii a Ercole, et in questo è ritratto di naturale il Marchese, con tre suoi figliuoli, Federigo, Ercole e Ferrante, che poi sono stati grandissimi et illustrissimi signori; vi sono similmente alcuni ritratti di gran donne.
Nell'altra, che fu fatto a olio molti anni dopo il primo, e che fu quasi dell'ultime cose che dipignesse Lorenzo, è il marchese Federigo fatto uomo, con un bastone in mano, come generale di Santa Chiesa sotto Leone Decimo; et intorno gli sono molti signori ritratti dal Costa di naturale.
In Bologna, nel palazzo di Messer Giovanni Bentivogli, dipinse il medesimo, a concorrenza di molti altri maestri, alcune stanze, delle quali per essere andate per terra con la rovina di quel palazzo, non si farà altra menzione.
Non lascerò già di dire che dell'opere che fece per i Bentivogli rimase solo in piedi la cappella, che egli fece a Messer Giovanni in San Iacopo, dove in due storie dipinse due trionfi tenuti bellissimi, con molti ritratti.
Fece anco in San Giovanni in Monte l'anno 1497 a Iacopo Chedini, in una cappella, nella quale volle dopo morte essere sepolto, una tavola, dentrovi la Nostra Donna, San Giovanni Evangelista, Sant'Agostino et altri Santi.
In San Francesco dipinse, in una tavola, una Natività, San Iacopo e Santo Antonio da Padova.
Fece in S.
Piero per Domenico Garganelli, gentiluomo bolognese, il principio d'una cappella bellissima; ma qualunche si fusse la cagione, fatto che ebbe nel cielo di quella alcune figure la lasciò imperfetta et a fatica cominciata.
In Mantoa, oltre l'opere che vi fece per il Marchese, delle quali si è favellato di sopra, dipinse in S.
Salvestro in una tavola la Nostra Donna, e da una banda San Salvestro che le raccomanda il popolo di quella città, dall'altra San Bastiano, San Paulo, Santa Lisabetta e San Ieronimo, e per quello che s'intende, fu collocata la detta tavola in quella chiesa dopo la morte del Costa, il quale avendo finita la sua vita in Mantoa, nella quale città sono poi stati sempre i suoi descendenti, volle in questa chiesa aver per sé e per i suoi successori la sepoltura.
Fece il medesimo molte altre pitture delle quali non si dirà altro, essendo a bastanza aver fatto memoria delle migliori.
Il suo ritratto ho avuto in Mantoa da Fermo Ghisoni pittor eccellente, che mi affermò quello esser di propria mano del Costa, il quale disegnò ragionevolmente, come si può vedere nel nostro libro in una carta di penna in carta pecora, dove è il giudizio di Salamone et un San Girolamo di chiaro scuro, che sono molto ben fatti.
Furono discepoli di Lorenzo, Ercole da Ferrara suo compatriota, del quale si scriverà di sotto la vita, e Lodovico Malino similmente ferrarese, del quale sono molte opere nella sua patria et in altri luoghi, ma la migliore che vi facesse fu una tavola, la quale è nella chiesa di San Francesco di Bologna, in una cappella vicina alla porta principale; nella quale è quando Gesù Cristo, di dodici anni, disputa co' Dottori nel tempio.
Imparò anco i primi principii dal Costa il Dosso vecchio da Ferrara, dell'opere del quale si farà menzione al luogo suo.
E questo è quanto si è potuto ritrarre della vita et opere di Lorenzo Costa ferrarese.
VITA DI ERCOLE FERRARESE PITTORE
Se bene molto inanzi che Lorenzo Costa morisse, Ercole Ferrarese suo discepolo era in bonissimo credito, e fu chiamato in molti luoghi a lavorare, non però (il che di rado suole avvenire) volle abandonar mai il suo maestro; e più tosto si contentò di star con esso lui con mediocre guadagno e lode, che da per sé con utile o credito maggiore.
La quale gratitudine, quanto meno oggi negl'uomini si ritruova, tanto più merita d'esser perciò Ercole lodato; il quale conoscendosi obligato a Lorenzo pospose ogni suo commodo al volere di lui, e gli fu come fratello e figliuolo insino all'estremo della vita.
Costui dunque, avendo miglior disegno che il Costa, dipinse sotto la tavola da lui fatta in San Petronio, nella cappella di San Vincenzio, alcune storie di figure piccole a tempera, tanto bene e con sì bella e buona maniera, che non è quasi possibile veder meglio, né imaginarsi la fatica e diligenza che Ercole vi pose; là dove è molto miglior opera la predella che la tavola, le quali amendue furono fatte in un medesimo tempo, vivente il Costa.
Dopo la morte del quale fu messo Ercole da Domenico Garganelli a finire la cappella in San Petronio, che, come si disse di sopra, aveva Lorenzo cominciato e fattone picciola parte.
Ercole dunque, al quale dava per ciò il detto Domenico quattro ducati il mese, e le spese a lui et a un garzone, e tutti i colori che nell'opera avevano a porsi, messosi a lavorar, finì quell'opera per sì fatta maniera che passò il maestro suo di gran lunga, così nel disegno e colorito come nella invenzione.
Nella prima parte, o vero faccia, è la crucifissione di Cristo fatta con molto giudizio, perciò che oltre il Cristo che vi si vede già morto, vi è benissimo espresso il tumulto de' Giudei venuti a vedere il Messia in croce; e tra essi è una diversità di teste maravigliosa, nel che si vede che Ercole con grandissimo studio cercò di farle tanto differenti l'una dall'altra, che non si somigliassino in cosa alcuna; sonovi anche alcune figure che scoppiando di dolore nel pianto, assai chiaramente dimostrano quanto egli cercasse di imitare il vero; evvi lo svenimento della Madonna ch'è pietosissimo, ma molto più sono le Marie verso di lei, perché si veggiono tutte compassionevoli, e nell'aspetto tanto piene di dolore quanto appena è possibile imaginarsi nel vedersi morte inanzi le più care cose che altri abbia, e stare in perdita delle seconde.
Tra l'altre cose notabili ancora che vi sono, vi è un Longino a cavallo sopra una bestia secca in iscorto, che ha rilievo grandissimo, et in lui si conosce la impietà nell'avere aperto il costato di Cristo, e la penitenza e conversione nel trovarsi ralluminato.
Similmente in strana attitudine figurò alcuni soldati che si giuocano la veste di Cristo, con modi bizzarri di volti et abbigliamenti di vestiti.
Sono anco ben fatti e con belle invenzioni, i ladroni che sono in croce; e perché si dilettò Ercole assai di fare scorti, i quali quando sono bene intesi sono bellissimi, egli fece in quell'opera un soldato a cavallo che levate le gambe dinanzi in alto, viene in fuori di maniera che pare di rilievo; e perché il vento fa piegare una bandiera che egli tiene in mano, per sostenerla fa una forza bellissima.
Fecevi anco un S.
Giovanni che rinvolto in un lenzuolo si fugge.
I soldati parimente, che sono in questa opera, sono benissimo fatti e con le più naturali e proprie movenze, che altre figure che insino allora fussono state vedute, le quali tutte attitudini e forze che quasi non si possono far meglio, mostrano che Ercole aveva grandissima intelligenza e si affaticava nelle cose dell'arte.
Fece il medesimo, nella facciata che è dirimpetto a questa, il transito di Nostra Donna, la quale è dagl'apostoli circondata con attitudini bellissime, e fra essi sono sei persone ritratte di naturale tanto bene, che quegli che le conobbero affermano che elle sono vivissime.
Ritrasse anco nella medesima opera se medesimo e Domenico Garganelli padrone della cappella, il quale per l'amore che portò a Ercole e per le lodi che sentì dare a quell'opera, finita ch'ella fu, gli donò mille lire di bolognini.
Dicono che Ercole mise nel lavoro di questa opera dodici anni: sette per condurla a fresco e cinque in ritoccarla a secco.
Ben è vero che in quel mentre fece alcune altre cose e particolarmente, che si sa, la predella dell'altar maggiore di San Giovanni in Monte, nella quale fece tre storie della Passion di Cristo.
E perché Ercole fu di natura fantastico, e massimamente quando lavorava, avendo per costume che né pittori né altri lo vedessino, fu molto odiato in Bologna dai pittori di quella città, i quali per invidia hanno sempre portato odio ai forestieri che vi sono stati condotti a lavorare; et il medesimo fanno anco alcuna volta fra loro stessi, nelle concorrenze; benché questo è quasi particolar vizio de' professori di queste nostre arti in tutti i luoghi.
S'accordarono dunque una volta alcuni pittori bolognesi con un legnaiuolo, e per mezzo suo si rinchiusero in chiesa vicino alla cappella che Ercole lavorava; e la notte seguente, entrati in quella per forza, non pure non si contentarono di veder l'opera, il che doveva bastar loro, ma gli rubarono tutti i cartoni, gli schizzi, i disegni et ogni altra cosa che vi era di buono.
Per la qual cosa si sdegnò in maniera Ercole, che finita l'opera si partì di Bologna senza punto dimorarvi; e seco ne menò il duca Tagliapietra, scultore molto nominato, il quale in detta opera che Ercole dipinse intagliò di marmo que' bellissimi fogliami che sono nel parapetto, dinanzi a essa cappella, et il quale fece poi in Ferrara tutte le finestre di pietra del palazzo del Duca, che sono bellissime.
Ercole dunque, infastidito finalmente dallo star fuori di casa, se ne stette poi sempre in Ferrara in compagnia di colui e fece in quella città molte opere.
Piaceva a Ercole il vino straordinariamente, perché spesso inebriandosi fu cagione di accortarsi la vita, la quale avendo condotta senza alcun male insino agl'anni quaranta, gli cadde un giorno la gocciola, di maniera che in poco tempo gli tolse la vita.
Lasciò Guido bolognese pittore, suo creato, il quale l'anno 1491, come si vede dove pose il nome suo sotto il portico di S.
Piero a Bologna, fece a fresco un Crucifisso, con le Marie, i ladroni, i cavalli et altre figure ragionevoli.
E perché egli disiderava sommamente di venire stimato in quella città come era stato il suo maestro, studiò tanto e si sottomise a tanti disagi, che si morì di trentacinque anni.
E se si fusse messo Guido a imparare l'arte da fanciullezza, come vi si mise d'anni diciotto, arebbe non pur pareggiato il suo maestro senza fatica, ma passatolo ancora di gran lunga.
E nel nostro libro sono disegni di mano di Ercole e di Guido, molto ben fatti e tirati con grazia e buona maniera, etc.
FINE DELLA VITA D'ERCOLE DA FERRARA, PITTORE
VITA DI IACOPO, GIOVANNI E GENTILE BELLINI PITTORI VINIZIANI
Le cose che sono fondate nella virtù, ancor che il principio paia molte volte basso e vile, vanno sempre in alto di mano in mano, et insino a ch'elle non son arrivate al sommo della gloria, non si arrestano, né posano già mai, sì come chiaramente potette vedersi nel debile e basso principio della casa de' Bellini, e nel grado in che venne poi, mediante la pittura.
Adunque Iacopo Bellini, pittore viniziano, essendo stato discepolo di Gentile da Fabriano nella concorrenza che egli ebbe con quel Domenico, che insegnò il colorire a olio ad Andrea dal Castagno, ancor che molto si affaticasse per venire eccellente nell'arte, non acquistò però nome in quella, se non dopo la partita di Vinezia di esso Domenico.
Ma poi ritrovandosi in quella città senza aver concorrente che lo pareggiasse, accrescendo sempre in credito e fama, sì fece in modo eccellente che egli era nella sua professione il maggiore e più reputato; et acciò che non pure si conservasse, ma si facesse maggiore nella casa sua e ne' sucessori il nome acquistatosi nella pittura, ebbe due figliuoli inclinatissimi all'arte, e di bello e buono ingegno: l'uno fu Giovanni e l'altro Gentile, al quale pose così nome per la dolce memoria che teneva di Gentile da Fabriano, stato suo maestro e come padre amorevole.
Quando dunque furono alquanto cresciuti i detti due figliuoli, Iacopo stesso insegnò loro con ogni diligenza i principii del disegno, ma non passò molto, che l'uno e l'altro avanzò il padre di gran lunga; il quale, di ciò rallegrandosi molto, sempre gli inanimiva, mostrando loro che disiderava che eglino, come i toscani fra loro medesimi portavano il vanto di far forza per vincersi l'un l'altro, secondo che venivono all'arte di mano in mano, così Giovanni vincesse lui, e poi Gentile l'uno e l'altro, e così successivamente.
Le prime cose che diedero fama a Iacopo, furono il ritratto di Giorgio Cornaro e di Caterina reina di Cipri, una tavola che egli mandò a Verona, dentrovi la passione di Cristo con molte figure, fra le quali ritrasse se stesso di naturale et una storia della croce, la quale si dice essere nella scuola di S.
Giovanni Evangelista, le quali tutte e molte altre furono dipinte da Iacopo con l'aiuto de' figliuoli; e questa ultima storia fu fatta in tela, sì come si è quasi sempre in quella città costumato di fare, usandovisi poco dipignere, come si fa altrove, in tavole di legname d'albero, da molti chiamato oppio e d'alcuni gàtticce; il quale legname, che fa per lo più lungo i fiumi o altre acque, è dolce affatto e mirabile per dipignervi sopra, perché tiene molto il fermo quando si commette con la mastrice.
Ma in Venezia non si fanno tavole, e facendose alcuna volta, non si adopera altro legname che d'abeto, di che è quella città abondantissima, per rispetto del fiume Adice che ne conduce grandissima quantità di terra tedesca, senza che anco ne viene pure assai di Schiavonia.
Si costuma dunque assai in Vinezia dipignere in tela, o sia perché non si fende e non intarla, o perché si possono fare le pitture di che grandezza altri vuole, o pure per la commodità, come si disse altrove, di mandarle commodamente dove altri vuole, con pochissima spesa e fatica.
Ma sia di ciò la cagione qualsivoglia, Iacopo e Gentile feciono, come di sopra si è detto, le prime loro opere in tela; e poi Gentile da per sé, alla detta ultima storia della croce, n'aggiunse altri sette o vero otto quadri, ne' quali dipinse il miracolo della croce di Cristo, che tiene per reliquia la detta scuola; il quale miracolo fu questo: essendo gettata per non so che caso la detta croce dal ponte della Paglia in Canale, per la reverenza che molti avevano al legno che vi è, della croce di Gesù Cristo, si gettarono in acqua per ripigliarla, ma come fu volontà di Dio niuno fu degno di poterla pigliare, eccetto che il guardiano di quella scuola.
Gentile adunque, figurando questa storia, tirò in prospettiva in sul Canale grande molte case, il ponte alla Paglia, la piazza di S.
Marco et una lunga processione d'uomini e donne, che sono dietro al clero.
Similmente molti gettati in acqua, altri in atto di gettarsi, molti mezzo sotto et altri in altre maniere et attitudini bellissime; e finalmente vi fece il guardiano detto, che la ripiglia.
Nella qual opera invero fu grandissima la fatica e diligenza di Gentile, considerandosi l'infinità delle figure, i molti ritratti di naturale, il diminuire delle figure che sono lontane et i ritratti particolarmente di quasi tutti gl'uomini che allora erano di quella scuola o vero Compagnia; et in ultimo vi è fatto, con molte belle considerazioni, quando si ripone la detta croce.
Le quali tutte storie, dipinte nei sopra detti quadri di tela, arecarono a Gentile grandissimo nome.
Ritiratosi poi affatto Iacopo da sé, e così ciascuno de' figliuoli, attendeva ciascuno di loro agli studi dell'arte.
Ma di Iacopo non farò altra menzione, perché non essendo state l'opere sue rispetto a quelle de' figliuoli straordinarie et essendosi non molto dopo che da lui si ritirarono i figliuoli, morto, giudico esser molto meglio ragionare a lungo di Giovanni e Gentile solamente.
Non tacerò già che se bene si ritirarono questi fratelli a vivere ciascuno da per sé, che nondimeno si ebbero in tanta reverenza l'un l'altro, et ambidue il padre, che sempre ciascuno di loro celebrando l'altro, si faceva inferiore di meriti; e così modestamente cercavano di sopravanzare l'un l'altro, non meno in bontà e cortesia, che nell'eccellenza dell'arte.
Le prime opere di Giovanni furono alcuni ritratti di naturale che piacquero molto, e particolarmente quello del doge Loredano, se bene altri dicono essere stato Giovanni Mozzenigo, fratello di quel Piero che fu doge molto inanzi a esso Loredano.
Fece dopo Giovanni una tavola nella chiesa di S.
Giovanni, all'altare di S.
Caterina da Siena, nella quale, che è assai grande, dipinse la Nostra Donna a sedere col Putto in collo, S.
Domenico, S.
Ieronimo, S.
Caterina, S.
Orsola e due altre vergini; et a' piedi della Nostra Donna fece tre putti ritti, che cantano a un libro, bellissimo.
Di sopra fece lo sfondato d'una volta in un casamento che è molto bello; la qual opera fu delle migliori che fusse stata fatta insino allora in Venezia.
Nella chiesa di S.
Iobbe dipinse il medesimo all'altar di esso Santo, una tavola con molto disegno e bellissimo colorito, nella quale fece in mezzo, a sedere un poco alta, la Nostra Donna col Putto in collo, e S.
Iobbe e S.
Bastiano nudi; et appresso S.
Domenico, S.
Francesco, S.
Giovanni e S.
Agostino, e da basso tre putti che suonano con molta grazia, e questa pittura fu non solo lodata allora che fu vista di nuovo, ma è stata similmente sempre dopo, come cosa bellissima.
Da queste lodatissime opere mossi, alcuni gentiluomini cominciarono a ragionare che sarebbe ben fatto, con l'occasione di così rari maestri, fare un ornamento di storie nella sala del gran consiglio, nelle quali si dipignessero le onorate magnificenze della loro maravigliosa città, le grandezze, le cose fatte in guerra, l'imprese et altre cose somiglianti, degne di essere rappresentate in pittura alla memoria di coloro che venisseno; acciò che all'utile e piacere che si trae dalle storie che si leggono, si aggiugnesse trattenimento all'occhio et all'intelletto parimente, nel vedere da dottissima mano fatte l'imagini di tanti illustri signori, e l'opere egregie di tanti gentiluomini, dignissimi d'eterna fama e memoria.
A Giovanni dunque e Gentile, che ogni giorno andavano acquistando maggiormente, fu ordinato da chi reggeva che si allogasse quest'opera, e commesso che quanto prima se le desse principio.
Ma è da sapere che Antonio Viniziano, come si disse nella vita sua, molto innanzi aveva dato principio a dipignere la medesima sala, e vi aveva fatto una grande storia, quando dall'invidia d'alcuni maligni fu forzato a partirsi e non seguitare altramente quella onoratissima impresa.
Ora Gentile, o per avere miglior modo e più pratica nel dipignere in tela che a fresco, o qualunche altra si fusse la cagione, adoperò di maniera che con facilità ottenne di fare quell'opera non in fresco, ma in tela.
E così messovi mano, nella prima fece il papa che presenta al doge un cero, perché lo portasse nella solennità di processioni che s'avevano a fare.
Nella quale opera ritrasse Gentile tutto il difuori di S.
Marco et il detto papa fece ritto in pontificale con molti prelati dietro, e similmente il doge diritto, accompagnato da molti senatori.
In un'altra parte fece prima quando l'imperatore Barbarossa riceve benignamente i legati viniziani, e di poi quando tutto sdegnato si prepara alla guerra, dove sono bellissime prospettive et infiniti ritratti di naturale, condotti con bonissima grazia et in gran numero di figure.
Nell'altra che seguita, dipinse il papa che conforta il doge et i signori veneziani ad armare a comune spesa trenta galee, per andare a combattere con Federigo Barbarossa.
Stassi questo papa in una sedia pontificale in roccetto et ha il doge accanto, e molti senatori abbasso.
Et anco in questa parte ritrasse Gentile, ma in altra maniera, la piazza e la facciata di S.
Marco, et il mare con tanta moltitudine d'uomini, che è proprio una maraviglia.
Si vede poi in un'altra parte il medesimo papa ritto, et in pontificale dare la benedizione al doge che armato e con molti soldati dietro, pare che vada all'impresa.
Dietro a esso doge si vede in lunga processione infiniti gentiluomini, e nella medesima parte tirato in prospettiva il palazzo e S.
Marco; e questa è delle buone opere che si veggiano di mano di Gentile, se bene pare che in quell'altra, dove si rappresenta una battaglia navale, sia più invenzione, per esservi un numero infinito di galee che combattono et una quantità d'uomini incredibile, et insomma per vedervisi che mostrò di non intendere meno le guerre marittime, che le cose della pittura.
E certo l'aver fatto Gentile in questa opera numero di galee nella battaglia intrigate, soldati che combattono, barche in prospettiva diminuite con ragione, bella ordinanza nel combatterete, il furore, la forza, la difesa, il ferire de' soldati, diverse maniere di morire, il fendere dell'acqua che fanno le galee, la confusione dell'onde, e tutte le sorti d'armamenti marittimi; e certo dico non mostra l'aver fatto tanta diversità di cose, se non il grande animo di Gentile, l'artifizio, l'invenzione et il giudizio, essendo ciascuna cosa da per sé benissimo fatta, e parimente tutto il composto insieme.
In un'altra storia fece il papa che riceve, accarezzandolo, il doge che torna con la desiderata vittoria, donandogli un anello d'oro per isposare il mare, sì come hanno fatto e fanno ancora ogn'anno i sucessori suoi, in segno del vero e perpetuo dominio che di esso hanno meritamente; et in questa parte Ottone, figliuolo di Federigo Barbarossa, ritratto di naturale in ginocchioni inanzi al papa, e come dietro al doge sono molti soldati armati, così dietro al papa sono molti cardinali e gentiluomini.
Appariscono in questa storia solamente le poppe delle galee, e sopra la capitana è una vettoria finta d'oro a sedere, con una corona in testa et uno scettro in mano.
Dell'altre parti della sala furono allogate le storie che vi andavano, a Giovanni fratello di Gentile, ma perché l'ordine delle cose che vi fece depende da quelle fatte in gran parte ma non finite dal Vivarino, è bisogno che di costui alquanto si ragioni.
La parte dunque della sala che non fece Gentile fu data a far parte a Giovanni e parte al detto Vivarino, acciò che la concorrenza fusse cagione a tutti di meglio operare.
Onde il Vivarino, messo mano alla parte che gli toccava, fece a canto all'ultima storia di Gentile, Ottone sopra detto, che si offerisce al papa et a' viniziani d'andare a procurare la pace fra loro e Federigo suo padre, e che ottenutola si parte, licenziato in sulla fede.
In questa prima parte, oltre all'altre cose, che tutte sono degne di considerazione, dipinse il Vivarino con bella prospettiva un tempio aperto con scalee e molti personaggi; e dinanzi al papa, che è in sedia circondato da molti senatori, è il detto Ottone in ginocchioni, che giurando obliga la sua fede.
Acanto a questa fece Ottone arrivato dinanzi al padre che lo riceve lietamente, et una prospettiva di casamenti bellissima, Barbarossa in sedia et il figliuolo ginocchioni che gli tocca la mano, accompagnato da molti gentiluomini viniziani ritratti di naturale, tanto bene che si vede che egli imitava molto bene la natura.
Averebbe il povero Vivarino con suo molto onore seguitato il rimanente della sua parte; ma essendosi, come piacque a Dio, per la fatica e per essere di mala complessione, morto, non andò più oltre.
Anzi, perché neanco questo che aveva fatto aveva la sua perfezzione, bisognò che Giovan Bellini in alcuni luoghi lo ritoccasse.
Aveva in tanto egli ancora dato principio a quattro istorie, che ordinatamente seguitano le sopra dette.
Nella prima fece il detto papa in S.
Marco, ritraendo la detta chiesa come stava apunto, il quale porge a Federigo Barbarossa a basciare il piede.
Ma quale si fusse la cagione, questa prima storia di Giovanni fu ridotta molto più vivace e senza comparazione migliore, dall'eccellentissimo Tiziano.
Ma seguitando Giovanni le sue storie, fece nell'altra il papa che dice messa in S.
Marco, e che poi in mezzo del detto imperatore e del doge concede plenaria e perpetua indulgenzia a chi visita in certi tempi la detta chiesa di S.
Marco, e particolarmente per l'Ascensione del Signore.
Vi ritrasse il didentro di detta chiesa et il detto papa in sulle scalee, che escono di coro, in pontificale e circondato da molti cardinali e gentiluomini; i quali tutti fanno questa una copiosa, ricca e bella storia.
Nell'altra, che è disotto a questa, si vede il papa in roccetto, che al doge dona un'ombrella dopo averne data un'altra all'imperatore e serbatone due per sé.
Nell'ultima che vi dipinse Giovanni, si vede papa Alessandro, l'imperatore et il doge giugnere a Roma, dove fuor della porta gli è presentato dal clero e dal popolo romano otto stendardi di varii colori et otto trombe d'argento, le quali egli dona al doge; acciò l'abbia per insegna egli et i sucessori suoi.
Qui ritrasse Giovanni Roma in prospettiva alquanto lontana, gran numero di cavalli, infiniti pedoni, molte bandiere et altri segni d'allegrezza sopra Castel Sant'Agnolo.
E perché piacquero infinitamente queste opere di Giovanni, che sono veramente bellissime, si dava a punto ordine di fargli fare tutto il restante di quella sala, quando si morì, essendo già vecchio.
Ma perché insin qui non si è d'altro che della sala ragionato, per non interrompere le storie di quella, ora tornando alquanto a dietro, diciamo che di mano del medesimo si veggiono molte opere; ciò sono una tavola, che è oggi in Pesero in S.
Domenico all'altar maggiore; nella chiesa di S.
Zacheria di Vinezia, alla cappella di S.
Girolamo, è in una tavola una Nostra Donna con molti Santi, condotta con gran diligenza, et un casamento fatto con molto giudizio; e nella medesima città, nella sagrestia de' frati minori, detta la Ca' grande, n'è un'altra di mano del medesimo fatta con bel disegno e buona maniera.
Una similmente n'è in S.
Michele di Murano, monasterio de' monaci camaldolensi; et in S.
Francesco della Vigna, dove stanno frati del Zoccolo, nella chiesa vecchia, era in un quadro un Cristo morto, tanto bello che que' signori, essendo quello molto celebrato a Lodovico Undecimo re di Francia, furono quasi forzati, domandandolo egli con istanza, se ben mal volentieri, a compiacernelo.
In luogo del quale ne fu messo un altro col nome del medesimo Giovanni, ma non così bello, né così ben condotto come il primo.
E credono alcuni che questo ultimo per lo più fusse lavorato da Girolamo Mocetto, creato di Giovanni.
Nella Confraternita parimente di S.
Girolamo è un'opera del medesimo Bellino di figure piccole, molto lodate, et in casa Messer Giorgio Cornaro è un quadro similmente bellissimo, dentrovi Cristo, Cleofas e Luca.
Nella sopra detta sala dipinse ancora, ma non già in quel tempo medesimo, una storia, quando i viniziani cavano del monasterio della Carità non so che papa, il quale, fuggitosi in Vinegia, aveva nascosamente servito per cuoco molto tempo ai monaci di quel monasterio; nella quale storia sono molte figure ritratte di naturale et altre figure bellissime.
Non molto dopo, essendo in Turchia portati da un ambasciadore alcuni ritratti al Gran Turco, recarono tanto stupore e maraviglia a quello imperatore che, se bene sono fra loro per la legge maumettana proibite le pitture, l'accettò nondimeno di bonissima voglia, lodando senza fine il magisterio e l'artefice; e, che è più, chiese che gli fusse il maestro di quello mandato, onde considerando il senato che per essere Giovanni in età che male poteva sopportare disagi, senza che non volevano privare di tant'uomo la loro città, avendo egli massimamente allora le mani nella già detta sala del gran consiglio, si risolverono di mandarvi Gentile suo fratello, considerato che farebbe il medesimo che Giovanni.
Fatto dunque mettere a ordine Gentile, sopra le loro galee lo condussono a salvamento in Gostantinopoli, dove essendo presentato dal balio della Signoria a Maumetto, fu veduto volentieri e come cosa nuova molto accarezzato; e massimamente avendo egli presentato a quel prencipe una vaghissima pittura che fu da lui ammirata, il quale quasi non poteva credere che un uomo mortale avesse in sé tanta quasi divinità che potesse esprimere sì vivamente le cose della natura.
Non vi dimorò molto Gentile che ritrasse esso imperator Maumetto di naturale tanto bene, che era tenuto un miracolo.
Il quale imperatore, dopo aver veduto molte sperienze di quell'arte, dimandò Gentile se gli dava il cuor di dipignere se medesimo; et avendo Gentile risposto che sì, non passò molti giorni che si ritrasse a una spera tanto proprio che pareva vivo; e portatolo al signore, fu tanta la maraviglia che di ciò si fece, che non poteva se non imaginarsi che egli avesse qualche divino spirito addosso.
E se non fusse stato che, come si è detto, è per legge vietato fra' turchi quell'esercizio, non averebbe quello imperator mai licenziato Gentile.
Ma, o per dubbio che non si mormorasse, o per altro, fattolo venir un giorno a sé, lo fece primieramente ringraziar delle cortesie usate et appresso lo lodò maravigliosamente per uomo eccellentissimo, poi dettogli che domandasse che grazia volesse, che gli sarebbe senza fallo conceduta, Gentile, come modesto e da bene, niente altro chiese, salvo che una lettera di favore, per la quale lo raccomandasse al serenissimo senato et illustrissima signoria di Vinezia sua patria.
Il che fu fatto quanto più caldamente si potesse, e poi con onorati doni e dignità di cavaliere, fu licenziato.
E fra l'altre cose che in quella partita gli diede quel signore, oltre a molti privilegii, gli fu posta al collo una catena lavorata alla turchesca, di peso di scudi dugentocinquanta d'oro, la quale ancora si truova appresso agli eredi suoi, in Vinezia.
Partito Gentile di Gostantinopoli, con felicissimo viaggio tornò a Vinezia, dove fu da Giovanni suo fratello e quasi da tutta quella città, con letizia ricevuto, rallegrandosi ognuno degl'onori che alla sua virtù aveva fatto Maumetto.
Andando poi a fare reverenza al doge et alla Signoria, fu veduto molto volentieri e commendato, per aver egli, secondo il disiderio loro, molto sodisfatto a quell'imperatore.
E perché vedesse quanto conto tenevano delle lettere di quel prencipe che l'aveva raccomandato, gl'ordinarono una provisione di dugento scudi l'anno, che gli fu pagata tutto il tempo di sua vita.
Fece Gentile dopo il suo ritorno poche opere; finalmente, essendo già vicino all'età d'ottant'anni, dopo aver fatte queste e molte altre opere, passò all'altra vita, e da Giovanni suo fratello gli fu dato onorato sepolcro in S.
Giovanni e Paulo, l'anno MDI.
Rimaso Giovanni vedovo di Gentile, il quale aveva sempre amato tenerissimamente, andò, ancor che fusse vecchio, lavorando qualche cosa, e passandosi tempo.
E perché si era dato a far ritratti di naturale, introdusse usanza in quella città, che chi era in qualche grado si faceva o da lui o da altri ritrarre, onde in tutte le case di Vinezia sono molti ritratti et in molte de' gentiluomini si veggiono gl'avi e' padri loro insino in quarta generazione, et in alcune più nobili molte più oltre; usanza certo che è stata sempre lodevolissima eziandio appresso gl'antichi.
E chi non sente infinito piacere e contento, oltre l'orrevolezza et ornamento che fanno, in vedere l'imagini de' suoi maggiori? E massimamente se per i governi delle republiche, per opere egregi fatte in guerra et in pace, se per lettere o per altra notabile e segnalata virtù, sono stati chiari et illustri? Et a che altro fine, come si è detto in altro luogo, ponevano gl'antichi le imagini degl'uomini grandi ne' luoghi publici, con onorate inscrizzioni, che per accendere gl'animi di coloro che venivano alla virtù et alla gloria? Giovanni dunque ritrasse a Messer Pietro Bembo prima che andasse a star con papa Leone Decimo, una sua inamorata, così vivamente che meritò esser da lui, sì come fu Simon Sanese dal primo Petrarca fiorentino, da questo secondo viniziano, celebrato nelle sue rime, come in quel sonetto:
O imagine mia celeste e pura,
dove nel principio del secondo quadernario dice:
Credo che 'l mio Bellin con la figura,
e quello che seguita; e che maggior premio possono gl'artefici nostri disiderare delle lor fatiche, che essere dalle penne de' poeti illustri celebrati? Sì com'è anco stato l'eccellentissimo Tiziano dal dottissimo Messer Giovanni della Casa, in quel sonetto che comincia:
Ben veggio, Tiziano, in forme nuove,
et in quell'altro
Son queste, Amor, le vaghe treccie bionde.
Non fu il medesimo Bellino dal famosissimo Ariosto nel principio del XXXIII canto d'Orlando Furioso, fra i migliori pittori della sua età annoverato?
Ma per tornare all'opere di Giovanni, cioè alle principali, perché troppo sarei lungo s'io volessi far menzione de' quadri e de' ritratti che sono per le case de' gentiluomini di Vinezia et in altri luoghi di quello stato, dico che fece in Arimino al signor Sigismondo Malatesti, in un quadro grande, una Pietà con due puttini che la reggono, la quale è oggi in S.
Francesco di quella città; fece anco fra gl'altri il ritratto di Bartolomeo da Liviano capitano de' viniziani.
Ebbe Giovanni molti discepoli, perché a tutti con amorevolezza insegnava, fra i quali fu già, sessanta anni sono, Iacopo da Montagna, che imitò molto la sua maniera, per quanto mostrano l'opere sue che si veggiono in Padova et in Vinezia.
Ma più di tutti l'imitò e gli fece onore Rondinello da Ravenna, del quale si servì molto Giovanni in tutte le sue opere.
Costui fece in S.
Domenico di Ravenna una tavola, e nel Duomo un'altra che è tenuta molto bella di quella maniera.
Ma quella che passò tutte l'altre opere sue, fu quella che fece nella chiesa di S.
Giovanni Battista nella medesima città, dove stanno frati carmelitani, nella quale oltre la Nostra Donna, fece nella figura d'un S.
Alberto, loro frate, una testa bellissima e tutta la figura lodata molto.
Stette con esso lui ancora, se ben non fece molto frutto, Benedetto Coda da Ferrara, che abitò in Arimini dove fece molte pitture; lasciando dopo sé Bartolomeo suo figliuolo che fece il medesimo.
Dicesi che anco Giorgione da Castel Franco attese all'arte con Giovanni ne' suoi primi principii; e così molti altri e del Trevisano e Lombardi, de' quali non accade far memoria.
Finalmente Giovanni essendo pervenuto all'età di novanta anni, passò di male di vecchiaia di questa vita, lasciando per l'opere fatte in Vinezia sua patria e fuori, eterna memoria del nome suo.
E nella medesima chiesa e nello stesso deposito fu egli onoratamente sepolto dove egli aveva Gentile suo fratello collocato.
Né mancò in Vinezia chi con sonetti et epigrammi cercasse di onorare lui morto, sì come aveva egli vivendo, sé e la sua patria onorato.
Ne' medesimi tempi che questi Bellini vissono, o poco inanzi, dipinse molte cose in Vinezia Giacomo Marzone, il quale fra l'altre fece in S.
Lena alla cappella dell'Assunzione, la Vergine con una palma, S.
Benedetto, S.
Lena e S.
Giovanni, ma colla maniera vecchia e con le figure in punta di piedi, come usavano i pittori che furo al tempo di Bartolomeo da Bergamo, etc.
VITA DI COSIMO ROSSELLI PITTOR FIORENTINO
Molte persone sbeffando e schernendo altrui, si pascono d'uno ingiusto diletto che il più delle volte torna loro in danno; quasi in quella stessa maniera che fece Cosimo Rosselli tornare in capo lo scherno a chi cercò di avvilire le sue fatiche; il qual Cosimo, se bene non fu nel suo tempo molto raro et eccellente pittore, furono nondimeno l'opere sue ragionevoli.
Costui nella sua giovanezza fece in Fiorenza nella chiesa di S.
Ambruogio una tavola, che è a man ritta entrando in chiesa, e sopra l'arco delle monache di S.
Iacopo dalle Murate, tre figure.
Lavorò anco nella chiesa de' Servi pur di Firenze, la tavola della cappella di S.
Barbara, e nel primo cortile, inanzi che s'entri in chiesa, lavorò in fresco la storia quando il beato Filippo piglia l'abito della Nostra Donna.
A' monaci di Cestello fece la tavola dell'altar maggiore et in una cappella della medesima chiesa un'altra; e similmente quella che è in una chiesetta sopra il Bernardino accanto all'entrata di Cestello.
Dipinse il segno ai fanciulli della Compagnia del detto Bernardino, e parimente quello della Compagnia di S.
Giorgio, nel quale è una Annunziata.
Alle sopra dette monache di S.
Ambruogio fece la cappella del miracolo del Sagramento, la quale opera è assai buona e delle sue che sono in Fiorenza è tenuta la migliore; nella quale fece una processione finta in sulla piazza di detta chiesa, dove il vescovo porta il tabernacolo del detto miracolo, accompagnato dal clero e da una infinità di cittadini e donne con abiti di que' tempi.
Di naturale, oltre a molti altri, vi è ritratto il Pico della Mirandola, tanto eccellentemente che pare non ritratto, ma vivo.
In Lucca fece nella chiesa di S.
Martino, entrando in quella per la porta minore della facciata principale a man ritta, quando Nicodemo fabrica la statua di S.
Croce, e poi quando in una barca è per terra condotta per mare verso Lucca.
Nella qual opera sono molti ritratti e specialmente quello di Paulo Guinigi, il quale cavò da uno di terra fatto da Iacopo della Fonte, quando fece la sepoltura della moglie.
In San Marco di Firenze alla cappella de' tessitori di drappo fece, in una tavola, nel mezzo S.
Croce, e dagli lati S.
Marco, S.
Giovanni Evangelista, S.
Antonino arcivescovo di Firenze et altre figure.
Chiamato poi con gl'altri pittori all'opera che fece Sisto Quarto pontefice, nella cappella del palazzo, in compagnia di Sandro Botticello, di Domenico Ghirlandaio, dell'abbate di S.
Clemente, di Luca da Cortona e di Piero Perugino, vi dipinse di sua mano tre storie, nelle quali fece la sommersione di faraone nel mar Rosso, la predica di Cristo ai popoli lungo il mare di Tiberiade e l'ultima cena degl'Apostoli col Salvatore, nella quale fece una tavola a otto facce tirate in prospettiva, e sopra quella, in otto facce simili, il palco che gira in otto angoli, dove molto bene scortando, mostrò d'intendere quanto gl'altri quest'arte.
Dicesi che il papa aveva ordinato un premio, il quale si aveva a dar a chi meglio in quelle pitture avesse, a giudizio d'esso pontefice, operato.
Finite dunque le storie, andò Sua Santità a vederle quando ciascuno de' pittori si era ingegnato di far sì che meritasse il detto premio e l'onore.
Aveva Cosimo, sentendosi debole d'invenzione e di disegno, cercato di occultare il suo deffetto con far coperta all'opera di finissimi azzurri oltramarini e d'altri vivaci colori, e con molto oro illuminata la storia, onde né albero, né erba, né panno, né nuvolo vi era che lumeggiato non fusse, facendosi a credere che il papa, come poco di quell'arte intendente, dovesse perciò dare a lui il premio della vittoria.
Venuto il giorno che si dovevano l'opere di tutti scoprire, fu veduta anco la sua, e con molte risa e motti di tutti gl'altri artefici schernita e beffata, uccellandolo tutti in cambio d'avergli compassione.
Ma gli scherniti finalmente furono essi, perciò che que' colori, sì come si era Cosimo imaginato, a un tratto così abbagliarono gl'occhi del papa che non molto s'intendeva di simili cose, ancora che se ne dilettasse assai, che giudicò Cosimo avere molto meglio di tutti gl'altri operato; e così fattogli dare il premio, comandò agl'altri che tutti coprissero le loro pitture dei migliori azzurri che si trovassero e le toccassino d'oro; acciò che fussero simili a quelle di Cosimo nel colorito e nell'essere ricche.
Laonde i poveri pittori disperati d'avere a sodisfare alla poca intelligenza del Padre Santo, si diedero a guastare quanto avevano fatto di buono.
Onde Cosimo si rise di coloro che poco inanzi si erano riso del fatto suo.
Dopo, tornatosene a Firenze con qualche soldo, attese vivendo assai agiatamente a lavorare al solito, avendo in sua compagnia quel Piero che fu sempre chiamato Piero di Cosimo, suo discepolo; il quale gli aiutò lavorare a Roma nella cappella di Sisto, e vi fece oltre all'altre cose un paese, dove è dipinta la predica di Cristo, che è tenuto la miglior cosa che vi sia.
Stette ancor seco Andrea di Cosimo et attese assai alle grottesche.
Essendo finalmente Cosimo vivuto anni 68, consumato da una lunga infirmità si morì l'anno 1484 e dalla Compagnia del Bernardino fu seppellito in S.
Croce.
Dilettossi costui in modo dell'alchimia, che vi spese vanamente, come fanno tutti coloro che v'attendono, ciò che egli aveva.
Intanto che vivo lo consumò et allo stremo l'aveva condotto, d'agiato che egli era, poverissimo.
Disegnò Cosimo benissimo, come si può vedere nel nostro libro, non pure nella carta dove è disegnata la storia della predicazione sopra detta che fece nella cappella di Sisto, ma ancora in molte altre fatte di stile e di chiaro scuro.
Et il suo ritratto avemo nel detto libro di mano d'Agnolo di Donnino pittore e suo amicissimo.
Il quale Agnolo fu molto diligente nelle cose sue, come, oltre ai disegni, si può vedere nella loggia dello spedale di Bonifazio dove, nel peduccio d'una volta, è una Trinità di sua mano a fresco, et accanto alla porta del detto spedale, dove oggi stanno gli abandonati, sono dipinti dal medesimo certi poveri e lo spedaliere che gli raccetta, molto ben fatti, e similmente alcune donne.
Visse costui stentando e perdendo tutto il tempo dietro ai disegni, senza mettere in opera; et in ultimo si morì essendo povero quanto più non si può essere.
Di Cosimo, per tornare a lui, non rimase altri che un figliuolo, il quale fu muratore et architetto ragionevole.
VITA DEL CECCA INGEGNERE FIORENTINO
Se la necessità non avesse sforzati gl'uomini ad essere ingegnosi per la utilità e comodo proprio, non sarebbe l'architettura divenuta sì eccellente e maravigliosa nelle menti e nelle opere di coloro che per acquistarsi et utile e fama, si sono esercitati in quella con tanto onore, quanto giornalmente si rende loro da chi conosce il buono.
Questa necessità primeramente indusse le fabbriche, questa gli ornamenti di quella, questa gli ordini, le statue, i giardini, i bagni e tutte quelle altre comodità suntuose, che ciascuno brama e pochi posseggono; questa nelle menti degl'uomini ha eccitato la gara e le concorrenzie non solamente degli edifizii, ma delle comodità di quegli; per il che sono stati forzati gl'artefici a divenire industriosi negli ordini de' tirari, nelle machine da guerra, negli edifizii da acque et in tutte quelle avvertenzie et accorgimenti, che sotto nome di ingegni e di architetture, disordinando gli adversarii et accomodando gli amici, fanno e bello comodo il mondo.
E qualunche sopra gli altri ha saputo fare queste cose, oltra lo essere uscito d'ogni sua noia, sommamente è stato lodato e pregiato da tutti gl'altri; come al tempo de' padri nostri fu il Cecca fiorentino al quale ne' dì suoi vennero in mano molte cose e molto onorate; et in quelle si portò egli tanto bene nel servigio della patria sua, operando con risparmio e sodisfazzione e grazia de' suoi cittadini, che le ingegnose et industriose fatiche sue lo hanno fatto famoso e chiaro fra gl'altri egregi e lodati artefici.
Dicesi che il Cecca fu nella sua giovinezza legnaiuolo bonissimo; e perché egli aveva applicato tutto lo intento suo a cercare di sapere le difficultà degli ingegni: come si può condurre ne' campi de' soldati machine da muraglie, scale da salire nelle città, arieti da rompere le mura, difese da riparare i soldati per combattere, et ogni cosa che nuocere potesse agli inimici, e quelle che a' suoi amici potessero giovar, essendo egli persona di grandissima utilità alla patria sua, meritò che la Signoria di Fiorenza gli desse provisione continua.
Per il che, quando non si combatteva, andava per il dominio rivedendo le fortezze e le mura delle città e castelli ch'erano debili, et a quelli dava il modo de' ripari e d'ogni altra cosa che bisognava.
Dicesi che le nuvole che andavano in Fiorenza, per la festa di S.
Giovanni a processione, cosa certo ingegnosissima e bella, furono invenzione del Cecca, il quale, allora che la città usava di fare assai feste, era molto in simili cose adoperato.
E nel vero, come che oggi si siano cotali feste e rappresentazioni quasi del tutto dismesse, erano spettacoli molto belli, e se ne faceva non pure nelle Compagnie o vero Fraternite, ma ancora nelle case private de' gentiluomini, i quali usavano di far certe brigate e compagnie, et a certi tempi trovarsi allegramente insieme; e fra essi sempre erano molti artefici galantuomini che servivano, oltre all'essere capricciosi e piacevoli, a far gl'apparati di cotali feste.
Ma fra l'altre, quattro solennissime e publiche si facevano quasi ogni anno, cioè una per ciascun quartiere, eccetto S.
Giovanni per la festa del quale si faceva una solennissima processione, come si dirà: Santa Maria Novella quella di Santo Ignazio, Santa Croce quella di S.
Bartolomeo detto S.
Baccio, S.
Spirito quella dello Spirito Santo et il Carmine quella dell'Ascensione del Signore e quella dell'Assunzione di Nostra Donna.
La quale festa dell'Ascensione, perché dell'altre d'importanza si è ragionato o si ragionerà, era bellissima; conciò fusse che Cristo era levato di sopra un monte benissimo fatto di legname, da una nuvola piena d'Angeli e portato in un cielo, lasciando gl'Apostoli in sul monte, tanto ben fatto che era una maraviglia, e massimamente essendo alquanto maggiore il detto cielo che quello di S.
Felice in Piazza, ma quasi con i medesimi ingegni.
E perché la detta chiesa del Carmine, dove questa rappresentazione si faceva, è più larga assai e più alta che quella di S.
Felice, oltre quella parte che riceveva il Cristo, si accommodava alcuna volta, secondo che pareva, un altro cielo sopra la tribuna maggiore, nel quale alcune ruote grandi fatte a guisa d'arcolai, che dal centro alla superficie movevano con bellissimo ordine dieci giri per i dieci cieli, erano tutti pieni di lumicini rapresentanti le stelle, accommodati in lucernine di rame, con una schiodatura che sempre che la ruota girava, restavano in piombo, nella maniera che certe lanterne fanno, che oggi si usano comunemente da ognuno.
Di questo cielo, che era veramente cosa bellissima, uscivano due canapi grossi tirati dal ponte o vero tramezzo che è in detta chiesa, sopra il quale si faceva la festa; ai quali erano infunate per ciascun capo d'una braca, come si dice, due piccole taglie di bronzo, che reggevano un ferro ritto nella base d'un piano, sopra il quale stavano due angeli legati nella cintola, che, ritti, venivano contrapesati da un piombo che avevano sotto i piedi et un altro che era nella basa del piano di sotto dove posavano, il quale anco gli faceva venire parimente uniti.
Et il tutto era coperto da molta e ben acconcia bambagia che faceva nuvola, piena di cherubini, serafini et altri angeli così fatti di diversi colori e molto bene accomodati.
Questi, allentandosi un canapetto di sopra nel cielo, venivano giù per i due maggiori in sul detto tramezzo dove si recitava la festa, et annunziato a Cristo il suo dover salir in cielo, o fatto altro uffizio, perché il ferro dov'erano legati in cintola era fermo nel piano dove posavan i piedi, e' si giravan intorno intorno; quando erano usciti e quando ritornavano, potevan far reverenza e voltarsi secondo che bisognava, onde nel tornar in su si voltava verso il cielo, e dopo erano per simile modo ritirati in alto.
Questi ingegni dunque e queste invenzioni, si dice che furono del Cecca; perché se bene molto prima Filippo Bruneleschi n'aveva fatto de' così fatti, vi furono nondimeno con molto giudizio molte cose aggiunte dal Cecca.
E da queste poi venne in pensiero al medesimo di fare le nuvole che andavano per la città a processione ogni anno alla vigilia di S.
Giovanni; e l'altre cose che bellissime si facevano.
E ciò era cura di costui per essere, come si è detto, persona che serviva il publico.
Ora dunque non sarà se non bene con questa occasione dire alcune cose che in detta festa e processione si facevano, acciò ne passi ai posteri memoria, essendosi oggi per la maggior parte dismesse.
Primieramente adunque la piazza di S.
Giovanni si copriva tutta di tele azzurre, piene di gigli grandi fatti di tela gialla e cucitivi sopra; e nel mezzo erano, in altuni tondi pur di tela e grandi braccia dieci, l'arme del popolo e Comune di Firenze, quella de' capitani di Parte Guelfa et altre; et intorno intorno negl'estremi del detto cielo, che tutta la piazza come grandissima sia ricopriva, pendevano drappelloni pur di tela, dipinti di varie imprese, d'armi di magistrati e d'arti, e di molti leoni, che sono una dell'insegne della città; questo cielo, o vero coperta così fatta, era alto da terra circa venti braccia, posava sopra gagliardissimi canapi attaccati a molti ferri che ancor si veggiono intorno al tempio di S.
Giovanni, nella facciata di S.
Maria del Fiore e nelle case che sono per tutto intorno alla detta piazza, e fra l'un canapo e l'altro erano funi che similmente sostenevano quel cielo, che per tutto era in modo armato, e particolarmente in sugl'estremi, di canapi, di funi e di soppanni e fortezze di tele doppie e canevacci, che non è possibile imaginarsi meglio; e, che è più, era in modo e con tanta diligenza accomodata ogni cosa che, ancora che molto fussero dal vento che in quel luogo può assai d'ogni tempo come sa ognuno gonfiate e mosse le vele, non però potevano essere sollevate né sconce in modo nessuno.
Erano queste tende di cinque pezzi, perché meglio si potessino maneggiare, ma poste su, tutte si univano isieme e legavano e cuscivano di maniera che pareva un pezzo solo.
Tre pezzi coprivano la piazza e lo spazio che è fra S.
Giovanni e S.
Maria del Fiore; e quello del mezzo aveva, a dirittura delle porte principali, detti tondi con l'arme del comune.
E gl'altri due pezzi coprivano dalle bande, uno di verso la Misericordia e l'altro di verso la canonica et Opera di S.
Giovanni.
Le nuvole poi, che di varie sorti si facevano dalle Compagnie con diverse invenzioni, si facevano generalmente a questo modo: si faceva un telaio quadro di tavole, alto braccia due in circa, che in su le teste aveva quattro gagliardi piedi fatti a uso di trespoli da tavola et incatenati a guisa di travaglio; sopra questo telaio erano in croce due tavole larghe braccia uno, che in mezzo avevano una buca di mezzo braccio, nella quale era uno stile alto sopra cui si accomodava una mandorla, dentro la quale, che era tutta coperta di bambagia, di cherubini e di lumi et altri ornamenti, era in un ferro al traverso, posta a sedere o ritta, secondo che altri voleva, una persona che rappresentava quel Santo, il quale principalmente da quella compagnia, come proprio avvocato e protettore si onorava; o vero un Cristo, una Madonna, un S.
Giovanni o altro; i panni della quale figura coprivano il ferro in modo che non si vedeva.
A questo medesimo stile erano accommodati ferri, che girando più bassi e sotto la mandorla, facevano quattro o più o meno rami, simili a quelli d'un albero, che negl'estremi con simili ferri aveva per ciascuno un piccolo fanciullo vestito da Angiolo.
E questi, secondo che volevano, giravano in sul ferro dove posavano i piedi, che era gangherato.
E di così fatti rami si facevano talvolta due o tre ordini d'Angeli o di Santi; secondo che quello era che si aveva a rappresentare.
E tutta questa machina e lo stile et i ferri che tallora faceva un giglio, tallora un albero e spesso una nuvola o altra cosa simile, si copriva di bambagia e, come si è detto, di cherubini, serafini, stelle d'oro et altri cotali ornamenti.
E dentro erano facchini o villani, che la portavano sopra le spalle, i quali si mettevano intorno intorno a quella tavola, che noi abbiam chiamato telaio, nella quale erano confitti, sotto dove il peso posava sopra le spalle loro, guanciali di cuoio, pieni o di piuma o di bambagia o d'altra cosa simile, che acconsentisse e fusse morbida.
E tutti gl'ingegni e le salite et altre cose erano coperte come si è detto di sopra con bambagia, che faceva bel vedere, e si chiamavano tutte queste machine, nuvole; dietro venivano loro cavalcate d'uomini e di sergenti a piedi in varie sorti, secondo la storia che si rappresentava, nella maniera che oggi vanno dietro a' carri o altro che si faccia, in cambio delle dette nuvole; della maniera delle quali ne ho, nel nostro libro de' disegni, alcune di mano del Cecca molto ben fatte et ingegnose veramente e piene di belle considerazioni.
Con l'invenzione del medesimo si facevano alcuni Santi, che andavano o erano portati a processione, o morti o in varii modi tormentati: alcuni parevano passati da una lancia o da una spada; altri aveva un pugnale nella gola et altri altre cose simili per la persona.
Del qual modo di fare, perché oggi è notissimo, che si fa con spada, lancia o pugnale rotto, che con un cerchietto di ferro sia da ciascuna parte tenuto stretto e di riscontro, levatone a misura quella parte che ha da parere fitta nella persona del ferito, non ne dirò altro.
Basta che per lo più si truova che furono invenzione del Cecca.
I giganti similmente, che in detta festa andavano attorno, si facevano a questo modo: alcuni molto pratichi nell'andar in sui trampoli, o come si dice altrove in sulle zanche, ne facevano fare di quelli che erano alti cinque e sei braccia da terra, e fasciategli et acconcigli in modo, con maschere grandi et altri abbigliamenti di panni o d'arme finte che avevano membra e capo di gigante vi montavano sopra, e destramente caminando, parevano veramente giganti; avendo nondimeno inanzi uno che sosteneva una picca, sopra la quale con una mano si appoggiava esso gigante; ma per sì fatta guisa però che pareva che quella picca fusse una sua arme, cioè o mazza o lancia o un gran battaglio, come quello che Morgante usava, secondo i poeti romanzi, di portare.
E sì come i giganti, così si facevano anche delle gigantesse, che certamente facevano un bello e maraviglioso vedere.
I spiritelli poi da questi erano differenti, perché senza avere altra che la propria forma, andavano in sui detti trampoli alti cinque e sei braccia, in modo che parevano proprio spiriti.
E questi anco avevano inanzi uno che con una picca gl'aiutava.
Si racconta nondimeno che alcuni eziandio senza punto appoggiarsi a cosa veruna, in tanta altezza caminavano benissimo; e chi ha pratica de' cervelli fiorentini, so che di questo non si farà alcuna maraviglia; perché, lasciamo stare quello da Montughi di Firenze, che ha trapassati nel salir e giocolare sul canapo quanti insino a ora ne sono stati; chi ha conosciuto uno che si chiamava Ruvidino, il quale morì non sono anco dieci anni, sa che il salire ogni altezza sopra un canapo o fune, il saltar dalle mura di Firenze in terra et andare in su' trampoli molto più alti che quelli detti di sopra, gli era così agevole come a ciascuno caminare per lo piano.
Laonde non è maraviglia se gl'uomini di que' tempi, che in cotali cose o per prezo o per altro si esercitavano, facevano quelle che si sono dette di sopra, o maggiori cose.
Non parlerò d'alcuni ceri che si dipignevano in varie fantasie, ma goffi tanto che hanno dato il nome ai dipintori plebei, onde si dice alle cattive pitture "fantocci da ceri", perché non mette conto; dirò bene che al tempo del Cecca questi furono in gran parte dismessi et in vece loro fatti i carri che simili ai triomfali sono oggi in uso.
Il primo de' quali fu il carro della moneta, il quale fu condotto a quella perfezzione che oggi si vede, quando ogni anno per detta festa è mandato fuori dai maestri e signori di Zecca, con un S.
Giovanni in cima e molti altri Santi et Angeli da basso et intorno, rappresentati da persone vive.
Fu deliberato non è molto che se ne facesse, per ciascun castello che offerisce cero, uno, e ne furono fatti insino in dieci per onorare detta festa magnificamente, ma non si seguitò per gl'accidenti che poco poi sopravennero.
Quel primo dunque della Zecca fu, per ordine del Cecca, fatto da Domenico, Marco e Giuliano del Tasso, che allora erano de' primi maestri di legname che in Fiorenza lavorassero di quadro e d'intaglio; et in esso sono da esser lodate assai, oltre all'altre cose, le ruote da basso, che si schiodano per potere alle svolte de' canti girare quello edifizio et accommodarlo di maniera che scrolli meno che sia possibile, e massimamente per rispetto di coloro che di sopra vi stanno legati.
Fece il medesimo un edifizio per nettare e racconciare il musaico della tribuna di S.
Giovanni, che si girava, alzava, abbassava et accostava, secondo che altri voleva, e con tanta agevolezza che due persone lo potevano maneggiare; la qual cosa diede al Cecca reputazione grandissima.
Costui quando i Fiorentini avevano l'essercito intorno a Piancaldoli, con l'ingegno suo fece sì che i soldati vi entrarono dentro per via di mine, senza colpo di spada.
Dopo seguitando più oltre il medesimo esercito a certe altre castella, come volle la mala sorte, volendo egli misurare alcune altezze in un luogo difficile, fu occiso; perciò che avendo messo il capo fuor del muro per mandar un filo abbasso, un prete, che era fra gl'avversarii, i quali più temevano l'ingegno del Cecca che le forze di tutto il campo, scaricatoli una balestra a panca, gli conficcò di sorte un verettone nella testa che il poverello di subito se ne morì.
Dolse molto a tutto l'essercito et ai suoi cittadini il danno e la perdita del Cecca.
Ma non vi essendo rimedio alcuno, ne lo rimandarono in cassa a Fiorenza, dove dalle sorelle gli fu data onorata sepoltura in S.
Piero Scheraggio, e sotto il suo ritratto di marmo fu posto lo infrascritto epitaffio:
Fabrum Magister Cicca, natus oppidis vel obsidendis vel
tuendis hic iacet.
Vixit annos XXXXI.
Menses IV.
Dies XIIII.
Obiit pro patria telo ictus.
Piae sorores
monumentum fecerunt MCCCCLXXXXVIIII.
VITA DI DON BARTOLOMEO ABBATE DI S.
CLEMENTE MINIATORE E PITTORE
Rade volte suole avvenire che chi è d'animo buono e di vita esemplare, non sia dal cielo proveduto d'amici ottimi e di abitazioni onorate, e che per i buoni costumi suoi non sia vivendo in venerazione, e morto in grandissimo disiderio di chiunche l'ha conosciuto; come fa Don Bartolomeo della Gatta, abbate di S.
Clemente d'Arezzo, il quale fu in diverse cose eccellente, e costumatissimo in tutte le sue azzioni.
Costui, il quale fu monaco degl'Agnoli di Firenze, dell'Ordine di Camaldoli, fu nella sua giovanezza, forse per le cagioni che di sopra si dissono nella vita di Don Lorenzo, miniatore singularissimo e molto pratico nelle cose del disegno, come di ciò possono far fede le miniature lavorate da lui per i monaci di S.
Fiore e Lucilla nella Badia d'Arezzo, et in particolare un messale che fu donato a papa Sisto, nel quale era nella prima carta delle segrete una Passione di Cristo bellissima.
E quelle parimente sono di sua mano, che sono in S.
Martino, Duomo di Lucca.
Poco dopo le quali opere fu questo padre da Mariotto Maldoli aretino, Generale di Camaldoli, e della stessa famiglia che fu quel Maldolo il quale donò a S.
Romualdo institutore di quell'ordine il luogo e sito di Camaldoli, che si chiamava allora Campo di Maldolo.
La detta Badia di S.
Clemente d'Arezzo, ed egli come grato del benefizio lavorò poi molte cose per lo detto Generale e per la sua Religione.
Venendo poi la peste del 1468, per la quale senza molto praticare si stava l'abbate, sì come facevano anco molti altri, in casa si diede a dipignere figure grandi, e vedendo che la cosa secondo il disiderio suo gli riusciva, cominciò a lavorare alcune cose, e la prima fu un S.
Rocco, che fece in tavola ai rettori della Fraternita d'Arezzo, che è oggi nell'udienza dove si ragunano; la quale figura raccomanda alla Nostra Donna il popolo aretino; et in questo quadro ritrasse la piazza di detta città e la casa pia di quella Fraternita con alcuni becchini che tornano da sotterrare morti.
Fece anco un altro S.
Rocco, similmente in tavola, nella chiesa di S.
Piero, dove ritrasse la città d'Arezzo nella forma propria che aveva in quel tempo, molto diversa da quella che è oggi; et un altro il quale fu molto migliore che li due sopra detti, in una tavola ch'è nella chiesa della Pieve d'Arezzo alla cappella de' Lippi; il quale S.
Rocco è una bella e rara figura, e quasi la meglio che mai facesse, e la testa e le mani non possono essere più belle né più naturali.
Nella medesima città d'Arezzo fece in una tavola in San Piero, dove stanno frati de' Servi, un agnolo Raffaello, e nel medesimo luogo fece il ritratto del beato Iacopo Filippo da Piacenza.
Dopo, condotto a Roma, lavorò una storia nella cappella di papa Sisto, in compagnia di Luca da Cortona e di Pietro Perugino.
E tornato in Arezzo fece nella cappella de' Gozzari in Vescovado un San Girolamo in penitenza, il quale essendo magro e raso e con gl'occhi fermi attentissimamente nel crucifisso e percotendosi il petto, fa benissimo conoscere quanto l'ardor d'amore in quelle consumatissime carni possa travagliare la virginità.
E per quell'opera fece un sasso grandissimo con alcune altre grotte di sassi, fra le rotture delle quali fece di figure piccole, molto graziose, alcune storie di quel Santo.
Dopo in Santo Agostino lavorò per le monache, come si dice, del Terzo Ordine, in una capella a fresco una coronazione di Nostra Donna molto lodata e molto ben fatta; e sotto a questa, in un'altra cappella, una Assunta con alcuni Angeli in una gran tavola molto bene abbigliati di panni sottili; e questa tavola, per cosa lavorata a tempera, è molto lodata et invero fu fatta con buon disegno e condotta con diligenza straordinaria.
Dipinse il medesimo a fresco, nel mezzo tondo che è sopra la porta della chiesa di San Donato nella fortezza d'Arezzo, la Nostra Donna col Figlio in collo, San Donato e San Giovanni Gualberto, che tutte sono molto belle figure.
Nella badia di Santa Fiore, in detta città, è di sua mano una cappella all'entrar della chiesa per la porta principale, dentro la quale è un San Benedetto et altri Santi fatti con molta grazia e con buona pratica e dolcezza.
Dipinse similmente a Gentile Urbinate, vescovo aretino molto suo amico e col quale viveva quasi sempre, nel palazzo del Vescovado in una cappella, un Cristo morto, et in una loggia ritrasse esso vescovo, il suo vicario e ser Matteo Francini suo notaio di banco che gli legge una bolla; vi ritrasse parimente se stesso et alcuni canonici di quella città.
Disegnò per lo medesimo vescovo una loggia che esce di palazzo e va in Vescovado, a piano con la chiesa e palazzo; et a mezzo di questa aveva disegnato quel vescovo fare, a guisa di cappella, la sua sepoltura, et in quella esser dopo la morte sotterrato, e così la condusse a buon termine, ma sopravenuto dalla morte, rimase imperfetta, perché se bene lasciò che dal successor suo fusse finita, non se ne fece altro, come il più delle volte avviene dell'opere che altri lascia che siano fatte in simili cose dopo la morte.
Per lo detto vescovo fece l'abbate nel Duomo vecchio una bella e gran cappella, ma perché ebbe poca vita, non accade altro ragionarne.
Lavorò oltre questo per tutta la città in diversi luoghi, come nel Carmine tre figure, e la cappella delle monache di S.
Orsina; et a Castiglione aretino nella Pieve di S.
Giuliano una tavola a tempera alla cappella dell'altar maggiore, dove è una Nostra Donna bellissima e San Giuliano e San Michelagnolo, figure molto ben lavorate e condotte, e massimamente il San Giuliano; perché avendo affisati gl'occhi al Cristo che è in collo alla Nostra Donna, pare che molto s'affligga d'aver ucciso il padre e la madre.
Similmente in una cappella poco di sotto, è di sua mano un portello che soleva stare a un organo vecchio, nel quale è dipinto un San Michele, tenuto cosa meravigliosa et in braccio d'una donna un putto fasciato che par vivo.
Fece in Arezzo alle monache delle Murate la cappella dell'altar maggiore, pittura certo molto lodata; et al monte San Savino un tabernacolo, dirimpetto al palazzo del cardinale di Monte, che fu tenuto bellissimo.
Et al Borgo Sansepolcro, dove è oggi il Vescovado, fece una cappella che gli arrecò lode et utile grandissimo.
Fu don Bartolomeo persona che ebbe l'ingegno atto a tutte le cose, et oltre all'essere gran musico fece organi di piombo di sua mano; et in San Domenico ne fece uno di cartone, che si è sempre mantenuto dolce e buono; et in San Clemente n'era un altro pur di sua mano, il quale era in alto et aveva la tastatura da basso al pian del coro, e certo con bella considerazione, perché avendo, secondo la qualità del luogo, pochi monaci, voleva che l'organista cantasse e sonasse, e perché questo abbate amava la sua Religione come vero ministro e non dissipatore delle cose di Dio, bonificò molto quel luogo di muraglie e di pitture, e particolarmente rifece la capella maggiore della sua chiesa e quella tutta dipinse.
Et in due nicchie che la mettevano in mezzo dipinse in una un S.
Rocco e nell'altra un S.
Bartolomeo, le quali insieme con la chiesa sono rovinate.
Ma tornando all'abbate, il quale fu buono e costumato religioso, egli lasciò suo discepolo nella pittura maestro Lappoli aretino, che fu valente e pratico dipintore, come ne dimostrano l'opere che sono di sua mano in S.
Agostino, nella cappella di San Bastiano, dove in una nicchia è esso Santo, fatto di rilievo dal medesimo; et intorno gli sono di pittura San Biagio, San Rocco, Sant'Antonio da Padova, San Bernardino, e nell'arco della cappella è una Nunziata, e nella volta i quattro Evangelisti lavorati a fresco pulitamente.
Di mano di costui è in un'altra cappella a fresco, a man manca entrando per la porta del fianco in detta chiesa, la Natività e la Nostra Donna annunziata dall'Angelo, nella figura del quale Angelo ritrasse Giulian Bacci, allora giovane, di bellissima aria.
E sopra la detta porta di fuori, fece una Nunziata in mezzo a S.
Piero e S.
Paulo, ritraendo nel volto della Madonna la madre di Messer Pietro Aretino, famosissimo poeta.
In S.
Francesco, alla cappella di S.
Bernardino, fece in una tavola esso Santo che par vivo, e tanto è bello che egli è la miglior figura che costui facesse mai.
In Vescovado fece nella cappella de' Pietramaleschi, in un quadro a tempera, un santo Ignazio bellissimo; et in Pieve, all'entrata della porta di sopra che risponde in piazza, un Santo Andrea et un S.
Bastiano.
E nella Compagnia della Trinità con bella invenzione fece per Buoninsegna Buoninsegni aretino un'opera che si può fra le migliori che mai facesse annoverare, e ciò fu un Crucifisso sopra un altare in mezzo di uno S.
Martino e S.
Rocco, et a' piè ginocchioni due figure: una figurata per un povero, secco e macilente e malissimo vestito, dal quale uscivano certi razzi che dirittamente andavano alle piaghe del Salvatore, mentre esso Santo lo guardava attentissimamente; e l'altra per un ricco vestito di porpora e bisso e tutto rubicondo e lieto nel volto, i cui raggi nell'adorar Cristo parea, se bene gli uscivano del cuore come al povero, che non andasseno dirittamente alle piaghe del crucifisso, ma vagando et allargandosi per alcuni paesi e campagne piene di grani, biade, bestiami, giardini et altre cose simili, e che altri si distendessino in mare verso alcune barche cariche di mercanzie, et altri finalmente verso certi banchi dove si cambiavano danari.
Le quali tutte cose furono da Matteo fatte con giudizio, buona pratica e molta diligenza; ma furono, per fare una cappella, non molto dopo mandate per terra.
In Pieve sotto il pergamo fece il medesimo un Cristo con la croce, per messer Lionardo Albergotti.
Fu discepolo similmente dell'abbate di S.
Clemente un frate de' Servi aretino, che dipinse di colori la facciata della casa de' Belichini d'Arezzo et in S.
Piero due cappelle a fresco, l'una allato all'altra.
Fu anche discepolo di don Bartolomeo, Domenico Pecori aretino, il quale fece a Sargiano in una tavola a tempera tre figure, et a olio, per la Compagnia di S.
Maria Madalena, un gonfalone da portare a processione, molto bello.
E per Messer Presentino Bisdomini in Pieve, alla cappella di S.
Andrea, un quadro d'una S.
Apollonia simile al di sopra, e finì molte cose lasciate imperfette dal suo maestro, come in S.
Piero la tavola di S.
Bastiano e Fabiano con la Madonna per la famiglia de' Benucci; e dipinse nella chiesa di S.
Antonio la tavola de l'altar maggiore, dove è una Nostra Donna molto devota con certi Santi; e perché detta Nostra Donna adora il Figliuolo che tiene in grembo, ha finto che uno Angioletto inginocchiato dirieto, sostiene Nostro Signore con un guanciale, non lo potendo reggiere la Madonna, che sta in atto d'orazione a man giunte.
Nella chiesa di S.
Giustino dipinse a Messer Antonio Rotelli una cappella de' Magi, in fresco.
Et alla Compagnia della Madonna in Pieve una tavola grandissima, dove fece una Nostra Donna in aria, col popolo aretino sotto, dove ritrasse molti di naturale; nella quale opera gli aiutò un pittore spagnuolo che coloriva bene a olio et aiutava in questo a Domenico, che nel colorire a olio non aveva tanta pratica, quanto nella tempera, e con l'aiuto del medesimo condusse una tavola per la Compagnia della Trinità, dentrovi la Circuncisione di Nostro Signore, tenuta cosa molto buona, e nell'orto di S.
Fiore in fresco, un Noli me tangere.
Ultimamente dipinse nel Vescovado per Messer Donato Marinelli Primicerio, una tavola con molte figure con buon'invenzione e buon disegno e gran rilievo, che gli fece allora e sempre onore grandissimo, nella quale opera essendo assai vecchio chiamò in aiuto il Capanna, pittor sanese ragionevol maestro, che a Siena fece tante facciate di chiaro scuro e tante tavole, e se fusse ito per vita, si faceva molto onore nell'arte, secondo che da quel poco che aveva fatto si può giudicare.
Avea Domenico fatto alla Fraternità d'Arezzo uno baldacchino dipinto a olio, cosa ricca e di grande spesa, il quale non ha molti anni che prestato per fare in S.
Francesco una rappresentazione di S.
Giovanni e Paulo, per adornarne un paradiso vicino al tetto della chiesa, essendosi dalla gran copia de' lumi acceso il fuoco, arse insieme con quel che rapresentava Dio Padre, che per esser legato non potette fuggire come feciono gli Angioli, e con molti paramenti e con gran danno degli spettatori, i quali spaventati dall'incendio, volendo con furia uscire di chiesa mentre ognuno vuole essere il primo, nella calca ne scoppiò intorno a LXXX, che fu cosa molto compassionevole.
E questo baldacchino fu poi rifatto con maggior ricchezza e dipinto da Giorgio Vasari.
Diedesi poi Domenico a fare finestre di vetro, e di sua mano n'erano tre in Vescovado, che per le guerre furon rovinate dall'artiglieria.
Fu anche creato dal medesimo, Angelo di Lorentino pittore, il quale ebbe assai buono ingegno; lavorò l'arco sopra la porta di S.
Domenico; se fusse stato aiutato sarebbe fattosi bonissimo maestro.
Morì l'abbate d'anni LXXXIII e lasciò imperfetto il tempio della Nostra Donna delle Lacrime, del quale aveva fatto il modello, et il quale è poi da diversi stato finito.
Merita dunque costui di essere lodato, per miniatore, architetto, pittore e musico.
Gli fu data dai suoi monaci sepoltura in S.
Clemente, sua badia, e tanto sono state stimate sempre l'opere sue in detta città, e sopra il sepolcro suo si leggono questi versi:
Pignebat docte Zeusis; condebat et aedes
Nicon; Pan capripes, fistula prima tua est.
Non tamen ex vobis mecum certaverit ullus:
quae tres fecistis unicus haec facio.
Morì nel 1461 avendo aggiunto all'arte della pittura nel miniare quella bellezza che si vede in tutte le sue cose, come possono far fede alcune carte di sua mano che sono nel nostro libro; il cui modo di far ha imitato poi Girolamo Padoano, nei minii che sono in alcuni libri di S.
Maria Nuova di Firenze, Gherardo, miniatore fiorentino, e Attavante che fu anco chiamato Vante, del quale si è in altro luogo ragionato, e dell'opere sue che sono in Venezia particolarmente, avendo puntualmente posta una nota mandataci da certi gentiluomini di Venezia; per sodisfazione de' quali, poi che avevano durata tanta fatica in ritrovar quel tutto che quivi si legge, ci contentammo che fusse tutto narrato secondo che aveano scritto, poiché di vista non ne potevo dar giudizio proprio.
VITA DI GHERARDO MINIATORE FIORENTINO
Veramente che di tutte le cose perpetue che si fanno con colori nessuna più resta alle percosse de' venti e dell'acque, che il musaico; e ben lo conobbe in Fiorenza ne' tempi suoi Lorenzo Vecchio de' Medici, il quale come persona di spirito e speculatore delle memorie antiche, cercò di rimettere in uso quello che molti anni era stato nascoso; e perché grandemente si dilettava delle pitture e delle sculture, non potette anco non dilettarsi del musaico.
Laonde, veggendo che Gherardo allora miniatore e cervello soffistico cercava le difficultà di tal magistero, come persona che sempre aiutò quelle persone in chi vedeva qualche seme e principio di spirito e d'ingegno, lo favorì grandemente; onde, messolo in compagnia di Domenico del Ghirlandaio, gli fece fare dagl'Operai di S.
Maria del Fiore, allogazione delle cappelle delle crociere, e per la prima di quella del Sagramento, dove è il corpo di S.
Zanobi.
Per lo ché Gherardo assottigliando l'ingegno arebbe fatto con Domenico mirabilissime cose se la morte non vi si fusse interposta, come si può giudicare dal principio della detta cappella che rimase imperfetta.
Fu Gherardo oltre al musaico gentilissimo miniatore e fece anco figure grandi in muro: e fuor della porta alla Croce è in fresco un tabernacolo di sua mano, et un altro n'è in Fiorenza a sommo della via Larga molto lodato, e nella facciata della chiesa di S.
Gilio a S.
Maria Nuova dipinse sotto le storie di Lorenzo di Bicci, dove è la consegrazione di quella chiesa fatta da papa Martino Quinto, quando il medesimo Papa dà l'abito allo spedalingo e molti privilegii; nella quale storia erano molto meno figure di quello che pareva ch'ella richiedesse, per essere tramezzate da un tabernacolo dentro al quale era una Nostra Donna che ultimamente è stata levata da don Isidoro Montaguto, moderno spedalingo di quel luogo, per rifarvi una porta principale della casa, e statovi fatto ridipignere da Francesco Brini, pittore fiorentino giovane, il restante di quella storia.
Ma per tornare a Gherardo, non sarebbe quasi stato possibile che un maestro ben pratico avesse fatto, se non con molta fatica e diligenza, quello che egli fece in quell'opera, benissimo lavorata in fresco.
Nel medesimo spedale miniò Gherardo, per la chiesa, una infinità di libri, et alcuni per S.
Maria del Fiore di Fiorenza; et alcuni altri per Matia Corvino, re di Ungheria; i quali, sopravvenuta la morte del detto re, insieme con altri di mano di Vante e di altri maestri che per il detto re lavoravono in Fiorenza, furono pagati e presi dal Magnifico Lorenzo de' Medici e posti nel numero di quelli tanto nominati che preparavano per far la libraria, e poi da papa Clemente VII fu fabricata et ora dal duca Cosimo si dà ordine di publicare.
Ma di maestro di minio divenuto, come si è detto, pittore, oltre l'opere dette, fece in un gran cartone alcune figure grande per i Vangelisti, che di musaico aveva a fare nella cappella di S.
Zanobi.
E prima che gli fusse fatta fare dal Magnifico Lorenzo de' Medici l'allogazione di detta cappella, per mostrare che intendeva la cosa del musaico e che sapeva fare senza compagno, fece una testa grande di S.
Zanobi, quanto il vivo, la quale rimase in S.
Maria del Fiore, e si mette ne' giorni più solenni in sull'altare di detto Santo o in altro luogo, come cosa rara.
Mentre che Gherardo andava queste cose lavorando, furono recate in Fiorenza alcune stampe di maniera tedesca fatte da Martino e da Alberto Duro; per che, piacendogli molto quella sorte d'intaglio, si mise col bulino a intagliare, e ritrasse alcune di quelle carte benissimo, come si può veder in certi pezzi che ne sono nel nostro libro insieme con alcuni disegni di mano del medesimo.
Dipinse Gherardo molti quadri che furono mandati di fuori, de' quali uno n'è in Bologna nella chiesa di S.
Domenico, alla cappella di S.
Caterina da Siena dentrovi essa Santa benissimo dipinta.
Et in S.
Marco di Firenze fece sopra la tavola del perdono un mezzo tondo pieno di figure molto graziose.
Ma quanto sodisfaceva costui agl'altri, tanto meno sodisfaceva a sé in tutte le cose, eccetto nel musaico; nella qual sorte di pittura fu più tosto concorrente che compagno a Domenico Ghirlandaio.
E se fusse più lungamente vivuto sarebbe in quello divenuto eccellentissimo, perché vi durava fatica volentieri et aveva trovato in gran parte i segreti buoni di quell'arte.
Vogliono alcuni che Attavante, altrimenti Vante, miniator fiorentino, del quale si è ragionato di sopra in più d'un luogo, fusse, sì come fu Stefano, similmente miniatore fiorentino, discepolo di Gherardo, ma io tengo per fermo, rispetto all'essere stato l'uno e l'altro in un medesimo tempo, che Attavante fusse più tosto amico, compagno e coetaneo di Gherardo, che discepolo.
Morì Gherardo essendo assai ben oltre con gl'anni, lassando a Stefano suo discepolo tutte le cose sue dell'arte; il quale Stefano non molto tempo dopo datosi all'architettura, lasciò il miniare e tutte le cose sue appartenenti a quel mestiero al Boccardino vecchio, il quale miniò la maggior parte de' libri che sono nella Badia di Firenze.
Morì Gherardo d'anni 63, e furono l'opere sue intorno a gl'anni di nostra salute 1470.
VITA DI DOMENICO GHIRLANDAIO PITTORE FIORENTINO
Domenico di Tommaso del Ghirlandaio, il quale per la virtù e per la grandezza e per la moltitudine dell'opere si può dire uno de' principali e più eccellenti maestri dell'età sua, fu dalla natura fatto per esser pittore; e per questo non obstante la disposizione in contrario di chi l'avea in custodia (che molte volte impedisce i grandissimi frutti degli ingegni nostri occupandoli in cose dove non sono atti, deviandoli da quelle in che sono naturati), sequendo l'instinto naturale fece a sé grandissimo onore et utile all'arte et a' suoi, e fu diletto grande della età sua.
Questi posto dal padre all'arte sua dell'orafo, nella quale egli era più che ragionevole maestro, e di sua mano erono la maggior parte de' voti di argento, che già si conservavano nell'armario della Nunziata, e le lampade d'argento della cappella, tutte disfatte nell'assedio della città l'anno 1529.
Fu Tommaso il primo che trovassi e mettessi in opera quell'ornamento del capo delle fanciulle fiorentine, che si chiamano ghirlande, donde ne acquistò il nome del Ghirlandaio, non solo per esserne lui il primo inventore, ma per averne anco fatto un numero infinito e di rara bellezza, tal che non parea piacessin se non quelle che della sua bottega fussero uscite.
Posto, dunque, all'arte dell'orefice, non piacendoli quella, non restò di continuo di disegnare.
Per che, essendo egli dotato dalla natura d'uno spirito perfetto e d'un gusto mirabile e giudicioso nella pittura, quantunque orafo nella sua fanciullezza fosse, sempre al disegno attendendo, venne sì pronto e presto e facile, che molti dicono che mentre che all'orefice dimorava, ritraendo ogni persona che da bottega passava, li faceva subito somigliare: come ne fanno fede ancora nell'opere sue infiniti ritratti, che sono di similitudini vivissime.
Furono le sue prime pitture in Ogni Santi la cappella de' Vespucci, dov'è un Cristo morto et alcuni Santi, e sopra uno arco una Misericordia, nella quale è il ritratto di Amerigo Vespucci che fece le navigazioni dell'Indie: e nel refettorio di detto luogo fece un cenacolo a fresco.
Dipinse in S.
Croce all'entrata della chiesa a man destra, la storia di S.
Paulino; onde, acquistando fama grandissima et in credito venuto, a Francesco Sassetti lavorò in S.
Trinita una cappella con istorie di S.
Francesco, la quale opera è mirabilmente condotta, e da lui con grazia, con pulitezza e con amor lavorata; in questa contrafece egli e ritrasse il ponte a S.
Trinita, col palazzo degli Spini, fingendo nella prima faccia la storia di S.
Francesco quando apparisce in aria e resuscita quel fanciullo; dove si vede in quelle donne che lo veggono resuscitare, il dolore della morte nel portarlo alla sepoltura e la allegrezza e la maraviglia nella sua resurressione; contrafecevi i frati che escon di chiesa co' bechini dietro alla croce per sotterrallo, fatti molto naturalmente, e così altre figure che si maravigliano di quello effetto, che non dànno altrui poco piacere: dove sono ritratti Maso degli Albizzi, Messer Agnolo Acciaiuoli, Messer Palla Strozzi, notabili cittadini e nelle istorie di quella città assai nominati.
In un'altra fece quando S.
Francesco, presente il vicario, rifiuta la eredità a Pietro Bernardone suo padre, e piglia l'abito di sacco cignendosi con la corda.
E nella faccia del mezzo quando egli va a Roma a papa Onorio e fa confermar la Regola sua, presentando di gennaio le rose a quel pontefice; nella quale storia finse la sala del Concistoro co' cardinali che sedevano intorno, e certe scalee che salivano in quella; accennando certe mezze figure ritratte di naturale et accomodandovi ordini d'appoggiatoi per la salita.
E fra quegli ritrasse il Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici.
Dipinsevi medesimamente quando San Francesco riceve le stimite; e nella ultima fece quando egli è morto e che i frati lo piangono; dove si vede un frate che gli bacia le mani; il quale effetto non si può esprimer meglio nella pittura, senza che e' v'è un vescovo parato con gli occhiali al naso che gli canta la vigilia, che il non sentirlo solamente lo dimostra dipinto.
Ritrasse in due quadri che mettono in mezzo la tavola, Francesco Sassetti ginocchioni, in uno, e ne l'altro Madonna Nera sua donna et i suoi figliuoli, ma questi nell'istoria di sopra, dove si risuscita il fanciullo, con certe belle giovani della medesima famiglia che non ho potuto ritrovar i nomi, tutte con gl'abiti e portature di quella età, cosa che non è di poco piacere.
Oltra ch'e' fece nella volta quattro Sibille, e fuori della cappella un ornamento sopra l'arco nella faccia dinanzi, con una storia dentrovi, quando la Sibilla tiburtina fece adorar Cristo a Ottaviano imperatore, che per opera in fresco è molto praticamente condotta e con una allegrezza di colori molto vaghi.
Et insieme accompagnò questo lavoro con una tavola pur di sua mano, lavorata a tempera; quale ha dentro una natività di Cristo da far maravigliare ogni persona intelligente, dove ritrasse se medesimo e fece alcune teste di pastori che sono tenute cosa divina.
Della quale Sibilla e d'altre cose di quell'opera, sono nel nostro libro disegni bellissimi fatti di chiaro scuro, e particolarmente la prospettiva del ponte a S.
Trinita.
Dipinse a' frati Ingesuati una tavola per l'altar maggiore con alcuni Santi ginocchioni, cioè S.
Giusto vescovo di Volterra, che era titolo di quella chiesa, S.
Zanobi vescovo di Firenze, un angelo Raffaello et un San Michele armato di bellissime armadure et altri Santi.
E nel vero merita in questo lode Domenico, perché fu il primo che cominciasse a contrafar con i colori alcune guernizioni et ornamenti d'oro, che insino allora non si erano usate; e levò via in gran parte quelle fregiature che si facevano d'oro a mordente o a bolo, le quali erano più da drappelloni che da maestri buoni.
Ma più che l'altre figure è bella la Nostra Donna che ha il Figliuolo in collo e quattro Angioletti a torno; questa tavola, che per cosa a tempera non potrebbe meglio esser lavorata, fu posta allora fuor della porta a Pinti nella chiesa di que' frati; ma perché ella fu poi, come si dirà altrove, rovinata, ell'è oggi nella chiesa di S.
Giovannino dentro alla porta a S.
Pier Gattolini, dove è il convento di detti Ingiesuati.
E nella chiesa di Cestello fece una tavola finita da David e Benedetto suoi fratelli, dentrovi la visitazione di Nostra Donna, con alcune teste di femmine vaghissime e bellissime.
Nella chiesa degl'Innocenti fece a tempera una tavola de' Magi, molto lodata, nella quale sono teste bellissime d'aria e di fisonomia varie, così di giovani come di vecchi; e particularmente nella testa della Nostra Donna si conosce quella onesta bellezza e grazia, che nella madre del Figliuol di Dio può esser fatta dall'arte.
Et in S.
Marco al tramezzo della chiesa, un'altra tavola, e nella forestieria un cenacolo con diligenza l'uno e l'altro condotto: et in casa di Giovanni Tornabuoni un tondo con la storia de' Magi, fatto con diligenza.
Allo spedaletto per Lorenzo Vecchio de' Medici, la storia di Vulcano, dove lavorano molti ignudi fabricando con le martella saette a Giove.
Et in Fiorenza nella chiesa d'Ogni Santi, a concorrenza di Sandro di Botticello, dipinse a fresco un San Girolamo che oggi è allato alla porta che va in coro, intorno al quale fece una infinità di instrumenti di libri da persone studiose.
Questa pittura insieme con quella di Sandro di Botticello, essendo occorso a' frati levare il coro del luogo dove era, è stata allacciata con ferri e trapportata nel mezzo della chiesa senza lesione, in questi proprii giorni che queste vite la seconda volta si stampano.
Dipinse ancora l'arco sopra la porta di S.
Maria Ughi et un tabernacolino all'Arte de' Linaiuoli, similmente un S.
Giorgio molto bello, che ammazza il serpente, nella medesima chiesa d'Ogni Santi.
E per il vero egli intese molto bene il modo del dipignere in muro e facilissimamente lo lavorò; essendo nientedimanco nel comporre le sue cose molto leccato.
Essendo poi chiamato a Roma da papa Sisto IIII a dipignere con altri maestri la sua cappella, vi dipinse quando Cristo chiama a sé dalle reti Pietro et Andrea, e la Resurressione di esso Gesù Cristo, della quale oggi è guasta la maggior parte per essere ella sopra la porta respetto a lo avervisi avuto a rimetter uno architrave che rovinò.
Era in questi tempi medesimi in Roma, Francesco Tornabuoni onorato e ricco mercante et amicissimo di Domenico, al quale essendo morta la donna sopra parto, come s'è detto in Andrea Verrochio, et avendo, per onorarla come si convenia alla nobiltà loro, fattole fare una sepoltura nella Minerva, volle anco che Domenico dipignesse tutta la faccia dove ell'era sepolta, et oltre a questo vi facesse una piccola tavoletta a tempera, laonde in quella pariete fece quattro storie: dua di S.
Giovanni Batista e due della Nostra Donna; le quali veramente gli furono allora molto lodate.
E provò Francesco tanta dolcezza nella pratica di Domenico, che tornandosene quello a Fiorenza con onore e con danari, lo raccomandò per lettere a Giovanni suo parente, scrivendoli quanto e' lo avesse servito bene in quell'opera e quanto il papa fusse satisfatto de le sue pitture.
Le quali cose udendo Giovanni, cominciò a disegnare di metterlo in qualche lavoro magnifico da onorare la memoria di se medesimo e da arrecare a Domenico fama e guadagno.
Era per avventura in S.
Maria Novella, convento de' frati predicatori, la cappella maggiore dipinta già da Andrea Orgagna; la quale, per essere stato mal coperto il tetto della volta, era in più parti guasta da l'acqua, per il che già molti cittadini l'avevano voluta rassettare, o vero dipignierla di nuovo; ma i padroni, che erano quelli della famiglia de' Ricci, non se n'erano mai contentati, non potendo essi far tanta spesa, né volendosi risolvere a concederla ad altri che la facesse, per non perdere la iuridizione del padronato et il segno dell'arme loro lasciatagli dai loro antichi.
Giovanni adunque, desideroso che Domenico gli facesse questa memoria, si misse intorno a questa pratica tentando diverse vie.
Et in ultimo promisse a' Ricci far tutta quella spesa egli e che gli ricompenserebbe in qualcosa, e farebbe metter l'arme loro nel più evidente et onorato luogo che fusse in quella cappella; e così rimasi d'accordo e fattene contratto et instrumento molto stretto del tenore ragionato di sopra, logò Giovanni a Domenico questa opera, con le storie medesime che erano dipinte prima; e feciono che il prezzo fusse ducati milledugento d'oro larghi; et in caso che l'opera gli piacesse fussino dugento più.
Per il che Domenico mise man all'opera; né restò che egli in quattro anni l'ebbe finita; il che fu nel MCCCCLXXXV, con grandissima satisfazione e contento di esso Giovanni.
Il quale chiamandosi servito, e confessando ingenuamente che Domenico aveva guadagnati i dugento ducati del più, disse che arebbe piacere che e' si contentasse del primo pregio; e Domenico, che molto più stimava la gloria e l'onore che le ricchezze, gli largì subito tutto il restante, affermando che aveva molto più caro lo avergli satisfatto che lo essere contento del pagamento.
Appresso Giovanni fece fare due armi grandi di pietra, l'una de' Tornaquinci, l'altra de' Tornabuoni, e metterle ne' pilastri fuori d'essa cappella, e nell'arco altre arme di detta famiglia, divisa in più nomi e più arme, cioè, oltre alle due dette, Giachinotti, Popoleschi, Marabotini e Cardinali.
E quando poi Domenico fece la tavola dello altare, nello ornamento dorato, sotto un arco ch'è per fine di quella tavola fece mettere il tabernacolo del Sacramento, bellissimo; e nel frontispizio di quello fece uno scudicciuolo d'un quarto di braccio, dentrovi l'arme de' padron detti, cioè de' Ricci.
Et il bello fu allo scoprire della cappella, perché questi cercarono con gran romore de l'arme loro; e finalmente, non ve la vedendo, se n'andarono al magistrato degli otto portando il contratto.
Per il che mostrarono i Tornabuoni esservi posta nel più evidente et onorato luogo di quell'opera, e benché quelli esclamassino che ella non si vedeva, fu lor detto che eglino avevano il torto, e che avendola fatta metter in così onorato luogo quanto era quello, essendo vicina al Santissimo Sagramento, se ne dovevano contentare.
E così fu deciso che dovesse stare, per quel magistrato, come al presente si vede.
Ma se questo paresse ad alcuno fuor delle cose della vita che si ha da scrivere, non gli dia noia: perché tutto era nel fine del tratto della mia penna e serve se non ad altro a mostrare quanto la povertà è preda delle ricchezze; e che le ricchezze acompagnate dalla prudenzia, conducono a fine e senza biasimo ciò che altri vuole.
Ma per tornare alle belle opere di Domenico, sono in questa cappella, primieramente nella volta i quattro Evangelisti maggiori del naturale, e nella pariete della finestra storie di S.
Domenico e S.
Pietro martire e S.
Giovanni quando va al deserto e la Nostra Donna annunziata dall'Angelo e molti Santi avvocati di Fiorenza ginocchioni, sopra le finestre, e dappiè v'è ritratto di naturale Giovanni Tornaboni da man ritta e la donna sua da man sinistra, che dicono esser molto naturali.
Nella facciata destra sono sette storie, scompartite sei di sotto, in quadri grandi quanto tien la facciata; et una ultima di sopra, larga quanto son due istorie e quanto serra l'arco della volta, e nella sinistra altrettante di S.
Giovanni Batista.
La prima della facciata destra è quando Giovacchino fu cacciato dal tempio, dove si vede nel volto di lui espressa la pacienzia come in quel di coloro il dispregio e l'odio che i Giudei avevano a quelli che senza avere figliuoli venivano al tempio; e sono in questa storia, da la parte verso la finestra, quattro uomini ritratti di naturale, l'un de' quali, cioè quello che è vecchio e raso et in cappuccio rosso, è Alesso Baldovinetti, maestro di Domenico nella pittura e nel musaico; l'altro che è in capegli e che si tiene una mano al fianco et ha un mantello rosso e sotto una vesticciuola azzurra, è Domenico stesso, maestro dell'opera, ritrattosi in uno specchio da se medesimo; quello che ha una zazzera nera con certe labbra grosse, è Bastiano da S.
Gimignano suo discepolo e cognato, e l'altro che volta le spalle et ha un berrettino in capo, è Davitte Ghirlandaio pittore suo fratello; i quali tutti per chi gli ha conosciuti si dicono esser veramente vivi e naturali.
Nella seconda storia è la Natività della Nostra Donna fatta con una diligenzia grande; e tra le altre cose notabili che egli vi fece, nel casamento o prospettiva è una finestra che dà 'l lume a quella camera la quale inganna chi la guarda; oltra questo, S.
Anna è nel letto e certe donne la visitano, pose alcune femmine che lavano la Madonna con gran cura: chi mette acqua, chi fa le fasce, chi fa un servizio, chi fa un altro, e mentre ognuna attende al suo, vi è una femmina che ha in collo quella puttina, e ghignando la fa ridere, con una grazia donnesca, degna veramente di un'opera simile a questa, oltre a molti altri affetti che sono in ciascuna figura.
Nella terza, che è la prima sopra, è quando la Nostra Donna saglie i gradi del tempio, dove è un casamento che si allontana assai ragionevolmente dall'occhio; oltra che v'è uno ignudo che gli fu allora lodato per non se ne usar molti, ancor che e' non vi fusse quella intera perfezzione come a quegli che si son fatti ne' tempi nostri, per non essere eglino tanto eccellenti.
Accanto a questa è lo sposalizio di Nostra Donna; dove dimostrò la collera di coloro che si sfogano nel rompere le verghe che non fiorirono come quella di Giuseppo; la quale istoria è copiosa di figure in uno accomodato casamento.
Nella quinta si veggono arrivare i Magi di Bettelem con gran numero di uomini, cavalli e dromedarii et altre cose varie; storia certamente accomodata.
Et accanto a questa è la sesta, la quale è la crudele impietà fatta da Erode agli innocenti; dove di vede una baruffa bellissima di femmine e di soldati e cavalli, che le percuotono et urtano: e nel vero, di quante storie vi si vede di suo, questa è la migliore; perché ella è condotta con giudizio, con ingegno et arte grande.
Conoscevisi l'impia volontà di coloro che comandati da Erode, senza riguardare le madri, uccidono que' poveri fanciullini; fra i quali si vede uno che ancora appiccato alla poppa muore per le ferite ricevute nella gola; onde sugge, per non dir beve, dal petto non meno sangue che latte; cosa veramente di sua natura e per esser fatta nella maniera ch'ella è, da tornar viva la pietà dove ella fusse ben morta; èvvi ancora un soldato che ha tolto per forza un putto, e mentre correndo con quello se lo stringe in sul petto per amazzarlo, se li vede appiccata a' capegli la madre di quello con grandissima rabbia; e facendoli fare arco della schiena, fa che si conosce in loro tre effetti bellissimi: uno è la morte del putto che si vede crepare, l'altro l'impietà del soldato che per sentirsi tirare sì stranamente, mostra l'affetto del vendicarsi in esso putto, il terzo è che la madre nel veder la morte del figliuolo, con furia e dolore e sdegno cerca che quel traditore non parta senza pena; cosa veramente più da filosofo mirabile di giudizio, che da pittore.
Sonvi espressi molti altri affetti, che chi li guarda conoscerà senza dubbio questo maestro esser stato in quel tempo eccellente.
Sopra questa, nella settima che piglia le due storie e cigne l'arco della volta, è il transito di Nostra Donna e la sua assunzione con infinito numero d'Angeli et infinite figure e paesi et altri ornamenti, di che egli soleva abbondare, in quella sua maniera facile e pratica.
Dall'altra faccia, dove sono le storie di S.
Giovanni, nella prima è quando Zacheria sacrificando nel tempio, l'Angelo gli appare e per non credergli amutolisce; nella quale storia, mostrando che a' sacrifizii de tempii concorrono sempre le persone più notabili, per farla più onorata ritrasse un buon numero di cittadini fiorentini, che governavono allora quello stato; e particularmente tutti quelli di casa Tornabuoni, i giovani et i vecchi.
Oltre a questo, per mostrare che quella età fioriva in ogni sorte di virtù e massimamente nelle lettere, fece in cerchio quattro mezze figure, che ragionano insieme appiè della istoria; i quali erano i più scienziati uomini che in que' tempi si trovassero in Fiorenza, e sono questi: il primo è Messer Marsilio Ficino, che ha una veste da canonico, il secondo con un mantello rosso et una becca nera al collo, è Cristofano Landino, e Demetrio Greco che se li volta et in mezzo a questi quello che alza alquanto una mano è Messer Angelo Poliziano, i quali son vivissimi e pronti.
Séguita nella seconda, allato a questa, la visitazione di Nostra Donna e S.
Elisabetta; nella quale sono molte donne che l'accompagnano con portature di que' tempi, e fra loro fu ritratta la Ginevra de' Benci, allora bellissima fanciulla.
Nella terza storia sopra alla prima è la nascita di S.
Giovanni, nella quale è una avvertenza bellissima: che mentre S.
Elisabetta è in letto, e che certe vicine la vengono a vedere e la balia stando a sedere allatta il bambino, una femmina con allegrezza gnene chiede, per mostrare a quelle donne la novità che in sua vechiezza aveva fatto la padrona di casa; e finalmente vi è una femmina che porta a l'usanza fiorentina frutte e fiaschi da la villa, la quale è molto bella.
Nella quarta allato a questa è Zacheria che ancor mutolo stupisce con intrepido animo che sia nato di lui quel putto; e mentre gli è dimandato del nome, scrive in su 'l ginocchio, affisando gli occhi al figliuolo quale è tenuto incollo da una femmina con reverenza postasi ginocchione innanzi a lui, e segna con la penna in sul foglio: "Giovanni sarà il tuo nome", non senza ammirazione di molte altre figure, che pare che stiano in forse se egli è vero o no.
Séguita la quinta, quando e' predica alle turbe; nella quale storia si conosce quella attenzione che dànno i popoli nello udir cose nuove; e massimamente nelle teste degli scribi che ascoltano Giovanni, i quali pare che con un certo modo del viso sbeffino quella legge, anzi l'abbiano in odio; dove sono ritti et a sedere maschi e femmine in diverse fogge.
Nella sesta si vede S.
Giovanni battezzare Cristo; nella reverenza del quale mostrò interamente la fede che si debbe avere a sacramento tale; e perché questo non fu senza grandissimo frutto, vi figurò molti già ignudi e scalzi, che aspettando d'essere battezzati, mostrano la fede e la voglia scolpita nel viso; et in fra gl'altri uno che si cava una scarpetta, rappresenta la prontitudine istessa.
Nella ultima, cioè nell'arco accanto alla volta, è la suntuosissima cena di Erode et il ballo di Erodiana, con infinità di servi che fanno diversi aiuti in quella storia, oltra la grandezza d'uno edifizio tirato in prospettiva, che mostra apertamente la virtù di Domenico insieme con le dette pitture.
Condusse a tempera la tavola isolata tutta, e le altre figure che sono ne' sei quadri: che oltre alla Nostra Donna che siede in aria col Figliuolo in collo e gl'altri Santi che gli sono intorno, oltra il S.
Lorenzo et il S.
Stefano che sono interamente vive, al S.
Vincenzio e S.
Pietro Martire non manca se non la parola.
Vero è che di questa tavola ne rimase imperfetta una parte, mediante la morte sua, per che, avendo egli già tiratola tanto innazi, che e' non le mancava altro che il finire certe figure dalla banda di dietro dove è la Resurressione di Cristo, e tre figure che sono in que' quadri, finirono poi il tutto Benedetto e Davitte Ghirlandai suoi frategli.
Questa cappella fu tenuta cosa bellissima, grande, garbata e vaga, per la vivacità de' colori, per la pratica e pulitezza del maneggiargli nel muro e per il poco essere stati ritocchi a secco, oltre la invenzione e collocazione delle cose.
E certamente ne merita Domenico lode grandissima per ogni conto, e massimamente per la vivezza delle teste, le quali per essere ritratte di naturale rappresentano a chi verrà le vivissime effigie di molte persone segnalate.
E pel medesimo Giovanni Tornabuoni dipinse al Casso Maccherelli, sua villa poco lontana dalla città, una cappella, in sul fiume di Terzolle, oggi mezza rovinata per la vicinità del fiume; la quale ancor che stata molti anni scoperta e continuamente bagnata dalle piogge et arsa da' soli, si è difesa in modo che pare stata al coperto: tanto vale il lavorare in fresco quando è lavorato bene e con giudizio, e non a ritocco a secco.
Fece ancora nel palazzo della Signoria, nella sala dove è il maraviglioso orologio di Lorenzo della Volpaia, molte figure di Santi fiorentini con bellissimi adornamenti.
E tanto fu amico del lavorare e di satisfare ad ognuno che egli aveva commesso a' garzoni che e' si accettasse qualunche lavoro che capitasse a bottega se bene fussero cerchi da paniere di donne, perché non gli volendo fare essi, gli dipignerebbe da sé a ciò che nessuno si partisse scontento da la sua bottega.
Dolevasi bene quando aveva cure familiari, e per questo dette a David suo fratello ogni peso di spendere dicendogli: "Lascia lavorare a me e tu provedi, che ora che io ho cominciato a conoscere il modo di quest'arte, mi duole che non mi sia allogato a dipignere a storie il circuito di tutte le mura della città di Fiorenza", mostrando così animo invitissimo e risoluto in ogni azzione.
Lavorò a Lucca in S.
Martino una tavola di S.
Pietro e S.
Paulo.
Alla Badia di Settimo, fuor di Fiorenza, lavorò la facciata della maggior cappella a fresco, e nel tramezzo della chiesa due tavole a tempera.
In Fiorenza lavorò ancora molti tondi, quadri e pitture diverse che non si riveggono altrimenti per essere nelle case de' particulari.
In Pisa fece la nicchia del Duomo allo altar maggiore e lavorò in molti luoghi di quella città, come alla facciata dell'opera quando il re Carlo ritratto di naturale raccomanda Pisa; et in San Girolamo a' frati Gesuati due tavole a tempera, quella dell'altar maggiore et un'altra.
Nel qual luogo ancora è di mano del medesimo in un quadro, S.
Rocco e S.
Bastiano, il quale fu donato a que' padri da non so chi de' Medici, onde essi vi hanno perciò aggiunte l'arme di papa Leone Decimo.
Dicono che ritraendo anticaglie di Roma, archi, terme, colonne, colisei, aguglie, amfiteatri et acquidotti, era sì giusto nel disegno che le faceva a occhio, senza regolo o seste e misure; e misurandole da poi fatte che l'aveva, erano giustissime come se e' le avesse misurate.
E ritraendo a occhio il Coliseo, vi fece una figura ritta appiè, che misurando quella tutto l'edificio si misurava; e fattone esperienza da' maestri dopo la morte sua, si ritrovò giustissimo.
Fece a S.
Maria Nuova nel Cimiterio, sopra una porta un S.
Michele in fresco armato, bellissimo con riverberazione d'armature poco usate inanzi a lui; et alla Badia di Passignano, luogo de' monaci di Vall'Ombrosa, lavorò in compagnia di David suo fratello e di Bastiano da S.
Gimignano, alcune cose; dove, trattandoli i monaci male del vivere, inanzi la venuta di Domenico si richiamarono all'abate, pregandolo che meglio servire li facesse, non essendo onesto che come manovali fussero trattati.
Promise loro l'abate di farlo e scusossi che questo più avveniva per ignoranza de' foresterai che per malizia.
Venne Domenico e tuttavia si continuò nel medesimo modo, per il che David trovando un'altra volta lo abate, si scusò dicendo che non faceva questo per conto suo, ma per li meriti e per la virtù del suo fratello; ma lo abate, come ignorante ch'egli era, altra risposta non fece.
La sera dunque postisi a cena, venne il forestario con una asse piena di scodelle e tortacce da manigoldi, pur nel solito modo che l'altre volte si faceva, onde David salito in collera rivoltò le minestre addosso al frate, e preso il pane ch'era su la tavola et aventandoglielo, lo percosse di modo che mal vivo a la cella ne fu portato.
Lo abate che già era a letto, levatosi e corso al rumor, credette che 'l monistero rovinasse; e trovando il frate mal concio cominciò a contendere con David; per il che infuriato, David gli rispose che si gli togliesse dinanzi che valeva più la virtù di Domenico che quanti abati porci suoi pari furon mai in quel monistero; laonde lo abate riconosciutosi, da quell'ora inanzi s'ingegnò di trattargli da valenti uomini come egl'erano.
Finita l'opera tornò a Fiorenza, et al signor di Carpi dipinse una tavola; un'altra ne mandò a Rimino al signor Carlo Malatesta, che la fece porre nella sua cappella in S.
Domenico.
Questa tavola fu a tempera, con tre figure bellissime e con istoriette di sotto; e dietro figure di bronzo, finte con disegno et arte grandissima.
Due altre tavole fece nella Badia di S.
Giusto fuor di Volterra dell'Ordine di Camaldoli; le quali tavole che sono belle affatto, gli fece fare il Magnifico Lorenzo de' Medici; perciò che allora aveva quella Badia in comenda Giovanni cardinale de' Medici, suo figliuolo, che fu poi Papa Leone.
La qual Badia pochi anni sono, ha restituita il molto reverendo Messere Giovanbattista Bava da Volterra, che similmente l'aveva in comenda, alla detta Congregazione di Camaldoli.
Condotto poi Domenico a Siena per mezzo del Magnifico Lorenzo de' Medici che gli entrò mallevadore a questa opera di ducati ventimila, tolse a fare di musaico la facciata del Duomo; e cominciò a lavorare con buono animo e miglior maniera, ma prevenuto da la morte, lasciò l'opera imperfetta.
Come per la morte del predetto Magnifico Lorenzo rimase imperfetta in Fiorenza la capella di S.
Zanobi cominciata a lavorare di musaico da Domenico in compagnia di Gherardo miniatore.
Vedesi di mano di Domenico sopra quella porta del fianco di S.
Maria del Fiore, che va a' Servi, una Nunziata di musaico bellissima, della quale fra' maestri moderni di musaico non s'è veduto ancor meglio.
Usava dire Domenico la pittura essere il disegno, e la vera pittura per la eternità essere il musaico.
Stette seco in compagnia a imparare Bastiano Mainardi da S.
Gimignano, il quale in fresco era divenuto molto pratico maestro di quella maniera; per il che andando con Domenico a S.
Gimignano dipinsero a compagnia la cappella di S.
Fina, la quale è cosa bella.
Onde per la servitù e gentilezza di Bastiano, sendosi così bene portato, giudicò Domenico che e' fosse degno d'avere una sua sorella per moglie, e così l'amicizia loro fu cambiata in parentado: liberalità di amorevole maestro rimuneratore delle virtù del discepolo acquistate con le fatiche dell'arte.
Fece Domenico dipignere al detto Bastiano, facendo nondimeno esso il cartone, in S.
Croce nella cappella de' Baroncegli e Bandini, una Nostra Donna che va in cielo, et abasso S.
Tommaso che riceve la cintola il quale è bel lavoro a fresco; e Domenico e Bastiano insieme dipinsono in Siena nel palazzo degli Spannocchi, in una camera molte storie di figure piccole a tempera; et in Pisa, oltre alla nicchia già detta del Duomo, tutto l'arco di quella cappella piena d'Angeli; e parimente i portegli che chiuggono l'organo, e cominciarono a mettere d'oro il palco.
Quando poi in Pisa et in Siena s'aveva a metter mano a grandissime opere, Domenico ammalò di gravissima febbre, la pestilenza della quale in cinque giorni gli tolse la vita.
Essendo infermo, gli mandarono que' de' Tornabuoni a donare cento ducati d'oro, mostrando l'amicizia e la familiarità sua e la servitù che Domenico a Giovanni et a quella casa avea sempre portata.
Visse Domenico 44 anni e fu con molte lagrime e con pietosi sospiri da David e da Benedetto suoi fratelli e da Ridolfo suo figliuolo, con belle esequie sepellito in S.
Maria Novella, e fu tal perdita di molto dolore agl'amici suoi; perché intesa la morte di lui, molti eccellenti pittori forestieri scrissero a' suoi parenti dolendosi della sua acerbissima morte.
Restarono suoi discepoli David e Benedetto Ghirlandai, Bastiano Mainardi da S.
Gimignano e Michel Agnolo Buonarotti fiorentino, Francesco Granaccio, Niccolò Cieco, Iacopo del Tedesco, Iacopo dell'Indaco, Baldino Baldinelli et altri maestri, tutti fiorentini.
Morì nel 1493.
Arricchì Domenico l'arte della pittura del musaico più modernamente lavorato che non fece nessun Toscano, d'infiniti che si provorono, come lo mostrano le cose fatte da lui per poche ch'elle siano.
Onde per tal ricchezza e memoria, nell'arte merita grado et onore, et essere celebrato con lode straordinarie dopo la morte.
VITA D'ANTONIO E PIERO POLLAIUOLI PITTORI E SCULTORI FIORENTINI
Molti di animo vile cominciano cose basse, a' quali crescendo poi l'animo con la virtù, cresce ancora la forza et il valore; di maniera che, salendo a maggiori imprese, aggiungono vicino al cielo co' bellissimi pensier loro; et inalzati dalla fortuna, si abbattono bene spesso in un principe buono, che trovandosene ben servito, è forzato remunerare in modo le loro fatiche che i posteri di quegli ne sentino largamente et utile e comodo.
Laonde questi tali caminano in questa vita con tanta gloria a la fine loro, che di sé lasciano segni al mondo di maraviglia, come fecero Antonio e Piero del Pollaiuolo, molto stimati ne' tempi loro, per quelle rare virtù che si avevano con la loro industria e fatica guadagnate.
Nacquero costoro nella città di Fiorenza, pochi anni l'uno dopo l'altro, di padre assai basso e non molto agiato, il quale conoscendo per molti segni il buono et acuto ingegno de' suoi figliuoli, né avendo il modo a indirizzargli a le lettere, pose Antonio all'arte dello orefice con Bartoluccio Ghiberti, maestro allora molto eccellente in tale esercizio, e Piero mise al pittore con Andrea del Castagno, che era il meglio allora di Fiorenza.
Antonio, dunque, tirato innanzi da Bartoluccio, oltre il legare le gioie e lavorare a fuoco smalti d'argento, era tenuto il più valente che maneggiasse ferri in quell'arte.
Laonde Lorenzo Ghiberti, che allora lavorava le porte di S.
Giovanni, dato d'occhio alla maniera d'Antonio, lo tirò al lavoro suo in compagnia di molti altri giovani.
E postolo intorno ad uno di que' festoni che allora aveva tra mano, Antonio vi fece su una quaglia che dura ancora, tanto bella e tanto perfetta, che non le manca se non il volo.
Non consumò, dunque, Antonio molte settimane in questo esercizio, che e' fu conosciuto per il meglio di tutti que' che vi lavoravano, di disegno e di pazienzia, e per il più ingegnoso e più diligente che vi fusse.
Laonde crescendo la virtù e la fama sua, si partì da Bartoluccio e da Lorenzo, et in Mercato Nuovo, in quella città, aperse da sé una bottega di orefice magnifica et onorata.
E molti anni seguitò l'arte, disegnando continuamente, e faccendo di rilievo cere et altre fantasie, che in brieve tempo lo fecero tenere (come egli era) il principale di quello esercizio.
Era in questo tempo medesimo un altro orefice chiamato Maso Finiguerra, il quale ebbe nome straordinario e meritamente, ché per lavorare il bulino e fare di niello, non si era veduto mai chi in piccoli o grandi spazii facesse tanto numero di figure quante ne faceva egli; sì come lo dimostrano ancora certe paci, lavorate da lui in S.
Giovanni di Fiorenza, con istorie minutissime de la Passione di Cristo.
Costui disegnò benissimo et assai, e nel libro nostro v'è dimolte carte di vestiti, ignudi e di storie disegnate d'acquerello.
A concorrenza di costui fece Antonio alcune istorie, dove lo paragonò nella diligenzia e superollo nel disegno.
Per la qual cosa i consoli dell'Arte de' Mercatanti, vedendo la eccellenzia di Antonio, deliberarono tra loro che avendosi a fare di argento alcune istorie nello altare di S.
Giovanni, sì come da varii maestri in diversi tempi sempre era stato usanza di fare, che Antonio ancora ne lavorasse.
E così fu fatto.
E riuscirono queste sue cose tanto eccellenti, che elle si conoscono fra tutte l'altre per le migliori; e furono la cena d'Erode et il ballo d'Erodiana; ma sopra tutto fu bellissimo il S.
Giovanni, che è nel mezzo dell'altare, tutto di cesello et opera molto lodata.
Per il che gli allogarono i detti consoli, i candellieri de l'argento, di braccia tre l'uno, e la croce a proporzione, dove egli lavorò tanta roba d'intaglio e la condusse a tanta perfezzione, che e da' forestieri e da' terrazzani sempre è stata tenuta cosa maravigliosa.
Durò in questo mestiero infinite fatiche, sì ne' lavori che e' fece d'oro, come in quelli di smalto e di argento; in fra le quali sono alcune paci in S.
Giovanni, bellissime, che di colorito a fuoco sono di sorte, che col penello si potrebbono poco migliorare.
Et in altre chiese di Fiorenza e di Roma, et altri luoghi d'Italia si veggono di suo smalti miracolosi.
Insegnò quest'arte a Mazzingo fiorentino et a Giuliano del Facchino, maestri ragionevoli, et a Giovanni Turini sanese, che avanzò questi suoi compagni assai in questo mestiero, del quale da Antonio di Salvi in qua, (che fece di molte cose e buone, come una croce grande d'argento nella Badia di Firenze, et altri lavori) non s'è veduto gran fatto, cose che se ne possa far conto staordinario.
Ma, e di queste e di quelle de' Pollaiuoli, molte per i bisogni della città nel tempo della guerra, sono state dal fuoco destrutte e guaste.
Laonde, conoscendo egli che quell'arte non dava molta vita alle fatiche de' suoi artefici, si risolvé per desiderio di più lunga memoria, non attendere più ad essa.
E così avendo egli Piero suo fratello che attendeva alla pittura, si accostò a quello per imparare i modi del maneggiare et adoperare i colori, parendoli un'arte tanto differente da l'orefice, che se egli non avesse così prestamente resoluto d'abandonare quella prima in tutto, e' sarebbe forse stata ora che e' non arebbe voluto esservisi voltato.
Per la qual cosa spronato dalla vergogna più che dall'utile, appresa in non molti mesi la pratica del colorire, diventò maestro eccellente.
Et unitosi in tutto con Piero lavorarono in compagnia dimolte pitture.
Fra le quali per dilettarsi molto del colorito, fecero al cardinale di Portogallo una tavola a olio in San Miniato al Monte, fuori di Fiorenza, la quale fu posta sull'altar della sua cappella, e vi dipinsero dentro S.
Iacopo Apostolo, S.
Eustachio e San Vincenzio, che sono stati molto lodati.
E Piero particolarmente vi fece in sul muro a olio, il che aveva imparato da Andrea del Castagno, nelle quadrature degl'angoli sotto l'architrave, dove girano i mezzi tondi degl'archi, alcuni Profeti; et in un mezzo tondo una Nunziata con tre figure.
Et a' capitani di parte dipinse, in un mezzo tondo, una Nostra Donna col Figliuolo in collo et un fregio di Serafini intorno, pur lavorato a olio.
Dipinsero ancora in S.
Michele in Orto, in un pilastro in tela a olio, un Angelo Raffaello con Tobia; e fecero nella Mercatanzia di Fiorenza alcune virtù, in quello stesso luogo dove siede, pro tribunali, il magistrato di quella.
Ritrasse di naturale Messer Poggio, segretario della Signoria di Fiorenza, che scrisse l'istoria fiorentina dopo Messer Lionardo d'Arezzo, e Messer Giannozzo Manetti, persona dotta e stimata assai, nel medesimo luogo dove da altri maestri assai prima erano ritratti Zanobi da Strada, poeta fiorentino, Donato Acciaiuoli et altri.
Nel Proconsolo e nella cappella de' Pucci a S.
Sebastiano de' Servi, fece la tavola dell'altare che è cosa eccellente e rara, dove sono cavalli mirabili, ignudi e figure bellissime in iscorto, et il S.
Sebastiano stesso ritratto dal vivo, cioè da Gino di Lodovico Capponi e fu quest'opera la più lodata che Antonio facesse già mai.
Conciò sia che per andare egli imitando la natura il più che e' poteva, fece in uno di que' saettatori, che appoggiatasi la balestra al petto si china a terra per caricarla, tutta quella forza che può porre un forte di braccia in caricare quell'instrumento; imperò che e' si conosce in lui il gonfiare delle vene e de' muscoli et il ritenere del fiato, per fare più forza.
E non è questo solo ad essere condotto con avvertenza, ma tutti gl'altri ancora, con diverse attitudini, assai chiaramente dimostrano l'ingegno e la considerazione, che egli aveva posto in questa opera, la qual fu certamente conosciuta da Antonio Pucci, che gli donò per questo trecento scudi, affermando che non gli pagava appena i colori, e fu finita l'anno 1475.
Crebbeli dunque da questo l'animo et a San Miniato, fra le torri, fuor della porta, dipinse un S.
Cristofano di dieci braccia, cosa molto bella e modernamente lavorata, e di quella grandezza fu la più proporzionata figura che fusse stata fatta fino a quel tempo.
Poi fece in tela un Crucifisso con S.
Antonino, il quale è posto alla sua cappella in S.
Marco.
In palazzo della Signoria di Fiorenza lavorò alla porta della catena un S.
Giovanni Battista; et in casa Medici dipinse a Lorenzo Vecchio tre Ercoli in tre quadri, che sono di cinque braccia, l'uno de' quali scoppia Anteo, figura bellissima, nella quale propriamente si vede la forza d'Ercole nello strignere, che i muscoli della figura et i nervi di quella sono tutti raccolti per far crepare Anteo: e nella testa di esso Ercole si conosce il digrignare de' denti, accordato in maniera con l'altre parti, che fino a le dita de' piedi s'alzano per la forza; né usò punto minore avvertenza in Anteo, che stretto dalle braccia d'Ercole, si vede mancare e perdere ogni vigore, et a bocca aperta rendere lo spirito.
L'altro ammazzando il leone, gli appunta il ginocchio sinistro al petto et afferrata la bocca del leone con ammendue le sue mani, serrando i denti e stendendo le braccia, lo apre e sbarra per viva forza, ancora che la fiera per sua difesa, con gli unghioni malamente gli graffi le braccia.
Il terzo, che ammazza l'Idra, è veramente cosa maravigliosa, e massimamente il serpente, il colorito del quale così vivo fece e sì propriamente, che più vivo far non si può.
Quivi si vede il veleno, il fuoco, la ferocità, l'ira, con tanta prontezza che merita esser celebrato e da' buoni artefici in ciò grandemente imitato.
Alla Compagnia di S.
Angelo in Arezzo fece da un lato un Crucifisso e dall'altro in sul drappo a olio un S.
Michele che combatte col serpe, tanto bello, quanto cosa che di sua mano si possa vedere; perché v'è la figura del S.
Michele che con una bravura affronta il serpente, stringendo i denti et increspando le ciglia, che veramente pare disceso dal cielo per far la vendetta di Dio contra la superbia di Lucifero, et è certo cosa maravigliosa.
Egli s'intese degli ignudi più modernamente che fatto non avevano gl'altri maestri inanzi a lui, e scorticò molti uomini, per vedere la notomia lor sotto.
E fu primo a mostrare il modo di cercar i muscoli che avessero forma et ordine nelle figure; e di quegli tutti, cinti d'una catena, intagliò in rame una battaglia, e dopo quella fece altre stampe con molto migliore intaglio che non avevano fatto gl'altri maestri ch'erano stati inanzi a lui.
Per queste cagioni, adunque, venuto famoso in fra gl'artefici, morto papa Sisto IV fu da Innocenzio suo successore condotto a Roma, dove fece di metallo la sepoltura di detto Innocenzio, nella quale lo ritrasse di naturale a sedere, nella maniera che stava quando dava la benedizzione, che fu posta in San Pietro.
E quella di papa Sisto detto, la quale finita con grandissima spesa, fu collocata questa nella cappella che si chiama dal nome di detto pontefice, con ricco ornamento e tutta isolata; e sopra essa è a giacere esso Papa molto ben fatto e quella [di] Innocenzio in S.
Pietro, accanto alla capella dov'è la lancia di Cristo.
Dicesi che disegnò il medesimo la fabbrica del palazzo di Belvedere, per detto Papa Innocenzio, se bene fu condotta da altri, per non aver egli molta pratica di murare.
Finalmente, essendo fatti ricchi morirono poco l'uno dopo l'altro, amendue questi fratelli, nel 1498, e da' parenti ebbero sepoltura in S.
Piero in Vincula.
Et in memoria loro, allato alla porta di mezzo, a man sinistra entrando in chiesa, furono ritratti ambidue in due tondi di marmo con questo epitaffio:
Antonius Pullarius, patria Florentinus, pictor insignis,
qui duorum Pontificum Xisti et Innocentii
aerea monimenta miro opificio
expressit.
Re familiari composita ex
testamento.
Hic secum Petro fratre condi voluit.
Vixit annos LXXII.
Obiit anno Salvatoris MIID.
Il medesimo fece di basso rilievo in metallo una battaglia di nudi che andò in Ispagna, molto bella, della quale n'è una impronta di gesso in Firenze appresso tutti gl'artefici.
E si trovò dopo la morte sua il disegno e modello che a Lodovico Sforza egli aveva fatto per la statua a cavallo di Francesco Sforza duca di Milano, il quale disegno è nel nostro libro in due modi: in uno egli ha sotto Verona, nell'altro egli, tutto armato e sopra un basamento pieno di battaglie, fa saltare il cavallo addosso a un armato.
Ma la cagione perché non mettesse questi disegni in opera, non ho già potuto sapere.
Fece il medesimo alcune medaglie bellissime, e fra l'altre in una la congiura de' Pazzi, nella quale sono le teste di Lorenzo e Giuliano de' Medici, e nel riverso il coro di S.
Maria del Fiore e tutto il caso come passò appunto.
Similmente fece le medaglie d'alcuni pontefici et altre molte cose che sono dagli artefici conosciute.
Aveva Antonio quando morì anni LXXII e Pietro anni LXV.
Lasciò molti discepoli, e fra gli altri Andrea Sansovino.
Ebbe nel tempo suo felicissima vita, trovando pontefici ricchi e la sua città in colmo, che si dilettava di virtù; per che molto fu stimato, dove se forse avesse avuto contrari i tempi non avrebbe fatto que' frutti che e' fece, essendo inimici molto i travagli alle scienze, delle quali gli uomini fanno professione e prendono diletto.
Col disegno di costui furono fatte per S.
Giovanni di Fiorenza due tonicelle et una pianeta e piviale di broccato, riccio sopra riccio, tessuti tutti d'un pezzo, senza alcuna cucitura; e per fregi et ornamenti di quelle, furono ricamate le storie della vita di S.
Giovanni, con sottilissimo magisterio et arte da Paulo da Verona, divino in quella professione e sopra ogni altro ingegno rarissimo; dal quale non furono condotte manco bene le figure con l'ago, che se le avesse dipinte Antonio col penello: di che si debbe avere obligo non mediocre alla virtù dell'uno nel disegno, et alla pazienza dell'altro nel ricamare.
Durò a condursi questa opera anni XXVI, e di questi ricami fatti col punto serrato, che oltre all'esser più durabili appare una propria pittura di penello, n'è quasi smarito il buon modo, usandosi oggi il punteggiare più largo, che è manco durabile e men vago a vedere.
VITA DI SANDRO BOTTICELLO PITTOR FIORENTINO
Ne' medesimi tempi del Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici, che fu veramente per le persone d'ingegno un secol d'oro, fiorì ancora Alessandro, chiamato a l'uso nostro Sandro e detto di Botticello per la cagione che appresso vedremo.
Costui fu figliuolo di Mariano Filipepi, cittadino fiorentino dal quale diligentemente allevato e fatto instruire in tutte quelle cose che usanza è di insegnarsi a' fanciulli in quella età, prima che e' si ponghino a le botteghe, ancora che agevolmente apprendesse tutto quello che e' voleva, era nientedimanco inquieto sempre; né si contentava di scuola alcuna, di leggere, di scrivere o di abbaco; di maniera che il padre infastidito di questo cervello sì stravagante, per disperato lo pose a lo orefice con un suo compare chiamato Botticello, assai competente maestro allora in quell'arte.
Era in quella età una dimestichezza grandissima e quasi che una continova pratica, tra gli orefici et i pittori; per la quale Sandro, che era destra persona e si era volto tutto al disegno, invaghitosi della pittura, si dispose volgersi a quella.
Per il che aprendo liberamente l'animo suo al padre, da lui che conobbe la inchinazione di quel cervello, fu condotto a fra' Filippo del Carmine, eccellentissimo pittore allora et acconcio seco a imparare, come Sandro stesso desiderava.
Datosi dunque tutto a quell'arte, seguitò et imitò sì fattamente il maestro suo, che fra' Filippo gli pose amore; et insegnolli di maniera che e' pervenne tosto ad un grado che nessuno lo arebbe stimato.
Dipinse, essendo giovanetto, nella mercatanzia di Fiorenza, una Fortezza fra le tavole delle virtù che Antonio e Piero del Pollaiuolo lavorarono.
In S.
Spirito di Fiorenza fece una tavola alla cappella de' Bardi, la quale è con diligenza lavorata et a buon fin condotta, dove sono alcune olive e palme lavorate con sommo amore.
Lavorò nelle Convertite una tavola a quelle monache, et a quelle di S.
Barnabà similmente un'altra.
In Ogni Santi dipinse a fresco nel tramezzo alla porta che va in coro, per i Vespucci, un S.
Agostino, nel quale cercando egli allora di passare tutti coloro ch'al suo tempo dipinsero, ma particolarmente Domenico Ghirlandaio che aveva fatto dall'altra banda un S.
Girolamo, molto s'affaticò; la qual opera riuscì lodatissima per avere egli dimostrato nella testa di quel Santo, quella profonda cogitazione et acutissima sottigliezza, che suole essere nelle persone sensate et astratte continuamente nella investigazione di cose altissime e molto difficili.
Questa pittura, come si è detto nella vita del Ghirlandaio, questo anno 1564 è stata mutata dal luogo suo, salva et intera.
Per il che venuto in credito et in riputazione, dall'Arte di Porta Santa Maria gli fu fatto fare in S.
Marco una incoronazione di Nostra Donna, in una tavola, et un coro d'Angeli, la quale fu molto ben disegnata e condotta da lui.
In casa Medici, a Lorenzo Vecchio lavorò molte cose, e massimamente una Pallade su una impresa di bronconi che buttavano fuoco, la quale dipinse grande quanto il vivo, et ancora un S.
Sebastiano.
In S.
Maria Maggior di Fiorenza è una Pietà con figure piccole, allato alla cappella di Panciatichi, molto bella.
Per la città in diverse case fece tondi di sua mano e femmine ignude assai, delle quali oggi ancora a Castello, villa del duca Cosimo, sono due quadri figurati: l'uno Venere che nasce, e quelle aure e venti, che la fanno venire in terra con gli amori, e così un'altra Venere che le grazie la fioriscono, dinotando la Primavera; le quali da lui con grazia si veggono espresse.
Nella via de' Servi in casa Giovanni Vespucci, oggi di Piero Salviati, fece intorno a una camera molti quadri, chiusi da ornamenti di noce, per ricignimento e spalliera, con molte figure e vivissime e belle.
Similmente in casa Pucci fece di figure piccole la novella del Boccaccio di Nastagio degl'Onesti, in quattro quadri, di pittura molto vaga e bella et in un tondo l'Epifania.
Ne' monaci di Cestello a una cappella fece una tavola d'una Annunziata.
In S.
Pietro Maggiore alla porta del fianco, fece una tavola per Matteo Palmieri con infinito numero di figure, cioè la assunzione di Nostra Donna con le zone de' cieli come son figurate, i Patriarchi, i Profeti, gl'Apostoli, gli Evangelisti, i Martiri, i Confessori, i Dottori, le Vergini e le Gerarchie, e tutto col disegno datogli da Matteo, ch'era litterato e valent'uomo.
La quale opera egli con maestria e finitissima diligenza dipinse; èvvi ritratto appiè Matteo in ginocchioni e la sua moglie ancora.
Ma con tutto che questa opera sia bellissima e ch'ella dovesse vincere la invidia, furono però alcuni malivoli e dettratori, che non potendo dannarla in altro dissero che e Matteo e Sandro gravemente vi avevano peccato in eresia; il che se è vero o non vero, non se ne aspetta il giudizio a me, basta che le figure che Sandro vi fece veramente sono da lodare, per la fatica che e' durò nel girare i cerchi de' cieli e tramezzare tra figure e figure d'Angeli e scorci e vedute in diversi modi diversamente, e tutto condotto con buono disegno.
Fu allogato a Sandro in questo tempo una tavoletta piccola, di figure di tre quarti di braccio l'una, la quale fu posta in S.
Maria Novella fra le due porte, nella facciata principale della chiesa, nell'entrare per la porta del mezzo, a sinistra: et èvvi dentro la adorazione de' Magi; dove si vede tanto affetto nel primo vecchio, che baciando il piede al Nostro Signore e struggendosi di tenerezza, benissimo dimostra avere conseguita la fine del lunghissimo suo viaggio.
E la figura di questo re è il proprio ritratto di Cosimo Vecchio de' Medici, di quanti a' dì nostri se ne ritruovano, il più vivo e più naturale.
Il secondo, che è Giuliano de' Medici, padre di papa Clemente VII, si vede che intensissimo con l'animo, divotamente rende riverenza a quel Putto e gli assegna il presente suo; il terzo, inginocchiato egli ancora, pare che adorandolo gli renda grazie e lo confessi il vero Messia, è Giovanni figliuolo di Cosimo.
Né si può descrivere la bellezza che Sandro mostrò nelle teste che vi si veggono; le quali con diverse attitudini son girate, quale in faccia, quale in proffilo, quale in mezzo occhio, e qual chinata, et in più altre maniere e diversità d'arie di giovani, di vecchi, con tutte quelle stravaganzie che possono far conoscere la perfezzione del suo magisterio; avendo egli distinto le corti di tre re, di maniera che e' si comprende quali siano i servidori dell'uno e quali dell'altro: opera certo mirabilissima; e per colorito, per disegno e per componimento ridotta sì bella, che ogni artefice ne resta oggi maravigliato.
Et allora gli arrecò in Fiorenza e fuori tanta fama che papa Sisto IIII avendo fatto fabricare la cappella in palazzo di Roma e volendola dipignere, ordinò ch'egli ne divenisse capo; onde in quella fece di sua mano le infrascritte storie, cioè quando Cristo è tentato dal diavolo, quando Mosè amazza lo Egizzio, e che riceve bere da le figlie di Ietro Madianite; similmente quando sacrificando i figliuoli di Aron, venne fuoco dal cielo; et acuni santi papi nelle nicchie di sopra alle storie.
Laonde, acquistato fra molti concorrenti che seco lavorarono e Fiorentini e di altre città, fama e nome maggiore, ebbe da 'l Papa buona somma di danari; i quali ad un tempo destrutti e consumati tutti nella stanza di Roma, per vivere a caso come era il solito suo, e finita insieme quella parte che egli era stata allogata e scopertala, se ne tornò subitamente a Fiorenza.
Dove, per essere persona sofistica, comentò una parte di Dante; e figurò lo Inferno e lo mise in stampa, dietro al quale consumò di molto tempo, per il che non lavorando fu cagione di infiniti disordini alla vita sua.
Mise in stampa ancora molte cose sue di disegni che egli aveva fatti, ma in cattiva maniera, perché l'intaglio era mal fatto, onde il meglio che si vegga di sua mano è il trionfo della fede di fra' Girolamo Savonarola da Ferrara: della setta del quale fu in guisa partigiano, che ciò fu causa che egli abbandonando il dipignere e non avendo entrate da vivere, precipitò in disordine grandissimo.
Perciò che, essendo ostinato a quella parte e facendo (come si chiamavano allora) il piagnone, si diviò dal lavorare: onde in ultimo si trovò vecchio e povero, di sorte che se Lorenzo de' Medici mentre che visse, per lo quale, oltre a molte altre cose, aveva assai lavorato allo spedaletto in quel di Volterra, non l'avesse sovvenuto, e poi gl'amici e molti uomini da bene stati affezionati alla sua virtù, si sarebbe quasi morto di fame.
È di mano di Sandro in S.
Francesco, fuor della porta a S.
Miniato, in un tondo una Madonna con alcuni Angeli grandi quanto il vivo, il quale fu tenuto cosa bellissima.
Fu Sandro persona molto piacevole e fece molte burle ai suoi discepoli et amici, onde si racconta che avendo un suo creato, che aveva nome Biagio, fatto un tondo simile al sopradetto appunto, per venderlo, che Sandro lo vendé sei fiorini d'oro a un cittadino, e che trovato Biagio gli disse: "Io ho pur finalmente venduto questa tua pittura, però si vuole stassera appicarla in alto, perché averà miglior veduta e dimattina andare a casa il detto cittadino e condurlo qua, acciò la veggia a buon'aria al luogo suo; poi ti annoveri i contanti".
"O, quanto avete ben fatto maestro mio!", disse Biagio.
E poi, andato a bottega, mise il tondo in luogo assai ben alto e partissi.
In tanto Sandro et Iacopo, che era un altro suo discepolo, fecero di carta otto cappucci a uso di cittadini e con la cera bianca gl'accommodarono sopra le otto teste degl'Angeli, che in detto tondo erano intorno alla Madonna.
Onde venuta la mattina, eccoti Biagio, che ha seco il cittadino che aveva compera la pittura e sapeva la burla, et entrati in bottega alzando Biagio gl'occhi vide la sua Madonna non in mezzo agl'Angeli ma in mezzo alla Signoria di Firenze starsi a sedere fra que' cappucci.
Onde volle cominciare a gridare e scusarsi con colui che l'aveva mercatata, ma vedendo che taceva, anzi lodava la pittura, se ne stette anch'esso.
Finalmente, andato Biagio col cittadino a casa, ebbe il pagamento de' sei fiorini, secondo che dal maestro era stata mercatata la pittura, e poi tornato a bottega, quando a punto Sandro et Iacopo avevano levati i cappucci di carta, vide i suoi Angeli essere Angeli, e non cittadini in cappuccio.
Perché tutto stupefatto non sapeva che si dire, pur finalmente rivolto a Sandro disse: "Maestro mio, io non so se io mi sogno o se gli è vero; questi Angeli quando io venni qua avevano i cappucci rossi in capo et ora non gli hanno, che vuol dir questo?".
"Tu sei fuor di te, Biagio", disse Sandro, "questi danari t'hanno fatto uscire del seminato; se cotesto fusse, credi tu che quel cittadino l'avesse compero?"; "Gli è vero", soggiunse Biagio "che non me n'ha detto nulla, tuttavia a me pareva strana cosa".
Finalmente tutti gl'altri garzoni furono intorno a costui e tanto dissono, che gli fecion credere che fussino stati capogiroli.
Venne una volta ad abitare allato a Sandro un tessidore di drappi, e rizzò ben otto telaia, i quali quando lavoravano facevano non solo col romore delle calcole e ribattimento delle casse, assordare il povero Sandro, ma tremare tutta la casa che non era più gagliarda di muraglia che si bisognasse, donde fra per l'una cosa e per l'altra non poteva lavorare o stare in casa; e pregato più volte il vicino che rimediasse a questo fastidio, poi che egli ebbe detto che in casa sua voleva e poteva far quel che più gli piaceva, Sandro sdegnato, in sul suo muro che era più alto di quel del vicino e non molto gagliardo, pose in billico una grossissima pietra, e di più che di carrata, che pareva che ogni poco che 'l muro si movesse fusse per cadere e sfondare i tetti e palchi e tele e telai del vicino; il quale impaurito di questo pericolo e ricorrendo a Sandro, gli fu risposto con le medesime parole, che in casa sua poteva e voleva far quel che gli piaceva, né potendo cavarne altra conclusione, fu necessitato a venir agli accordi ragionevoli, e far a Sandro buona vicinanza.
Raccontasi ancora che Sandro accusò per burla un amico suo di eresia al Vicario, e che colui comparendo dimandò chi l'aveva accusato e di che; per che, essendogli detto che Sandro era stato, il quale diceva che egli teneva l'opinione degli epicurei e che l'anima morisse col corpo, volle vedere l'accusatore dinanzi al giudice, onde Sandro, comparso, disse: "E' gli è vero che io ho questa opinione dell'anima di costui che è una bestia, oltre ciò non pare a voi che sia eretico poi che senza avere lettere o a pena saper leggere, comenta Dante e mentova il suo nome invano?".
Dicesi ancora che egli amò fuor di modo coloro che egli cognobbe studiosi dell'arte, e che guadagnò assai, ma tutto, per avere poco governo e per trascuratagine, mandò male.
Finalmente condottosi vecchio e disutile, e caminando con due mazze, perché non si reggeva ritto, si morì essendo infermo e decrepito d'anni settantotto; et in Ogni Santi di Firenze fu sepolto l'anno 1515.
Nella guardaroba del signor duca Cosimo sono di sua mano due teste di femmina in profilo, bellissime; una delle quali si dice che fu l'inamorata di Giuliano de' Medici, fratello di Lorenzo, e l'altra madonna Lucrezia de' Tornabuoni, moglie di detto Lorenzo.
Nel medesimo luogo è similmente di man di Sandro un Bacco, che alzando con ambe le mani un barile, se lo pone a bocca, il quale è una molto graziosa figura; e nel Duomo di Pisa, alla cappella dell'Impagliata, cominciò un'Assunta con un coro d'Angeli, ma poi non gli piacendo, la lasciò imperfetta.
In S.
Francesco di Monte Varchi fece la tavola dell'altar maggiore; e nella Pive d'Empoli da quella banda dove è il S.
Bastiano del Rossellino fece due Angeli.
E fu egli de' primi che trovasse di lavorare gli stendardi et altre drapperie, come si dice, di commesso, perché i colori non istinghino e mostrino da ogni banda il colore del drappo.
E di sua mano così fatto è il baldachino d'Or S.
Michele, pieno di Nostre Donne tutte variate e belle.
Il che dimostra quanto cotal modo di fare, meglio conservi il drappo che non fanno i mordenti, che lo ricidano e dannogli poca vita, se bene per manco spesa è più in uso oggi il mordente che altro.
Disegnò Sandro bene fuor di modo e tanto, che dopo lui un pezzo s'ingegnarono gl'artefici d'avere de' suoi disegni.
E noi nel nostro libro n'abbiamo alcuni che son fatti con molta pratica e giudizio.
Fu copioso di figure nelle storie, come si può veder ne' ricami del fregio della croce che portano a processione i frati di S.
Maria Novella, tutto di suo disegno.
Meritò dunque Sandro gran lode in tutte le pitture che fece, nelle quali volle mettere diligenza e farle con amore, come fece la detta tavola de' Magi di S.
Maria Novella, la quale è maravigliosa.
È molto bello ancora un picciol tondo di sua mano che si vede nella camera del priore degl'Angeli di Firenze, di figure piccole, ma graziose molto e fatte con bella considerazione.
Della medesima grandezza che è la detta tavola de' Magi, n'ha una di mano del medesimo Messer Fabio Segni, gentiluomo fiorentino, nella quale è dipinta la calunnia d'Apelle, bella quanto possa essere.
Sotto la quale tavola, la quale egli stesso donò ad Antonio Segni suo amicissimo, si leggono oggi questi versi di detto Messer Fabio:
Indicio quemquam ne falso laedere tentent
terrarum reges parva tabella monet.
Huic similem Aegypti regi donavit Apelles:
rex fuit, et dignus munere, munus eo.
VITA DI BENEDETTO DA MAIANO SCULTORE ET ARCHITETTO
Benedetto da Maiano scultore fiorentino, essendo ne' suoi primi anni intagliatore di legname, fu tenuto in quello esercizio il più valente maestro che tenesse ferri in mano, e particolarmente fu ottimo artefice in quel modo di fare che, come altrove si è detto, fu introdotto al tempo di Filippo Brunelleschi e di Paulo Ucello, di comettere insieme legni tinti di diversi colori e farne prospettive, fogliami e molte altre diverse fantasie.
Fu dunque in questo artifizio Benedetto da Maiano, nella sua giovinezza, il miglior maestro che si trovasse, come apertamente ne dimostrano molte opere sue che in Firenze in diversi luoghi si veggiono; e particolarmente tutti gl'armari della sagrestia di S.
Maria del Fiore, finiti da lui la maggior parte dopo la morte di Giuliano suo zio, che son pieni di figure fatte di rimesso e di fogliami e d'altri lavori, fatti con maggior spesa et artifizio.
Per la novità dunque di questa arte, venuto in grandissimo nome, fece molti lavori che furono mandati in diversi luoghi et a diversi principi; e fra gl'altri n'ebbe il re Alfonso di Napoli un fornimento d'uno scrittoio, fatto fare per ordine di Giuliano, zio di Benedetto, che serviva il detto re nelle cose d'architettura, dove esso Benedetto si trasferì, ma non gli piacendo la stanza, se ne tornò a Firenze; dove avendo non molto dopo lavorato per Mattia Corvino re d'Ungheria, che aveva nella sua corte molti Fiorentini e si dilettava di tutte le cose rare, un paio di casse con difficile e bellissimo magisterio di legni commessi, si deliberò, essendo con molto favore chiamato da quel re, di volere andarvi per ogni modo; per che fasciate le sue casse e con esse entrato in nave, se n'andò in Ungheria.
Là dove, fatto reverenza a quel re dal quale fu benignamente ricevuto, fece venire le dette casse; e quelle fatte sballare alla presenza del re che molto disiderava di vederle, vide che l'umido dell'acqua e 'l mucido del mare aveva intenerito in modo la colla, che nell'aprire gl'incerati, quasi tutti i pezzi che erano alle casse appicati, caddero in terra; onde se Benedetto rimase attonito et ammutolito per la presenza di tanti signori, ognuno se lo pensi.
Tuttavia messo il lavoro insieme il meglio che potette, fece che il re rimase assai sodisfatto.
Ma egli nondimeno, recatosi a noia quel mestiero, non lo poté più patire, per la vergogna che n'aveva ricevuto.
E così messa da canto ogni timidità, si diede alla scultura, nella quale aveva di già a Loreto, stando con Giuliano suo zio, fatto per la sacrestia un lavamani con certi Angeli di marmo.
Nella quale arte, prima che partisse d'Ungheria, fece conoscere a quel re che se era da principio rimaso con vergogna, la colpa era stata dell'esercizio che era basso, e non dell'ingegno suo che era alto e pellegrino.
Fatto dunque che egli ebbe in quelle parti alcune cose di terra e di marmo, che molto piacquero a quel re, se ne tornò a Firenze, dove non sì tosto fu giunto, che gli fu dato dai signori a fare l'ornamento di marmo della porta della lor udienza, dove fece alcuni fanciulli, che con le braccia reggono certi festoni molto belli.
Ma sopra tutto fu bellissima la figura che è nel mezzo, d'un S.
Giovanni giovanetto, di due braccia, la quale è tenuta cosa singulare.
Et acciò che tutta quell'opera fusse di sua mano, fece i legni che serrano la detta porta egli stesso, e vi ritrasse i legni commessi, in ciascuna parte, una figura, cioè in una Dante e nell'altra il Petrarca: le quali due figure, a chi altro non avesse in cotale esercizio veduto di man di Benedetto, possono fare conoscere quanto egli fosse in quello raro et eccellente.
La quale udienza a' tempi nostri ha fatta dipignere il signor duca Cosimo da Francesco Salviati, come al suo luogo si dirà.
Dopo fece Benedetto, in S.
Maria Novella di Fiorenza, dove Filippino dipinse la capella, una sepoltura di marmo nero, in un tondo una Nostra Donna e certi Angeli con molta diligenza, per Filippo Strozzi Vecchio, il ritratto del quale, che vi fece di marmo, è oggi nel suo palazzo.
Al medesimo Benedetto fece fare Lorenzo Vecchio de' Medici in Santa Maria del Fiore, il ritratto di Giotto, pittore fiorentino, e lo collocò sopra l'epitaffio, del quale si è di sopra, nella vita di esso Giotto, a bastanza ragionato, la quale scultura di marmo è tenuta ragionevole.
Andato poi Benedetto a Napoli, per essere morto Giuliano suo zio, del quale egli era erede, oltre alcune opere che fece a quel re, fece per il conte di Terra Nuova, in una tavola di marmo nel monasterio de' monaci di Monte Oliveto, una Nunziata con certi Santi e fanciulli intorno, bellissimi, che reggono certi festoni; e nella predella di detta opera fece molti bassi rilievi con buona maniera.
In Faenza fece una bellissima sepoltura di marmo per il corpo di S.
Savino, et in essa fece di basso rilievo sei storie della vita di quel Santo, con molta invenzione e disegno, così ne' casamenti come nelle figure; di maniera che per questa e per l'altre opere sue, fu conosciuto per uomo eccellente nella scultura.
Onde prima che partisse di Romagna gli fu fatto fare il ritratto di Galeotto Malatesta.
Fece anco, non so se prima o poi, quello d'Enrico Settimo, re d'Inghilterra, secondo che n'aveva avuto da alcuni mercanti fiorentini un ritratto in carta: la bozza de' quali due ritratti fu trovata in casa sua con molte altre cose, dopo la sua morte.
Ritornato finalmente a Fiorenza, fece a Pietro Mellini, cittadin fiorentino et allora ricchissimo mercante, in S.
Croce il pergamo di marmo che vi si vede, il qual è tenuto cosa rarissima e bella sopr'ogni altra che in quella maniera sia mai stata lavorata, per vedersi in quello lavorate le figure di marmo nelle storie di S.
Francesco, con tanta bontà e diligenza, che di marmo non si potrebbe più oltre disiderare; avendovi Benedetto con molto artifizio intagliato alberi, sassi, casamenti, prospettive et alcune cose maravigliosamente spiccate; et oltre ciò un ribattimento in terra di detto pergamo, che serve per la lapida di sepoltura, fatto con tanto disegno, che egli è impossibile lodarlo a bastanza.
Dicesi che egli in fare questa opera ebbe difficultà con gl'Operai di S.
Croce; perché volendo appoggiare detto pergamo a una colonna, che regge alcuni degli archi che sostengono il tetto, e forare la detta colonna per farvi la scala e l'entrata al pergamo, essi non volevano, dubitando che ella non si indebolisse tanto col vacuo della salita, che il peso non la sforzasse, con gran rovina d'una parte di quel tempio.
Ma avendo dato sicurtà il Mellino che l'opera si finirebbe senza alcun danno della chiesa, finalmente furono contenti.
Onde avendo Benedetto sprangato di fuori con fasce di bronzo la colonna, cioè quella parte che dal pergamo in giù è ricoperta di pietra forte, fece dentro la scala per salire al pergamo; e tanto quanto egli la bucò di dentro, l'ingrossò di fuora con detta pietra forte, in quella maniera che si vede.
E con stupore di chiunche la vede condusse questa opera a perfezzione, mostrando in ciascuna parte et in tutta insieme quella maggior bontà che può in simil opera desiderarsi.
Affermano molti che Filippo Strozzi il Vecchio, volendo fare il suo palazzo, ne volle il parere di Benedetto che gliene fece un modello, e che secondo quello fu cominciato, se bene fu seguitato poi e finito dal Cronaca, morto esso Benedetto; il quale avendosi acquistato da vivere, dopo le cose dette non volle fare altro lavoro di marmo.
Solamente finì in S.
Trinità la S.
Maria Madalena stata cominciata da Disiderio da Settignano, e fece il Crucifisso, che è sopra l'altare di S.
Maria del Fiore, et alcuni altri simili.
Quanto all'architettura, ancora che mettesse mano a poche cose, in quelle nondimeno non dimostrò manco giudizio che nella scultura, e massimamente in tre palchi di grandissima spesa, che d'ordine e col consiglio suo, furono fatti nel palazzo della Signoria di Firenze.
Il primo fu il palco della sala che oggi si dice de' Dugento, sopra la quale avendosi a fare non una sala simile, ma due stanze, cioè una sala et una audienza, e per conseguente avendosi a fare un muro, non mica leggieri del tutto e dentrovi una porta di marmo ma di ragionevole grossezza, non bisognò manco ingegno o giudizio di quello che aveva Benedetto, a fare un'opera così fatta.
Benedetto, adunque, per non diminuire la detta sala e dividere nondimeno il disopra in due, fece a questo modo: sopra un legno grosso un braccio e lungo quanto la larghezza della sala, ne commesse un altro di due pezzi, di maniera che con la grossezza sua alzata due terzi di braccio, e negl'estremi ambidue benissimo confitti et incatenati insieme facevano a canto al muro, ciascuna testa alta due braccia; e le dette due teste erano intaccate a ugna in modo che vi si potesse impostare un arco di mattoni doppi, grosso un mezzo braccio, appoggiatolo ne' fianchi ai muri principali.
Questi due legni adunque erano con alcune incastrature a guisa di denti in modo con buone spranghe di ferro uniti, et incatinati insieme, che di due legni venivano a essere un solo; oltre ciò, avendo fatto il detto arco acciò le dette travi del palco non avesseno a reggere se non il muro dell'arco in giù, e l'arco tutto il rimanente, apiccò davantaggio al detto arco due grandi staffe di ferro, che inchiodate gagliardamente nelle dette travi da basso, le reggevano e reggono, di maniera che quando per loro medesime non bastasseno sarebbe atto l'arco, mediante le dette catene stesse che abbracciano il travo, e sono due, una di qua et una di là dalla porta di marmo, a reggere molto maggior peso che non è quello del detto muro, che è di mattoni e grosso un mezzo braccio.
E nondimeno fece lavorare nel detto muro i mattoni per coltello e centinato, che veniva a pigner ne' canti dove era il sodo e rimanere più stabile.
Et in questa maniera, mediante il buon giudizio di Benedetto rimase la detta sala de' Dugento nella sua grandeza; e sopra nel medesimo spazio, con un tramezzo di muro, vi si fece la sala che si dice dell'oriuolo, e l'udienza dove è dipinto il trionfo di Camillo di mano del Salviati.
Il soffittato del qual palco fu riccamente lavorato et intagliato da Marco del Tasso, Domenico e Giuliano suoi frategli, che fece similmente quello della sala dell'oriuolo e quello dell'udienza.
E perché la detta porta di marmo fu da Benedetto fatta doppia, sopra l'arco della porta di dentro, avendo già detto del difuori, fece una Iustizia di marmo a sedere con la palla del mondo in una mano, e nell'altra una spada con lettere intorno all'arco, che dicono: Diligite iustitiam qui iudicatis terram; la quale tutta opera fu condotta con maravigliosa diligenza et artifizio.
Il medesimo alla Madonna delle Grazie, che è poco fuor d'Arezzo, facendo un portico et una salita di scale dinanzi alla porta, nel portico mise gl'archi sopra le colonne et a canto al tetto girò intorno intorno a un architrave, fregio e cornicione; et in quello fece per gocciolatoio una ghirlanda di rosoni intagliati di macigno, che sportano in fuori un braccio et un terzo; talmente che fra l'agetto del frontone della gola di sopra et il dentello et uovolo, sotto il gocciolatoio, fa braccia due e mezzo, che aggiuntovi mezzo braccio che fanno i tegoli, fa un tetto di braccia tre intorno bello, ricco, utile et ingegnoso.
Nella qual opera è quel suo artifizio degno d'esser molto considerato dagli artefici, che volendo che questo tetto sportasse tanto in fuori senza modiglioni o menzole che lo reggessino, fece que' lastroni, dove sono i rosoni intagliati, tanto grandi che la metà sola sportassi infuori, e l'altra metà restassi murato di sodo, onde essendo così contrepesati, potettono reggere il resto e tutto quello che di sopra si aggiunse, come ha fatto sino a oggi, senza disagio alcuno di quella fabrica.
E perché non voleva che questo cielo apparissi di pezzi come egli era, riquadrò pezzo per pezzo d'un corniciamento intorno, che veniva a far lo sfondato del rosone, che incastrato e commesso bene a cassetta, univa l'opera di maniera che chi la vede la giudica d'un pezzo tutta.
Nel medesimo luogo fece fare un palco piano di rosoni messi d'oro, che è molto lodato.
Avendo Benedetto compero un podere fuor di Prato, a uscire per la porta Fiorentina per venire verso Firenze, e non più lontano dalla terra che un mezzo miglio, fece in sulla strada maestra accanto alla porta, una bellissima cappelletta, et in una nicchia una Nostra Donna col Figliuolo in collo di terra, lavorata tanto bene, che così fatta, senza altro colore, è bella quanto se fusse di marmo.
Così sono due Angeli, che sono a sommo per ornamento, con un candelliere per uno in mano.
Nel dossale dell'altare è una pietà con la Nostra Donna e S.
Giovanni di marmo, bellissimo.
Lassò anco alla sua morte in casa sua molte cose abbozzate di terra e di marmo.
Disegnò Benedetto molto bene, come si può vedere in alcune carte del nostro libro.
Finalmente d'anni 54 si morì, nel 1498, e fu onorevolmente sotterrato in S.
Lorenzo.
E lasciò che dopo la vita d'alcuni suoi parenti, tutte le sue facultà fussino della Compagnia del Bigallo.
Mentre Benedetto nella sua giovinezza lavorò di legname e di commesso, furono suoi concorrenti Baccio Cellini piffero della Signoria di Firenze, il quale lavorò di commesso alcune cose d'avorio molto belle, e fra l'altre un ottangolo di figure d'avorio profilate di nero, bello affatto, il quale è nella guardaroba del Duca; parimente Girolamo della Cecca, creato di costui, e piffero anch'egli della Signoria, lavorò ne' medesimi tempi pur di commesso molte cose.
Fu nel medesimo tempo Davit pistolese, che in S.
Giovanni Evangelista di Pistoia, fece all'entrata del coro un S.
Giovanni Evangelista di rimesso, opera più di gran fatica a condursi, che di gran disegno.
E parimente Geri Aretino, che fece il coro et il pergamo di S.
Agostino d'Arezzo, de' medesimi rimessi di legnami di figure e prospettive.
Fu questo Geri molto capriccioso, e fece di canne di legno uno organo perfettissimo, di dolcezza e suavità, che è ancor oggi nel Vescovado d'Arezzo, sopra la porta della sagrestia, mantenutosi nella medesima bontà, che è cosa degna di maraviglia e da lui prima messa in opera.
Ma nessuno di costoro, né altri, fu a gran pezzo eccellente quanto Benedetto, onde egli merita fra i migliori artefici delle sue professioni d'esser sempre annoverato e lodato.
VITA DI ANDREA VERROCCHIO PITTORE, SCULTORE ET ARCHITETTO
Andrea del Verrocchio, fiorentino, fu ne' tempi suoi orefice, prospettivo, scultore, intagliatore, pittore e musico; ma invero ne l'arte della scultura e pittura ebbe la maniera alquanto dura e crudetta; come quello che con infinito studio se la guadagnò, più che col benefizio o facilità della natura; la qual facilità se ben li fussi tanto mancata, quanto gli avanzò studio e diligenza, sarebbe stato in queste arti eccellentissimo, le quali a una somma perfezione vorrebbono congiunto studio e natura; e dove l'un de' due manca rade volte si perviene al colmo, se ben lo studio ne porta seco la maggior parte; il quale perché fu in Andrea, quanto in alcuno altro mai grandissimo, si mette fra i rari et eccellenti artefici dell'arte nostra.
Questi in giovanezza attese alle scienze, particularmente alla geometria.
Furono fatti da lui, mentre attese all'orefice, oltre a molte altre cose, alcuni bottoni da piviali che sono in S.
Maria del Fiore di Firenze; e di grosserie particolarmente una tazza, la forma della quale, piena d'animali, di fogliami e d'altre bizzarrie, va attorno et è da tutti gl'orefici conosciuta, et un'altra parimente dove è un ballo di puttini molto bello.
Per le quali opere avendo dato saggio di sé, gli fu dato a fare dall'arte de' Mercatanti due storie d'argento nelle teste dell'altare di S.
Giovanni, delle quali, messe che furono in opera, acquistò lode e nome grandissimo.
Mancavano in questo tempo in Roma alcuni di quegli Apostoli grandi, che ordinariamente solevano stare in sull'altare della cappella del papa con alcune altre argenterie state disfatte; per il che, mandato per Andrea, gli fu con gran favore da papa Sisto dato a fare tutto quello che in ciò bisognava; et egli il tutto condusse con molta diligenza e giudizio a perfezzione.
Intanto vedendo Andrea che delle molte statue antiche et altre cose che si trovavano in Roma, si faceva grandissima stima, e che fu fatto porre quel cavallo di bronzo dal papa a S.
Ianni Laterano e che de' fragmenti, non che delle cose intere che ogni dì si trovavano, si faceva conto, deliberò d'attendere alla scultura.
E così abandonato in tutto l'orefice, si mise a gettare di bronzo alcune figurette che gli furono molto lodate.
Laonde preso maggiore animo, si mise a lavorare di marmo; onde essendo morta sopra parto in que' giorni la moglier di Francesco Tornabuoni, il marito che molto amata l'aveva, e, morta, voleva quanto poteva il più onorarla, diede a fare la sepoltura ad Andrea, il quale sopra una cassa di marmo intagliò in una lapida la donna, il partorire et il passare all'altra vita; et appresso in tre figure fece tre virtù, che furono tenute molto belle, per la prima opera che di marmo avesse lavorato; la quale sepoltura fu posta nella Minerva.
Ritornato poi a Firenze con danari, fama et onore, gli fu fatto fare di bronzo un Davit di braccia due e mezzo, il quale finito, fu posto in palazzo al sommo della scala dove stava la catena, con sua molta lode.
Mentre che egli conduceva la detta statua, fece ancora quella Nostra Donna di marmo che è sopra la sepoltura di Messer Lionardo Bruni aretino, in S.
Croce, la quale lavorò, essendo ancora assai giovane, per Bernardo Rossellini architetto e scultore, il quale condusse di marmo, come si è detto, tutta quell'opera.
Fece il medesimo in un quadro di marmo una Nostra Donna di mezzo rilievo, dal mezzo in su, col Figliuolo in collo; la quale già era in casa Medici ed oggi è nella camera della Duchessa di Fioranza, sopra una porta come cosa bellissima.
Fece anco due teste di metallo, una d'Alessandro Magno, di proffilo, l'altra d'un Dario a suo capriccio, pur di mezzo rilievo, e ciascuna da per sé variando l'un dall'altro ne' cimieri, nell'armadure et in ogni cosa.
Le quali ambedue furono mandate dal Magnifico Lorenzo de' Medici al re Mattia Corvino in Ungheria, con molte altre cose, come si dirà al luogo suo.
Per le quali cose avendo acquistatosi Andrea nome di eccellente maestro, e massimamente [nelle] cose di metallo delle quali egli si dilettava molto, fece di bronzo tutta tonda in San Lorenzo la sepoltura di Giovanni e di Piero di Cosimo de' Medici, dove è una cassa di porfido, retta da quattro cantonate di bronzo, con girari di foglie molto ben lavorate e finite con diligenza grandissima; la quale sepoltura è posta fra la cappella del Sagramento e la sagrestia, della qual opera non si può, né di bronzo né di getto, far meglio; massimamente avendo egli in un medesimo tempo mostrato l'ingegno suo nell'architettura per aver la detta sepoltura collocata nell'apertura d'una finestra larga braccia cinque et alta dieci in circa e posta sopra un basamento che divide la detta cappella del Sagramento dalla sagrestia vecchia.
E sopra la cassa, per ripieno dell'apertura insino alla volta, fece una grata a mandorle di cordoni di bronzo naturalissimi con ornamenti in certi luoghi d'alcuni festoni et altre belle fantasie, tutte notabili e con molta pratica, giudizio et invenzione condotte.
Dopo, avendo Donatello per lo magistrato de' sei della Mercanzia fatto il tabernacolo di marmo che è oggi dirimpetto a San Michele, nell'oratorio di esso d'Or San Michele, et avendovisi a fare un San Tommaso di bronzo che cercasse la piaga a Cristo, ciò per allora non si fece altrimenti, perché degl'uomini che avevano cotal cura, alcuni volevano che lo facesse Donatello et altri Lorenzo Ghiberti.
Essendosi dunque la cosa stata così, insino a che Donato e Lorenzo vissero, furono finalmente le dette due statue allogate ad Andrea, il quale fattone i modelli e le forme, le gettò e vennero tanto salde, intere e ben fatte, che fu un bellissimo getto.
Onde messosi a rinettarle e finirle, le ridusse a quella perfezzione che al presente si vede, che non potrebbe esser maggiore, perché in San Tommaso si scorge la incredulità e la troppa voglia di chiarirsi del fatto, et in un medesimo tempo l'amore che gli fa con bellissima maniera metter la mano al costato di Cristo; et in esso Cristo, il quale con liberalissima attitudine alza un braccio et aprendo la veste chiarisce il dubbio dell'incredulo discepolo, è tutta quella grazia e divinità, per dir così, che può l'arte dar a una figura.
E l'avere Andrea ambedue queste figure vestite di bellissimi e bene accomodati panni, fa conoscere che egli non meno sapeva questa arte che Donato, Lorenzo e gl'altri che erano stati inanzi a lui.
Onde ben meritò questa opera d'esser in un tabernacolo, fatto da Donato, collocata e di essere stata poi sempre tenuta in pregio e grandissima stima.
Laonde non potendo la fama di Andrea andar più oltre né più crescere in quella professione, come persona a cui non bastava in una sola cosa essere eccellente, ma desiderava esser il medesimo in altre ancora, mediante lo studio, voltò l'animo alla pittura e così fece i cartoni d'una battaglia d'ignudi, disegnati di penna molto bene, per fargli di colore in una facciata.
Fece similmente i cartoni d'alcuni quadri di storie e dopo gli cominciò a mettere in opera di colori; ma qual si fusse la cagione, rimasero imperfetti.
Sono alcuni disegni di sua mano nel nostro libro, fatti con molta pacienza e grandissimo giudizio; in fra i quali sono alcune teste di femina con bell'arie et acconciature di capegli, quali per la sua bellezza Lionardo da Vinci sempre imitò; sonvi ancora dua cavagli con il modo delle misure e centine, da fargli di piccioli grandi, che venghino proporzionati e senza errori; e di rilievo di terra cotta è appresso di me una testa di cavallo ritratta dall'antico, che è cosa rara, et alcuni altri pure in carta, n'ha il molto reverendo don Vincenzio Borghini nel suo libro, del quale si è di sopra ragionato.
E fra gl'altri un disegno di sepoltura da lui fatto in Vinegia per un doge et una storia de' Magi che adorano Cristo; et una testa d'una donna finissima quanto si possa, dipinta in carta.
Fece anco a Lorenzo de' Medici, per la fonte della villa a Careggi, un putto di bronzo, che strozza un pesce; il quale ha fatto porre, come oggi si vede, il signor duca Cosimo alla fonte che è nel cortile del suo palazzo; il qual putto è veramente maraviglioso.
Dopo, essendosi finita di murare la cupola di Santa Maria del Fiore, fu risoluto dopo molti ragionamenti, che si facesse la palla di rame che aveva a esser posta in cima a quell'edifizio, secondo l'ordine lasciato da Filippo Brunelleschi; per che, datone la cura ad Andrea, egli la fece alta braccia quattro, e posandola in sur un bottone, la incatenò di maniera che poi vi si poté mettere sopra sicuramente la croce.
La quale opera finita, fu messa su con grandissima festa e piacere de' popoli.
Ben è vero che bisognò usar nel farla ingegno e diligenza, perché si potesse, come si fa, entrarvi dentro per di sotto; et anco nell'armarla con buone fortificazioni acciò i venti non le potessero far nocumento.
E per ché Andrea mai non si stava, e sempre o di pittura o di scultura lavorava qualche cosa e qualche volta tramezzava l'un'opera con l'altra, perché meno, come molti fanno, gli venisse una stessa cosa a fastidio, se bene non mise in opera i sopradetti cartoni, dipinse nondimeno alcune cose; e fra l'altre una tavola alle monache di San Domenico di Firenze, nella quale gli parve essersi portato molto bene, onde poco appresso ne dipinse in S.
Salvi un'altra a' frati di Vallombrosa, nella quale è quando San Giovanni battezza Cristo.
Et in questa opera aiutandogli Lionardo da Vinci allora giovanetto e suo discepolo, vi colorì un Angelo di sua mano, il quale era molto meglio che l'altre cose; il che fu cagione che Andrea si risolvette a non volere toccare più pennelli, poiché Lionardo così giovanetto in quell'arte, si era portato molto meglio di lui.
Avendo dunque Cosimo de' Medici avuto di Roma molte anticaglie, aveva dentro alla porta del suo giardino, o vero cortile, che riesce nella via de' Ginori fatto porre un bellissimo Marsia di marmo bianco, impiccato a un tronco per dovere essere scorticato; perché volendo Lorenzo suo nipote, al quale era venuto alle mani un torso con la testa d'un altro Marsia antichissimo e molto più bello che l'altro e di pietra rossa, accompagnarlo col primo, non poteva ciò fare essendo imperfettissimo; onde datolo a finire et acconciare ad Andrea, egli fece le gambe, le cosce e le braccia che mancavano a questa figura, di pezzi di marmo rosso, tanto bene che Lorenzo ne rimase soddisfattissimo e la fece porre dirimpetto all'altra, dall'altra banda della porta.
Il quale torso antico, fatto per un Marsia scorticato, fu con tanta avvertezza e giudizio lavorato, che alcune vene bianche e sottili, che erano nella pietra rossa, vennero intagliate dall'artefice in luogo a punto che paiono alcuni piccoli nerbicini, che nelle figure naturali quando sono scorticate, si veggiono: il che doveva far parere quell'opera, quando aveva il suo primiero pulimento, cosa vivissima.
Volendo in tanto i Viniziani onorare la molta virtù di Bartolomeo da Bergamo, mediante il quale avevano avuto molte vittorie, per dare animo agli altri, udita la fama d'Andrea, lo condussero a Vinezia, dove gli fu dato ordine che facesse di bronzo la statua a cavallo di quel capitano, per porla in sulla piazza di S.
Giovanni e Polo.
Andrea dunque, fatto il modello del cavallo, aveva cominciato ad armarlo per gettarlo di bronzo, quando, mediante il favore d'alcuni gentiluomini, fu deliberato che Vellano da Padova facesse la figura, et Andrea il cavallo.
La qual cosa avendo intesa Andrea, spezzato che ebbe al suo modello le gambe e la testa, tutto sdegnato se ne tornò senza far motto a Firenze.
Ciò udendo, la Signoria gli fece intendere che non fusse mai più ardito di tornare in Vinezia, perché gli sarebbe tagliata la testa, alla qual cosa scrivendo rispose che se ne guarderebbe, perché spiccate che le avevano, non era in loro facultà rappiccare le teste agl'uomini, né una simile alla sua già mai, come arebbe saputo lui fare di quella che gli avea spiccata al suo cavallo, e più bella.
Dopo la qual risposta che non dispiacque a que' Signori, fu fatto ritornare con doppia provisione a Vinezia, dove racconcio che ebbe il primo modello, lo gettò di bronzo ma non lo finì già del tutto, perché esendo riscaldato e raffreddato nel gettarlo, si morì in pochi giorni in quella città, lasciando imperfetta non solamente quell'opera, ancor che poco mancasse al rinettarla, che fu messa nel luogo dove era destinata, ma un'altra ancora che faceva in Pistoia, cioè la sepoltura del cardinale Forteguerra, con le tre virtù teologiche et un Dio Padre sopra, la quale opera fu finita poi da Lorenzetto scultore fiorentino.
Aveva Andrea quando morì anni 56.
Dolse la sua morte infinitamente agl'amici et a' suoi discepoli, che non furono pochi; e massimamente a Nanni Grosso scultore e persona molto astratta nell'arte e nel vivere.
Dicesi che costui non averebbe lavorato fuor di bottega, e particolarmente né a' monaci né a' frati, se non avesse avuto per ponte l'uscio della volta, o vero cantina, per potere andare a bere a sua posta e senza avere a chiedere licenza.
Si racconta anco di lui che essendo una volta tornato sano e guarito di non so che sua infirmità da S.
Maria Nuova rispondeva agl'amici quando era visitato e dimandato da loro come stava: "Io sto male".
"Tu sei pur guarito", rispondevano essi; et egli soggiungeva: "E però sto io male, per ciò che io arei bisogno d'un poco di febre per potermi intrattenere qui nello spedale, agiato e servito".
A costui, venendo a morte pur nello spedale, fu posto inanzi un Crocifisso di legno assai mal fatto e goffo; onde pregò che gli fusse levato dinanzi e portatogliene uno di man di Donato, affermando che se non lo levavano si morrebbe disperato, cotanto gli dispiacevano l'opere mal fatte della sua arte.
Fu discepolo del medesimo Andrea, Piero Perugino e Lionardo da Vinci, de' quali si parlerà al suo luogo, e Francesco di Simone fiorentino, che lavorò in Bologna nella chiesa di San Domenico una sepoltura di marmo, con molte figure piccole, che alla maniera paiono di mano d'Andrea; la qual fu fatta per Messer Alessandro Tartaglia imolese, dottore.
Et un'altra in San Brancazio di Firenze, che risponde in sagrestia, et in una capella di chiesa, per Messer Pier Minerbetti, cavaliere.
Fu suo allievo ancora Agnol di Polo, che di terra lavorò molto praticamente, et ha pieno la città di cose di sua mano, e se avesse voluto attender all'arte da senno, arebbe fatte cose bellissime.
Ma più di tutti fu amato da lui Lorenzo di Credi, il quale ricondusse l'ossa di lui da Vinezia, e le ripose nella chiesa di S.
Ambruogio nella sepoltura di Ser Michele di Cione, dove sopra la lapida sono intagliate queste parole:
Sep.
Michaelis de Cionis et suorum;
et appresso:
Hic ossa iacent Andreae Verrochii, qui obiit Venetiis
MCCC[C]LXXXVIII
Si dilettò assai Andrea di formare di gesso da far presa, cioè di quello che si fa d'una pietra dolce, la quale si cava in quel di Volterra e di Siena, et in altri molti luoghi d'Italia.
La quale pietra cotta al fuoco e poi pesta e con l'acqua tiepida impastata, diviene tenera di sorte, che se ne fa quello che altri vuole, e dopo rassoda insieme et indurisce, in modo che vi si può dentro gettar figure intere.
Andrea dunque usò di formare, con forme così fatte, le cose naturali per poterle con più commodità tenere inanzi et imitarle, cioè mani, piedi, ginocchia, gambe, braccia e torsi.
Dopo si cominciò al tempo suo a formare le teste di coloro che morivano, con poca spesa; onde si vede in ogni casa di Firenze sopra i camini, usci, finestre e cornicioni infiniti di detti ritratti, tanto ben fatti e naturali, che paiono vivi.
E da detto tempo in qua si è seguitato e seguita il detto uso, che a noi è stato di gran commodità, per avere i ritratti di molti, che si sono posti nelle storie del palazzo del duca Cosimo.
E di questo si deve certo aver grandissimo obligo alla virtù d'Andrea, che fu de' primi che cominciasse a metterlo in uso.
Da questo si venne al fare imagini di più perfezzione non pure in Fiorenza, ma in tutti i luoghi dove sono divozioni e dove concorrono persone a porre voti, e, come si dice, miracoli, per avere alcuna grazia ricevuto.
Perciò che, dove prima si facevano o piccoli d'argento o in tavolucce solamente, o vero di cera e goffi affatto, si cominciò al tempo d'Andrea a fargli in molto miglior maniera, perché avendo egli stretta dimestichezza con Orsino ceraiuolo, il quale in Fiorenza aveva in quell'arte assai buon giudizio, gli incominciò a mostrare come potesse in quella farsi eccellente.
Onde venuta l'occasione per la morte di Giuliano de' Medici e per lo pericolo di Lorenzo suo fratello, stato ferito in S.
Maria del Fiore, fu ordinato dagl'amici e parenti di Lorenzo, che si facesse, rendendo della sua salvezza grazie a Dio, in molti luoghi l'imagine di lui.
Onde Orsino, fra l'altre, con l'aiuto et ordine d'Andrea, ne condusse tre di cera grande quanto il vivo, facendo dentro l'ossatura di legname, come altrove si è detto, et intessuta di canne spaccate, ricoperte poi di panno incerato con bellissime pieghe e tanto acconciamente, che non si può veder meglio, né cosa più simile al naturale.
Le teste, poi, mani e piedi, fece di cera più grossa, ma vote dentro, e ritratte dal vivo e dipinte a olio con quelli ornamenti di capelli et altre cose secondo che bisognava, naturali e tanto ben fatti, che rappresentavano non più uomini di cera, ma vivissimi, come si può vedere in ciascuna delle dette tre; una delle quali è nella chiesa delle monache di Chiarito in via di S.
Gallo, dinanzi al Crucifisso che fa miracoli.
E questa figura è con quell'abito a punto che aveva Lorenzo, quando ferito nella gola e fasciato, si fece alle finestre di casa sua, per esser veduto dal popolo, che là era corso per vedere se fusse vivo, come disiderava, o se pur morto, per farne vendetta.
La seconda figura del medesimo è in lucco, abito civile e proprio de' fiorentini; e questa, è nella chiesa de' Servi alla Nunziata, sopra la porta minore, la quale è accanto al desco dove si vende le candele.
La terza fu mandata a S.
Maria degl'Angeli d'Ascesi, e posta dinanzi a quella Madonna.
Nel qual luogo medesimo, come già si è detto, esso Lorenzo de' Medici fece mattonare tutta la strada che camina da S.
Maria alla porta d'Ascesi, che va a S.
Francesco, e parimente restaurare le fonti che Cosimo suo avolo aveva fatto fare in quel luogo.
Ma tornando alle imagini di cera, sono di mano d'Orsino nella detta chiesa de' Servi, tutte quelle che nel fondo hanno per segno un O grande, con un R dentrovi et una croce sopra.
E tutte sono in modo belle, che pochi sono stati poi, che l'abbiano paragonato.
Questa arte, ancora che si sia mantenuta viva insino a' tempi nostri, è nondimeno più tosto in declinazione che altrimenti, o perché sia mancata la divozione o per altra cagione che si sia.
Ma per tornare al Verrocchio, egli lavorò, oltre alle cose dette, Crucifissi di legno et alcune cose di terra, nel che era eccellente, come si vide ne' modelli delle storie che fece per l'altare di S.
Giovanni, et in alcuni putti bellissimi et in una testa di S.
Girolamo, che è tenuta maravigliosa.
È anco di mano del medesimo, il putto dell'oriuolo di Mercato Nuovo, che ha le braccia schiodate in modo che alzandole, suona l'ore con un martello che tiene in mano.
Il che fu tenuto in que' tempi cosa molto bella e capricciosa.
E questo il fine sia della vita d'Andrea Verrocchio, scultore eccellentissimo.
Fu ne' tempi d'Andrea, Benedetto Buglioni, il quale da una donna che uscì di casa Andrea della Robbia ebbe il segreto degl'invetriati di terra, onde fece di quella maniera molte opere in Fiorenza e fuori, e particolarmente nella chiesa de' Servi, vicino alla cappela di S.
Barbara, un Cristo che resuscita con certi Angeli, che per cosa di terra cotta invetriata è assai bell'opera; in S.
Brancazio fece in una cappella un Cristo morto; e sopra la porta principale della chiesa di S.
Pier Maggiore, il mezzo tondo che vi si vede.
Dopo Benedetto rimase il segreto a Santi Buglioni, che solo sa oggi lavorare di questa sorte sculture.
VITA DI ANDREA MANTEGNA PITTORE MANTOVANO
Quanto possa il premio nella virtù, colui che opera virtuosamente et è in qualche parte premiato lo sa, perciò che non sente né disagio né incommodo né fatica, quando n'aspetta onore e premio; e, che è più, ne diviene ogni giorno più chiara e più illustre essa virtù; bene è vero che non sempre si truova chi la conosca e la pregi e la rimuneri, come fu quella riconosciuta d'Andrea Mantegna, il quale nacque d'umilissima stirpe nel contado di Mantoa; et ancora che da fanciullo pascesse gl'armenti, fu tanto inalzato dalla sorte e dalla virtù, che meritò d'esser cavalier onorato, come al suo luogo si dirà.
Questi, essendo già grandicello fu condotto nella città, dove attese alla pittura sotto Iacopo Squarcione pittore padoano, il quale, secondo che scrive in una sua epistola latina Messer Girolamo Campagnuola a Messer Leonico Timeo, filosofo greco, nella quale gli dà notizia d'alcuni pittori vecchi che servirono quei da Carrara, signori di Padova, il quale Iacopo se lo tirò in casa e poco appresso, conosciutolo di bello ingegno, se lo fece figliuolo adottivo.
E perché si conosceva lo Squarcione non esser il più valente dipintore del mondo, acciò che Andrea imparasse più oltre che non sapeva egli, lo esercitò assai in cose di gesso formate da statue antiche, et in quadri di pitture, che in tela si fece venire di diversi luoghi, e particolarmente di Toscana e di Roma.
Onde con questi sì fatti et altri modi, imparò assai Andrea nella sua giovinezza.
La concorrenza ancora di Marco Zoppo bolognese e di Dario da Trevisi e di Niccolò Pizzolo padoano, discepoli del suo adottivo padre e maestro, gli fu di non picciolo aiuto e stimolo all'imparare.
Poi dunque che ebbe fatta Andrea, allora che non aveva più che 17 anni, la tavola dell'altar maggiore di S.
Sofia di Padoa, la quale pare fatta da un vecchio ben pratico e non da un giovanetto, fu allogata allo Squarcione la capella di S.
Cristofano, che è nella chiesa de' frati Eremitani di S.
Agostino in Padoa, la quale egli diede a fare al detto Niccolò Pizzolo et Andrea.
Niccolò vi fece un Dio Padre che siede in maestà in mezzo ai dottori della chiesa, che furono poi tenute non manco buone pitture, che quelle che vi fece Andrea; e nel vero, se Niccolò che fece poche cose ma tutte buone si fusse dilettato della pittura quanto fece dell'arme, sarebbe stato eccellente e forse molto più vivuto che non fece; conciò fusse che, stando sempre in sull'armi et avendo molti nimici, fu un giorno che tornava da lavorare, affrontato e morto a tradimento; non lasciò altre opere che io sappia, Niccolò, se non un altro Dio Padre nella capella di Urbano Perfetto.
Andrea, dunque, rimaso solo, fece nella detta cappella i quattro Vangelisti che furono tenuti molto belli.
Per questa et altre opere, cominciando Andrea a essere in grande aspettazione et a sperarsi che dovesse riuscire quello che riuscì, tenne modo Iacopo Bellino pittore viniziano, padre di Gentile e di Giovanni e concorrente dello Squarcione, che esso Andrea tolse per moglie una sua figliuola e sorella di Gentile.
La qual cosa sentendo, lo Squarcione si sdegnò di maniera con Andrea che furono poi sempre nimici; e quanto lo Squarcione per l'adietro aveva sempre lodate le cose d'Andrea, altretanto da indi in poi le biasimò sempre publicamente.
E sopra tutto biasimò senza rispetto le pitture che Andrea aveva fatte nella detta cappella di S.
Cristofano, dicendo che non erano cosa buona perché aveva nel farle imitato le cose di marmo antiche, dalle quali non si può imparare la pittura perfettamente, perciò che i sassi hanno sempre la durezza con esso loro e non mai quella tenera dolcezza che hanno le carni e le cose naturali, che si piegano e fanno diversi movimenti, aggiugnendo che Andrea arebbe fatto molto meglio quelle figure e sarebbono state più perfette se avesse fattole di color di marmo e non di que' tanti colori, perciò che non avevano quelle pitture somiglianza di vivi ma di statue antiche di marmo o d'altre cose simili.
Queste cotali reprensioni punsero l'animo d'Andrea, ma dall'altro canto gli furono di molto giovamento, perché conoscendo che egli diceva in gran parte il vero, si diede a ritrarre persone vive e vi fece tanto acquisto, che in una storia che in detta cappella gli restava a fare, mostrò che sapeva non meno cavare il buono delle cose vive e naturali, che di quelle fatte dall'arte.
Ma con tutto ciò ebbe sempre opinione Andrea che le buone statue antiche fussino più perfette et avessino più belle parti, che non mostra il naturale.
Atteso che quelli eccellenti maestri, secondo che e' giudicava e gli pareva vedere in quelle statue, aveano da molte persone vive cavato tutta la perfezione della natura, la quale di rado in un corpo solo accozza et accompagna insieme tutta la bellezza, onde è necessario pigliarne da uno una parte, e da un altro un'altra; et oltre a questo gli parevano le statue più terminate e più tocche in su' muscoli, vene, nervi et altre particelle, le quali il naturale, coprendo con la tenerezza e morbidezza della carne certe crudezze, mostra talvolta meno, se già non fusse un qualche corpo d'un vecchio o di molto estenuato; i quali corpi però, sono per altri rispetti dagl'artefici fuggiti.
E si conosce di questa openione essersi molto compiaciuto nell'opere sue, nelle quali si vede in vero la maniera un pochetto tagliente e che tira talvolta più alla pietra che alla carne viva.
Comunque sia, in questa ultima storia, la quale piacque infinitamente, ritrasse Andrea lo Squarcione in una figuraccia corpacciuta con una lancia e con una spada in mano.
Vi ritrasse similmente Noferi di Messer Palla Strozzi fiorentino, Messer Girolamo dalla Valle, medico eccellentissimo, Messer Bonifazio Fuzimeliga, dottor di leggi, Niccolò orefice di papa Innocenzio VIII e Baldassarre da Leccio, suoi amicissimi; i quali tutti fece vestiti d'arme bianche brunite e splendide come le vere sono, e certo con bella maniera.
Vi ritrasse anco Messer Bonramino cavaliere, et un certo vescovo d'Ungheria, uomo sciocco affatto, il quale andava tutto giorno per Roma vagabondo, e poi la notte si riduceva a dormire, come le bestie, per le stalle.
Vi ritrasse anco Marsilio Pazzo, nella persona del carnefice che taglia la testa a S.
Iacopo, e similmente se stesso.
Insomma questa opera gl'acquistò, per la bontà sua, nome grandissimo.
Dipinse anco, mentre faceva questa cappella, una tavola che fu posta in S.
Iustina all'altar di S.
Luca.
E dopo lavorò a fresco l'arco che è sopra la porta di S.
Antonino dove scrisse il nome suo.
Fece in Verona una tavola per l'altare di S.
Cristofano e di S.
Antonio, et al canto della piazza della Paglia fece alcune figure.
In S.
Maria in Organo, ai frati di Monte Oliveto, fece la tavola dell'altar maggiore, che è bellissima, e similmente quella di S.
Zeno.
E fra l'altre cose, stando in Verona, lavorò e mandò in diversi luoghi e n'ebbe uno abbate della Badia di Fiesole, suo amico e parente, un quadro nel quale è una Nostra Donna dal mezzo in su, col Figliuolo in collo et alcune teste d'Angeli che cantano, fatti con grazia mirabile.
Il qual quadro è oggi nella libreria di quel luogo e fu tenuta allora e sempre poi come cosa rara.
E perché aveva, mentre dimorò in Mantoa, fatto gran servitù con Lodovico Gonzaga marchese, - quel signore che sempre stimò assai e favorì la virtù d'Andrea, - gli fece dipignere nel castello di Mantoa, per la cappella, una tavoletta nella quale sono storie di figure non molto grandi, ma bellissime.
Nel medesimo luogo sono molte figure che scortano al di sotto in sù, grandemente lodate, perché se bene ebbe il modo del panneggiare crudetto e sottile, e la maniera alquanto secca, vi si vede nondimeno ogni cosa fatta con molto artifizio e diligenzia.
Al medesimo marchese dipinse nel palazzo di S.
Sebastiano in Mantoa in una sala il trionfo di Cesare, che è la miglior cosa che lavorasse mai; in questa opera si vede con ordine bellissimo situato nel trionfo, la bellezza e l'ornamento del carro; colui che vitupera il trionfante, i parenti, i profumi, gl'incensi, i sacrifizii, i sacerdoti, i tori pel sacrificio coronati e prigioni, le prede fatte da' soldati, l'ordinanza delle squadre, i liofanti, le spoglie, le vittorie e le città e le rocche, in varii carri contrafatte con una infinità di trofei in sull'aste e varie armi per testa e per indosso, acconciature, ornamenti e vasi infiniti; e tra la moltitudine degli spettatori una donna, che ha per la mano un putto, al qual essendosi fitto una spina in un piè, lo mostra egli piangendo alla madre, con modo grazioso e molto naturale.
Costui, come potrei aver accennato altrove, ebbe in questa istoria una bella e buona avertenza, che avendo situato il piano dove posavano le figure, più alto che la veduta dell'occhio, fermò i piedi dinanzi in sul primo profilo e linea del piano, facendo fuggire gl'altri più adentro di mano in mano, e perder della veduta de' piedi e gambe, quanto richiedeva la ragione della veduta; e così delle spoglie, vasi et altri istrumenti et ornamenti fece veder sola la parte di sotto e perder quella di sopra, come di ragione di prospettiva si conveniva di fare, e questo medesimo osservò con gran diligenza ancora Andrea degl'Impiccati nel cenacolo che è nel refettorio di S.
Maria Nuova.
Onde si vede che in quella età questi valenti uomini andarono sottilmente investigando e con grande studio imitando la vera proprietà delle cose naturali; e per dirlo in una parola, non potrebbe tutta questa opera esser né più bella, né lavorata meglio.
Onde se il marchese amava prima Andrea l'amò poi sempre et onorò molto maggiormente; e, che è più, egli ne venne in tal fama, che papa Innocenzo VIII, udita l'eccellenza di costui nella pittura e l'altre buone qualità di che era maravigliosamente dotato, mandò per lui, acciò che egli, essendo finita di fabricare la muraglia di Belvedere, sì come faceva fare a molti altri, l'adornasse delle sue pitture.
Andato dunque a Roma con molto esser favorito e raccomandato dal marchese che per maggiormente onorarlo lo fece cavaliere, fu ricevuto amorevolmente da quel pontefice e datagli subito a fare una picciola cappella che è in detto luogo.
La quale con diligenza e con amore lavorò così minutamente, che e la volta e le mura paiono più tosto cosa miniata che dipintura; e le maggiori figure che vi sieno sono sopra l'altare, le quali egli fece in fresco come l'altre, e sono S.
Giovanni che battezza Cristo, et intorno sono popoli che spogliandosi fanno segno di volersi battezzare.
E fra gl'altri vi è uno, che volendosi cavare una calza appiccata per il sudore alla gamba, se la cava a rovescio attraversandola all'altro stinco, con tanta forza e disagio, che l'una e l'altra gli appare manifestamente nel viso; la qual cosa capricciosa recò a chi la vide in quei tempi, maraviglia.
Dicesi che il detto Papa, per le molte occupazioni che aveva, non dava così spesso danari al Mantegna come egli arebbe avuto bisogno, e che perciò nel dipignere in quel lavoro alcune virtù di terretta, fra l'altre vi fece la discrezione; onde andato un giorno il papa a vedere l'opra, dimandò Andrea che figura fusse quella, a che rispose Andrea: "Ell'è la discrezione".
Soggiunse il pontefice: "Se tu vuoi che ella sia bene accompagnata, falle a canto la pacienza".
Intese il dipintore quello che perciò voleva dire il Santo Padre, e mai più fece motto.
Finita l'opera, il Papa con onorevoli premii e molto favore lo rimandò al duca.
Mentre che Andrea stette a lavorare in Roma, oltre la detta capella, dipinse in un quadretto piccolo una Nostra Donna col Figliuolo in collo che dorme, e nel campo, che è una montagna, fece dentro a certe grotte alcuni scarpellini che cavano pietre per diversi lavori, tanto sottilmente e con tanta pacienza, che non par possibile che con una sottil punta di pennello si possa far tanto bene; il qual quadro è oggi appresso lo illustrissimo signor don Francesco Medici, principe di Fiorenza, il quale lo tiene fra le sue cose carissime.
Nel nostro libro è in un mezzo foglio reale un disegno di mano d'Andrea, finito di chiaro scuro, nel quale è una Iudith che mette nella tasca d'una sua schiava mora la testa d'Oloferne, fatto d'un chiaro scuro non più usato, avendo egli lasciato il foglio bianco che serve per il lume della biacca tanto nettamente, che vi si veggiono i capegli sfilati e l'altre sottigliezze, non meno che se fussero stati con molta diligenza fatti dal pennello.
Onde si può in un certo modo chiamar questo più tosto opera colorita che carta disegnata.
Si dilettò il medesimo, sì come fece il Pollaiuolo, di far stampe di rame, e fra l'altre cose fece i suoi trionfi, e ne fu allora tenuto conto perché non si era veduto meglio.
E fra l'ultime cose che fece fu una tavola di pittura a S.
Maria della Vittoria, chiesa fabbricata con ordine e disegno d'Andrea dal Marchese Francesco, per la vittoria avuta in sul fiume del Taro, essendo egli generale del campo de' Vineziani contra a' Francesi: nella quale tavola che fu lavorata a tempera e posta all'altar maggiore, è dipinta la Nostra Donna col putto a sedere sopra un piedestallo; e da basso sono S.
Michelagnolo, S.
Anna e [San] Gioachino, che presentano esso Marchese, ritratto di naturale tanto bene che par vivo, alla Madonna che gli porge la mano.
La quale come piacque e piace a chiunche la vide, così sodisfece di maniera al Marchese, che egli liberalissimamente premiò la virtù e fatica d'Andrea, il quale poté, mediante l'essere stato riconosciuto dai principi di tutte le sue opere, tenere infinito all'ultimo onoratamente il grado di cavaliere.
Furono concorrenti d'Andrea Lorenzo da Lendinara, il quale fu tenuto in Padova pittore eccellente e lavorò anco di terra alcune cose nella chiesa di S.
Antonio, et alcuni altri di non molto valore.
Amò egli sempre Dario da Trevisi e Marco Zoppo bolognese, per essersi allevato con esso loro sotto la disciplina dello Squarcione.
Il qual Marco fece in Padova ne' frati minori una loggia che serve loro per capitolo; et in Pesero una tavola che è oggi nella chiesa nuova di S.
Giovanni Evangelista; e ritrasse in uno quadro Guido Baldo da Monte Feltro, quando era capitano de' Fiorentini.
Fu similmente amico del Mantegna Stefano pittor ferrarese, che fece poche cose, ma ragionevoli; e di sua mano si vede in Padoa l'ornamento dell'arca di S.
Antonio, e la Vergine Maria che si chiama del pilastro.
Ma per tornare a esso Andrea, egli murò in Mantoa e dipinse per uso suo una bellissima casa, la quale si godette mentre visse.
E finalmente d'anni 66, si morì nel 1517.
E con esequie onorate fu sepolto in S.
Andrea, et alla sua sepoltura, sopra la quale egli è ritratto di bronzo, fu posto questo epitaffio:
Esse parem hunc noris, si non praeponis Apelli,
Aenea Mantineae, qui simulacra vides.
Fu Andrea di sì gentili e lodevoli costumi in tutte le sue azioni, che sarà sempre di lui memoria, non solo nella sua patria, ma in tutto il mondo, onde meritò esser dall'Ariosto celebrato non meno per i suoi gentilissimi costumi che per l'eccellenza della pittura, dove nel principio del XXXIII canto, annoverandolo fra i più illustri pittori de' tempi suoi, dice:
Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino.
Mostrò costui con miglior modo, come nella pittura si potesse fare gli scorti delle figure al di sotto in sù, il che fu certo invenzione difficile e capricciosa; e si dilettò ancora, come si è detto, d'intagliare in rame le stampe delle figure, che è commodità veramente singularissima, e mediante la quale ha potuto vedere il mondo non solamente la baccaneria, la battaglia de' mostri marini, il Deposto di croce, il sepelimento di Cristo, la Ressuressione con Longino e con S.
Andrea, opere di esso Mantegna, ma le maniere ancora di tutti gl'artefici che sono stati.
VITA DI FILIPPO LIPPI PITTOR FIORENTINO
Fu in questi medesimi tempi in Firenze, pittore di bellissimo ingegno e di vaghissima invenzione, Filippo figliuolo di fra' Filippo del Carmine, il quale seguitando nella pittura le vestigie del padre morto, fu tenuto et ammaestrato essendo ancor giovanetto da Sandro Botticello, nonostante che il padre venendo a morte lo raccomandasse a fra' Diamante, suo amicissimo e quasi fratello.
Fu dunque di tanto ingegno Filippo e di sì copiosa invenzione nella pittura e tanto bizzarro e nuovo ne' suoi ornamenti, che fu il primo il quale ai moderni mostrasse il nuovo modo di variare gl'abiti, che abbellisse ornatamente con veste antiche soccinte le sue figure.
Fu primo ancora a dar luce alle grottesche che somiglino l'antiche, e le mise in opera di terretta e colorite in fregi con più disegno e grazia che gli innanzi a lui fatto non avevano.
Onde fu maravigliosa cosa a vedere gli strani capricci che egli espresse nella pittura; e, che è più, non lavorò mai opera alcuna nella quale delle cose antiche di Roma con gran studio non si servisse, in vasi, calzari, trofei, bandiere, cimieri, ornamenti di tempii, abbigliamenti di portature da capo, strane fogge da dosso, armature, scimitarre, spade, toghe, manti et altre tante cose diverse e belle, che grandissimo e sempiterno obligo se gli debbe, per avere egli in questa parte accresciuta bellezza et ornamenti all'arte.
Costui nella sua prima gioventù diede fine alla cappella de' Brancacci, nel Carmine in Fiorenza, cominciata da Masolino e non del tutto finita da Masaccio per essersi morto.
Filippo dunque le diede di sua mano l'ultima perfezzione e vi fece il resto d'una storia che mancava, dove S.
Piero e Paulo risuscitano il nipote dell'imperatore.
Nella figura del qual fanciullo ignudo ritrasse Francesco Granacci, pittore allora giovanetto, e similmente Messer Tommaso Soderini cavaliere, Piero Guicciardini, padre di Messer Francesco che ha scritto le storie, Piero del Pugliese e Luigi Pulci poeta; parimente Antonio Pollaiuolo e se stesso così giovane come era, il che non fece altrimenti nel resto della sua vita, onde non si è potuto avere il ritratto di lui d'età migliore.
E nella storia che segue ritrasse Sandro Botticello suo maestro e molti altri amici e grand'uomini, et infra gli altri il Raggio sensale, persona d'ingegno e spiritosa molto, quello che in una conca condusse di rilievo tutto l'Inferno di Dante, con tutti i cerchi e partimenti delle bolgie e del pozzo, misurati a punto tutte le figure e minuzie che da quel gran poeta furono ingegnosissimamente immaginate e discritte, che fu tenuta in questi tempi cosa maravigliosa.
Dipinse poi a tempera nella cappella di Francesco del Pugliese alle Campora, luogo de' monaci di Badia fuor di Firenze, in una tavola un S.
Bernardo, al quale apparisce la Nostra Donna con alcuni Angeli, mentre egli in un bosco scrive; la quale pittura in alcune cose è tenuta mirabile, come in sassi, libri, erbe e simili cose che dentro vi fece; oltre che vi ritrasse esso Francesco di naturale tanto bene, che non pare che gli manchi se non la parola.
Questa tavola fu levata di quel luogo per l'assedio, e posta per conservarla nella sagrestia della Badia di Fiorenza.
In S.
Spirito della medesima città lavorò in una tavola la Nostra Donna, S.
Martino, S.
Niccolò, e S.
Caterina per Tanai de' Nerli, et in S.
Brancazio alla cappella de' Rucellai una tavola et in S.
Raffaello un crucifisso e due figure in campo d'oro; in S.
Francesco fuor della porta a S.
Miniato, dinanzi alla sagrestia, fece un Dio Padre con molti fanciulli, et al Palco, luogo de' frati del Zoccolo fuori di Prato, lavorò una tavola.
E nella terra fece nell'udienza de' Priori, in una tavoletta molto lodata, la Nostra Donna, S.
Stefano e S.
Giovanni Battista.
In sul canto al Mercatale pur di Prato, dirimpetto alle monache di S.
Margherita, vicino a certe sue case, fece in un tabernacolo a fresco, una bellissima Nostra Donna con un coro di serafini in campo di splendore.
Et in questa opera, fra l'altre cose dimostrò arte e bella avvertenza in un serpente che è sotto a S.
Margherita, tanto strano et orribile, che fa conoscere dove abbia il veleno, il fuoco e la morte.
Et il resto di tutta l'opera è colorito con tanta freschezza e vivacità, che merita perciò essere lodato infinitamente.
In Lucca lavorò parimente alcune cose e particolarmente nella chiesa di S.
Ponziano de' frati di Monte Oliveto una tavola in una cappella, nel mezzo della quale in una nicchia è un S.
Antonio bellissimo di rilievo, di mano d'Andrea Sansovino scultore eccellentissimo.
Essendo Filippo ricerco d'andare in Ungheria al re Mattia, non volle andarvi; ma in quel cambio lavorò in Firenze per quel re due tavole molto belle che gli furono mandate, in una delle quali ritrasse quel re, secondo che gli mostrarono le medaglie.
Mandò anco lavori a Genoa, e fece a Bologna in S.
Domenico, allato alla cappella dell'altar maggiore a man sinistra, in una tavola un S.
Bastiano che fu cosa degna di molta lode.
A Tanai de' Nerli fece un'altra tavola di S.
Salvadore fuor di Fiorenza.
Et a Piero del Pugliese amico suo lavorò una storia di figure piccole, condotte con tanta arte e diligenza, che volendone un altro cittadino una simile, gliela dinegò dicendo esser impossibile farla.
Dopo queste opere fece, pregato da Lorenzo Vecchio de' Medici, per Olivieri Caraffa cardinale napolitano amico suo, una grandissima opera in Roma, là dove andando per ciò fare, passò, come volle esso Lorenzo, da Spoleto per dar ordine di far fare a fra' Filippo suo padre una sepoltura di marmo a spese di Lorenzo, poiché non aveva potuto dagli Spoletini ottenere il corpo di quello, per condurlo a Firenze; e così disegnò Filippo la detta sepoltura con bel garbo, e Lorenzo in su quel disegno la fece fare, come in altro luogo s'è detto, sontuosa e bella.
Condottosi poi Filippo a Roma fece al detto cardinale Caraffa, nella chiesa della Minerva, una cappella nella quale dipinse storie della vita di S.
Tommaso d'Aquino et alcune poesie molto belle, che tutte furono da lui, il quale ebbe in questo sempre propizia la natura, ingegnosamente trovate.
Vi si vede, dunque, dove la Fede ha fatto prigiona l'Infedeltà, tutti gl'eretici et infedeli.
Similmente, come sotto la Speranza è la Disperazione, così vi sono molte altre virtù che quel vizio che è loro contrario hanno soggiogato.
In una disputa è S.
Tommaso in catedra, che difende la Chiesa da una scuola d'eretici et ha sotto come vinti Sabellio, Arrio, Averroè et altri, tutti con graziosi abiti indosso.
Della quale storia ne abbiamo di propria mano di Filippo nel nostro libro de' disegni il proprio, con alcuni altri del medesimo, fatti con tanta pratica che non si può migliorare.
Evvi anco quando orando S.
Tommaso gli dice il Crucifisso: "Bene scripsisti de me Thoma" et un compagno di lui che udendo quel Crucifisso così parlare sta stupeffatto e quasi fuor di sé.
Nella tavola è la Vergine annunziata da Gabriello, e nella faccia l'assunzione di quella in cielo et i dodici Apostoli intorno al sepolcro.
La quale opera tutta fu et è tenuta molto eccellente, e per lavoro in fresco, fatta perfettamente.
Vi è ritratto di naturale il detto Olivieri Caraffa cardinale e vescovo d'Ostia, il quale fu in questa cappella sotterrato l'anno 1511, e dopo condotto a Napoli nel Piscopio.
Ritornato Filippo in Fiorenza, prese a fare con suo commodo e la cominciò, la cappella di Filippo Strozzi Vecchio in S.
Maria Novella; ma fatto il cielo, gli bisognò tornare a Roma, dove fece per il detto cardinale una sepoltura di stucchi e di gesso, in uno spartimento della detta chiesa, una cappellina allato a quella, et altre figure, delle quali Raffaellino del Garbo suo discepolo ne lavorò alcune.
Fu stimata la sopra detta cappella, da maestro Lanzilago padoano e da Antonio detto Antoniasso romano pittori amendue dei migliori che fussero allora in Roma, duemila ducati d'oro, senza le spese degl'azzurri e de' garzoni.
La quale somma riscossa che ebbe, Filippo se ne tornò a Fiorenza dove finì la detta cappella degli Strozzi, la quale fu tanto bene condotta e con tanta arte e disegno ch'ella fa maravigliare chiunche la vede, per la novità e varietà delle bizzarrie che vi sono: uomini armati, tempii, vasi, cimieri, armadure, trofei, aste, bandiere, abiti, calzari, acconciature di capo, veste sacerdotali et altre cose con tanto bel modo condotte, che merita grandissima comendazione.
Et in questa opera dove è la ressurezione di Drusiana per S.
Giovanni Evangelista, si vede mirabilmente espressa la maraviglia che si fanno i circostanti nel vedere un uomo rendere la vita a una defunta con un semplice segno di croce, e più che tutti gl'altri si maraviglia un sacerdote, o vero filosofo che sia, che ha un vaso in mano, vestito all'antica.
Parimente in questa medesima storia fra molte donne diversamente abbigliate si vede un putto che impaurito d'un cagnolino spagnuolo pezzato di rosso, che l'ha preso coi denti per una fascia, ricorre intorno alla madre, et occultandosi fra i panni di quella, pare che non meno tema d'esser morso dal cane, che sia la madre spaventata e piena d'un certo orrore per la resurezione di Drusiana.
Appresso ciò, dove esso S.
Giovanni bolle nell'olio, si vede la collera del giudice, che comanda che il fuoco si faccia maggiore; et il riverberare delle fiamme nel viso di chi soffia, e tutte le figure sono fatte con belle e diverse attitudini.
Nell'altra faccia è S.
Filippo nel tempio di Marte, che fa uscire di sotto l'altare il serpente che occide col puzzo il figliuolo del re.
E dove in certe scale finge il pittore la buca per la quale uscì di sotto l'altare il serpente, vi dipinse la rottura d'uno scaglione tanto bene, che volendo una sera uno de' garzoni di Filippo riporre non so che cosa, acciò non fusse veduta da uno che picchiava per entrare, corse alla buca così in fretta per appiattarvela dentro e ne rimase ingannato.
Dimostrò anco tanta arte Filippo nel serpente, che il veleno, il fetore et il fuoco pare più tosto naturale che dipinto.
Et anco molto lodano la invenzione della storia, nell'essere quel Santo crucifisso, perché egli s'imaginò, per quanto si conosce, che egli in terra fusse disteso in sulla croce, e poi così tutto insieme alzato e tirato in alto per via di canapi e funi e di puntegli; le quali funi e canapi sono avvolte a certe anticaglie rotte e pezzi di pilastri et imbasamenti e tirate da alcuni ministri.
Dall'altro lato regge il peso della detta croce e del Santo che vi è sopra nudo, da una banda uno con una scala, con la quale l'ha inforcata, e dall'altra un altro con un puntello, sostenendola insino a che due altri, fatto lieva a piè del ceppo e pedale d'essa croce, va bilicando il peso, per metterla nella buca fatta in terra, dove aveva da stare ritta.
Che più? Non è possibile, né per invenzione, né per disegno, né per quale si voglia altra industria o artifizio, far meglio.
Sonovi, oltre ciò, molte grottesche et altre cose lavorate di chiaroscuro simili al marmo e fatte stranamente con invenzione e disegno bellissimo.
Fece anco ai frati Scopetini a S.
Donato fuor di Fiorenza, detto Scopeto, al presente rovinato, in una tavola i Magi che offeriscono a Cristo finita con molta diligenza, e vi ritrasse in figura d'uno astrologo che ha in mano un quadrante, Pier Francesco Vecchio de' Medici, figliuolo di Lorenzo di Bicci, e similmente Giovanni padre del signor Giovanni de' Medici et un altro Pier Francesco di esso signor Giovanni fratello, et altri segnalati personaggi.
Sono in quest'opera mori, indiani, abiti stranamente acconci et una capanna bizzarrissima.
Al Poggio a Caiano cominciò per Lorenzo de' Medici un sacrifizio a fresco in una loggia, che rimase imperfetto.
E per le monache di S.
Ieronimo sopra la costa a S.
Giorgio in Firenze, cominciò la tavola dell'altar maggiore, che dopo la morte sua fu da Alonso Berughetta spagnuolo tirata assai bene inanzi, ma poi finita del tutto, essendo egli andato in Ispagna, da altri pittori.
Fece nel palazzo della Signoria la tavola della sala dove stavano gl'Otto di pratica; et il disegno d'un'altra tavola grande con l'ornamento per la sala del consiglio, il qual disegno, morendosi, non cominciò altramente a mettere in opera, se bene fu intagliato l'ornamento il quale è oggi appresso maestro Baccio Baldini fiorentino, fisico eccellentissimo et amatore di tutte le virtù.
Fece per la chiesa della Badia di Firenze un S.
Girolamo bellissimo.
Cominciò ai frati della Nunziata, per l'altar maggiore, un Deposto di croce; e finì le figure dal mezzo in sù solamente, perché sopragiunto da febre crudelissima e da quella strettezza di gola, che volgarmente si chiama sprimanzia, in pochi giorni si morì, di quarantacinque anni.
Onde essendo sempre stato cortese, affabile e gentile, fu pianto da tutti coloro che l'avevano conosciuto, e particolarmente dalla gioventù di questa sua nobile città, che nelle feste pubbliche mascherate et altri spettacoli si servì sempre con molta sodisfazione dell'ingegno et invenzione di Filippo, che in così fatte cose non ha avuto pari.
Anzi fu tale in tutte le sue azzioni, che ricoperse la macchia (qualunche ella si sia) lasciatagli dal padre.
La ricoprì dico, non pure con l'eccellenza della sua arte nella quale non fu ne' suoi tempi inferiore a nessuno, ma con vivere modesto e civile, e sopra tutto con l'esser cortese et amorevole; la qual virtù quanto abbia forza e potere in conciliarsi gl'animi universalmente di tutte le persone, coloro il sanno solamente, che l'hanno provato e provano.
Ebbe Filippo dai figliuoli suoi sepoltura in S.
Michele Bisdomini a' dì 13 aprile MDV.
E mentre si portava a sepellire si serrarono tutte le botteghe nella via de' Servi, come nell'essequie de' principi uomini si suol fare alcuna volta.
Furono discepoli di Filippo, ma non lo pareggiarono, a gran pezzo, Raffaellino del Garbo che fece, come si dirà al luogo suo, molte cose, se bene non confermò l'openione e speranza che di lui si ebbe vivendo Filippo et essendo esso Raffaellino ancor giovanetto.
E però non sempre sono i frutti simili ai fiori che si veggiono nella primavera.
Non riuscì anco molto valente Niccolò Zoccolo, o come altri lo chiamarono, Niccolò Cartoni il quale fu similmente discepolo di Filippo e fece in Arezzo la facciata che è sopra l'altare di S.
Giovanni Decollato, et in S.
Agnesa una tavolina assai ben lavorata; e nella Badia di S.
Fiora, sopra un lavamani, in una tavola un Cristo che chiede bere alla Samaritana, e molte altre opere che per essere state ordinarie non si raccontano.
VITA DI BERNARDINO PINTURICCHIO PITTORE PERUGINO
Sì come sono molti aiutati dalla fortuna senza essere di molta virtù dotati, così per lo contrario sono infiniti quei virtuosi che da contraria e nimica fortuna sono perseguitati; onde si conosce apertamente che ell'ha per figliuoli coloro che senza l'aiuto d'alcuna virtù dependono da lei; poiché le piace che dal suo favore sieno alcuni inalzati, che per via di meriti non sarebbono mai conosciuti; il che si vide nel Pinturicchio da Perugia, il quale ancor che facesse molti lavori e fusse aiutato da diversi, ebbe nondimeno molto maggior nome che le sue opere non meritarono.
Tuttavia egli fu persona che ne' lavori grandi ebbe molta pratica, e che tenne di continovo molti lavoranti nelle sue opere.
Avendo dunque costui nella sua prima giovanezza lavorato molte cose con Pietro da Perugia suo maestro, tirando il terzo di tutto il guadagno che si faceva, fu da Francesco Piccolomini cardinale chiamato a Siena a dipignere la libreria stata fatta da Papa Pio II nel Duomo di quella città.
Ma è ben vero che gli schizzi et i cartoni di tutte le storie che egli vi fece, furono di mano di Raffaello da Urbino allora giovinetto, il quale era stato suo compagno e condiscepolo appresso al detto Pietro; la maniera del quale aveva benissimo appresa il detto Raffaello; e di questi cartoni se ne vede ancor oggi uno in Siena et alcuni schizzi ne sono di man di Raffaello nel nostro libro.
Le storie dunque di questo lavoro, nel quale fu aiutato Pinturicchio da molti garzoni e lavoranti, tutti della scola di Pietro, furono divise in dieci quadri.
Nel primo è dipinto quando detto papa Pio Secondo nacque, di Silvio Piccolomini e di Vittoria, e fu chiamato Enea, l'anno 1405 in Valdorcia, nel castello di Corsignano, che oggi si chiama Pienza dal nome suo, per essere stata poi da lui edificata e fatta città.
Et in questo quadro sono ritratti di naturale il detto Silvio e Vettoria.
Nel medesimo è quando con Domenico cardinale di Capranica passa l'Alpe piena di ghiacci e di neve, per andare al concilio in Basilea.
Nel secondo è quando il Concilio manda esso Enea in molte legazioni, cioè in Argentina tre volte, a Trento, a Gostanza, a Francscordia et in Savoia.
Nella terza è quando il medesimo Enea è mandato oratore, da Felice Antipapa, a Federigo Terzo imperatore, appresso al quale fu di tanto merito la destrezza dell'ingegno, l'eloquenza e la grazia d'Enea, che da esso Federigo fu coronato, come poeta, di lauro, fatto protonotario, ricevuto fra gl'amici suoi e fatto primo Segretario.
Nel quarto è quando fu mandato da esso Federigo ad Eugenio Quarto, dal quale fu fatto vescovo di Trieste, e poi arcivescovo di Siena sua patria.
Nella quinta storia è quando il medesimo imperatore, volendo venire in Italia a pigliare la corona dell'imperio, manda Enea a Telamone, porto de' Sanesi, a rincontrare Leonora sua moglie che veniva di Portogallo.
Nella sesta va Enea, mandato dal detto imperatore a Calisto Quarto, per indurlo a far guerra ai Turchi, et in questa parte si vede che il detto pontefice, essendo travagliata Siena dal conte di Pittigliano e da altri, per colpa del re Alfonso di Napoli, lo manda a trattare la pace.
La quale ottenuta si disegna la guerra contra gl'Orientali; et egli tornato a Roma, è dal detto Pontefice fatto cardinale.
Nella settima, morto Calisto, si vede Enea esser creato sommo pontefice e chiamato Pio Secondo.
Nell'ottava va il Papa a Mantoa al concilio per la spedizione contra i Turchi, dove Lodovico marchese lo riceve con apparato splendidissimo e magnificenza incredibile.
Nella nona il medesimo mette nel catalogo de' Santi, e, come si dice, canonezza Caterina sanese monaca e Santa donna dell'Ordine de' frati predicatori.
Nella decima et ultima, preparando papa Pio un'armata grossissima, con l'aiuto e favore di tutti i principi cristiani, contra i Turchi, si muore in Ancona; et un romito dell'eremo di Camaldoli, santo uomo, vede l'anima d'esso Pontefice in quel punto stesso che muore, come anco si legge, essere d'Angeli portata in cielo.
Dopo si vede, nella medesima storia, il corpo del medesimo essere da Ancona portato a Roma, con orrevole compagnia d'infiniti signori e prelati, che piangono la morte di tanto uomo e di sì raro e santo Pontefice.
La quale opera è tutta piena di ritratti di naturale, che di tutti sarebbe longa storia i nomi raccontare, ed è tutta colorita di fini e vivacissimi colori, e fatta con varii ornamenti d'oro e molto ben considerati spartimenti nel cielo.
E sotto ciascuna storia è uno epitaffio latino che narra quello che in essa si contenga.
In questa libreria fu condotto dal detto Francesco Piccolomini cardinale e suo nipote, e messe in mezzo della stanza, le tre Grazie che vi sono di marmo, antiche e bellissime; le quali furono in que' tempi le prime anticaglie che fussono tenute in pregio.
Non essendo anco a fatica finita questa libreria, nella quale sono tutti i libri che lasciò il detto Pio II, fu creato papa il detto Francesco cardinale, nipote del detto pontefice Pio Secondo, che per memoria del zio volle esser chiamato Pio III.
Il medesimo Pinturicchio dipinse in una grandissima storia, sopra la porta della detta libreria che risponde in Duomo, grande dico quanto tiene tutta la facciata, la coronazione di detto papa Pio Terzo, con molti ritratti di naturale, e sotto vi si leggono queste parole:
Pius III senensis Pii Secundi nepos M.DIII.
septembris XXI.
apertis electus suffragiis; octavo octobris coronatus est.
Avendo il Pinturicchio lavorato in Roma al tempo di Papa Sisto, quando stava con Pietro Perugino, aveva fatto servitù con Domenico della Rovere cardinale di S.
Clemente, onde avendo il detto cardinale fatto in Borgo Vecchio un molto bel palazzo, volle che tutto lo dipignesse esso Pinturicchio e che facesse nella facciata l'arme di papa Sisto, tenuta da due putti.
Fece il medesimo nel palazzo di S.
Apostolo alcune cose per Sciarra Colonna.
E non molto dopo, cioè l'anno 1484, Innocenzio Ottavo genovese gli fece dipignere alcune sale e loggie nel palazzo di Belvedere, dove fra l'altre cose, sì come volle esso Papa, dipinse una loggia tutta di paesi, e vi ritrasse Roma, Milano, Genova, Fiorenza, Vinezia e Napoli alla maniera de' Fiamminghi, che, come cosa insino allora non più usata, piacquero assai.
E nel medesimo luogo dipinse una Nostra Donna a fresco all'entrata della porta principale.
In S.
Piero alla cappella dove è la lancia che passò il costato a Gesù Cristo, dipinse in una tavola a tempera, per il detto Innocenzio Ottavo, la Nostra Donna maggior che il vivo; e nella chiesa di S.
Maria del Popolo dipinse due cappelle, una per il detto Domenico della Rovere cardinale di S.
Clemente, nella quale fu poi sepolto, e l'altra a Innocenzio Cibo cardinale, nella quale anch'egli fu poi sotterrato, et in ciascuna di dette cappelle ritrasse i detti cardinali che le fecero fare.
E nel palazzo del papa dipinse alcune stanze, che rispondono sopra il cortile di S.
Piero, alle quali sono state pochi anni sono, da Papa Pio Quarto, rinnovati i palchi e le pitture.
Nel medesimo palazzo gli fece dipignere Alessandro Sesto tutte le stanze dove abitava, e tutta la Torre Borgia, nella quale fece istorie dell'arti liberali in una stanza, e lavorò tutte le volte di stucchi e d'oro; ma perché non avevano il modo di fare gli stucchi in quella maniera che si fanno oggi, sono i detti ornamenti per la maggior parte guasti.
In detto palazzo ritrasse, sopra la porta d'una camera, la signora Giulia Farnese nel volto d'una Nostra Donna; e nel medesimo quadro la testa di esso papa Alessandro che l'adora.
Usò molto Bernardino di fare alle sue pitture ornamenti di rilievo messi d'oro, per sodisfare alle persone che poco di quell'arte intendevano, acciò avessono maggior lustro e veduta, il che è cosa goffissima nella pittura.
Avendo dunque fatto in dette stanze una storia di S.
Caterina, figurò gl'archi di Roma di rilievo, e le figure dipinte di modo che essendo inanzi le figure e dietro i casamenti, vengono più inanzi le cose che diminuiscono, che quelle che secondo l'occhio crescono: eresia grandissima nella nostra arte.
In Castello Sant'Angelo dipinse infinite stanze a grottesche, ma nel torrione da basso nel giardino, fece istorie di papa Alessandro, e vi ritrasse Isabella regina catolica, Niccolò Orsino conte di Pitigliano, Gianiacomo Triulzi con molti altri parenti et amici di detto Papa, et in particolare Cesare Borgia, il fratello e le sorelle, e molti virtuosi di que' tempi.
A Monte Oliveto di Napoli, alla cappella di Paulo Tolosa, è di mano del Pinturicchio una tavola d'una Assunta.
Fece costui infinite altre opere per tutta Italia, che per non essere molto eccellenti, ma di pratica, le porrò in silenzio.
Usava dire il Pinturicchio che il maggior rilievo che possa dare un pittore alle figure, era l'avere da sé, senza saperne grado a principi o ad altri.
Lavorò anco in Perugia ma poche cose.
In Araceli dipinse la cappella di S.
Bernardino; et in S.
Maria del Popolo, dove abbiam detto che fece le due cappelle, fece nella volta della cappella maggiore i quattro Dottori della Chiesa.
Essendo poi all'età di 59 anni pervenuto, gli fu dato a fare in S.
Francesco di Siena, in una tavola, una Natività di Nostra Donna, alla qual avendo messo mano, gli consegnarono i frati una camera per suo abitare, e gliela diedero, sì come volle, vacua e spedita del tutto, salvo che d'un cassonaccio grande et antico, e perché pareva loro troppo sconcio a tramutarlo.
Ma Pinturicchio, come strano e fantastico uomo che egli era, ne fece tanto rumore e tante volte, che i frati finalmente si misero per disperati a levarlo via.
E fu tanta la loro ventura, che nel cavarlo fuori si ruppe un'asse nella quale erano cinquecento ducati d'oro di camera.
Della qual cosa prese Pinturicchio tanto dispiacere e tanto ebbe a male il bene di que' poveri frati, che più non si potrebbe pensare e se n'accorò di maniera, non mai pensando ad altro, che di quello si morì.
Furono le sue pitture circa l'anno 1513.
Fu suo compagno et amico, se bene era più vecchio di lui, Benedetto Buonfiglio pittore perugino il quale molte cose lavorò in Roma nel palazzo del papa con altri maestri.
Et in Perugia sua patria fece nella cappella della Signoria istorie della vita di S.
Ercolano vescovo e protettore di quella città, e nella medesima alcuni miracoli fatti da S.
Lodovico.
In S.
Domenico dipinse in una tavola a tempera la storia de' Magi, et in un'altra molti Santi.
Nella chiesa di S.
Bernardino dipinse un Cristo in aria con esso S.
Bernardino et un popolo da basso.
Insomma fu costui assai stimato nella sua patria, inanzi che venisse in cognizione Pietro Perugino.
Fu similmente amico di Pinturicchio, e lavorò assai cose con esso lui, Gerino Pistolese, che fu tenuto diligente coloritore et assai imitatore della maniera di Pietro Perugino, con il quale lavorò in sin presso alla morte.
Costui fece in Pistoia sua patria poche cose.
Al borgo S.
Sepolcro fece in una tavola a olio nella Compagnia del buon Gesù una Circoncisione che è ragionevole; nella pieve del medesimo luogo dipinse una cappella in fresco, et in sul Tevere, per la strada che va ad Anghiari, fece un'altra cappella pur a fresco per la comunità.
Et in quel medesimo luogo in S.
Lorenzo, Badia de' monaci di Camaldoli, fece un'altra cappella.
Mediante le quali opere fece così lunga stanza al Borgo, che quasi se l'elesse per patria.
Fu costui persona meschina nelle cose dell'arte, durava grandissima fatica nel lavorare, e penava tanto a condurre un'opera che era uno stento.
Fu ne' medesimi tempi eccellente pittore nella città di Fuligno, Niccolò Alunno, perché non si costumando molto di colorire ad olio inanzi a Pietro Perugino, molti furono tenuti valenti uomini, che poi non riuscirono.
Niccolò dunque sodisfece assai nell'opere sue, per che se bene non lavorò se non a tempera, perché faceva alle sue figure teste ritratte dal naturale e che parevano vive, piacque assai la sua maniera.
In S.
Agostino di Fuligno è di sua mano in una tavola una Natività di Cristo et una predella di figure piccole.
In Ascesi fece un gonfalone, che si porta a processione, nel Duomo la tavola dell'altar maggiore et in S.
Francesco un'altra tavola.
Ma la miglior pittura che mai lavorasse Niccolò fu una cappella nel Duomo, dove fra l'altre cose vi è una Pietà e due Angeli, che tenendo due torcie piangono tanto vivamente, che io giudico che ogni altro pittore, quanto si voglia eccellente, arebbe potuto far poco meglio.
A S.
Maria degl'Angeli in detto luogo dipinse la facciata e molte altre opere, delle quali non accade far menzione, bastando aver tocche le migliori.
E questo sia il fine della vita di Pinturicchio, il quale fra l'altre cose sodisfece assai a molti principi e signori, perché dava presto l'opere finite, sì come disiderano, se bene per avventura manco buone che chi le fa adagio e consideratamente.
VITA DI FRANCESCO FRANCIA BOLOGNESE OREFICE E PITTORE
Francesco Francia, il quale nacque in Bologna l'anno 1450 di persone artigiane ma assai costumate e da bene, fu posto nella sua prima fanciullezza all'orefice; nel quale esercizio adoperandosi con ingegno e spirito, si fece crescendo di persona e d'aspetto tanto ben proporzionato, e nella conversazione e nel parlare tanto dolce e piacevole, che ebbe forza di tenere allegro e senza pensieri col suo ragionamento qualunche fusse più malinconico, per lo che fu non solamente amato da tutti coloro che di lui ebbono cognizione, ma ora da molti principi italiani et altri signori.
Attendendo dunque, mentre stava all'orefice, al disegno, in quello tanto si compiacque che svegliando l'ingegno a maggior cose, fece in quello grandissimo profitto, come per molte cose lavorate d'argento in Bologna sua patria si può vedere, e particolarmente in alcuni lavori di niello eccellentissimi.
Nella qual maniera di fare mise molte volte nello spazio di due dita d'altezza e poco più lungo venti figurine proporzionatissime e belle.
Lavorò di smalto ancora molte cose d'argento, che andarono male nella rovina e cacciata de' Bentivogli.
E per dirlo in una parola lavorò egli qualunche cosa può far quell'arte, meglio che altri facesse già mai.
Ma quello di che egli si dilettò sopra modo et in che fu eccellente, fu il fare conii per medaglie, nel che fu ne' tempi suoi singularissimo, come si può vedere in alcune che ne fece, dove è naturalissima la testa di papa Giulio Secondo che stettono a paragone di quelle di Caradosso.
Oltra che fece le medaglie del signor Giovanni Bentivogli che par vivo, e d'infiniti principi, i quali nel passaggio di Bologna si fermavano, et egli faceva le medaglie ritratte in cera, e poi finite le madri de' conii, le mandava loro; di che, oltra la immortalità della fama, trasse ancora presenti grandissimi.
Tenne continuamente mentre che e' visse la Zecca di Bologna; e fece le stampe di tutti i conii per quella, nel tempo che i Bentivogli reggevano; e poiché se n'andarono, ancora mentre che visse papa Iulio, come ne rendono chiarezza le monete che il papa gittò nella entrata sua, dove era da una banda la sua testa naturale, e da l'altra queste lettere: Bononia per Iulium a tyranno liberata.
E fu talmente tenuto eccellente in questo mestiero, che durò a far le stampe delle monete fino al tempo di Papa Leone; e tanto sono in pregio le impronte de' conii suoi, che chi ne ha le stima tanto per danari non se ne può avere.
Avenne che il Francia, desideroso di maggior gloria, avendo conosciuto Andrea Mantegna e molti altri pittori che avevano cavato da la loro arte e facultà et onori, deliberò provare se la pittura gli riuscisse nel colorito, avendo egli sì fatto disegno che e' poteva comparire largamente con quegli.
Onde, dato ordine a farne pruova, fece alcuni ritratti et altre cose piccole, tenendo in casa molti mesi persone del mestiero, che gl'insegnassino i modi e l'ordine del colorire, di maniera che egli, che aveva giudizio molto buono, vi fé la pratica prestamente; e la prima opera che egli facesse fu una tavola non molto grande a Messer Bartolomeo Felisini che la pose nella Misericordia, chiesa fuor di Bologna, nella qual tavola è una Nostra Donna a seder sopra una sedia con molte altre figure e con il detto Messer Bartolomeo ritratto di naturale, et è lavorata a olio, con grandissima diligenza.
La qual opera da lui fatta l'anno 1490, piacque talmente in Bologna che Messer Giovanni Bentivoglio desideroso di onorar con l'opere di questo nuovo pittore la cappella sua, in S.
Iacopo di quella città, gli fece fare, in una tavola, una Nostra Donna in aria e due figure per lato, con due Angioli da basso che suonano.
La qual opera fu tanto ben condotta dal Francia, che meritò da Messer Giovanni oltra le lode, un presente onoratissimo.
Laonde, incitato da questa opera monsignore de' Bentivogli gli fece fare una tavola per l'altar maggior della Misericordia, che fu molto lodata, dentrovi la Natività di Cristo dove oltre al disegno non è, se non bella, l'invenzione, et il colorito non sono se non lodevoli.
Et in questa opera fece monsignore ritratto di naturale molto simile per quanto dice chi lo conobbe, et in quello abito stesso che egli, vestito da pellegrino, tornò in Ierusalemme.
Fece similmente in una tavola, nella chiesa della Nunziata fuor della porta di S.
Mammolo, quando la Nostra Donna è annunziata dall'Angelo, insieme con due figure per lato, tenuta cosa molto ben lavorata.
Mentre dunque per l'opere del Francia era cresciuta la fama sua, deliberò egli, sì come il lavorare a olio gli aveva dato fama et utile, così di vedere se il medesimo gli riusciva nel lavoro in fresco.
Aveva fatto Messer Giovanni Bentivogli dipignere il suo palazzo a diversi maestri e ferraresi e di Bologna et alcuni altri modonesi, ma vedute le pruove del Francia a fresco, deliberò che egli vi facesse una storia, in una facciata d'una camera dove egli abitava, per suo uso, nella quale fece il Francia il campo di Oloferne armato in diversi guardie, a piedi et a cavallo, che guardavano i padiglioni; e mentre che erano attenti ad altro, si vedeva il sonnolento Oloferne preso da una femmina soccinta in abito vedovile, la quale con la sinistra teneva i capegli sudati per il calore del vino e del sonno, e con la destra vibrava il colpo per uccidere il nemico; mentre che una serva vecchia con crespe et aria veramente da serva fidatissima, intenta negli occhi della sua Iudit per inanimirla, chinata giù con la persona, teneva bassa una sporta per ricevere in essa il capo del sonnacchioso amante.
Storia che fu delle più belle e meglio condotte che il Francia facesse mai; la quale andò per terra nelle rovine di quello edifizio, nella uscita de' Bentivogli, insieme con un'altra storia sopra questa medesima camera, contraffatta di colore di bronzo, d'una disputa di filosofi molto eccellentemente lavorata et espressovi il suo concetto.
Le quali opere furono cagione che Messer Giovanni e quanti eran di quella casa, lo amassino et onorassino; e dopo loro, tutta quella città.
Fece nella cappella di S.
Cecilia, attaccata con la chiesa di S.
Iacopo, due storie lavorate in fresco, in una delle quali dipinse quando la Nostra Donna è sposata da Giuseppo e nell'altra la morte di S.
Cecilia, tenuta cosa molto lodata da' Bolognesi; e nel vero il Francia prese tanta pratica e tanto animo nel veder caminar a perfezzione l'opere che egli voleva, ch'e' lavorò molte cose che io non ne farò memoria; bastandomi mostrare a chi vorrà veder l'opere sue, solamente le più notabili e le migliori.
Né per questo la pittura gl'impedì mai che egli non seguitasse e la Zecca e l'altre cose delle medaglie, come e' faceva sino dal principio.
Ebbe il Francia, secondo che si dice, grandissimo dispiacere de la partita di Messer Giovanni Bentivogli; perché avendogli fatti tanti benefizii gli dolse infinitamente; ma pure, come savio e costumato che egli era, attese all'opere sue.
Fece dopo la sua partita di quello, tre tavole che andarono a Modena, in una delle quali era quando S.
Giovanni battezza Cristo, nell'altra una Nunziata bellissima e nella ultima una Nostra Donna in aria con molte figure, la qual fu posta nella chiesa de' frati dell'Osservanza.
Spartasi dunque per cotante opere la fama di così eccellente maestro, facevano le città a gara per aver dell'opere sue.
Laonde fece egli in Parma ne' monaci neri di S.
Giovanni, una tavola con un Cristo morto in grembo alla Nostra Donna et intorno molte figure, tenuta universalmente cosa bellissima; per che, trovandosi serviti, i medesimi frati operarono ch'egli ne facesse un'altra a Reggio di Lombardia in un luogo loro, dov'egli fece una Nostra Donna con molte figure.
A Cesena fece un'altra tavola pure per la chiesa di questi monaci, e vi dipinse la Circoncisione di Cristo colorita vagamente.
Né volsono avere invidia i Ferraresi agl'altri circonvicini, anzi diliberati ornare delle fatiche del Francia il loro Duomo, gli allogarono una tavola, che vi fece su un gran numero di figure, e la intitolarono la tavola di Ogni Santi.
Fecene in Bologna una in S.
Lorenzo, con una Nostra Donna e due figure per banda, e due putti sotto, molto lodata.
Né ebbe appena finita questa, che gli convenne farne un'altra in S.
Iobbe, con un Crucifisso e S.
Iobbe ginocchioni appiè della croce, e due figure da' lati.
Era tanto sparsa la fama e l'opere di questo artefice per la Lombardia, che fu mandato di Toscana ancora per alcuna cosa di suo, come fu da Lucca, dove andò una tavola dentrovi una S.
Anna e la Nostra Donna con molte altre figure, e sopra un Cristo morto in grembo alla madre; la quale opera è posta nella chiesa di S.
Fridiano et è tenuta da' lucchesi cosa molto degna.
Fece in Bologna per la chiesa della Nunziata due altre tavole che furon molto diligentemente lavorate; e così fuor della porta a Strà Castione nella Misericordia, ne fece un'altra a requisizione d'una gentildonna de' Manzuoli.
Nella quale dipinse la Nostra Donna col Figliuolo in collo, S.
Giorgio, S.
Giovanni Batista, S.
Stefano e S.
Agostino con un Angelo a' piedi, che tiene le mani giunte con tanta grazia, che par proprio di Paradiso.
Nella Compagnia di S.
Francesco nella medesima città, ne fece un'altra; e similmente una ne la Compagnia di S.
Ieronimo.
Aveva sua dimestichezza Messer Paolo Zambeccaro, e come amicissimo per ricordanza di lui gli fece fare un quadro assai grande, dentrovi una Natività di Cristo che è molto celebrata delle cose che egli fece.
E per questa cagione Messer Polo gli fece dipignere due figure in fresco, alla sua villa, molto belle.
Fece ancora in fresco una storia molto leggiadra in casa Messer Ieronimo Bolognino, con molte varie e bellissime figure.
Le quali opere tutte insieme gli avevano recato una reverenza in quella città, che v'era tenuto come uno iddio.
E quello che gliel'accrebbe in infinito, fu che il Duca d'Urbino gli fece dipignere un par di barde da cavallo, nelle quali fece una selva grandissima d'alberi, che vi era appiccato il fuoco, e fuor di quella usciva quantità grande di tutti gli animali aerei e terrestri, et alcune figure: cosa terribile, spaventosa e veramente bella, che fu stimata assai per il tempo consumatovi sopra nelle piume degli ucelli e nelle altre sorti d'animali terrestri, oltra le diversità delle frondi e rami diversi, che nella varietà degli alberi si vedevano.
La quale opera fu riconosciuta con doni di gran valuta, per satisfare alle fatiche del Francia; oltra che il Duca sempre gli ebbe obligo per le lodi che egli ne ricevé.
Il duca Guido Baldo parimente ha nella sua guardaroba, di mano del medesimo, in un quadro una Lucrezia romana da lui molto stimata, con molte altre pitture, delle quali si farà, quando sia tempo, menzione.
Lavorò dopo queste, una tavola di S.
Vitale et Agricola, allo altare della Madonna, che vi è dentro due Angeli che suonano il liuto, molto begli.
Non conterò già i quadri che sono sparsi per Bologna in casa que' gentiluomini, e meno la infinità de' ritratti di naturale che egli fece, perché troppo sarei prolisso.
Basti che mentre che egli era in cotanta gloria e godeva in pace le sue fatiche, era in Roma Raffaello da Urbino; e tutto il giorno gli venivano intorno molti forestieri, e fra gli altri molti gentiluomini bolognesi, per vedere l'opere di quello.
E perché egli avviene il più delle volte che ognuno loda volentieri gli ingegni di casa sua, cominciarono questi bolognesi con Raffaello a lodare l'opere, la vita e le virtù del Francia; e così feciono tra loro a parole tanta amicizia, che il Francia e Raffaello si salutarono per lettere.
Et udito il Francia tanta fama de le divine pitture di Raffaello, desiderava veder l'opere sue; ma già vecchio et agiato, si godeva la sua Bologna.
Avvenne appresso che Raffaello fece in Roma per il cardinal de' Pucci Santi IIII una tavola di S.
Cecilia, che si aveva a mandare in Bologna per porsi in una cappella in S.
Giovanni in Monte, dove è la sepoltura della beata Elena dall'Olio; et incassata, la dirizzò al Francia, che come amico gliela dovesse porre in sull'altare di quella cappella, con l'ornamento come l'aveva esso acconciato.
Il che ebbe molto caro il Francia, per aver agio di veder, sì come avea tanto disiderato, l'opere di Raffaello.
Et avendo aperta la lettera che gli scriveva Raffaello, dove e' lo pregava se ci fusse nessun graffio che e' l'acconciase e similmente conoscendoci alcuno errore come amico lo correggesse, fece con allegrezza grandissima ad un buon lume trarre della cassa la detta tavola.
Ma tanto fu lo stupore che e' ne ebbe e tanto grande la maraviglia, che conoscendo qui lo error suo e la stolta presunzione della folle credenza sua, si accorò di dolore e fra brevissimo tempo se ne morì.
Era la tavola di Raffaello divina, e non dipinta ma viva, e talmente ben fatta e colorita da lui, che fra le belle che egli dipinse mentre visse, ancora che tutte siano miracolose, ben poteva chiamarsi rara.
Laonde il Francia mezzo morto per il terrore e per la bellezza della pittura che era presente agl'occhi, et a paragone di quelle che intorno di sua mano si vedevano, tutto smarrito la fece con diligenzia porre in S.
Giovanni in Monte, a quella cappella dove doveva stare, et entratosene fra pochi dì nel letto, tutto fuori di se stesso, parendoli esser rimasto quasi nulla nell'arte appetto a quello che egli credeva e che egli era tenuto, di dolore e malinconia, come alcuni credono, si morì essendoli advenuto, nel troppo fisamente contemplare la vivissima pittura di Raffaello, quello che al Fivizano nel vagheggiare la sua bella Morte, de la quale è scritto questo epigramma:
Me veram pictor divinus mentre recepit.
Admota est operi, deinde perita manus.
Dumque opere in facto defigit lumina pictor
intentus nimium, palluit et moritur.
Viva igitur sum mors; non mortua mortis imago
si fungor quo mors fungitur officio.
Tuttavolta dicono alcuni altri che la morte sua fu sì subita, che a molti segni apparì più tosto veleno o giocciola che altro.
Fu il Francia uomo savio e regolatissimo del vivere e di buone forze.
E morto, fu sepolto onoratamente dai suoi figliuoli in Bologna, l'anno MDXVIII.
VITA DI PIETRO PERUGINO PITTORE
Di quanto benefizio sia agli ingegni alcuna volta la povertà, quanto ella sia potente cagione di fargli venir perfetti et eccellenti in qual si voglia facultà, assai chiaramente si può vedere nelle azzioni di Pietro Perugino.
Il quale partitosi da le estreme calamità di Perugia e condottosi a Fiorenza, desiderando co 'l mezzo della virtù di pervenire a qualche grado, stette molti mesi, non avendo altro letto, poveramente a dormire in una cassa; fece de la notte giorno, e con grandissimo fervore continuamente attese allo studio della sua professione.
Et avendo fatto l'abito in quello, nessuno altro piacere conobbe che di affaticarsi sempre in quell'arte e sempre dipignere.
Perché avendo sempre dinanzi agl'occhi il terrore della povertà, faceva cose per guadagnare, che e' non arebbe forse guardate, se avesse avuto da mantenersi.
E per avventura tanto gli arebbe la ricchezza chiuso il camino da venire eccellente per la virtù quanto glielo aperse la povertà e ve lo spronò il bisogno, disiderando venire da sì misero e basso grado, se e' non poteva al sommo e supremo, ad uno almeno dove egli avesse da sostentarsi.
Per questo non si curò egli mai di freddo, di fame, di disagio, di incomodità, di fatica, né di vergogna, per potere vivere un giorno in agio e riposo; dicendo sempre, e quasi in proverbio, che dopo il cattivo tempo è necessario che e' venga il buono: e che quando è buono tempo si fabricano le case per potervi stare al coperto quando e' bisogna.
Ma perché meglio si conosca il progresso di questo artefice, cominciandomi dal suo principio dico, secondo la publica fama, che nella città di Perugia nacque ad una povera persona da Castello della Pieve, detta Cristofano, un figliuolo che al battesimo fu chiamato Pietro.
Il quale allevato fra la miseria e lo stento, fu dato dal padre per fattorino a un dipintore di Perugia, il quale non era molto valente in quel mestiero, ma aveva in gran venerazione e l'arte e gli uomini che in quella erano eccellenti.
Né mai con Pietro faceva altro che dire di quanto guadagno et onore fusse la pittura a chi ben la esercitasse.
E contandoli i premii già delli antichi e de' moderni, confortava Pietro a lo studio di quella.
Onde gli accese l'animo di maniera che gli venne capriccio di volere (se la fortuna lo volesse aiutare) essere uno di quelli.
E però spesso usava di domandare qualunque conosceva essere stato per lo mondo, in che parte meglio si facesseno gli uomini di quel mestiero, e particularmente il suo maestro.
Il quale gli rispose sempre di un medesimo tenore, cioè che in Firenze più che altrove venivano gli uomini perfetti in tutte l'arti, e specialmente nella pittura, atteso che in quella città sono spronati gl'uomini da tre cose: l'una dal biasimare che fanno molti e molto, per far quell'aria gli ingegni liberi di natura, e non contentarsi universalmente dell'opere pur mediocri, ma sempre più ad onore del buono e del bello, che a rispetto del facitore considerarle; l'altra che a volervi vivere bisogna essere industrioso, il che non vuole dire altro che adoperare continuamente l'ingegno et il giudizio et essere accorto e presto nelle sue cose, e finalmente saper guadagnare, non avendo Firenze paese largo et abbondante, di maniera che e' possa dar le spese per poco a chi si sta, come dove si truova del buono assai; la terza, che non può forse manco dell'altre, è una cupidità di gloria et onore, che quella aria genera grandissima in quelli d'ogni perfezzione, la qual, in tutte le persone che hanno spirito, non consente che gli uomini voglino stare al pari, non che restare indietro a chi e' veggono essere uomini come sono essi, benché gli riconoschino per maestri; anzi gli sforza bene spesso a desiderar tanto la propria grandezza, che se non sono benigni di natura o savi, riescono maldicenti, ingrati e sconoscenti de' benefizii.
È ben vero che quando l'uomo vi ha imparato tanto che basti, volendo far altro che vivere come gl'animali giorno per giorno e desiderando farsi ricco, bisogna partirsi di quivi e vender fuora la bontà delle opere sue e la riputazione di essa città; come fanno i dottori quella del loro studio; perché Firenze fa de li artefici suoi quel che il tempo de le sue cose: che fatte se le disfa e se le consuma a poco a poco.
Da questi avvisi dunque e dalle persuasioni di molti altri mosso, venne Pietro in Fiorenza con animo di farsi eccellente; e bene gli venne fatto conciò sia che al suo tempo le cose della maniera sua furono tenute in pregio grandissimo.
Studiò sotto la disciplina d'Andrea Verrocchio, e le prime sue figure furono fuor della porta al Prato, in S.
Martino alle monache, oggi ruinato per le guerre, et in Camaldoli un S.
Girolamo in muro allora molto stimato da' Fiorentini, e con lode messo inanzi per aver fatto quel santo vecchio, magro et asciutto con gl'occhi fisso nel Crucifisso, e tanto consumato che pare una notomia, come si può vedere in uno cavato da quello, che ha il già detto Bartolomeo Gondi.
Venne dunque in pochi anni in tanto credito, che de l'opere sue s'empié non solo Fiorenza et Italia, ma la Francia, la Spagna e molti altri paesi, dove elle furono mandate.
Laonde, tenute le cose sue in riputazione e pregio grandissimo, cominciarono i mercanti a fare incetta di quelle, et a mandarle fuori in diversi paesi, con molto loro utile e guadagno.
Lavorò alle donne di S.
Chiara, in una tavola un Cristo morto con sì vago colorito e nuovo, e che fece credere agl'artefici d'avere a essere maraviglioso et eccellente.
Veggonsi in questa opera alcune bellissime teste di vecchi, e similmente certe Marie, che restate di piagnere, considerano il Morto con ammirazione et amore straordinario; oltre che vi fece un paese, che fu tenuto allora bellissimo, per non si esser ancora veduto il vero modo di fargli, come si è veduto poi.
Dicesi che Francesco del Pugliese volle dare alle dette monache tre volte tanti danari, quanti elle avevano pagato a Pietro, e farne far loro una simile a quella, di mano propria del medesimo, e che elle non vollono acconsentire, perché Pietro disse che non credeva poter quella paragonare.
Erano anco fuor della porta a' Pinti, nel convento de' frati Gesuiti, molte cose di man di Pietro; ma perché oggi la detta chiesa e convento sono rovinati, non voglio che mi paia fatica, con questa occasione, prima che io più oltre in questa vita proceda, dirne alcune poche cose.
Questa chiesa dunque, la quale fu architettura d'Antonio di Giorgio da Settignano, era longa braccia quaranta e larga venti; a sommo, per quattro scaglioni, o vero gradi, si saliva a un piano di braccia sei, sopra il qual era l'altar maggiore con molti ornamenti di pietre intagliate, e sopra il detto altare era posta con ricco ornamento una tavola, come si è detto, di mano di Domenico Ghirlandaio.
A mezzo la chiesa era un tramezzo di muro, con una porta traforata dal mezzo in su, la quale mettevano in mezzo due altari, sopra ciascuno de' quali era, come si dirà, una tavola di mano di Pietro Perugino, e sopra la detta porta era un bellissimo Crucifisso di mano di Benedetto da Maiano, messo in mezzo da una Nostra Donna et un San Giovanni di rilievo.
E dinanzi al detto piano dell'altare maggiore, appoggiandosi a detto tramezzo, era un coro di legname di noce e d'ordine dorico, molto ben lavorato: e sopra la porta principale della chiesa era un altro coro che posava sopra un legno armato, e di sotto faceva palco, o vero soffittato, con bellissimo spartimento e con un ordine di balaustri che faceva sponda al dinanzi del coro, che guardava verso l'altar maggiore.
Il qual coro era molto commodo per l'ore della notte ai frati di quel convento, e per fare loro particolare orazioni, e similmente per i giorni feriali.
Sopra la porta principale della chiesa, che era fatta con bellissimi ornamenti di pietra et aveva un portico dinanzi, in sulle colonne che copriva in sin sopra la porta del convento, era in un mezzo tondo un S.
Giusto vescovo in mezzo a due Angeli, di mano di Gherardo miniatore, molto bello; e ciò perché la detta chiesa era intitolata a detto S.
Giusto, e là entro si serbava da que' frati una reliquia, cioè un braccio di esso Santo.
All'entrare di quel convento era un picciol chiostro di grandezza appunto quanto la chiesa, cioè lungo braccia quaranta e largo venti, gl'archi e volte del quale che giravano intorno, posava sopra colonne di pietra, che facevano una spaziosa e molto commoda loggia intorno intorno.
Nel mezzo del cortile di questo chiostro, che era tutto pulitamente e di pietre quadre lastricato, era un bellissimo pozzo con una loggia sopra, che posava similmente sopra colonne di pietra e faceva ricco e bello ornamento.
Et in questo chiostro era il capitolo de' frati, la porta del fianco che entrava in chiesa, e le scale che salivano di sopra al dormentorio, et altre stanze a commodo de' frati.
Di là da questo chiostro, a dirittura della porta principale del convento, era un andito lungo quanto il capitolo e la camarlingheria e che rispondeva in un altro chiostro maggiore e più bello che il primo.
E tutta questa dirittura, cioè le 40 braccia della loggia del primo chiostro, l'andito e quella del secondo, facevano un riscontro lunghissimo e bello, quanto più non si può dire, essendo massimamente fuor del detto ultimo chiostro e nella medesima dirittura, una viottola dell'orto lunga braccia dugento.
E tutto ciò venendosi dalla principal porta del convento, faceva una veduta maravigliosa.
Nel detto secondo chiostro era un reffettorio lungo braccia sessanta e largo 18, con tutte quelle accommodate stanze e, come dicono i frati, officine che a un sì fatto convento si richiedevano.
Di sopra era un dormentorio a guida di T, una parte del quale, cioè la principale e diritta, la quale era braccia 60, era doppia, cioè aveva le celle da ciascun lato et in testa in uno spazio di quindici braccia un oratorio, sopra l'altare del quale era una tavola di mano di Piero Perugino, e sopra la porta di esso oratorio era un'altra opera in fresco, come si dirà, di mano del medesimo.
Et al medesimo piano, cioè sopra il capitolo, era una stanza grande dove stavano que' padri a fare le finestre di vetro, con i fornegli et altri commodi che a cotale esercizio erano necessarii.
E perché mentre visse Pietro, egli fece loro per molte opere i cartoni, furono i lavori che fecero al suo tempo tutti eccellenti.
L'orto poi di questo convento era tanto bello e tanto ben tenuto, e con tanto ordine le viti intorno al chiostro e per tutto accommodate, che intorno a Firenze non si poteva veder meglio.
Similmente la stanza dove stillavano, secondo il costume loro, acque odorifere e cose medicinali aveva tutti quegli agi, che più e migliori si possono imaginare.
Insomma quel convento era de' begli e bene accomodati che fussero nello stato di Firenze; e però ho voluto farne questa memoria, e massimamente essendo di mano del nostro Pietro Perugino la maggior parte delle pitture che vi erano.
Al qual Pietro tornando oramai, dico che dell'opere che fece in detto convento, non si sono conservate se non le tavole, perché quelle lavorate a fresco furono per lo assedio di Firenze, insieme con tutta quella fabrica, gettate per terra, e le tavole portate alla porta a San Piergattolini, dove ai detti frati fu dato luogo nella chiesa e convento di S.
Giovannino.
Le due tavole, adunque, che erano nel sopra detto tramezzo, erano di man di Piero; et in una era un Cristo nell'orto e gl'Apostoli che dormono, ne' quali mostrò Pietro quanto vaglia il sonno contra gl'affanni e' dispiaceri, avendogli figurati dormire in attitudini molto agiate.
E nell'altra fece una Pietà, cioè Cristo in grembo alla Nostra Donna con quattro figure intorno non men buone che l'altre della maniera sua, e fra l'altre cose fece il detto Cristo morto così intirizzato, come se e' fusse stato tanto in croce, che lo spazio et il freddo l'avessino ridotto così; onde lo fece reggere a Giovanni et alla Maddalena tutti afflitti e piangenti.
Lavorò in un'altra tavola un Crucifisso con la Maddalena et ai piedi S.
Girolamo, S.
Giovanni Battista et il beato Giovanni Colombini, fondatore di quella Religione, con infinita diligenza.
Queste tre tavole hanno patito assai e sono per tutto, negli scuri e dove sono l'ombre, crepate; e ciò avviene perché quando si lavora il primo colore che si pone sopra la mestica (perciò che tre mani di colori si danno l'un sopra l'altro) non è ben secco, onde poi col tempo nello seccarsi tirano per la grossezza loro e vengono ad aver forza di fare que' crepati; il che Pietro non potette conoscere perché a punto ne' tempi suoi si cominciò a colorire bene a olio.
Essendo dunque dai fiorentini molto comendate l'opere di Pietro, un priore del medesimo convento degl'Ingesuati, che si dilettava dell'arte, gli fece fare in un muro del primo chiostro una Natività coi Magi di minuta maniera, che fu da lui con vaghezza e pulitezza grande a perfetto fine condotta; dove era un numero infinito di teste variate e ritratti di naturale non pochi, fra i quali era la testa d'Andrea del Verrocchio suo maestro.
Nel medesimo cortile fece un fregio sopra gl'archi delle colonne, con teste quanto il vivo, molto ben condotte; delle quali era una quella del detto priore, tanto viva e di buona maniera lavorata, che fu giudicata da peritissimi artefici la miglior cosa che mai facesse Pietro; al quale fu fatto fare nell'altro chiostro, sopra la porta che andava in reffettorio, una storia, quando papa Bonifazio conferma l'abito al beato Giovanni Colombino, nella quale ritrasse otto di detti frati e vi fece una prospettiva bellissima, che sfuggiva, la quale fu molto lodata e meritamente, perché ne faceva Pietro professione particolare.
Sotto a questa, in un'altra storia, cominciava la Natività di Cristo con alcuni Angeli e pastori, lavorata con freschissimo colorito; e sopra la porta del detto oratorio fece in un arco tre mezze figure: la Nostra Donna, S.
Girolamo et il beato Giovanni, con sì bella maniera che fu stimata delle migliori opere che mai Pietro lavorasse in muro.
Era, secondo che io udii già raccontare, il detto priore molto eccellente in fare gl'azzurri oltramarini, e però, avendone copia, volle che Piero in tutte le sopra dette opere ne mettesse assai; ma era nondimeno sì misero e sfiducciato, che non si fidando di Pietro, voleva sempre esser presente quando egli azzurro nel lavoro adoperava.
Laonde Pietro, il quale era di natura intero e da bene, e non disiderava quel d'altri se non mediante le sue fatiche, aveva per male la diffidenza di quel priore, onde pensò di farnelo vergognare; e così presa una catinella d'acqua, imposto che aveva o panni o altro, che voleva fare di azzurro e bianco, faceva di mano in mano al priore, che con miseria tornava al sacchetto, mettere l'oltramarino nell'alberello dove era acqua stemperata; dopo, cominciandolo a mettere in opera, a ogni due pennellate Piero risciacquava il pennello nella catinella, onde era più quello che nell'acqua rimaneva, che quello che egli aveva messo in opera.
Et il priore, che si vedeva votar il sacchetto et il lavoro non comparire, spesso spesso diceva: "O quanto oltramarino consuma questa calcina!".
"Voi vedete", rispondeva Pietro.
Dopo partito il priore, Pietro cavava l'oltramarino che era nel fondo della catinella; e quello, quando gli parve tempo, rendendo al priore, gli disse: "Padre, questo è vostro; imparate a fidarvi degl'uomini da bene che non ingannano mai chi si fida, ma sì bene saprebbono, quando volessino, ingannare gli sfiducciati come voi sete".
Per queste dunque et altre molte opere venne in tanta fama Pietro, che fu quasi sforzato a andare a Siena, dove in S.
Francesco dipinse una tavola grande che fu tenuta bellissima, et in Santo Agostino ne dipinse un'altra dentrovi un Crucifisso con alcuni Santi.
E poco dopo questo, a Fiorenza nella chiesa di S.
Gallo, fece una tavola di S.
Girolamo in penitenzia, che oggi è in S.
Iacopo tra' fossi, dove detti frati dimorano, vicino al canto degli Alberti.
Fu fattogli allogazione d'un Cristo morto con S.
Giovanni e la Madonna, sopra le scale della porta del fianco di S.
Pier Maggiore, e lavorollo in maniera che, sendo stato all'acqua et al vento, s'è conservato con quella freschezza come se pur ora dalla man di Pietro fosse finito.
Certamente i colori furono dalla intelligenza di Pietro conosciuti, e così il fresco, come l'olio; onde obbligo gli hanno tutti i periti artefici, che per suo mezzo hanno cognizione de' lumi che per le sue opere si veggono.
In S.
Croce in detta città, fece una Pietà col morto Cristo in collo, e due figure che danno maraviglia a vedere, non la bontà di quelle, ma il suo mantenersi sì viva e nuova di colori, dipinti in fresco.
Gli fu allogato da Bernardino de' Rossi, cittadin fiorentino, un S.
Sebastiano per mandarlo in Francia, e furono d'accordo del prezzo in cento scudi d'oro; la quale opera fu venduta da Bernardino al re di Francia quattrocento ducati d'oro.
A Valle Ombrosa dipinse una tavola per lo altar maggiore, e nella Certosa di Pavia lavorò similmente una tavola a que' frati.
Dipinse al cardinal Caraffa di Napoli nello piscopio allo altar maggiore, una assunzione di Nostra Donna e gl'Apostoli ammirati intorno al sepolcro.
Et all'abbate Simone de' Graziani al Borgo a S.
Sepolcro una tavola grande, la quale fece in Fiorenza, che fu portata in S.
Gilio del Borgo sulle spalle de' facchini con spesa grandissima.
Mandò a Bologna a S.
Giovanni in Monte una tavola con alcune figure ritte et una Madonna in aria, per che talmente si sparse la fama di Pietro per Italia e fuori, che e' fu da Sisto IIII pontefice, con molta sua gloria condotto a Roma a lavorare nella cappella in compagnia degli altri artefici eccellenti; dove fece la storia di Cristo quando dà le chiavi a S.
Pietro, in compagnia di don Bartolomeo della Gatta abate di S.
Clemente di Arezzo, e similmente la natività et il battesimo di Cristo, et il nascimento di Mosè, quando dalla figliuola di Faraone è ripescato nella cestella.
E nella medesima faccia dove è l'altare, fece la tavola in muro con l'assunzione della Madonna, dove ginocchioni ritrasse papa Sisto.
Ma queste opere furono mandate a terra per fare la facciata del giudicio del divin Michel Agnolo, a tempo di papa Paolo III.
Lavorò una volta, in torre Borgia nel palazzo del papa, con alcune storie di Cristo e fogliami di chiaro oscuro, i quali ebbero al suo tempo nome straordinario di essere eccellenti.
In Roma medesimamente in S.
Marco, fece una storia di due martiri allato al Sacramento, opera delle buone che egli facesse in Roma.
Fece ancora nel palazzo di S.
Apostolo per Sciarra Colonna una loggia et altre stanze.
Le quali opere gli misero in mano grandissima quantità di danari, laonde risolutosi a non stare più in Roma, partitosene con buon favore di tutta la corte, a Perugia sua patria se ne tornò; et in molti luoghi della città finì tavole e lavori a fresco, e particolarmente in palazzo una tavola a olio nella cappella de' signori, dentrovi la Nostra Donna et altri Santi.
A S.
Francesco del Monte dipinse due cappelle a fresco, in una la storia de' Magi che vanno a offerire a Cristo, e nell'altra il martirio d'alcuni frati di S.
Francesco, i quali andando al soldano di Babilonia, furono occisi.
In S.
Francesco del convento dipinse similmente a olio due tavole, in una la Resurezione di Cristo, e nell'altra S.
Giovanni Battista et altri Santi.
Nella chiesa de' Servi fece parimente due tavole, in una la trasfigurazione del Nostro Signore e nell'altra, che è accanto alla sagrestia, la storia de' Magi; ma perché queste non sono di quella bontà che sono l'altre cose di Piero, si tien per fermo ch'elle siano delle prime opere che facesse.
In S.
Lorenzo, Duomo della medesima città, è di mano di Piero nella cappella del Crucifisso la Nostra Donna, S.
Giovanni, e l'altre Marie, S.
Lorenzo, S.
Iacopo et altri Santi.
Dipinse ancora, all'altare del Sagramento, dove sta riposto l'anello con che fu sposata la Vergine Maria, lo sposalizio di essa Vergine.
Dopo fece a fresco tutta l'udienza del Cambio, cioè nel partimento della volta i sette pianeti tirati sopra certi carri da diversi animali, secondo l'uso vecchio, e nella facciata, quando si entra dirimpetto alla porta, la Natività e la Resurrezione di Cristo; et in una tavola un S.
Giovanni Batista in mezzo a certi altri Santi.
Nelle facciate poi dalle bande dipinse, secondo la maniera sua, Fabio Massimo, Socrate, Numa Pompilio, F.
Camillo, Pitagora, Traiano, L.
Sicinio, Leonida Spartano, Orazio Cocle, Fabio Sempronio, Pericle ateniese e Cincinnato.
Nell'altra facciata fece le Sibille, i profeti Isaia, Moisè, Daniel, Davit, Ieremia, Salamone, Eritrea, Libica, Tiburtina, Delfica e l'altre.
E sotto ciascuna delle dette figure fece, a uso di motti, in scrittura alcune cose che dissero, le quali sono a proposito di quel luogo; et in uno ornamento fece il suo ritratto che pare vivissimo, scrivendovi sotto il nome suo in questo modo: Petrus Perusinus Egregius Pictor: perdita si fuerat, pingendo hic retulit artem.
Si nunquam inventa esset hactenus ipse dedit.
Anno domini 1500.
Questa opera, che fu bellissima e lodata più che alcun'altra che da Pietro fusse in Perugia lavorata, è oggi dagl'uomini di quella città, per memoria d'un sì lodato artefice della patria loro, tenuta in pregio.
Fece poi il medesimo nella chiesa di S.
Agostino alla cappella maggiore, in una tavola grande isolata e con ricco ornamento intorno, nella parte dinanzi S.
Giovanni che battezza Cristo, e di dietro, cioè dalla banda che risponde in coro, la Natività di esso Cristo; nelle teste alcuni Santi, e nella predella molte storie di figure piccole con molta diligenza.
Et in detta chiesa fece per Messer Benedetto Calera una tavola alla cappella di S.
Niccolò.
Dopo tornato a Firenze, fece ai monaci di Cestello in una tavola S.
Bernardo e nel capitolo un Crucifisso, la Nostra Donna, S.
Benedetto, S.
Bernardo e S.
Giovanni.
Et in S.
Domenico di Fiesole, nella seconda cappella a man ritta, una tavola, dentrovi la Nostra Donna con tre figure, fra le quali un S.
Bastiano è lodatissimo.
Aveva Pietro tanto lavorato e tanto gli abondava sempre da lavorare, che e' metteva in opera bene spesso le medesime cose; et era talmente la dottrina dell'arte sua ridotta a maniera, ch'e' faceva a tutte le figure un'aria medesima.
Per che essendo venuto già Michele Agnolo Buonarroti al suo tempo, desiderava grandemente Pietro vedere le figure di quello, per lo grido che gli davano gli artefici.
E vedendosi occultare la grandezza di quel nome, che con sì gran principio per tutto aveva acquistato, cercava molto con mordaci parole, offendere quelli che operavano.
E per questo meritò, oltre alcune brutture fattegli dagl'artefici, che Michele Agnolo in publico gli dicesse ch'egli era goffo nell'arte.
Ma non potendo Pietro comportare tanta infamia, ne furono al magistrato degl'Otto tutti due, dove ne rimase Pietro con assai poco onore.
Intanto i frati de' Servi di Fiorenza avendo volontà di avere la tavola dello altar maggiore che fusse fatta da persona famosa, et avendola, mediante la partita di Lionardo da Vinci, che se ne era ito in Francia, renduta a Filippino, egli quando ebbe fatto la metà d'una di due tavole che v'andavano, passò di questa all'altra vita.
Onde i frati, per la fede che avevano in Pietro, gli feciono allogazione di tutto il lavoro.
Aveva Filippino finito in quella tavola dove egli faceva Cristo deposto di croce, i Niccodemi che lo depongono; e Pietro seguitò di sotto lo svenimento della Nostra Donna et alcune altre figure.
E perché andavano in questa opera due tavole, ché l'una voltava inverso il coro de' frati e l'altra inverso il corpo della chiesa, dietro al coro si aveva a porre il Diposto di croce e dinanzi l'assunzione di Nostra Donna; ma Pietro la fece tanto ordinaria, che fu messo il Cristo deposto dinanzi, e l'Assunzione dalla banda del coro.
E queste oggi, per mettervi il tabernacolo del Sacramento, sono state l'una e l'altra levate via; e per la chiesa, messe sopra certi altri altari, è rimaso in quell'opera solamente sei quadri, dove sono alcuni Santi dipinti da Pietro in certe nicchie.
Dicesi che quando detta opera si scoperse, fu da tutti i nuovi artefici assai biasimata, e particolarmente perché si era Pietro servito di quelle figure, che altre volte era usato mettere in opera, dove tentandolo gl'amici suoi, dicevano che affaticato non s'era e che aveva tralasciato il buon modo dell'operare, o per avarizia o per non perder tempo.
Ai quali Pietro rispondeva: "Io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi e che vi sono infinitamente piaciute.
Se ora vi dispiacciono e non le lodate, che ne posso io?".
Ma coloro aspramente con sonetti e pubbliche villanie lo saettavano.
Onde egli già vecchio partitosi da Fiorenza e tornatosi a Perugia, condusse alcuni lavori a fresco nella chiesa di S.
Severo, monastero dell'Ordine di Camaldoli, nel qual luogo aveva Raffaello da Urbino giovanetto, e suo discepolo, fatto alcune figure, come nella sua vita si dirà.
Lavorò similmente al Montone, alla Fratta et in molti altri luoghi del contado di Perugia, e particolarmente in Ascesi a S.
Maria degl'Angeli, dove a fresco fece nel muro, dietro alla cappella della Madonna che risponde nel coro de' frati, un Cristo in croce con molte figure.
E nella chiesa di S.
Piero, Badia de' monaci neri in Perugia, dipinse all'altare maggiore in una tavola grande l'Ascensione con gl'Apostoli abbasso, che guardano verso il cielo.
Nella predella della quale tavola sono tre storie, con molta diligenza lavorate, cioè i Magi, il battesimo e la Ressurezione di Cristo; la quale tutta opera si vede piena di belle fatiche, intanto ch'ell'è la migliore di quelle che sono in Perugia di man di Pietro lavorate a olio.
Cominciò il medesimo un lavoro a fresco di non poca importanza a Castello della Pieve, ma non lo finì.
Soleva Pietro, sì come quello che di nessuno si fidava, nell'andare e tornare dal detto castello a Perugia, portare quanti danari aveva, sempre addosso; perché alcuni aspettandolo a un passo, lo rubarono, ma raccomandandosi egli molto, gli lasciarono la vita per Dio.
E dopo, adoperando mezzi et amici, che pur n'aveva assai, riebbe anco gran parte de' detti denari che gli erano stati tolti.
Ma nondimeno fu per dolore vicino a morirsi.
Fu Pietro persona di assai poca religione e non se gli poté mai far credere l'immortalità dell'anima; anzi con parole accomodate al suo cervello di porfido, ostinatissimamente ricusò ogni buona via.
Aveva ogni sua speranza ne' beni della fortuna, e per danari arebbe fatto ogni male contratto.
Guadagnò molte ricchezze, et in Fiorenza murò e comprò case, et in Perugia et a Castello della Pieve acquistò molti beni stabili.
Tolse per moglie una bellissima giovane e n'ebbe figliuoli; e si dilettò tanto che ella portasse leggiadre acconciature, e fuori et in casa, che si dice che egli spesse volte l'acconciava di sua mano.
Finalmente venuto Pietro in vecchiezza, d'anni LXXVIII finì il corso della vita sua nel Castello della Pieve, dove fu onoratamente sepolto l'anno 1524.
Fece Pietro molti maestri di quella maniera, et uno fra gl'altri che fu veramente eccellentissimo, il quale datosi tutto agl'onorati studi della pittura, passò di gran lunga il maestro: e questo fu il miracoloso Raffaello Sanzio da Urbino, il quale molti anni lavorò con Pietro in compagnia di Giovanni de' Santi suo padre.
Fu anco discepolo di costui il Pinturicchio pittor perugino il quale, come si è detto nella vita sua, tenne sempre la maniera di Pietro.
Fu similmente suo discepolo Rocco Zoppo, pittor fiorentino, di mano del quale ha in un tondo una Nostra Donna molto bella, Filippo Salviati; ma è ben vero ch'ella fu finita del tutto da esso Pietro.
Lavorò il medesimo Rocco molti quadri di Madonne e fece molti ritratti, de' quali non fa bisogno ragionare.
Dirò bene che ritrasse in Roma nella cappella di Sisto, Girolamo Riario e Francesco Piero cardinale di San Sisto.
Fu anco discepolo di Pietro il Montevarchi, che in San Giovanni di Valdarno dipinse molte opere, e particolarmente nella Madonna l'istorie del miracolo del latte.
Lasciò ancora molte opere in Montevarchi sua patria.
Imparò parimente da Pietro e stette assai tempo seco, Gerino da Pistoia, del quale si è ragionato nella vita del Pinturicchio, e così anco Baccio Ubertino fiorentino, il quale fu diligentissimo così nel colorito come nel disegno, onde molto se ne servì Pietro.
Di mano di costui è nel nostro libro un disegno d'un Cristo battuto alla colonna, fatto di penna, che è cosa molto vaga.
Di questo Baccio fu fratello, e similmente discepolo di Pietro, Francesco che fu per sopranome detto il Bacchiacca, il quale fu diligentissimo maestro di figure piccole, come si può vedere in molte opere state da lui lavorate in Firenze, e massimamente in casa Giovanmaria Benintendi et in casa Pierfrancesco Borgherini.
Dilettossi il Bacchiacca di far grottesche; onde al signor duca Cosimo fece uno studiolo pieno d'animali e d'erbe rare, ritratte dalle naturali, che sono tenute bellissime, oltre ciò fece i cartoni per molti panni d'arazzo, che poi furono tessuti di seta da maestro Giovanni Rosto fiammingo, per le stanze del palazzo di sua eccellenza.
Fu ancora discepolo di Pietro, Giovanni Spagnuolo, detto per sopranome lo Spagna, il quale colorì meglio che nessun altro di coloro che lasciò Pietro dopo la sua morte; il quale Giovanni, dopo Pietro si sarebbe fermo in Perugia, se l'invidia dei pittori di quella città, troppo nimici de' forestieri, non l'avessino perseguitato di sorte che gli fu forza ritirarsi in Spoleto, dove per la bontà e virtù sua, fu datogli donna di buon sangue e fatto di quella patria cittadino.
Nel qual luogo fece molte opere, e similmente in tutte l'altre città dell'Umbria.
Et in Ascesi dipinse la tavola della cappella di Santa Caterina nella chiesa di sotto di San Francesco, per il cardinale Egidio Spagnuolo; e parimente una in San Damiano.
In Santa Maria degl'Angeli dipinse nella cappella piccola, dove morì San Francesco, alcune mezze figure, grandi quanto il naturale, cioè alcuni compagni di San Francesco et altri Santi molto vivaci, i quali mettono in mezzo un San Francesco di rilievo.
Ma fra i detti discepoli di Pietro miglior maestro di tutti fu Andrea Luigi d'Ascesi, chiamato l'Ingegno, il quale nella sua prima giovanezza concorse con Raffaello da Urbino sotto la disciplina di esso Pietro, il quale l'adoperò sempre nelle più importanti pitture che facesse; come fu nell'udienza del Cambio di Perugia, dove sono di sua mano figure bellissime, in quelle che lavorò in Ascesi; e finalmente a Roma nella cappella di papa Sisto.
Nelle quali tutte opere diede Andrea tal saggio di sé, che si aspettava che dovesse di gran lunga trappassare il suo maestro; e certo così sarebbe stato; ma la fortuna, che quasi sempre agl'alti principii volentieri s'oppone, non lasciò venire a perfezzione l'Ingegno; perciò che cadendogli un trabocco di scesa negl'occhi, il misero ne divenne, con infinito dolore di chiunche lo conobbe, cieco del tutto.
Il qual caso dignissimo di compassione udendo, papa Sisto (come quello che amò sempre i virtuosi) ordinò che in Ascesi gli fusse ogni anno, durante la vita di esso Andrea, pagata una provisione da chi là maneggiava l'entrate.
E così fu fatto insino a che egli si morì d'anni ottantasei.
Furono medesimamente discepoli di Pietro, e perugini anch'eglino, Eusebio S.
Giorgio, che dipinse in S.
Agostino la tavola de' Magi; Domenico di Paris, che fece molte opere in Perugia, et attorno per le castella, seguitato da Orazio suo fratello; parimente Giannicola, che in S.
Francesco dipinse in una tavola Cristo nell'orto e la tavola d'Ogni Santi in S.
Domenico, alla cappella de' Baglioni, e nella cappella del Cambio istorie di S.
Giovanni Battista in fresco.
Benedetto Caporali, altrimenti Bitti, fu anch'egli discepolo di Piero, e di sua mano sono in Perugia sua patria molte pitture.
E nella architettura s'esercitò di maniera che non solo fece molte opere, ma comentò Vitruvio in quel modo che può vedere ognuno essendo stampato; nei quali studii lo seguitò Giulio suo figliuolo, pittore perugino.
Ma nessuno di tanti discepoli paragonò mai la diligenza di Pietro, né la grazia che ebbe nel colorire in quella sua maniera, la quale tanto piacque al suo tempo, che vennero molti di Francia, di Spagna, d'Alemagna e d'altre provincie, per impararla.
E dell'opere sue si fece come si è detto mercanzia da molti, che le mandarono in diversi luoghi, inanzi che venisse la maniera di Michelagnolo, la quale avendo mostro la vera e buona via a queste arti, l'ha condotte a quella perfezzione che nella Terza seguente Parte si vedrà.
Nella quale si tratterà dell'eccellenza e perfezzione dell'arte, e si mostrerà agl'artefici che chi lavora e studia continuamente, e non a ghiribizzi o a capricci, lascia opere e si acquista nome, facultà et amici.
VITA DI VITTORE SCARPACCIA ET ALTRI PITTORI VINIZIANI E LOMBARDI
Egli si conosce espressamente che quando alcuni de' nostri artefici cominciano in una qualche provincia, che dopo ne seguono molti l'un dopo l'altro; e molte volte ne sono in uno stesso tempo infiniti; perciò che la gara e l'emulazione, e l'avere avuto dependenza chi da uno e chi da un altro maestro eccellente, è cagione che con più fatica cercano gl'artefici di superare l'un l'altro quanto possono maggiormente.
E quando anco molti dependono da un solo, subito che si dividono, o per morte del maestro o per altra cagione, subito viene anco divisa in loro la volontà; onde per parere ognuno il migliore e capo di sé, cerca di mostrare il valor suo.
Di molti dunque che quasi in un medesimo tempo et in una stessa provincia fiorirno, de' quali non ho potuto sapere, né posso scrivere ogni particolare, dirò brevemente alcuna cosa; per non lasciare, trovandomi al fine della Seconda Parte di questa mia opera, indietro alcuni che si sono affaticati per lasciar il mondo adorno dell'opere loro.
De' quali dico, oltre al non aver potuto aver l'intero della vita, non ho anco potuto rinvenire i ritratti, eccetto quello dello Scarpaccia, che per questa cagione ho fatto capo degl'altri.
Accettisi dunque in questa parte quello che io posso; poiché non posso quello che io vorrei.
Furono addunque nella Marca Trivisana et in Lombardia nello spazio di molti anni, Stefano Veronese, Aldigieri da Zevio, Iacopo Davanzo bolognese, Sebeto da Verona, Iacobello de Flore, Guerriero da Padova, Giusto e Girolamo Campagnuola, Giulio suo figliuolo, Vincenzio bresciano, Vittore Sebastiano e Lazaro Scarpaccia viniziani, Vincenzio Carena, Luigi Vivarini, Giovanbatista da Cornigliano, Marco Basarini, Giovanetto Cordegliaghi, il Bassiti, Bartolomeo Vivarino, Giovanni Mansueti, Vittore Bellino, Bartolomeo Montagna da Vicenza, Benedetto Diana e Giovanni Buonconsigli, con molti altri de' quali non accade fare ora menzione.
E per cominciarmi dal primo, dico che Stefano Veronese, del quale dissi alcuna cosa nella vita d'Agnolo Gaddi, fu più che ragionevole dipintore de' tempi suoi; e quando Donatello lavorava in Padova, come nella sua vita si è già detto, andando una volta fra l'altre a Verona, restò maravigliato dell'opere di Stefano, affermando che le cose che egli aveva fatto a fresco, erano le migliori che insino a que' tempi fussero in quelle parti state lavorate.
Le prime opere di costui furono in S.
Antonio di Verona, nel tramezzo della chiesa, in una testa del muro a man manca, sotto il girare d'una volta; e furono una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, e S.
Iacopo e S.
Antonio, che la mettono in mezzo.
Questa opera è tenuta anco al presente bellissima in quella città, per una certa prontezza che si vede nelle dette figure, e particolarmente nelle teste, fatte con molta grazia.
In S.
Niccolò, chiesa parimente e parocchia di quella città, dipinse a fresco un S.
Niccolò, che è bellissimo.
E nella via di S.
Polo, che va alla porta del vescovo, nella facciata d'una casa, dipinse la Vergine con certi Angeli molto belli et un S.
Cristofano.
E nella via del Duomo, sopra il muro della chiesa di S.
Consolata, in uno sfondamento fatto nel muro, dipinse una Nostra Donna et alcuni uccelli, e particolarmente un pavone, sua impresa.
In S.
Eufemia, convento de' frati Eremitani di S.
Agostino, dipinse sopra la porta del fianco un S.
Agostino con due altri santi, sotto il manto del quale S.
Agostino sono assai frati e monache del suo Ordine; ma il più bello di questa opera sono due profeti dal mezzo in su, grandi quanto il vivo; perciò che hanno le più belle e più vivaci teste che mai facesse Stefano; et il colorito di tutta l'opera, per essere stato con diligenza lavorato, si è mantenuto bello insino a' tempi nostri, non ostante che sia stato molto percosso dall'acque, da' venti e dal ghiaccio.
E se questa opera fusse stata al coperto, per non l'avere Stefano ritocca a secco, ma usato diligenza nel lavorarla bene a fresco, ella sarebbe ancora bella e viva, come gli uscì delle mani, dove è pure un poco guasta.
Fece poi dentro alla chiesa, nella cappella del Sagramento, cioè intorno al tabernacolo, alcuni Angeli che volano, una parte de' quali suonano, altri cantano et altri incensano il Sagramento, et una figura di Gesù Cristo, che egli dipinse in cima per finimento del tabernacolo.
Da basso sono altri Angeli che lo reggono, con veste bianche e lunghe insino a' piedi, che quasi finiscono in nuvole, la qual maniera fu propria di Stefano nelle figure degl'Angeli, i quali fece sempre molto nel volto graziosi e di bellissima aria.
In questa medesima opera è da un lato S.
Agostino e dall'altro S.
Ieronimo in figure grandi quanto è il naturale, e questi con le mani sostengono la chiesa di Dio, quasi mostrando che ambiduoi con la dottrina loro difendono la S.
Chiesa dagli eretici, e la sostengono.
Nella medesima chiesa dipinse a fresco in un pilastro della cappella maggiore una S.
Eufemia con bella e graziosa aria di viso; e vi scrisse a lettere d'oro il nome suo, parendogli forse, come è in effetto, ch'ella fusse una delle migliori pitture che avesse fatto; e secondo il costume suo, vi dipinse un pavone bellissimo, et appresso due lioncini, i quali non sono molto belli, perché non poté allora vederne de' naturali, come fece il pavone.
Dipinse ancora in una tavola del medesimo luogo, sì come si costumava in que' tempi, molte figure dal mezzo in su, cioè S.
Nicola da Tolentino et altri; e la predella fece piena di storie in figure piccole della vita di quel Santo.
In S.
Fermo, chiesa della medesima città dei frati di S.
Francesco, nel riscontro dell'entrare per la porta del fianco, fece per ornamento d'un Deposto di croce, XII profeti dal mezzo in su, grandi quanto il naturale, et a' piedi loro Adamo et Eva a giacere, et il suo solito pavone, quasi contrasegno delle pitture fatte da lui.
Il medesimo Stefano dipinse in Mantova nella chiesa di S.
Domenico alla porta del Martello, una bellissima Nostra Donna, la testa della quale, per avere avuto bisogno i padri di murare in quel luogo, hanno con diligenza posta nel tramezzo della chiesa, alla cappella di S.
Orsola, che è della famiglia de' Recuperati, dove sono alcune pitture a fresco di mano del medesimo.
E nella chiesa di S.
Francesco sono, quando si entra a man destra della porta principale, una fila di cappelle murate già dalla nobil famiglia della Ramma, in una delle quali è dipinto nella volta, di mano di Stefano, i quattro Evangelisti a sedere, e dietro alle spalle loro, per campo, fece alcune spalliere di rosai, con uno intessuto di canne a mandorle e variati alberi sopra, et altre verdure piene d'uccelli e particolarmente di pavoni.
Vi sono anco alcuni Angeli bellissimi.
In questa medesima chiesa dipinse una S.
Maria Maddalena grande quanto il naturale, in una colonna, entrando in chiesa a man ritta.
E nella strada detta Rompilanza della medesima città, fece a fresco in un frontespizio d'una porta, una Nostra Donna col Figliuolo in braccio et alcuni Angeli dinanzi a lei in ginocchioni, et il campo fece d'alberi pieni di frutte.
E queste sono l'opere che si truova esser state lavorate da Stefano, se ben si può credere, essendo vivuto assai, che ne facesse molte altre.
Ma come non ne ho potuto alcun'altra rinvenire, così né il cognome, né il nome del padre, né il ritratto suo, né altro particolare.
Alcuni affermano che prima che venisse a Firenze, egli fu discepolo di maestro Liberale, pittore veronese, ma questo non importa, basta che imparò tutto quello che in lui fu di buono, in Fiorenza da Agnolo Gaddi.
Fu della medesima città di Verona Aldigieri da Zevio, famigliarissimo de' signori della Scala, il quale dipinse, oltre a molte altre opere, la sala grande del palazzo loro, nella quale oggi abita il Podestà, facendovi la guerra di Gerusalemme, secondo che è scritta da Iosafo.
Nella quale opera mostrò Aldigieri grande animo e giudizio, spartendo nelle facce di quella sala, da ogni banda, una storia con un ornamento solo, che la ricigne attorno; nel quale ornamento posa dalla parte di sopra, quasi per fine, un partimento di medaglie, nelle quali si crede che siano ritratti di naturale molti uomini segnalati di que' tempi, et in particolare molti di que' signori della Scala, ma perché non se ne sa il vero, non ne dirò altro.
Dirò bene che Aldigieri mostrò in questa opera d'avere ingegno, giudizio et invenzione, avendo considerato tutte le cose che si possono in una guerra d'importanza considerare.
Oltre ciò il colorito si è molto bene mantenuto, e fra molti ritratti di grandi uomini e litterati, vi si conosce quello di Messer Francesco Petrarca.
Iacopo Avanzi pittore bolognese, fu nell'opere di questa sala concorrente d'Aldigieri, e sotto le sopradette pitture dipinse, similmente a fresco, due trionfi bellissimi e con tanto artifizio e buona maniera che afferma Girolamo Campagnuola che il Mantenga gli lodava come pittura rarissima.
Il medesimo Iacopo insieme con Aldigieri e Sebeto da Verona dipinse in Padova la cappella di S.
Giorgio che è allato al tempio di S.
Antonio, secondo che per lo testamento era stato lasciato dai marchesi di Carrara.
La parte di sopra dipinse Iacopo Avanzi; di sotto, Aldigieri alcune storie di S.
Lucia et un cenacolo; e Sebeto vi dipinse storie di S.
Giovanni.
Dopo tornati tutti e tre questi maestri in Verona, dipinsero insieme in casa de' conti Serenghi un par di nozze, con molti ritratti et abiti di que' tempi.
Ma di tutte l'opere di Iacopo Avanzi fu tenuta la migliore; ma perché di lui si è fatto menzione nella vita di Niccolò d'Arezzo per l'opere che fece in Bologna a concorrenza di Simone, Cristofano e Galasso pittori, non ne dirò altro in questo luogo.
In Venezia ne' medesimi tempi fu tenuto in pregio, se bene tenne la maniera greca, Iacobello de Flore, il qual in quella città fece opere assai, e particolarmente una tavola alle monache del Corpus Domini, che è posta nella lor chiesa all'altar di S.
Domenico.
Fu concorrente di costui Giromin Morzone, che dipinse in Vinezia et in molte città di Lombardia assai cose, ma perché tenne la maniera vecchia e fece le sue figure in punta di piedi, non diremo di lui se non che è di sua mano una tavola nella chiesa di S.
Lena all'altare dell'Assunzione, con molti Santi.
Fu molto miglior maestro di costui Guariero pittor padovano, il quale, oltre a molte altre cose, dipinse la cappella maggiore de' frati Eremitani di S.
Agostino in Padoa et una cappella ai medesimi nel primo chiostro; un'altra cappelletta in casa Urbano prefetto, e la sala degl'imperadori romani, dove nel tempo di carnovale vanno gli scolari a danzare.
Fece anco a fresco nella cappella del podestà, della città medesima, alcune storie del Testamento Vecchio.
Giusto, pittore similmente padovano, fece fuor della chiesa del Vescovado nella cappella di S.
Giovanni Batista, non solo alcune storie del Vecchio e Nuovo Testamento, ma ancora le revelazioni de l'Apocalisse di S.
Giovanni evangelista, e nella parte di sopra fece in un Paradiso, con belle considerazioni, molti cori d'Angeli et altri ornamenti.
Nella chiesa di S.
Antonio lavorò a fresco la cappella di S.
Luca, e nella chiesa degl'Eremitani di S.
Agostino dipinse in una cappella l'arti liberali; et appresso a quelle le virtù et i vizii, e così coloro che per le virtù sono stati celebrati, come quelli che per i vizii sono in estrema miseria rovinati e nel profondo dell'Inferno.
Lavorò anco in Padova, a' tempi di costui, Stefano pittore ferrarese, il quale, come altrove si è detto, ornò di varie pitture la cappella e l'arca, dove è il corpo di S.
Antonio, e così la Vergine Maria, detta del Pilastro.
Fu tenuto in pregio ne' medesimi tempi Vincenzio pittore bresciano, secondo che racconta il Filareto, e Girolamo Campignuola, anch'egli pittore padoano e discepolo dello Squarcione.
Giulio poi, figliuolo di Girolamo, dipinse, miniò et intagliò in rame molte belle cose, così in Padova come in altri luoghi.
Nella medesima Padova lavorò molte cose Niccolò Moreto, che visse ottanta anni e sempre esercitò l'arte; et oltre a questi molti altri, che ebbono dependenza da Gentile e Giovanni Bellini.
Ma Vittore Scarpaccia fu veramente il primo che fra costoro facesse opere di conto; e le sue prime opere furono nella scuola di S.
Orsola, dove in tela fece la maggior parte delle storie che vi sono, della vita e morte di quella Santa; le fatiche delle quali pitture egli seppe sì ben condurre, e con tanta diligenza et arte, che n'acquistò nome di molto accommodato e pratico maestro.
Il che fu, secondo che si dice, cagione che la nazione milanese gli fece fare ne' frati minori una tavola alla cappella loro di S.
Ambrogio, con molte figure a tempra.
Nella chiesa di S.
Antonio, all'altare di Cristo risuscitato, dove dipinse quando egli aparisce alla Maddalena et altre Marie, fece una prospettiva di paese lontano che diminuisce, molto bella.
In un'altra cappella dipinse la storia de' martiri, cioè quando furono crucifissi, nella quale opera fece meglio che trecento figure, fra grandi e piccole, et in oltre cavalli et alberi assai, un cielo aperto, diverse attitudini di nudi e vestiti, molti scorti e tante altre cose, e si può vedere che egli non la conducesse se non con fatica straordinaria.
Nella chiesa di S.
Iob in Canareio all'altare della Madonna fece quando ella presenta Cristo piccolino a Simeone, dove gli figurò essa Madonna ritta, e Simeone col piviale in mezzo a due ministri vestiti da cardinali.
Dietro alla Vergine sono due donne, una delle quali ha due colombe.
E da basso sono tre putti, che suonano un liuto, una storta et una lira, o vero viola: et il colorito di tutta la tavola è molto vago e bello.
E nel vero fu Vittore molto diligente e pratico maestro, e molti quadri che sono di sua mano in Vinezia e ritratti di naturale et altro, sono molto stimati per cose fatte in que' tempi.
Insegnò costui l'arte a due suoi fratelli, che l'immitarono assai: l'uno fu Lazaro e l'altro Sebastiano, di mano de' quali è nella chiesa delle monache di Corpus Domini, all'altare della Vergine, una tavola dove ella è a sedere in mezzo a S.
Caterina e S.
Marta, con altre Sante e due Angeli che suonano, et una prospettiva di casamenti, per campo di tutta l'opera, molto bella, della quale n'avemo i proprii disegni di mano di costoro nel nostro libro.
Fu anco pittore ragionevole ne' tempi di costoro Vincenzio Catena, che molto più si adoperò in fare ritratti di naturale, che in alcuna altra sorte di pitture, et invero alcuni che si veggiono di sua mano, sono maravigliosi, e fra gl'altri quello d'un tedesco de' Fucheri, persona onorata e di conto, che allora stava in Vinezia nel Fondaco de' tedeschi, fu molto vivamente dipinto.
Fece anco molte opere in Vinezia, quasi ne' medesimi tempi, Giovanbatista da Conigliano, discepolo di Giovan Bellino; di mano del quale è nella detta chiesa delle monache del Corpus Domini una tavola all'altare di S.
Piero martire, dove è detto Santo, S.
Niccolò e S.
Benedetto, con una prospettiva di paesi, un Angelo che accorda una cetera, e molte figure piccole, più che ragionevoli.
E se costui non fusse morto giovane, si può credere che arebbe paragonato il suo maestro.
Non ebbe anco se non nome di buon maestro, nell'arte medesima e ne' medesimi tempi, Marco Basarini, il quale dipinse in Venezia dove nacque di padre e madre greci, in S.
Francesco della Vigna, in una tavola, un Cristo deposto di croce, e nella chiesa di S.
Iob in un'altra tavola un Cristo nell'orto, et a basso i tre Apostoli che dormono, e S.
Francesco e S.
Domenico con due altri Santi; ma quello che più fu lodato di questa opera, fu un paese con molte figurine fatte con buona grazia.
Nella medesima chiesa dipinse l'istesso Marco, S.
Bernardino sopra un sasso, con altri Santi.
Giannetto Cordegliaghi fece nella medesima città infiniti quadri da camera, anzi non attese quasi ad altro, e nel vero ebbe in cotal sorte di pittura una maniera molto delicata e dolce, e migliore assai che quella dei sopra detti.
Dipinse costui in S.
Pantaleone, in una cappella accanto alla maggiore, S.
Piero che disputa con due altri Santi; i quali hanno indosso bellissimi panni e sono condotti con bella maniera.
Marco Bassiti fu quasi ne' medesimi tempi in buon conto, et è sua opera una gran tavola in Vinezia nella chiesa d'i frati di Certosa; nella quale dipinse Cristo in mezzo di Piero e d'Andrea nel Mare di Tiberiade et i figliuoli di Zebedeo, facendovi un braccio di mare, un monte e parte d'una città con molte persone in figure piccole.
Si potrebbono di costui molte altre opere raccontare, ma basti aver detto di questa che è la migliore.
Bartolomeo Vivarino da Murano si portò anch'egli molto bene nell'opere che fece, come si può vedere, oltre a molte altre, nella tavola che fece all'altare di S.
Luigi, nella chiesa di S.
Giovanni e Polo, nella quale dipinse il detto S.
Luigi a sedere col piviale indosso, S.
Gregorio, S.
Bastiano e S.
Domenico, e dall'altro lato S.
Niccolò, S.
Girolamo e S.
Rocco, e sopra questi altri Santi infino a mezzo.
Lavorò ancora benissimo le sue pitture, e si dilettò molto di contrafare le cose naturali, figure e paesi lontani, Giovanni Mansueti, che imitando assai l'opere di Gentile Bellino, fece in Vinezia molte pitture.
E nella scuola di S.
Marco, in testa all'udienza, dipinse un S.
Marco che predica in sulla piazza, ritraendovi la facciata della chiesa, e fra la moltitudine degl'uomini e delle donne che l'ascoltano, turchi, greci e volti d'uomini di diverse nazioni, con abiti stravaganti.
Nel medesimo luogo, dove fece in un'altra storia S.
Marco che sana un infermo, dipinse una prospettiva di due scale e molte loggie.
In un altro quadro vicino a questo fece un S.
Marco che converte alla fede di Cristo una infinità di popoli, et in questo fece un tempio aperto e sopra un altare un Crucifisso; e per tutta l'opera diversi personaggi con bella varietà d'arie, d'abiti e di teste.
Dopo costui, seguitò di lavorare nel medesimo luogo Vittore Bellini, che vi fece, dove in una storia S.
Marco è preso e legato, una prospettiva di casamenti che è ragionevole e con assai figure, nelle quali imitò i suoi passati.
Dopo costoro fu ragionevole pittore Bartolomeo Montagna vicentino, che abitò sempre in Vinezia e vi fece molte pitture; et in Padova dipinse una tavola nella chiesa di S.
Maria d'Artone.
Parimente Benedetto Diana fu non meno lodato pittore che si fussero i sopra scritti, come in fra l'altre sue cose lo dimostra l'opere che sono di sua mano in Vinezia, in S.
Francesco della Vigna, dove all'altare di S.
Giovanni fece esso santo ritto in mezzo a due altri Santi, che hanno in mano ciascuno un libro.
Fu anco tenuto in grado di buon maestro Giovanni Buonconsigli, che nella chiesa di S.
Giovanni e Paulo, all'altare di S.
Tomaso d'Aquino, dipinse quel Santo circondato da molti ai quali legge la scrittura sacra, e vi fece una prospettiva di casamenti che non è se non lodevole.
Dimorò anco quasi tutto il tempo di sua vita in Vinezia Simon Bianco, scultore fiorentino, e Tullio Lombardo molto pratico intagliatore.
In Lombardia parimente sono stati eccellenti Bartolomeo Clemento da Reggio et Agostino Busto scultori.
E nell'intaglio Iacopo Davanzo milanese e Gasparo e Girolamo Misceroni.
In Brescia fu pratico e valentuomo nel lavorare in fresco Vincenzio Verchio, il quale per le belle opere sue s'acquistò grandissimo nome nella patria.
Il simile fece Girolamo Romanino, bonissimo pratico e disegnatore, come apertamente dimostrano l'opere sue fatte in Brescia et intorno a molte miglia.
Né fu da meno di questi, anzi gli passò, Alessandro Moretto, delicatissimo ne' colori e tanto amico della diligenza, quanto l'opere da lui fatte ne dimostrano.
Ma tornando a Verona, nella quale città sono fioriti et oggi fioriscono più che mai eccellenti artefici, vi furono già Francesco Bonsignori e Francesco Caroto eccellenti; e dopo, maestro Zeno veronese, che in Arimini lavorò la tavola di S.
Marino e due altre con molta diligenza.
Ma quello che più di tutti gl'altri ha fatto alcune figure di naturale che sono maravigliose, è stato il Moro veronese, o vero come altri lo chiamavano, Francesco Turbido, di mano del quale è oggi in Vinezia in casa Monsignor de' Martini il ritratto d'un gentiluomo da Ca' Badovaro, figurato di un pastore che par vivissimo, e può stare a paragone di quanti ne sono stati fatti in quelle parti.
Parimente Batista d'Angelo, genero di costui, è così vago nel colorito e pratico nel disegno, che più tosto avanza, che sia inferiore al Moro.
Ma perché non è di mia intenzione parlare al presente de' vivi, voglio che mi basti, come dissi nel principio di questa vita, avere in questo luogo d'alcuni ragionato, de' quali non ho potuto sapere così minutamente la vita et ogni particolare, acciò la virtù e meriti loro da me abbiano al meno tutto quel poco che io, il quale molto vorrei, posso dar loro.
VITA DI IACOPO DETTO L'INDACO PITTORE
Iacopo detto l'Indaco, il quale fu discepolo di Domenico del Ghirlandaio, et in Roma lavorò con Pinturicchio, fu ragionevole maestro ne' tempi suoi; e se bene non fece molte cose, quelle nondimeno che furono da lui fatte sono da esser comendate.
Né è gran fatto che non uscissero se non pochissime opere delle sue mani, perciò che essendo persona faceta, piacevole e di buon tempo, alloggiava pochi pensieri e non voleva lavorare se non quando non poteva far altro; e perciò usava di dire che il non mai fare altro che affaticarsi senza pigliarsi un piacere al mondo, non era cosa da cristiani.
Praticava costui molto dimesticamente con Michelagnolo, perciò che quando voleva quell'artefice, eccellentissimo sopra quanti ne furono mai, ricrearsi dagli studii e dalle continue fatiche del corpo e della mente, niuno gli era perciò più a grado, né più secondo l'umor suo, che costui.
Lavorò Iacopo molti anni in Roma, o per meglio dire, stette molti anni in Roma e vi lavorò pochissimo.
È di sua mano in quella città nella chiesa di S.
Agostino, entrando in chiesa per la porta della facciata dinanzi a man ritta, la prima cappella, nella volta della quale sono gl'Apostoli che ricevono lo Spirito Santo; e di sotto sono nel muro due storie di Cristo, nell'una quando toglie dalle reti Pietro et Andrea, e nell'altra la cena di Simone e di Maddalena, nella quale è un palco di legno e di travi molto ben contrafatto.
Nella tavola della medesima cappella, la quale egli dipinse a olio, è un Cristo morto, lavorato e condotto con molta pratica e diligenza.
Parimente nella Trinità di Roma è di sua mano in una tavoletta, la coronazione di Nostra Donna.
Ma che bisogna o che si può di costui altro raccontare? Basta che quanto fu vago di cicalare tanto fu sempre nimico di lavorare e del dipignere.
E perché come si è detto, si pigliava piacer Michelagnelo delle chiacchiere di costui e delle burle che spesso faceva, lo teneva quasi sempre a mangiar seco; ma essendogli un giorno venuto costui a fastidio, come il più delle volte vengono questi cotali agl'amici e padroni loro, col troppo e bene spesso fuor di proposito e senza discrezione, cicalare - perché ragionare non si può dire, non essendo in simili per lo più né ragione, né giudizio - lo mandò Michelagnolo, per levarselo dinanzi allora che aveva forse altra fantasia, a comperare de' fichi; et uscito che Iacopo fu di casa, gli serrò Michelagnolo l'uscio dietro con animo, quando tornava, di non gl'aprire.
Tornato dunque l'Indaco di piazza, s'avvide, dopo aver picchiato un pezzo la porta invano, che Michelagnolo non voleva aprirgli; perché venutogli collera, prese le foglie et i fichi, e fattone una bella distesa in sulla soglia della porta, si partì e stette molti mesi che non volle favellare a Michelagnolo; pure finalmente rappattumatosi gli fu più amico che mai.
Finalmente, essendo vecchio di 68 anni, si morì in Roma.
Non dissimile a Iacopo fu un suo fratello minore, chiamato per proprio nome Francesco, e poi per soprannome anch'egli l'Indaco, che fu similmente dipintore più che ragionevole.
Non gli fu dissimile dico nel lavorare più che mal volentieri, e nel ragionare assai; ma in questo avanzava costui Iacopo perché sempre diceva male d'ognuno, e l'opere di tutti gl'artefici biasimava.
Costui dopo avere alcune cose lavorate in Montepulciano, e di pittura e di terra, fece in Arezzo, per la Compagnia della Nunziata, in una tavoletta per l'udienza, una Nunziata et un Dio Padre in cielo, circondato da molti Angeli in forma di putti.
E nella medesima città fece la prima volta che vi andò il Duca Alessandro, alla porta del palazzo de' signori, un arco trionfale bellissimo con molte figure di rilievo; e parimente a concorrenza d'altri pittori, che assai altre cose per la detta entrata del Duca lavorarono, la prospettiva d'una comedia, che fu tenuta molto bella.
Dopo andato a Roma, quando vi si aspettava l'imperadore Carlo Quinto, vi fece alcune figure di terra, e per il popolo romano un'arme a fresco in Campidoglio, che fu molto lodata.
Ma la miglior opera che mai uscisse delle mani di costui, e la più lodata, fu nel palazzo de' Medici in Roma, per la duchessa Margherita d'Austria, uno studiolo di stucco tanto bello e con tanti ornamenti, che non è possibil veder meglio; né credo che sia in un certo modo possibile far d'argento quello che in questa opera l'Indaco fece di stucco.
Dalle quali cose si fa giudizio che se costui si fusse dilettato di lavorare et avesse esercitato l'ingegno, che sarebbe riuscito eccellente.
Disegnò Francesco assai bene, ma molto meglio Iacopo, come si può vedere nel nostro libro.
VITA DI LUCA SIGNORELLI DA CORTONA PITTORE
Luca Signorelli, pittore eccellente del quale secondo l'ordine de' tempi devemo ora parlarne, fu ne' suoi tempi tenuto in Italia tanto famoso e l'opere sue in tanto pregio, quanto nessun'altro in qualsivoglia tempo sia stato già mai; perché nell'opere che fece di pittura, mostrò il modo di fare gl'ignudi, e che si possono sì bene con arte e difficultà far parer vivi.
Fu costui creato e discepolo di Pietro dal Borgo a Sansepolcro, e molto nella sua giovanezza si sforzò d'imitare il maestro, anzi di passarlo; mentre che lavorò in Arezzo con esso lui, tornandosi in casa di Lazzero Vasari suo zio, come s'è detto, imitò in modo la maniera di detto Pietro, che quasi l'una dall'altra non si conosceva.
Le prime opere di Luca furono in San Lorenzo d'Arezzo, dove dipinse, l'anno 1472, a fresco la cappella di S.
Barbara; et alla Compagnia di S.
Caterina, in tela a olio, il segno che si porta a processione, similmente quello della Trinità, ancora che non paia di mano di Luca, ma di esso Pietro dal Borgo.
Fece in S.
Agostino in detta città la tavola di S.
Nicola da Tolentino, con istoriette bellissime, condotta da lui con buon disegno et invenzione; e nel medesimo luogo fece alla cappella del Sagramento, due Angeli lavorati in fresco.
Nella chiesa di S.
Francesco alla cappella degl'Acolti fece per Messer Francesco, dottore di legge, una tavola nella quale ritrasse esso Messer Francesco et alcune sue parenti; in questa opera è un S.
Michele che pesa l'anime, il quale è mirabile; et in esso si conosce il saper di Luca, nello splendore dell'armi, nelle reverberazioni et insomma in tutta l'opera; gli mise in mano un paio di bilanze, nelle quali gl'ignudi, che vanno uno in su e l'altro in giù, sono scorti bellissimi.
E fra l'altre cose ingegnose che sono in questa pittura, vi è una figura ignuda benissimo trasformata in un diavolo, al quale un ramarro lecca il sangue d'una ferita.
Vi è oltre ciò, una Nostra Donna col Figliuolo in grembo, S.
Stefano, S.
Lorenzo, una S.
Caterina, e due Angeli, che suonano uno un liuto e l'altro un ribechino, e tutte sono figure vestite et adornate tanto, che è maraviglia; ma quello che vi è più miracoloso, è la predella piena di figura piccole de' fatti di detta S.
Caterina.
In Perugia ancora fece molte opere, e fra l'altre, in Duomo, per Messer Iacopo Vannucci cortonese vescovo di quella città, una tavola; nella quale è la Nostra Donna, S.
Nonofrio, S.
Ercolano, S.
Giovanni Batista e S.
Stefano; et un Angelo che tempera un liuto, bellissimo.
A Volterra dipinse in fresco nella chiesa di S.
Francesco, sopra l'altare d'una compagnia, la Circoncisione del Signore, che è tenuta bella a maraviglia, se bene il Putto avendo patito per l'umido, fu rifatto dal Soddoma molto men bello che non era.
E nel vero sarebbe meglio tenersi alcuna volta le cose fatte da uomini eccellenti più tosto mezzo guaste, che farle ritoccare a chi sa meno.
In S.
Agostino della medesima città fece una tavola a tempera e la predella di figure piccole, con istorie della Passione di Cristo, che è tenuta bella straordinariamente.
Al Monte a S.
Maria dipinse a quei signori in una tavola un Cristo morto, et a Città di Castello in S.
Francesco, una Natività di Cristo, et in S.
Domenico in una altra tavola un S.
Bastiano.
In S.
Margherita di Cortona sua patria, luogo de' frati del Zoccolo, un Cristo morto, opera delle sue rarissima.
E nella Compagnia del Gesù, nella medesima città, fece tre tavole, delle quali quella ch'è allo altar maggiore è maravigliosa dove Cristo comunica gl'Apostoli e Giuda si mette l'ostia nella scarsella.
E nella Pieve oggi detta il Vescovado, dipinse a fresco, nella cappella del Sagramento, alcuni Profeti grandi quanto il vivo; et intorno al tabernacolo alcuni Angeli che aprono un padiglione; e dalle bande un S.
Ieronimo et un S.
Tomaso d'Aquino.
All'altar maggiore di detta chiesa fece in una tavola una bellissima Assunta; e disegnò le pitture dell'occhio principale di detta chiesa, che poi furono messe in opera da Stagio Sassoli d'Arezzo.
In Castiglioni Aretino fece sopra la cappella del Sacramento un Cristo morto, con le Marie.
Et in S.
Francesco di Lucignano gli sportelli d'un armario, dentro al quale sta un albero di coralli che ha una croce a sommo.
A Siena fece in S.
Agostino una tavola alla cappella di S.
Cristofano, dentrovi alcuni Santi che mettono in mezzo un S.
Cristofano di rilievo.
Da Siena venuto a Firenze, così per vedere l'opere di quei maestri che allora vivevano, come quelle di molti passati, dipinse a Lorenzo de' Medici in una tela, alcuni dei ignudi, che gli furono molto comendati; et un quadro di Nostra Donna con due Profeti piccoli di terretta, il quale è oggi a Castello, villa del duca Cosimo; e l'una e l'altra opera donò al detto Lorenzo, il quale non volle mai da niuno esser vinto in esser liberale e magnifico.
Dipinse ancora un tondo di una Nostra Donna, che è nell'udienza de' capitani di Parte Guelfa, bellissimo.
A Chiusuri in quel di Siena, luogo principale de' monaci di Monte Oliveto, dipinse in una banda del chiostro undici storie della vita e fatti di S.
Benedetto.
E da Cortona mandò dell'opere sue a Monte Pulciano, a Foiano la tavola dell'altar maggiore che è nella Pieve, et in altri luoghi di Valdichiana.
Nella Madonna d'Orvieto, chiesa principale, finì di sua mano la cappella, che già vi aveva cominciato fra' Giovanni da Fiesole; nella quale fece tutte le storie della fine del mondo con bizzarra e capriciosa invenzione: Angeli, demoni, rovine, terremuoti, fuochi, miracoli d'anticristo, e molte altre cose simili; oltre ciò, ignudi, scorti e molte belle figure, immaginandosi il terrore che sarà in quello estremo e tremendo giorno.
Per lo che destò l'animo a tutti quelli che sono stati dopo lui, onde hanno poi trovato agevoli le difficultà di quella maniera.
Onde io non mi maraviglio se l'opere di Luca furono da Michelagnolo sempre sommamente lodate, né se in alcune cose del suo divino Giudizio, che fece nella cappella, furono da lui gentilmente tolte in parte dall'invenzioni di Luca, come sono Angeli, demoni, l'ordine de' cieli et altre cose, nelle quali esso Michelagnolo immitò l'andar di Luca, come può vedere ognuno.
Ritrasse Luca nella sopra detta opera molti amici suoi e se stesso: Niccolò, Paulo e Vitellozzo Vitelli, Giovan Paulo et Orazio Baglioni et altri, che non si sanno i nomi.
In S.
Maria di Loreto dipinse a fresco nella sagrestia i quattro Evangelisti, i quattro Dottori et altri Santi, che sono molto belli; e di questa opera fu da papa Sisto liberalmente rimunerato.
Dicesi che essendogli stato occiso in Cortona un figliuolo che egli amava molto, bellissimo di volto e di persona, che Luca così addolorato lo fece spogliare ignudo e con grandissima constanza d'animo, senza piangere o gettar lacrima lo ritrasse, per vedere sempre che volesse, mediante l'opera delle sue mani quella che la natura gli aveva dato e tolto la nimica fortuna.
Chiamato poi dal detto papa Sisto a lavorare nella cappella del palazzo, a concorrenza di tanti pittori, dipinse in quella due storie, che fra tante, son tenute le migliori: l'una è il testamento di Mosè al popolo ebreo nell'avere veduto la terra di promessione; e l'altra la morte sua.
Finalmente avendo fatte opere quasi per tutti i principi d'Italia et essendo già vecchio, se ne tornò a Cortona, dove in que' suoi ultimi anni lavorò più per piacere che per altro, come quello che avvezzo alle fatiche, non poteva, né sapeva starsi ozioso.
Fece dunque in detta sua vecchiezza una tavola alle monache di S.
Margherita d'Arezzo, et una alla Compagnia di S.
Girolamo, parte della quale pagò Messer Niccolò Gamurrini dottor di legge auditor di ruota: il quale in essa tavola è ritratto di naturale, in ginocchioni dinanzi alla Madonna, alla quale lo presenta uno S.
Niccolò che è in detta tavola.
Sonovi ancora S.
Donato e S.
Stefano, e più abbasso un S.
Girolamo ignudo, et un Davit che canta sopra un salterio; vi sono anco due Profeti, i quali, per quanto ne dimostrano i brevi che hanno in mano, trattano della concezzione.
Fu condotta quest'opera da Cortona in Arezzo, sopra le spalle degl'uomini di quella Compagnia; e Luca, così vecchio come era, volle venire a metterla su et in parte a rivedere gl'amici e parenti suoi.
E perché alloggiò in casa de' Vasari, dove io era piccolo fanciullo d'otto anni, mi ricorda che quel buon vecchio, il quale era tutto grazioso e pulito, avendo inteso dal maestro che m'insegnava le prime lettere, che io non attendeva ad altro in iscuola che a far figure, mi ricorda, dico, che voltosi ad Antonio mio padre gli disse: "Antonio, poi che Giorgino non traligna, fa ch'egli impari a disegnare in ogni modo, perché quando anco attendesse alle lettere, non gli può essere il disegno, sì come è a tutti i galantuomini, se non d'utile, d'onore e di giovamento".
Poi rivolto a me, che gli stava diritto inanzi, disse: "Impara parentino".
Disse molte altre cose di me, le quali taccio perché conosco non avere a gran pezzo confermata l'openione che ebbe di me quel buon vecchio; e perché egli intese, sì come era vero, che il sangue in sì gran copia m'usciva in quell'età dal naso, che mi lasciava alcuna volta tramortito, mi pose di sua mano un diaspro al collo, con infinita amorevolezza; la qual memoria di Luca mi starà in eterno fissa nell'animo.
Messa al luogo suo la detta tavola, se ne tornò a Cortona, accompagnato un gran pezzo da molti cittadini et amici e parenti, sì come meritava la virtù di lui, che visse sempre più tosto da signore e gentiluomo onorato, che da pittore.
Ne' medesimi tempi, avendo a Silvio Passerini, cardinale di Cortona, murato un palazzo, un mezzo miglio fuor della città, Benedetto Caporali, dipintore perugino, il quale, dilettandosi dell'architettura aveva poco inanzi comentato Vitruvio, volle il detto cardinale che quasi tutto si dipignesse.
Per ché messovi mano Benedetto, con l'aiuto di Maso Papacello cortonese, il quale era suo discepolo et aveva anco imparato assai da Giulio Romano, come si dirà, e da Tommaso et altri discepoli e garzoni, non rifinò che l'ebbe quasi tutto dipinto a fresco.
Ma volendo il cardinale avervi anco qualche pittura di mano di Luca, egli così vecchio et impedito dal parletico, dipinse a fresco nella facciata dell'altare della cappella di quel palazzo, quando San Giovanni Batista battezza il Salvatore; ma non potette finirla del tutto, perché mentre l'andava lavorando si morì, essendo vecchio d'ottantadue anni.
Fu Luca persona d'ottimi costumi, sincero et amorevole con gl'amici, e di conversazione dolce e piacevole con ognuno, e sopratutto cortese a chiunche ebbe bisogno dell'opera sua e facile nell'insegnare a' suoi discepoli.
Visse splendidamente e si dilettò di vestir bene; per le quali buone qualità fu sempre nella patria e fuori in somma venerazione.
Così col fine della vita di costui, che fu nel 1521, porremo fine alla Seconda Parte di queste vite, terminando in Luca come in quella persona che col fondamento del disegno e delli ignudi particolarmente e con la grazia della invenzione e disposizione delle istorie aperse alla maggior parte delli artefici la via all'ultima perfezzione dell'arte, alla quale poi poterono dar cima quelli che seguirono, de' quali noi ragioneremo per inanzi.
IL FINE DELLA SECONDA PARTE
DELLE VITE DE' PITTORI, SCULTORI ET ARCHITETTORI CHE SONO STATI DA CIMABUE IN QUA
SCRITTE DA MESSER GIORGIO VASARI PITTORE ARETINO
PARTE TERZA
PROEMIO
Veramente grande augumento fecero alle arti della architettura, pittura e scultura quelli eccellenti Maestri che noi abbiamo descritti sin qui, nella Seconda Parte di queste Vite; aggiugnendo alle cose de' primi regola, ordine, misura, disegno e maniera se non in tutto perfettamente, tanto almanco vicino al vero, che i terzi, di chi noi ragioneremo da qui avanti, poterono mediante quel lume sollevarsi e condursi alla somma perfezzione, dove abbiamo le cose moderne di maggior pregio e più celebrate.
Ma perché più chiaro ancor si conosca la qualità del miglioramento che ci hanno fatto i predetti artefici, non sarà certo fuori di proposito dichiarare, in poche parole, i cinque aggiunti che io nominai, e discorrer succintamente donde sia nato quel vero buono, che superato il secolo antico, fa il moderno sì glorioso.
Fu adunque la regola nella architettura il modo del misurare delle anticaglie, osservando le piante degli edificii antichi nelle opere moderne; l'ordine fu il dividere l'un genere dall'altro, sì che toccasse ad ogni corpo le membra sue, e non si cambiasse più tra loro il dorico, lo ionico, il corinzio et il toscano; e la misura fu universale, sì nella architettura, come nella scultura, fare i corpi delle figure retti, dritti e con le membra organizzate parimente; et il simile nella pittura.
Il disegno fu lo imitare il più bello della natura in tutte le figure, così scolpite come dipinte, la qual parte viene dallo aver la mano e l'ingegno che raporti tutto quello che vede l'occhio in sul piano, o disegni o in su fogli o tavola o altro piano, giustissimo et a punto; e così di rilievo nella scultura; la maniera venne poi la più bella, dall'avere messo in uso il frequente ritrarre le cose più belle; e da quel più bello, o mani o teste o corpi o gambe aggiugnerle insieme e fare una figura di tutte quelle bellezze che più si poteva; e metterla in uso in ogni opera per tutte le figure, che per questo si dice esser bella maniera.
Queste cose non l'aveva fatte Giotto, né que' primi artefici, se bene eglino avevano scoperto i principii di tutte queste difficoltà, e toccatele in superficie, come nel disegno, più vero che non era prima e più simile alla natura, e così l'unione de' colori et i componimenti delle figure nelle storie e molte altre cose, da le quali a bastanza s'è ragionato.
Ma se bene i secondi agomentarono grandemente a queste arti tutte le cose dette di sopra, elle non erano però tanto perfette, che elle finissino di aggiugnere all'intero della perfezzione.
Mancandoci ancora nella regola, una licenzia, che non essendo di regola, fosse ordinata nella regola e potesse stare senza fare confusione o guastare l'ordine, il quale aveva bisogno d'una invenzione copiosa di tutte le cose e d'una certa bellezza continuata in ogni minima cosa, che mostrasse tutto quell'ordine con più ornamento.
Nelle misure mancava uno retto giudizio, che senza che le figure fussino misurate avessero in quelle grandezze, ch'elle eran fatte, una grazia che eccedesse la misura.
Nel disegno non v'erano gli estremi del fine suo, perché se bene e' facevano un braccio tondo et una gamba diritta, non era ricerca con muscoli con quella facilità graziosa e dolce che apparisce fra 'l vedi e non vedi, come fanno la carne e le cose vive: ma elle erano crude, e scorticate, che faceva difficoltà agli occhi e durezza nella maniera, alla quale mancava una leggiadria di fare svelte e graziose tutte le figure e massimamente le femmine et i putti con le membra naturali come agli uomini, ma ricoperte di quelle grassezze e carnosità, che non siano goffe, come li naturali, ma arteficiate dal disegno e dal giudizio.
Vi mancavano ancora la copia de' belli abiti, la varietà di tante bizzarrie, la vaghezza de' colori, la università ne' casamenti e la lontananza e varietà ne' paesi.
Et avegna che molti di loro cominciassino come Andrea Verrocchio, Antonio del Pollaiuolo e molti altri più moderni, a cercare di fare le loro figure più studiate, e che ci apparisse dentro maggior disegno, con quella imitazione più simile e più a punto alle cose naturali, nondimeno e' non v'era il tutto ancora, che ci fusse l'una sicurtà più certa, che eglino andavano inverso il buono e ch'elle fussino però approvate secondo l'opere degli antichi, come si vide quando il Verrocchio rifece le gambe e le braccia di marmo al Marsia di casa Medici in Fiorenza, mancando loro pure una fine et una estrema perfezzione ne' piedi, mani, capegli, barbe, ancora che il tutto delle membra, sia accordato con l'antico et abbia una certa corrispondenza giusta nelle misure.
Ché s'eglino avessino avuto quelle minuzie dei fini, che sono la perfezzione et il fiore dell'arte, arebbono avuto ancora una gagliardezza risoluta nell'opere loro e ne sarebbe conseguito la leggiadria et una pulitezza e somma grazia, che non ebbono, ancora che vi sia lo stento della diligenzia, che son quelli che dànno gli stremi dell'arte nelle belle figure, o di rilievo o dipinte.
Quella fine e quel certo che ci mancava, non lo potevano mettere così presto in atto, avvenga che lo studio insecchisce la maniera, quando egli è preso per terminare i fini in quel modo.
Bene lo trovaron poi dopo loro gli altri, nel veder cavar fuora di terra certe anticaglie, citate da Plinio delle più famose: il Lacoonte, l'Ercole et il Torso grosso di Bel Vedere, così la Venere, la Cleopatra, lo Apollo et infine altre: le quali nella lor dolcezza e nelle lor asprezze con termini carnosi e cavati dalle maggior bellezze del vivo, con certi atti che non in tutto si storcono, ma si vanno in certe parti movendo e si mostrano con una graziosissima grazia.
E furono cagione di levar via una certa maniera secca e cruda e tagliente, che per lo soverchio studio avevano lasciata in questa arte Pietro della Francesca, Lazaro Vasari, Alesso Baldovinetti, Andrea dal Castagno, Pesello, Ercole Ferrarese, Giovan Bellini, Cosimo Rosselli, l'Abate di San Clemente, Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticello, Andrea Mantegna, Filippo e Luca Signorello; i quali, per sforzarsi, cercavano fare l'impossibile dell'arte con le fatiche e massime negli scorti e nelle vedute spiacevoli che, sì come erano a loro dure a condurle, così erano aspre a vederle.
Et ancora che la maggior parte fussino ben disegnate e senza errori, vi mancava pure uno spirito di prontezza che non ci si vide mai, et una dolcezza ne' colori unita, che la cominciò ad usare nelle cose sue il Francia Bolognese e Pietro Perugino.
Et i popoli nel vederla corsero come matti a questa bellezza nuova e più viva, parendo loro assolutamente che e' non si potesse già mai far meglio.
Ma lo errore di costoro dimostrarono poi chiaramente le opere di Lionardo da Vinci, il quale, dando principio a quella terza maniera, che noi vogliamo chiamare la moderna, oltra la gagliardezza e bravezza del disegno, et oltra il contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura così apunto, come elle sono, con buona regola, miglior ordine, retta misura, disegno perfetto e grazia divina, abbondantissimo di copie e profondissimo di arte, dette veramente alle sue figure il moto et il fiato.
Seguitò dopo lui, ancora che alquanto lontano, Giorgione da Castel Franco, il quale sfumò le sue pitture e dette una terribil movenzia alle sue cose, per una certa oscurità di ombre bene intese; né meno di costui diede alle sue pitture forza, rilievo, dolcezza e grazia ne' colori fra' Bartolomeo di San Marco.
Ma più di tutti il graziosissimo Raffaello da Urbino, il quale studiando le fatiche de' maestri vecchi e quelle de' moderni, prese da tutti il meglio, e fattone raccolta, arricchì l'arte della pittura di quella intera perfezzione, che ebbero anticamente le figure d'Apelle e di Zeusi e più, se si potesse dire o mostrare l'opere di quelli a questo paragone.
Laonde la natura restò vinta dai suoi colori, e l'invenzione era in lui sì facile e propria quanto può giudicare chi vede le storie sue, le quali sono simili alli scritti, mostrandoci in quelle i siti simili e gli edificii, così come nelle genti nostrali e strane, le cere e gli abiti, secondo che egli ha voluto: oltra il dono della grazia delle teste, giovani, vecchi e femmine, riservando alle modeste la modestia, alle lascive la lascivia et ai putti ora i vizii negli occhi et ora i giuochi nelle attitudini.
E così i suoi panni piegati, né troppo semplici, né intrigati, ma con una guisa che paiono veri.
Seguì in questa maniera, ma più dolce di colorito e non tanta gagliarda Andrea del Sarto, il qual si può dire che fusse raro, perché l'opere sue sono senza errori.
Né si può esprimere le leggiadrissime vivacità, che fece nelle opere sue Antonio da Correggio, sfilando i suoi capelli con un modo, non di quella maniera fine che facevano gli innanzi a lui, ch'era difficile, tagliente e secca, ma d'una piumosità morbidi, che si scorgevano le fila nella facilità del farli, che parevano d'oro e più belli che i vivi, i quali restano vinti dai suoi coloriti.
Il simile fece Francesco Mazzola Parmigiano, il quale in molte parti di grazia e di ornamenti e di bella maniera lo avanzò, come si vede in molte pitture sue, le quali ridano nel viso e sì come gli occhi veggono vivacissimamente, così si scorge il batter de' polsi, come più piacque al suo pennello.
Ma chi considererà l'opere delle facciate di Polidoro e di Maturino, vedrà le figure far que' gesti che l'impossibile non può fare, e stupirà come e' si possa non ragionare con la lingua ch'è facile, ma esprimere col pennello le terribilissime invenzioni messe da loro in opera con tanta pratica e destrezza, rappresentando i fatti de' Romani, come e' furono propriamente.
E quanti ce ne sono stati, che hanno dato vita alle loro figure coi colori ne' morti? Come il Rosso, fra' Sebastiano, Giulio Romano, Perin del Vaga, perché de' vivi, che per se medesimi son notissimi, non accade qui ragionare.
Ma quello che importa il tutto di questa arte è che l'hanno ridotta oggi talmente perfetta e facile per chi possiede il disegno, l'invenzione et il colorito, che dove prima da que' nostri maestri si faceva una tavola in sei anni, oggi in un anno questi maestri ne fanno sei: et io ne fo indubitatamente fede e di vista e d'opera; e molto più si veggono finite e perfette, che non facevano prima gli altri maestri di conto.
Ma quello che fra i morti e' vivi porta la palma e trascende e ricuopre tutti è il divino Michelagnolo Buonarroti il qual non solo tien il principato di una di queste arti, ma di tutte tre insieme.
Costui supera e vince non solamente tutti costoro, ch'hanno quasi che vinto già la natura, ma quelli stessi famosissimi antichi, che sì lodatamente fuor d'ogni dubbio la superarono: et unico si trionfa di quegli, di questi e di lei, non imaginandosi appena quella cosa alcuna sì strana e tanto difficile, ch'egli con la virtù del divinissimo ingegno suo, mediante l'industria, il disegno, l'arte, il giudizio e la grazia, di gran lunga non la trapassi.
E non solo nella pittura e ne' colori, sotto il qual genere si comprendono tutte le forme e tutti i corpi retti e non retti, palpabili et impalpabili, visibili e non visibili, ma nell'estrema rotondità ancora de' corpi; e con la punta del suo scarpello e delle fatiche di così bella e fruttifera pianta, son distesi già tanti rami e sì onorati, che oltre l'aver pieno il mondo in sì disusata foggia de' più saporiti frutti che siano, hanno ancora dato l'ultimo termine a queste tre nobilissime arti con tanta e sì maravigliosa perfezzione, che ben si può dire e sicuramente, le sue statue in qual si voglia parte di quelle, esser più belle assai che l'antiche.
Conoscendosi nel mettere a paragone teste, mani, braccia e piedi formati dall'uno e dall'altro, rimane in quelle di costui un certo fondamento più saldo, una grazia più interamente graziosa et una molto più assoluta perfezione, condotta con una certa difficultà sì facile nella sua maniera, che egli è impossibile mai veder meglio.
Il che medesimamente si può credere delle sue pitture; le quali, se per avventura ci fussero di quelle famosissime greche o romane da poterle a fronte a fronte paragonare, tanto resterebbono in maggior pregio e più onorate, quanto più appariscono le sue sculture superiori a tutte le antiche.
Ma se tanto sono da noi ammirati que' famosissimi che provocati con sì eccessivi premii e con tanta felicità diedero vita alle opere loro, quanto doviamo noi maggiormente celebrare e mettere in cielo questi rarissimi ingegni che non solo senza premii, ma in una povertà miserabile fanno frutti sì preziosi? Credasi et affermisi adunque che se in questo nostro secolo fusse la giusta remunerazione, si farebbono senza dubbio cose più grandi e molto migliori che non fecero mai gli antichi.
Ma lo avere a combattere più con la fame, che con la Fama, tien sotterrati i miseri ingegni, né gli lascia (colpa e vergogna di chi sollevare gli potrebbe e non se ne cura) farsi conoscere.
E tanto basti a questo proposito, essendo tempo di oramai tornare a le Vite: trattando distintamente di tutti quegli che hanno fatto opere celebrate, in questa terza maniera: il principio della quale fu Lionardo da Vinci, dal quale appresso cominceremo.
IL FINE DEL PROEMIO
VITA DI LIONARDO DA VINCI PITTORE E SCULTORE FIORENTINO
Grandissimi doni si veggono piovere dagli influssi celesti ne' corpi umani molte volte naturalmente, e sopra naturali, talvolta, strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una maniera, che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gl'altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa (come ella è) largita da Dio e non acquistata per arte umana.
Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l'animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute.
La forza in lui fu molta e congiunta con la destrezza, l'animo e 'l valore, sempre regio e magnanimo.
E la fama del suo nome tanto s'allargò, che non solo nel suo tempo fu tenuto in pregio, ma pervenne ancora molto più ne' posteri dopo la morte sua.
Veramente mirabile e celeste fu Lionardo, figliuolo di ser Piero da Vinci, e nella erudizione e principii delle lettere arebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario et instabile.
Perciò che egli si mise a imparare molte cose e, cominciate, poi l'abbandonava.
Ecco nell'abbaco egli in pochi mesi ch'e' v'attese, fece tanto acquisto, che movendo di continuo dubbi e difficultà al maestro che gl'insegnava, bene spesso lo confondeva.
Dette alquanto d'opera alla musica, ma tosto si risolvé a imparare a sonare la lira, come quello che da la natura aveva spirito elevatissimo e pieno di leggiadria; onde sopra quella cantò divinamente all'improvviso.
Nondimeno, benché egli a sì varie cose attendesse, non lasciò mai il disegnare et il fare di rilievo, come cose che gl'andavano a fantasia più d'alcun'altra.
Veduto questo, ser Piero, e considerato la elevazione di quello ingegno, preso un giorno alcuni de' suoi disegni gli portò ad Andrea del Verrochio, ch'era molto amico suo, e lo pregò strettamente che gli dovesse dire se Lionardo, attendendo al disegno, farebbe alcun profitto.
Stupì Andrea nel veder il grandissimo principio di Lionardo, e confortò ser Piero che lo facesse attendere, onde egli ordinò con Lionardo ch'e' dovesse andare a bottega di Andrea; il che Lionardo fece volentieri oltre a modo.
E non solo esercitò una professione, ma tutte quelle ove il disegno si interveniva.
Et avendo uno intelletto tanto divino e maraviglioso che, essendo bonissimo geometra, non solo operò nella scultura, facendo, nella sua giovanezza, di terra alcune teste di femine che ridono, che vanno, formate per l'arte di gesso, e parimente teste di putti, che parevano usciti di mano d'un maestro, ma nell'architettura ancora fé molti disegni così di piante come d'altri edifizii e fu il primo ancora che, giovanetto, discoresse sopra il fiume d'Arno per metterlo in canale da Pisa a Fiorenza.
Fece disegni di mulini, gualchiere et ordigni, che potessino andare per forza d'acqua; e perché la professione sua volle che fusse la pittura, studiò assai in ritrar di naturale, e qualche volta in far medaglie, di figure di terra, et adosso a quelle metteva cenci molli interrati, e poi con pazienza si metteva a ritrargli sopra a certe tele sottilissime di rensa o di pannilini adoperati, e gli lavorava di nero e bianco con la punta del pennello, che era cosa miracolosa, come ancora ne fa fede alcuni, che ne ho di sua mano, in sul nostro libro de' disegni; oltre che disegnò in carta, con tanta diligenza e sì bene, che in quelle finezze non è chi vi abbia aggiunto mai, che n'ho io una testa di stile e chiaro scuro, che è divina, et era in quello ingegno infuso tanta grazia da Dio, et una demostrazione sì terribile accordata con l'intelletto e memoria che lo serviva, e col disegno delle mani sapeva sì bene esprimere il suo concetto, che con i ragionamenti vinceva e con le ragioni confondeva ogni gagliardo ingegno.
Et ogni giorno faceva modegli e disegni da potere scaricare con facilità monti e forargli per passare da un piano a un altro, e per via di lieve e di argani e di vite mostrava potersi alzare, e tirare pesi grandi, e modi da votar porti e trombe da cavare de' luoghi bassi acque; ché quel cervello mai restava di ghiribizzare, de' quali pensieri e fatiche se ne vede sparsi per l'arte nostra molti disegni, et io n'ho visti assai.
Oltre che perse tempo fino a disegnare gruppi di corde fatti con ordine, e che da un capo seguissi tutto il resto fino a l'altro, tanto che s'empiessi un tondo, che se ne vede in istampa uno difficilissimo e molto bello, e nel mezzo vi sono queste parole: Leonardus Vinci Accademia; e fra questi modegli e disegni ve n'era uno, col quale più volte a molti cittadini ingegnosi, che allora governavano Fiorenza, mostrava volere alzare il tempio di San Giovanni di Fiorenza, e sottomettervi le scalee, senza ruinarlo, e con sì forti ragioni lo persuadeva, che pareva possibile, quantunque ciascuno, poi che e' si era partito, conoscesse per se medesimo l'impossibilità di cotanta impresa.
Era tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gl'animi delle genti.
E non avendo egli, si può dir, nulla, e poco lavorando, del continuo tenne servitori e cavalli, de' quali si dilettò molto, e particularmente di tutti gl'altri animali, i quali con grandissimo amore e pacienza governava.
E mostrollo ché spesso passando dai luoghi dove si vendevano uccelli, di sua mano cavandoli di gabbia e pagatogli a chi li vendeva il prezzo che n'era chiesto, li lasciava in aria a volo, restituendoli la perduta libertà.
Laonde volle la natura tanto favorirlo, che dovunque e' rivolse il pensiero, il cervello e l'animo, mostrò tanta divinità nelle cose sue, che nel dare la perfezzione, di prontezza, vivacità, bontade, vaghezza e grazia, nessuno altro mai gli fu pari.
Vedesi bene che Lionardo per l'intelligenza de l'arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finì, parendoli che la mano aggiugnere non potesse alla perfezzione dell'arte ne le cose, che egli si imaginava, conciò sia che si formava nell'idea alcune difficultà sottili e tanto maravigliose, che con le mani, ancora ch'elle fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse mai.
E tanti furono i suoi capricci, che, filosofando de le cose naturali, attese a intendere la proprietà delle erbe, continuando et osservando il moto del cielo, il corso de la Luna e gl'andamenti del Sole.
Acconciossi dunque, come è detto, per via di ser Piero, nella sua fanciullezza a l'arte con Andrea del Verrocchio, il quale, faccendo una tavola dove San Giovanni battezzava Cristo, Lionardo lavorò un Angelo, che teneva alcune vesti; e benché fosse giovanetto, lo condusse di tal maniera che molto meglio de le figure d'Andrea stava l'Angelo di Lionardo.
Il che fu cagione ch'Andrea mai più non volle toccar colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui.
Li fu allogato per una portiera, che si avea a fare in Fiandra d'oro e di seta tessuta, per mandare al re di Portogallo, un cartone d'Adamo e d'Eva, quando nel Paradiso terrestre peccano: dove col pennello fece Lionardo di chiaro e scuro lumeggiato di biacca un prato di erbe infinite con alcuni animali, che invero può dirsi che in diligenza e naturalità al mondo divino ingegno far non la possa sì simile.
Quivi è il fico oltra lo scortar de le foglie e le vedute de' rami, condotto con tanto amore, che l'ingegno si smarrisce solo a pensare, come un uomo possa avere tanta pacienza; èvvi ancora un palmizio, che ha la rotondità de le ruote de la palma lavorate con sì grande arte e maravigliosa, che altro che la pazienzia e l'ingegno di Lionardo non lo poteva fare.
La quale opera altrimenti non si fece: onde il cartone è oggi in Fiorenza nella felice casa del Magnifico Ottaviano de' Medici donatogli non ha molto dal zio di Lionardo.
Dicesi che ser Piero da Vinci, essendo alla villa, fu ricercato domesticamente da un suo contadino, il quale, d'un fico da lui tagliato in sul podere, aveva di sua mano fatto una rotella, che a Fiorenza gnene facesse dipignere; il che egli contentissimo fece, sendo molto pratico il villano nel pigliare uccelli e ne le pescagioni, e servendosi grandemente di lui ser Piero a questi esercizii.
Laonde, fattala condurre a Firenze, senza altrimenti dire a Lionardo di chi ella si fosse, lo ricercò che egli vi dipignesse suso qualche cosa.
Lionardo, arrecatosi un giorno tra le mani questa rotella, veggendola torta, mal lavorata e goffa la dirizzò col fuoco, e datala a un torniatore, di roza e goffa che ella era, la fece ridurre delicata e pari.
Et appresso ingessatala et acconciatala a modo suo, cominciò a pensare quello che vi si potesse dipignere su, che avesse a spaventare chi le venisse contra, rappresentando lo effetto stesso che la testa già di Medusa.
Portò dunque Lionardo per questo effetto ad una sua stanza, dove non entrava se non egli solo, lucertole, ramarri, grilli, serpe, farfalle, locuste, nottole et altre strane spezie di simili animali: da la moltitudine de' quali, variamente adattata insieme, cavò uno animalaccio molto orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l'alito e faceva l'aria di fuoco.
E quello fece uscire d'una pietra scura e spezzata, buffando veleno da la gola aperta, fuoco dagl'occhi e fumo dal naso sì stranamente, che pareva monstruosa et orribile cosa affatto.
E penò tanto a farla, che in quella stanza era il morbo degli animali morti troppo crudele, ma non sentito da Lionardo, per il grande amore che portava nell'arte.
Finita questa opera, che più non era ricerca, né dal villano né dal padre, Lionardo gli disse, che ad ogni sua comodità mandasse per la rotella, che quanto a lui era finita.
Andato dunque ser Piero una mattina a la stanza per la rotella e picchiato alla porta, Lionardo gli aperse, dicendo che aspettasse un poco; e ritornatosi nella stanza acconciò la rotella al lume in sul leggio et assettò la finestra, che facesse lume abbacinato, poi lo fece passar dentro a vederla.
Ser Piero nel primo aspetto, non pensando alla cosa, subitamente si scosse, non credendo che quella fosse rotella, né manco dipinto quel figurato che e' vi vedeva.
E tornando col passo a dietro, Lionardo lo tenne, dicendo: "Questa opera serve per quel che ella è fatta.
Pigliatela, dunque, e portatela, ché questo è il fine, che dell'opere s'aspetta".
Parse questa cosa più che miracolosa a ser Piero, e lodò grandissimamente il capriccioso discorso di Lionardo; poi, comperata tacitamente da un merciaio un'altra rotella dipinta d'un cuore trapassato da uno strale, la donò al villano che ne li restò obligato sempre mentre che e' visse.
Appresso vendé ser Piero quella di Lionardo secretamente in Fiorenza a certi mercatanti, cento ducati.
Et in breve ella pervenne a le mani del duca di Milano, vendutagli 300 ducati da detti mercatanti.
Fece poi Lionardo una Nostra Donna in un quadro, ch'era appresso papa Clemente VII, molto eccellente.
E fra l'altre cose che v'erano fatte, contrafece una caraffa piena d'acqua con alcuni fiori dentro, dove oltra la maraviglia della vivezza, aveva imitato la rugiada dell'acqua sopra, sì che ella pareva più viva che la vivezza.
Ad Antonio Segni, suo amicissimo, fece in su un foglio un Nettuno condotto così di disegno con tanta diligenzia, che e' pareva del tutto vivo.
Vedevasi il mare turbato et il carro suo tirato da' cavalli marini con le fantasime, l'orche, et i noti et alcune teste di dèi marini, bellissime.
Il quale disegno fu donato da Fabio suo figliuolo a Messer Giovanni Gaddi, con questo epigramma:
Pinxit Virgilius Neptunum, pinxit Homerus
dum maris undisoni per vada flectit equos.
Mente quidem vates illum conspexit uterque
Vincius ast oculis, iureque vincit eos.
Vennegli fantasia di dipignere in un quadro a olio una testa d'una Medusa con una acconciatura in capo con uno agrupamento di serpe la più strana e stravagante invenzione che si possa immaginare mai; ma come opera, che portava tempo, e come quasi interviene in tutte le cose sue, rimase imperfetta.
Questa è fra le cose eccellenti nel palazzo del duca Cosimo insieme con una testa d'uno Angelo che alza un braccio in aria, che scorta dalla spalla al gomito venendo inanzi, e l'altro ne va al petto con una mano.
È cosa mirabile, che quello ingegno, che avendo desiderio di dare sommo rilievo alle cose che egli faceva, andava tanto con l'ombre scure a trovare i fondi de' più scuri, che cercava neri che ombrassino e fussino più scuri degl'altri neri per fare del chiaro, mediante quegli, fussi più lucido; et infine riusciva questo modo tanto tinto, che non vi rimanendo chiaro avevon più forma di cose fatte per contrafare una notte, che una finezza del lume del dì: ma tutto era per cercare di dare maggiore rilievo, di trovar il fine e la perfezzione dell'arte.
Piacevagli tanto quando egli vedeva certe teste bizzarre, o con barbe o con capegli degli uomini naturali, che arebbe seguitato uno, che gli fussi piaciuto, un giorno intero e se lo metteva talmente nella idea, che poi arrivato a casa lo disegnava come se l'avesse avuto presente.
Di questa sorte se ne vede molte teste e di femine e di maschi, e n'ho io disegnato parechie di sua mano con la penna, nel nostro libro de' disegni tante volte citato, come fu quella di Amerigo Vespucci, ch'è una testa di vecchio bellissima disegnata di carbone e parimenti quella di Scaramuccia, capitano de' Zingani, che poi ebbe Messer Donato Valdanbrini d'Arezzo canonico di S.
Lorenzo lassatagli dal Giambullari.
Cominciò una tavola della adorazione da Magi, che v'è su molte cose belle massime di teste.
La quale era in casa d'Amerigo Benci dirimpetto alla loggia dei Peruzzi, la quale anche ella rimase imperfetta come l'altre cose sua.
Avvenne che morto Giovan Galeazzo duca di Milano e creato Lodovico Sforza nel grado medesimo l'anno 1494, fu condotto a Milano con gran riputazione Lionardo al Duca, il quale molto si dilettava del suono de la lira, perché sonasse: e Lionardo portò quello strumento, ch'egli aveva di sua mano fabricato d'argento gran parte in forma d'un teschio di cavallo, cosa bizzarra e nuova, acciò ché l'armonia fosse con maggior tuba e più sonora di voce, laonde superò tutti i musici, che quivi erano concorsi a sonare.
Oltra ciò fu il migliore dicitore di rime a l'improviso del tempo suo.
Sentendo il Duca i ragionamenti tanto mirabili di Lionardo, talmente s'innamorò de le sue virtù, che era cosa incredibile.
E pregatolo, gli fece fare in pittura una tavola d'altare, dentrovi una Natività che fu mandata dal Duca a l'imperatore.
Fece ancora in Milano ne' frati di S.
Domenico a S.
Maria de le Grazie un Cenacolo, cosa bellissima e maravigliosa, et alle teste degli Apostoli diede tanta maestà e bellezza, che quella del Cristo lasciò imperfetta, non pensando poterle dare quella divinità celeste, che a l'imagine di Cristo si richiede.
La quale opera, rimanendo così per finita, è stata dai milanesi tenuta del continuo in grandissima venerazione, e dagli altri forestieri ancora, atteso che Lionardo si imaginò e riuscigli di esprimere quel sospetto che era entrato negl'Apostoli, di voler sapere chi tradiva il loro maestro.
Per il che si vede nel viso di tutti loro l'amore, la paura e lo sdegno, o vero il dolore, di non potere intendere lo animo di Cristo.
La qual cosa non arreca minor maraviglia, che il conoscersi allo incontro l'ostinazione, l'odio e 'l tradimento in Giuda, senza che ogni minima parte dell'opera mostra una incredibile diligenzia.
Avvenga che insino nella tovaglia è contraffatto l'opera del tessuto, d'una maniera che la rensa stessa non mostra il vero meglio.
Dicesi che il priore di quel luogo sollecitava molto importunamente Lionardo che finissi l'opera, parendogli strano veder talora Lionardo starsi un mezzo giorno per volta astratto in considerazione, et arebbe voluto, come faceva dell'opere che zappavano ne l'orto, che egli non avesse mai fermo il pennello.
E non gli bastando questo, se ne dolse col Duca e tanto lo rinfocolò, che fu costretto a mandar per Lionardo e destramente sollecitarli l'opera, mostrando con buon modo, che tutto faceva per l'importunità del priore.
Lionardo, conoscendo l'ingegno di quel principe esser acuto e discreto, volse (quel che non avea mai fatto con quel priore) discorrere col Duca largamente sopra di questo; gli ragionò assai de l'arte, e lo fece capace che gl'ingegni elevati, talor che manco lavorano, più adoperano, cercando con la mente l'invenzioni, e formandosi quelle perfette idee, che poi esprimono e ritraggono le mani da quelle già concepute ne l'intelletto.
E gli soggiunse che ancor gli mancava due teste da fare, quella di Cristo, della quale non voleva cercare in terra e non poteva tanto pensare, che nella imaginazione gli paresse poter concipere quella bellezza e celeste grazia, che dovette essere quella de la divinità incarnata.
Gli mancava poi quella di Giuda, che anco gli metteva pensiero, non credendo potersi imaginare una forma, da esprimere il volto di colui, che dopo tanti benefizii ricevuti, avessi avuto l'animo sì fiero, che si fussi risoluto di tradir il suo Signore e creator del mondo, purché di questa seconda ne cercherebbe, ma che alla fine non trovando meglio, non gli mancherebbe quella di quel priore, tanto importuno et indiscreto.
La qual cosa mosse il Duca maravigliosamente a riso e disse che egli avea mille ragioni.
E così il povero priore confuso attese a sollecitar l'opera de l'orto e lasciò star Lionardo.
Il quale finì bene la testa del Giuda, che pare il vero ritratto del tradimento et inumanità.
Quella di Cristo rimase, come si è detto, imperfetta.
La nobiltà di questa pittura, sì per il componimento, sì per essere finita con una incomparabile diligenza, fece venir voglia al re di Francia, di condurla nel regno: onde tentò per ogni via, se ci fussi stato architetti, che con travate di legnami e di ferri, l'avessino potuta armar di maniera, che ella si fosse condotta salva, senza considerare a spesa, che vi si fusse potuta fare, tanto la desiderava.
Ma l'esser fatta nel muro, fece che Sua Maestà se ne portò la voglia, et ella si rimase a' milanesi.
Nel medesimo refettorio, mentre che lavorava il Cenacolo, nella testa dove è una Passione di maniera vecchia, ritrasse il detto Lodovico, con Massimiliano suo primogenito, e dall'altra parte la duchessa Beatrice, con Francesco altro suo figliuolo, che poi furono amendue duchi di Milano, che sono ritratti divinamente.
Mentre che egli attendeva a questa opera, propose al Duca fare un cavallo di bronzo di maravigliosa grandezza, per mettervi in memoria l'imagine del Duca.
E tanto grande lo cominciò e riuscì, che condur non si poté mai.
Ècci chi ha avuto opinione (come son varii e molte volte per invidia maligni, i giudizii umani) che Lionardo (come dell'altre sue cose) lo cominciasse perché non si finisse; perché, essendo di tanta grandezza in volerlo gettar d'un pezzo, vi si vedeva difficultà incredibile, e si potrebbe anco credere, che dall'effetto, molti abbin fatto questo giudizio, poiché delle cose sue ne son molte rimase imperfette.
Ma per il vero si può credere che l'animo suo grandissimo et eccellentissimo per esser troppo volontaroso fusse impedito, e che il voler cercare sempre eccellenza sopra eccellenza, e perfezzione sopra perfezzione ne fusse cagione, talché l'opra fusse ritardata dal desio, come disse il nostro Petrarca; e nel vero quelli che veddono il modello, che Lionardo fece di terra grande, giudicano non aver mai visto più bella cosa, né più superba, il quale durò fino che i francesi vennono a Milano con Lodovico re di Francia, che lo spezzarono tutto.
Ènne anche smarrito un modello piccolo di cera, ch'era tenuto perfetto, insieme con un libro di notomia di cavagli fatta da lui per suo studio.
Attese di poi, ma con maggior cura, alla notomia degli uomini, aiutato e scambievolmente aiutando in questo Messer Marc'Antonio della Torre, eccellente filosofo, che allora leggeva in Pavia e scriveva di questa materia e fu de' primi (come odo dire) che cominciò a illustrare con la dottrina di Galeno le cose di medicina, et a dar vera luce alla notomia, fino a quel tempo involta in molte e grandissime tenebre d'ignoranza.
Et in questo si servì maravigliosamente dell'ingegno, opera e mano di Lionardo, che ne fece un libro disegnato di matita rossa e tratteggiato di penna [dove disegnò cadaveri] che egli di sua mano scorticò e ritrasse con grandissima diligenza, dove egli fece tutte le ossature et a quelle congiunse poi con ordine tutti i nervi, e coperse di muscoli i primi appiccati all'osso, et i secondi che tengono il fermo, et i terzi che muovano, et in quegli a parte per parte di brutti caratteri scrisse lettere, che sono fatte con la mano mancina a rovescio, e chi non ha pratica a leggere non l'intende, perché non si leggono se non con lo specchio.
Di queste carte della notomia degl'uomini n'è gran parte nelle mani di Messer Francesco da Melzo, gentiluomo milanese, che nel tempo di Lionardo era bellissimo fanciullo e molto amato da lui, così come oggi è bello e gentile vecchio, che le ha care e tiene come per reliquie tal carte insieme con il ritratto della felice memoria di Lionardo.
E chi legge quegli scritti, par impossibile che quel divino spirito abbi così ben ragionato dell'arte e de' muscoli e nervi e vene, e con tanta diligenza d'ogni cosa.
Come anche sono nelle mani di...
pittor milanese alcuni scritti di Lionardo, pur di caratteri scritti con la mancina a rovescio, che trattano della pittura e de' modi del disegno e colorire.
Costui non è molto, che venne a Fiorenza a vedermi, desiderando stampar questa opera, e la condusse a Roma per dargli esito, né so poi che di ciò sia seguito.
E per tornare alle opere di Lionardo, venne al suo tempo in Milano il re di Francia, onde pregato Lionardo di far qualche cosa bizzarra, fece un lione, che caminò parecchi passi, poi s'aperse il petto e mostrò tutto pien di gigli.
Prese in Milano Salaì milanese per suo creato, il qual era vaghissimo di grazia e di bellezza, avendo begli capegli, ricci et inanellati, de' quali Lionardo si dilettò molto et a lui insegnò molte cose dell'arte; e certi lavori, che in Milano si dicono essere di Salaì, furono ritocchi da Lionardo.
Ritornò a Fiorenza, dove trovò che i frati de' Servi avevano alloggato a Filippino l'opere della tavola dell'altar maggiore della Nunziata; per il che fu detto da Lionardo che volentieri avrebbe fatta una simil cosa.
Onde Filippino inteso ciò, come gentil persona ch'egli era, se ne tolse giù: et i frati, perché Lionardo la dipignesse, se lo tolsero in casa, facendo le spese a lui et a tutta la sua famiglia.
E così li tenne in pratica lungo tempo, né mai cominciò nulla.
Finalmente fece un cartone dentrovi una Nostra Donna et una S.
Anna, con un Cristo, la quale non pure fece maravigliare tutti gl'artefici, ma finita ch'ella fu, nella stanza durarono due giorni d'andare a vederla gl'uomini e le donne, i giovani et i vecchi, come si va a le feste solenni, per veder le maraviglie di Lionardo, che fecero stupire tutto quel popolo.
Perché si vedeva nel viso di quella Nostra Donna, tutto quello che di semplice e di bello, può con semplicità e bellezza dare grazia a una madre di Cristo; volendo mostrare quella modestia e quella umiltà, che in una vergine contentissima d'allegrezza del vedere la bellezza del suo figliuolo, che con tenerezza sosteneva in grembo; e mentre che ella con onestissima guardatura a basso scorgeva un S.
Giovanni piccol fanciullo, che si andava trastullando con un pecorino, non senza un ghigno d'una S.
Anna, che colma di letizia, vedeva la sua progenie terrena esser divenuta celeste.
Considerazioni veramente dallo intelletto et ingegno di Lionardo.
Questo cartone, come di sotto si dirà, andò poi in Francia.
Ritrasse la Ginevra d'Amerigo Benci cosa bellissima; et abbandonò il lavoro a' frati, i quali lo ritornarono a Filippino, il quale sopravenuto egli ancora dalla morte non lo poté finire.
Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie, e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto, la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanableò; nella qual testa chi voleva veder quanto l'arte potesse imitar la natura, agevolmente si poteva comprendere, perché quivi erano contrafatte tutte le minuzie che si possono con sottigliezza dipignere.
Avvenga che gli occhi avevano que' lustri e quelle acquitrine, che di continuo si veggono nel vivo; et intorno a essi erano tutti que' rossigni lividi et i peli, che non senza grandissima sottigliezza si possono fare.
Le ciglia per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti e dove più radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali.
Il naso, con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo.
La bocca, con quella sua sfenditura con le sue fini unite dal rosso della bocca con l'incarnazione del viso, che non colori, ma carne pareva veramente.
Nella fontanella della gola, chi intentissimamente la guardava, vedeva battere i polsi: e nel vero si può dire che questa fussi dipinta d'una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice e sia qual si vuole.
Usovvi ancora questa arte, che essendo Monna Lisa bellissima, teneva mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico, che suol dar spesso la pittura a' ritratti che si fanno.
Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti.
Per la eccellenzia dunque delle opere di questo divinissimo artefice, era tanto cresciuta la fama sua, che tutte le persone che si dilettavano de l'arte, anzi la stessa città intera disiderava ch'egli le lasciasse qualche memoria; e ragionavasi per tutto di fargli fare qualche opera notabile e grande, donde il pubblico fusse ornato et onorato di tanto ingegno, grazia e giudizio, quanto nelle cose di Lionardo si conosceva.
E tra il gonfalonieri et i cittadini grandi si praticò che essendosi fatta di nuovo la gran sala del consiglio, l'architettura della quale fu ordinata col giudizio e consiglio suo, di Giuliano S.
Gallo e di Simone Pollaiuoli detto Cronaca e di Michelagnolo Buonarroti e Baccio d'Agnolo (come a' suoi luoghi più distintamente si raggionerà).
La quale finita, con grande prestezza fu per decreto publico ordinato, che a Lionardo fussi dato a dipignere qualche opera bella; e così da Piero Soderini, gonfaloniere allora di giustizia, gli fu allogata la detta sala.
Per il che volendola condurre Lionardo, cominciò un cartone alla sala del papa, luogo in S.
Maria Novella, dentrovi la storia di Niccolò Piccinino, capitano del duca Filippo di Milano, nel quale disegnò un groppo di cavalli che combattevano una bandiera, cosa che eccellentissima e di gran magisterio fu tenuta per le mirabilissime considerazioni che egli ebbe nel far quella fuga.
Perciò che in essa non si conosce meno la rabbia, lo sdegno e la vendetta negli uomini che ne' cavalli; tra quali due intrecciatisi con le gambe dinanzi non fanno men guerra coi denti, che si faccia chi gli cavalca nel combattere detta bandiera, dove apiccato le mani un soldato, con la forza delle spalle, mentre mette il cavallo in fuga, rivolto egli con la persona, aggrappato l'aste dello stendardo, per sgusciarlo per forza delle mani di quattro, che due lo difendono con una mano per uno, e l'altra in aria con le spade tentano di tagliar l'aste; mentre che un soldato vecchio con un berretton rosso, gridando, tiene una mano nell'asta e con l'altra inalberato una storta, mena con stizza un colpo, per tagliar tutte a due le mani a coloro, che con forza digrignando i denti, tentano con fierissima attitudine di difendere la loro bandiera; oltra che in terra fra le gambe de' cavagli v'è due figure in iscorto, che combattendo insieme, mentre uno in terra ha sopra uno soldato, che alzato il braccio quanto può, con quella forza maggiore gli mette alla gola il pugnale, per finirgli la vita: e quello altro con le gambe e con le braccia sbattuto, fa ciò che egli può per non volere la morte.
Né si può esprimere il disegno che Lionardo fece negli abiti de' soldati, variatamente variati da lui; simile i cimieri e gli altri ornamenti, senza la maestria incredibile che egli mostrò nelle forme e lineamenti de' cavagli: i quali Lionardo meglio ch'altro maestro fece, di bravura, di muscoli e di garbata bellezza.
Dicesi che per disegnare il detto cartone fece uno edifizio artificiosissimo che, stringendolo, s'alzava, et allargandolo, s'abbassava.
Et imaginandosi di volere a olio colorire in muro, fece una composizione d'una mistura sì grossa, per lo incollato del muro, che continuando a dipignere in detta sala, cominciò a colare, di maniera che in breve tempo abbandonò quella, vedendola guastare.
Aveva Lionardo grandissimo animo et in ogni sua azzione era generosissimo.
Dicesi che andando al banco per la provisione, ch'ogni mese da Piero Soderini soleva pigliare, il cassiere gli volse dare certi cartocci di quattrini; et egli non li volse pigliare, rispondendogli: "Io non sono dipintore da quattrini".
Essendo incolpato d'aver giuntato da Piero Soderini fu mormorato contra di lui; per che Lionardo fece tanto con gli amici suoi, che ragunò i danari e portolli per ristituire, ma Piero non li volle accettare.
Andò a Roma col duca Giuliano de' Medici nella creazione di papa Leone, che attendeva molto a cose filosofiche e massimamente alla alchimia, dove formando una pasta di una cera, mentre che caminava faceva animali sottilissimi pieni di vento, ne i quali soffiando, gli faceva volare per l'aria; ma cessando il vento, cadevano in terra.
Fermò in un ramarro, trovato dal vignaruolo di Belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scaglie di altri ramarri scorticate, ali a dosso con mistura d'argenti vivi, che nel moversi quando caminava tremavano; e fattogli gl'occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola, tutti gli amici ai quali lo mostrava, per paura faceva fuggire.
Usava spesso far minutamente digrassare e purgare le budella d'un castrato, e talmente venir sottili, che si sarebbono tenuto in palma di mano.
Et aveva messo in un'altra stanza un paio di mantici da fabbro, ai quali metteva un capo delle dette budella, e gonfiandole ne riempieva la stanza, la quale era grandissima, dove bisognava che si recasse in un canto chi v'era, mostrando quelle trasparenti e piene di vento, dal tenere poco luogo in principio, esser venute a occuparne molto, aguagliandole alla virtù.
Fece infinite di queste pazzie, et attese alli specchi; e tentò modi stranissimi nel cercare olii per dipignere e vernice per mantenere l'opere fatte.
Fece in questo tempo per Messer Baldassarri Turini da Pescia che era datario di Leone, un quadretto di una Nostra Donna col Figliuolo in braccio con infinita diligenzia et arte.
Ma, o sia per colpa di chi lo ingessò o pur per quelle sue tante e capricciose misture delle mestiche e de' colori, è oggi molto guasto.
Et in un altro quadretto ritrasse un fanciulletto, che è bello e grazioso a maraviglia, che oggi sono tutti e due in Pescia appresso a Messer Giulio Turini.
Dicesi, che essendogli allogato una opera dal Papa, subito cominciò a stillare olii et erbe per far la vernice; perché fu detto da papa Leone: "Oimè costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi il principio dell'opera".
Era sdegno grandissimo fra Michele Agnolo Buonaroti e lui; per il che partì di Fiorenza Michelagnolo per la concorrenza, con la scusa del duca Giuliano, essendo chiamato dal Papa per la facciata di S.
Lorenzo.
Lionardo intendendo ciò partì, et andò in Francia, dove il re avendo avuto opere sue, gli era molto affezzionato; e desiderava ch'e' colorisse il cartone della S.
Anna; ma egli, secondo il suo costume, lo tenne gran tempo in parole.
Finalmente venuto vecchio, stette molti mesi ammalato; e vedendosi vicino alla morte, si volse diligentemente informare de le cose catoliche e della via buona e santa religione cristiana, e poi con molti pianti, confesso e contrito, se bene e' non poteva reggersi in piedi, sostenendosi nelle braccia di suoi amici e servi, volse divotamente pigliare il santissimo Sacramento fuor del letto.
Sopragiunseli il re che spesso et amorevolmente lo soleva visitare; per il che egli per riverenza rizzatosi a sedere sul letto, contando il mal suo e gli accidenti di quello mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio e gli uomini del mondo, non avendo operato nell'arte come si conveniva.
Onde gli venne un parossismo messaggero della morte.
Per la qual cosa rizzatosi il re e presoli la testa per aiutarlo e porgerli favore, acciò che il male lo allegerisse, lo spirito suo, che divinissimo era, conoscendo non potere avere maggiore onore, spirò in braccio a quel re nella età sua d'anni 75.
Dolse la perdita di Lionardo fuor di modo a tutti quegli che l'avevano conosciuto, perché mai non fu persona, che tanto facesse onore alla pittura.
Egli con lo splendor dell'aria sua, che bellissima era, rasserenava ogni animo mesto, e con le parole volgeva al sì et al no ogni indurata intenzione.
Egli con le forze sue riteneva ogni violenta furia; e con la destra torceva un ferro d'una campanella di muraglia et un ferro di cavallo, come se fusse piombo.
Con la liberalità sua raccoglieva e pasceva ogni amico povero e ricco, pur che egli avesse ingegno e virtù.
Ornava et onorava con ogni azzione qualsivoglia disonorata e spogliata stanza; per il che ebbe veramente Fiorenza grandissimo dono nel nascere di Lionardo, e perdita più che infinita nella sua morte.
Nell'arte della pittura aggiunse costui alla maniera del colorire ad olio una certa oscurità; donde hanno dato i moderni, gran forza e rilievo alle loro figure.
E nella statuaria fece pruove nelle tre figure di bronzo che sono sopra la porta di S.
Giovanni da la parte di tramontana fatte da Giovan Francesco Rustici, ma ordinate co 'l consiglio di Lionardo, le quali sono il più bel getto e di disegno e di perfezzione, che modernamente si sia ancor visto.
Da Lionardo abbiamo la notomia de' cavalli e quella degli uomini assai più perfetta.
Laonde per tante parti sue sì divine, ancora che molto più operasse con le parole che co' fatti, il nome e la fama sua non si spegneranno già mai.
Per il che fu detto in lode sua da Messer Giovanbatista Strozzi così:
Vince costui pur solo
tutti altri; e vince Fidia e vince Apelle;
e tutto il lor vittorioso stuolo.
Fu discepolo di Lionardo Giovanantonio Boltraffio milanese, persona molto pratica et intendente, che l'anno 1500 dipinse in nella chiesa della Misericordia fuor di Bologna, in una tavola a olio, con gran diligenzia la Nostra Donna col Figliuolo in braccio, S.
Giovanni Batista e S.
Bastiano ignudo, et il padrone che la fé fare ritratto di naturale ginocchioni, opera veramente bella et in quella scrisse il nome suo e l'esser discepolo di Lionardo.
Costui ha fatto altre opere et a Milano et altrove; ma basti aver qui nominata questa che è la migliore.
E così Marco Uggioni, che in S.
Maria della Pace fece il transito di Nostra Donna e le nozze di Cana Galilee.
VITA DI GIORGIONE DA CASTEL FRANCO PITTOR VINIZIANO
Ne' medesimi tempi che Fiorenza acquistava tanta fama, per l'opere di Lionardo, arrecò non piccolo ornamento a Vinezia la virtù et eccellenza [di] un suo cittadino, il quale di gran lunga passò i Bellini, da loro tenuti in tanto pregio, e qualunque altro fino a quel tempo avesse in quella città dipinto.
Questi fu Giorgio che in Castel Franco, in sul trevisano, nacque l'anno 1478, essendo doge Giovan Mozenigo, fratel del doge Piero: dalle fattezze della persona e da la grandezza de l'animo, chiamato poi col tempo Giorgione.
Il quale, quantunque egli fusse nato d'umilissima stirpe, non fu però se non gentile e di buoni costumi in tutta sua vita.
Fu allevato in Vinegia e dilettossi continovamente de le cose d'amore e piacqueli il suono del liuto mirabilmente e tanto, che egli sonava e cantava nel suo tempo tanto divinamente, che egli era spesso per quello adoperato a diverse musiche e ragunate di persone nobili.
Attese al disegno e lo gustò grandemente; et in quello la natura lo favorì sì forte, che egli, innamoratosi delle cose belle, di lei non voleva mettere in opera cosa, che egli dal vivo non ritraesse.
E tanto le fu suggetto e tanto andò imitandola, che non solo egli acquistò nome d'aver passato Gentile e Giovanni Bellini, ma di competere con coloro che lavoravano in Toscana et erano autori della maniera moderna.
Aveva veduto Giorgione alcune cose di mano di Lionardo, molto fumeggiate e cacciate, come si è detto, terribilmente di scuro.
E questa maniera gli piacque tanto che mentre visse sempre andò dietro a quella, e nel colorito a olio la imitò grandemente.
Costui gustando il buono de l'operare, andava scegliendo di mettere in opera sempre del più bello e del più vario che e' trovava.
Diedegli la natura tanto benigno spirito che egli nel colorito a olio et a fresco fece alcune vivezze et altre cose morbide et unite e sfumate talmente negli scuri, che fu cagione che molti di quegli, che erano allora eccellenti, confessassino lui esser nato per metter lo spirito ne le figure e per contraffar la freschezza de la carne viva, più che nessuno che dipignesse, non solo in Venezia, ma per tutto.
Lavorò in Venezia nel suo principio molti quadri di Nostre Donne et altri ritratti di naturale, che sono e vivissimi e belli, come se ne vede ancora tre bellissime teste a olio di sua mano nello studio del reverendissimo Grimani, patriarca d'Aquileia: una fatta per Davit (e per quel che si dice, è il suo ritratto) con una zazzera, come si costumava in que' tempi in fino alle spalle, vivace e colorita, che par di carne: ha un braccio et il petto armato, col quale tiene la testa mozza di Golia.
L'altra è una testona maggiore, ritratta di naturale, che tiene in mano una beretta rossa da comandatore, con un bavero di pelle, e sotto uno di que' saioni a l'antica: questo si pensa, che fusse fatto per un generale di esserciti.
La terza è d'un putto, bella quanto si può fare con certi capelli a uso di velli, che fan conoscere l'eccellenza di Giorgione e non meno l'affezzione del grandissimo patriarca, che gli ha portato sempre a la virtù sua, tenendole carissime e meritamente.
In Fiorenza è di man sua in casa de' figliuoli di Giovan Borgherini, il ritratto d'esso Giovanni quando era giovane in Venezia, e nel medesimo quadro il maestro che lo guidava, che non si può veder in due teste né miglior macchie di color di carne, né più bella tinta di ombre.
In casa Anton de' Nobili è un'altra testa d'un capitano armato, molto vivace e pronta, di qual dicano esser un de' capitani, che Consalvo Ferrante menò seco a Venezia, quando visitò il doge Agostino Barberigo, nel qual tempo si dice, che ritrasse il gran Consalvo armato, che fu cosa rarissima e non si poteva vedere pittura più bella che quella, e che esso Consalvo se ne la portò seco.
Fece Giorgione molti altri ritratti, che sono sparsi in molti luoghi per Italia bellissimi, come ne può far fede quello di Lionardo Loredano, fatto da Giorgione quando era doge, da me visto in mostra per un'Assensa, che mi parve veder vivo quel serenissimo principe, oltra che ne è uno in Faenza, in casa Giovanni da Castel Bolognese, intagliatore di camei e cristalli, ecc., che è fatto per il suocero suo, lavoro veramente divino, perché vi è una unione sfumata ne' colori, che pare di rilievo più che dipinto.
Dilettossi molto del dipignere in fresco, e fra molte cose che fece, egli condusse tutta una facciata di Ca' Soranzo in su la piazza di San Polo.
Ne la quale, oltra molti quadri e storie et altre sue fantasie, si vede un quadro lavorato a olio in su la calcina, cosa che ha retto all'acqua, al sole et al vento, e conservatasi fino a oggi.
Ècci ancora una primavera, che a me pare delle belle cose che e' dipignesse in fresco, ed è gran peccato, che il tempo l'abbia consumata sì crudelmente.
Et io per me non trovo cosa che nuoca più al lavoro in fresco, che gli scirocchi, e massimamente vicino a la marina, dove portono sempre salsedine con esso loro.
Seguì in Venezia, l'anno 1504, al ponte del Rialto un fuoco terribilissimo nel Fondaco de' tedeschi, il quale lo consumò tutto, con le mercanzie e con grandissimo danno de' mercatanti: dove la Signoria di Venezia ordinò di rifarlo di nuovo, e con maggior commodità di abituri e di magnificenza e d'ornamento e bellezza fu speditamente finito, dove, essendo cresciuto la fama di Giorgione, fu consultato et ordinato da chi ne aveva la cura, che Giorgione lo dipingesse in fresco di colori, secondo la sua fantasia, purché e' mostrasse la virtù sua e che e' facesse un'opera eccellente, essendo ella nel più bel luogo e ne la maggior vista di quella città.
Per il che, messovi mano, Giorgione non pensò se non a farvi figure a sua fantasia, per mostrar l'arte; che nel vero non si ritrova storia, che abbino ordine o che rappresentino i fatti di nessuna persona segnalata, o antica o moderna, et io per me non l'ho mai intese, né anche per dimanda, che si sia fatta, ho trovato chi l'intenda, perché dove è una donna, dove è un uomo in varie attitudini, chi ha una testa di lione appresso, altra con un Angelo, a guisa di Cupido, né si giudica quel che si sia.
V'è bene sopra la porta principale, che riesce in merzeria, una femina a sedere, ch'ha sotto una testa d'un gigante morta, quasi in forma d'una Iuditta, ch'alza la testa con la spada e parla con un todesco, quale è a basso, né ho potuto interpretare per quel che se l'abbi fatta, se già non l'avesse voluta fare per una Germania.
In somma e' si vede ben le figure sue esser molto insieme, e che andò sempre acquistando nel meglio: e vi sono teste e pezzi di figure molto ben fatte e colorite vivacissimamente.
Et attese in tutto quello che egli vi fece, che traesse al segno de le cose vive e non a imitazione nessuna de la maniera.
La quale opera è celebrata in Venezia e famosa non meno per quello che e' vi fece, che per il commodo delle mercanzie et utilità del pubblico.
Lavorò un quadro d'un Cristo che porta la croce et un giudeo lo tira, il quale col tempo fu posto nella chiesa di San Rocco, et oggi per la devozione che vi hanno molti, fa miracoli, come si vede.
Lavorò in diversi luoghi, come a Castelfranco e nel trivisano, e fece molti ritratti a vari principi italiani; e fuor d'Italia furono mandate molte de l'opere sue, come cose degne veramente, per far testimonio che se la Toscana soprabbondava di artefici in ogni tempo, la parte ancora di là vicino a' monti non era abbandonata e dimenticata sempre dal cielo.
Dicesi che Giorgione, ragionando con alcuni scultori nel tempo che Andrea Verrocchio faceva il cavallo di bronzo, che volevano perché la scultura mostrava in una figura sola diverse positure e vedute girandogli a torno, che per questo avanzasse la pittura, che non mostrava in una figura se non una parte sola, Giorgione che era d'oppinione che in una storia di pittura si mostrasse senza avere a caminare a torno, ma in una sola occhiata tutte le sorti delle vedute che può fare in più gesti un uomo, (cosa che la scultura non può fare, se non mutando il sito e la veduta, talché non sono una ma più vedute), propose di più che da una figura sola di pittura voleva mostrare il dinanzi et il didietro et i due profili dai lati: cosa che e' fece mettere loro il cervello a partito.
E la fece in questo modo: dipinse uno ignudo, che voltava le spalle et aveva in terra una fonte d'acqua limpidissima, nella quale fece dentro per riverberazione la parte dinanzi; da un de' lati era un corsaletto brunito, che s'era spogliato, nel quale era il profilo manco, perché nel lucido di quell'arme si scorgeva ogni cosa; da l'altra parte era uno specchio, che drento vi era l'altro lato di quello ignudo; cosa di bellissimo ghiribizzo e capriccio, volendo mostrare in effetto che la pittura conduce con più virtù e fatica, e mostra in una vista sola del naturale, più che non fa la scultura.
La qual opera fu sommamente lodata et ammirata, per ingegnosa e bella.
Ritrasse ancora di naturale Caterina regina di Cipro, qual vidi io già nelle mani del clarissimo Messer Giovan Cornaro: e nel nostro libro una testa colorita a olio, ritratta da un todesco di casa Fucheri, che allora era de' maggiori mercanti nel Fondaco de' tedeschi, la quale è cosa mirabile, insieme con altri schizzi e disegni di penna fatti da lui.
Mentre Giorgione attendeva ad onorare e sé e la patria sua, nel molto conversar, che e' faceva per trattenere con la musica molti suoi amici, si innamorò d'una madonna, e molto goderono l'uno e l'altra de' loro amori.
Avvenne che l'anno 1511 ella infettò di peste, non ne sapendo però altro, e praticandovi Giorgione al solito, se li appiccò la peste di maniera, che in breve tempo nella età sua di 34 anni, se ne passò a l'altra vita, non senza dolore infinito di molti suoi amici, che lo amavano per le sue virtù, e danno del mondo, che perse.
Pure tollerarono il danno e la perdita con lo esser restati loro due eccellenti suoi creati Sebastiano Viniziano, che fu poi frate del Piombo a Roma, e Tiziano da Cadore, che non solo lo paragonò, ma lo ha superato grandemente, de' quali a suo luogo si dirà pienamente l'onore e l'utile che hanno fatto a questa arte.
VITA DI ANTONIO DA CORREGGIO PITTORE
Io non voglio uscire del medesimo paese, dove la gran madre natura per non essere tenuta parziale, dette al mondo di rarissimi uomini della sorte che avea già molti e molti anni adornata la Toscana, infra e' quali fu di eccellente e bellissimo ingegno dotato Antonio da Correggio pittore singularissimo.
Il quale attese alla maniera moderna tanto perfettamente, che in pochi anni dotato dalla natura et esercitato dall'arte divenne raro e maraviglioso artefice.
Fu molto d'animo timido, e con incommodità di se stesso in continove fatiche esercitò l'arte, per la famiglia che lo aggravava: et ancora che e' fusse tirato da una bontà naturale, si affliggeva niente di manco più del dovere, nel portare i pesi di quelle passioni, che ordinariamente opprimono gli uomini.
Era nell'arte molto maninconico e suggetto alle fatiche di quella e grandissimo ritrovatore di qualsivoglia difficultà delle cose, come ne fanno fede nel Duomo di Parma una moltitudine grandissima di figure, lavorate in fresco, e ben finite, che sono locate nella tribuna grande di detta chiesa: nelle quali scorta le vedute al di sotto in su con stupendissima maraviglia.
Et egli fu il primo, che in Lombardia cominciasse cose della maniera moderna, per che si giudica, che se l'ingegno di Antonio fosse uscito di Lombardia e stato a Roma, avrebbe fatto miracoli e dato delle fatiche a molti che nel suo tempo furono tenuti grandi.
Conciò sia che, essendo tali le cose sue senza aver egli visto de le cose antiche o de le buone moderne, necessariamente ne seguita che se le avesse vedute, arebbe infinitamente migliorato l'opere sue, e crescendo di bene in meglio sarebbe venuto al sommo de' grandi.
Tengasi pur per certo che nessuno meglio di lui toccò colori, né con maggior vaghezza o con più rilievo alcun artefice dipinse meglio di lui, tanta era la morbidezza delle carni ch'egli faceva, e la grazia con che e' finiva i suoi lavori.
Egli fece ancora in detto luogo due quadri grandi lavorati a olio, nei quali, fra gli altri, in uno si vede un Cristo morto, che fu lodatissimo.
Et in S.
Giovanni in quella città fece una tribuna in fresco, nella quale figurò una Nostra Donna, che ascende in cielo, fra moltitudine di Angeli et altri Santi intorno; la quale pare impossibile ch'egli potesse non esprimere con la mano, ma imaginare con la fantasia per i belli andari de' panni e delle arie che e' diede a quelle figure, delle quali ne sono nel nostro libro alcune dissegnate di lapis rosso di sua mano, con certi fregi di putti bellissimi et altri fregi fatti in quella opera per ornamento, con diverse fantasie di sacrifizii alla antica; e nel vero, se Antonio non avesse condotte l'opere sue a quella perfezzione che le si veggono, i disegni suoi (se bene hanno in loro una buona maniera e vaghezza, e pratica di maestro) non gli arebbano arecato fra gli artefici quel nome, che hanno l'eccellentissime opere sue.
È quest'arte tanto dificile et ha tanti capi, che uno artefice bene spesso non li può tutti fare perfettamente; perché molti sono che hanno disegnato divinamente, e nel colorire hanno avuto qualche imperfezzione, altri hanno colorito maravigliosamente, e non hanno disegnato alla metà; questo nasce tutto dal giudizio e da una pratica che si piglia da giovane chi nel disegno e chi sopra i colori.
Ma perché tutto s'impara per condurre l'opere perfette nella fine, il quale è il colorire con disegno tutto quel che si fa, per questo il Coreggio merita gran lode avendo conseguito il fine della perfezione ne l'opere, che egli a olio et a fresco colorì; come nella medesima città nella chiesa de' frati de' Zoccoli di S.
Francesco, che vi dipinse una Nunziata in fresco tanto bene, che accadendo per aconcime di quel luogo, rovinarla, feciono que' frati ricingere il muro atorno con legnami armati di ferramenti, e tagliandolo a poco a poco la salvorono, et in un altro loco più sicuro fu murata da loro nel medesimo convento.
Dipinse ancora sopra una porta di quella città una Nostra Donna, che ha il Figliuolo in braccio, ch'è stupenda cosa a vedere il vago colorito in fresco di questa opera, dove ne ha riportato da forestieri viandanti, che non hanno visto altro di suo, lode et onore infinito.
In S.
Antonio ancora di quella città dipinse una tavola, nella qual è una Nostra Donna e S.
Maria Madalena, et apresso vi è un putto, che ride, che tiene a guisa di Angioletto un libro in mano, il quale par che rida tanto naturalmente, che muove a riso chi lo guarda, né lo vede persona di natura malinconica che non si rallegri; èvvi ancora un S.
Girolamo, ed è colorita di maniera sì maravigliosa e stupenda, che i pittori ammirano quella per colorito mirabile, e che non si possa quasi dipignere meglio.
Fece similmente quadri et altre pitture per Lombardia a molti signori; e fra l'altre cose sue, due quadri in Mantova al duca Federigo II, per mandare a lo imperatore, cosa veramente degna di tanto principe.
Le quali opere vedendo Giulio Romano, disse non aver mai veduto colorito nessuno ch'aggiugnesse a quel segno: l'uno era una Leda ignuda, e l'altro una Venere, sì di morbidezza colorito e d'ombre di carne lavorate, che non parevano colori ma carni; era in una un paese mirabile, né mai lombardo fu che meglio facesse queste cose di lui, et oltra di ciò, capegli sì leggiadri di colore e con finita pulitezza sfilati e condotti, che meglio di quegli non si può vedere.
Eranvi alcuni amori, che de le saette facevano prova su una pietra, quelle d'oro e di piombo, lavorati con bello artificio, e, quel che più grazia donava alla Venere, era una acqua chiarissima e limpida, che correva fra alcuni sassi e bagnava i piedi di quella e quasi nessuno ne ocupava.
Onde nello scorgere quella candidezza con quella dilicatezza, faceva agl'occhi compassione nel vedere.
Perché certissimamente Antonio meritò ogni grado et ogni onore vivo e con le voci e con gli scritti ogni gloria dopo la morte.
Dipinse ancora in Modena una tavola d'una Madonna tenuta da tutti i pittori in pregio e per la maggior pittura di quella città.
In Bologna parimente è di sua mano in casa gl'Arcolani, gentiluomini bolognesi, un Cristo che ne l'orto apare a Maria Madalena, cosa molto bella.
In Reggio era un quadro bellissimo e raro, che non è molto che passando Messer Luciano Palavigino, il quale molto si diletta delle cose belle di pittura, e vedendolo non guardò a spesa di danari, e come avesse compero una gioia, lo mandò a Genova nella casa sua.
È in Reggio medesimamente una tavola, drentovi una Natività di Cristo, ove partendosi da quello uno splendore fa lume a' pastori et intorno alle figure che lo contemplano, e fra molte considerazioni avute in questo suggetto, vi è una femina che volendo fisamente guardare verso Cristo, e per non potere gli occhi mortali sofferire la luce della sua divinità, che con i raggi par che percuota quella figura, si mette la mano dinanzi agl'occhi, tanto bene espressa, che è una maraviglia.
Èvvi un coro di Angeli sopra la capanna che cantano, che son tanto ben fatti che par che siano piutosto piovuti dal cielo, che fatti dalla mano d'un pittore.
È nella medesima città un quadretto di grandezza di un piede, la più rara e bella cosa che si possa vedere di suo di figure piccole, nel quale è un Cristo ne l'orto, pittura finta di notte, dove l'Angelo aparendogli col lume del suo splendore fa lume a Cristo, che è tanto simile al vero che non si può né immaginare né esprimere meglio; giuso a' piè del monte in un piano si veggono tre Apostoli che dormano, sopra' quali fa ombra il monte dove Cristo ora, che dà una forza a quelle figure che non è possibile; e più là, in un paese lontano, finto l'apparire della aurora; e si veggono venire da l'un de' lati alcuni soldati con Giuda; e nella sua piccolezza questa istoria è tanto bene intesa, che non si può né di pazienza, né di studio per tanta opera paragonalla.
Potrebbonsi dire molte cose delle opere di costui, ma perché fra gli uomini eccellenti de l'arte nostra è amirato per cosa divina ogni cosa che si vede di suo, non mi distenderò più.
Ho usato ogni diligenzia d'avere il suo ritratto, e perché lui non lo fecie, e da altri non è stato mai ritratto, perché visse sempre positivamente, non l'ho potuto trovare; e nel vero fu persona che non si stimò né si persuase di sapere far l'arte, conoscendo la difficultà sua, con quella perfezzione che egli arebbe voluto.
Contentavasi del poco e viveva da bonissimo cristiano.
Desiderava Antonio, sì come quello ch'era aggravato di famiglia, di continuo risparmiare et era divenuto perciò tanto misero che più non poteva essere.
Per il che si dice che, essendoli stato fatto in Parma un pagamento di sessanta scudi di quattrini, esso volendoli portare a Correggio per alcune occorenzie sue, carico di quelli si mise in camino a piedi; e per lo caldo grande, che era allora scalmanato dal sole, beendo acqua per rinfrescarsi, si pose nel letto con una grandissima febre, né di quivi prima levò il capo, che finì la vita nell'età sua d'anni XL o circa.
Furono le pitture sue circa il 1512.
E fece alla pittura grandissimo dono ne' colori da lui maneggiati come vero maestro, e fu cagione che la Lombardia aprisse per lui gl'occhi, dove tanti belli ingegni si son visti nella pittura, seguitandolo in fare opere lodevoli e degne di memoria; perché mostrandoci i suoi capegli fatti con tanta facilità nella difficultà del fargli, ha insegnato come e' si abbino a fare.
Di che gli debbono eternamente tutti i pittori; ad istanzia de' quali gli fu fatto questo epiggrama da Messer Fabio Segni, gentiluomo fiorentino:
Huius cum regeret mortales spiritus artus
pictoris, Charites suplicuere Iovi.
Non alia pingi dextra Pater alme rogamus:
hunc praeter, nulli pingere nos liceat.
Annuit his votis summi regnator Olympi:
et iuvenem subito sydera ad alta tulit,
ut posset melius Charitum simulacra referre
praesens et nudas cerneret inde Deas.
Fu in questo tempo medesimo Andrea del Gobbo milanese, pittore e coloritore molto vago, di mano del quale sono sparse molte opere nelle case per Milano sua patria; et alla Certosa di Pavia una tavola grande con la Assunzione di Nostra Donna, ma imperfetta per la morte che li sopravvenne, la quale tavola mostra quanto egli fusse eccellente et amatore delle fatiche dell'arte.
VITA DI PIERO DI COSIMO PITTOR FIORENTINO
Mentre che Giorgione et il Correggio con grande loro loda e gloria onoravano le parti di Lombardia, non mancava la Toscana ancor ella di belli ingegni, fra' quali non fu de' minimi Piero, figliuolo d'un Lorenzo orafo et allievo di Cosimo Rosselli, e però chiamato sempre, e non altrimenti inteso, che per Piero di Cosimo: poiché invero non meno si ha obligo e si debbe riputare per vero padre quel che c'insegna la virtù e ci dà il bene essere, che quello che ci genera e dà l'essere semplicemente.
Questi dal padre, che vedeva nel figliuolo vivace ingegno et inclinazione al disegno, fu dato in cura a Cosimo, che lo prese più che volentieri, e fra molti discepoli ch'egli aveva, vedendolo crescere, con gli anni e con la virtù gli portò amore come a figliuolo e per tale lo tenne sempre.
Aveva questo giovane da natura uno spirito molto elevato et era molto stratto e vario di fantasia dagli altri giovani che stavono con Cosimo per imparare la medesima arte.
Costui era qualche volta tanto intento a quello che faceva, che ragionando di qualche cosa, come suole avvenire, nel fine del ragionamento, bisognava rifarsi da capo a racontargnene, essendo ito col cervello ad un'altra sua fantasia.
Et era similmente tanto amico de la solitudine, che non aveva piacere, se non quando pensoso da sé solo poteva andarsene fantasticando e fare suoi castelli in aria.
Onde aveva cagione di volergli ben grande Cosimo suo maestro, perché se ne serviva talmente ne l'opere sue, che spesso spesso gli faceva condurre molte cose che erano d'importanza, conoscendo che Piero aveva e più bella maniera e miglior giudizio di lui.
Per questo lo menò egli seco a Roma, quando vi fu chiamato da papa Sisto, per far le storie de la cappella, in una de le quali Piero fece un paese bellissimo, come si disse ne la vita di Cosimo.
E perché egli ritraeva di naturale molto eccellentemente, fece in Roma di molti ritratti di persone segnalate e particularmente quello di Verginio Orsino e di Ruberto Sanseverino, i quali misse in quelle istorie.
Ritrasse ancora poi il duca Valentino figliuolo di papa Alessandro Sesto; la qual pittura oggi, che io sappia, non si trova; ma bene il cartone di sua mano, et è appresso al reverendo e virtuoso Messer Cosimo Bartoli, proposto di San Giovanni.
Fece in Fiorenza molti quadri a più cittadini, sparsi per le loro case, che ne ho visti de' molto buoni, e così diverse cose a molte altre persone.
E nel noviziato di San Marco in un quadro una Nostra Donna ritta col Figliuolo in collo, colorita a olio.
E ne la chiesa di Santo Spirito di Fiorenza lavorò a la cappella di Gino Capponi una tavola, che vi è dentro una Visitazione di Nostra Donna, con San Nicolò et un S.
Antonio, che legge con un par d'occhiali al naso, che è molto pronto.
Quivi contrafece uno libro di carta pecora un po' vecchio, che par vero, e così certe palle a quel San Niccolò con certi lustri ribattendo i barlumi, e riflessi l'una ne l'altra, che si conosceva in fino allora la stranezza del suo cervello, et il cercare che e' faceva de le cose difficili.
E bene lo dimostrò meglio dopo la morte di Cosimo, che egli del continuo stava rinchiuso, e non si lasciava veder lavorare, e teneva una vita da uomo più tosto bestiale che umano.
Non voleva che le stanze si spazzassino, voleva mangiare all'ora che la fame veniva, e non voleva che si zappasse o potasse i frutti dell'orto, anzi lasciava crescere le viti et andare i tralci per terra, et i fichi non si potavono mai, né gli altri alberi, anzi si contentava veder salvatico ogni cosa come la sua natura, allegando che le cose d'essa natura bisogna lassarle custodire a lei senza farvi altro.
Recavasi spesso a vedere o animali o erbe o qualche cosa, che la natura fa per istranezza et accaso di molte volte; e ne aveva un contento et una satisfazione che lo furava tutto a se stesso.
E replicavalo ne' suoi ragionamenti tante volte, che veniva talvolta, ancor che e' se n'avesse piacere, a fastidio.
Fermavasi tallora a considerare un muro, dove lungamente fusse stato sputato da persone malate e ne cavava le battaglie de' cavagli e le più fantastiche città e più gran paesi che si vedesse mai; simil faceva de' nuvoli de l'aria.
Diede opera al colorire a olio, avendo visto certe cose di Lionardo fumeggiate e finite con quella diligenza estrema, che soleva Lionardo quando e' voleva mostrar l'arte, e così Piero piacendoli quel modo cercava imitarlo, quantunque egli fusse poi molto lontano da Lionardo e da l'altre maniere assai stravagante: perché bene si può dire che e' la mutasse quasi a ciò ch'e' faceva.
E se Piero non fusse stato tanto astratto et avesse tenuto più conto di sé nella vita che egli non fece, arebbe fatto conoscere il grande ingegno che egli aveva, di maniera che sarebbe stato adorato, dove egli per la bestialità sua fu più tosto tenuto pazzo, ancora che egli non facesse male se non a sé solo nella fine e benefizio et utile con le opere a l'arte sua.
Per la qual cosa doverebbe sempre ogni buono ingegno et ogni eccellente artefice ammaestrato da questi esempli aver gli occhi alla fine.
Né lasciarò di dire, che Piero nella sua gioventù per essere capriccioso e di stravagante invenzione fu molto adoperato nelle mascherate che si fanno per carnovale.
E fu a que' nobili giovani fiorentini molto grato, avendogli lui molto migliorato e d'invenzione e d'ornamento e di grandezze e pompa quella sorte di passatempi; e sì di ciò, che fu de' primi che trovasse di mandargli fuora a guisa di trionfi, o almeno gli migliorò assai, con accomodare l'invenzione della storia non solo con musiche e parole a proposito del subietto, ma con incredibil pompa d'accompagnatura di uomini a piè et a cavallo, di abiti et abigliamenti accomodati alla storia, cosa che riusciva molto ricca e bella, et aveva insieme del grande e dello ingegnoso.
E certo era cosa molto bella a vedere, di notte, venticinque o trenta coppie di cavalli richissimamente abigliati co' lor signori travestiti secondo il suggetto della invenzione, sei o otto staffieri per uno vestiti d'una livrea medesima con le torcie in mano, che tal volta passavano il numero di 400, et il carro poi, o trionfo pieno di ornamenti, o di spoglie e bizzarissime fantasie, cosa che fa assotigliare gli ingegni e dà gran piacere e satisfazione a' popoli.
Fra questi, che assai furono et ingegnosi mi piace toccare brevemente d'uno, che fu principale invenzione di Piero già maturo di anni, e non come molti piacevole per la sua vaghezza, ma per il contrario per una strana et orribile et inaspettata invenzione di non piccola satisfazione a' popoli, che come ne' cibi tal volta le cose agre, così in quelli passatempi le cose orribili pur che sieno fatte con giudizio et arte, dilettano maravigliosamente il gusto umano, cosa che aparisce nel recitare le tragedie: questo fu il carro della morte da lui segretissimamente lavorato alla sala del papa, che mai se ne potette spiare cosa alcuna ma fu veduto e saputo in un medesimo punto.
Era il trionfo un carro grandissimo tirato da bufoli tutto nero e dipinto di ossa di morti, e di croci bianche, e sopra il carro era una morte grandissima in cima con la falce in mano, et aveva in giro al carro molti sepolcri col coperchio, et in tutti que' luoghi che il trionfo si fermava a cantare s'aprivano et uscivano alcuni vestiti di tela nera, sopra la quale erano dipinte tutte le ossature di morto nelle braccia, petto, rene e gambe, che il bianco sopra quel nero, et aparendo di lontano alcune di quelle torcie con maschere che pigliavano col teschio di morto il dinanzi e 'l dirieto e parimente la gola, oltra al parere cosa naturalissima era orribile e spaventosa a vedere.
E questi morti al suono di certe trombe sorde, e con suon roco e morto, uscivano mezzi di que' sepolcri, e sedendovi sopra cantavano in musica piena di malenconia quella oggi nobilissima canzone:
Dolor, pianto e penitenzia, etc.
Era inanzi et adrieto al carro gran numero di morti a cavallo, sopra certi cavagli con somma diligenzia scelti de' più secchi e più strutti che si potessino trovare con covertine nere piene di croci bianche, e ciascuno aveva 4 staffieri vestiti da morti con torce nere et uno stendardo grande nero con croci et ossa e teste di morto.
Appresso al trionfo si strassinava 10 stendardi neri, e mentre caminavano con voce tremanti et unite diceva quella compagnia il Miserere, psalmo di Davit.
Questo duro spettacolo per la novità, come ho detto, e terribilità sua, misse terrore e maraviglia insieme in tutta quella città, e se bene non parve nella prima giunta cosa da carnovale, nondimeno per una certa novità e per essere accomodato tutto benissimo, satisfece agli animi di tutti, e Piero autore et inventore di tal cosa ne fu sommamente lodato e comendato; e fu cagione che poi di mano in mano si seguitassi di fare cose spiritose e d'ingegnosa invenzione, che invero per tali suggetti e per condurre simil feste non ha avuto questa città mai paragone; et ancora in que' vecchi che lo videro ne rimane viva memoria, né si saziano di celebrar questa capricciosa invenzione.
Senti' dire io a Andrea di Cosimo, che fu con lui a fare questa opera, et Andrea del Sarto, che fu suo discepolo e vi si trovò anche egli, che e' fu opinione in quel tempo che questa invenzione fussi fatta per significare la tornata della casa de' Medici del 12 in Firenze, perché allora che questo trionfo si fece erano esuli, e come dire morti che dovessino in breve resuscitare, et a questo fine interpretavano quelle parole che sono nella canzone:
Morti siam come vedete,
così morti vedrem voi.
Fummo già come voi siete,
vo' sarete come noi, etc.
volendo accennare la ritornata loro in casa, e quasi come una ressurrezzione da morte a vita, e la cacciata et abassamento de' contrarii loro; o pure che fusse, che molti dallo effetto che seguì della tornata in Firenze di quella illustre casa, come son vaghi gli ingegni umani di aplicare le parole et ogni atto che nasce prima agli effetti che seguon poi, che gli fu dato questa interpretazione.
Certo è che questo fu allora oppinione di molti e se ne parlò assai.
Ma ritornando a l'arte et azzioni di Piero, fu allogato a Piero una tavola a la cappella de' Tedaldi nella chiesa de' frati de' Servi, dove eglino tengono la veste et il guanciale di S.
Filippo lor frate, nella quale finse la Nostra Donna ritta, che è rilevata da terra in un dado e con un libro in mano, senza il Figliuolo, che alza la testa al cielo, e sopra quella è lo Spirito Santo, che la illumina.
Né ha voluto che altro lume, che quello che fa la colomba, lumeggi e lei e le figure che le sono intorno, come una S.
Margherita et una S.
Caterina che la adorano ginochioni, e ritti son a guardarla S.
Pietro e S.
Giovanni Evangelista, insieme con S.
Filippo frate de' Servi e S.
Antonino arcivescovo di Firenze.
Oltra che vi fece un paese bizzarro e per gli alberi strani e per alcune grotte, e per il vero ci sono parti bellissime, come certe teste che mostrano e disegno e grazia, oltra il colorito molto continovato.
E certamente che Piero possedeva grandemente il colorire a olio.
Fecevi la predella con alcune storiette piccole molto ben fatte; et in fra l'altre ve n'è una, quando S.
Margherita esce dal ventre del serpente, che per aver fatto quello animale e contraffatto e brutto, non penso che in quel genere si possa veder meglio, mostrando il veleno per gli occhi, il fuoco e la morte, in uno aspetto veramente pauroso.
E certamente che simil cose non credo che nessuno le facesse meglio di lui né le imaginasse a gran pezzo, come ne può render testimonio un mostro marino, che egli fece e donò al Magnifico Giuliano de Medici, che per la deformità sua è tanto stravagante, bizzarro e fantastico, che pare impossibile che la natura usasse e tanta deformità e tanta stranezza nelle cose sue.
Questo mostro è oggi ne la guardaroba del Duca Cosimo de' Medici; così come è anco pur di mano di Piero un libro d'animali de la medesima sorte, bellissimi e bizzarri, tratteggiati di penna diligentissimamente e con una pazienza inestimabile condotti.
Il quale libro gli fu donato da Messer Cosimo Bartoli proposto di S.
Giovanni, mio amicissimo e di tutti i nostri artefici, come quello che sempre si è dilettato et ancora si diletta di tale mestiero.
Fece parimente in casa di Francesco del Pugliese intorno a una camera diverse storie di figure piccole, né si può esprimere la diversità de le cose fantastiche che egli in tutte quelle si dilettò dipignere, e di casamenti e d'animali e di abiti e strumenti diversi, et altre fantasie che gli sovennono per essere storie di favole.
Queste istorie doppo la morte di Francesco del Pugliese e de' figliuoli sono state levate né so ove sieno capitate.
E così un quadro di Marte e Venere con i suoi amori e Vulcano, fatto con una grande arte e con una pazienza incredibile.
Dipinse Piero per Filippo Strozzi vecchio, un quadro di figure piccole, quando Perseo libera Andromeda dal mostro, che v'è dentro certe cose bellissime.
Il qual è oggi in casa il signor Sforza Almeni primo cameriere del duca Cosimo, donatogli da Messer Giovanni Batista di Lorenzo Strozzi conoscendo quanto quel signore si diletti della pittura e scoltura, et egli ne tien conto grande perché non fece mai Piero la più vaga pittura né la meglio finita di questa, atteso che non è possibile veder la più bizzarra orca marina né la più capricciosa di quella che si immaginò di dipignere Piero con la più fiera attitudine di Perseo, che in aria la percuote con la spada; quivi fra 'l timore e la speranza si vede legata Andromeda, di volto bellissima, e qua inanzi molte genti con diversi abiti strani sonando e cantando, ove sono certe teste che ridano e si rallegrano di vedere liberata Andromeda, che sono divine; il paese è bellissimo et un colorito dolce e grazioso, e quanto si può unire e sfumare colori, condusse questa opera con estrema diligenza.
Dipinse ancora un quadro dove una Venere ignuda con un Marte parimente, che spogliato nudo dorme sopra un prato pien di fiori, et attorno son diversi amori, che chi in qua chi in là traportano la celata, i bracciali e l'altre arme di Marte; èvvi un bosco di mirto, et un Cupido che ha paura d'un coniglio; così vi sono le colombe di Venere e l'altre cose di amore.
Questo quadro è in Fiorenza in casa Giorgio Vasari tenuto in memoria sua da lui perché sempre gli piacquero i capricci di questo maestro.
Era molto amico di Piero lo spedalingo de li Innocenti, e volendo far fare una tavola, che andava all'entrata di chiesa a man manca alla cappella del Pugliese, la allogò a Piero, il qual con suo agio la condusse al fine, ma prima fece disperare lo spedalingo; che non ci fu mai ordine che la vedesse se non finita, e quanto ciò gli paresse strano, e per l'amicizia e per il sovenirlo tutto il dì di danari e non vedere quel che si faceva, egli stesso lo dimostrò, che all'ultima paga non gliele voleva dare se non vedeva l'opera.
Ma minacciato da Piero che guasterebbe quel che aveva fatto, fu forzato dargli il resto, e con maggior collera che prima aver pazienza che la mettesse su, et in questa sono veramente assai cose buone.
Prese a fare per una cappella una tavola ne la chiesa di S.
Piero Gattolini, e vi fece una Nostra Donna a sedere con quattro figure intorno e due Angeli in aria che la incoronano.
Opera condotta con tanta diligenzia che n'acquistò lode et onore; la quale oggi si vede in S.
Friano sendo rovinata quella chiesa.
Fece una tavoletta de la Concezzione nel tramezzo de la chiesa di S.
Francesco da Fiesole la quale è assai buona cosetta, sendo le figure non molto grandi.
Lavorò per Giovan Vespucci, che stava dirimpetto a S.
Michele della via de' Servi, oggi di Pier Salviati, alcune storie baccanarie che sono intorno a una camera, nelle quali fece sì strani fauni, satiri e silvani e putti e baccanti, che è una maraviglia a vedere la diversità de' zaini e delle vesti, e la varietà delle cere caprine, con una grazia et imitazione verissima.
Èvvi in una storia Sileno a cavallo su uno asino con molti fanciulli, chi lo regge e chi gli dà bere, e si vede una letizia al vivo fatta con grande ingegno.
E nel vero si conosce in quel che si vede di suo uno spirito molto vario et astratto dagli altri, e con certa sottilità nello investigare certe sottigliezze della natura, che penetrano, senza guardare a tempo o fatiche, solo per suo diletto e per il piacere dell'arte; e non poteva già essere altrimenti perché innamorato di lei, non curava de' suoi comodi e si riduceva a mangiar continuamente ovva sode che per rispiarmare il fuoco, le coceva quando faceva bollir la colla; e non sei, o otto per volta, ma una cinquantina, e tenendole in una sporta, le consumava a poco a poco.
Nella quale vita così strattamente godeva, che l'altre appetto alla sua gli parevano servitù.
Aveva a noia il piagner de' putti, il tossir de gli uomini, il suono delle campane, il cantar de' frati; e quando diluviava il cielo d'acqua, aveva piacere di veder rovinarla a piombo da' tetti e stritolarsi per terra.
Aveva paura grandissima de le saette, e quando e' tonava straordinariamente, si inviluppava nel mantello e serrato le finestre e l'uscio della camera, si recava in un cantone finché passasse la furia.
Nel suo ragionamento era tanto diverso e vario, che qualche volta diceva sì belle cose che faceva crepar dalle risa altrui.
Ma per la vecchiezza vicino già ad anni 80, era fatto sì strano e fantastico che non si poteva più seco.
Non voleva che i garzoni gli stessino intorno, di maniera che ogni aiuto per la sua bestialità gli era venuto meno.
Venivagli voglia di lavorare e per il parletico non poteva.
Et entrava in tanta collera che voleva sgarare le mani, che stessino ferme, e mentre che e' borbotava, o gli cadeva la mazza da poggiare, o veramente i pennelli, che era una compassione.
Adiravasi con le mosche, e gli dava noia infino a l'ombra; e così ammalatosi di vecchiaia e visitato pure da qualche amico, era pregato che dovesse acconciarsi con Dio.
Ma non li pareva avere a morire, e tratteneva altrui d'oggi in domane.
Non che e' non fussi buono e non avessi fede, ché era zelantissimo, ancora che nella vita fusse bestiale.
Ragionava qualche volta de' tormenti che per i mali fanno distruggere i corpi e quanto stento patisce chi consumando gli spiriti a poco a poco si muore, il che è una gran miseria.
Diceva male de' medici, degli speziali e di coloro che guardano gli ammalati, e che gli fanno morire di fame; oltra i tormenti degli sciloppi, medicine, cristieri et altri martorii, come il non essere lasciato dormire, quando tu hai sonno, il fare testamento, il veder piagnere i parenti e lo stare in camera al buio; e lodava la giustizia, che era così bella cosa l'andare a la morte; e che si vedeva tanta aria e tanto popolo, che tu eri confortato con i confetti e con le buone parole; avevi il prete et il popolo, che pregava per te; e che andavi con gli Angeli in paradiso; che aveva una gran sorte, chi n'usciva a un tratto.
E faceva discorsi e tirava le cose a' più strani sensi che si potesse udire.
Laonde per sì strane sue fantasie vivendo stranamente si condusse a tale, che una mattina fu trovato morto appiè d'una scala, l'anno MDXXI; et in San Pier Maggiore gli fu dato sepoltura.
Molti furono i discepoli di costui, e fra gli altri Andrea del Sarto, che valse per molti.
Il suo ritratto, s'è avuto da Francesco da S.
Gallo che lo fece mentre Piero era vecchio, come molto suo amico e domestico; il qual Francesco ancora ha di mano di Piero (ché non la debbo passare) una testa bellissima di Cleopatra, con uno aspido avvolto al collo, e dua ritratti, l'uno di Giuliano suo padre, l'altro di Francesco Giamberti, suo avolo, che paion vivi.
VITA DI BRAMANTE DA URBINO ARCHITETTORE
Di grandissimo giovamento alla architettura fu veramente il moderno operare di Filippo Brunelleschi, avendo egli contrafatto e dopo molte età rimesse in luce l'opere egregie de' più dotti e maravigliosi antichi.
Ma non fu manco utile al secolo nostro Bramante, acciò seguitando le vestigie di Filippo, facesse agli altri dopo lui strada sicura nella professione della architettura, essendo egli di animo, valore, ingegno e scienza in quella arte non solamente teorico, ma pratico et esercitato sommamente.
Né poteva la natura formare uno ingegno più spedito, che esercitasse e mettesse in opera le cose dell'arte, con maggiore invenzione e misura e con tanto fondamento quanto costui.
Ma non meno punto di tutto questo fu necessario il creare in quel tempo Giulio II pontefice animoso e di lasciar memorie desiderosissimo.
E fu ventura nostra e sua il trovare un tal principe, il che agli ingegni grandi avviene rare volte, a le spese del quale e' potesse mostrare il valore dello ingegno suo e quelle arteficiose difficultà che nella architettura mostrò Bramante.
La virtù del quale si estese negli edifici da lui fabricati, che le modanature delle cornici, i fusi delle colonne, la grazia de' capitegli, le base, le mensole et i cantoni, le volte, le scale, i risalti et ogni ordine d'architettura tirato per consiglio o modello di questo artefice, riuscì sempre maraviglioso a chiunque lo vide.
Laonde quello obligo eterno che hanno gli ingegni che studiano sopra i sudori antichi, mi pare che ancora lo debbano avere alle fatiche di Bramante.
Perché se pure i Greci furono inventori della architettura et i Romani imitatori, Bramante non solo imitandogli con invenzion nuova ci insegnò, ma ancora bellezza e difficultà accrebbe grandissima all'arte, la quale per lui imbellita oggi veggiamo.
Costui nacque in Castello Durante nello stato di Urbino, d'una povera persona ma di buone qualità, e nella sua fanciullezza oltra il leggere e lo scrivere, si esercitò grandemente nello abbaco.
Ma il padre che aveva bisogno che e' guadagnasse, vedendo che egli si dilettava molto del disegno, lo indirizzò ancora fanciulletto a l'arte della pittura, nella quale studiò egli molto le cose di fra' Bartolomeo, altrimenti fra' Carnovale da Urbino, che fece la tavola di S.
Maria della Bella in Urbino.
Ma perché egli sempre si dilettò de l'architettura e de la prospettiva, si partì da Castel Durante; e condottosi in Lombardia, andava ora in questa, ora in quella città lavorando il meglio che e' poteva.
Non però cose di grande spesa o di molto onore, non avendo ancora né nome, né credito.
Per il che, deliberatosi di vedere almeno qualcosa notabile, si trasferì a Milano per vedere il Duomo, dove allora si trovava un Cesare Cesariano, reputato buono geometra e buono architettore, il quale comentò Vitruvio e disperato di non averne avuto quella remunerazione che egli si aveva promessa, diventò sì strano, che non volse più operare, e divenuto salvatico morì più da bestia che da persona.
Eravi ancora un Bernardino da Trevio milanese, ingegnere et architettore del Duomo e disegnatore grandissimo il quale da Lionardo da Vinci fu tenuto maestro raro, ancora che la sua maniera fusse crudetta et alquanto secca nelle pitture.
Vedesi di costui in testa del Chiostro delle Grazie una Resurressione di Cristo, con alcuni scorti bellissimi; et in S.
Francesco una cappella a fresco, dentrovi la morte di S.
Pietro e di S.
Paulo.
Costui dipinse in Milano molte altre opere, e per il contado ne fece anche buon numero tenute in pregio, e nel nostro libro è una testa di carbone e biacca d'una femina assai bella che ancor fa fede de la maniera ch'e' tenne.
Ma per tornare a Bramante, considerata che egli ebbe questa fabbrica e conosciuti questi ingegneri, si inanimì di sorte, che egli si risolvé del tutto darsi a l'architettura.
Laonde, partitosi da Milano, se ne venne a Roma innanzi lo anno santo del MD dove conosciuto da alcuni suoi amici e del paese e lombardi, gli fu dato da dipignere a S.
Giovanni Laterano sopra la porta santa che s'apre per il Giubbileo, una arme di papa Alessandro VI lavorata in fresco, con Angeli e figure che la sostengono.
Aveva Bramante recato di Lombardia e guadagnati in Roma a fare alcune cose certi danari; i quali con una masserizia grandissima spendeva, desideroso poter vivere del suo et insieme, senza aver a lavorare, potere agiatamente misurare tutte le fabriche antiche di Roma.
E messovi mano, solitario e cogitativo se n'andava; e fra non molto spazio di tempo misurò quanti edifizii erano in quella città e fuori per la campagna, e parimente fece fino a Napoli, e dovunque e' sapeva che fossero cose antiche; misurò ciò che era a Tiboli et alla villa Adriana, e come si dirà poi al suo luogo, se ne servì assai.
E scoperto in questo modo l'animo di Bramante, il cardinale di Napoli datoli d'occhio prese a favorirlo.
Donde Bramante seguitando lo studio, essendo venuto voglia al cardinale detto di far rifare a' frati della Pace il chiostro, di trevertino, ebbe il carico di questo chiostro.
Per il che desiderando di acquistare e di gratuirsi molto quel cardinale, si messe a l'opera con ogni industria e diligenzia, e prestamente e perfettamente la condusse al fine.
Et ancora che egli non fusse di tutta bellezza, gli diede grandissimo nome per non essere in Roma molti che attendessino alla architettura con tanto amore, studio e prestezza, quanto Bramante.
Servì Bramante, ne' suoi principii, per sotto architettore di papa Alessandro VI alla fonte di Trastevere e parimente a quella che si fece in sulla piazza di S.
Pietro; trovossi ancora, essendo cresciuto in reputazione, con altri eccellenti architettori, alla resoluzione di gran parte del palazzo di S.
Giorgio e della chiesa di S.
Lorenzo in Damaso fatto fare da Raffaello Riario cardinale di S.
Giorgio vicino a Campo di Fiore; che quantunque si sia poi fatto meglio, fu non di meno, et è ancora per la grandezza sua, tenuta comoda e magnifica abitazione, e di questa fabbrica fu esecutore uno Antonio Montecavallo.
Trovossi al consiglio dello accrescimento di San Iacopo degli Spagnuoli in Navona e parimente alla deliberazione di Santa Maria de Anima, fatta condurre poi da uno architetto todesco.
Fu suo disegno ancora il palazzo del cardinale Adriano da Corneto, in Borgo Nuovo, che si fabricò adagio, e poi finalmente rimase imperfetto per la fuga di detto cardinale; e parimente l'accrescimento della cappella maggiore di Santa Maria del Populo fu suo disegno, le quali opere gli acquistarono in Roma tanto credito che era stimato il primo architettore per essere egli risoluto, presto e bonissimo inventore che da tutta quella città fu del continuo ne' magior bisogni da tutti e' grandi adoperato; per il che creato papa Iulio II l'anno 1503, cominciò a servirlo.
Era entrato in fantasia a quel Pontefice di acconciare quello spazio che era fra belvedere e 'l palazzo ch'egli avessi forma di teatro quadro abbracciando una valletta che era in mezzo al palazzo papale vecchio, e la muraglia che aveva per abitazione del papa fatta di nuovo Innocenzio VIII; e che da dua corridori che mettessino in mezzo questa valletta, si potessi venire di belvedere in palazzo per logge, e così di palazzo per quelle andare in belvedere, e che della valle per ordine di scale in diversi modi si potesse salire sul piano di belvedere; per il che Bramante, che aveva grandissimo giudizio et ingegno capriccioso in tal cose, spartì nel più basso con duoi ordini d'altezze prima una loggia dorica bellissima, simile al Coliseo de' Savegli, ma in cambio di mezze colonne misse pilastri, e tutta di tivertini la murò; e sopra questa uno secondo ordine ionico sodo di finestre, tanto che e' venne al piano delle prime stanze del palazzo papale et al piano di quelle di belvedere, per far poi una loggia più di 400 passi dalla banda di verso Roma, e parimente un'altra di verso il bosco, che l'una e l'altra volse che mettessino in mezzo la valle ove spianata che ella era si aveva a condurre tutta l'acqua di belvedere e fare una bellissima fontana; di questo disegno finì Bramante il primo corridore che esce di palazzo e va in belvedere dalla banda di Roma eccetto l'ultima loggia che dovea andar di sopra; ma la parte verso il bosco riscontro a questa si fondò bene, ma non si poté finire intervenendo la morte di Iulio e poi di Bramante; fu tenuta tanto bella invenzione, che si credette che dagli antichi in qua Roma non avessi veduto meglio.
Ma come s'è detto dell'altro corridore rimasero solo i fondamenti e penato a finirsi fino a questo giorno che Pio IIII gli ha dato quasi perfezzione.
Fecevi ancora la testata che è in belvedere allo antiquario delle statue antiche con l'ordine delle nicchie e nel suo tempo vi si messe il Laoconte, statua antica rarissima, e lo Apollo e la Venere; ché poi il resto delle statue furon poste da Leone X, come il Tevere e 'l Nilo e la Cleopatra, e da Clemente VII alcune altre, e nel tempo di Paulo III e di Giulio III fattovi molti acconcimi d'importanzia con grossa spesa.
E tornando a Bramante, s'egli non avessi avuto i suoi ministri avari egli era molto spedito et intendeva maravigliosamente la cosa del fabricare; e questa muraglia di belvedere fu da lui con grandissima prestezza condotta et era tanta la furia di lui che faceva e del papa, che aveva voglia che tali fabriche non si murassero, ma nascessero, che i fondatori portavano di notte la sabbia et il pancone fermo della terra, e la cavavano di giorno in presenza a Bramante; perch'egli senza altro vedere faceva fondare.
La quale inavvertenza fu cagione che le sue fatiche sono tutte crepate e stanno a pericolo di ruinare come fece questo medesimo corridore, del quale un pezzo di braccia ottanta ruinò a terra al tempo di Clemente VII e fu rifatto poi da Papa Paulo III et egli ancora lo fece rifondare e ringrossare.
Sono di suo in belvedere molte altre salite di scale variate secondo i luoghi suoi alti e bassi, cosa bellissima con ordine dorico, ionico e corinzio, opera condotta con somma grazia.
Et aveva di tutto fatto un modello, che dicono essere stato cosa maravigliosa, come ancora si vede il principio di tale opera così imperfetta.
Fece oltra questo una scala a chiocciola su le colonne che salgono, sì che a cavallo vi si cammina, nella quale il dorico entra nello ionico e così nel corinzio, e de l'uno salgono ne l'altro: cosa condotta con somma grazia e con artifizio certo eccellente; la quale non gli fa manco onore che cosa che sia quivi di man sua.
Questa invenzione è stata cavata da Bramante de San Niccolò di Pisa, come si disse nella vita di Giovanni e Niccola Pisani.
Entrò Bramante in capriccio di fare in belvedere, in un fregio nella facciata di fuori, alcune lettere a guisa di ieroglifi antichi, per dimostrare magiormente l'ingegno ch'aveva e per mettere il nome di quel Pontefice e 'l suo, et aveva così cominciato: "Iulio II Pont.
Massimo" et aveva fatto fare una testa in profilo di Iulio Cesare, e con dua archi un ponte che diceva: "Iulio II Pont.", et una aguglia del circolo Massimo per "Max." di che il Papa si rise e gli fecie fare le lettere d'un braccio che ci sono oggi alla antica, dicendo che l'aveva cavata questa scioccheria da Viterbo sopra una porta dove un maestro Francesco architettore messe il suo nome in uno architrave intagliato così che fece un San Francesco, un arco, un tetto et una torre che rilevando diceva, a modo suo: "Maestro Francesco architettore".
Volevagli il Papa per amor della virtù sua della architettura gran bene; per il che meritò da 'l detto Papa, che sommamente lo amava per le sue qualità, di essere fatto degno dell'ufficio del piombo, nel quale fece uno edificio da improntar le bolle con una vite molto bella.
Andò Bramante ne' servizii di questo pontefice a Bologna quando l'anno 1504 ella tornò alla chiesa e si adoperò in tutta la guerra della Mirandola a molte cose ingegnose e di grandissima importanza.
Fé molti disegni di piante e di edifizii che molto bene erano disegnati da lui come nel nostro libro ne appare alcuni ben misurati e fatti con arte grandissima.
Insegnò molte cose d'architettura a Raffaello da Urbino e così gli ordinò i casamenti che poi tirò di prospettiva nella camera del Papa dov'è il monte di Parnaso, nella qual camera Raffaello ritrasse Bramante che misura con certe seste.
Si risolvé il Papa di mettere in strada Giulia, da Bramante indrizzata, tutti gli uffici e le ragioni di Roma in un luogo, per la commodità ch'a i negoziatori averia recato nelle faccende, essendo continuamente fino allora state molto scomode.
Onde Bramante diede principio al palazzo ch'a San Biagio su 'l Tevere si vede, nel quale è ancora un tempio corinzio non finito, cosa molto rara, et il resto del principio di opera rustica bellissimo che è stato gran danno che una sì onorata et utile e magnifica opra non si sia finita, ché da quelli della professione è tenuto il più bello ordine che si sia visto mai in quel genere.
Fece ancora San Pietro a Montorio di trevertino nel primo chiostro un tempio tondo, del quale non può di proporzione, ordine e varietà imaginarsi, e di grazia il più garbato né meglio inteso; e molto più bello sarebbe se fusse tutta la fabbrica del chiostro, che non è finita, condotta come si vede in uno suo disegno.
Fece fare in Borgo il palazzo che fu di Raffaello da Urbino lavorato di mattoni e di getto con casse le colonne, e le bozze di opera dorica e rustica, cosa molto bella et invenzion nuova del fare le cose gettate.
Fece ancora il disegno et ordine dell'ornamento di Santa Maria da Loreto, che da Andrea Sansovino fu poi continuato, et infiniti modelli di palazzi e tempii, i quali sono in Roma e per lo stato della Chiesa.
Era tanto terribile l'ingegno di questo maraviglioso artefice, che e' rifece un disegno grandissimo per restaurare e dirizzare il palazzo del papa.
E tanto gli era cresciuto l'animo vedendo le forze del Papa e la volontà sua corrispondere allo ingegno et alla voglia che esso aveva, che sentendolo avere volontà di buttare in terra la chiesa di Santo Pietro per rifarla di nuovo, gli fece infiniti disegni.
Ma fra gli altri ne fece uno che fu molto mirabile; dove egli mostrò quella intelligenza che si poteva maggiore con dua campanili che mettono in mezzo la facciata, come si vede nelle monete che batté poi Giulio II e Leon X fatte da Carradosso, eccellentissimo orefice che nel far coni non ebbe pari, come ancora si vede la medaglia di Bramante fatta da lui molto bella.
E così resoluto il Papa di dar principio alla grandissima e terribilissima fabrica di San Pietro, ne fece rovinare la metà e postovi mano con animo che di bellezza, arte, invenzione et ordine, così di grandezza, come di ricchezza e d'ornamento avessi a passare tutte le fabbriche che erano state fatte in quella città dalla potenzia di quella Republica e dall'arte et ingegno di tanti valorosi maestri; con la solita prestezza la fondò et in gran parte innanzi alla morte del Papa e sua, la tirò alta fino a la cornice, dove sono gli archi a tutti i quattro pilastri e voltò quegli con somma prestezza et arte.
Fece ancora volgere la cappella principale, dove è la nicchia, attendendo insieme a far tirare inanzi la cappella che si chiama del re di Francia.
Egli trovò in tal lavoro il modo del buttar le volte con le casse di legno, che intagliate vengano co' suoi fregi e fogliami di mistura di calce; e mostrò negli archi, che sono in tale edificio, il modo del voltargli con i ponti impiccati, come abbiamo veduto seguitare poi con la medesima invenzione da Anton da San Gallo.
Vedesi in quella parte, ch'è finita di suo, la cornice che rigira attorno di dentro correre in modo, con grazia, che il disegno di quella non può nessuna mano meglio in essa levare e sminuire.
Si vede ne' suoi capitegli, che sono a foglie di ulivo di dentro, et in tutta l'opera dorica di fuori stranamente bellissima, di quanta terribilità fosse l'animo di Bramante; che in vero s'egli avesse avuto le forze eguali allo ingegno, di che aveva adorno lo spirito, certissimamente avrebbe fatto cose inaudite più che non fece.
Perché oggi questa opera, come si dirà a' suoi luoghi, è stata dopo la morte sua molto travagliata dagli architettori; e talmente che si può dire che da quattro archi in fuori che reggono la tribuna non vi sia rimasto altro di suo, perché Raffaello da Urbino e Giuliano da San Gallo essecutori, doppo la morte di Giulio II, di quella opera, insieme con fra' Giocondo veronese, vollon cominciare ad alterarla e doppo la morte di questi, Baldassarri Peruzzi, facendo nella crociera verso Camposanto la cappella del re di Francia, alterò quell'ordine; e sotto Paulo III Antonio da San Gallo lo mutò tutto; e poi Michelagnolo Buonaroti ha tolto via le tante openioni e spese superflue, riducendolo a quella bellezza e perfezzione che nessuno di questi ci pensò mai, venendo tutto dal disegno e giudizio suo, ancora ch'egli dicesse a me parechie volte che era esecutore del disegno et ordine di Bramante, atteso che coloro che piantano la prima volta uno edifizio grande, sono quegli gli autori.
Apparve smisurato il concetto di Bramante in questa opera e gli diede un principio grandissimo, il quale se nella grandezza di sì stupendo e magnifico edifizio avesse cominciato minore, non valeva, né al San Gallo né agli altri, né anche al Buonaruoto il disegno per acrescerlo come e' valse per diminuillo, perché Bramante aveva concetto di fare magior cosa.
Dicesi che egli aveva tanta la voglia di vedere questa fabrica andare innanzi, che e' rovinò in San Pietro molte cose belle, di sepolture di papi, di pitture e di musaici e che perciò aviàno smarrito la memoria di molti ritratti di persone grandi che erano sparse per quella chiesa; come principale di tutti i cristiani, salvò solo lo altare di San Piero e la tribuna vecchia et a torno vi fece uno ornamento di ordine dorico bellissimo, tutto di pietra di perperigno, acciò quando il papa viene in San Piero a dir la messa vi possa stare con tutta la corte e gl'imbasciatori de' principi cristiani, la quale non finì a fatto per la morte; e Baldassare sanese gli dette poi la perfezzione.
Fu Bramante persona molto allegra e piacevole, e si dilettò sempre di giovare a' prossimi suoi.
Fu amicissimo delle persone ingegnose e favorevole a quelle in ciò che e' poteva; come si vede che egli fece al grazioso Raffaello Sanzio da Urbino, pittor celebratissimo, che da lui fu condotto a Roma.
Sempre splendidissimamente si onorò e visse, et al grado, dove i meriti della sua vita l'avevano posto, era niente quel che aveva a petto a quello che egli avrebbe speso.
Dilettavasi de la poesia, e volentieri udiva e diceva in proviso in su la lira, e componeva qualche sonetto, se non così delicato come si usa ora, grave almeno e senza difetti.
Fu grandemente stimato dai prelati e presentato da infiniti signori che lo conobbero.
Ebbe in vita grido grandissimo e maggiore ancora dopo morte, perché la fabbrica di San Piero restò a dietro molti anni.
Visse Bramante anni 70 et in Roma con onoratissime esequie fu portato dalla corte del papa e da tutti gli scultori, architettori e pittori.
Fu sepolto in San Piero l'anno MDXIIII.
Fu di grandissima perdita all'architettura la morte di Bramante, il quale fu investigatore di molte buone arti ch'aggiunse a quella, come l'invenzione del buttar le volte di getto, lo stucco, l'uno e l'altro usato dagli antichi, ma stato perduto da le ruine loro fino al suo tempo.
Onde quegli che vanno misurando le cose antiche d'architettura, trovano in quelle di Bramante non meno scienza e disegno che si faccino in tutte quelle.
Onde può rendersi a quegli che conoscono tal perfezzione, uno degli ingegni rari che hanno illustrato il secol nostro.
Lasciò suo domestico amico Giulian Leno, che molto valse nelle fabbriche de' tempi suoi, per provedere et eseguire la volontà di chi disegnava più che per operare di man sua, se bene aveva giudizio e grande sperienza.
Mentre visse Bramante fu adoperato da lui nell'opre sue Ventura, fallegname pistolese, il quale aveva bonissimo ingegno e disegnava assai aconciamente; costui si dilettò assai in Roma di misurare le cose antiche, e tornato a Pistoia per rinpatriarsi seguì che l'anno 1509 in quella città una Nostra Donna, che oggi si chiama della Umiltà, fece miracoli, e perché gli fu porto molte limosine, la Signoria che allora governava, deliberò fare un tempio in onor suo; per che pòrtosi questa occasione a Ventura, fece di sua mano un modello d'un tempio a otto facce largo braccia...
et alto braccia...
con un vestibulo o portico serrato dinanzi, molto ornato di drento e veramente bello, dove piaciuto a que' signori e capi della città, si cominciò a fabricare con l'ordine di Ventura, il quale, fatto i fondamenti del vestibulo e del tempio e finito a fatto il vestibulo che riuscì ricco di pilastri e cornicioni d'ordine corinto e d'altre pietre intagliate, e con quelle anche tutte le volte di quell'opera furon fatti a quadri scorniciati pur di pietra pien di rosoni.
Il tempio [a] otto facce fu anche di poi condotto fino alla cornicie ultima, dove s'aveva a voltare la tribuna; mentre che egli visse Ventura e per non esser egli molto sperto in cose così grandi non considerò al peso della tribuna, che potesse star sicura, avendo egli nella grossezza di quella muraglia fatto nel primo ordine delle finestre e nel secondo dove son le altre un andito che camina a torno, dove egli venne a indebolir le mura ché, sendo quello edifizio da basso senza spalle, era pericoloso il voltarla e massime negli angoli delle cantonate dove aveva a pignere tutto il peso della volta di detta tribuna.
Là dove doppo la morte di Ventura non è stato architetto nessuno che gli sia bastato l'animo di voltalla, anzi avevon fatto condurre in sul luogo legni grandi e grossi di alberi per farvi un tetto a capanna, che non piacendo a que' cittadini, non volsono che si mettesse in opra, e sté così scoperta molti anni tanto che l'anno 1561 suplicorno gli Operai di quella fabrica al duca Cosimo perché sua eccellenza facessi loro grazia, che quella tribuna si facesse; dove per compiacergli quel signore ordinò a Giorgio Vasari che vi andasse e vedesse di trovar modo di voltarla, che ciò fatto ne fece un modello che alzava quello edifizio sopra la cornice che aveva lassato Ventura, otto braccia per fargli spalle, e ristrinse il vano che va intorno fra muro e muro dello andito e rinfrancando le spalle, e gli angoli e le parte di sotto degli anditi che aveva fatto Ventura fra le finestre, gl'incatenò con chiave grosse di ferro doppie in sugli angoli che l'asicurava di maniera che sicuramente si poteva voltare.
Dove Sua Eccellenza volse andare in sul luogo e piaciutoli tutto diede ordine che si facesse, e così sono condotte tutte le spalle e di già si è dato principio a voltar la tribuna.
Sì che l'opra di Ventura verrà ricca e con più grandezza et ornamento e più proporzione, ma nel vero Ventura merita che se ne faccia memoria perché quella opera è la più notabile per cosa moderna che sia in quella città.
VITA DI FRA' BARTOLOMEO DI S.
MARCO PITTOR FIORENTINO
Vicino alla terra di Prato che è lontana a Fiorenza dieci miglia, in una villa chiamata Savignano, nacque Bartolomeo, secondo l'uso di Toscana, chiamato Baccio il quale mostrando nella sua puerizia non solo inclinazione, ma ancora attitudine al disegno, fu col mezzo di Benedetto da Maiano acconcio con Cosimo Rosselli et in casa alcuni suoi parenti, che abitavano alla Porta a San Piero Gattolini, accomodato; ove stette molti anni talché non era chiamato né inteso per altro nome che per Baccio dalla Porta.
Costui, doppo che si partì da Cosimo Rosselli, cominciò a studiare con grande affezzione le cose di Lionardo da Vinci et in poco tempo fece tal frutto e tal progresso nel colorito che s'acquistò reputazione e credito d'uno de' miglior giovani dell'arte, sì nel colorito come nel disegno.
Ebbe in compagnia Mariotto Albertinelli, che in poco tempo prese assai bene la sua maniera, e con lui condusse molti quadri di Nostra Donna, sparsi per Fiorenza, de' quali tutti ragionare sarebbe cosa troppo lunga, però toccando solo d'alcuni fatti excelentemente da Baccio, uno n'è in casa di Filippo di Averardo Salviati, bellissimo e tenuto molto in pregio e caro da lui, nel quale è una Nostra Donna; un altro, non è molto, fu comperato (vendendosi fra masserizie vecchie) da Pier Maria delle Pozze, persona molto amico delle cose di pittura, che conosciuto la bellezza sua non lo lasciò per danari, nel quale è una Nostra Donna fatta con una diligenzia straordinaria.
Aveva Pier del Pugliese avuto una Nostra Donna piccola di marmo di bassissimo rilievo, di mano di Donatello cosa rarissima, la quale per magiormente onorarla, gli fece fare uno tabernacolo di legno per chiuderla con dua sportellini, che datolo a Baccio dalla Porta vi fece drento dua storiette, che fu una la Natività di Cristo, l'altra la sua Circuncisione, le quali condusse Baccio di figurine a guisa di miniatura che non è possibile a olio poter far meglio; e quando poi si chiude di fuora, in su' detti sportelli dipinse pure a olio di chiaro e scuro la Nostra Donna annunziata dall'Angelo.
Questa opera è oggi nello scrittoio del duca Cosimo dove egli ha tutte le antichità di bronzo di figure piccole, medaglie et altre pitture rare di minî, tenuto da Sua Eccellenza Illustrissima per cosa rara come è veramente.
Era Baccio amato in Firenze per la virtù sua, che era assiduo al lavoro, quieto e buono di natura et assai timorato di Dio, e gli piaceva assai la vita quieta e fuggiva le pratiche viziose e molto gli dilettava le predicazioni, e cercava sempre le pratiche delle persone dotte e posate.
E nel vero rare volte fa la natura nascere un buono ingegno et uno [art]efice mansueto che anche in qualche tempo di quiete e di bontà non lo provegga come fece a Baccio, il quale, come si dirà di sotto, gli riuscì quello che egli desiderava, che sparsosi l'esser lui non men buono che valente, si divulgò talmente il suo nome, che da Gerozzo di Monna Venna Dini gli fu fatta allogazione d'una cappella nel Cimiterio, dove sono l'ossa de' morti nello spedale di Santa Maria Nuova, e cominciovvi un Giudizio a fresco, il quale condusse con tanta diligenza e bella maniera in quella parte che finì che, acquistandone grandissima fama, oltra quella che aveva, molto fu celebrato per aver egli con bonissima considerazione espresso la gloria del Paradiso e Cristo con i dodici Apostoli giudicare le dodici tribù, le quali con bellissimi panni sono morbidamente colorite.
Oltra che si vede nel disegno, che restò a finirsi, queste figure che sono ivi tirate all'Inferno, la disperazione, il dolore e la vergogna della morte eterna, così come si conosce la contentezza e la letizia, che sono in quelle che si salvano, ancora che questa opera rimanesse imperfetta, avendo egli più voglia d'attendere alla religione che alla pittura.
Perché trovandosi in questi tempi in San Marco fra' Girolamo Savonarola da Ferrara, dell'ordine de' Predicatori, teologo famosissimo, e continovando Baccio la udienza delle prediche sue, per la devozione che in esso aveva, prese strettissima pratica con lui e dimorava quasi continuamente in convento avendo anco con gli altri frati fatto amicizia.
Avenne che continovando fra' Ieronimo le sue predicazioni e gridando ogni giorno in pergamo che le pitture lascive e le musiche e' libri amorosi spesso inducono gli animi a cose mal fatte, fu persuaso che non era bene tenere in casa, dove son fanciulle, figure dipinte di uomini e donne ignude, per il che riscaldati i popoli dal dir suo il carnovale seguente, che era costume della città far sopra le piazze alcuni capannucci di stipa et altre legne, e la sera del martedì per antico costume arderle queste con balli amorosi, dove presi per mano uno uomo et una donna giravano cantando intorno certe ballate, fé sì fra' Ieronimo che quel giorno si condusse a quel luogo tante pitture e scolture ignude molte di mano di Maestri eccellenti, e parimente libri, liuti e canzonieri che fu danno grandissimo, ma particolare della pittura, dove Baccio portò tutto lo studio de' disegni che egli aveva fatto degli ignudi, e lo imitò anche Lorenzo di Credi e molti altri, che avevon nome di piagnoni; là dove non andò molto per l'affezzione che Baccio aveva a fra' Ieronimo che fece in un quadro el suo ritratto che fu bellissimo, il quale fu portato allora a Ferrara e di lì non è molto che gli è tornato in Fiorenza nella casa di Filippo di Alamanno Salviati, il quale per esser di mano di Baccio l'ha carissimo.
Avvenne poi che un giorno si levarono le parti contrarie a fra' Girolamo per pigliarlo e metterlo nelle forze della giustizia, per le sedizioni che aveva fatte in quella città.
Il che vedendo, gli amici del frate si ragunarono essi ancora, in numero più di cinquecento, e si rinchiusero dentro in San Marco; e Baccio insieme con esso loro, per la grandissima affezzione che egli aveva a quella parte.
Vero è che essendo pure di poco animo anzi troppo timido e vile, sentendo poco appresso dare la battaglia al convento e ferire et uccidere alcuni, cominciò a dubitare fortemente di se medesimo.
Per il che fece voto, se e' campava da quella furia, di vestirsi subito l'abito di quella religione et interamente poi lo osservò.
Conciò sia che finito il rumore e preso e condannato il frate alla morte, come gli scrittori delle storie più chiaramente racontano, Baccio andatosene a Prato si fece frate in S.
Domenico di quel luogo, secondo che si trova scritto nelle cronache di quel convento, a dì 26 di luglio 1500, e l'anno dopo fece professione in quello stesso convento dove si fece frate, con grandissimo dispiacere di tutti gli amici suoi, che infinitamente si dolsero di averlo perduto e massime per sentire che egli aveva postosi in animo di non attendere più alla pittura.
Laonde Mariotto Albertinelli, amico e compagno suo, a' preghi di Gerozzo Dini prese le robbe da fra' Bartolomeo, che così lo chiamò il priore nel vestirgli l'abito, e l'opra dell'ossa di Santa Maria Nuova condusse a fine, dove ritrasse di naturale lo spedalingo che era allora et alcuni frati valenti in cerusia, e Gerozzo che la faceva fare e la moglie interi nelle faccie dalle bande ginochioni; et in uno ignudo che siede ritrasse Giuliano Bugiardini suo creato giovane, con una zazzera come si costumava allora, che i capegli si conteriano a uno a uno tanto son diligenti; ritrassevi se stesso ancora, che è una testa in zazzera d'uno che esce d'un di quegli sepolcri; èvvi ritratto in quell'opera anche fra' Giovanni da Fiesole pittore, del quale aviàno descritto la vita, che è nella parte de' beati.
Quest'opera fu lavorata e da fra' Bartolomeo e da Mariotto in fresco tutta, che s'è mantenuta e si mantiene benissimo, et è tenuta dagli artefici in pregio perché in quel genere si può far poco più.
Ma essendo fra' Bartolomeo stato in Prato molti mesi, fu poi da' sua superiori messo conventuale in San Marco di Fiorenza; e gli fu fatto da que' frati per le virtù sua molte carezze.
Aveva Bernardo del Bianco fatto far nella badia di Fiorenza in que' dì una cappella di macigno intagliata molto ricca e bella col disegno di Benedetto da Rovezzano la quale fu et è ancora oggi molto stimata per una ornata e varia opera, nella quale Benedetto Buglioni fece di terra cotta invetriata in alcune nichie figure et Angeli, tutte tonde, per finimento, e fregii pieni di Cherubini e d'imprese del Bianco; e dessiderando mettervi drento una tavola che fussi degna di quello ornamento, messesi in fantasia che fra' Bartolomeo sarebbe il proposito, et operò tutti que' mezzi amici che maggiori per disporlo; stavasi fra' Bartolomeo in convento, non attendendo ad altro che agli uffici divini et alle cose della Regola ancora che pregato molto dal priore e dagli amici suoi più cari che e' facesse qualche cosa di pittura, et era già passato il termine di quattro anni che egli non aveva voluto lavorar nulla, ma stretto in su questa occasione da Bernardo del Bianco, in fine cominciò quella tavola di San Bernardo che scrive, e nel vedere la Nostra Donna portata col Putto in braccio da molti Angeli e putti da lui coloriti pulitamente, sta tanto contemplativo che bene si conosce in lui un non so che di celeste che resplende in quella opera, a chi la considera attentamente, dove molta diligenza et amor pose insieme con un arco lavorato a fresco che vi è sopra.
Fece ancora alcuni quadri per Giovanni cardinale de' Medici, e dipinse per Agnolo Doni un quadro di una Nostra Donna, che serve per altare d'una cappella in casa sua, di straordinaria bellezza.
Venne in questo tempo Raffaello da Urbino pittore a imparare l'arte a Fiorenza et insegnò i termini buoni della prospettiva a fra' Bartolomeo; perché, essendo Raffaello volonteroso di colorire nella maniera del frate e piacendogli il maneggiare i colori e lo unir suo, con lui di continuo si stava.
Fece in quel tempo una tavola con infinità di figure in San Marco in Fiorenza, oggi è appresso al re di Francia che fu a lui donata, et in San Marco molti mesi si tenne a mostra.
Poi ne dipinse un'altra in quel luogo, dove è posto infinito numero di figure, in cambio di quella che si mandò in Francia; nella quale sono alcuni fanciulli in aria che volano tenendo un padiglione aperto, con arte e con buon disegno e rilievo tanto grande, che paiono spiccarsi da la tavola e coloriti di colore di carne mostrano quella bontà e quella bellezza, che ogni artefice valente cerca di dare alle cose sue, la quale opera ancora oggi per eccellentissima si tiene.
Sono molte figure in essa intorno a una Nostra Donna tutte lodatissime e con una grazia et affetto e pronta fierezza vivaci.
Ma colorite poi con una gagliarda maniera che paion di rilievo perché volse mostrare che, oltra al disegno, sapeva dar forza e far venire con lo scuro delle ombre innanzi le figure, come appare intorno a un padiglione ove sono alcuni putti che lo tengono, che volando in aria si spiccano dalla tavola, oltre che v'è un Cristo fanciullo che sposa S.
Caterina monaca, che non è possibile, in quella scurità di colorito che ha tenuto, far più viva cosa.
Èvvi un cerchio di Santi da una banda che diminuiscono in prospettiva, intorno al vano d'una gran nicchia, i quali son posti con tanto ordine che paion veri e parimente dall'altra banda.
E nel vero si valse assai d'immitare in questo colorito le cose di Lionardo e massime negli scuri, dove adoprò fumo da stampatori e nero di avorio abruciato; è oggi questa tavola da' detti neri molto riscurata, più che quando la fece, ché sempre sono diventati più tinti e scuri.
Fecevi innanzi, per le figure principali, un San Giorgio armato, che ha uno stendardo, in mano, figura fiera, pronta, vivace e con bella attitudine.
Èvvi un San Bartolomeo ritto, che merita lode grandissima insieme con due fanciulli che suonano uno il liuto e l'altro la lira; all'un de quali ha fatto raccorre una gamba e posarvi su lo strumento, le man poste alle corde in atto di diminuire, l'orecchio intento all'armonia e la testa volta in alto, con la bocca alquanto aperta, d'una maniera che chi lo guarda non può discredersi di non avere a sentire ancor la voce.
Il simile fa l'altro, che acconcio per lato, con uno orecchio appoggiato alla lira, par che senta l'accordamento che fa il suono con il liuto e con la voce mentre che facendo tenore egli con gli occhi a terra va seguitando, con tener fermo e volto l'orecchio al compagno, che suona e canta, avvertenzie e spiriti veramente ingegnosi, e così stando quelli a sedere e vestiti di velo, che maravigliosi et industriosamente dalla dotta mano di fra' Bartolomeo sono condotti e tutta l'opera con ombra scura sfumatamente cacciata.
Fece poco tempo dopo un'altra tavola dirimpetto a quella la quale è tenuta buona, dentrovi la Nostra Donna et altri Santi intorno.
Meritò lode straordinaria avendo introdotto un modo di fummeggiar le figure, in modo che all'arte aggiungono unione maravigliosa talmente che paiono di rilievo e vive, lavorate con ottima maniera e perfezzione.
Sentendo egli nominare l'opre egregie di Michele Agnolo fatte a Roma così quelle del grazioso Raffaello, e sforzato dal grido che di continuo udiva de le maraviglie fatte dai due divini artefici, con licenza del priore si trasferì a Roma dove trattenuto da fra' Mariano Fetti, frate del Piombo, a Monte Cavallo e San Salvestro luogo suo, gli dipinse due quadri di San Pietro e San Paolo; e perché non gli riuscì molto il far bene in quella aria, come aveva fatto nella fiorentina, atteso che fra le antiche e moderne opere che vide, et in tanta copia, stordì di maniera che grandemente scemò la virtù e la eccellenza che gli pareva avere, deliberò di partirsi: e lasciò a Raffaello da Urbino che finisse uno de' quadri il quale non era finito; che fu il San Piero il quale, tutto ritocco di mano del mirabile Raffaello, fu dato a fra' Mariano.
E così se ne tornò a Fiorenza, dove era stato morso più volte che non sapeva fare gli ignudi.
Volse egli dunque mettersi a pruova e con fatiche mostrare ch'era attissimo ad ogni eccellente lavoro di quella arte, come alcuno altro.
Laonde per prova fece in un quadro, un San Sebastiano ignudo con colorito molto alla carne simile, di dolce aria e di corrispondente bellezza alla persona parimente finito, dove infinite lode acquistò appresso agli artefici.
Dicesi che, stando in chiesa per mostra questa figura, avevano trovato i frati nelle confessioni, donne che nel guardarlo avevano peccato per la leggiadria e lasciva imitazione del vivo, datagli dalla virtù di fra' Bartolomeo; per il che levatolo di chiesa, lo misero nel capitolo, dove non dimorò molto tempo che, da Giovan Batista della Palla comprato, fu mandato al re di Francia.
Aveva preso collera fra' Bartolomeo con i legnaioli che gli facevano alle tavole e quadri gli ornamenti i quali avevan per costume come hanno anche oggi di coprire con i battitoi delle cornici sempre uno ottavo delle figure, là dove fra' Bartolomeo deliberò di trovare una invenzione di non fare alle tavole ornamenti et a questo San Bastiano fece fare la tavola in mezzo tondo e vi tirò una nicchia in prospettiva che par di rilievo incavata nella tavola; e così, con le cornici dipinte a torno, fece ornamento a la figura di mezzo; et il medesimo fece al nostro San Vincenzio et al San Marco che si dirà di sotto al San Vincenzio.
Fece sopra l'arco d'una porta per andare in sagrestia in legno a olio un San Vincenzio dell'ordine loro che figurando quello predicar del giudizio si vede negli atti e nella testa particularmente quel terrore e quella fierezza, che sogliono essere nelle teste de' predicanti quando più s'affaticano con le minacce de la giustizia di Dio di ridurre gli uomini, ostinati nel peccato, a la vita perfetta; di maniera che non dipinta, ma vera e viva apparisce questa figura a chi la considera attentamente, con sì gran rilievo è condotto; et è peccato che si guasta e crepa tutta, per esser lavorata in su la colla fresca i color freschi, come dissi dell'opere di Piero Perugino, nelli Ingesuati.
Vennegli capriccio, per mostrare che sapeva fare le figure grandi, sendogli stato detto che aveva maniera minuta, di porre ne la faccia, dove è la porta del coro, il San Marco Evangelista, figura di braccia cinque in tavola condotta con bonissimo disegno e grande eccellenzia.
Tornato poi da Napoli Salvador Billi, mercatante fiorentino, inteso la fama di fra' Bartolomeo e visto l'opere sue, li fece fare una tavola, dentrovi Cristo Salvatore, alludendo al nome suo, et i quattro Evangelisti che lo circondano, dove sono ancora due putti a' piè che tengono la palla del mondo, i quali di tenera e fresca carne benissimo sono condotti come l'altra opera tutta; sonvi ancora due profeti molto lodati.
Questa tavola è posta nella Nunziata di Fiorenza sotto l'organo grande, che così volle Salvadore; et è cosa molto bella e dal frate con grande amore e con gran bontà finita, la quale ha intorno l'ornamento di marmi, tutto intagliato per le mani di Piero Rossegli.
Dopo, avendo egli bisogno di pigliare aria, il priore allora amico suo lo mandò fuora ad un lor monasterio, nel quale, mentre che egli stette, accompagnò ultimamente per l'anima e per la casa l'operazione de le mani alla contemplazion de la morte.
E fece a San Martino in Lucca una tavola dove a' piè d'una Nostra Donna è uno agnoletto, che suona un liuto, insieme con Santo Stefano e San Giovanni, con bonissimo disegno e colorito, mostrando in quella la virtù sua.
Similmente in San Romano fece una tavola in tela, dentrovi una Nostra Donna de la Misericordia, posta su un dado di pietra et alcuni Angeli che tengono il manto, e figurò con essa un popolo su certe scalee, chi ritto, chi a sedere, chi in ginocchioni, i quali risguardano un Cristo in alto, che manda saette e folgori a dosso a' popoli.
Certamente mostrò fra' Bartolomeo in questa opera possedere molto il diminuire l'ombre della pittura e gli scuri di quella con grandissimo rilievo operando, dove le difficultà dell'arte mostrò con rara et eccellente maestria e colorito, disegno et invenzione; opra tanto perfetta quanto facesse mai.
Nella chiesa medesima dipinse un'altra tavola pure in tela dentrovi un Cristo e Santa Caterina martire insieme con Santa Caterina da Siena ratta da terra in spirito, che è una figura de la quale in quel grado non si può far meglio.
Ritornando egli in Fiorenza, diede opera alle cose di musica e di quelle molto dilettandosi alcune volte per passar tempo usava cantare.
Dipinse a Prato dirimpetto alle carcere una tavola d'una Assunta e fece in casa Medici alcuni quadri di Nostre Donne et altre pitture ancora a diverse persone, come un quadro d'una Nostra Donna che è in camera di Lodovico Caponi, e parimente un altro di una Vergine che tiene il Figliuolo in collo con dua teste di Santi apresso allo eccellentissimo Messer Lelio Torelli, segretario maggiore dello illustrissimo Duca Cosimo, il quale lo tiene carissimo sì per virtù di fra' Bartolomeo come anche perché egli si diletta et ama e favorisce non solo gli uomini di questa arte, ma tutti i belli ingegni.
In casa Pier del Pugliese oggi di Matteo Botti cittadino e mercante fiorentino fece al sommo d'una scala in un ricetto un San Giorgio armato a cavallo che giostrando amazza il serpente molto pronto; e lo fece a olio di chiaro e scuro, che si dilettò assai tutte le cose sua far così prima nell'opere a uso di cartone innanzi che le colorisse o d'inchiostro o ombrate di aspalto e come ne apare ancora in molte cose che lassò di quadri e tavole rimase imperfette doppo la morte sua; e come anche molti disegni che di suo si veggono fatti di chiaro scuro oggi la maggior parte nel monasterio di Santa Caterina da Siena in sulla piazza di San Marco, apresso a una monaca che dipigne di cui se ne farà al suo luogo memoria, e molti di simil modo fatti che ornano in memoria di lui il nostro libro de' disegni che ne ha Messer Francesco del Garbo, fisico eccellentissimo.
Aveva openione fra' Bartolomeo quando lavorava tenere le cose vive innanzi, e per poter ritrar panni et arme et altre simil cose fece fare un modello di legno grande quanto il vivo che si snodava nelle congenture, e quello vestiva con panni naturali dove egli fece di bellissime cose, potendo egli a beneplacito suo tenerle ferme fino che egli avesse condotto l'opera sua a perfezzione, il quale modello, così intarlato e guasto come è, è apresso di noi per memoria sua.
In Arezzo in Badia de' monaci neri fece la testa d'un Cristo in iscuro, cosa bellissima; e la tavola della Compagnia de' Contemplanti, la quale s'è conservata in casa del Magnifico Messer Ottaviano de' Medici et oggi è stata da Messer Alessandro suo figliuolo messa in una cappella in casa con molti ornamenti, tenendola carissima per memoria di fra' Bartolomeo e perché egli si diletta infinitamente della pittura.
Nel noviziato di San Marco nella cappella una tavola della Purificazione molto vaga e con disegno condusse a buon fine.
Et a Santa Maria Maddalena, luogo di detti frati, fuor di Fiorenza, dimorandovi per suo piacere, fece un Cristo et una Maddalena; e per il convento alcune cose dipinse in fresco.
Similmente lavorò in fresco uno arco sopra la foresteria di San Marco, et in questo dipinse Cristo con Cleofas e Luca, dove ritrasse fra' Niccolò della Magna, quando era giovane, il quale poi arcivescovo di Capova et ultimamente fu cardinale.
Cominciò in San Gallo una tavola, la quale fu poi finita da Giuliano Bugiardini, oggi allo altar maggiore di San Iacopo fra' Fossi, al canto agli Alberti.
Similmente un quadro del ratto di Dina, il quale è appresso Messer Cristofano Rinieri, che dal detto Giuliano fu poi colorito, dove sono e casamenti et invenzioni molto lodati.
Gli fu da Piero Soderini allogata la tavola della sala del consiglio, che di chiaro oscuro da lui disegnata ridusse in maniera ch'era per farsi onore grandissimo.
La quale è oggi in San Lorenzo, alla cappella del Magnifico Ottaviano de' Medici, onoratamente collocata, così imperfetta, nella quale sono tutti e' protettori della città di Fiorenza, e que' Santi che nel giorno loro la città ha aute le sue vittorie; dov'è il ritratto d'esso fra' Bartolomeo fattosi in uno specchio.
Perché avendola cominciata e disegnata tutta, avvenne che, per il continuo lavorare sotto una finestra, il lume di quella a dosso percotendogli, da quel lato tutto intenebrato restò, non potendosi muovere punto.
Onde fu consigliato che andasse al bagno a San Filippo, essendogli così ordinato da' medici; dove dimorato molto, pochissimo per questo migliorò.
Era fra' Bartolomeo delle frutte amicissimo et alla bocca molto gli dilettavano, benché alla salute dannosissime gli fossero.
Perché una mattina avendo mangiato molti fichi, oltra il male ch'egli aveva, gli sovragiunse una grandissima febbre; la quale in quattro giorni gli finì il corso della vita, d'età d'anni 48, onde egli con buon conoscimento rese l'anima al cielo.
Dolse agli amici suoi et a' frati particolarmente la morte di lui, i quali in S.
Marco nella sepoltura loro gli diedero onorato sepolcro, l'anno 1517, alli otto di ottobre.
Era dispensato ne' frati che in coro a ufficio nessuno non andasse; ed il guadagno dell'opere sue veniva al convento, restandogli in mano danari per colori e per le cose necessarie del dipignere.
Lasciò discepoli suoi Cecchino del Frate, Benedetto Cianfanini, Gabriel Rustici, e fra' Paolo Pistolese, al quale rimasero tutte le cose sue, fece molte tavole e quadri con que' disegni dopo la morte sua, e ne sono in San Domenico di Pistoia tre et una a Santa Maria del Sasso in Casentino.
Diede tanta grazia ne' colori fra' Bartolomeo alle sue figure e quelle tanto modernamente augumentò di novità, che per tal cosa merita fra i benefattori dell'arte da noi essere annoverato.
VITA DI MARIOTTO ALBERTINELLI PITTOR FIORENTINO
Mariotto Albertinelli, familiarissimo e cordialissimo amico e, si può dire, un altro fra' Bartolomeo, non solo per la continua conversazione e pratica, ma ancora per la simiglianza della maniera mentre che egli attese da dovero all'arte, fu figliuolo di Biagio di Bindo Albertinelli, il quale levatosi di età d'anni 20 dal battiloro, dove in fino a quel tempo aveva dato opra, ebbe i primi principi della pittura in bottega di Cosimo Rossegli, nella quale prese tal domestichezza con Baccio dalla Porta, che erono un'anima et un corpo, e fu tra loro tal fratellanza, che quando Baccio partì da Cosimo per far l'arte da sé come maestro, anche Mariotto se n'andò seco, dove alla Porta San Piero Gattolini l'uno e l'altro molto tempo dimorarono, lavorando molte cose insieme; e perché Mariotto non era tanto fondato nel disegno quanto era Baccio, si diede allo studio di quelle anticaglie che erano allora in Fiorenza, la magior parte e le migliori delle quali erano in casa Medici; e disegnò assai volte alcuni quadretti di mezzo rilievo, che erano sotto la loggia nel giardino di verso San Lorenzo, che in uno è Adone con un cane bellissimo et in un altro duoi ignudi, un che siede et ha a' piedi un cane, l'altro è ritto con le gambe sopra poste che s'appoggia ad un bastone, che sono miracolosi; e parimente due altri di simil grandezza: in uno de' quali sono due putti, che portano il fulmine di Giove, nell'altro è uno ignudo vecchio, fatto per l'occasione, che ha le ali sopra le spalle et a' piedi, ponderando con le mani un par di bilance; et oltre a questi era quel giardino tutto pieno di torsi di femine e maschi che erano non solo lo studio di Mariotto, ma di tutti gli scultori e pittori del suo tempo, che una buona parte n'è oggi nella guardaroba del Duca Cosimo et una altra nel medesimo luogo come i dua torsi di Marsia; e le teste sopra le finestre e quelle degli imperatori sopra le porte; a queste anticaglie studiando Mariotto fece gran profitto nel disegno e prese servitù con madonna Alfonsina, madre del Duca Lorenzo, la quale, perché Mariotto attendesse a farsi valente, gli porgeva ogni aiuto.
Costui dunque tramezzando il disegnare col colorire si fé assai pratico come aparì in alcuni quadri che fece per quella signora, che furno mandati da lei a Roma a Carlo e Giordano Orsini, che vennono poi nelle mani di Cesar Borgia.
Ritrasse madonna Alfonsina di naturale molto bene, e gli pareva avere trovato per quella familiarità la ventura sua; ma essendo l'anno 1494, che Piero de' Medici fu bandito, mancatogli quell'aiuto e favore, ritornò Mariotto alla stanza di Baccio dove attese più assiduamente a far modegli di terra et a studiare, et affaticatosi intorno al naturale et a imitar le cose di Baccio, onde in pochi anni si fece un diligente e pratico maestro.
Perché prese tanto animo, vedendo riuscir sì bene le cose sue che, imitando la maniera e l'andar del compagno, era da molti presa la mano di Mariotto per quella del frate.
Perché intervenendo l'andata di Baccio al farsi frate, Mariotto, per il compagno perduto, era quasi smarrito e fuor di se stesso.
E sì strana gli parve questa novella che, disperato, di cosa alcuna non si rallegrava.
E se in quella parte Mariotto non avesse avuto a noia il commerzio de' frati, de' quali di continuo diceva male, et era della parte che teneva contra la fazzione di frate Girolamo da Ferrara, arebbe l'amore di Baccio operato talmente, che a forza nel convento medesimo col suo compagno si sarebbe incapucciato egli ancora.
Ma da Gerozzo Dini, che faceva fare nell'ossa il Giudizio, che Baccio aveva lasciato imperfetto, fu pregato che, avendo quella medesima maniera, gli volesse dar fine.
Et inoltre perché v'era il cartone finito di mano di Baccio et altri disegni, e pregato ancora da fra' Bartolomeo, che aveva avuto a quel conto danari e si faceva coscienza di non avere osservato la promessa, Mariotto all'opra diede fine; dove con diligenza e con amore condusse il resto dell'opera, talmente che molti, non lo sapendo, pensano che d'una sola mano ella sia lavorata.
Per il che tal cosa gli diede grandissimo credito nell'arte.
Lavorò alla Certosa di Fiorenza nel Capitolo un Crocifisso con la Nostra Donna e la Maddalena appiè della Croce et alcuni Angeli in aere, che ricolgono il sangue di Cristo, opera lavorata in fresco e con diligenza e con amore assai ben condotta.
Ma, non parendo che i frati del mangiare a lor modo li trattassero, alcuni suoi giovani, che seco imparavano l'arte, non lo sapendo Mariotto, avevano contrafatto la chiave di quelle finestre onde si porge a' frati la pietanza, la quale risponde in camera loro; et alcune volte secretamente quando a uno e quando a uno altro rubavano il mangiare.
Fu molto romore di questa cosa tra' frati: perché delle cose della gola si risentono così bene come gli altri; ma, facendo ciò i garzoni con molta destrezza et essendo tenuti buone persone, incolpavano coloro alcuni frati che per odio l'un dell'altro il facessero; dove la cosa pur si scoperse un giorno.
Per che i frati, acciò che il lavoro si finisse, raddoppiarono la pietanza a Mariotto et a' suoi garzoni, i quali con allegrezza e risa finirono quella opera.
Alle monache di San Giuliano di Fiorenza fece la tavola dello altar maggiore, che in Gualfonda lavorò in una sua stanza, insieme con un'altra nella medesima chiesa d'un Crocifisso con Angeli e Dio Padre, figurando la Trinità in campo d'oro a olio.
Era Mariotto persona inquietissima e carnale nelle cose d'amore e di buon tempo nelle cose del vivere; per che, venendogli in odio le sofisticherie e gli stillamenti di cervello della pittura, et essendo spesso dalle lingue de' pittori morso, come è continua usanza in loro, e per eredità mantenuta, si risolvette darsi a più bassa e meno faticosa e più allegra arte; et aperto una bellissima osteria fuor della porta San Gallo et al ponte Vecchio al Drago una taverna et osteria fece quella molti mesi, dicendo che aveva presa un'arte la quale era senza muscoli, scorti, prospettive e, quel ch'importa più, senza biasmo, e che quella che aveva lasciata era contraria a questa; perché imitava la carne et il sangue, e questa faceva il sangue e la carne, e che quivi ogn'ora si sentiva, avendo buon vino, lodare, et a quella ogni giorno si sentiva biasimare.
Ma pure venutagli anco questa a noia, rimorso dalla viltà del mestiero, ritornò alla pittura, dove fece per Fiorenza quadri e pitture in casa di cittadini.
E lavorò a Giovan Maria Benintendi tre storiette di sua mano.
Et in casa Medici per la creazione di Leon Decimo dipinse a olio un tondo della sua arme con la Fede, la Speranza e la Carità, il quale sopra la porta del palazzo loro stette gran tempo.
Prese a fare nella Compagnia di S.
Zanobi, allato alla canonica di Santa Maria del Fiore, una tavola della Nunziata e quella con molta fatica condusse.
Aveva fatto far lumi a posta, et in su l'opera la volle lavorare, per potere condurre le vedute che alte e lontane erano, abbagliate, diminuire e crescere a suo modo.
Eragli entrato in fantasia che le pitture che non avevano rilievo e forza et insieme anche dolcezza, non fussino da tenere in pregio; e perché conosceva che elle non si potevon fare uscir del piano senza ombre le quali avendo troppa oscurità restano coperte e, se son dolci, non hanno forza, egli arebbe voluto aggiungere con la dolcezza un certo modo di lavorare che l'arte fino allora non gli pareva che avesse fatto a suo modo; onde, perché se gli porse occasione in questa opera di ciò fare, si mise a far perciò fatiche straordinarie, le quali si conoscono in uno Dio Padre che è in aria, et in alcuni putti che son molto rilevati dalla tavola per uno campo scuro d'una prospettiva che egli vi fece col cielo d'una volta intagliata a mezza botte, che girando gli archi di quella e diminuendo le linee al punto, va di maniera in dentro che pare di rilievo; oltra che vi sono alcuni Angeli che volano spargendo fiori, molto graziosi.
Questa opera fu disfatta e rifatta da Mariotto, innanzi che la conducesse al suo fine, più volte; scanbiando ora il colorito o più chiaro, o più scuro e talora più vivace et acceso et ora meno; ma non si satisfacendo a suo modo, né gli parendo avere agiunto con la mano ai pensieri dell'intelletto arebbe voluto trovare un bianco che fusse stato più fiero della biacca: dove egli si mise a purgarla per poter lumeggiare in su i maggior chiari a modo suo; nientedimeno, conosciuto non poter far quello con l'arte che comprende in sé l'ingegno et intelligenzia umana, si contentò di quello che avea fatto, poi che non agiugneva a quel che non si poteva fare; e ne conseguì fra gli artefici di questa opera lode et onore, con credere ancora di cavarne per mezzo di queste fatiche da e' padroni molto più utile che non fece, intravenendo discordia fra quegli che la facevano fare e Mariotto.
Ma Pietro Perugino, allora vecchio, Ridolfo Ghirlandaio e Francesco Granacci la stimarono e d'accordo il prezzo di essa opera insieme acconciarono.
Fece in San Brancazio di Fiorenza in un mezzo tondo la Visitazione di Nostra Donna; similmente in Santa Trinita lavorò in una tavola la Nostra Donna, San Girolamo e San Zanobi con diligenza, per Zanobi del Maestro; et alla chiesa della congregazione de' Preti di San Martino fece una tavola della Visitazione, molto lodata.
Fu condotto al convento de la Quercia fuori di Viterbo e quivi, poi che ebbe cominciata una tavola, gli venne volontà di veder Roma, e così in quella condottosi lavorò e finì, a frate Mariano Fetti a S.
Salvestro di Monte Cavallo alla cappella sua, una tavola a olio con San Domenico, Santa Caterina da Siena che Cristo la sposa, con la Nostra Donna, con delicata maniera.
Et alla Quercia ritornato, dove aveva alcuni amori, ai quali, per lo desiderio del non gli avere posseduti, mentre che stette a Roma, volse mostrare ch'era ne la giostra valente, per che fece l'ultimo sforzo; e come quel che non era né molto giovane né valoroso in così fatte imprese, fu sforzato mettersi nel letto.
Di che, dando la colpa all'aria di quel luogo, si fé portare a Fiorenza in ceste.
E non gli valsero aiuti né ristori, che di quel male si morì in pochi giorni d'età d'anni 45, et in San Pier Maggiore di quella città fu sepolto.
De' disegni di mano di costui ne sono nel nostro libro di penna e di chiaro e scuro alcuni molto buoni e particolarmente una scala a chiocciola difficile molto, che bene l'intendea, tirata in prospettiva.
Ebbe Mariotto molti discepoli fra' quali fu Giuliano Bugiardini, il Francia Bigio, fiorentini, et Innocenzio da Imola, de' quali a suo luogo si parlerà.
Parimente Visino pittor fiorentino fu suo discepolo e migliore di tutti questi per disegno, colorito e diligenzia e per una miglior maniera, che mostrò nelle cose che e' fece, condotte con molta diligenza.
Et ancor che in Fiorenzia ne siano poche, ciò si può vedere oggi in casa di Giovambattista di Agnol Doni in un quadro d'una spera colorito a olio a uso di minio, dove sono Adamo et Eva ignudi che mangiano il pomo, cosa molto diligente; et un quadro d'un Cristo deposto di croce insieme coi ladroni, dove è uno intrigamento bene inteso di scale, quivi alcuni aiutano a dipor Cristo, et altri in sulle spalle portono un ladrone alla sepoltura, con molte varie e capricciose attitudini e varietà di figure atte a quel suggetto, le quale mostrano che egli era valent'uomo; il medesimo fu da alcuni mercanti fiorentini condotto in Ungheria dove fece molte opere e vi fu stimato assai.
Ma questo povero uomo fu per poco a rischio di capitarvi male, perché essendo di natura libero e sciolto, né potendo sopportare il fastidio di certi Ungheri importuni che tutto il giorno gli rompevano il capo con lodare le cose di quel paese, come se non fusse altro bene o filicità che in quelle loro stufe e mangiar e bere, né altra grandezza o nobilità che nel loro Re et in quella corte, e tutto il resto del mondo fosse fango, parendo a lui, come è in effetto, che nelle cose d'Italia fusse altra bontà, gentilezza e bellezza, stracco una volta di queste loro sciocchezze e per ventura essendo un poco allegro, gli scappò di bocca che e' valeva più un fiasco di trebbiano et un berlingozzo che quanti re e reine furon mai in que' paesi.
E se e' non si abbatteva che la cosa dette nelle mani ad un vescovo galantuomo e pratico delle cose del mondo e (che importò il tutto) discreto e che seppe e volle voltare la cosa in burla, egli imparava a scherzar con bestie, perché quelli animalacci Ungheri, non intendono le parole e pensando che egli avesse detto qualche gran cosa, come s'egli fusse per tôrre la vita e lo stato al loro re, lo volevano a furia di popolo, senza alcuna redenzione, crucifiggere.
Ma quel vescovo dabbene lo cavò d'ogni inpaccio, stimando quanto meritava la virtù di quel valent'uomo e, pigliando la cosa per buon verso, lo rimise in grazia del re che, intesa la cosa, se ne prese sollazzo, e poi finalmente fu in quel paese assai stimata et onorata la virtù sua.
Ma non durò la sua ventura molto tempo; perché, non potendo tollerare le stufe, né quella aria fredda, nimica della sua complessione, in breve lo condusse a fine, rimanendo però viva la grazia e fama sua in quelli che lo conobbero in vita e che poi di mano in mano videro l'opere sue.
Furono le sue pitture circa l'anno MDXII.
VITA DI RAFFAELLINO DEL GARBO PITTOR FIORENTINO
Raffaello del Garbo, il quale, essendo mentre era fanciulletto chiamato per vezzi Raffaellino, quel nome si mantenne poi per sempre, fu ne' suoi principii di tanta espettazione nell'arte che di già si annoverava fra i più eccellenti, cosa che a pochi interviene; ma a pochissimi poi quello che intervenne a lui che, da ottimo principio e quasi certissima speranza, si conducesse a debolissimo fine; essendo per lo più costume così delle cose naturali come delle artificiali, dai piccoli principii venire crescendo di mano in mano fino all'ultima perfezione.
Ma certo molte cagioni così dell'arte come della natura ci sono incognite e non sempre, né in ogni cosa, si tiene da loro l'ordine usitato, cosa da fare stare sopra di sé bene spesso i iudizii umani.
Come si sia questo si vede in Raffaellino, perché parve che la natura e l'arte si sforzassero di cominciare in lui con certi principii straordinarii, il mezzo de' quali fu meno che mediocre e il fine quasi nulla.
Costui nella sua gioventù disegnò tanto quanto pittore che si sia mai esercitato in disegnare per venir perfetto, onde si veggono ancora gran numero di disegni per tutta l'arte, mandati fuora per vilissimo prezzo da un suo figliolo, parte disegnati di stile e parte di penna e d'acquerello, ma tutti sopra fogli tinti, lumeggiati di biacca e fatti con una fierezza e pratica mirabile, come molti ne sono nel nostro libro di bellissima maniera.
Oltre ciò imparò a colorire a tempera et a fresco tanto bene che le cose sue prime son fatte con una pazienzia e diligenzia incredibile, come s'è detto.
Nella Minerva intorno alla sepoltura del cardinal Caraffa v'è quel cielo della volta tanto fine che par fatta da miniatori, onde fu allora tenuta dagli artefici in gran pregio, e Filippo suo maestro lo reputava in alcune cose molto migliore maestro di sé, et aveva preso Raffaello in tal modo la maniera di Filippo che pochi la conoscevano per altro che per la sua.
Costui poi, nel partirsi dal suo maestro, rindolcì la maniera assai ne' panni e fé più morbidi i capegli e l'arie delle teste; et era in tanta espettazione degli artefici che mentre gli seguitò questa maniera, era stimato il primo giovane dell'arte, per che gli fu allogato dalla famiglia de' Capponi, i quali, avendo sotto la chiesa di San Bartolomeo a Monte Oliveto fuor della porta a San Friano sul monte fatto una cappella che si chiama il Paradiso, vollono che Raffaello facesse la tavola, nella quale a olio fece la Resurrezione di Cristo con alcuni soldati, che quasi come morti sono cascati intorno al sepolcro, molto vivaci e begli, et hanno le più graziose teste che si possa vedere; fra e' quali in una testa di un giovane fu ritratto Nicola Capponi che è mirabile, parimente una figura alla quale è cascato adosso il coperchio di pietra del sepolcro ha una testa che grida, molto bella e bizzarra; per che, visto i Capponi l'opera di Raffaello esser cosa rara, gli fecion fare uno ornamento tutto intagliato con colonne tonde e riccamente messe d'oro a bolo brunito; e non andò molti anni che, dando una saetta sopra il campanile di quel luogo, forò la volta e cascò vicino a questa tavola, la quale per essere lavorata a olio non offese niente, ma dove ella passò a canto all'ornamento messo d'oro, lo consumò quel vapore, lassandovi il semplice bolo senza oro.
Mi è parso scrivere questo a proposito del dipignere a olio, acciò si veda quanto importi sapere difendersi da simile ingiuria, e non solo a questa opera l'ha fatto, ma a molte altre.
Fece a fresco in sul canto d'una casa, che oggi è di Matteo Botti, fra 'l canto del ponte alla Carraia e quello della Cuculia, un tabernacoletto drentovi la Nostra Donna col Figliolo in collo, Santa Caterina e Santa Barbera ginocchioni, molto grazioso e diligente lavoro.
Nella villa di Marignolle de' Girolami fece dua bellissime tavole con la Nostra Donna, San Zanobi et altri Santi, e le predelle sotto piene di figurine di storie di que' Santi fatte con diligenzia.
Fece sopra le monache di San Giorgio in muro alla porta della chiesa una Pietà con le Marie intorno, e similmente sotto quello un altro arco con una Nostra Donna nel MDIIII, opera degna di gran lode.
Nella chiesa di Santo Spirito in Fiorenza in una tavola sopra quella de' Nerli, di Filippo suo maestro, dipinse una Pietà, cosa tenuta molto buona e lodevole; ma in un'altra di San Bernardo manco perfetta di quella.
Sotto la porta della sagrestia fece due tavole, una quando San Gregorio papa dice messa, che Cristo gli apare ignudo versando il sangue con la Croce in spalla, et il diacono e subdiacono parati la servono, con dua Angeli che incensano il corpo di Cristo, sotto, [in] una altra cappella, fece una tavola drentovi la Nostra Donna, San Ieronimo e San Bartolomeo, nelle quale due opere durò fatica e non poca, ma andava ogni dì peggiorando, né so a che mi attribuire questa disgrazia sua, che il povero Raffaello non mancava di studio, diligenzia e fatica, ma poco gli valeva; là dove si giudica che, venuto in famiglia grave e povero, et ogni giorno bisognando valersi di quel che guadagnava, oltre che non era di troppo animo e pigliando a far le cose per poco pregio, di mano in mano andò peggiorando, ma sempre nondimeno si vedde del buono nelle cose sue.
Fece per i monaci di Cestello nel lor refettorio una storia grande nella facciata colorita in fresco nella quale dipinse il miracolo che fece Iesù Cristo de' cinque pani e duo pesci saziando cinquemila persone.
Fece allo abate de' Panichi, per la chiesa di San Salvi fuor della porta alla Croce, la tavola dello altar maggiore con la Nostra Donna, San Giovan Gualberto, San Salvi e San Bernardo cardinale degli Uberti e San Benedetto abate, e dalle bande San Batista e San Fedele armato in duo nicchie che mettevano in mezzo la tavola, la quale aveva un ricco ornamento e nella predella più storie di figure piccole della vita di San Giovan Gualberto, nel che si portò molto bene, perché fu sovenuto in quella sua miseria da quello abate al qual venne pietà di lui e della sua virtù, e Raffaello nella predella di quella tavola lo ritrasse di naturale insieme col generale loro, che governava a quel tempo.
Fece in San Pier Maggiore una tavola a man ritta, entrando in chiesa, e nelle Murate un San Gismondo re.
In un quadro e' fece in San Brancazio, per Girolamo Federighi, una Trinità in fresco dove e' fu sepolto ritraendovi lui e la moglie ginochioni, dove e' cominciò a tornare nella maniera minuta.
Similmente fece due figure in Cestello a tempera, cioè un San Rocco e Santo Ignazio che sono alla cappella di San Bastiano.
Alla coscia del ponte Rubaconte verso le Mulina fece in una cappelluccia una Nostra Donna, San Lorenzo et un altro Santo, et in ultimo si ridusse a far ogni lavoro meccanico; et ad alcune monache et altre genti, che allora ricamavano assai paramenti da chiese, si diede a fare disegni di chiaro scuro e fregiature di Santi e di storie per vilissimo prezzo, perché, ancora che egli avesse peggiorato, talvolta gli usciva di bellissimi disegni e fantasie di mano, come ne fanno fede molte carte che poi doppo la morte di coloro che ricamavono si son venduti qua e là; e nel libro del signore Spedalingo ve n'è molti che mostrano quanto valesse nel disegno.
Il che fu cagione che si feciono molti parimenti e fregiature per le chiese di Fiorenza e per il dominio et anche a Roma per cardinali e vescovi, i quali sono tenuti molto begli, et oggi questo modo del ricamare in quel modo che usava Pagolo da Verona, Galieno fiorentino et altri simili, è quasi perduto, essendosi trovato un altro modo di punteggiar largo che non ha né quella bellezza né quella diligenzia, et è meno durabile assai che quello; onde egli per questo benefizio merita, se bene la povertà li diede scomodo e stento in vita, che egli abbi gloria et onore delle virtù sue doppo la morte.
E nel vero fu Raffaello sgraziato nelle pratiche, perché usò sempre con gente povere e basse come quello che avilito si vergognava di sé, atteso che nella sua gioventù fu tenuto in grande spettazione e poi si conosceva lontano dall'opere sue prima fatte in gioventù tanto eccellentemente.
E così invecchiando declinò tanto da quel primo buono che le cose non parevano più di sua mano; et ogni giorno l'arte dimenticando, si ridusse poi, oltra le tavole e quadri che faceva, a dipignere ogni vilissima cosa, e tanto avvilì che ogni cosa gli dava noia, ma più la grave famiglia de' figliuoli che aveva, ch'ogni valor dell'arte trasmutò in goffezza.
Perché sovragiunto da infermità et impoverito, miseramente finì la sua vita di età d'anni 58.
Fu sepolto dalla Compagnia della Misericordia in San Simone di Fiorenza nel 1524.
Lasciò dopo di sé molti che furono pratiche persone.
Andò ad imparare da costui i principii dell'arte nella sua fanciullezza Bronzino, fiorentino pittore, il quale si portò poi sì bene sotto la protezzione di Iacopo da Puntorno, pittor fiorentino, che nell'arte ha fatto i medesimi frutti che Iacopo suo maestro.
Il ritratto di Raffaello si è cavato da un disegno che aveva Bastiano da Monte Carlo, che fu anch'egli suo discepolo, il quale fu pratico maestro, per uomo senza disegno.
VITA DI TORRIGIANO SCULTOR FIORENTINO
Grandissima possanza ha lo sdegno in uno che cerca con alterigia e con superbia in una professione essere stimato eccellente, e che in tempo che egli non se lo aspetti vegga levarsi di nuovo qualche bello ingegno nella medesima arte, il quale non pure lo paragoni, ma col tempo di gran lunga lo avanzi.
Questi tali certamente non è ferro che per rabbia non rodessero o male che, potendo, non facessero.
Perché par loro scorno ne' popoli troppo orribile lo avere visto nascere i putti, e da' nati, quasi in un tempo, nella virtù essere raggiunti; non sapendo eglino che ogni dì si vede la volontà spinta dallo studio negli anni acerbi de' giovani, quando con la frequentazione degli studi è da essi esercitata, crescere in infinito; e che i vecchi dalla paura, dalla superbia e dalla ambizione tirati, diventano goffi, e quanto meglio credono fare, peggio fanno e credendo andare inanzi ritornano a dietro.
Onde essi, invidiosi, mai non dànno credito alla perfezzione de' giovani nelle cose che fanno, quantunque chiaramente le vegghino, per l'ostinazione ch'è in loro.
Per che nelle prove si vede che quando eglino, per volere mostrare quel che sanno, più si sforzano, ci mostrano spesso di loro cose ridicole e da pigliarsene giuoco.
E nel vero come gli artefici passano i termini, che l'occhio non sta fermo e la mano lor trema, possono, se hanno avanzato alcuna cosa, dare de' consigli a chi opera, conciò sia che l'arti della pittura e scultura vogliono l'animo tutto svegliato e fiero, sì come è nella età che bolle il sangue e pieno di voglia ardente e de' piaceri del mondo capital nimico.
E chi nelle voglie del mondo non è continente, fugga gli studii di qualsivoglia arte o scienza, perciò che non bene convengono fra loro cotali piaceri e lo studio.
E da che tanti pesi si recano dietro queste virtù, pochi, per ogni modo, sono coloro che arrivino al supremo grado.
Onde più sono quelli che dalle mosse con caldezza si partono, che quegli, che per ben meritare nel corso, acquistino il premio.
Più superbia adunque che arte, ancor che molto valessi, si vide nel Torrigiano, scultore fiorentino; il quale nella sua giovanezza fu da Lorenzo Vecchio de' Medici tenuto nel giardino, che in sulla piazza di San Marco di Firenze aveva quel magnifico cittadino in guisa d'antiche e buone sculture ripieno, che la loggia, i viali e tutte le stanze erano adorne di buone figure antiche di marmo e di pitture et altre così fatte cose di mano de' migliori maestri che mai fussero stati in Italia e fuori.
Le quali tutte cose, oltre al magnifico ornamento che facevano a quel giardino, erano come una scuola et academia ai giovanetti pittori e scultori et a tutti gl'altri che attendevano al disegno; e particolarmente ai giovani nobili, atteso che il detto Magnifico Lorenzo teneva per fermo che coloro che nascono di sangue nobile possino più agevolmente in ogni cosa venire a perfezzione, e più presto, che non fanno per lo più le genti basse, nelle quali comunemente non si veggiono quei concetti, né quel maraviglioso ingegno, che nei chiari di sangue si vede; senza che, avendo i manco nobili il più delle volte a difendersi dallo stento e dalla povertà, e per conseguente necessitati a fare ogni cosa meccanica, non possono esercitare l'ingegno, né ai sommi gradi d'eccellenza pervenire.
Onde ben disse il dottissimo Alciato parlando dei belli ingegni nati poveramente e che non possono sollevarsi per essere tanto tenuti al basso dalla povertà, quanto inalzati dalle penne dell'ingegno:
Ut me pluma levat, sie grave mergit onus.
Favorì dunque il Magnifico Lorenzo sempre i belli ingegni, ma particolarmente i nobili che avevano a queste arti inclinazione; onde non è gran fatto che di quella scuola uscissero alcuni che hanno fatto stupire il mondo; e, che è più, non solo dava provisione da poter vivere e vestire a coloro che, essendo poveri, non arebbono potuto esercitare lo studio del disegno, ma ancora donativi straordinarii a chi meglio degl'altri si fusse in alcuna cosa adoperato; onde, gareggiando fra loro i giovani studiosi delle nostre arti, ne divennero, come si dirà, eccellentissimi.
Era allora custode e capo di detti giovani Bertoldo, scultore fiorentino, vecchio e pratico maestro, e stato già discepolo di Donato; onde insegnava loro e parimente aveva cura alle cose del giardino et a molti disegni, cartoni e modelli di mano di Donato, Pippo, Masaccio, Paulo Ucello, fra' Giovanni, fra' Filippo e d'altri maestri paesani e forestieri.
E nel vero queste arti non si possono imparare se non con lungo studio fatto in ritrarre e sforzarsi d'imitare le cose buone.
E chi non ha di sì fatte commodità, se bene è dalla natura aiutato, non si può condurre, se non tardi, a perfezzione.
Ma tornando all'anticaglie del detto giardino, elle andarono la maggior parte male l'anno 1494, quando Piero, figliuolo del detto Lorenzo, fu bandito di Firenze; perciò che tutte furono vendute all'incanto.
Ma non di meno la maggior parte furono l'anno 1512 rendute al Magnifico Giuliano, allora che egli e gl'altri di casa Medici ritornarono alla patria; et oggi per la maggior parte si conservano nella guardaroba del Duca Cosimo.
Il quale esempio veramente magnifico di Lorenzo, sempre che sarà imitato da' principi e da altre persone onorate, recherà loro onore e lode perpetua, perché chi aiuta e favorisce nell'alte imprese i belli e pellegrini ingegni, da e' quali riceve il mondo tanta bellezza, onore, comodo et utile, merita di vivere eternamente per fama negli intelletti degli uomini.
Fra gl'altri che studiarono l'arti del disegno in questo giardino riuscirono tutti questi eccellentissimi: Michelagnolo di Lodovico Bonarroti, Giovan Francesco Rustici, Torrigiano Torrigiani, Francesco Granacci, Niccolò di Domenico Soggi, Lorenzo di Credi e Giuliano Bugiardini.
E de' forestieri: Baccio da Monte Lupo, Andrea Contucci dal Monte San Sovino et altri de' quali si farà memoria al luogo loro.
Il Torrigiano adunque, del quale al presente scriviamo la vita, praticando nel detto giardino con i sopra detti era di natura tanto superbo e colloroso, oltre all'essere di persona robusta, d'animo fiero e coraggioso, che tutti gl'altri bene spesso soperchiava di fatti e di parole; era la sua principale professione la scoltura, ma non di meno lavorava di terra molto pulitamente e con assai bella e buona maniera, ma, non potendo egli sopportare che niuno con l'opere gli passasse inanzi, si metteva a guastar con le mani quell'opere di man d'altri, alla bontà delle quali non poteva con l'ingegno arrivare.
E, se altri di ciò se risentiva, egli spesso veniva ad altro che a parole.
Aveva costui particolar odio con Michelagnolo, non per altro se non perché lo vedeva studiosamente attendere all'arte, e sapeva che nascosamente la notte et il giorno delle feste disegnava in casa, onde poi nel giardino riusciva meglio che tutti gl'altri et era per ciò molto carezzato dal Magnifico Lorenzo; per che, mosso da crudele invidia, cercava sempre d'offenderlo di fatti o di parole; onde venuti un giorno alle mani, diede il Torrigiano a Michelagnolo sì fattamente un pugno sul naso, che glielo infranse, di maniera che lo portò poi sempre così stiacciato mentre che visse.
La qual cosa avendo intesa il Magnifico ne ebbe tanto sdegno che, se il Torrigiano non si fuggiva di Firenze, n'arebbe ricevuto qualche grave castigo.
Andatosene dunque a Roma, dove allora faceva lavorare Alessandro VI Torre Borgia, vi fece il Torrigiano in compagnia d'altri maestri molti lavori di stucchi, poi dandosi danari per lo duca Valentino che faceva guerra ai Romagnuoli, il Torrigiano fu sviato da alcuni giovani fiorentini; e così fattosi in un tratto di scultore soldato, si portò in quelle guerre di Romagna valorosamente; il medesimo fece con Paulo Vitelli nella guerra di Pisa.
E con Piero de' Medici si trovò nel fatto d'arme del Garigliano, dove si acquistò una insegna e nome di valente alfiere.
Finalmente, conoscendo che non era per mai venire, ancor che lo meritasse, come disiderava al grado di capitano e non avere alcuna cosa avanzato nella guerra anzi aver consumato vanamente il tempo, ritornò alla scoltura, et avendo fatto ad alcuni mercatanti fiorentini operette di marmo e di bronzo in figure piccole, che sono in Fiorenza per le case de' cittadini, e disegnato molte cose con fierezza e buona maniera, come si può vedere in alcune carte del nostro libro di sua mano insieme con altre, le quali fece a concorrenza di Michelagnolo, fu dai su detti mercanti condotto in Inghilterra dove lavorò in servigio di quel re infinite cose di marmo, di bronzo e di legno a concorrenza d'alcuni maestri di quel paese ai quali tutti restò superiore.
E ne cavò tanti e così fatti premii che, se non fusse stato, come superbo, persona inconsiderata e senza governo, sarebbe vivuto quietamente e fatto ottima fine, là dove gli avvenne il contrario.
Dopo, essendo condotto d'Inghilterra in Ispagna, vi fece molte opere che sono sparse in diversi luoghi e sono molto stimate; ma in fra l'altre fece un Crocifisso di terra che è la più mirabile cosa che sia in tutta la Spagna.
E fuori della città di Siviglia in un monasterio de' frati di San Girolamo fece un altro Crucifisso et un San Girolamo in penitenza col suo lione, nella figura del qual Santo ritrasse un vecchio dispensiero de' Botti, mercanti fiorentini in Ispagna, et una Nostra Donna col Figliuolo, tanto bella ch'ella fu cagione che ne facesse un'altra simile al Duca d'Arcus, il quale per averla fece tante promesse a Torrigiano, che egli si pensò d'esserne ricco per sempre.
La quale opera finita, gli donò quel Duca tante di quelle monete che chiamano maravelìs, che vagliono poco o nulla, che il Torrigiano al quale ne andarono due persone a casa cariche si confermò maggiormente nella sua openione d'avere a esser richissimo.
Ma avendo poi fatta contare e vedere a un suo amico fiorentino quella moneta e ridurla al modo italiano, vide che tanta somma non arrivava pure a trenta ducati, per che, tenendosi beffato, con grandissima collera andò dove era la figura che aveva fatto per quel Duca e tutta guastolla.
Laonde quello Spagnuolo, tenendosi vituperato, accusò il Torrigiano per eretico; onde essendo messo in prigione et ogni dì esaminato e mandato [da] uno inquisitore all'altro, fu giudicato finalmente degno di gravissima punizione.
La quale non fu messa altrimenti in esecuzione, perché esso Torrigiano per ciò venne in tanta maninconia che, stato molti giorni senza mangiare e per ciò debilissimo divenuto, a poco a poco finì la vita; e così col torsi il cibo si liberò dalla vergogna in che sarebbe forse caduto, essendo, come si credette, stato condennato a morte.
Furono l'opere di costui circa gl'anni di nostra salute 1515.
E morì l'anno 1522.
VITA DI GIULIANO ET ANTONIO DA SAN GALLO ARCHITETTI FIORENTINI
Francesco di Paulo Giamberti, il quale fu ragionevole architetto al tempo di Cosimo de' Medici e fu da lui molto adoperato, ebbe due figliuoli: Giuliano et Antonio, i quali mise all'arte dell'intagliare di legno, e col Francione legnaiuolo, persona ingegnosa, il quale similmente attendeva agl'intagli di legno et alla prospettiva, e col quale aveva molto dimestichezza, avendo eglino insieme molte cose e d'intaglio e d'architettura operato per Lorenzo de' Medici; acconciò, il detto Francesco, Giuliano uno de' detti suoi figliuoli, il quale Giuliano imparò in modo bene tutto quello che il Francione gl'insegnò, che gl'intagli e le bellissime prospettive, che poi da sé lavorò nel coro del Duomo di Pisa, sono ancor oggi, fra molte prospettive nuove, non senza maraviglia guardate.
Mentre che Giuliano attendeva al disegno et il sangue della giovanezza gli bolliva, l'esercito del Duca di Calavria, per l'odio che quel signore portava a Lorenzo de' Medici, s'accampò alla Castellina per occupare il dominio alla Signoria di Fiorenza e per venire, se gli fusse riuscito, a fine di qualche suo disegno maggiore; per che, essendo forzato il Magnifico Lorenzo a mandare uno ingegnero alla Castellina, che facesse molina e bastie e che avesse cura e maneggiasse l'artiglieria, il che pochi in quel tempo sapevano fare, vi mandò Giuliano, come d'ingegno più atto e più destro e spedito e da lui conosciuto, come figliuolo di Francesco, stato amorevole servitore di casa Medici.
Arrivato Giuliano alla Castellina, fortificò quel luogo dentro e fuori di buone mura e di mulina, e d'altre cose necessarie alla difesa di quella la provide.
Dopo, veggendo gli uomini star lontani all'artiglieria e maneggiarla e caricarla e tirarla timidamente, si gettò a quella e l'acconciò di maniera che da indi in poi a nessuno fece male, avendo ella prima occiso molte persone, le quali nel tirarla, per poco giudizio loro, non avevano saputo far sì che nel tornare a dietro non offendesse.
Presa dunque Giuliano la cura della detta artiglieria fu tanta nel tirarla e servirsene la sua prudenza che il campo del Duca impaurì di sorte, che per questo et altri impedimenti ebbe caro di accordarsi e di lì partirsi.
Di che conseguì Giuliano non piccola lode in Fiorenza appresso Lorenzo, onde fu poi di continuo ben veduto e carezzato.
Intanto, essendosi dato alle cose d'architettura, cominciò il primo chiostro di Cestello, e ne fece quella parte che si vede di componimento ionico, ponendo i capitelli sopra le colonne con la voluta che girando cascava fino al collarino dove finisce la colonna, avendo sotto l'uovolo e fusarola fatto un fregio alto il terzo del diametro di detta colonna; il quale capitello fu ritratto da uno di marmo antichissimo, stato trovato a Fiesole da Messer Lionardo Salutati, vescovo di quel luogo, che lo tenne con altre anticaglie un tempo nella via di San Gallo in una casa e giardino dove abitava dirimpetto a Santa Agata; il quale capitello è oggi appresso Messer Giovanbatista da Ricasoli, vescovo di Pistoia, e tenuto in pregio per la bellezza e varietà sua, essendo che fra gl'antichi non se n'è veduto un altro simile.
Ma questo chiostro rimase imperfetto per non potere fare allora quei monaci tanta spesa.
Intanto, venuto in maggior considerazione Giuliano appresso Lorenzo, il quale era in animo di fabricare al Poggio a Caiano, luogo fra Fiorenza e Pistoia, e n'aveva fatto fare più modelli al Francione et ad altri, esso Lorenzo fece fare di quello che aveva in animo di fare un modello a Giuliano, il quale lo fece tanto diverso e vario dalla forma degl'altri e tanto secondo il capriccio di Lorenzo che egli cominciò subitamente a farlo mettere in opera come migliore di tutti; et accresciutogli grado per queste, gli dette poi sempre provisione.
Volendo poi fare una volta alla sala grande di detto palazzo nel modo che noi chiamiamo a botte, non credeva Lorenzo che per la distanzia si potesse girare; onde Giuliano, che fabricava in Fiorenza una sua casa, voltò la sala sua a similitudine di quella per far capace la volontà del magnifico Lorenzo; per che egli quella del Poggio felicemente fece condurre.
Onde la fama sua talmente era cresciuta che a' preghi del Duca di Calavria fece il modello d'un palazzo, per commissione del Magnifico Lorenzo che doveva servire a Napoli, e consumò gran tempo a condurlo.
Mentre adunque lo lavorava, il castellano di Ostia, vescovo allora della Rovere, il quale fu poi co 'l tempo Papa Giulio II, volendo acconciare e mettere in buono ordine quella fortezza, udita la fama di Giuliano, mandò per lui a Fiorenza, et ordinatoli buona provisione ve lo tenne due anni a farvi tutti quegli utili e comodità che poteva con l'arte sua.
E perché il modello del Duca di Calavria non patisse e finir si potesse, ad Antonio suo fratello lasciò che con suo ordine lo finisse, il quale nel lavorarlo aveva con diligenza seguitato e finito, essendo Antonio ancora di sofficienza in tale arte non meno che Giuliano.
Per il che fu consigliato Giuliano da Lorenzo Vecchio a presentarlo egli stesso, acciò che in tal modello potesse mostrare le difficultà che in esso aveva fatto; laonde partì per Napoli e, presentato l'opera, onoratamente fu ricevuto, non con meno stupore de lo averlo il Magnifico Lorenzo mandato con tanto garbata maniera, quanto con maraviglia per il magisterio de l'opera nel modello; il quale piacque sì che si diede con celerità principio all'opera vicino al Castel Nuovo.
Poi che Giuliano fu stato a Napoli un pezzo, nel chiedere licenza al Duca per tornare a Fiorenza, gli fu fatto dal re presenti di cavalli e vesti e fra l'altre d'una tazza d'argento con alcune centinaia di ducati, i quali Giuliano non volle accettare, dicendo che stava con padrone il quale non aveva bisogno d'oro né d'argento.
E se pure gli voleva far presente o alcun segno di guidardone, per mostrare che vi fosse stato, gli donasse alcuna de le sue anticaglie a sua elezzione.
Le quali il re liberalissimamente per amor del Magnifico Lorenzo e per le virtù di Giuliano gli concesse, e queste furono: la testa d'uno Adriano imperatore, oggi sopra la porta del giardino in casa Medici, una femmina ignuda più che 'l naturale et un Cupido che dorme, di marmo tutti tondi; le quali Giuliano mandò a presentare al Magnifico Lorenzo, che per ciò ne mostrò infinita allegrezza, non restando mai di lodar l'atto del liberalissimo artefice, il quale rifiutò l'oro e l'argento per l'artificio, cosa che pochi averebbono fatto; questo Cupido è oggi in guardaroba del Duca Cosimo.
Ritornato dunque Giuliano a Fiorenza fu gratissimamente raccolto dal Magnifico Lorenzo, al quale venne capriccio, per sodisfare a frate Mariano da Ghinazzano, literatissimo de l'Ordine de' frati eremitani di Santo Agostino, di edificargli, fuor de la porta S.
Gallo, un convento capace per cento frati, del quale ne fu da molti architetti fatto modelli, et in ultimo si mise in opera quello di Giuliano.
Il che fu cagione che Lorenzo lo nominò da questa opera Giuliano da San Gallo.
Onde Giuliano, che da ognuno si sentiva chiamare da San Gallo, disse un giorno burlando al Magnifico Lorenzo: "Colpa del vostro chiamarmi da San Gallo, mi fate perdere il nome del casato antico; e credendo avere andare inanzi per antichità, ritorno a dietro".
Per che Lorenzo gli rispose che più tosto voleva che per la sua virtù egli fosse principio d'un casato nuovo che dependessi da altri; onde Giuliano di tal cosa fu contento.
Seguitandosi pertanto l'opera di San Gallo insieme con le altre fabriche di Lorenzo, non fu finita né quella né l'altre per la morte di esso Lorenzo.
E poi ancora poco viva in piede rimase tal fabrica di San Gallo, perché nel 1530 per lo assedio di Fiorenza fu rovinata e buttata in terra insieme col borgo, che di fabriche molto belle aveva piena tutta la piazza; et al presente non vi si vede alcun vestigio né di casa, né di chiesa, né di convento.
Successe in quel tempo la morte del re di Napoli, e Giuliano Gondi, ricchissimo mercante fiorentino, se ne tornò a Fiorenza, e dirimpetto a San Firenze, di sopra dove stavano i lioni fece di componimento rustico fabricare un palazzo da Giuliano, col quale, per la gita di Napoli, aveva stretta dimestichezza.
Questo palazzo doveva fare la cantonata finita e voltare verso la Mercatanzia Vecchia, ma la morte di Giuliano Gondi la fece fermare; nel qual palazzo fece fra l'altre cose un cammino molto ricco d'intagli e tanto vario di componimento e bello che non se n'era insino alora veduto un simile, né con tanta copia di figure.
Fece il medesimo per un viniziano, fuor de la porta a Pinti in Camerata, un palazzo, et a' privati cittadini molte case, delle quali non accade far menzione.
E volendo il Magnifico Lorenzo, per utilità publica et ornamento dello stato lasciar fama e memoria, oltre alle infinite che procacciate si aveva, fare la fortificazione del Poggio Imperiale sopra Poggibonzi su la strada di Roma per farci una città, non la volle disegnare senza il consiglio e disegno di Giuliano; onde per lui fu cominciata quella fabbrica famosissima, nella quale fece quel considerato ordine di fortificazione e di bellezza che oggi veggiamo.
Le quali opere gli diedero tal fama che dal Duca di Milano, a ciò che gli facesse il modello d'un palazzo per lui, fu per il mezzo poi di Lorenzo condotto a Milano, dove non meno fu onorato Giuliano dal Duca che e' si fusse stato onorato prima dal re quando lo fece chiamare a Napoli.
Perché, presentando egli il modello per parte del Magnifico Lorenzo, riempié quel Duca di stupore e di maraviglia nel vedere in esso l'ordine e la distribuzione di tanti begli ornamenti, e con arte tutti e con leggiadria accomodati ne' luoghi loro.
Il che fu cagione che, procacciate tutte le cose a ciò necessarie, si cominciasse a metterlo in opera.
Nella medesima città furono insieme Giuliano e Lionardo da Vinci, che lavorava col Duca, e parlando esso Lionardo del getto che far voleva del suo cavallo, n'ebbe bonissimi documenti.
La quale opra fu messa in pezzi per la venuta de' Franzesi, e così il cavallo non si finì, né ancora si poté finire il palazzo.
Ritornato Giuliano a Fiorenza, trovò che Antonio suo fratello, che gli serviva ne' modegli, era divenuto tanto egregio che nel suo tempo non c'era chi lavorasse et intagliasse meglio di esso e massimamente Crocifissi di legno grandi, come ne fa fede quello sopra lo altar maggiore nella Nunziata di Fiorenza, et uno che tengono i frati di San Gallo in San Iacopo tra' Fossi et uno altro nella Compagnia dello Scalzo, i quali sono tutti tenuti bonissimi.
Ma egli lo levò da tale essercizio et alla architettura in compagnia sua lo fece attendere, avendo egli per il privato e publico a fare molte faccende.
Avvenne, come di continuo avviene, che la fortuna nimica della virtù levò gli appoggi delle speranze a' virtuosi con la morte di Lorenzo de' Medici; la quale non solo fu cagione di danno agli artefici virtuosi et alla patria sua, ma a tutta l'Italia ancora; onde rimase Giuliano con gli altri spirti ingegnosi sconsolatissimo, e per lo dolore si trasferì a Prato vicino a Fiorenza a fare il tempio della Nostra Donna delle carcere, per essere ferme in Fiorenza tutte le fabbriche publiche e private.
Dimorò dunque in Prato tre anni continui, con sopportare la spesa, il disagio e 'l doloro come potette il meglio.
Dopo, avendosi a ricoprire la chiesa della Madonna di Loreto e voltare la cupola, già stata cominciata e non finita da Giuliano da Maiano, dubitavano coloro che di ciò avevano la cura, che la debolezza de' pilastri non reggesse così gran peso; per che scrivendo a Giuliano che, se voleva, tale opera andasse a vedere, egli come animoso e valente andò e mostrò con facilità quella poter voltarsi e che a ciò gli bastava l'animo; e tante e tali ragioni allegò loro che l'opera gli fu allogata.
Dopo la quale allogazione fece spedire l'opera di Prato e coi medesimi maestri muratori e scarpellini a Loreto si condusse.
E perché tale opra avesse fermezza nelle pietre, e saldezza e forma e stabilità e facesse legazione, mandò a Roma per la pozzolana; né calce fu che con essa non fosse temperata e murata ogni pietra; e così in termine di tre anni quella finita e libera rimase perfetta.
Andò poi a Roma, dove a papa Alessandro vi restaurò il tetto di Santa Maria Maggiore, che ruinava; e vi fece quel palco ch'al presente si vede.
Così nel praticare per la corte il vescovo della Rovere, fatto cardinale di San Pietro in Vincola, già amico di Giuliano fin quando era castellano d'Ostia, gli fece fare il modello del palazzo di S.
Pietro in Vincola.
E poco dopo questo, volendo edificare a Savona sua patria un palazzo, volle farlo similmente col disegno e con la presenzia di Giuliano.
La quale andata gli era difficile, perciò che il palco non era ancor finito e papa Alessandro non voleva ch'e' partisse.
Per il che lo fece finire per Antonio suo fratello, il quale, per avere ingegno buono e versatile, nel praticare la corte contrasse servitù col Papa, che gli mise grandissimo amore e glielo mostrò nel volere fondare e rifondare con le difese a uso di castello, la Mole di Adriano, oggi detta Castel Santo Agnolo; alla quale impresa fu preposto Antonio.
Così si fecero i torrioni da basso, i fossi e l'altre fortificazioni che al presente veggiamo.
La quale opera gli diè credito grande appresso il Papa e col duca Valentino, suo figliuolo; e fu cagione ch'egli facesse la rocca che si vede oggi a Civita Castellana.
E così, mentre quel Pontefice visse, egli di continuo attese a fabbricare, e per esso lavorando fu non meno premiato che stimato da lui.
Già aveva Giuliano a Savona condotto l'opera innanzi quando il cardinale, per alcuno suoi bisogni, ritornò a Roma e lasciò molti Operai ch'alla fabbrica dessero perfezzione con l'ordine e col disegno di Giuliano, il quale ne menò seco a Roma et egli fece volentieri questo viaggio per rivedere Antonio e l'opere d'esso, dove dimorò alcuni mesi.
Ma venendo in quel tempo il cardinale in disgrazia del Papa, si partì da Roma per non esser fatto prigione e Giuliano gli tenne sempre compagnia.
Arrivati dunque a Savona crebbero maggior numero di maestri da murare et altri artefici in sul lavoro.
Ma facendosi ognora più vivi i romori del Papa contra il cardinale, non stette molto che se n'andò in Avignone, e d'un modello, che Giuliano aveva fatto d'un palazzo per lui, fece fare un dono al re; il quale modello era maraviglioso, ricchissimo d'ornamenti e molto capace per lo allogiamento di tutta la sua corte.
Era la corte reale in Lione quando Giuliano presentò il modello, il quale fu tanto caro et accetto al re che largamente lo premiò e gli diede lode infinite e ne rese molte grazie al cardinale che era in Avignone.
Ebbero intanto nuove che il palazzo di Savona era già presso alla fine; per il che il cardinale deliberò che Giuliano rivedesse tale opera, per che andato Giuliano a Savona poco vi dimorò che fu finito a fatto.
Laonde Giuliano, desiderando tornare a Firenze, dove per lungo tempo non era stato, con que' maestri prese il cammino e, perché aveva in quel tempo il re di Francia rimesso Pisa in libertà e durava ancora la guerra tra Fiorentini e Pisani, volendo Giuliano passare, si fece in Lucca fare un salvo condotto, avendo eglino de' soldati pisani non poco sospetto.
Ma non di meno nel lor passare vicino ad Altopascio furono da' Pisani fatti prigioni, non curando essi salvo condotto né cosa che avessero.
E per sei mesi fu ritenuto in Pisa, con taglia di trecento ducati; né prima che gl'avesse pagati se ne tornò a Fiorenza.
Aveva Antonio a Roma inteso queste cose, et avendo desiderio di rivedere la patria e 'l fratello, con licenzia partì da Roma, e nel suo passaggio disegnò al Duca Valentino la rocca di Monte Fiascone.
E così a Fiorenza si ricondusse l'anno 1503, e quivi con allegrezza di loro e degli amici si goderono.
Seguì allora la morte di Alessandro VI e la successione di Pio III che poco visse e fu creato pontefice il cardinale di S.
Pietro in Vincola, chiamato papa Giulio II, la qual cosa fu di grande allegrezza a Giuliano per la lunga servitù che aveva seco.
Onde deliberò andare a baciargli il piede, perché giunto a Roma fu lietamente veduto e con carezze raccolto, e subito fu fatto esecutore delle sue prime fabbriche innanzi la venuta di Bramante.
Antonio, che era rimasto a Fiorenza, sendo gonfaloniere Pier Soderini, non ci essendo Giuliano continuò la fabbrica del Poggio Imperiale, dove si mandavano a lavorare tutti i prigioni pisani per finire più tosto tal fabbrica.
Fu poi per i casi d'Arezzo rovinata la fortezza vecchia, et Antonio fece il modello della nuova col consenso di Giuliano; il quale da Roma perciò partì e subito vi tornò.
E fu questa opera cagione che Antonio fosse fatto architetto del comune di Fiorenza sopra tutte le fortificazioni.
Nel ritorno di Giuliano in Roma si praticava se 'l divino Michele Agnolo Buonarroti dovesse fare la sepoltura di Giulio, perché Giuliano confortò il Papa all'impresa, aggiugnendo che gli pareva che per quello edifizio si dovesse fabricare una cappella a posta senza porre quella nel vecchio San Piero, non vi essendo luogo, perciò che quella cappella renderebbe quell'opera più perfetta.
Avendo dunque molti architetti fatti disegni, si venne in tanta considerazione a poco a poco che, in cambio di fare una cappella, si mise mano alla gran fabrica del nuovo San Piero.
Et essendo di que' giorni capitato in Roma Bramante da Castel Durante architetto, il quale tornava di Lombardia, egli si adoperò di maniera con mezzi et altri modi straordinarii e con suoi ghiribizzi, avendo in suo favore Baldassarri Peruzzi, Raffaello da Urbino et altri architetti, che mise tutta l'opera in confusione; onde si consumò molto tempo in ragionamenti.
E finalmente l'opera (in guisa seppe egli adoperarsi) fu data a lui, come a persona di più giudizio, migliore ingegno e maggiore invenzione; per che Giuliano sdegnato, parendogli avere ricevuto ingiuria dal Papa col quale aveva avuto stretta servitù quando era in minor grado e la promessa di quella fabrica, domandò licenza, e così, nonostante che egli fusse ordinato compagno di Bramante in altri edifizii che in Roma si facevano, si partì e se ne tornò con molti doni avuti dal Papa a Fiorenza.
Il che fu molto caro a Piero Soderini, il quale lo mise subito in opera.
Né passarono sei mesi che Messer Bartolomeo della Rovere, nipote del Papa e compare di Giuliano, gli scrisse, a nome di Sua Santità, che egli dovesse per suo utile ritornare a Roma; ma non fu possibile né con patti né con promesse svolgere Giuliano, parendogli essere stato schernito dal Papa.
Ma finalmente, essendo scritto a Piero Soderini che per ogni modo mandasse Giuliano a Roma perché Sua Santità voleva fornire la fortificazione del Torrion tondo, cominciata da Nicola Quinto, e così quella di Borgo e Belvedere et altre cose, si lasciò Giuliano persuadere dal Soderino, e così andò a Roma, dove fu dal Papa ben raccolto e con molti doni.
Andando poi il Papa a Bologna, cacciati che ne furono i Bentivogli, per consiglio di Giuliano deliberò far fare da Michelagnolo Buonarroti un papa di bronzo, il che fu fatto, sì come si dirà nella vita di esso Michelagnolo.
Seguitò similmente Giuliano il Papa alla Mirandola e, quella presa, avendo molti disagi e fatiche sopportato, se ne tornò con la corte a Roma.
Né essendo ancora la rabbia di cacciare i Franzesi d'Italia uscita di testa al Papa, tentò di levare il governo di Fiorenza delle mani a Piero Soderini, essendogli ciò, per fare quello che aveva in animo, di non piccolo impedimento.
Onde per queste cagioni, essendosi diviato il Papa dal fabricare e nelle guerre intricato, Giuliano già stanco si risolvette dimandare licenza al Papa, vedendo che solo alla fabrica di San Piero si attendeva et anco a quella non molto.
Ma rispondendogli il Papa in collera: "Credi tu che non si trovino de' Giuliani da San Gallo?", egli rispose che non mai di fede, né di servitù pari alla sua, ma che ritrovarebbe bene egli de' principi di più integrità nelle promesse che non era stato il Papa verso sé.
Insomma, non gli dando altramente licenza, il Papa gli disse che altra volta gliene parlassi.
Aveva intanto Bramante condotto a Roma Raffaello da Urbino, messelo in opera a dipignere le camere papali, onde Giuliano vedendo che in quelle pitture molto si compiaceva il Papa, e che egli disiderava che si dipignesse la volta della cappella di Sisto suo zio, gli ragionò di Michelagnolo, aggiugnendo che egli aveva già in Bologna fatta la statua di bronzo.
La qual cosa piacendo al Papa, fu mandato per Michelagnolo, e giunto in Roma allogatagli la volta della detta cappella.
Poco dopo, tornando Giuliano a chiedere di nuovo al Papa licenza, Sua Santità vedendolo in ciò deliberato, fu contento che a Fiorenza se ne tornasse con sua buona grazia; e poi che l'ebbe benedetto, in una borsa di raso rosso gli donò cinquecento scudi, dicendogli che se ne tornasse a casa a riposarsi e che in ogni tempo gli sarebbe amorevole.
Giuliano dunque, baciatogli il santo piede, se ne tornò a Fiorenza in quel tempo a punto che Pisa era circondata et assediata dall'esercito fiorentino; onde non sì tosto fu arrivato, che Piero Soderini, dopo l'accoglienze, lo mandò in campo ai comissarii, i quali non potevano riparare che i Pisani non mettessino per Arno vettovaglie in Pisa.
Giuliano dunque, disegnato che a tempo migliore si facesse un ponte in sulle barche, se ne tornò a Fiorenza, e venuta la primavera, menando seco Antonio suo fratello, se n'andò a Pisa, dove condussero un ponte che fu cosa molto ingegnosa, perché, oltre che alzandosi et abbassandosi si difendeva dalle piene e stava saldo, essendo bene incatenato, fece di maniera quello che i commessarii disideravano, assediando Pisa dalla parte d'Arno verso la marina che furono forzati i Pisani, non avendo più rimedio al mal loro, a fare accordo coi Fiorentini e così si resero.
Né passò molto che il medesimo Piero Soderini mandò di nuovo Giuliano a Pisa con infinito numero di maestri, dove con celerità straordinaria fabbricò la fortezza, che è oggi alla porta a San Marco; è la detta porta di componimento dorico.
E mentre che Giuliano continuò questo lavoro che fu insino all'anno 1512, Antonio andò per tutto il dominio a rivedere e restaurare le fortezze et altre fabbriche pubbliche.
Essendo poi col favore di esso papa Giulio stata rimessa in Fiorenza et in governo la casa de' Medici, onde ella era nella venuta in Italia di Carlo Ottavo, re di Francia, stata cacciata, e stato cavato di palazzo Piero Soderini, fu riconosciuta dai Medici la servitù che Giuliano et Antonio avevano ne' tempi a dietro avuta con quella illustrissima Casa.
Et assunto non molto dopo la morte di Giulio Secondo Giovanni cardinale de' Medici, fu forzato di nuovo Giuliano a trasferirsi a Roma, dove, morto non molto dopo Bramante, fu voluta dar la cura della fabbrica di San Piero a Giuliano, ma essendo egli macero dalle fatiche et abbattuto dalla vecchiezza e da un male di pietra che lo cruciava, con licenzia di Sua Santità se ne tornò a Fiorenza e quel carico fu dato al graziosissimo Raffaello da Urbino.
E Giuliano passati due anni fu in modo stretto da quel suo male che si morì d'anni 74 l'anno 1517, lasciando il nome al mondo, il corpo alla terra e l'animo a Dio.
Lasciò nella sua partita dolentissimo Antonio, che teneramente l'amava, et un suo figliuolo, nominato Francesco, che attendeva alla scultura ancora fusse d'assai tenera età.
Questo Francesco, il quale ha salvato infino a oggi tutte le cose de' suoi vecchi, e l'ha in venerazione, oltre a molte altre opere fatte in Fiorenza et altrove di scultura e d'architettura, è di sua mano in Or San Michele la Madonna, che vi è di marmo, col Figliuolo in collo, et in grembo a Santa Anna; la quale opera, che è di figure tonde et in un sasso solo, fu ed è tenuta bell'opera.
Ha fatto similmente la sepoltura che papa Clemente fece fare a Monte Cassino di Piero de' Medici, et altre opere, molte delle quali non si fa menzione, per essere el detto Francesco vivo.
Antonio, dopo la morte di Giuliano, come quello che mal volentieri si stava, fece due Crucifissi grandi di legno, l'uno de' quali fu mandato in Ispagna e l'altro fu da Domenico Buoninsegni, per ordine del cardinale Giulio de' Medici vice cancelliere, portato in Francia.
Avendosi poi a fare la fortezza di Livorno vi fu mandato, dal cardinale de' Medici, Antonio a farne il disegno, il che egli fece se bene non fu poi messo interamente in opera, né in quel modo che Antonio l'aveva disegnato.
Dopo, deliberando gl'uomini di Monte Pulciano, per i miracoli fatti da una imagine di Nostra Donna, di fare un tempio di grandissima spesa, Antonio fece il modello e ne divenne capo; onde due volte l'anno visitava quella fabbrica, la quale oggi si vede condotta a l'ultima perfezzione, che fu nel vero di bellissimo componimento e vario dall'ingegno d'Antonio con somma grazia condotta; e tutte le pietre sono di certi sassi che tirano al bianco in modo di tivertini; la quale opra è fuor della porta di San Biagio a man destra et a mezzo la salita del Poggio.
In questo tempo ancora diede principio al palazzo d'Antonio di Monte cardinale di Santa Prassedia, nel castello del Monte San Savino, et un altro per il medesimo ne fece a Monte Pulciano, cose di bonissima grazia, lavorato e finito.
Fece l'ordine della banda delle case de' frati de' Servi, su la piazza loro, secondo l'ordine della loggia degli Innocenti.
Et in Arezzo fece i modelli delle navate della Nostra Donna delle Lagrime che fu molto male intesa perché scompagna con la fabbrica prima, e gli archi delle teste non tornano in mezzo; similmente fece un modello della Madonna di Cortona, il quale non penso che si mettesse in opera.
Fu adoprato nello assedio per le fortificazioni e bastioni dentro alla città, et ebbe a cotale impresa per compagnia Francesco, suo nipote.
Dopo, essendo stato messo in opera il gigante di piazza, di mano di Michelagnolo, al tempo di Giuliano fratello di esso Antonio, e dovendovisi condurre quel[l'] altro che aveva fatto Baccio Bandinelli, fu data la cura ad Antonio di condurvelo a salvamento; et egli, tolto in sua compagnia Baccio d'Agnolo, con ingegni molto gagliardi lo condusse e posò salvo in su quella base che a questo effetto si era ordinata.
In ultimo, essendo egli già vecchio divenuto, non si dilettava d'altro che dell'agricoltura, nella quale era intelligentissimo.
Laonde, quando più non poteva per la vecchiaia patire gli incomodi del mondo, l'anno 1534 rese l'anima a Dio, et insieme con Giuliano suo fratello nella chiesa di Santa Maria Novella, nella sepoltura de' Giamberti, gli fu dato riposo.
Le opere maravigliose di questi duoi fratelli faranno fede al mondo dello ingegno mirabile che egli ebbono e della vita e costumi onorati e delle azzioni loro, avute in pregio da tutto il mondo.
Lasciarono Giuliano et Antonio ereditaria l'arte dell'architettura dei modi dell'architetture toscane, con miglior forma che gli altri fatto non avevano, e l'ordine dorico con miglior misure e proporzione che alla vitruviana opinione e regola prima non s'era usato di fare.
Condussero in Fiorenza nelle lor case una infinità di cose antiche di marmo bellissime che non meno ornarono et ornano Fiorenza ch'eglino ornassero sé et onorassero l'arte.
Portò Giuliano da Roma il gettare le volte di materie che venissero intagliate; come in casa sua ne fa fede una camera et al Poggio a Caiano nella sala grande la volta che vi si vede ora; onde obligo si debbe avere alle fatiche sue avendo fortificato il dominio fiorentino et ornata la città, e per tanti paesi dove lavorarono dato nome a Fiorenza et agli ingegni toscani, che per onorata memoria hanno fatto loro questi versi:
Cedite Romani structores, cedite Grai,
artis Vitruvi tu quoque cede parens.
Hetruscos celebrate viros, testudinis arcus,
urna, tholus, statuae, templa, domusque petunt.
VITA DI RAFFAELLO D'URBINO PITTORE ET ARCHITETTO
Quanto largo e benigno si dimostri talora il cielo nell'accumulare in una persona sola l'infinite richezze de' suoi tesori e tutte quelle grazie e' più rari doni che in lungo spazio di tempo suol compartire fra molti individui, chiaramente poté vedersi nel non meno eccellente che grazioso Raffael Sanzio da Urbino.
Il quale fu dalla natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole alcuna volta vedersi in coloro che più degl'altri hanno a una certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d'una graziata affabilità, che sempre suol mostrarsi dolce e piacevole con ogni sorte di persone et in qualunche maniera di cose.
Di costui fece dono al mondo la natura quando vinta dall'arte, per mano di Michelagnolo Buonarroti, volle in Raffaello esser vinta dall'arte e dai costumi insieme.
E nel vero, poi che la maggior parte degl'artefici stati insino allora si avevano dalla natura recato un certo che di pazzia e di salvatichezza che, oltre all'avergli fatti astratti e fantastichi, era stata cagione che molte volte si era più dimostrato in loro l'ombra e lo scuro de' vizii che la chiarezza e splendore di quelle virtù che fanno gli uomini immortali, fu ben ragione che, per contrario, in Raffaello facesse chiaramente risplendere tutte le più rare virtù dell'animo, accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia et ottimi costumi, quanti sarebbono bastati a ricoprire ogni vizio quantunque brutto et ogni macchia ancor che grandissima.
Laonde, si può dire sicuramente che coloro che sono possessori di tante rare doti, quante si videro in Raffaello da Urbino, sian non uomini semplicemente, ma, se è lecito dire, dèi mortali; e che coloro che nei ricordi della fama lasciano quaggiù fra noi mediante l'opere loro onorato nome, possono anco sperare d'avere a godere in cielo con degno guidardone alle fatiche e merti loro.
Nacque adunque Raffaello in Urbino, città notissima in Italia, l'anno 1483, in venerdì santo a ore tre di notte, d'un Giovanni de' Santi, pittore non molto eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno et atto a indirizzare i figliuoli per quella buona via che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua gioventù.
E perché sapeva Giovanni quanto importi allevare i figliuoli non con il latte delle balie, ma delle proprie madri, nato che gli fu Raffaello, al quale così pose nome al battesimo con buono augurio, volle, non avendo altri figliuoli come non ebbe anco poi, che la propria madre lo allattasse e che più tosto ne' teneri anni aparasse in casa i costumi paterni che per le case de' villani e plebei uomini, men gentili o rozzi costumi e creanze.
E cresciuto che fu cominciò a esercitarlo nella pittura, vedendolo a cotal arte molto inclinato, di bellissimo ingegno; onde non passarono molti anni che Raffaello, ancor fanciullo, gli fu di grande aiuto in molte opere che Giovanni fece nello stato d'Urbino.
In ultimo, conoscendo questo buono et amorevole padre che poco poteva appresso di sé acquistare il figliuolo, si dispose di porlo con Pietro Perugino il quale, secondo che gli veniva detto, teneva in quel tempo fra i pittori il primo luogo; per che andato a Perugia, non vi trovando Pietro, si mise, per più comodamente poterlo aspettare, a lavorare in San Francesco alcune cose.
Ma tornato Pietro da Roma, Giovanni, che persona costumata era e gentile, fece seco amicizia e quando tempo gli parve, col più acconcio modo che seppe, gli disse il desiderio suo.
E così Pietro, che era cortese molto et amator de' belli ingegni, accettò Raffaello; onde Giovanni andatosene tutto lieto a Urbino e preso il putto, non senza molte lacrime della madre che teneramente l'amava, lo menò a Perugia, là dove Pietro, veduto la maniera del disegnare di Raffaello e le belle maniere e' costumi, ne fé quel giudizio che poi il tempo dimostrò verissimo con gl'effetti.
È cosa notabilissima che, studiando Raffaello la maniera di Pietro, la imitò così a punto et in tutte le cose che i suo' ritratti non si conoscevano dagl'originali del maestro e fra le cose sue e di Pietro non si sapeva certo discernere, come apertamente dimostrano ancora in San Francesco di Perugia alcune figure che egli vi lavorò in una tavola a olio per madonna Madalena degli Oddi, e ciò sono: una Nostra Donna assunta in cielo e Gesù Cristo che la corona, e di sotto intorno al sepolcro sono i dodici Apostoli che contemplano la gloria celeste.
Et a' piè della tavola in una predella di figure piccole, spartite in tre storie, è la Nostra Donna annunziata dall'Angelo; quando i Magi adorano Cristo e quando nel tempio è in braccio a Simeone, la quale opera certo è fatta con estrema diligenza e chi non avesse in pratica la maniera, crederebbe fermamente che ella fusse di mano di Pietro, là dove ell'è senza dubbio di mano di Raffaello.
Dopo questa opera, tornando Pietro per alcuni suoi bisogni a Firenze, Raffaello, partitosi di Perugia, se n'andò con alcuni amici suoi a Città di Castello, dove fece una tavola in Santo Agostino, di quella maniera e similmente in S.
Domenico una d'un Crucifisso, la quale, se non vi fusse il suo nome scritto, nessuno la crederebbe opera di Raffaello, ma sì bene di Pietro.
In San Francesco ancora della medesima città fece in una tavoletta lo Sposalizio di Nostra Donna, nel quale espressamente si conosce l'augumento della virtù di Raffaello venire con finezza assotigliando e passando la maniera di Pietro.
In questa opera è tirato un tempio in prospettiva con tanto amore che è cosa mirabile a vedere le difficultà che egli in tale esercizio andava cercando.
In questo mentre, avendo egli acquistato fama grandissima nel seguito di quella maniera, era stato allogato da Pio Secondo pontefice la libreria del Duomo di Siena al Pinturicchio, il quale, essendo amico di Raffaello e conoscendolo ottimo disegnatore, lo condusse a Siena, dove Raffaello gli fece alcuni dei disegni e cartoni di quell'opera; e la cagione che egli non continuò fu che, essendo in Siena da alcuni pittori con grandissime lodi celebrato il cartone che Lionardo da Vinci aveva fatto nella sala del palazzo in Fiorenza d'un gruppo di cavalli bellissimo per farlo nella sala del palazzo e similmente alcuni nudi fatti a concorrenza di Lionardo da Michelagnolo Buonarroti molto migliori; venne in tanto desiderio Raffaello, per l'amore che portò sempre all'eccellenza dell'arte, che, messo da parte quell'opera et ogni utile e comodo suo, se ne venne a Fiorenza.
Dove arrivato, perché non gli piacque meno la città, che quell'opere le quali gli parvero divine, deliberò di abitare in essa per alcun tempo; e così, fatta amicizia con alcuni giovani pittori, fra' quali furono Ridolfo Ghirlandaio, Aristotile San Gallo et altri, fu nella città molto onorato e particolarmente da Taddeo Taddei, il quale lo volle sempre in casa sua et alla sua tavola, come quegli che amò sempre tutti gli uomini inclinati alla virtù.
E Raffaello, che era la gentilezza stessa, per non esser vinto di cortesia, gli fece due quadri che tengono della maniera prima di Pietro e dell'altra che poi studiando apprese molto migliore, come si dirà.
I quali quadri sono ancora in casa degli eredi del detto Taddeo.
Ebbe anco Raffaello amicizia grandissima con Lorenzo Nasi, al quale avendo preso donna in que' giorni, dipinse un quadro, nel quale fece fra le gambe alla Nostra Donna un Putto, al quale un San Giovannino tutto lieto porge un uccello con molta festa e piacere dell'uno e dell'altro; e nell'attitudine d'ambi due una certa simplicità puerile e tutta amorevole, oltre che sono tanto ben coloriti e con tanta diligenza condotti che più tosto paiono di carne viva che lavorati di colori, e disegnò parimente la Nostra Donna, [che] ha un'aria veramente piena di grazia e di divinità, et insomma il piano, i paesi e tutto il resto dell'opera è bellissimo.
Il quale quadro fu da Lorenzo Nasi tenuto con grandissima venerazione mentre che visse, così per memoria di Raffaello statogli amicissimo, come per la dignità et eccellenza dell'opera.
Ma capitò poi male quest'opera l'anno 1548 a dì 17 novembre, quando la casa di Lorenzo insieme con quelle ornatissime e belle degl'eredi di Marco del Nero, per uno smottamento del Monte di San Giorgio rovinarono insieme con altre case vicine.
Nondimeno, ritrovati i pezzi d'essa fra i calcinacci della rovina, furono da Batista, figliuolo di esso Lorenzo, amorevolissimo dell'arte, fatti rimettere insieme in quel miglior modo che si potette.
Dopo queste opere fu forzato Raffaello a partirsi di Firenze et andare a Urbino, per avere là, essendo la madre e Giovanni suo padre morti, tutte le sue cose in abandono.
Mentre che dunque dimorò in Urbino, fece per Guidobaldo da Montefeltro, allora capitano de' Fiorentini, due quadri di Nostra Donna piccoli, ma bellissimi e della seconda maniera.
I quali sono oggi appresso lo illustrissimo et eccellentissimo Guidobaldo, Duca d'Urbino.
Fece al medesimo un quadretto d'un Cristo che ora nell'orto e, lontani alquanto, i tre Apostoli che dormono.
La qual pittura è tanto finita che un minio non può essere né migliore né altrimenti.
Questa, essendo stata gran tempo appresso Francesco Maria, Duca d'Urbino, fu poi dalla illustrissima signora Leonora, sua consorte, donata a don Paulo Iustiniano e don Pietro Quirini viniziani e romiti del sacro eremo di Camaldoli, e da loro fu poi come reliquia e cosa rarissima, et insomma di mano di Raffaello da Urbino e per memoria di quella illustrissima signora, posta nella camera del Maggiore di detto Eremo, dove è tenuta in quella venerazione ch'ella merita.
Dopo queste opere et avere accomodate le cose sue, ritornò Raffaello a Perugia, dove fece nella chiesa de' frati de' Servi in una tavola alla cappella degl'Ansidei una Nostra Donna, San Giovanni Battista e San Nicola.
Et in San Severo della medesima città, piccol monasterio dell'Ordine di Camaldoli, alla cappella della Nostra Donna, fece in fresco un Cristo in gloria, un Dio Padre con alcuni Angeli a torno e sei Santi a sedere, cioè tre per banda: San Benedetto, San Romualdo, San Lorenzo, San Girolamo, San Mauro e San Placido; et in questa opera, la quale per cosa in fresco fu allora tenuta molto bella, scrisse il nome suo in lettere grandi e molto bene apparenti.
Gli fu anco fatto dipignere nella medesima città, dalle donne di Santo Antonio da Padoa, in una tavola la Nostra Donna et in grembo a quella, sì come piacque a quelle semplici e venerande donne, Gesù Cristo vestito, e dai lati di essa Madonna San Piero, San Paulo, Santa Cecilia e Santa Caterina.
Alle qual due Sante vergini fece le più belle e dolci arie di teste e le più varie acconciature da capo, il che fu cosa rara in que' tempi, che si possino vedere.
E sopra questa tavola in un mezzo tondo dipinse un Dio Padre bellissimo e nella predella dell'altare tre storie di figure piccole: Cristo quando fa orazione nell'orto; quando porta la Croce, dove sono bellissime movenze di soldati che lo stracinano, e quando è morto in grembo alla Madre: opera certo mirabile, devota e tenuta da quelle donne in gran venerazione e da tutti i pittori molto lodata.
Né tacerò, che si conobbe, poi che fu stato a Firenze, che egli variò et abbellì tanto la maniera, mediante l'aver vedute molte cose e di mano di maestri eccellenti, che ella non aveva che fare alcuna cosa con quella prima se non come fussino di mano di diversi e più e meno eccellenti nella pittura.
Prima che partisse di Perugia, lo pregò madonna Atlanta Baglioni che egli volesse farle per la sua cappella nella chiesa di San Francesco una tavola, ma, perché egli non poté servirla allora, le promise che tornato che fusse da Firenze, dove allora per suoi bisogni era forzato d'andare, non le mancherebbe.
E così venuto a Firenze, dove attese con incredibile fatica agli studi dell'arte, fece il cartone per la detta cappella con animo d'andare, come fece quanto prima gli venisse in acconcio, a metterlo in opera.
Dimorando, adunque, in Fiorenza Agnolo Doni, il quale quanto era assegnato nell'altre cose tanto spendeva volentieri, ma con più risparmio che poteva, nelle cose di pittura e di scultura, delle quali si dilettava molto, gli fece fare il ritratto di sé e della sua donna in quella maniera che si veggiono appresso Giovanbatista, suo figliuolo, nella casa che detto Agnolo edificò bella e comodissima in Firenze nel corso de' Tintori, appresso al canto degl'Alberti.
Fece anco a Domenico Canigiani in un quadro la Nostra Donna con il putto Gesù che fa festa a un San Giovannino portogli da Santa Elisabetta che mentre lo sostiene con prontezza vivissima guarda un San Giuseppo, il quale standosi appoggiato con ambe le mani a un bastone china la testa verso quella vecchia, quasi maravigliandosi e lodandone la grandezza di Dio che così attempata avesse un sì picciol figliuolo.
E tutti pare che stupischino del vedere con quanto senno in quella età sì tenera i due cugini, l'uno reverente all'altro, si fanno festa; senza che ogni colpo di colore nelle teste, nelle mani e ne' piedi sono anzi pennellate di carne che tinta di maestro che faccia quell'arte.
Questa nobilissima pittura è oggi appresso gl'eredi del detto Domenico Canigiani, che la tengono in quella stima che merita un'opera di Raffaello da Urbino.
Studiò questo eccellentissimo pittore nella città di Firenze le cose vecchie di Masaccio, e quelle che vide nei lavori di Lionardo e di Michelagnolo lo feciono attendere maggiormente agli studi e per conseguenza acquistarne miglioramento straordinario all'arte et alla sua maniera.
Ebbe oltre gl'altri, mentre stette Raffaello in Fiorenza, stretta dimestichezza con fra' Bartolomeo di San Marco, piacendogli molto e cercando assai d'imitare il suo colorire, et all'incontro insegnò a quel buon padre i modi della prospettiva, alla quale non aveva il frate atteso insino a quel tempo.
Ma in sulla maggior frequenza di questa pratica fu richiamato Raffaello a Perugia, dove primieramente in San Francesco finì l'opera della già detta madonna Atalanta Baglioni, della quale aveva fatto, come si è detto, il cartone in Fiorenza.
E in questa divinissima pittura un Cristo morto portato a sotterrare, condotto con tanta freschezza e sì fatto amore, che a vederlo pare fatto pur ora.
Immaginossi Raffaello nel componimento di questa opera il dolore che hanno i più stretti et amorevoli parenti nel riporre il corpo d'alcuna più cara persona, nella quale veramente consista il bene, l'onore e l'utile di tutta una famiglia: vi si vede la Nostra Donna venuta meno, e le teste di tutte le figure molto graziose nel pianto e quella particolarmente di San Giovanni, il quale, incrocicchiate le mani, china la testa con una maniera da far comuovere qual è più duro animo a pietà.
E di vero chi considera la diligenza, l'amore, l'arte e la grazia di quest'opera, ha gran ragione di maravigliarsi perché ella fa stupire chiunque la mira per l'aria delle figure, per la bellezza de' panni et insomma per una estrema bontà ch'ell'ha in tutte le parti.
Finito questo lavoro e tornato a Fiorenza, gli fu dai Dei, cittadini fiorentini, allogata una tavola che andava alla cappella dell'altar loro in Santo Spirito; et egli la cominciò e la bozza a bonissimo termine condusse, et intanto fece un quadro che si mandò in Siena, il quale nella partita di Raffaello rimase a Ridolfo del Ghirlandaio, perch'egli finisse un panno azzurro che vi mancava.
E questo avvenne perché Bramante da Urbino, essendo a' servigi di Giulio II, per un poco di parentela ch'aveva con Raffaello e per essere di un paese medesimo, gli scrisse che aveva operato col Papa, il quale aveva fatto fare certe stanze ch'egli potrebbe in quelle mostrar il valor suo.
Piacque il partito a Raffaello, perché lasciate l'opere di Fiorenza e la tavola dei Dei non finita, ma in quel modo che poi la fece porre Messer Baldassarre da Pescia nella Pieve della sua patria dopo la morte di Raffaello, si trasferì a Roma, dove giunto, Raffaello trovò che gran parte delle camere di palazzo erano state dipinte e tuttavia si dipignevano da più maestri; e così stavano, come si vedeva, che ve n'era una che da Pietro della Francesca vi era una storia finita, e Luca da Cortona aveva condotta a buon termine una facciata, e don Pietro della Gatta, abbate di San Clemente di Arezzo, vi aveva cominciato alcune cose; similmente Bramantino da Milano vi aveva dipinto molte figure, le quali la maggior parte erano ritratti di naturale che erano tenuti bellissimi.
Laonde Raffaello, nella sua arrivata avendo ricevute molte carezze da papa Iulio, cominciò nella camera della Segnatura una storia quando i Teologi accordano la filosofia e l'astrologia con la teologia, dove sono ritratti tutti i savi del mondo che disputano in vari modi; sonvi in disparte alcuni astrologi che hanno fatto figure sopra certe tavolette e caratteri in varii modi di geomanzia e d'astrologia, et ai Vangelisti le mandano per certi Angeli bellissimi, i quali Evangelisti le dichiarano.
Fra costoro è un Diogene con la sua tazza a giacere in su le scalee, figura molto considerata et astratta, che per la sua bellezza e per lo suo abito così accaso è degna d'essere lodata.
Similmente vi è Aristotile e Platone, l'uno col Timeo in mano, l'altro con l'Etica, dove intorno li fanno cerchio una grande scuola di filosofi.
Né si può esprimere la bellezza di quelli astrologi e geometri che disegnano con le seste in su le tavole moltissime figure e caratteri.
Fra i medesimi, nella figura d'un giovane di formosa bellezza, il quale apre le braccia per maraviglia e china la testa, è il ritratto di Federigo II, Duca di Mantova, che si trovava allora in Roma.
Èvvi similmente una figura che, chinata a terra con un paio di seste in mano, le gira sopra le tavole, la quale dicono essere Bramante architettore, che egli non è men desso che se e' fusse vivo, tanto è ben ritratto.
Et allato a una figura che volta il didietro et ha una palla del cielo in mano, è il ritratto di Zoroastro, et allato a esso è Raffaello, maestro di questa opera, ritrattosi da sé medesimo nello specchio: questo è una testa giovane e d'aspetto molto modesto, acompagnato da una piacevole e buona grazia, con la berretta nera in capo.
Né si può esprimere la bellezza e la bontà che si vede nelle teste e figure de' Vangelisti, a' quali ha fatto nel viso una certa attenzione et accuratezza molto naturale e massimamente a quelli che scrivono.
E così fece dietro ad un San Matteo mentre che egli cava di quelle tavole dove sono le figure i caratteri tenuteli da uno Angelo e che le distende in su un libro, un vecchio che messosi una carta in sul ginocchio copia tanto quanto San Matteo distende.
E mentre che sta attento in quel disagio pare che egli torca le mascella e la testa, secondo che egli allarga et allunga la penna.
Et oltra le minuzie delle considerazioni, che son pure assai, vi è il componimento di tutta la storia che certo è spartito tanto con ordine e misura, che egli mostrò veramente un sì fatto saggio di sé, che fece conoscere che egli voleva, fra coloro che toccavano i pennelli, tenere il campo senza contrasto.
Adornò ancora questa opera di una prospettiva e di molte figure finite con tanto delicata e dolce maniera che fu cagione che papa Giulio facesse buttare atterra tutte le storie degli altri maestri e vecchi e moderni, e che Raffaello solo avesse il vanto di tutte le fatiche che in tali opere fussero state fatte sino a quell'ora.
E se bene l'opera di Giovan Antonio Soddoma da Vercelli, la quale era sopra la storia di Raffaello, si doveva per commessione del Papa gettare per terra, volle nondimeno Raffaello servirsi del partimento di quella e delle grottesche, e dove erano alcuni tondi, che son quattro, fece per ciascuno una figura del significato delle storie di sotto, volte da quella banda dove era la storia; a quella prima, dove egli aveva dipinto la Filosofia e l'Astrologia, Geometria e Poesia che si accordano con la Teologia, v'è una femmina fatta per la cognizione delle cose, la quale siede in una sedia che ha per reggimento da ogni banda una dea Cibele, con quelle tante poppe con che dagli antichi era figurata Diana Polimaste; e la veste sua è di quattro colori, figurati per li elementi, da la testa in giù v'è il color del fuoco e sotto la cintura quel dell'aria, da la natura al ginocchio è il color della terra e dal resto per fino a' piedi è il colore dell'acqua.
E così la accompagnano alcuni putti veramente bellissimi.
In un altro tondo volto verso la finestra che guarda in Belvedere, è finta Poesia, la quale è in persona di Polinnia coronata di lauro e tiene un suono antico in una mano et un libro nell'altra e sopra poste le gambe; e con aria e bellezza di viso immortale sta elevata con gl'occhi al cielo, accompagnandola due putti che sono vivaci e pronti e che insieme con essa fanno vari componimenti, e con le altre e da questa banda vi fé poi, sopra la già detta finestra, il monte di Parnaso.
Nell'altro tondo, che è fatto sopra la storia dove i Santi Dottori ordinano la messa, è una Teologia con libri et altre cose attorno, co' medesimi putti, non men bella che gl'altri.
E sopra l'altra finestra che volta nel cortile, fece nell'altro tondo una Giustizia con le sue bilance e la spada inalberata, con i medesimi putti che a l'altre di somma bellezza, per aver egli nella storia di sotto della faccia fatto come si dà le leggi civili e le canoniche, come a suo luogo diremo.
E così nella volta medesima in su le cantonate de' peducci di quella, fece quattro storie disegnate e colorite con una gran diligenza, ma di figure di non molta grandezza.
In una delle quali verso la Teologia fece il peccar di Adamo, lavorato con leggiadrissima maniera, il mangiare del pomo; et in quella dove è la Astrologia vi è ella medesima che pone le stelle fisse e l'erranti a' luoghi loro.
Nell'altra poi del monte di Parnaso è Marsia fatto scorticare a uno albero da Apollo; e, di verso la storia dove si danno i decretali, è il giudizio di Salamone quando egli vuol fare dividere il fanciullo.
Le quali quattro istorie sono tutte piene di senso e di affetto, e lavorate con disegno bonissimo e di colorito vago e graziato.
Ma finita oramai la volta, cioè il cielo di quella stanza, resta che noi raccontiamo quello che e' fece faccia per faccia appiè delle cose dette di sopra.
Nella facciata dunque di verso Belvedere, dove è il monte Parnaso e il fonte di Elicona, fece intorno a quel monte una selva onbrosissima di lauri, ne' quali si conosce per la loro verdezza quasi il tremolare delle foglie per l'aure dolcissime e nella aria una infinità di Amori ignudi con bellissime arie di viso, che colgono rami di lauro e ne fanno ghirlande, e quelle spargano e gettano per il monte; nel quale pare che spiri veramente un fiato di divinità nella bellezza delle figure e da la nobiltà di quella pittura, la quale fa maravigliare chi intensissimamente la considera, come possa ingegno umano con l'imperfezzione di semplici colori ridurre con l'eccellenzia del disegno le cose di pittura a parere vive, sì come sono anco vivissimi que' poeti che si veggono sparsi per il monte, chi ritti, chi a sedere e chi scrivendo, altri ragionando et altri cantando o favoleggiando insieme, a quattro, a sei, secondo che gli è parso di scompartirgli.
Sonvi ritratti di naturale tutti i più famosi et antichi e moderni poeti che furono e che erano fino al suo tempo, i quali furono cavati parte da statue, parte da medaglie e molti da pitture vecchie et ancora di naturale mentre che erano vivi da lui medesimo.
E, per cominciarmi da un capo, quivi è Ovidio, Virgilio, Ennio, Tibullo, Catullo, Properzio et Omero che, cieco con la testa elevata cantando versi, ha a' piedi uno che gli scrive; vi sono poi tutte in un gruppo le nove Muse et Appollo con tanta bellezza d'arie e divinità nelle figure, che grazia e vita spirano ne' fiati loro.
Èvvi la dotta Saffo et il divinissimo Dante, il leggiadro Petrarca e lo amoroso Boccaccio, che vivi vivi sono; il Tibaldeo similmente et infiniti altri moderni.
La quale istoria è fatta con molta grazia e finita con diligenza.
Fece in un'altra parete un cielo con Cristo e la Nostra Donna, San Giovanni Batista, gli Apostoli e gli Evangelisti e Martiri su le nugole con Dio Padre, che sopra tutti manda lo Spirito Santo e massimamente sopra un numero infinito di Santi, che sotto scrivono la Messa; e sopra l'Ostia, che è sullo altare, disputano.
Fra i quali sono i quattro Dottori della chiesa, che intorno hanno infiniti santi.
Èvvi Domenico, Francesco, Tomaso d'Aquino, Buonaventura, Scoto, Nicolò de Lira, Dante, fra' Girolamo Savonarola da Ferrara e tutti i teologi cristiani et infiniti ritratti di naturale; et in aria sono quattro fanciulli che tengono aperti gli Evangeli.
Dalle quali figure non potrebbe pittore alcuno formar cosa più leggiadra, né di maggior perfezzione.
Avvenga che nell'aria et in cerchio son figurati que' Santi a sedere, che nel vero, oltra al parer vivi di colori, scortano di maniera e sfuggono che non altrimenti farebbono se fussino di rilievo.
Oltra che sono vestiti diversamente, con bellissime pieghe di panni e l'arie delle teste più celesti che umane, come si vede in quella di Cristo, la quale mostra quella clemenza e quella pietà che può mostrare agli uomini mortali divinità di cosa dipinta.
Conciò fusse che Raffaello ebbe questo dono dalla natura di far l'arie sue delle teste dolcissime e graziosissime, come ancora ne fa fede la Nostra Donna che, messesi le mani al petto, guardando e contemplando il Figliuolo, pare che non possa dinegar grazia; senza che egli riservò un decoro certo bellissimo, mostrando nell'arie de' Santi Patriarchi l'antichità, negli Apostoli la semplicità e ne' Martiri la fede.
Ma molto più arte et ingegno mostrò ne' Santi Dottori cristiani, i quali a sei, a tre, a due disputando per la storia, si vede nelle cere loro una certa curiosità et uno affanno nel voler trovare il certo di quel che stanno in dubbio, faccendone segno co 'l disputar con le mani e co 'l far certi atti con la persona, con attenzione degli orecchi, con lo increspare delle ciglia e con lo stupire in molte diverse maniere, certo variate e proprie, salvo che i quattro Dottori della Chiesa che, illuminati dallo Spirito Santo, snodano e risolvono con le Scritture sacre tutte le cose degli Evangeli, che sostengano que' putti che gli hanno in mano volando per l'aria.
Fece nell'altra faccia, dove è l'altra finestra, da una parte Giustiniano che dà le leggi ai dottori che le corregghino, e sopra la Temperanza, la Fortezza e la Prudenza.
Dall'altra parte fece il papa che dà le decretali canoniche, et in detto papa ritrasse papa Giulio di naturale; Giovanni cardinale de' Medici assistente, che fu papa Leone, Antonio cardinale di Monte et Alessandro Farnese cardinale, che fu poi papa Paulo Terzo, con altri ritratti.
Restò il Papa di questa opera molto sodisfatto, e per fargli le spalliere di prezzo, come era la pittura, fece venire da Monte Oliveto di Chiusuri, luogo in quel di Siena, fra' Giovanni da Verona, allora gran maestro di commessi di prospettive di legno, il quale vi fece non solo le spalliere attorno, ma ancora usci bellissimi e sederi lavorati in prospettive, i quali appresso al Papa grandissima grazia, premio et onore gli acquistarono.
E certo che in tal magisterio mai non fu più nessuno più valente di disegno e d'opera che fra' Giovanni, come ne fa fede ancora in Verona sua patria una sagrestia di prospettive di legno bellissima in Santa Maria in Organo, il coro di Monte Oliveto di Chiusuri e quel di San Benedetto di Siena et ancora la sagrestia di Monte Oliveto di Napoli, e nel luogo medesimo nella cappella di Paolo da Tolosa il coro lavorato dal medesimo.
Per il che meritò che dalla Religion sua fosse stimato e con grandissimo onor tenuto, nella quale si morì d'età d'anni 68, l'anno 1537.
E di costui come di persona veramente eccellente e rara ho voluto far menzione, parendomi che così meritasse la sua virtù, la quale fu cagione come si dirà in altro luogo di molte opere rare fatte da altri maestri dopo lui.
Ma per tornare a Raffaello, crebbero le virtù sue di maniera ch'e' seguitò, per commissione del Papa, la camera seconda verso la sala grande.
Et egli, che nome grandissimo aveva acquistato, ritrasse in questo tempo papa Giulio in un quadro a olio, tanto vivo e verace, che faceva temere il ritratto a vederlo, come se proprio egli fosse il vivo, la quale opera è oggi in Santa Maria del Popolo, con un quadro di Nostra Donna bellissimo, fatto medesimamente in questo tempo, dentrovi la Natività di Iesù Cristo, dove è la Vergine che con un velo cuopre il Figliuolo, il quale è di tanta bellezza che nell'aria della testa e per tutte le membra dimostra essere vero Figliuolo di Dio.
E non manco di quello è bella la testa et il volto di essa Madonna, conoscendosi in lei, oltra la somma bellezza, allegrezza e pietà.
Èvvi un Giuseppo che, appoggiando ambe le mani ad una mazza, pensoso in contemplare il Re e la Regina del Cielo, sta con una ammirazione da vecchio santissimo.
Et amendue questi quadri si mostrano le feste solenni.
Aveva acquistato in Roma Rafaello in questi tempi molta fama et ancora che egli avesse la maniera gentile da ognuno tenuta bellissima, e con tutto che egli avesse veduto tante anticaglie in quella città e che egli studiasse continovamente, non aveva però per questo dato ancora alle sue figure una certa grandezza e maestà che e' diede loro da qui avanti.
Avenne, adunque, in questo tempo che Michelagnolo fece al Papa nella cappella quel romore e paura di che parleremo nella vita sua, onde fu sforzato fuggirsi a Fiorenza; per il che avendo Bramante la chiave della capella, a Rafaello, come amico, la fece vedere, acciò che i modi di Michelagnolo comprendere potesse.
Onde tal vista fu cagione che in Santo Agostino sopra la Santa Anna di Andrea Sansovino in Roma Rafaello subito rifacesse di nuovo lo Esaia profeta che ci si vede, che di già lo aveva finito.
Nella quale opera per le cose vedute di Michelagnolo migliorò et ingrandì fuor di modo la maniera e diedele più maestà.
Perché, nel veder poi Michelagnolo l'opera di Raffaello, pensò che Bramante, com'era vero, gli avesse fatto quel male innanzi per fare utile e nome a Rafaello.
Al quale Agostino Chisi sanese, ricchissimo mercante, e di tutti gl'uomini virtuosi amicissimo, fece non molto dopo allogazione d'una cappella; e ciò per avergli poco inanzi Raffaello dipinto in una loggia del suo palazzo, oggi detto i Chisii in Trastevere, con dolcissima maniera una Galatea nel mare sopra un carro tirato da due dolfini a cui sono intorno i tritoni e molti dèi marini.
Avendo dunque fatto Rafaello il cartone per la detta capella, la quale è all'entrata della chiesa di S.
Maria della Pace a man destra entrando in chiesa per la porta principale, la condusse lavorata in fresco della maniera nuova, alquanto più magnifica e grande che non era la prima.
Figurò Raffaello in questa pittura, avanti che la cappella di Michelagnolo si discoprisse publicamente, avendola nondimeno veduta, alcuni profeti e sibille che nel vero delle sue cose è tenuta la migliore e, fra le tante belle, bellissima; perché nelle femine e nei fanciulli che vi sono si vede grandissima vivacità e colorito perfetto.
E questa opera lo fé stimar grandemente vivo e morto, per essere la più rara et eccellente opera che Raffaello facesse in vita sua.
Poi, stimolato da' prieghi d'un cameriere di papa Giulio, dipinse la tavola dello altar maggiore di Araceli, nella quale fece una Nostra Donna in aria, con un paese bellissimo, un San Giovanni et un San Francesco, e San Girolamo ritratto da cardinale; nella qual Nostra Donna è una umiltà e modestia veramente da madre di Cristo; et oltre che il Putto con bella attitudine scherza co 'l manto della Madre, si conosce nella figura del San Giovanni quella penitenza che suole fare il digiuno, e nella testa si scorge una sincerità d'animo et una prontezza di sicurtà, come in coloro che lontani dal mondo lo sbeffano e nel praticare il publico odiano la bugia e dicono la verità.
Similmente il San Girolamo ha la testa elevata con gli occhi alla Nostra Donna, tutta contemplativa, ne' quali par che ci accenni tutta quella dottrina e sapienzia che egli scrivendo mostrò nelle sue carte, offerendo con ambe le mani il cameriero, in atto di raccomandarlo, il qual cameriero nel suo ritratto è non men vivo che si sia dipinto.
Né mancò Raffaello fare il medesimo nella figura di San Francesco, il quale ginocchioni in terra, con un braccio steso e con la testa elevata, guarda in alto la Nostra Donna, ardendo di carità nello affetto della pittura, la quale nel lineamento e nel colorito mostra che e' si strugga di affezzione, pigliando conforto e vita dal mansuetissimo guardo della bellezza di lei e dalla vivezza e bellezza del Figliuolo.
Fecevi Raffaello un putto ritto in mezzo della tavola sotto la Nostra Donna, che alza la testa verso lei e tiene un epitaffio, che di bellezza di volto e di corrispondenza della persona non si può fare, né più grazioso, né meglio, oltre che v'è un paese che in tutta perfezzione è singulare e bellissimo.
Dappoi, continuando le camere di palazzo, fece una storia del miracolo del Sacramento del corporale d'Orvieto o di Bolsena, che eglino se 'l chiamino; nella quale storia si vede al prete, mentre che dice messa, nella testa infocata di rosso, la vergogna che egli aveva nel veder per la sua incredulità fatto liquefar l'Ostia in sul corporale e che spaventato negli occhi e fuor di sé smarrito nel cospetto de' suoi uditori, pare persona inrisoluta; e si conosce nell'attitudine delle mani quasi il tremito e lo spavento che si suole in simili casi avere.
Fecevi Raffaello intorno molte varie e diverse figure, alcuni servono alla messa, altri stanno su per una scala ginocchioni, et alterate dalla novità del caso fanno bellissime attitudini in diversi gesti, esprimendo in molte uno affetto di rendersi in colpa, e tanto ne' maschi, quanto nelle femmine, fra le quali ve n'ha una che a' piè della storia da basso siede in terra tenendo un putto in collo, la quale sentendo il ragionamento che mostra un'altra di dirle del caso successo al prete, maravigliosamente si storce mentre che ella ascolta ciò, con una grazia donnesca molto propria e vivace.
Finse dall'altra banda papa Giulio che ode quella messa, cosa maravigliosissima, dove ritrasse il cardinale di San Giorgio et infiniti; e nel rotto della finestra accomodò una salita di scalee che la storia mostra intera, anzi pare che, se il vano di quella finestra non vi fosse, quella non sarebbe stata punto bene.
Laonde veramente si gli può dar vanto che nelle invenzioni dei componimenti di che storie si fossero nessuno già mai più di lui nella pittura è stato accomodato et aperto e valente come mostrò ancora in questo medesimo luogo dirimpetto a questa in una storia quando San Piero nelle mani d'Erode in prigione è guardato dagli armati, dove tanta è l'architettura che ha tenuto in tal cosa e tanta la discrezione nel casamento della prigione che invero gli altri appresso a lui hanno più di confusione ch'egli non ha di bellezza; avendo egli cercato di continuo figurare le storie come elle sono scritte e farvi dentro cose garbate et eccellenti, come mostra in questa l'orrore della prigione nel veder legato fra que' due armati con le catene di ferro quel vecchio, il gravissimo sonno nelle guardie et il lucidissimo splendor dell'Angelo nelle scure tenebre della notte luminosamente far discernere tutte le minuzie delle carcere e vivacissimamente risplendere l'armi di coloro, in modo che i lustri paiono bruniti più che se fussino verissimi e non dipinti.
Né meno arte et ingegno è nello atto quando egli sciolto da le catene esce fuor di prigione accompagnato dall'Angelo, dove mostra nel viso San Piero più tosto d'essere un sogno, che visibile, come ancora si vede terrore e spavento in altre guardie che armate fuor della prigione sentono il romore de la porta di ferro, et una sentinella con una torcia in mano desta gli altri, e mentre con quella fa lor lume riverberano i lumi della torcia in tutte le armi, e dove non percuote quella serve un lume di luna.
La quale invenzione, avendola fatta Raffaello sopra la finestra, viene a esser quella facciata più scura, avvenga che quando si guarda tal pittura ti dà il lume nel viso e contendono tanto bene insieme la luce viva con quella dipinta co' diversi lumi della notte, che ti par vedere il fumo della torcia, lo splendor dell'Angelo con le scure tenebre della notte sì naturali e sì vere, che non diresti mai che ella fussi dipinta, avendo espresso tanto propriamente sì difficile imaginazione.
Qui si scorgono nell'arme l'ombre, gli sbattimenti, i reflessi e le fumosità del calor de' lumi lavorati con ombra sì abbacinata che in vero si può dire che egli fosse il maestro degli altri.
E, per cosa che contrafaccia la notte più simile di quante la pittura ne fece già mai, questa è la più divina e da tutti tenuta la più rara.
Egli fece ancora, in una delle pareti nette, il culto divino e l'arca degli Ebrei et il candelabro e papa Giulio che caccia l'avarizia della Chiesa, storia di bellezza e di bontà simile alla notte detta di sopra.
Nella quale storia si veggono alcuni ritratti di palafrenieri, che vivevano allora, i quali in su la sedia portano papa Giulio veramente vivissimo.
Al quale mentre che alcuni popoli e femmine fanno luogo perché e' passi, si vede la furia d'uno armato a cavallo, il quale accompagnato da due appiè, con attitudine ferocissima, urta e percuote il superbissimo Eliodoro, che per comandamento d'Antioco vuole spogliare il Tempio di tutti i depositi delle vedove e de' pupilli, e già si vede lo sgombro delle robbe et i tesori che andavano via, ma per la paura del nuovo accidente di Eliodoro abbattuto e percosso aspramente dai tre predetti che, per essere ciò visione, da lui solamente sono veduti e sentiti, si veggono tutti traboccare e versare per terra, cadendo chi gli portava per un subito orrore e spavento che era nato in tutte le genti di Eliodoro.
Et appartato da questi si vede il santissimo Onia pontefice, pontificalmente vestito, con le mani e con gli occhi al cielo, ferventissimamente orare, afflitto per la compassione de' poverelli che quivi perdevano le cose loro et allegro per quel soccorso che dal ciel sente sopravenuto.
Veggonsi oltra ciò, per bel capriccio di Raffaello, molti saliti sopra i zoccoli del basamento et abbracciatisi alle colonne, con attitudini disagiatissime, stare a vedere; et un popolo tutto attonito in diverse e varie maniere, che aspetta il successo di questa cosa.
E fu questa opera tanto stupenda in tutte le parti che anco i cartoni sono tenuti in grandissima venerazione; onde Messer Francesco Masini, gentiluomo di Cesena, il quale senza aiuto di alcun maestro, ma infin da fanciulezza guidato da straordinario instinto di natura, dando da sé medesimo opera al disegno et alla pittura, ha dipinto quadri che sono stati molto lodati dagli intendenti dell'arte, ha, fra molti suoi disegni et alcuni rilievi di marmo antichi, alcuni pezzi del detto cartone che fece Raffaello per questa istoria d'Eliodoro, e gli tiene in quella stima che veramente meritano.
Né tacerò che Messer Niccolò Masini, il quale mi ha di queste cose dato notizia, è come in tutte l'altre cose virtuosissimo delle nostre arti veramente amatore.
Ma, tornando a Raffaello, nella volta poi che vi è sopra fece quattro storie: l'apparizione di Dio ad Abraam nel promettergli la moltiplicazione del seme suo, il sacrificio d'Isaac, la scala di Iacob e 'l rubo ardente di Moisè, nella quale non si conosce meno arte, invenzione, disegno e grazia che nelle altre cose lavorate di lui.
Mentre che la felicità di questo artefice faceva di sé tante gran maraviglie, la invidia della fortuna privò de la vita Giulio Secondo, il quale era alimentatore di tal virtù et amatore d'ogni cosa buona.
Laonde fu poi creato Leon Decimo, il quale volle che tale opera si seguisse, e Raffaello ne salì con la virtù in cielo e ne trasse cortesie infinite avendo incontrato in un principe sì grande, il quale per eredità di casa sua era molto inclinato a tale arte.
Per il che Raffaello si mise in cuore di seguire tale opera e nell'altra faccia fece la venuta d'Atila a Roma e lo incontrarlo appiè di Monte Mario che fece Leon III pontefice, il quale lo cacciò con le sole benedizzioni.
Fece Raffaello in questa storia San Pietro e San Paulo in aria con le spade in mano, che vengono a difender la Chiesa.
E se bene la storia di Leon III non dice questo, egli nondimeno per capriccio suo volse figurarla forse così, come interviene molte volte che così le pitture come le poesie vanno vagando, per ornamento dell'opera, non si discostando però per modo non conveniente dal primo intendimento.
Vedesi in quegli Apostoli quella fierezza et ardire celeste che suole il giudizio divino molte volte mettere nel volto de' servi suoi per difender la santissima religione; e ne fa segno Atila, il quale si vede sopra un cavallo nero balzano e stellato in fronte, bellissimo quanto più si può, il quale con attitudine spaventosa alza la testa e volta la persona in fuga.
Sonovi altri cavalli bellissimi e massimamente un gianetto macchiato, che è cavalcato da una figura, la quale ha tutto lo ignudo coperto di scaglie a guisa di pesce, il che è ritratto da la colonna Traiana, nella quale son i popoli armati in quella foggia.
E si stima ch'elle siano arme fatte di pelle di coccodrilli.
Èvvi Monte Mario che abrucia, mostrando che nel fine della partita de' soldati gli aloggiamenti rimangono sempre in preda alle fiamme.
Ritrasse ancora di naturale alcuni mazzieri che accompagnano il papa, i quali son vivissimi e così i cavalli dove son sopra et il simile la corte de' cardinali et alcuni palafrenieri che tengono la chinea sopra cui è a cavallo in pontificale, ritratto non men vivo che gli altri, Leon X e molti cortigiani, cosa leggiadrissima da vedere a proposito in tale opera et utilissima a l'arte nostra, massimamente per quegli che di tali cose son digiuni.
In questo medesimo tempo fece a Napoli una tavola, la quale fu posta in San Domenico nella cappella dove è il Crocifisso che parlò a San Tomaso d'Aquino; dentro vi è la Nostra Donna, San Girolamo vestito da cardinale et uno angelo Raffaello ch'accompagna Tobia.
Lavorò un quadro al signor Leonello da Carpi, signor di Meldola, il quale ancor vive di età più che novanta anni, il quale fu miracolosissimo di colorito e di bellezza singulare.
Atteso che egli è condotto di forza e d'una vaghezza tanto leggiadra che io non penso che e' si possa far meglio; vedendosi nel viso della Nostra Donna una divinità e ne la attitudine una modestia che non è possibile migliorarla.
Finse che ella a man giunte adori il Figliuolo che le siede in su le gambe, facendo carezze a San Giovanni piccolo fanciullo, il quale lo adora insieme con Santa Elisabetta e Giuseppo.
Questo quadro era già appresso il reverendissimo cardinale di Carpi, figliuolo di detto signor Leonello, delle nostre arti amator grandissimo, et oggi dee essere appresso gli eredi suoi.
Dopo essendo stato creato Lorenzo Pucci, cardinale di Santi quattro, sommo penitenziere, ebbe grazia con esso che egli facesse per San Giovanni in Monte di Bologna una tavola, la quale è oggi locata nella capella, dove è il corpo della beata Elena da l'Olio, nella quale opera mostrò quanto la grazia nelle delicatissime mani di Raffaello potesse insieme con l'arte.
Èvvi una Santa Cecilia che, da un coro in cielo d'Angeli abbagliata, sta a udire il suono, tutta data in preda alla armonia, e si vede nella sua testa quella astrazzione che si vede nel vivo di coloro che sono in estasi; oltra che sono sparsi per terra instrumenti musici che non dipinti, ma vivi e veri si conoscono, e similmente alcuni suoi veli e vestimenti di drappi d'oro e di seta, e sotto quelli un ciliccio maraviglioso.
Et in un San Paulo, che ha posato il braccio destro in su la spada ignuda e la testa appoggiata alla mano, si vede non meno espressa la considerazione della sua scienzia che l'aspetto della sua fierezza conversa in gravità; questi è vestito d'un panno rosso semplice per mantello e d'una tonica verde sotto quella, alla apostolica e scalzo; èvvi poi Santa Maria Maddalena che tiene in mano un vaso di pietra finissima, in un posar leggiadrissimo e svoltando la testa par tutta allegra della sua conversione, che certo in quel genere penso che meglio non si potesse fare: e così sono anco bellissime le teste di Santo Agostino e di San Giovanni Evangelista.
E nel vero che l'altre pitture, pitture nominare si possono, ma quelle di Raffaello cose vive: perché trema la carne, vedesi lo spirito, battono i sensi alle figure sue e vivacità viva vi si scorge; per il che questo li diede, oltra le lodi, che aveva più nome assai.
Laonde furono però fatti a suo onore molti versi e latini e vulgari, de' quali metterò questi soli per non far più lunga storia di quel che io mi abbi fatto.
Pingant sola alii, referantque coloribus ora;
Ceciliae os Raphael atque animum explicuit.
Fece ancora doppo questo un quadretto di figure piccole, oggi in Bologna medesimamente in casa il conte Vincenzio Arcolano, dentrovi un Cristo a uso di Giove in cielo e d'attorno i quattro Evangelisti, come gli descrive Ezechiel; uno a guisa di uomo e l'altro di leone e quello d'aquila e di bue, con un paesino sotto figurato per la terra, non meno raro e bello nella sua piccolezza che sieno l'altre cose sue nelle grandezze loro.
A Verona mandò della medesima bontà un gran quadro ai conti da Canossa, nel quale è una Natività di Nostro Signore bellissima con una aurora molto lodata, sì come è ancora Santa Anna; anzi tutta l'opera, la quale non si può meglio lodare che dicendo che è di mano di Raffaello da Urbino.
Onde que' conti meritamente l'hanno in somma venerazione; né l'hanno mai, per grandissimo prezzo che sia stato loro offerto da molti prìncipi, a niuno voluto concederla.
Et a Bindo Altoviti fece il ritratto suo quando era giovane che è tenuto stupendissimo.
E similmente un quadro di Nostra Donna che egli mandò a Fiorenza, il qual quadro è oggi nel palazzo del duca Cosimo nella cappella delle stanze nuove e da me fatte e dipinte, e serve per tavola dell'altare, et in esso è dipinta una Santa Anna vecchissima a sedere, la quale porge alla Nostra Donna il suo Figliuolo di tanta bellezza ne l'ignudo e nelle fatezze del volto che nel suo ridere rallegra chiunque lo guarda; senzaché Raffaello mostrò nel dipignere la Nostra Donna tutto quello che di bellezza si può fare nell'aria di una Vergine, dove sia accompagnata negli occhi modestia, nella fronte onore, nel naso grazia e nella bocca virtù, senzaché l'abito suo è tale che mostra una semplicità et onestà infinita.
E nel vero io non penso che per tanta cosa si possa veder meglio; èvvi un San Giovanni a sedere ignudo et un'altra Santa ch'è bellissima anch'ella.
Così per campo vi è un casamento, dove egli ha finto una finestra impannata che fa lume alla stanza dove le figure son dentro.
Fece in Roma un quadro di buona grandezza, nel quale ritrasse papa Leone, il cardinale Giulio de' Medici e il cardinale de' Rossi, nel quale si veggono non finte, ma di rilievo tonde le figure; quivi è il veluto che ha il pelo, il damasco a dosso a quel Papa, che suona e lustra; le pelli della fodera morbide e vive, e gli ori e le sete contrafatti sì che non colori, ma oro e seta paiono.
Vi è un libro di carta pecora miniato che più vivo si mostra che la vivacità, et un campanello d'argento lavorato, che non si può dire quanto è bello.
Ma fra l'altre cose vi è una palla della seggiola brunita e d'oro nella quale, a guisa di specchio, si ribattono (tanta è la sua chiarezza) i lumi de le finestre, le spalle del Papa et il rigirare delle stanze; e sono tutte queste cose condotte con tanta diligenza che credasi pure, e sicuramente, che maestro nessuno di questo meglio non faceria né abbia a fare.
La quale opera fu cagione che il Papa di premio grande lo rimunerò, e questo quadro si trova ancora in Fiorenza nella guardaroba del Duca.
Fece similmente il Duca Lorenzo e 'l Duca Giuliano con perfezzione non più da altri che da esso dipinta nella grazia del colorito, i quali sono appresso agli eredi di Ottaviano de' Medici in Fiorenza.
Laonde di grandezza fu la gloria di Raffaello accresciuta e de' premii parimente, perché per lasciare memoria di sé fece murare un palazzo a Roma in Borgo Nuovo, il quale Bramante fece condurre di getto; per queste e molte altre opere, essendo passata la fama di questo nobilissimo artefice insino in Francia et in Fiandra, Alberto Durero tedesco, pittore mirabilissimo et intagliatore di rame di belissime stampe, divenne tributario delle sue opere a Raffaello e gli mandò la testa d'un suo ritratto condotta da lui a guazzo su una tela di bisso, che da ogni banda mostrava parimente e senza biacca i lumi trasparenti, se non che con acquerelli di colori era tinta e macchiata, e de' lumi del panno aveva campato i chiari, la quale cosa parve maravigliosa a Raffaello, perché egli gli mandò molte carte disegnate di man sua, le quali furono carissime ad Alberto.
Era questa testa fra le cose di Giulio Romano, ereditario di Raffaello in Mantova.
Avendo dunque veduto Raffaello lo andare nelle stampe d'Alberto Durero, volonteroso ancor egli di mostrare quel che in tale arte poteva, fece studiare Marco Antonio Bolognese in questa pratica infinitamente, il quale riuscì tanto eccellente che gli fece stampare le prime cose sue: la carta degli Innocenti, un Cenacolo, il Nettuno e la Santa Cecilia quando bolle nell'olio.
Fece poi Marco Antonio per Raffaello un numero di stampe, le quali Raffaello donò poi al Baviera suo garzone ch'aveva cura d'una sua donna, la quale Raffaello amò sino alla morte e di quella fece un ritratto bellissimo che pareva viva viva, il quale è oggi in Fiorenza appresso il gentilissimo Matteo Botti, mercante fiorentino, amico e familiare d'ogni persona virtuosa e massimamente dei pittori, tenuta da lui come reliquia per l'amore che egli porta all'arte e particularmente a Raffaello.
Né meno di lui stima l'opere dell'arte nostra e gli artefici il fratello suo Simon Botti, che oltra lo esser tenuto da tutti noi per uno de' più amorevoli che faccino beneficio agli uomini di queste professioni è da me particulare tenuto e stimato per il migliore e maggiore amico che si possa per lunga esperienza aver caro; oltra al giudicio buono che egli ha e mostra nelle cose dell'arte.
Ma, per tornare alle stampe, il favorire Raffaello il Baviera fu cagione che si destasse poi Marco da Ravenna et altri infiniti, per sì fatto modo che le stampe in rame fecero, de la carestia loro, quella copia che al presente veggiamo.
Per che Ugo da Carpi con belle invenzioni, avendo il cervello volto a cose ingegnose e fantastiche, trovò le stampe di legno, che con tre stampe possono il mezzo, il lume e l'ombra contrafare, le carte di chiaro oscuro, la quale certo fu cosa di bella e capricciosa invenzione e di questa ancora è poi venuta abbondanza, come si dirà nella vita di Marcantonio Bolognese più minutamente.
Fece poi Raffaello per il monasterio di Palermo detto Santa Maria dello Spasmo, de' frati di Monte Oliveto, una tavola d'un Cristo che porta la croce, la quale è tenuta cosa maravigliosa; conoscendosi in quella la impietà de' crocifissori che lo conducono alla morte al monte Calvario con grandissima rabbia, dove il Cristo, appassionatissimo nel tormento dello avvicinarsi alla morte, cascato in terra per il peso del legno della croce e bagnato di sudore e di sangue, si volta verso le Marie, che piangono dirotissimamente.
Oltre ciò si vede fra loro Veronica che stende le braccia porgendoli un panno, con uno affetto di carità grandissima; senzaché l'opera è piena di armati a cavallo et a piede, i quali sboccano fuora della porta di Gerusalemme con gli stendardi della giustizia in mano, in attitudini varie e bellissime.
Questa tavola, finita del tutto, ma non condotta ancora al suo luogo, fu vicinissima a capitar male, perciò che, secondo che e' dicono, essendo ella messa in mare per essere portata in Palermo, una orribile tempesta percosse ad uno scoglio la nave che la portava, di maniera che tutta si aperse e si perderono gli uomini e le mercanzie, eccetto questa tavola solamente che, così incassata come era, fu portata dal mare in quel di Genova; dove ripescata e tirata in terra, fu veduta essere cosa divina e per questo messa in custodia; essendosi mantenuta illesa e senza macchia o difetto alcuno, perciò che sino alla furia de' venti e l'onde del mare ebbono rispetto alla bellezza di tale opera, della quale, divulgandosi poi la fama, procacciarono i monaci di riaverla, et appena che con favori del Papa ella fu renduta loro, che satisfecero, e bene, coloro che l'avevano salvata.
Rimbarcatala dunque di nuovo e condottola pure in Sicilia, la posero in Palermo, nel qual luogo ha più fama e riputazione che 'l monte di Vulcano.
Mentre che Raffaello lavorava queste opere, le quali non poteva mancare di fare, avendo a servire per persone grandi e segnalate, oltra che ancora per qualche interesse particulare non poteva disdire, non restava però con tutto questo di seguitare l'ordine che egli aveva cominciato de le camere del papa e de le sale, nelle quali del continuo teneva delle genti che con i disegni suoi medesimi gli tiravano innanzi l'opera et egli, continuamente rivedendo ogni cosa, suppliva con tutti quelli aiuti migliori che egli più poteva ad un peso così fatto.
Non passò dunque molto che egli scoperse la camera di torre Borgia, nella quale aveva fatto in ogni faccia una storia, due sopra le finestre e due altre in quelle libere.
Era in uno lo incendio di Borgo Vecchio di Roma che, non possendosi spegnere il fuoco, San Leone IIII si fa alla loggia di palazzo e con la benedizzione lo estingue interamente.
Nella quale storia si veggiono diversi pericoli figurati, da una parte vi sono femmine che dalla tempesta del vento, mentre elle portano acqua per ispegnere il fuoco con certi vasi in mano et in capo, sono aggirati loro i capegli et i panni con una furia terribilissima; altri che si studiano buttare acqua, accecati dal fummo, non cognoscono se stessi.
Dall'altra parte v'è figurato, nel medesimo modo che Vergilio descrive che Anchise fu portato da Enea, un vecchio ammalato, fuor di sé per l'infermità e per le fiamme del fuoco; dove si vede nella figura del giovane, l'animo e la forza et il patire di tutte le membra dal peso del vecchio abbandonato a dosso a quel giovane; seguitalo una vecchia scalza e sfibbiata che viene fuggendo il fuoco et un fanciulletto 'gnudo, loro innanzi.
Così dal sommo d'una rovina si vede una donna ignuda tutta rabbuffata la quale avendo il figliuolo in mano, lo getta ad un suo, che è campato dalle fiame e sta nella strada in punta di piede a braccia tese per ricevere il fanciullo in fasce; dove non meno si conosce in lei l'affetto del cercare di campare il figliuolo che il patire di sé nel pericolo dello ardentissimo fuoco che la avvampa; né meno passione si scorge in colui che lo piglia, per cagione d'esso putto che per cagion del proprio timor della morte; né si può esprimere quello che si imaginò questo ingegnosissimo e mirabile artefice in una madre che, messosi i figlioli innanzi, scalza, sfibbiata, scinta e rabbuffato il capo, con parte delle veste in mano, gli batte perché e' fugghino dalla rovina e da quello incendio del fuoco.
Oltre che vi sono ancor alcune femmine che, inginocchiate dinanzi al Papa, pare che prieghino Sua Santità che faccia che tale incendio finisca.
L'altra storia è del medesimo S.
Leon IIII dove ha finito il porto di Ostia occupato da una armata di Turchi, che era venuta per farlo prigione.
Veggonvisi i Cristiani combattere in mare l'armata e già al porto esser venuti prigioni infiniti che d'una barca escano tirati da certi soldati per la barba con bellissime cere e bravissime attitudini e con una differenza di abiti da galeotti sono menati innanzi a S.
Leone che è figurato e ritratto per papa Leone X.
Dove fece Sua Santità in pontificale, in mezzo del cardinale Santa Maria in Portico, cioè Bernardo Divizio da Bibbiena, e Giulio de' Medici cardinale che fu poi Papa Clemente.
Né si può contare minutissimamente le belle avvertenze che usò questo ingegnosissimo artefice nelle arie de' prigioni, che senza lingua si conosce il dolore, la paura e la morte.
Sono nelle altre due storie quando papa Leone X sagra il re cristianissimo Francesco I di Francia, cantando la messa in pontificale e benedicendo gli olii per ugnerlo et insieme la corona reale: dove, oltra il numero de' cardinali e vescovi in pontificale che ministrano, vi ritrasse molti ambasciatori et altre persone di naturale, e così certe figure con abiti alla franzese, secondo che si usava in quel tempo.
Nell'altra storia fece la coronazione del detto re, nella quale è il papa et esso Francesco ritratti di naturale, l'uno armato e l'altro pontificalmente.
Oltra che tutti i cardinali, vescovi, camerieri, scudieri, cubicularii, sono in pontificale a loro luoghi a sedere ordinatamente come costuma la cappella, ritratti di naturale, come Giannozo Pandolfini vescovo di Troia, amicissimo di Raffaello e molti altri che furono segnalati in quel tempo.
E vicino al re è un putto ginocchioni che tiene la corona reale, che fu ritratto Ipolito de' Medici, che fu poi cardinale e vice cancelliere, tanto pregiato et amicissimo non solo di questa virtù, ma di tutte le altre: alle benignissime ossa del quali i' mi conosco molto obbligato, poiché il principio mio, quale egli si fusse, ebbe origine da lui.
Non si può scrivere le minuzie delle cose di questo artefice, ché invero ogni cosa nel suo silenzio par che favelli; oltra i basamenti fatti sotto a queste con varie figure di difensori e remuneratori della Chiesa, messi in mezzo da varii termini e condotto tutto d'una maniera, che ogni cosa mostra spirito et affetto e considerazione, con quella concordanzia et unione di colorito l'una con l'altra, che migliore non si può imaginare.
E perché la volta di questa stanza era dipinta da Pietro Perugino suo maestro, Raffaello non la volse guastar per la memoria sua e per l'affezzione che gli portava, sendo stato principio del grado che egli teneva in tal virtù.
Era tanta la grandezza di questo uomo che teneva disegnatori per tutta Italia, a Pozzuolo e fino in Grecia; né restò d'avere tutto quello che di buono per questa arte potesse giovare.
Perché seguitando egli ancora fece una sala, dove di terretta erano alcune figure di Apostoli et altri Santi in tabernacoli; e per Giovanni da Udine suo discepolo, il quale per contrafare animali è unico, fece in ciò tutti quegli animali che papa Leone aveva: il camaleonte, i zibetti, le scimie, i papagalli, i lioni, i liofanti et altri animali più stranieri.
Et oltre che di grottesche e vari pavimenti egli tal palazzo abbellì assai, diede ancora disegno alle scale papali et alle logge cominciate bene da Bramante architettore, ma rimase imperfette per la morte di quello e seguite poi col nuovo disegno et architettura di Raffaello, che ne fece un modello di legname con maggiore ordine et ornamento che non avea fatto Bramante.
Per che volendo papa Leone mostrare la grandezza della magnificenza e generosità sua, Raffaello fece i disegni degli ornamenti di stucchi e delle storie che vi dipinsero e similmente de' partimenti e quanto allo stucco et alle grotesche fece capo di quella opera Giovanni da Udine; e sopra le figure Giulio Romano, ancora che poco vi lavorasse, così Giovan Francesco, il Bologna, Perino del Vaga, Pellegrino da Modona, Vincenzio da San Gimignano e Polidoro da Caravaggio, con molti altri pittori che feciono storie e figure et altre cose che accadevano per tutto quel lavoro.
Il quale fece Raffaello finire con tanta perfezzione che sino da Fiorenza fece condurre il pavimento da Luca della Robbia.
Onde certamente non può per pitture, stucchi, ordine e belle invenzioni, né farsi, né imaginarsi di fare più bell'opera.
E fu cagione la bellezza di questo lavoro che Raffaello ebbe carico di tutte le cose di pittura et architettura che si facevano in palazzo.
Dicesi ch'era tanta la cortesia di Raffaello, che coloro che muravano, perché egli accomodasse gli amici suoi, non tirarono la muraglia tutta soda e continuata, ma lasciarono sopra le stanze vecchie da basso alcune aperture e vani da potervi riporre botti, vettine e legne, le quali buche e vani fecero indebilire i piedi della fabbrica sì che è stato forza che si riempia dappoi, perché tutta cominciava ad aprirsi.
Egli fece fare a Gian Barile in tutte le porte e' palchi di legname assai cose d'intaglio, lavorate e finite con bella grazia.
Diede disegni d'architettura alla vigna del papa, et in Borgo a più case e particularmente al palazzo di Messer Giovan Batista dall'Aquila, il quale fu cosa bellissima.
Ne disegnò ancora uno al vescovo di Troia, il quale lo fece fare in Fiorenza nella via di San Gallo.
Fece a' monaci neri di San Sisto in Piacenza la tavola dello altar maggiore dentrovi la Nostra Donna con San Sisto e Santa Barbara, cosa veramente rarissima e singulare.
Fece per in Francia molti quadri e particularmente per il re San Michele che combatte col diavolo, tenuto cosa maravigliosa.
Nella quale opera fece un sasso arsiccio per il centro della terra che fra le fessure di quello usciva fuori con alcuna fiamma di fuoco e di zolfo; et in Lucifero incotto et arso nelle membra con incarnazione di diverse tinte si scorgeva tutte le sorti della collera che la superbia invelenita e gonfia adopera contra chi opprime la grandezza di chi è privo di regno dove sia pace, e certo di avere a provare continovamente pena.
Il contrario si scorge nel San Michele, che ancora che e' sia fatto con aria celeste, accompagnato dalle armi di ferro e di oro, ha nondimeno bravura e forza e terrore, avendo già fatto cader Lucifero, e quello con una zagaglia gettato rovescio; insomma fu sì fatta questa opera che meritò averne da quel re onoratissimo premio.
Ritrasse Beatrice Ferrarese et altre donne e particularmente quella sua et altre infinite.
Fu Raffaello persona molto amorosa et affezzionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro.
La qual cosa fu cagione che, continuando i diletti carnali, egli fu dagl'amici, forse più che non conveniva, rispettato e compiaciuto.
Onde facendogli Agostin Ghigi, amico suo caro, dipignere nel palazzo suo la prima loggia, Raffaello non poteva molto attendere a lavorare per lo amore che portava ad una sua donna; per il che Agostino si disperava di sorte, che per via d'altri e da sé, e di mezzi ancora, operò sì che appena ottenne che questa sua donna venne a stare con esso in casa continuamente, in quella parte dove Raffaello lavorava, il che fu cagione che il lavoro venisse a fine.
Fece in questa opera tutti i cartoni e molte figure colorì di sua mano in fresco.
E nella volta fece il concilio degli dèi in cielo; dove si veggono nelle loro forme molti abiti e lineamenti cavati dall'antico, con bellissima grazia e disegno espressi; e così fece le nozze di Psiche con ministri che servon Giove, e le Grazie che spargono i fiori per la tavola; e ne' peducci della volta fece molte storie, fra le quali in una è Mercurio col flauto che volando par che scenda dal cielo, et in un'altra è Giove con gravità celeste che bacia Ganimede; e così di sotto nell'altra il carro di Venere e le Grazie che con Mercurio tirano al ciel Psiche e molte altre storie poetiche negli altri peducci.
E negli spicchi della volta, sopra gl'archi fra peduccio e peduccio, sono molti putti che scortano, bellissimi, i quali volando portano tutti gli strumenti degli dèi: di Giove il fulmine e le saette, di Marte gli elmi, le spade e le targhe, di Vulcano i martelli, di Ercole la clava e la pelle del lione, di Mercurio il caduceo, di Pan la sampogna, di Vertunno i rastri della agricoltura.
E tutti hanno animali appropriati alla natura loro: pittura e poesia veramente bellissima.
Fecevi fare da Giovanni da Udine un ricinto alle storie d'ogni sorte fiori, foglie e frutte in festoni che non possono esser più belli.
Fece l'ordine delle architetture delle stalle de' Ghigi e nella chiesa di Santa Maria del Popolo l'ordine della cappella di Agostino sopra detto.
Nella quale, oltre che la dipinse, diede ordine che si facesse una maravigliosa sepoltura; et a Lorenzetto scultor fiorentino fece lavorar due figure, che sono ancora in casa sua al Macello de' Corbi in Roma.
Ma la morte di Raffaello e poi quella di Agostino fu cagione che tal cosa si desse a Sebastian Viniziano.
Era Raffaello in tanta grandezza venuto che Leon X ordinò che egli cominciasse la sala grande di sopra, dove sono le vittorie di Gostantino, alla quale egli diede principio.
Similmente venne volontà al Papa di far panni d'arazzi ricchissimi d'oro e di seta in filaticci; per che Raffaello fece in propria forma e grandezza di tutti di sua mano i cartoni coloriti, i quali furono mandati in Fiandra a tessersi, e finiti i panni vennero a Roma.
La quale opera fu tanto miracolosamente condotta che reca maraviglia il vederla et il pensare come sia possibile avere sfilato i capegli e le barbe e dato col filo morbidezza alle carni; opera certo più tosto di miracolo che d'artificio umano, perché in essi sono acque, animali, casamenti e talmente ben fatti che non tessuti, ma paiono veramente fatti col pennello.
Costò questa opra 70 mila scudi e si conserva ancora nella cappella papale.
Fece al cardinale Colonna un San Giovanni in tela, il quale, portandogli per la bellezza sua grandissimo amore e trovandosi da una infirmità percosso, gli fu domandato in dono da Messer Iacopo da Carpi medico che lo guarì e, per averne egli voglia, a sé medesimo lo tolse parendogli aver seco obligo infinito et ora si ritrova in Fiorenza nelle mani di Francesco Benintendi.
Dipinse a Giulio cardinale de' Medici e vice cancelliere una tavola della Trasfigurazione di Cristo per mandare in Francia, la quale egli di sua mano, continuamente lavorando, ridusse ad ultima perfezzione.
Nella quale storia figurò Cristo trasfigurato nel Monte Tabor et appié di quello gli undici Discepoli che lo aspettano; dove si vede condotto un giovanetto spiritato acciò che Cristo sceso del monte lo liberi, il quale giovanetto mentre che con attitudine scontorta si prostende gridando e stralunando gli occhi, mostra il suo patire dentro nella carne, nelle vene e ne' polsi contaminati dalla malignità dello spirto e con pallida incarnazione fa quel gesto forzato e pauroso.
Questa figura sostiene un vecchio che, abbracciatola e preso animo, fatto gli occhi tondi con la luce in mezzo, mostra con lo alzare le ciglia et increspar la fronte, in un tempo medesimo e forza e paura.
Pure mirando gli Apostoli fiso pare che sperando in loro faccia animo a se stesso.
Èvvi una femina fra molte, la quale è principale figura di quella tavola, che inginocchiata dinanzi a quegli, voltando la testa loro e coll'atto delle braccia verso lo spiritato, mostra la miseria di colui.
Oltra che gli Apostoli chi ritto e chi a sedere et altri ginocchioni mostrano avere grandissima compassione di tanta disgrazia.
E nel vero egli vi fece figure e teste, oltra la bellezza straordinaria, tanto nuove, varie e belle che si fa giudizio commune degli artefici che questa opera, fra tante quant'egli ne fece, sia la più celebrata, la più bella e la più divina.
Avvenga che chi vuol conoscere [e] mostrare [in] pittura Cristo trasfigurato alla divinità lo guardi in questa opera, nella quale egli lo fece sopra a questo monte diminuito in una aria lucida con Mosè et Elia, che alluminati da una chiarezza di splendore si fanno vivi nel lume suo; sono in terra prostrati Pietro, Iacopo e Giovanni, in varie e belle attitudini: chi ha a terra il capo e chi con fare ombra agl'occhi con le mani si difende dai raggi e dalla immensa luce dello splendore di Cristo.
Il quale vestito di colore di neve, pare che aprendo le braccia et alzando la testa, mostri la essenza e la deità di tutt'e tre le Persone unitamente ristrette nella perfezzione dell'arte di Raffaello, il quale pare che tanto si restrignesse insieme con la virtù sua, per mostrare lo sforzo et il valor dell'arte nel volto di Cristo, che finitolo, come ultima cosa che a fare avesse, non toccò più pennelli, sopragiugnendoli la morte.
Ora, avendo raccontate l'opere di questo eccellentissimo artefice, prima che io venga a dire altri particolari della vita e morte sua, non voglio che mi paia fatica discorrere alquanto per utile de' nostri artefici intorno alle maniere di Raffaello.
Egli dunque, avendo nella sua fanciullezza imitato la maniera di Pietro Perugino suo maestro, e fattala molto migliore, per disegno, colorito et invenzione, e parendogli aver fatto assai, conobbe, venuto in migliore età, esser troppo lontano dal vero.
Perciò che vedendo egli l'opere di Lionardo da Vinci, il quale nell'arie delle teste, così di maschi come di femmine, non ebbe pari e nel dar grazia alle figure e ne' moti superò tutti gl'altri pittori, restò tutto stupefatto e maravigliato; et insomma, piacendogli la maniera di Lionardo più che qualunche altra avesse veduta mai, si mise a studiarla e lasciando, se bene con gran fatica a poco a poco la maniera di Pietro, cercò, quanto seppe e poté il più, d'imitare la maniera di esso Lionardo.
Ma per diligenza o studio che facesse, in alcune difficultà non poté mai passare Lionardo; e se bene pare a molti che egli lo passasse nella dolcezza et in una certa facilità naturale, egli nondimeno non gli fu punto superiore in un certo fondamento terribile di concetti e grandezza d'arte, nel che pochi sono stati pari a Lionardo.
Ma Raffaello se gli è avvicinato bene più che nessuno altro pittore, e massimamente nella grazia de' colori.
Ma tornando a esso Raffaello, gli fu col tempo di grandissimo disaiuto e fatica quella maniera che egli prese di Pietro, quando era giovanetto; la quale prese agevolmente per essere minuta, secca e di poco dissegno; perciò che, non potendosela dimenticare, fu cagione che con molta difficultà imparò la bellezza degl'ignudi et il modo degli scorti difficili dal cartone, che fece Michelagnolo Buonarroti per la sala del Consiglio di Fiorenza, et un altro che si fusse perso d'animo, parendogli avere insino allora gettato via il tempo, non arebbe mai fatto, ancor che di bellissimo ingegno, quello che fece Raffaello, il quale smorbatosi e levatosi da dosso quella maniera di Pietro per apprender quella di Michelagnolo piena di difficultà in tutte le parti, diventò quasi di maestro nuovo discepolo; e si sforzò con incredibile studio di fare, essendo già uomo, in pochi mesi quello che arebbe avuto bisogno di quella tenera età che meglio apprende ogni cosa e de lo spazzio di molti anni.
E nel vero chi non impara a buon'ora i buoni principii e la maniera che vuol seguitare et a poco a poco non va facilitando con l'esperienza le difficultà dell'arti, cercando d'intendere le parti e metterle in pratica, non diverrà quasi mai perfetto; e se pure diverrà, sarà con più tempo e molto maggior fatica.
Quando Raffaello si diede a voler mutare e migliorare la maniera, non aveva mai dato opera agl'ignudi con quello studio che si ricerca, ma solamente gli aveva ritratti di naturale, nella maniera che aveva veduto fare a Pietro suo maestro, aiutandogli con quella grazia che aveva dalla natura.
Datosi dunque allo studiare gl'ignudi et a riscontrare i musculi delle notomie e degl'uomini morti e scorticati con quelli de' vivi, che per la coperta della pelle non appariscono terminati nel modo che fanno levata la pelle, e veduto poi in che modo si facciano carnosi e dolci ne' luoghi loro e come nel girare delle vedute si facciano con grazia certi storcimenti, e parimente gl'effetti del gonfiare et abbassare et alzare o un membro o tutta la persona, et oltre ciò l'incatenatura dell'ossa, de' nervi e delle vene; si fecce eccellente in tutte le parti che in uno ottimo dipintore sono richieste.
Ma, conoscendo nondimeno che non poteva in questa parte arrivare alla perfezzione di Michelagnolo, come uomo di grandissimo giudizio, considerò che la pittura non consiste solamente in fare uomini nudi, ma che ell'ha il campo largo e che fra i perfetti dipintori si possono anco coloro annoverare che sanno esprimere bene e con facilità l'invenzioni delle storie et i loro capricci con bel giudizio e che nel fare i componimenti delle storie chi sa non confonderle col troppo et anco farle non povere col poco, ma con bella invenzione et ordine accomodarle, si può chiamare valente e giudizioso artefice.
A questo, sì come bene andò pensando Raffaello, s'aggiugne lo arrichirle con la varietà e stravaganza delle prospettive, de' casamenti e de' paesi, il leggiadro modo di vestire le figure, il fare che elle si perdino alcuna volta nello scuro et alcuna volta venghino innanzi col chiaro; il fare vive e belle le teste delle femmine, de' putti, de' giovani e de' vecchi e dar loro, secondo il bisogno, movenza e bravura.
Considerò anco quanto importi la fuga de' cavalli nelle battaglie, la fierezza de' soldati, il saper fare tutte le sorti d'animali e sopra tutto il far in modo nei ritratti somigliar gl'uomini che paino vivi e si conoschino per chi eglino sono fatti et altre cose infinite, come sono abigliamenti di panni, calzari, celate, armadure, acconciature, di femmine, capegli, barbe, vasi, alberi, grotte, sassi, fuochi, arie torbide e serene, nuvoli, pioggie, saette, sereni, notte, lumi di luna, splendori di sole et infinite altre cose, che seco portano ognora i bisogni dell'arte della pittura.
Queste cose, dico, considerando Raffaello, si risolvé, non potendo aggiungere Michelagnolo in quella parte dove egli aveva messo mano, di volerlo in queste altre pareggiare e forse superarlo; e così si diede, non ad imitare la maniera di colui, per non perdervi vanamente il tempo, ma a farsi un ottimo universale in queste altre parti che si sono raccontate.
E se così avessero fatto molti artefici dell'età nostra che, per aver voluto seguitare lo studio solamente delle cose di Michelagnolo, non hanno imitato lui, né potuto aggiugnere a tanta perfezzione, eglino non arebbono faticato in vano, né fatto una maniera molto dura, tutta piena di difficultà, senza vaghezza, senza colorito e povera d'invenzione, là dove arebbono potuto cercando d'essere universali e d'imitare l'altre parti, essere stati a se stessi et al mondo di giovamento.
Raffaello adunque, fatta questa risoluzione e conosciuto che fra' Bartolomeo di San Marco aveva un assai buon modo di dipignere, disegno ben fondato et una maniera di colorito piacevole, ancor che talvolta usasse troppo gli scuri per dar maggior rilievo, prese da lui quello che gli parve secondo il suo bisogno e capriccio, cioè un modo mezzano di fare, così nel dissegno, come nel colorito; e, mescolando col detto modo alcuni altri scelti delle cose migliori d'altri maestri, fece di molte maniere una sola che fu poi sempre tenuta sua propria, la quale fu e sarà sempre stimata dagl'artefici infinitamente.
E questa si vide perfetta poi nelle Sibille e ne' Profeti dell'opera che fece, come si è detto, nella Pace.
Al fare della quale opera gli fu di grande aiuto l'aver veduto nella capella del papa l'opera di Michelagnolo.
E se Raffaello si fusse in questa sua detta maniera fermato, né avesse cercato di aggrandirla e variarla, per mostrare che egli intendeva gl'ignudi così bene come Michelagnolo, non si sarebbe tolto parte di quel buon nome che acquistato si aveva; perciò che gli ignudi che fece nella camera di Torre Borgia, dove è l'incendio di Borgo Nuovo, ancora che siano buoni, non sono in tutto eccellenti.
Parimente non sodisfeciono affatto quelli che furono similmente fatti da lui nella volta del palazzo d'Agostin Chigi in Trastevere, perché mancano di quella grazia e dolcezza che fu propria di Raffaello; del che fu anche in gran parte cagione l'avergli fatto colorire ad altri col suo disegno.
Dal quale errore ravedutosi, come giudizioso, volle poi lavorare da sé solo, e senza aiuto d'altri, la tavola di San Pietro a Montorio della Trasfigurazione di Cristo; nella quale sono quelle parti, che già s'è detto, che ricerca e debbe avere una buona pittura.
E se non avesse in questa opera, quasi per capriccio, adoperato il nero di fumo da stampatori, il quale, come più volte si è detto, di sua natura diventa sempre col tempo più scuro et offende gl'altri colori coi quali è mescolato, credo che quell'opera sarebbe ancor fresca come quando egli la fece, dove oggi pare più tosto tinta che altrimenti.
Ho voluto quasi nella fine di questa vita fare questo discorso per mostrare con quanta fatica, studio e diligenza si governasse sempremai questo onorato artefice; e particolarmente per utile degl'altri pittori, acciò si sappiano difendere da quelli impedimenti dai quali seppe la prudenza e virtù di Raffaello difendersi.
Aggiugnerò ancor questo: che doverebbe ciascuno contentarsi di fare volentieri quelle cose alle quali si sente da naturale instinto inclinato e non volere por mano, per gareggiare, a quello che non gli vien dato dalla natura, per non faticare invano e spesso con vergogna e danno.
Oltre ciò quando basta il fare non si dee cercare di volere strafare per passare innanzi a coloro che, per grande aiuto di natura e per grazia particolare data loro da Dio, hanno fatto o fanno miracoli nell'arte.
Perciò che chi non è atto a una cosa non potrà mai, et affatichisi quanto vuole, arivare dove un altro con l'aiuto della natura è caminato agevolmente.
E ci sia, per esempio, fra i vecchi Paulo Ucello, il quale, affaticandosi contra quello che poteva per andare inanzi, tornò sempre indietro.
Il medesimo ha fatto ai giorni nostri, e poco fa, Iacopo da Puntormo.
E si è veduto per isperienza in molti altri, come si è detto e come si dirà.
E ciò forse avviene perché il cielo va compartendo le grazie, acciò stia contento ciascuno a quella che gli tocca.
Ma avendo oggimai discorso sopra queste cose dell'arte, forse più che bisogno non era, per ritornare alla vita e morte di Raffaello dico che, avendo egli stretta amicizia con Bernardo Divizio cardinale di Bibbiena, il cardinale l'aveva molti anni infestato per dargli moglie e Raffaello non aveva espressamente ricusato di fare la voglia del cardinale, ma aveva ben trattenuto la cosa, con dire di volere aspettare che passassero tre o quattro anni; il quale termine venuto, quando Raffaello non se l'aspettava, gli fu dal cardinale ricordata la promessa et egli vedendosi obligato, come cortese non volle mancare della parola sua e così accettò per donna una nipote di esso cardinale.
E perché sempre fu malissimo contento di questo laccio, andò in modo mettendo tempo in mezzo, che molti mesi passarono, che 'l matrimonio non consumò.
E ciò faceva egli non senza onorato proposito.
Perché, avendo tanti anni servito la corte et essendo creditore di Leone di buona somma, gli era stato dato indizio che alla fine della sala, che per lui si faceva, in ricompensa delle fatiche e delle virtù sue, il Papa gli avrebbe dato un capello rosso, avendo già deliberato di farne un buon numero e fra essi qualcuno di manco merito che Raffaello non era.
Il quale Raffaello, attendendo in tanto a' suoi amori così di nascosto, continuò fuor di modo i piaceri amorosi, onde avvenne ch'una volta fra l'altre disordinò più del solito; perché tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da' medici che fosse riscaldato; onde, non confessando egli il disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue; di maniera che indebilito si sentiva mancare, là dove egli aveva bisogno di ristoro.
Perché fece testamento e prima come cristiano mandò l'amata sua fuor di casa e le lasciò modo di vivere onestamente; dopo divise le cose sue fra' discepoli suoi: Giulio Romano, il quale sempre amò molto, Giovan Francesco Fiorentino detto il Fattore, et un non so chi prete da Urbino suo parente.
Ordinò poi che delle sue facultà in Santa Maria Ritonda si restaurasse un tabernacolo di quegli antichi di pietre nuove et uno altare si facesse con una statua di Nostra Donna di marmo, la quale per sua sepoltura e riposo dopo la morte s'elesse; e lasciò ogni suo avere a Giulio e Giovan Francesco, faccendo essecutore del testamento Messer Baldassarre da Pescia, allora datario del Papa.
Poi confesso e contrito finì il corso della sua vita il giorno medesimo che nacque, che fu il venerdì santo d'anni XXXVII, l'anima del quale è da credere che come di sue virtù ha abbellito il mondo, così abbia di sé medesima adorno il cielo.
Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de' Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l'anima di dolore a ogni uno che quivi guardava.
La quale tavola per la perdita di Raffaello fu messa dal cardinale a San Pietro a Montorio allo altar maggiore; e fu poi sempre per la rarità d'ogni suo gesto in gran pregio tenuta.
Fu data al corpo suo quella onorata sepoltura che tanto nobile spirito aveva meritato, perché non fu nessuno artefice che dolendosi non piagnesse et insieme alla sepoltura non l'accompagnasse.
Dolse ancora sommamente la morte sua a tutta la corte del Papa, prima per avere egli avuto in vita uno officio di cubiculario et appresso per essere stato sì caro al Papa che la sua morte amaramente lo fece piagnere.
O felice e beata anima, da che ogn'uomo volentieri ragiona di te e celebra i gesti tuoi et ammira ogni tuo disegno lasciato.
Ben poteva la pittura, quando questo nobile artefice morì, morire anche ella che quando egli gli occhi chiuse, ella quasi cieca rimase.
Ora a noi che dopo lui siamo rimasi, resta imitare il buono, anzi ottimo modo, da lui lasciatoci in esempio e come merita la virtù sua e l'obligo nostro, tenerne nell'animo graziosissimo ricordo e farne con la lingua sempre onoratissima memoria.
Che invero noi abbiamo per lui l'arte, i colori e la invenzione unitamente ridotti a quella fine e perfezzione che appena si poteva sperare, né di passar lui già mai si pensi spirito alcuno.
Et oltre a questo beneficio che e' fece all'arte, come amico di quella, non restò vivendo mostrarci come si negozia con gli uomini grandi, co' mediocri e con gl'infimi.
E certo fra le sue doti singulari ne scorgo una di tal valore che in me stesso stupisco: che il cielo gli diede forza di poter mostrare ne l'arte nostra uno effetto sì contrario alle complessioni di noi pittori; questo è che naturalmente gli artefici nostri, non dico solo i bassi, ma quelli che hanno umore d'esser grandi (come di questo umore l'arte ne produce infiniti), lavorando ne l'opere in compagnia di Raffaello stavano uniti e di concordia tale che tutti i mali umori nel veder lui si amorzavano et ogni vile e basso pensiero cadeva loro di mente.
La quale unione mai non fu più in altro tempo che nel suo.
E questo avveniva perché restavano vinti dalla cortesia e dall'arte sua, ma più dal genio della sua buona natura.
La quale era sì piena di gentilezza e sì colma di carità, che egli si vedeva che fino agli animali l'onoravano, non che gli uomini.
Dicesi che ogni pittore che conosciuto l'avesse, et anche chi non lo avesse conosciuto, se lo avessi richiesto di qualche disegno che gli bisognasse, egli lasciava l'opera sua per sovvenirlo.
E sempre tenne infiniti in opera, aiutandoli et insegnandoli con quello amore che non ad artifici, ma a figliuoli proprii si conveniva.
Per la qual cagione si vedeva che non andava mai a corte che partendo di casa non avesse seco cinquanta pittori tutti valenti e buoni che gli facevono compagnia per onorarlo.
Egli insomma non visse da pittore, ma da principe: per il che o arte della pittura, tu pur ti potevi allora stimare felicissima avendo un tuo artefice che di virtù e di costumi t'alzava sopra il cielo; beata veramente ti potevi chiamare, da che per l'orme di tanto uomo, hanno pur visto gli allievi tuoi come si vive e che importi l'avere accompagnato insieme arte e virtute; le quali in Raffaello congiunte, potettero sforzare la grandezza di Giulio II e la generosità di Leone X nel sommo grado e degnità che egli erono a farselo familiarissimo et usarli ogni sorte di liberalità, tal che poté col favore e con le facultà che gli diedero fare a sé et a l'arte grandissimo onore.
Beato ancora si può dire chi stando a' suoi servigi sotto lui operò, perché ritrovo chiunche che lo imitò essersi a onesto porto ridotto e così quegli che imiteranno le sue fatiche nell'arte saranno onorati dal mondo e, ne' costumi santi lui somigliando, remunerati dal cielo.
Ebbe Raffaello dal Bembo questo epitaffio:
D.O.M.
RAPHAEL SANCTIO IOANNIS FILIO
URBINATI
PICTORI EMINENTISSIMO VETERUMQUE AEMULO
CUIUS SPIRANTEIS PROPE IMAGINEIS
SI CONTEMPLERE
NATURAE ATQUE ARTIS FOEDUS
FACILE INSPEXERIS
IULII II ET LEONIS X PONTT MAXX.
PICTURAE ET ARCHITECTURAE OPERIBUS
GLORIAM AUXIT
VIXIT ANNOS XXXVII INTEGER INTEGROS
QUO DIE NATUS EST EO ESSE
DESIIT VIII D APRILIS MDXX.
ILLE HIC EST RAPHAEL, TIMUIT QUO SOSPITE VINCI
RERUM MAGNA PARENS, ET MORIENTE MORI.
Et il conte Baldassarre Castiglione scrisse de la sua morte in questa maniera:
Quod lacerum corpus medica sanaverit arte;
Hippolytum Stigiis et revocarit aquis;
ad Stygias ipse est raptus Epidaurius undas;
sic precium vitae, mors fuit artifici.
Tu quoque dum toto laniatam corpore Romam
componis miro Raphael ingenio;
atque Urbis lacerum ferro, igni, annisque cadaver,
ad vitam, antiquum iam revocasque decus,
movisti superum invidiam indignataque Mors est,
te dudum extinctis reddere posse animam,
et quod longa dies paulatim aboleverat, hoc te
mortali spreta lege parare iterum.
Sic miser heu prima cadis intercepte juventa,
deberi et morti, nostraque nosque mones.
VITA DI GUGLIELMO DA MARCILLA PITTORE FRANZESE E MAESTRO DI FINESTRE INVETRIATE
In questi medesimi tempi, dotati da Dio di quella maggior felicità che possino aver l'arti nostre, fiorì Guglielmo da Marcilla franzese, il quale, per la ferma abitazione et affezione che e' portò alla città d'Arezzo, si può dire se la eleggesse per patria, che da tutti fussi reputato e chiamato aretino.
E veramente de' benefizii che si cavano della virtù è uno, che sia pure di che strana e lontana regione o barbara et incognita nazione quale uomo si voglia, pure che egli abbia lo animo ornato di virtù e con le mani faccia alcuno esercizio ingegnoso, nello apparir nuovo in ogni città dove e' camina, mostrando il valor suo, tanta forza ha l'opera virtuosa che di lingua in lingua in poco spazio gli fa nome e le qualità di lui diventano pregiatissime et onoratissime.
E spesso avviene a infiniti, che di lontano hanno lasciato le patrie loro, nel dare d'intoppo in nazioni che siano amiche delle virtù e de' forestieri per buono uso di costumi, trovarsi accarezzati e riconosciuti sì fattamente, ch'e' si scordano il loro nido natìo et un altro nuovo s'eleggono per ultimo riposo; come per ultimo suo nido elesse Arezzo, Guglielmo, il quale nella sua giovanezza attese in Francia all'arte del disegno et insieme con quello diede opera alle finestre di vetro, nelle quali faceva figure di colorito non meno unite che se elle fossero d'una vaghissima et unitissima pittura a olio.
Costui ne' suoi paesi, persuaso da' prieghi d'alcuni amici suoi, si ritrovò alla morte d'un loro inimico, per la qual cosa fu sforzato nella Religione di San Domenico in Francia pigliare l'abito di frate, per essere libero dalla corte e da la giustizia.
E se bene egli dimorò nella religione, non però mai abbandonò gli studi dell'arte, anzi continuando gli condusse ad ottima perfezzione.
Fu per ordine di papa Giulio II dato commissione a Bramante da Urbino di far fare in palazzo molte finestre di vetro, perché nel domandare che egli fece de' più eccellenti, fra gli altri, che di tal mestiero lavoravano, gli fu dato notizia d'alcuni che facevano in Francia cose maravigliose, e ne vide il saggio per lo ambasciator francese che negoziava allora appresso Sua Santità, il quale aveva in un telaro, per finestra dello studio, una figura lavorata in un pezzo di vetro bianco con infinito numero di colori sopra il vetro lavorati a fuoco; onde per ordine di Bramante fu scritto in Francia che venissero a Roma, offerendogli buone provisioni.
Laonde maestro Claudio Franzese, capo di questa arte, avuto tal nuova, sapendo l'eccellenza di Guglielmo, con buone promesse e danari, fece sì che non gli fu difficile trarlo fuor de' frati, avendo egli per le discortesie usategli e per le invidie, che son di continuo fra loro, più voglia di partirsi che maestro Claudio bisogno di trarlo fuora.
Vennero dunque a Roma, e lo abito di San Domenico si mutò in quello di San Piero.
Aveva Bramante fatto fare allora due fenestre di trevertino nel palazzo del papa, le quali erano nella sala dinanzi alla cappella, oggi abbellita di fabbrica in volta per Antonio da San Gallo, e di stucchi mirabili per le mani di Perino del Vaga fiorentino, le quali fenestre da maestro Claudio e da Guglielmo furono lavorate, ancora che poi per il sacco spezzate per trarne i piombi per le palle degli archibusi, le quali erano certamente maravigliose.
Oltra queste ne fecero per le camere papali infinite, delle quali il medesimo avvenne che dell'altre due.
Et oggi ancora se ne vede una nella camera del fuoco di Raffaello sopra torre Borgia, nelle quali sono Angeli che tengono l'arme di Leon X.
Fecero ancora in S.
Maria del Popolo due fenestre nella capella di dietro alla Madonna con le storie della vita di lei, le quali di quel mestiero furono lodatissime.
E queste opere non meno gli acquistarono fama e nome che comodità alla vita.
Ma maestro Claudio disordinando molto nel mangiare e bere, come è costume di quella nazione, cosa pestifera all'aria di Roma, ammalò d'una febbre sì grave che in sei giorni passò a l'altra vita.
Per che Guglielmo, rimanendo solo e quasi perduto senza il compagno, da sé dipinse una fenestra in Santa Maria de Anima, chiesa de' Tedeschi in Roma, pur di vetro, la quale fu cagione che Silvio cardinale di Cortona gli fece offerte e convenne seco perché in Cortona sua patria alcune fenestre et altre opere gli facesse, onde seco in Cortona lo condusse a abitare.
E la prima opera che facesse fu la facciata di casa sua, che è volta su la piazza, la quale dipinse di chiaro oscuro e dentro vi fece Crotone e gli altri primi fondatori di quella città.
Laonde il cardinale, conoscendo Guglielmo non meno buona persona che ottimo maestro di quella arte, gli fece fare nella Pieve di Cortona la fenestra della cappella maggiore; nella quale fece la Natività di Cristo et i Magi che l'adorano.
Aveva Guglielmo bello spirito, ingegno e grandissima pratica nel maneggiare i vetri, e massimamente nel dispensare in modo i colori che i chiari venissero nelle prime figure et i più oscuri, di mano in mano, in quelle che andavano più lontane; et in questa parte fu raro e veramente eccellente.
Ebbe poi nel dipignergli ottimo giudizio, onde conduceva le figure tanto unite che elle si allontanavano a poco a poco, per modo che non si apiccavano, né con i casamenti, né con i paesi, e parevano dipinte in una tavola o più tosto di rilievo.
Ebbe invenzione e varietà nella composizione delle storie e le fece ricche e molto accomodate, agevolando il modo di fare quelle pitture che vanno commesse di pezzi di vetri, il che pareva et è veramente, a chi non ha questa pratica e destrezza, difficilissimo.
Disegnò costui le sue pitture per le finestre con tanto buon modo et ordine, che le commettiture de' piombi e de' ferri che attraversano in certi luoghi l'accomodarono di maniera nelle congiunture delle figure e nelle pieghe de' panni, che non si conoscano, anzi davano tanta grazia che più non arebbe fatto il pennello e così seppe fare della necessità virtù.
Adoprava Guglielmo solamente di due sorti colori per ombrare que' vetri che voleva reggessino al fuoco: l'uno fu scaglia di ferro e l'altro scaglia di rame.
Quella di ferro nera gl'ombrava i panni, i capelli et i casamenti, e l'altra, cioè quella di rame, che fa tané, le carnagioni.
Si serviva anco assai d'una pietra dura, che viene di Fiandra e di Francia, che oggi si chiama lapis amotica, che è di colore rosso e serve molto per brunire l'oro; e pesta prima in un mortaio di bronzo e poi con un macinello di ferro sopra una piastra di rame o d'ottone e temperata a gomma, in sul vetro fa divinamente.
Non aveva Guglielmo, quando prima arivò a Roma, se bene era pratico nell'altre cose, molto disegno, ma conosciuto il bisogno, se bene era in là con gl'anni, si diede a disegnare e studiare, e così a poco a poco le migliorò, quanto si vide poi nelle finestre che fece nel palazzo del detto cardinale in Cortona et in quell'altro di fuori et in un occhio, che è nella detta pieve sopra la facciata dinanzi a man ritta entrando in chiesa, dove è l'arme di papa Leone X, e parimente in due finestre piccole che sono nella Compagnia del Gesù; in una delle quali è un Cristo e nell'altra un Santo Onofrio, le quali opere sono assai differenti e molto migliori delle prime.
Dimorando dunque, come si è detto, costui in Cortona, morì in Arezzo Fabiano di Stagio Sassoli aretino, stato bonissimo maestro di fare finestre grande.
Onde avendo gl'Operai del vescovado allogato tre finestre, che sono nella cappella principale di venti braccia l'una, a Stagio figliuolo del detto Fabiano et a Domenico Pecori pittore, quando furono finite e poste ai luoghi loro, non molto sodisfecero agl'Aretini, ancora che fossero assai buone e più tosto lodevoli che no.
Ora avvenne che, andando in quel tempo Messer Lodovico Bellichini, medico eccellente e de' primi che governasse la città d'Arezzo, a medicare in Cortona la madre del detto cardinale, egli si dimesticò assai col detto Guglielmo, col quale, quando tempo gl'avanzava, ragionava molto volentieri e Guglielmo parimente, che allora si chiamava il priore, per avere di que' giorni avuto il beneficio d'una prioria, pose affezzione al detto medico; il quale un giorno domandò Guglielmo se con buona grazia del cardinale anderebbe a fare in Arezzo alcune finestre; et avendogli promesso, con licenza e buona grazia del cardinale, là si condusse.
Stagio dunque, del quale si è ragionato di sopra, avendo divisa la compagnia con Domenico, raccettò in casa sua Guglielmo; il quale per la prima opera in una finestra di Santa Lucia, cappella degl'Albergotti nel Vescovado d'Arezzo, fece essa Santa et un S.
Salvestro, tanto bene che questa opera può dirsi veramente fatta di vivissime figure e non di vetri colorati e trasparenti o, almeno, pittura lodata e maravigliosa perché, oltre al magisterio delle carni, sono squagliati i vetri, cioè levata in alcun luogo la prima pelle e poi colorita d'altro colore, come sarebbe a dire posto in sul vetro rosso squagliato opera gialla et in su l'azzurro bianca e verde lavorata, la qual cosa in questo mestiero è difficile e miracolosa.
Il vero, dunque, e primo colorato viene tutto da uno de' lati, come dire il colore rosso, azzurro o verde, e l'altra parte, che è grossa quanto il taglio d'un coltello o poco più, bianca.
Molti per paura di non spezzare i vetri, per non avere gran pratica nel maneggiargli, non adoperano punta di ferro per squagliarli, ma in quel cambio, per più sicurtà, vanno incavando i detti vetri con una ruota di rame in cima un ferro, e così a poco a poco tanto fanno con lo smeriglio che lasciano la pelle sola del vetro bianco, il quale viene molto netto.
Quando poi sopra detto vetro rimaso bianco si vuol fare di colore giallo, allora si dà, quando si vuole metter a fuoco a punto per cuocerlo, con un pennello, d'argento calcinato che è un colore simile al bolo, ma un poco grosso e questo al fuoco si fonde sopra il vetro e fa che scorrendo si attacca, penetrando a detto vetro, e fa un bellissimo giallo, i quali modi di fare niuno adoperò meglio, né con più artificio et ingegno del priore Guglielmo; et in queste cose consiste la difficultà, perché il tignere di colori a olio o in altro modo è poco o niente, e che sia diaffano e trasparente non è cosa di molto momento, ma il cuocergli a fuoco e fare che regghino alle percosse dell'acqua e si conservino sempre, è ben fatica degna di lode.
Onde questo eccellente maestro merita lode grandissima, per non essere chi in questa professione di disegno, d'invenzione, di colore e di bontà abbia mai fatto tanto.
Fece poi l'occhio grande di detta chiesa dentrovi la veduta dello Spirito Santo e così il battesimo di Cristo, per San Giovanni, dove egli fece Cristo nel Giordano che aspetta San Giovanni, il quale ha preso una tazza d'acqua per battezarlo, mentre che un vecchio nudo si scalza e certi Angeli preparano la veste per Cristo, e sopra è il Padre, che manda lo Spirito Santo al Figliuolo.
Questa finestra è sopra il battesimo in detto Duomo, nel quale ancora lavorò la finestra della resurrezione di Lazzaro quattriduano, dove è impossibile mettere in sì poco spazio tante figure, nelle quali si conosce lo spavento e lo stupire di quel popolo et il fetore del corpo di Lazaro, il quale fa piangere et insieme rallegrare le due sorelle della sua resurressione.
Et in questa opera sono squagliamenti infiniti di colore sopra colore nel vetro e vivissima certo pare ogni minima cosa nel suo genere.
E chi vuol vedere quanto abbia in questa arte potuto la mano del priore nella finestra di San Matteo sopra la cappella di esso Apostolo, guardi la mirabile invenzione di questa istoria e vedrà vivo Cristo chiamare Matteo dal banco, che lo seguiti, il quale aprendo le braccia per riceverlo in sé, abbandona le acquistate ricchezze e tesori.
Et in questo mentre uno Apostolo, addormentato appiè di certe scale, si vede essere svegliato da un altro con prontezza grandissima, e nel medesimo modo vi si vede ancora un S.
Piero favellare con San Giovanni, sì belli l'uno e l'altro che veramente paiono divini; in questa finestra medesima sono i tempi di prospettiva, le scale e le figure talmente composte, et i paesi sì proprii fatti che mai non si penserà che sien vetri, ma cosa piovuta da cielo a consolazione degli uomini.
Fece in detto luogo la finestra di Santo Antonio e di San Niccolò bellissime e due altre, dentrovi nella una la storia quando Cristo caccia i vendenti del tempio e nell'altra l'adultera, opere veramente tutte tenute egregie e maravigliose.
E talmente furono di lode, di carezze e di premii le fatiche e le virtù del priore dagli Aretini riconosciute et egli di tal cosa tanto contento e sodisfatto, che si risolvette eleggere quella città per patria, e di Franzese che era diventare Aretino.
Appresso, considerando seco medesimo l'arte de' vetri essere poco eterna per le rovine che nascono ognora in tali opre, gli venne desiderio di darsi alla pittura e così dagli Operai di quel Vescovo prese a fare tre grandissime volte a fresco, pensando lasciar di sé memoria.
E gli Aretini in ricompensa, gli fecero dare un podere, ch'era della Fraternità di Santa Maria della Misericordia, vicino alla terra, con bonissime case a godimento della vita sua.
E volsero che, finita tale opera, fosse stimato per uno egregio artefice il valor di quella e che gli Operai di ciò gli facessino buono il tutto.
Perché egli si mise in animo di farsi in ciò valere et alla similitudine delle cose della cappella di Michelagnolo, fece le figure per la altezza grandissime.
E poté in lui talmente la voglia di farsi eccellente in tale arte, che ancora che ei fosse di età di cinquanta anni, migliorò di cosa in cosa di modo che mostrò non meno conoscere et intendere il bello, che in opera dilettarsi contrafare il buono.
Figurò i principi del Testamento Nuovo, come nelle tre grandi il principio del Vecchio aveva fatto.
Onde per questa cagione voglio credere che ogni ingegno che abbia volontà di pervenire a la perfezzione, possa passare (volendo affaticarsi) il termine d'ogni scienza.
Egli si spaurì bene nel principio di quelle per la grandezza e per non aver più fatto.
Il che fu cagione ch'egli mandò a Roma per maestro Giovanni Franzese miniatore, il quale, venendo in Arezzo, fece in fresco sopra Santo Antonio uno arco con un Cristo e nella Compagnia il segno che si porta a processione, che gli furono fatti lavorare dal priore.
Et egli molto diligentemente gli condusse.
In questo medesimo tempo fece alla chiesa di San Francesco l'occhio della chiesa nella facciata dinanzi, opera grande, nel quale finse il papa nel consistoro e la residenza de' cardinali, dove San Francesco porta le rose di gennaio e per la confermazione della Regola va a Roma.
Nella quale opera mostrò quanto egli de' componimenti s'intendesse, che veramente si può dire lui esser nato per quello essercizio.
Quivi non pensi artefice alcuno, di bellezza, di copia di figure, né di grazia già mai paragonarlo.
Sono infinite opere di finestre per quella città tutte bellissime e nella Madonna delle Lagrime l'occhio grande con l'Assunzione della Madonna et Apostoli et una d'una Annunziata bellissima.
Un occhio con lo Sponsalizio et un altro dentrovi un San Girolamo per gli Spadari.
Similmente giù per la chiesa tre altre finestre e nella chiesa di San Girolamo un occhio, con la Natività di Cristo, bellissimo, et ancora un altro in San Rocco.
Mandonne eziandio in diversi luoghi come a Castiglion del Lago et a Fiorenza a Lodovico Capponi una per in Santa Felicita, dove è la tavola di Iacopo da Puntormo, pittore eccellentissimo, e la cappella lavorata da lui a olio in muro et in fresco et in tavola, la quale finestra venne nelle mani de' frati Gesuati, che in Fiorenza lavorano di tal mestiere, et essi la scommessero tutta per vedere i modi di quello e molti pezzi per saggi ne levarono e di nuovo vi rimessero, e finalmente la mutarono di quel ch'ella era.
Volse ancora colorire a olio e fece in San Francesco d'Arezzo alla cappella della Concezzione una tavola, nella quale sono alcune vestimenta molto ben condotte e molte teste vivissime e tanto belle che egli ne restò onorato per sempre, essendo questa la prima opera che egli avese mai fatta ad olio.
Era il priore persona molto onorevole e si dilettava cultivare et acconciare, onde, avendo compero un bellissimo casamento, fece in quello infiniti bonificamenti.
E come uomo religioso tenne di continuo costumi bonissimi et il rimorso della conscienza, per la partita che fece da' frati, lo teneva molto aggravato.
Per il che a San Domenico d'Arezzo, convento della sua Religione, fece una finestra alla cappella dell'altar maggiore bellissima, nella quale fece una vite ch'esce di corpo a San Domenico e fa infiniti santi frati i quali fanno lo albero della Religione et a sommo è la Nostra Donna e Cristo che sposa Santa Caterina sanese, cosa molto lodata e di gran maestria della quale non volse premio, parendoli avere molto obligo a quella Religione.
Mandò a Perugia in San Lorenzo una bellissima finestra et altre infinite in molti luoghi intorno ad Arezzo.
E perché era molto vago delle cose d'architettura, fece per quella terra a' cittadini assai disegni di fabbriche e di ornamenti per la città, le due porte di San Rocco di pietra e lo ornamento di macigno che si mise alla tavola di maestro Luca in San Girolamo.
Nella Badia a Cipriano d'Anghiari ne fece uno e nella Compagnia della Trinità alla cappella del Crocifisso un altro ornamento et un lavamani ricchissimo nella sagrestia, i quali Santi Scarpellino condusse in opera perfettamente.
Laonde egli, che di lavorare sempre aveva diletto, continuando il verno e la state il lavoro del muro, il quale chi è sano fa divenire infermo, prese tanta umidità che la borsa de' granelli si gli riempié d'acqua, talmente che, foratagli da' medici, in pochi giorni rese l'anima a chi gliene aveva donata.
E come buon cristiano prese i Sacramenti della chiesa e fece testamento.
Appresso, avendo speziale divozione nei romiti camaldolesi, i quali vicino ad Arezzo venti miglia sul giogo d'Apennino fanno congregazione, lasciò loro l'avere et il corpo suo.
Et a Pastorino da Siena suo garzone, ch'era stato seco molti anni, lasciò i vetri e le masserizie da lavorare et i suoi disegni che n'è nel nostro libro una storia, quando Faraone somerge nel Mar Rosso.
Il Pastorino ha poi atteso a molte altre cose pur dell'arte et alle finestre di vetro, ancora che abbia fatto poi poche cose di quella professione.
Lo seguitò anco molto un Maso Porro cortonese che valse più nel commetterle e nel cuocere i vetri che nel dipignerle.
Furono suoi creati Battista Borro aretino, il quale delle fenestre molto lo va imitando et insegnò i primi principii a Benedetto Spadari et a Giorgio Vasari aretino.
Visse il priore anni LXII e morì l'anno MDXXXVII.
Merita infinite lodi il priore, da che per lui in Toscana è condotta l'arte del lavorare i vetri con quella maestria e sottigliezza che desiderare si puote.
E perciò, sendoci stato di tanto beneficio, ancora saremo a lui d'onore e d'eterne lode amorevoli esaltandolo nella vita e nell'opere del continovo.
VITA DEL CRONACA ARCHITETTO FIORENTINO
Molti ingegni si perdono, i quali farebbono opere rare e degne, se nel venire al mondo percotessero in persone che sapessino e volessino mettergli in opera a quelle cose dove e' son buoni.
Dove egli avviene bene spesso che, chi può, non fa e non vuole; e se pure chi che sia vuole fare una qualche eccellente fabbrica, non si cura altrimenti cercare d'uno architetto rarissimo e d'uno spirito molto elevato; anzi mette lo onore e la gloria sua in mano a certi ingegni ladri che vituperano spesso il nome e la fama delle memorie.
E per tirare in grandezza chi dependa tutto da lui (tanto puote la ambizione) dà spesso bando a' disegni buoni che si gli dànno e mette in opera il più cattivo, onde rimane alla fama sua la goffezza dell'opera, stimandosi, per quegli che sono giudiciosi, l'artefice e chi lo fa operare essere d'uno animo istesso, da che ne l'opere si coniungono.
E per lo contrario, quanti sono stati i principi poco intendenti, i quali per essersi incontrati in persone eccellenti e di giudizio, hanno doppo la morte loro non minor fama avuto per le memorie delle fabriche che in vita si avessero per il dominio ne' popoli.
Ma veramente il Cronaca fu nel suo tempo avventurato; perciò che egli seppe fare, trovò chi di continuo lo mise in opera, et in cose tutte grandi e magnifiche.
Di costui si racconta che mentre Antonio Pollaiuolo era in Roma a lavorare le sepolture di bronzo che sono in San Pietro, gli capitò a casa un giovanetto suo parente, chiamato per proprio nome Simone, fuggitosi da Fiorenza per alcune quistioni, il quale, avendo molta inclinazione all'arte dell'architettura per essere stato con un maestro di legname, cominciò a considerare le bellissime anticaglie di quella città e dilettandosene le andava misurando con grandissima diligenzia.
Laonde seguitando, non molto poi che fu stato a Roma, dimostrò avere fatto molto profitto, sì nelle misure e sì nel metterete in opera alcuna cosa; per il che, fatto pensiero di tornarsene a Firenze, si partì di Roma et arrivato alla patria, per essere divenuto assai buon ragionatore, contava le maraviglie di Roma e d'altri luoghi, con tanta accuratezza che fu nominato da indi in poi il Cronaca: parendo veramente a ciascuno che egli fusse una cronaca di cose nel suo ragionamento.
Era dunque costui fattosi tale ch'e' fu ne' moderni tenuto il più eccellente architettore che fusse nella città di Fiorenza; per avere nel discernere i luoghi giudizio e per mostrare che era con lo ingegno più elevato che molti altri che attendevano a quel mestiero.
Conoscendosi per le opere sue quanto egli fussi buono imitatore delle cose antiche e quanto egli osservasse le regole di Vetruvio e le opere di Filippo di Ser Brunellesco.
Era allora in Fiorenza quel Filippo Strozzi, che oggi a differenza del figliuolo si chiama il Vecchio, il quale per le sue ricchezze desiderava lassare di sé alla patria et a' figliuoli, tra le altre, memoria di un bel palazzo.
Per la qual cosa Benedetto da Maiano, chiamato a questo effetto da lui, gli fece un modello isolato intorno intorno, che poi si mise in opera, ma non interamente, come si dirà di sotto, non volendo alcuni vicini fargli commodità de le case loro.
Onde cominciò il palazzo in quel modo che poté e condusse il guscio di fuori, avanti la morte di esso Filippo, presso che alla fine; il quale guscio è d'ordine rustico e graduato, come si vede, perciò che la parte de' bozzi dal primo finestrato in giù, insieme con le porte, è rustica grandemente e la parte che è dal primo finestrato al secondo è meno rustica assai.
Ora accadde che, partendosi Benedetto di Fiorenza, tornò a punto il Cronaca da Roma; onde essendo messo per le mani a Filippo, gli piacque tanto per il modello che gli fece del cortile e del cornicione che va di fuori intorno al palazzo, che, conosciuta l'eccellenza di quell'ingegno, volle che poi il tutto passasse per le sue mani, servendosi sempre poi di lui.
Fecevi dunque il Cronaca, oltra la bellezza di fuori con ordine toscano, in cima una cornice corinzia molto magnifica, che è per fine del tetto; della quale la metà al presente si vede finita con tanta singolar grazia che non vi si può apporre, né si può più bella disiderare.
Questa cornice fu ritratta dal Cronaca e tolta e misurata a punto in Roma da una antica che si truova a Spoglia Cristo, la quale, fra molte che ne sono in quella città, è tenuta bellissima; bene è vero ch'ella fu dal Cronaca ringrandita a proporzione del palazzo, acciò facesse proporzionato fine et anche col suo agetto tetto a quel palazzo, e così l'ingegno del Cronaca seppe servirsi delle cose d'altri e farle quasi diventar sue.
Il che non riesce a molti, perché il fatto sta non in aver solamente ritratti e' disegni di cose belle, ma in saperle accommodare secondo che è quello a che hanno a servire, con grazia, misura, proporzione e convenienza.
Ma quanto fu e sarà sempre lodata questa cornice del Cronaca, tanto fu biasimata quella che fece nella medesima città al palazzo de' Bartolini Baccio d'Agnolo, il quale pose sopra una facciata piccola e gentile di membra, per imitare il Cronaca, una gran cornice antica misurata a punto dal frontespizio di Monte Cavallo, ma tornò tanto male, per non avere saputo con giudizio accommodarla, che non potrebbe star peggio e pare sopra un capo piccino una gran berretta.
Non basta agl'artefici, come molti dicono, fatto ch'egli hanno l'opere, scusarsi con dire: elle sono misurate a punto dall'antico e sono cavate da' buoni maestri, atteso che il buon giudizio e l'occhio più giuoca in tutte le cose, che non fa la misura de le seste.
Il Cronaca dunque condusse la detta cornice con grande arte, insino al mezzo intorno intorno a quel palazzo, col dentello et uovolo, e da due bande la finì tutta, contrapesando le pietre in modo perché venissino bilicate e legate, che non si può veder cosa murata meglio, né condotta con più diligenza a perfezzione.
Così anche tutte l'altre pietre di questo palazzo sono tanto finite e ben commesse ch'elle paiono non murate, ma tutte d'un pezzo.
E perché ogni cosa corrispondesse fece fare per ornamento del detto palazzo ferri bellissimi per tutto e le lumiere che sono in su' canti, e tutti furono da Niccolò Grosso Caparra, fabro fiorentino, con grandissima diligenza lavorate.
Vedesi in quelle lumiere maravigliose le cornici, le colonne, i capitegli e le mensole saldate di ferro con maraviglioso magistero.
Né mai ha lavorato moderno alcuno di ferro machine sì grandi e sì difficili con tanta scienza e pratica.
Fu Niccolò Grosso persona fantastica e di suo capo, ragionevole nelle sue cose e d'altri, né mai voleva di quel d'altrui.
Non volse mai far credenza a nessuno de' suoi lavori, ma sempre voleva l'arra.
E per questo Lorenzo de' Medici lo chiamava il Caparra e da molti altri ancora per tal nome era conosciuto.
Egli aveva appiccato alla sua bottega una insegna, ne la quale erano libri ch'ardevano; per il che, quando uno gli chiedeva tempo a pagare, gli diceva: "Io non posso, perché i miei libri abbrucciano e non vi si può più scrivere debitori".
Gli fu dato a fare, per i signori Capitani di parte Guelfa, un paio d'alari, i quali avendo egli finiti, più volte gli furono mandati a chiedere.
Et egli di continuo usava dire: "Io sudo e duro fatica su questa encudine e voglio che qui su mi siano pagati i miei danari".
Per che essi di nuovo rimandorno per il lor lavoro et a dirgli che per i danari andasse che subito sarebbe pagato, et egli ostinato rispondeva che prima gli portassero i danari.
Laonde il proveditore venuto in collera, perché i capitani gli volevano vedere, gli mandò dicendo ch'esso aveva avuto la metà dei danari e che mandasse gli alari che del rimanente lo sodisfarebbe.
Per la qual cosa il Caparra, avvedutosi del vero, diede al donzello uno alar solo, dicendo: "Te' porta questo ch'è il loro e, se piace a essi, porta l'intero pagamento che te gli darò, perciò che questo è mio".
Gli ufficiali, veduto l'opera mirabile che in quello aveva fatto, gli mandarono i danari a bottega et esso mandò loro l'altro alare.
Dicono ancora che Lorenzo de' Medici volse far fare ferramenti per mandare a donar fuora, acciò che l'eccellenza del Caparra si vedesse; per che andò egli stesso in persona a bottega sua e per avventura trovò che lavorava alcune cose che erano di povere persone da le quali aveva avuto parte del pagamento per arra; richiedendolo dunque Lorenzo, egli mai non gli volse promettere di servirlo se prima non serviva coloro, dicendogli che erano venuti a bottega inanzi a lui e che tanto stimava i danari loro quanto quei di Lorenzo.
Al medesimo portarono alcuni cittadini giovani un disegno perché facesse loro un ferro da sbarrare e rompere altri ferri con una vite, ma egli non gli volle altrimenti servire, anzi sgridandogli disse loro: "Io non voglio per niun modo in così fatta cosa servirvi, perciò che non sono se non instrumenti da ladri e da rubare o svergognare fanciulle.
Non sono vi dico cosa per me, né per voi, i quali mi parete uomini da bene".
Costoro, veggendo che il Caparra non voleva servirgli, dimandarono chi fusse in Fiorenza che potesse servirgli; per che venuto egli in collera con dir loro una gran villania se gli levò d'intorno.
Non volle mai costui lavorare a Giudei, anzi usava dire che i loro danari erano fraccidi e putivano.
Fu persona buona e religiosa, ma di cervello fantastico et ostinato: né volendo mai partirsi di Firenze, per offerte che gli fussero fatte, in quella visse e morì.
Ho di costui voluto fare questa memoria, perché invero nell'esercizio suo fu singolare e non ha mai avuto, né averà pari, come si può particolarmente vedere ne' ferri e nelle bellissime lumiere di questo palazzo degli Strozzi, il quale fu condotto a fine dal Cronaca et adornato d'un ricchissimo cortile d'ordine corinzio e dorico con ornamenti di colonne, capitelli, cornici, fenestre e porte bellissime.
E se a qualcuno paresse che il didentro di questo palazzo non corrispondesse al difuori, sappia che la colpa non è del Cronaca, perciò che fu forzato accommodarsi dentro al guscio principiato da altri e seguitare in gran parte quello che da altri era stato messo inanzi, e non fu poco che lo riducesse a tanta bellezza, quanta è quella che vi si vede.
Il medesimo si risponde a coloro che dicessino che la salita delle scale non è dolce, né di giusta misura, ma troppo erta e repente; e così anco a chi dicesse che le stanze e gl'altri apartamenti di dentro non corrispondessino, come si è detto, alla grandezza e magnificenza di fuori.
Ma non perciò sarà mai tenuto questo palazzo, se non veramente magnifico e pari a qualsivoglia privata fabrica, che sia stata in Italia a' nostri tempi edificata.
Onde meritò e merita il Cronaca, per questa opera, infinita comendazione.
Fece il medesimo la sagrestia di Santo Spirito in Fiorenza, che è un tempio a otto facce, con bella proporzione e condotto molto pulitamente.
E fra l'altre cose, che in questa opera si veggiono, vi sono alcuni capitelli condotti dalla felice mano d'Andrea dal Monte Sansovino, che sono lavorati con somma perfezzione.
E similmente il ricetto della detta sagrestia, che è tenuto di bellissima invenzione, se bene il partimento come si dirà non è su le colonne ben partito.
Fece anco il medesimo la chiesa di S.
Francesco dell'Osservanza in sul poggio di San Miniato fuor di Firenze e similmente tutto il convento de' frati de' Servi, che è cosa molto lodata.
Ne' medesimi tempi, dovendosi fare, per consiglio di fra' Ieronimo Savonarola, allora famosissimo predicatore, la gran sala del Consiglio nel palazzo della Signoria di Firenze, ne fu preso parere con Lionardo da Vinci, Michelagnolo Buonaroti, ancora che giovanetto, Giuliano da San Gallo, Baccio d'Agnolo e Simone del Pollaiuolo detto il Cronaca, il quale era molto amico e divoto del Savonarola.
Costoro dunque, dopo molte dispute, dettono ordine d'accordo che la sala si facesse in quel modo ch'ell'è poi stata sempre insino che ella si è ai giorni nostri quasi rinovata, come si è detto e si dirà in altro luogo.
E di tutta l'opera fu dato il carico al Cronaca, come ingegnoso et anco come amico di fra' Girolamo detto, et egli la condusse con molta prestezza e diligenza e particolarmente mostrò bellissimo ingegno nel fare il tetto, per essere l'edifizio grandissimo per tutti i versi.
Fece dunque l'asticciuola del cavallo, che è lunga braccia trentotto da muro a muro, di più travi commesse insieme, augnate et incatenate benissimo, per non esser possibile trovar legni a proposito di tanta grandezza e dove gl'altri cavalli hanno un monaco solo, tutti quelli di questa sala n'hanno tre per ciascuno, uno grande nel mezzo et uno da ciascun lato, minori.
Gl'arcali sono lunghi a proporzione e così i puntoni di ciascun monaco, né tacerò che i puntoni de' monaci minori pontano dal lato verso il muro nell'arcale e verso il mezzo nel puntone del monaco maggiore.
Ho voluto raccontare in che modo stanno questi cavalli, perché furono fatti con bella considerazione et io ho veduto disegnargli da molti, per mandare in diversi luoghi.
Tirati su questi così fatti cavalli e posti l'uno lontano dall'altro sei braccia e posto similmente in brevissimo tempo il tetto, fu fatto dal Cronaca conficcare il palco, il quale allora fu fatto di legname semplice e compartito a quadri, de' quali ciascuno per ogni verso era braccia quattro, con ricignimento a torno di cornice e pochi membri; e, tanto quanto erano grosse le travi, fu fatto un piano che rigirava intorno ai quadri et a tutta l'opera, con borchioni in su le crociere e cantonate di tutto il palco.
E perché le due testate di questa sala, una per ciascun lato, erano fuor di squadra otto braccia, non presono, come arebbono potuto fare, risoluzione d'ingrossare le mura per ridurla in isquadra, ma seguitarono le mura eguali insino al tetto, con fare tre finestre grandi per ciascuna delle facciate delle teste.
Ma, finito il tutto, riuscendo loro questa sala per la sua straordinaria grandezza cieca di lumi e, rispetto al corpo così lungo e largo, nana e con poco sfogo d'altezza et insomma quasi tutta sproporzionata, cercarono, ma non giovò molto, l'aiutarla col fare dalla parte di levante due finestre nel mezzo della sala e quattro dalla banda di ponente.
Appresso, per darle ultimo fine, feciono in sul piano del mattonato, con molta prestezza, essendo a ciò sollecitati dai cittadini, una ringhiera di legname intorno intorno alle mura di quella, larga et alta tre braccia, con i suoi sederi a uso di teatro e con balaustri dinanzi, sopra la quale ringhiera avevano a stare tutti i magistrati della città.
E nel mezzo della facciata, che è volta a levante, era una residenza più eminente, dove col Confaloniere di iustizia stavano i Signori; e da ciascun lato di questo più eminente luogo erano due porte, una delle quali entrava nel segreto e l'altra nello specchio, e nella facciata che è dirimpetto a questa, dal lato di ponente, era un altare dove si diceva messa con una tavola di mano di fra' Bartolomeo, come si è detto, et a canto all'altare la bigoncia da orare.
Nel mezzo poi della sala erano panche in fila et a traverso, per i cittadini; e nel mezzo della ringhiera et in su le cantonate erano alcuni passi con sei gradi che facevano salita e commodo ai tavolacini, per raccorre i partiti.
In questa sala, che fu allora molto lodata, come fatta con prestezza e con molte belle considerazioni, ha poi meglio scoperto il tempo gli errori dell'esser bassa, scura, malinconica e fuor di squadra.
Ma nondimeno meritano il Cronaca e gl'altri di esser scusati, sì per la prestezza con che fu fatta, come volleno i cittadini, con animo d'ornarla col tempo di pitture e metter il palco d'oro, e sì perché infino allora non era stato fatto in Italia la maggior sala, ancor che grandissime siano quella del palazzo di S.
Marco in Roma, quella del Vaticano fatta da Pio II et Innocenzio Ottavo, quella del castello di Napoli, del palazzo di Milano, d'Urbino, di Vinezia e di Padoa.
Dopo questo fece il Cronaca, col consiglio dei medesimi, per salire a questa sala, una scala grande, larga sei braccia, ripiegata in due salite e ricca d'ornamenti di macigno, con pilastri e capitelli corinzi e cornici doppie, e con archi della medesima pietra, le volte a mezza botte e le finestre con colonne di mischio et i capitelli di marmo intagliato.
Et ancora che questa opera fusse molto lodata, più sarebbe stata se questa scala non fusse riuscita malagevole e troppo ritta, essendo che si poteva far più dolce, come si sono fatte al tempo del Duca Cosimo, nel medesimo spazio di larghezza e non più, le scale nuove fatte da Giorgio Vasari, dirimpetto a questa del Cronaca, le quali sono tanto dolci et agevoli che è quasi il salirle come andare per piano.
E ciò è stato opera del detto signor Duca Cosimo, il quale, come è in tutte le cose e nel governo de' suoi popoli di felicissimo ingegno e di grandissimo giudizio, non perdona né a spesa, né a cosa veruna, perché tutte le fortificazioni et edificii publici e privati corrispondino alla grandezza del suo animo e siano non meno belli che utili, né meno utili che belli.
Considerando dunque Sua Eccellenza che il corpo di questa sala è il maggiore e più magnifico e più bello di tutta Europa, si è risoluta, in quelle parti che sono difettose, d'acconciarla et in tutte l'altre col disegno et opera di Giorgio Vasari aretino farla ornatissima sopra tutti gl'edifizii d'Italia; e così, alzata la grandezza delle mura sopra il vecchio dodici braccia, di maniera che è alta, dal pavimento al palco, braccia trentadua, si sono ristaurati i cavalli fatti dal Cronaca, che reggono il tetto, e rimessi in alto con nuovo ordine e rifatto il palco vecchio che era ordinario e semplice e non ben degno di quella sala, con vario spartimento, ricco di cornici, pieno d'intagli e tutto messo d'oro, con trentanove tavole di pitture in quadri, tondi et ottangoli, la maggior parte de' quali sono di nove braccia l'uno et alcuni maggiori, con istorie di pitture a olio, di figure, di sette o otto braccia le maggiori.
Nelle quali storie, cominciandosi dal primo principio, sono gl'accrescimenti e gl'onori, le vittorie e tutti i fatti egregii della città di Fiorenza e del dominio; e particolarmente la guerra di Pisa e di Siena con una infinità d'altre cose, che troppo sarei lungo a raccontarle.
E si è lasciato conveniente spazio di sessanta braccia per ciascuna delle facciate dalle bande, per fare in ciascuna tre storie che corrispondino al palco quanto tiene lo spazio di sette quadri da ciascun lato che trattano delle guerre di Pisa e di Siena.
I quali spartimenti delle facciate sono tanto grandi che non si sono anco veduti maggiori spazii per fare istorie di pitture, né dagl'antichi, né dai moderni.
E sono i detti spartimenti ornati di pietre grandissime, le quali si congiungono alle teste della sala, dove da una parte, cioè verso tramontana, ha fatto finire il signor Duca, secondo che era stata cominciata e condotta a buon termine da Baccio Bandinelli, una facciata piena di colonne e pilastri e di nicchie piene di statue di marmo, il quale appartamento ha da servire per udienza publica, come a suo luogo si dirà.
Dall'altra banda dirimpetto a questa, ha da esser in un'altra simile facciata, che si fa dall'Amannato, scultore et architetto, una fonte che getti acqua nella sala, con ricco e bellissimo ornamento di colonne e di statue di marmo e di bronzo.
Non tacerò che per essersi alzato il tetto di questa sala dodici braccia, ella n'ha acquistato non solamente sfogo, ma lumi assaissimi, perciò che oltre gl'altri, che sono più in alto, in ciascuna di queste testate vanno tre grandissime finestre, che verranno col piano sopra un corridore, che fa loggia dentro la sala e da un lato, sopra l'opera del Bandinello, donde si scoprirà tutta la piazza con bellissima veduta.
Ma di questa sala e degli altri acconcimi che in questo palazzo si sono fatti e fanno si ragionerà in altro luogo più lungamente.
Questo per ora dirò io, che, se il Cronaca e quegli altri ingegnosi artefici che dettono il disegno di questa sala potessino ritornar vivi, per mio credere non riconoscerebbero né il palazzo, né la sala, né cosa che vi sia; la qual sala, cioè quella parte che è in isquadra, è lunga braccia novanta e larga braccia trentotto, senza l'opere del Bandinello e dell'Amannato.
Ma tornando al Cronaca, ne gl'ultimi anni della sua vita, eragli entrato nel capo tanta frenesia delle cose di fra' Girolamo Savonarola che altro che di quelle sue cose non voleva ragionare.
E così vivendo, finalmente d'anni LV d'una infirmità assai lunga si morì.
E fu onoratamente sepolto nella chiesa di Santo Ambruogio di Fiorenza nel MDIX, e non dopo lungo spazio di tempo gli fu fatto questo epitaffio da Messer Giovanbattista Strozzi:
CRONACA
Vivo, e mille, e mille anni, e mille ancora
mercé de' vivi miei palazzi e tempi
bella Roma vivrà l'alma mia Flora.
Ebbe il Cronaca un fratello chiamato Matteo, che attese alla scultura e stette con Antonio Rossellino scultore, et ancor che fusse di bello e buono ingegno, disegnasse bene et avesse buona pratica ne lavorare di marmo, non lasciò alcuna opera finita perché, togliendolo al mondo la morte d'anni XIX, non poté adempiere quello che di lui, chiunque lo conobbe, si prometteva.
VITA DI DOMENICO PULIGO PITTORE FIORENTINO
È cosa maravigliosa, anzi stupenda, che molti nell'arte della pittura, nel continuo esercitare e maneggiare i colori, per instinto di natura, o per un uso di buona maniera presa senza disegno alcuno o fondamento, conducono le cose loro a sì fatto termine che elle si abbattono molte volte a essere così buone che, ancor che gl'artefici loro non siano de' rari, elle sforzano gl'uomini ad averle in somma venerazione e lodarle.
E si è veduto già molte volte et in molti nostri pittori che coloro che fanno l'opere loro più vivaci e più perfette, i quali hanno naturalmente bella maniera e si esercitano con fatica e studio continuamente, perché ha tanta forza questo dono della natura che, benché costoro stracurino e lascino gli studi dell'arte et altro non seguino che l'uso solo del dipignere e del maneggiare i colori con grazia infuso dalla natura, apparisce nel primo aspetto dell'opere loro ch'ella mostrano tutte le parti eccellenti e maravigliose che sogliono minutamente apparire ne' lavori di que' maestri che noi tenghiamo migliori.
E che ciò sia vero l'esperienza ce lo dimostra a' tempi nostri nell'opere di Domenico Puligo, pittore fiorentino, nelle quali da chi ha notizia delle cose dell'arte si conosce quello che si è detto di sopra chiaramente.
Mentre che Ridolfo di Domenico Grillandaio lavorava in Firenze assai cose di pittura, come si dirà, seguitando l'umore del padre, tenne sempre in bottega molti giovani a dipignere, il che fu cagione, per concorrenza l'uno dell'altro, che assai ne riuscirono bonissimi maestri, alcuni in fare ritratti di naturale, altri in lavorare a fresco et altri a tempera et in dipignere speditamente drappi.
A costoro facendo Ridolfo lavorare quadri, tavole e tele, in pochi anni ne mandò con suo molto utile una infinità in Inghilterra, nell'Alemagna et in Ispagna.
E Baccio Gotti e Toto del Nunziata, suoi discepoli, furono condotti, uno in Francia al re Francesco e l'altro in Inghilterra al re, che gli chiesono per aver prima veduto dell'opere loro.
Due altri discepoli del medesimo restarono e si stettono molti anni con Ridolfo, perché, ancora che avessero molte richieste da mercanti e da altri in Ispagna et in Ungheria, non vollono mai, né per promesse, né per danari privarsi delle dolcezze della patria, nella quale avevano da lavorare più che non potevano.
Uno di questi fu Antonio del Ceraiuolo fiorentino, il quale essendo molti anni stato con Lorenzo di Credi aveva da lui particolarmente imparato a ritrarre tanto bene di naturale, che con facilità grandissima faceva i suoi ritratti similissimi al naturale, ancor che in altro non avesse molto disegno.
Et io ho veduto alcune teste di sua mano ritratte dal vivo che, ancor che abbiano, verbi grazia, il naso torto, un labro piccolo et un grande et altre sì fatte disformità, somigliano nondimeno il naturale, per aver egli ben preso l'aria di colui.
Là dove per contrario molti eccellenti maestri hanno fatto pitture e ritratti di tutta perfezzione in quanto all'arte, ma non somigliano, né poco, né assai colui per cui sono stati fatti.
E per dire il vero chi fa ritratti, dee ingegnarsi, senza guardare a quello che si richiede in una perfetta figura, fare che somiglino colui per cui si fanno.
Ma quando somigliano e sono anco belli allora si possono dir opere singolari e gl'artefici loro eccellentissimi.
Questo Antonio dunque, oltre a molti ritratti fece molte tavole per Firenze, ma farò solamente, per brevità, menzione di due che sono una in San Jacopo tra' Fossi al canto agl'Alberti, nella quale fece un Crocifisso con Santa Maria Madalena e San Francesco; nell'altra, che è nella Nunziata, è un San Michele che pesa l'anime.
L'altro dei due sopra detti fu Domenico Puligo, il quale fu di tutti gl'altri sopra nominati più eccellente nel disegno e più vago e grazioso nel colorito.
Costui dunque, considerando che il suo dipignere con dolcezza senza tignere l'opere o dar loro crudezza, ma che il fare a poco a poco sfuggire i lontani, come velati da una certa nebbia, dava rilievo e grazia alle sue pitture, e che se bene i contorni delle figure che faceva si andavano perdendo, in modo che occultando gl'errori non si potevano vedere ne' fondi dove erano terminate le figure; che nondimeno il suo colorire e la bell'aria delle teste facevano piacere l'opere sue; tenne sempre il medesimo modo di fare e la medesima maniera che lo fece essere in pregio mentre che visse.
Ma lasciando da canto il far memoria de' quadri e de' ritratti che fece stando in bottega di Ridolfo, che parte furono mandati di fuori e parte servirono la città, dirò solamente di quelle che fece quando fu più tosto amico e concorrente di esso Ridolfo che discepolo; e di quelle che fece essendo tanto amico d'Andrea del Sarto, che niuna cosa aveva più cara che vedere quell'uomo in bottega sua, per imparare da lui, mostrargli le sue cose e pigliarne parere, per fuggire i diffetti e gl'errori in che incorrono molte volte coloro che non mostrano a nessuno dell'arte quello che fanno; i quali, troppo fidandosi del proprio giudizio, vogliono anzi essere biasimati dall'universale, fatte che sono l'opere, che corregerle mediante gl'avvertimenti degl'amorevoli amici.
Fece fra le prime cose Domenico un bellissimo quadro di Nostra Donna a Messer Agnolo della Stufa, che l'ha alla sua badia di Capalona nel contado d'Arezzo e lo tiene carissimo, per essere stato condotto con molta diligenza e bellissimo colorito.
Dipinse un altro quadro di Nostra Donna, non meno bello che questo, a Messer Agnolo Niccolini, oggi arcivescovo di Pisa e cardinale, il quale l'ha nelle sue case a Fiorenza al Canto de' Pazzi.
E parimente un altro di simile grandezza e bontà, che è oggi appresso Filippo dell'Antella in Fiorenza.
In un altro, che è grande circa tre braccia, fece Domenico una Nostra Donna intera col Putto fra le ginocchia, un San Giovannino et un'altra testa; il qual quadro, che è tenuto delle migliori opere che facesse, non si potendo vedere il più dolce colorito, è oggi appresso Messer Filippo Spini, tesauriere dell'illustrissimo Prencipe di Fiorenza magnifico gentiluomo e che molto si diletta delle cose di pittura.
Fra' molti ritratti che Domenico fece di naturale, che tutti sono belli e molto somigliano, quello è bellissimo che fece di monsignore Messer Piero Carnesecchi allora bellissimo giovinetto, al quale fece anco alcuni altri quadri tutti belli e condotti con molta diligenza.
Ritrasse anco in un quadro la Barbara Fiorentina in quel tempo famosa, bellissima cortigiana e molto amata da molti non meno che per la bellezza, per le sue buone creanze e particolarmente per essere bonissima musica e cantare divinamente.
Ma la migliore opera che mai condusse Domenico fu un quadro grande, dove fece quanto il vivo una Nostra Donna con alcuni Angeli e putti et un San Bernardo che scrive; il qual quadro è oggi appresso Giovangualberto del Giocondo e Messer Niccolò suo fratello, canonico di San Lorenzo di Firenze.
Fece il medesimo molti altri quadri che sono per le case de' cittadini e particolarmente alcuni dove si vede la testa di Cleopatra, che si fa mordere da un aspide la poppa; et altri dove è Lucrezia romana, che si uccide con un pugnale.
Sono anco di mano del medesimo alcuni ritratti di naturale e quadri molto belli alla porta a Pinti in casa di Giulio Scali, uomo non meno di bellissimo giudizio nelle cose delle nostre arti che in tutte l'altre migliori e più lodate professioni.
Lavorò Domenico a Francesco del Giocondo, in una tavola per la sua capella nella tribuna maggiore della chiesa de' Servi in Fiorenza, un San Francesco che riceve le stimmate; la quale opera è molto dolce di colorito e morbidezza e lavorata con molta diligenza.
E nella chiesa di Cestello intorno al tabernacolo del Sagramento lavorò a fresco due Angeli; e nella tavola d'una cappella della medesima chiesa fece la Madonna co'l Figliuolo in braccio, San Giovanni Battista e San Bernardo et altri Santi.
E perché parve ai monaci di quel luogo che si portasse in queste opere molto bene, gli feciono fare alla loro Badia di Settimo fuor di Fiorenza in un chiostro le visioni del conte Ugo, che fece sette badie.
E non molto dopo dipinse il Puligo in sul canto di via Mozza da Santa Caterina in un tabernacolo una Nostra Donna ritta col Figliuolo in collo, che sposa Santa Caterina; et un San Piero martire.
Nel castello d'Anghiari fece in una Compagnia un Deposto di Croce, che si può fra le sue migliori opere annoverare.
Ma perché fu più sua professione attendere a quadri di Nostre Donne, ritratti et altre teste che a cose grandi, consumò quasi tutto il tempo in quelle.
E se egli avesse seguitato le fatiche dell'arte e non più tosto i piaceri del mondo come fece, arebbe fatto senza alcun dubbio molto profitto nella pittura, e massimamente avendolo Andrea del Sarto suo amicissimo aiutato in molte cose di disegni e di consiglio.
Onde molte opere di costui si veggiono non meno ben disegnate che colorite, con bella e buona maniera.
Ma l'avere per suo uso Domenico non volere durare molta fatica e lavorare più per fare opere e guadagnare che per fama, fu cagione che non passò più oltre: perché praticando con persone allegre e di buon tempo e con musici e con femmine, seguitando certi suoi amori, si morì d'anni cintuantadua l'anno MDXXVII per avere presa la peste in casa d'una sua innamorata.
Furono da costui i colori con sì buona et unita maniera adoperati, che più per questo merita lode che per altro.
Fu suo discepolo fra gl'altri Domenico Beceri fiorentino, il quale, adoperando i colori pulitamente, con buonissima maniera conduce l'opere sue.
VITA DI ANDREA DA FIESOLE SCULTORE E D'ALTRI FIESOLANI
Perché non meno si richiede agli scultori avere pratica de' ferri che a chi esercita la pittura quella de' colori, di qui avviene che molti fanno di terra benissimo, che poi di marmo non conducono l'opere a veruna perfezzione; et alcuni per lo contrario lavorano bene il marmo, senza avere altro disegno che un non so che che hanno nell'idea di buona maniera, la imitazione della quale si trae da certe cose che al giudizio piacciano, e che poi, tolte all'imaginazione, si mettono in opera.
Onde è quasi una maraviglia vedere alcuni scultori, che senza saper punto disegnare in carta, conducono nondimeno coi ferri l'opere loro a buono e lodato fine; come si vide in Andrea di Piero di Marco Ferrucci, scultore da Fiesole, il quale nella sua prima fanciullezza imparò i principii della scultura da Francesco di Simone Ferucci, scultore da Fiesole.
E, se bene da principio imparò solamente a intagliare fogliami, acquistò nondimeno a poco a poco tanta pratica nel fare che non passò molto che si diede a far figure; di maniera che, avendo la mano resoluta e veloce, condusse le sue cose di marmo più con un certo giudizio e pratica naturale, che per disegno che egli avesse.
Ma nondimeno attese un poco più all'arte, quando poi seguitò nel colmo della sua gioventù Michele Maini scultore, similmente da Fiesole.
Il quale Michele fece nella Minerva di Roma il San Sebastiano di marmo, che fu tanto lodato in que' tempi.
Andrea dunque, essendo condotto a lavorare a Imola, fece negl'Innocenti di quella città una cappella di macigno che fu molto lodata.
Dopo la quale opera se n'andò a Napoli, essendo là chiamato da Antonio di Giorgio da Settignano, grandissimo ingegneri et architetto del re Ferrante, appresso al quale era in tanto credito Antonio, che non solo maneggiava tutte le fabriche del regno, ma ancora tutti i più importanti negozii dello stato.
Giunto Andrea in Napoli, fu messo in opera e lavorò molte cose nel castello di San Martino et in altri luoghi della città per quel re.
Ma venendo a morte Antonio, poi che fu fatto sepelire da quel re non con esequie da architettore, ma reali e con venti coppie d'imbastiti che l'accompagnarono alla sepoltura, Andrea si partì da Napoli, conoscendo che quel paese non faceva per lui, e se ne tornò a Roma, dove stette per qualche tempo attendendo agli studi dell'arte et a lavorare.
Dopo, tornato in Toscana, lavorò in Pistoia, nella chiesa di San Iacopo, la cappella di marmo dove è il battesimo, e con molta diligenza condusse il vaso di detto battesimo con tutto il suo ornamento.
E nella faccia della cappella fece due figure grandi quanto il vivo di mezzo rilievo, cioè San Giovanni che battezza Cristo, molto ben condotta e con bella maniera.
Fece nel medesimo tempo alcune altre opere piccole, delle quali non accade far menzione.
Dirò bene che, ancora che queste cose fussero fatte da Andrea più con pratica che con arte, si conosce nondimeno in loro una resoluzione et un gusto di bontà molto lodevole.
E nel vero se così fatti artefici avessero congiunto alla buona pratica et al giudizio il fondamento del disegno, vincerebbono d'eccellenza coloro che, disegnando perfettamente, quando si mettono a lavorare il marmo lo graffiano e con istento in mala maniera lo conducono, per non avere pratica e non sapere maneggiare i ferri con quella pratica che si richiede.
Dopo queste cose, lavorò Andrea nella chiesa del Vescovado di Fiesole una tavola di marmo, posta nel mezzo fra le due scale che sagliono al coro di sopra, dove fece tre figure tonde et alcune storie di basso rilievo.
Et in San Girolamo di Fiesole fece la tavolina di marmo che è murata nel mezzo della chiesa.
Per la fama di queste opere venuto Andrea in cognizione, gli fu da gl'Operai di Santa Maria del Fiore, allora che Giulio cardinale de' Medici governava Fiorenza, dato a fare la statua d'uno Apostolo di quattro braccia, in quel tempo dico che altre quattro simili ne furono allogate in un medesimo tempo: una a Benedetto da Maiano, una a Iacopo Sansovino, una a Baccio Bandinelli e l'altra a Michelagnolo Buonarroti; le quali statue avevano a essere insino al numero di dodici e doveano porsi dove i detti Apostoli sono in quel magnifico tempio dipinti di mano di Lorenzo di Bicci.
Andrea, dunque, condusse la sua con più bella pratica e giudizio che con disegno e n'acquistò, se non lode quanto gl'altri, nome di assai buono e pratico maestro.
Onde lavorò poi quasi di continuo per l'opera di detta chiesa e fece la testa di Marsilio Ficino, che in quella si vede dentro alla porta che va alla canonica.
Fece anco una fonte di marmo che fu mandata al re d'Ungheria, la quale gli acquistò grande onore; fu di sua mano ancora una sepoltura di marmo che fu mandata similmente in Strigonia città d'Ungheria, nella quale era una Nostra Donna molto ben condotta con altre figure, nella quale sepoltura fu poi riposto il corpo del cardinale di Strigonia.
A Volterra mandò Andrea due Angeli tondi di marmo, et a Marco del Nero, fiorentino, fece un Crocifisso di legno grande quanto il vivo, che è oggi in Fiorenza nella chiesa di Santa Felicita.
Un altro minore ne fece per la Compagnia dell'Assunta di Fiesole.
Dilettossi anco Andrea dell'architettura e fu maestro del Mangone, scarpellino et architetto, che poi in Roma condusse molti palazzi et altre fabriche assai acconciamente.
Andrea finalmente, essendo fatto vecchio, attese solamente alle cose di quadro, come quello che, essendo persona modesta e da bene, più amava di vivere quietamente che alcun'altra cosa.
Gli fu allogata da Madonna Antonia Vespucci la sepoltura di Messer Antonio Strozzi suo marito, ma non potendo egli molto lavorare da per sé, gli fece i due Angeli Maso Boscoli da Fiesole, suo creato, che ha poi molte opere lavorato in Roma et altrove; e la Madonna fece Silvio Cosini da Fiesole, ma non fu messa su subito che fu fatta, il che fu l'anno MDXXII, perché Andrea si morì e fu sotterrato dalla Compagnia dello Scalzo ne' Servi.
E Silvio poi, posta su la detta Madonna e finita di tutto punto la detta sepoltura dello Strozzi, seguitò l'arte della scultura con fierezza straordinaria, onde ha poi molte cose lavorato leggiadramente e con bella maniera, et ha passato infiniti e massimamente in bizzarria di cose alla grottesca, come si può vedere nella sagrestia di Michelagnolo Buonarroti in alcuni capitelli di marmo intagliati sopra i pilastri delle sepolture con alcune maschere tanto bene straforate che non è possibile veder meglio.
Nel medesimo luogo fece alcune fregiature di maschere che gridano, molto belle; per che, veduto il Buonarroto l'ingegno e la pratica di Silvio, gli fece cominciare alcuni trofei per fine di quelle sepolture, ma rimasono imperfetti insieme con altre cose per l'assedio di Firenze.
Lavorò Silvio una sepoltura per i Minerbetti nella loro cappella nel tramezzo della chiesa di Santa Maria Novella, tanto bene quanto sia possibile, perché, oltre la cassa, che è di bel garbo, vi sono intagliate alcune targhe, cimieri et altre bizzarrie con tanto disegno quanto si possa in simile cosa desiderare.
Essendo Silvio a Pisa, l'anno MDXXVIII, vi fece un Angelo che mancava sopra una colonna all'altare maggiore del Duomo, per riscontro di quello del Tribolo, tanto simile al detto che non potrebbe essere più quando fussero d'una medesima mano.
Nella chiesa di Monte Nero vicino a Livorno fece una tavoletta di marmo con due figure ai frati Ingesuati; et in Volterra fece la sepoltura di Messer Raffaello Volaterrano, uomo dottissimo, nella quale lo ritrasse di naturale sopra una cassa di marmo con alcuni ornamenti e figure.
Essendo poi mentre era l'assedio intorno a Firenze, Niccolò Caponi onoratissimo cittadino, morto in Castel Nuovo della Garfagnana nel ritornare da Genoa, dove era stato ambasciatore della sua republica all'imperatore, fu mandato con molta fretta Silvio a formarne la testa, perché poi ne facesse una di marmo, sì come n'aveva condotto una di cera bellissima.
E perché abitò Silvio qualche tempo con tutta la famiglia in Pisa, essendo della Compagnia della Misericordia, che in quella città accompagna i condannati alla morte insino al luogo della iustizia, gli venne una volta capriccio, essendo sagrestano, della più strana cosa del mondo.
Trasse una notte il corpo d'uno, che era stato impiccato il giorno inanzi, della sepoltura, e dopo averne fatto notomia per conto dell'arte, come capriccioso e forse maliastro e persona che prestava fede agl'incanti e simili sciocchezze, lo scorticò tutto, et acconciata la pelle, secondo che gl'era stato insegnato, se ne fece, pensando che avesse qualche gran virtù, un coietto, e quello portò per alcun tempo sopra la camicia, senza che nessuno lo sapesse già mai.
Ma essendone una volta sgridato da un buon padre, a cui confessò la cosa, si trasse costui di dosso il coietto e, secondo che dal frate gli fu imposto, lo ripose in una sepoltura.
Molte altre simili cose si potrebbono raccontare di costui, ma non facendo al proposito della nostra storia si passono con silenzio.
Essendogli morta la prima moglie in Pisa, se n'andò a Carrara e qui standosi a lavorare alcune cose, prese un'altra donna, colla quale non molto dopo se n'andò a Genoa, dove, stando a' servigii del Principe Doria, fece di marmo sopra la porta del suo palazzo un'arme bellissima e per tutto il palazzo molti ornamenti di stucchi, secondo che da Perino del Vaga pittore gli erano ordinati; fecevi anco un bellissimo ritratto di marmo di Carlo V imperatore.
Ma perché Silvio per suo natural costume non dimorava mai lungo tempo in un luogo, né aveva fermezza, increscendogli lo stare troppo bene in Genova, si mise in cammino per andare in Francia, ma partitosi prima che fusse al Monsanese tornò indietro e, fermatosi in Milano, lavorò nel Duomo alcune storie e figure e molti ornamenti con sua molta lode.
E finalmente vi si morì d'età d'anni quarantacinque.
Fu costui di bello ingegno, capriccioso e molto destro in ogni cosa e persona che seppe condurre con molta diligenza qualunche cosa si metteva fra mano; si dilettò di comporre sonetti e di cantare all'improvviso, e nella sua prima giovanezza attese all'armi.
Ma se egli avesse fermo il pensiero alla scultura et al disegno, non arebbe avuto pari; e come passò Andrea Ferruzzi suo maestro, così arebbe ancora, vivendo, passato molti altri ch'hanno avuto nome d'eccellenti maestri.
Fiorì ne' medesimi tempi d'Andrea e di Silvio un altro scultore fiesolano, detto il Cicilia, il quale fu persona molto pratica; vedesi di sua mano nella chiesa di San Iacopo in campo Corbolini di Fiorenza la sepoltura di Messer Luigi Tornabuoni cavaliere, la quale è molto lodata e massimamente per avere egli fatto lo scudo dell'arme di quel cavaliere nella testa d'un cavallo, quasi per mostrare, secondo gl'antichi, che dalla testa del cavallo fu primieramente tolta la forma degli scudi.
Ne' medesimi tempi ancora Antonio da Carrara, scultore rarissimo, fece in Palermo al Duca di Monte Lione, di casa Pignatella napoletano e viceré di Cicilia, tre statue, cioè tre Nostre Donne in diversi atti e maniere, le quali furono poste sopra tre altari nel Duomo di Monte Lione in Calabria.
Fece al medesimo alcune storie di marmo che sono in Palermo.
Di costui rimase un figliuolo, che è oggi scultore, anch'egli, e non meno eccellente che si fusse il padre.
VITA DI VINCENZIO DA SAN GIMIGNANO E TIMOTEO DA URBINO PITTORI
Dovendo io scrivere, dopo Andrea da Fiesole scultore, la vita di due eccellenti pittori, cioè di Vincenzio da S.
Gimignano di Toscana e di Timoteo da Urbino, ragionerò prima di Vincenzo, essendo quello che è di sopra il suo ritratto e poi immediate di Timoteo, essendo stati quasi in un medesimo tempo et ambidue discepoli et amici di Raffaello.
Vincenzio dunque, il quale per il grazioso Raffaello da Urbino lavorò in compagnia di molti altri nelle logge papali, si portò di maniera che fu da Raffaello e da tutti gl'altri molto lodato.
Onde, essendo perciò messo a lavorare in Borgo dirimpetto al palazzo di Messer Giovanbattista dall'Aquila, fece con molta sua lode in una faccia di terretta un fregio, nel quale figurò le nove Muse con Apollo in mezzo e sopra alcuni leoni, impresa del papa, i quali sono tenuti bellissimi.
Aveva Vincenzio la sua maniera diligentissima, morbida nel colorito e le figure sue erano molto grate nell'aspetto, et insomma egli si sforzò sempre d'imitare la maniera di Raffaello da Urbino; il che si vede anco nel medesimo Borgo dirimpetto al palazzo del cardinale d'Ancona in una facciata della casa che fabricò Messer Giovanantonio Battiferro da Urbino, il quale, per la stretta amicizia che ebbe con Raffaello, ebbe da lui il disegno di quella facciata, et in corte per mezzo di lui molti benefici e grosse entrate.
Fece dunque Raffaello in questo disegno, che poi fu messo in opera da Vincenzio, alludendo al casato de' Battiferri, i Ciclopi che battono i fulmini a Giove; et in un'altra parte Vulcano che fabrica le saette a Cupido, con alcuni ignudi bellissimi et altre storie e statue bellissime.
Fece il medesimo Vincenzo, in su la piazza di San Luigi de' Franzesi in Roma, in una facciata, moltissime storie: la morte di Cesare et un trionfo della Giustizia, et in un fregio una battaglia di cavalli fieramente e con molta diligenza condotti.
Et in questa opera, vicino al tetto fra le finestre, fece alcune virtù molto ben lavorate.
Similmente nella facciata degl'Epifanii dietro alla curia di Pompeo, e vicino a Campo di Fiore fece i Magi che seguono la stella et infiniti altri lavori per quella città, la cui aria e sito par che sia in gran parte cagione che gl'animi operino cose maravigliose.
E l'esperienza fa conoscere che molte volte uno stesso uomo non ha la medesima maniera, né fa le cose della medesima bontà in tutti i luoghi, ma migliori e peggiori secondo la qualità del luogo.
Essendo Vincenzio in bonissimo credito in Roma, seguì l'anno MDXXVII la rovina et il sacco di quella misera città, stata signora delle genti.
Perché egli oltre modo dolente se ne tornò alla sua patria, San Gimignano.
Là dove fra i disagi patiti e l'amore venutogli, meno delle cose dell'arti, essendo fuor dell'aria che i begli ingegni alimentando fa loro operare cose rarissime, fece alcune cose, le quali io mi tacerò per non coprire con queste la lode et il gran nome che s'aveva in Roma onorevolmente acquistato.
Basta, che si vede espressamente che le violenze deviano forte i pellegrini ingegni da quel primo obietto e le fanno torcere la strada in contrario; il che si vede anco in un compagno di costui chiamato Schizzone, il quale fece in Borgo alcune cose molto lodate, e così in Camposanto di Roma et in Santo Stefano degl'Indiani.
E poi anch'egli dalla poca discrezione de' soldati fu fatto deviare dall'arte et indi a poco perdere la vita.
Morì Vincenzio in San Gimignano sua patria, essendo vissuto sempre poco lieto, dopo la sua partita di Roma.
Timoteo pittore da Urbino nacque di Bartolomeo della Vite, cittadino d'onesta condizione, e di Calliope, figliuola di maestro Antonio Alberto da Ferrara, assai buon pittore del tempo suo, secondo che le sue opere in Urbino et altrove ne dimostrano.
Ma essendo ancor fanciullo Timoteo, mortogli il padre, rimase al governo della madre Calliope con buono e felice augurio, per essere Calliope una delle nove Muse e per la conformità che hanno in fra di loro la pittura e la poesia.
Poi, dunque, che fu il fanciullo allevato dalla prudente madre costumatamente, e da lei incaminato nei studi delle prime arti e del disegno parimente, venne apunto il giovane in cognizione del mondo quando fioriva il divino Raffaello Sanzio, et attendendo nella sua prima età all'orefice, fu chiamato da Messer Pierantonio suo maggiore fratello, che allora studiava in Bologna, in quella nobilissima patria, acciò sotto la disciplina di qualche buon maestro seguitasse quell'arte a che pareva fusse inclinato da natura.
Abitando dunque in Bologna, nella quale città dimorò assai tempo e fu molto onorato e trattenuto in casa con ogni sorte di cortesia dal magnifico e nobile Messer Francesco Gombruti, praticava continuamente Timoteo con uomini virtuosi e di bello ingegno; per ché, essendo in pochi mesi per giovane giudizioso conosciuto et inchinato molto più alle cose di pittura che all'orefice, per averne dato saggio in alcuni molto ben condotti ritratti d'amici suoi e d'altri, parve al detto suo fratello, per seguitare il genio del giovane, essendo anco a ciò persuaso dagl'amici, levarlo dalle lime e dagli scarpelli e che si desse tutto allo studio del disegnare.
Di che essendo egli contentissimo, si diede subito al disegno et alle fatiche dell'arte, ritraendo e disegnando tutte le migliori opere di quella città, e, tenendo stretta dimestichezza con pittori, si incaminò di maniera nella nuova strada, che era maraviglia il profitto che faceva di giorno in giorno, e tanto più quanto senza alcuna particolare disciplina di appartato maestro apprendeva facilmente ogni difficile cosa.
Laonde, innamorato del suo esercizio et apparati molti segreti della pittura, vedendo solamente alcuna fiata a cotali pittori idioti fare le mestiche et adoperare i pennelli, da se stesso guidato e dalla mano della natura, si pose arditamente a colorire, pigliando una assai vaga maniera e molto simile a quella del nuovo Apelle suo compatriota, ancor che di mano di lui non avesse veduto se non alcune poche cose in Bologna.
E così avendo assai felicemente, secondo che il suo buono ingegno e giudizio lo guidava, lavorato alcune cose in tavole et in muro, e parendogli che tutto a comparazione degl'altri pittori gli fosse molto bene riuscito, seguitò animosamente gli studi della pittura per sì fatto modo, che in processo di tempo si trovò aver fermato il piede nell'arte e con buona openione dell'universale in grandissima aspettazione.
Tornato dunque alla patria, già uomo di ventisei anni, vi si fermò per alquanti mesi dando bonissimo saggio del saper suo; perciò che fece la prima tavola della Madonna nel Duomo, dentrovi, oltre la Vergine, San Crescenzio e San Vitale, all'altare di Santa Croce, dove è un Angeletto sedente in terra, che suona la viola con grazia veramente angelica e con semplicità fanciullesca, condotta con arte e giudizio.
Appresso dipinse un'altra tavola per l'altare maggiore della chiesa della Trinità, con una Santa Apollonia a man sinistra del detto altare.
Per queste opere et alcune altre, delle quali non accade far menzione, spargendosi la fama et il nome di Timoteo, egli fu da Raffaello con molta instanza chiamato a Roma; dove andato di bonissima voglia, fu ricevuto con quella amorevolezza et umanità, che fu non meno propria di Raffaello, che si fusse l'eccellenza dell'arte.
Lavorando dunque con Raffaello, in poco più d'un anno fece grande acquisto, non solamente nell'arte, ma ancora nella robba; perciò che in detto tempo rimise a casa buone somme di danari.
Lavorò col maestro nella chiesa della Pace le Sibille di sua mano et invenzione, che sono nelle lunette a man destra, tanto stimate da tutti i pittori; il che affermano alcuni che ancora si ricordano averle veduto lavorare, e ne fanno fede i cartoni che ancor si ritruovano appresso i suoi successori.
Parimente da sua posta fece poi il cataletto e dentrovi il corpo morto con l'altre cose che gli sono intorno tanto lodate, nella scuola di Santa Caterina da Siena; et ancora che alcuni sanesi, troppo amatori della lor patria, attribuischino queste opere ad altri, facilmente si conosce ch'elleno sono fattura di Timoteo, così per la grazia e dolcezza del colorito, come per altre memorie lasciate da lui in quel nobilissimo studio d'eccellentissimi pittori.
Ora, benché Timoteo stesse bene et onoratamente in Roma, non potendo, come molti fanno, sopportare la lontananza della patria, essendovi anco chiamato ogni ora e tiratovi dagl'avisi degl'amici e dai preghi della madre già vecchia, se ne tornò a Urbino, con dispiacere di Raffaello, che molto per le sue buone qualità l'amava.
Né molto dopo, avendo Timoteo a persuasione de' suoi preso moglie in Urbino et innamoratosi della patria, nella quale si vedeva essere molto onorato, e, che è più, avendo cominciato ad avere figliuoli, fermò l'animo et il proposito di non volere più andare attorno nonostante, come si vede ancora per alcune lettere, che egli fusse da Raffaello richiamato a Roma.
Ma non perciò restò di lavorare e fare di molte opere in Urbino e nelle città all'intorno.
In Forlì dipinse una cappella insieme con Girolamo Genga suo amico e compatriota.
E dopo fece una tavola tutta di sua mano che fu mandata a Città di Castello, et un'altra similmente ai Cagliesi.
Lavorò anco in fresco a Castel Durante alcune cose che sono veramente da esser lodate, sì come tutte l'altre opere di costui, le quali fanno fede che fu leggiadro pittore nelle figure, ne' paesi et in tutte l'altre parti della pittura.
In Urbino fece in Duomo la cappella di San Martino ad instanza del vescovo Arrivabene mantovano, in compagnia del detto Genga; ma la tavola dell'altare et il mezzo della cappella sono interamente di mano di Timoteo.
Dipinse ancora in detta chiesa una Madalena in piedi e vestita con picciol manto e coperta sotto di capelli infino a terra, i quali sono così belli e veri, che pare che il vento gli muova, oltre la divinità del viso, che nell'atto mostra veramente l'amore ch'ella portava al suo Maestro.
In Santa Agata è un'altra tavola di mano del medesimo, con assai buone figure; et in San Bernardino fuor della città fece quella tanto lodata opera, che è a man diritta all'altare de' Bonaventuri, gentiluomini urbinati; nella quale è con bellissima grazia per l'Annunziata, figurata la Vergine in piedi con la faccia e con le mani giunte e gl'occhi levati al cielo; e di sopra in aria in mezzo a un gran cerchio di splendore è un Fanciullo diritto, che tiene il piede sopra lo Spirito Santo in forma di colomba, e nella man sinistra una palla figurata per l'imperio del mondo; e con l'altra elevata, dà la benedizione; e dalla destra del Fanciullo è un Angelo, che mostra alla Madonna co 'l dito il detto Fanciullo.
Abbasso, cioè al pari della Madonna, sono dal lato destro il Battista vestito d'una pelle di camelo squarciata a studio, per mostrare il nudo della figura, e dal sinistro un San Sebastiano tutto nudo, legato con bella attitudine a un arbore e fatto con tanta diligenza che non potrebbe aver più rilievo, né essere in tutte le parti più bello.
Nella corte degl'illustrissimi d'Urbino sono di sua mano Apollo e due Muse mezze nude, in uno studiolo secreto, belle a maraviglia.
Lavorò per i medesimi molti quadri e fece alcuni ornamenti di camere, che sono bellissimi.
E dopo in compagnia del Genga dipinse alcune barde da cavalli, che furono mandate al re di Francia, con figure di diversi animali sì belli, che pareva ai riguardanti che avessino movimento e vita.
Fece ancora alcuni archi trionfali simili agl'antichi quando andò a marito l'illustrissima Duchessa Leonora, moglie del signor Duca Francesco Maria, al quale piacquero infinitamente, sì come ancora a tutta la corte; onde fu molti anni della famiglia di detto signore con onorevole provisione.
Fu Timoteo gagliardo disegnatore, ma molto più dolce e vago coloritore, in tanto che non potrebbono essere le sue opere più pulitamente, né con più diligenza lavorate.
Fu allegro uomo e di natura gioconda e festevole, destro della persona, e nei motti e ragionamenti arguto e facetissimo.
Si dilettò sonare d'ogni sorte strumento, ma particolarmente di lira, in su la quale cantava all'improvviso con grazia straordinaria.
Morì l'anno di nostra salute MDXXIIII e della sua vita cinquantaquattresimo, lasciando la patria ricca del suo nome e delle sue virtù, quanto dolente della sua perdita.
Lasciò in Urbino alcune opere imperfette, le quali essendo poi state finite da altri, mostrano col paragone quanto fusse il valore e la virtù di Timoteo; di mano del quale sono alcuni disegni nel nostro libro, i quali ho avuto dal molto virtuoso e gentile Messer Giovan Maria, suo figliuolo, molto belli e certamente lodevoli, cioè uno schizzo del ritratto del Magnifico Giuliano de' Medici in penna, il quale fece Timoteo mentre che esso Giuliano si riparava nella corte d'Urbino in quella famosissima accademia, et un Noli me tangere et un Giovanni Evangelista che dorme, mentre che Cristo ora nell'orto, tutti bellissimi.
VITA DI ANDREA DAL MONTE SANSOVINO SCULTORE ET ARCHITETTO
Ancor che Andrea di Domenico Contucci dal Monte Sansovino fusse nato di poverissimo padre, lavoratore di terra e levato da guardare gl'armenti, fu nondimeno di concetti tanto alti, d'ingegno sì raro e d'animo sì pronto nell'opere e nei ragionamenti delle difficultà dell'architettura e della prospettiva, che non fu nel suo tempo, né il migliore, né il più sottile e raro intelletto del suo, né chi rendesse i maggiori dubbii più chiari et aperti di quello che fece egli.
Onde meritò essere tenuto ne' suoi tempi da tutti gl'intendenti singolarissimo nelle dette professioni.
Nacque Andrea, secondo che si dice, l'anno MCCCCLX, e nella fanciullezza guardando gl'armenti, sì come anco si dice di Giotto, disegnava tutto giorno nel sabbione e ritraeva di terra qualcuna delle bestie che guardava.
Onde avvenne che, passando un giorno dove costui si stava guardando le sue bestiuole, un cittadino fiorentino, il quale dicono essere stato Simone Vespucci, podestà allora del Monte, che egli vide questo putto starsi tutto intento a disegnare o formare di terra; per che chiamatolo a sé, poi che ebbe veduta l'inclinazione del putto et inteso di cui fusse figliuolo, lo chiese a Domenico Contucci e da lui l'ottenne graziosamente, promettendo di volerlo far attendere agli studii del disegno, per vedere quanto potesse quella inclinazione naturale aiutata dal continuo studio.
Tornato dunque Simone a Firenze, lo pose all'arte con Antonio del Pollaiuolo, appresso al quale imparò tanto Andrea, che in pochi anni divenne bonissimo maestro.
Et in casa del detto Simone al ponte Vecchio si vede ancora un cartone da lui lavorato in quel tempo, dove Cristo è battuto alla colonna, condotto con molta diligenza, et oltre ciò due teste di terra cotta mirabili, ritratte da medaglie antiche: l'una è di Nerone, l'altra di Galba imperatori; le quali teste servivano per ornamento d'un camino; ma il Galba è oggi in Arezzo nelle case di Giorgio Vasari.
Fece dopo, standosi pure in Firenze, una tavola di terra cotta, per la chiesa di Santa Agata del Monte Sansovino, con un San Lorenzo et alcuni altri Santi, e picciole storiette benissimo lavorate.
Et indi a non molto ne fece un'altra simile, dentrovi l'Assunzione di Nostra Donna, molto bella, Santa Agata, Santa Lucia e San Romualdo, la quale tavola fu poi invetriata da quegli Della Robbia.
Seguitando poi l'arte della scultura, fece nella sua giovanezza per Simone Pollaiuolo, altrimenti il Cronaca, due capitelli di pilastri per la sagrestia di Santo Spirito, che gl'acquistarono grandissima fama e furono cagione che gli fu dato a fare il ricetto, che è fra la detta sagrestia e la chiesa; e perché il luogo era stretto, bisognò che Andrea andasse molto ghiribizzando.
Vi fece dunque di macigno un componimento d'ordine corinto, con dodici colonne tonde, cioè sei da ogni banda; e sopra le colonne posto l'architrave, fregio e cornice, fece una volta a botte, tutta della medesima pietra, con uno spartimento pieno d'intagli, che fu cosa nuova, varia, ricca e molto lodata.
Ben è vero che se il detto spartimento della volta fusse ne' diritti delle colonne venuto a cascare con le cornici, che vanno facendo divisione intorno ai quadri e tondi che ornano quello spartimento con più giusta misura e proporzione, questa opera sarebbe in tutte le parti perfettissima e sarebbe stato cosa agevole il ciò fare.
Ma secondo che io già intesi da certi vecchi amici d'Andrea, egli si difendeva con dire l'avere osservato nella volta il modo del partimento della Ritonda di Roma, dove le costole, che si partono dal tondo del mezzo di sopra, cioè dove ha il lume quel tempio, fanno dall'una all'altra i quadri degli sfondati dei rosoni, che a poco a poco diminuiscono, et il medesimo fa la costola, perché non casca in su la dirittura delle colonne.
Aggiugneva Andrea, se chi fece quel tempio della Ritonda, che è il meglio inteso e misurato che sia e fatto con più proporzione, non tenne di ciò conto in una volta di maggior grandezza e di tanta importanza, molto meno dovea tenerne egli in uno spartimento di sfondati minori.
Nondimeno molti artefici, e particolarmente Michelagnolo Buonarotti, sono stati d'opinione che la ritonda fusse fatta da tre architetti e che il primo la conducesse al fine della cornice, che è sopra le colonne; l'altro dalla cornice in su, dove sono quelle finestre d'opera più gentile; perché invero questa seconda parte è di maniera varia e diversa dalla parte di sotto, essendo state seguitate le volte senza ubidire ai diritti con lo spartimento; il terzo si crede che facesse quel portico, che fu cosa rarissima; per le quali cagioni i maestri, che oggi fanno questa arte, non cascherebbono in così fatto errore per iscusarsi poi come faceva Andrea.
Al quale essendo, dopo questa opera, allogata la cappella del Sagramento nella medesima chiesa della famiglia de' Corbinelli, egli la lavorò con molta diligenza, imitando ne' bassi rilievi Donato e gl'altri artefici eccellenti, e non perdonando a niuna fatica per farsi onore, come veramente fece.
In due nicchie, che mettono in mezzo un bellissimo tabernacolo, fece due Santi, poco maggiori d'un braccio l'uno, cioè San Iacopo e San Matteo, lavorati con tanta vivacità e bontà, che si conosce in loro tutto il buono e niuno errore.
Così fatti anco sono due Angeli tutti tondi, che sono in questa opera per finimento, con i più bei panni, essendo essi in atto di volare, che si possino vedere; et in mezzo è un Cristo piccolino ignudo molto grazioso.
Vi sono anco alcune storie di figure piccole nella predella e sopra il tabernacolo, tanto ben fatte, che la punta d'un pennello a pena farebbe quello che fece Andrea con lo scarpello.
Ma chi vuole stupire della diligenza di questo uomo singolare guardi tutta l'opera di quella architettura, tanto bene condotta e commessa per cosa piccola, che pare tutta scarpellata in un sasso solo.
È molto lodata ancora una Pietà grande di marmo, che fece di mezzo rilievo nel dossale dell'altare, con la Madonna e San Giovanni che piangono.
Né si può immaginare il più bel getto di quello che sono le grate di bronzo col finimento di marmo, che chiuggono quella cappella e con alcuni corvi, impresa, o vero arme de' Corbinelli, che fanno ornamento ai candelieri di bronzo.
Insomma questa opera fu fatta senza risparmio di fatica e con tutti quelli avvertimenti, che migliori si possono imaginare.
Per queste e per l'altre opere d'Andrea divolgatosi il nome suo, fu chiesto al Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici, nel cui giardino avea, come si è detto, atteso agli studii del disegno, dal re di Portogallo, per che mandatogli da Lorenzo lavorò per quel re molte opere di scultura e d'architettura, e particolarmente un bellissimo palazzo con quattro torri et altri molti edifizii.
Et una parte del palazzo fu dipinta secondo il disegno e cartoni di mano d'Andrea, che disegnò benissimo, come si può vedere nel nostro libro in alcune carte di sua propria mano finite con la punta d'un carbone, con alcune altre carte d'architettura benissimo intesa.
Fece anco un altare, a quel re, di legno intagliato, dentrovi alcuni profeti; e similmente di terra, per farla poi di marmo, una battaglia bellissima, rappresentando le guerre che ebbe quel re con i Mori, che furono da lui vinti; della quale opera non si vide mai di mano d'Andrea la più fiera, né la più terribile cosa, per le movenze e varie attitudini de' cavalli, per la strage de' morti e per la spedita furia de' soldati in menar le mani.
Fecevi ancora una figura d'un San Marco di marmo, che fu cosa rarissima.
Attese anco Andrea, mentre stette con quel re, ad alcune cose stravaganti e difficili d'architettura, secondo l'uso di quel paese, per compiacere al re, delle quali cose io vidi già un libro al Monte Sansovino appresso gl'eredi suoi: il quale dicono che è oggi nelle mani di maestro Girolamo Lombardo, che fu suo discepolo et a cui rimase a finire, come si dirà, alcune opere cominciate da Andrea.
Il quale, essendo stato nove anni in Portogallo, increscendogli quella servitù e desiderando di rivedere in Toscana i parenti e gl'amici, deliberò, avendo messo insieme buona somma di danari, con buona grazia del re, tornarsene a casa; e così avuta, ma con difficultà, licenza, se ne tornò a Fiorenza, lasciando chi là desse fine all'opere che rimanevano imperfette.
Arrivato in Fiorenza, cominciò nel MD un San Giovanni di marmo che battezza Cristo, il quale aveva a essere messo sopra la porta del tempio di San Giovanni, che è verso la Misericordia; ma non lo finì, perché fu quasi forzato andare a Genova, dove fece due figure di marmo, un Cristo et una Nostra Donna, o vero San Giovanni, le quali sono veramente lodatissime.
E quelle di Firenze così imperfette si rimasono, et ancor oggi si ritruovano nell'Opera di San Giovanni detto.
Fu poi condotto a Roma da papa Giulio Secondo, e fattogli allogazione di due sepolture di marmo, poste in Santa Maria del Popolo, cioè una per il cardinale Ascanio Sforza e l'altra per il cardinale di Ricanati, strettissimo parente del Papa; le quali opere così perfettamente da Andrea furono finite, che più non si potrebbe desiderare; perché così sono elleno di nettezza, di bellezza e di grazia ben finite e ben condotte, che in esse si scorge l'osservanza e le misure dell'arte; vi si vede anco una Temperanza, che ha in mano un oriuolo da polvere, che è tenuta cosa divina e nel vero non pare cosa moderna, ma antica e perfettissima.
Et ancora che altre ve ne siano simili a questa, ella nondimeno per l'attitudine e grazia è molto migliore, senzaché non può esser più vago e bello un velo, ch'ell'ha intorno, lavorato con tanta leggiadria, che il vederlo è un miracolo.
Fece di marmo in Santo Agostino di Roma, cioè in un pilastro a mezzo la chiesa, una Santa Anna, che tiene in collo una Nostra Donna con Cristo, di grandezza poco meno che il vivo; la quale opera si può fra le moderne tenere per ottima; per che, sì come si vede nella vecchia una viva allegrezza e proprio naturale e nella Madonna una bellezza divina, così la figura del fanciullo Cristo è tanto ben fatta, che niun'altra fu mai condotta simile a quella di perfezzione e di leggiadria.
Onde meritò che per tanti anni si frequentasse d'appicarvi sonetti et altri varii e dotti componimenti, che i frati di quel luogo ne hanno un libro pieno, il quale ho veduto io con non piccola maraviglia.
E di vero ebbe ragione il mondo di così fare, perciò che non si può tanto lodare questa opera che basti.
Cresciuta perciò la fama d'Andrea, Leone Decimo risoluto di far fare a Santa Maria di Loreto l'ornamento della camera di Nostra Donna di marmi lavorati, secondo che da Bramante era stato cominciato, ordinò che Andrea seguitasse quell'opera insino alla fine.
L'ornamento di quella camera, che aveva cominciato Bramante, faceva in su le cantonate quattro risalti doppii, i quali ornati da pilastri con base e capitelli intagliati posavano sopra un basamento ricco d'intagli alto due braccia e mezzo; sopra il qual basamento fra i due pilastri detti aveva fatto una nicchia grande per mettervi figure a sedere e sopra ciascuna di quelle un'altra nicchia minore, che giugnendo al collarino di capitegli di que' pilastri, faceva tanta fregiatura quanto erano alti; e sopra questi veniva poi posato l'architetture, il fregio e la cornice riccamente intagliata, e, rigirando intorno intorno a tutt'e quattro le facciate e risaltando sopra le quattro cantonate, fa una nel mezzo di ciascuna facciata maggiore (perché è quella camera più lunga che larga) due vani: onde era il medesimo risalto nel mezzo che in sui cantoni e la nicchia maggiore di sotto e la minore di sopra, venivano a essere messe in mezzo da uno spazio di cinque braccia da ciascun lato: nel quale spazio erano due porte, cioè una per lato, per le quali si aveva l'entrata alla detta cappella; e sopra le porte era un vano fra nicchia e nicchia di braccia cinque, per farvi storie di marmo.
La facciata dinanzi era simile, ma senza nicchie nel mezzo, e l'altezza dell'imbasamento faceva col risalto uno altare, il quale accompagnavano le cantonate de' pilastri e le nicchie de' canti.
Nella medesima facciata era nel mezzo una larghezza della medesima misura che gli spazii dalle bande per alcune storie della parte di sopra e di sotto in tanta altezza quanta era quella della parte, ma cominciando sopra l'altare, era una grata di bronzo dirimpetto all'altare di dentro per la quale si udiva la messa e vedeva il didentro della camera et il detto altare della Madonna.
In tutto, dunque, erano gli spazii e vani per le storie sette: uno dinanzi sopra la grata, due per ciascun lato maggiore e due di sopra, ciò dietro all'altare della Madonna, et oltre ciò otto nicchie grandi et otto piccole, con altri vani minori per l'arme et imprese del Papa e della chiesa.
Andrea dunque, avendo trovato la cosa in questo termine, scompartì con ricco e bello ordine nei sottospazii istorie della vita della Madonna; in una delle due facciate dai lati cominciò per una parte la Natività della Madonna e la condusse a mezzo, onde fu poi finita del tutto da Baccio Bandinelli; nell'altra parte cominciò lo Sposalizio, ma essendo anco questa rimasa imperfetta fu, dopo la morte d'Andrea, finita in quel modo che si vede da Raffaello da Monte Lupo; nella facciata dinanzi ordinò in due piccoli quadri, che mettono in mezzo la grata di bronzo, che si facesse in uno la Visitazione e nell'altro quando la Vergine e Giuseppo vanno a farsi descrivere.
E queste storie furono poi fatte da Francesco da San Gallo allora giovane.
In quella parte, poi, dove è lo spazio maggiore, fece Andrea l'angelo Gabbriello che annunzia la Vergine (il che fu in quella stessa camera che questi marmi rinchiuggono) con tanta bella grazia, che non si può veder meglio, avendo fatta la Vergine intensissima a quel saluto e l'Angelo ginocchioni, che non di marmo, ma pare veramente celeste e che di boca gl'esca "Ave Maria".
Sono in compagnia di Gabbriello due altri Angeli tutti tondi e spiccati uno de' quali camina appresso di lui e l'altro pare che voli.
Due altri Angeli stanno dopo un casamento, in modo traforati dallo scarpello che paiono vivi; in aria e sopra una nuvola trasforata, anzi quasi tutta spiccata dal marmo, sono molti putti che sostengono un Dio Padre che manda lo Spirito Santo per un raggio di marmo, che, partendosi da Lui, tutto spiccato pare naturalissimo, sì come è anco la colomba, che sopra esso rappresenta esso Spirito Santo; né si può dire quanto sia bello e lavorato con sottilissimo intaglio un vaso pieno di fiori, che in questa opera fece la graziosa mano d'Andrea, il quale nelle piume degl'Angeli, nella capigliatura, nella grazia de' volti e de' panni et insomma in ogni altra cosa sparse tanto del buono che non si può tanto lodare questa divina opra che basti.
E nel vero quel santissimo luogo, che fu propria casa et abitazione della Madre del Figliuol di Dio, non poteva quanto al mondo ricevere maggiore, né più ricco e bello ornamento di quello che egli ebbe dall'architettura di Bramante e dalla scultura d'Andrea Sansavino, come che se tutto fusse delle più preziose gemme orientali, non sarebbe se non poco più che nulla a tanti meriti.
Consumò Andrea tanto tempo in questa opera, che quasi non si crederebbe, onde non ebbe tempo a finire l'altre che aveva cominciato: perché oltre alle dette di sopra cominciò in una facciata da uno dei lati la Natività di Gesù Cristo, i pastori e quattro Angeli che cantano; e questi tutti finì tanto bene che paiono vivissimi; ma la storia, che sopra questa cominciò, de' Magi fu poi finita da Girolamo Lombardo suo discepolo e da altri.
Nella testa di dietro ordinò che si facessero due storie grandi, cioè una sopra l'altra: in una la morte di essa Nostra Donna e gl'Apostoli che la portano a seppellire, quattro Angeli in aria e molti Giudei che cercano di rubar quel corpo santissimo; e questa fu finita, dopo la vita d'Andrea, dal Bologna scultore.
Sotto questa poi ordinò che si facesse la storia del Miracolo di Loreto et in che modo quella capella, che fu la camera di Nostra Donna e dove ella nacque, fu allevata e salutata dall'Angelo, e dove ella nutrì il Figliuolo insino a dodici anni e dimorò poi sempre dopo la morte di lui, fusse finalmente dagl'Angeli portata prima in Ischiavonia, dopo nel territorio di Ricanati in una selva, e per ultimo dove ella è oggi tenuta con tanta venerazione e con solenne frequenza di tutti i popoli cristiani continuamente visitata.
Questa storia, dico, secondo che da Andrea era stato ordinato, fu in quella facciata fatta di marmo dal Tribolo scultore fiorentino, come al suo luogo si dirà.
Abbozzò similmente Andrea i Profeti delle nicchie, ma non avendo interamente finitone se non uno, gl'altri sono poi stati finiti dal detto Girolamo Lombardo e da altri scultori, come si vedrà nelle vite che seguono.
Ma quanto in questa parte appartiene ad Andrea, questi suoi lavori sono i più belli e meglio condotti di scultura che mai fussero stati fatti insino a quel tempo.
Il palazzo similmente della canonica di quella chiesa fu similmente seguitato da Andrea, secondo che Bramante di commessione di papa Leone aveva ordinato; ma essendo anco rimaso dopo Andrea imperfetto, fu seguitata la fabrica sotto Clemente Settimo da Antonio da San Gallo e poi da Giovanni Boccalino architetto, sotto il reverendissimo cardinale di Carpi, insino all'anno 1563.
Mentre che Andrea lavorò alla detta cappella della Vergine, si fece la fortificazione di Loreto et altre cose, che molto furono lodate dall'invittissimo signor Giovanni de' Medici, col quale ebbe Andrea stretta dimestichezza, essendo stato da lui conosciuto primieramente in Roma.
Avendo Andrea di vacanza quattro mesi dell'anno, per suo riposo, mentre lavorò a Loreto, consumava il detto tempo al Monte, sua patria, in agricoltura, godendosi in tanto un tranquillissimo riposo con i parenti e con gl'amici.
Standosi dunque la state al monte, vi fabbricò per sé una comoda casa e comperò molti beni, et ai frati di Santo Agostino di quel luogo fece fare un chiostro, che, per piccolo che sia, è molto bene inteso, se bene non è quadro, per averlo voluto que' padri fabricare in sulle mura vecchie.
Nondimeno Andrea lo ridusse nel mezzo quadro ingrossando i pilastri ne' cantoni, per farlo tornare, essendo sproporzionato, a buona e giusta misura.
Disegnò anco a una Compagnia, che è in detto chiostro, intitolata Santo Antonio, una bellissima porta di componimento dorico, e similmente il tramezzo et il pergamo della chiesa di esso Santo Agostino.
Fece anco fare nello scendere, per andare alla fonte, fuor d'una porta, verso la pieve vecchia a mezza costa una cappelletta per i frati, ancor che non ne avessero voglia.
In Arezzo fece il disegno della casa di Messer Pietro astrologo peritissimo, e di terra una figura grande per Monte Pulciano, cioè un re Porsena, che era cosa singulare, ma non l'ho mai rivista dalla prima volta in poi, onde dubito non sia male capitata.
Et a un prete tedesco amico suo, fece un San Rocco di terra cotta grande quanto il naturale e molto bello; il quale prete lo fece porre nella chiesa di Battifolle, contado d'Arezzo: e questa fu l'ultima scultura che facesse.
Diede anco il disegno delle scale della salita al Vescovado d'Arezzo.
E per la Madonna delle Lagrime della medesima città fece il disegno d'uno ornamento che si aveva a fare di marmo, bellissimo con quattro figure di braccia quatro l'una, ma non andò questa opera inanzi per la morte di esso Andrea; il quale pervenuto all'età di LXVIII anni, come quello che mai non stava ozioso, mettendosi in villa a tramutare certi pali da luogo a luogo, prese una calda et in pochi giorni, aggravato da continua febre, si morì l'anno 1529.
Dolse la morte d'Andrea, per l'onore alla patria e per l'amore et utile a' tre suoi figliuoli maschi et alle femmine parimente; e non è molto tempo che Muzio Camillo, un de' tre predetti figliuoli, il quale negli studii delle buone lettere riusciva ingegno bellissimo, gl'andò dietro con molto danno della sua casa e dispiacere degl'amici.
Fu Andrea, oltre alla professione dell'arte, persona invero assai segnalata; perciò che fu nei discorsi prudente e d'ogni cosa ragionava benissimo; fu provido e costumato in ogni sua azzione, amicissimo degl'uomini dotti e filosofo naturalissimo.
Attese assai alle cose di cosmografia e lasciò ai suoi alcuni disegni e scritti di lontananze e di misure.
Fu di statura alquanto piccolo, ma benissimo formato e complessionato.
I capegli suoi erano distesi e molli, gl'occhi bianchi, il naso aquilino, la carne bianca e rubiconda, ma ebbe la lingua alquanto impedita.
Furono suoi discepoli Girolamo Lombardo detto, Simone Cioli fiorentino, Domenico dal Monte San Savino, che morì poco dopo lui, Lionardo del Tasso fiorentino, che fece in Santo Ambruogio di Firenze sopra la sua sepoltura un San Bastiano di legno e la tavola di marmo delle monache di Santa Chiara.
Fu similmente suo discepolo Iacopo Sansovino fiorentino, così nominato dal suo maestro, del quale si ragionerà a suo luogo distesamente.
Sono, dunque, l'architettura e la scultura molto obligate ad Andrea, per aver egli nell'una aggiunto molti termini di misure et ordini di tirar pesi et un modo di diligenza che non si era per innanzi usato, e nell'altra avendo condotto a perfezzione il marmo con giudizio, diligenza e pratica maravigliosa.
VITA DI BENEDETTO DA ROVEZZANO SCULTORE FIORENTINO
Gran dispiacere, mi penso io, che sia quello di coloro che, avendo fatto alcuna cosa ingegnosa, quando sperano goderla nella vecchiezza e vedere le prove e le bellezze degl'ingegni altrui in opere somiglianti alle loro e potere conoscere quanto di perfezzione abbia quella parte che essi hanno esercitato, si trovano dalla fortuna contraria o dal tempo o cattiva complessione o altra causa privi del lume degl'occhi.
Onde non possono come prima facevano conoscere né il difetto, né la perfezzione di coloro che sentono esser vivi et esercitarsi nel loro mestiero.
E molto più credo gli attristi il sentire le lode de' nuovi, non per invidia, ma per non potere essi ancora esser giudici, si quella fama viene a ragione o no.
La qual cosa avvenne [a] Benedetto da Rovezzano scultore fiorentino, del quale al presente scriviamo la vita, acciò sappia il mondo quanto egli fusse valente e pratico scultore e con quanta diligenza campasse il marmo spiccato, facendo cose meravigliose.
Fra le prime di molte opre che costui lavorò in Firenze, si può annoverare un camino di macigno ch'è in casa di Pierfrancesco Borgherini, dove sono di sua mano intagliati capitegli, fregi et altri molti ornamenti straforati con diligenza.
Parimente in casa di Messer Bindo Altoviti è di mano del medesimo un camino et uno acquaio di macigno con alcune altre cose molto sottilmente lavorate, ma quanto appartiene all'architettura, col disegno di Iacopo Sansovino allora giovane.
L'anno poi 1512, essendo fatta allogazione a Benedetto d'una sepoltura di marmo con ricco ornamento nella cappella maggiore del Carmine di Firenze, per Piero Soderini stato gonfaloniere in Fiorenza, fu quella opera con incredibile diligenza da lui lavorata, perché, oltre ai fogliami et intagli di morte e figure, vi fece di basso rilievo un padiglione a uso di panno nero, di paragone, con tanta grazia e con tanto bel pulimento e lustro, che quella pietra pare più tosto un bellissimo raso nero che pietra di paragone.
E per dirlo brevemente: tutto quello che è di mano di Benedetto in tutta questa opera, non si può tanto lodare che non sia poco.
E perché attese anco all'architettura si rassettò col disegno di Benedetto, a Santo Apostolo di Firenze, la casa di Messer Oddo Altoviti, patrone e priore di quella chiesa; e Benedetto vi fece di marmo la porta principale e, sopra la porta della casa, l'arme degl'Altoviti di pietra di macigno et in essa il lupo scorticato, secco e tanto spiccato a torno, che par quasi disgiunto dal corpo dell'arme, con alcuni svolazzi trasforati e così sottili, che non di pietra, ma paiono di sottilissima carta.
Nella medesima chiesa fece Benedetto sopra le due cappelle di Messer Bindo Altoviti, dove Giorgio Vasari aretino dipinse a olio la tavola della Concezzione, la sepoltura di marmo del detto Messer Oddo, con un ornamento intorno, pieno di lodatissimi fogliami e la cassa parimente bellissima.
Lavorò ancora Benedetto a concorrenza di Iacopo Sansovino e di Baccio Bandinelli, come si è detto, uno degli Apostoli di quattro braccia e mezzo per Santa Maria del Fiore, cioè un San Giovanni Evangelista, che è figura assai ragionevole e lavorata con buon disegno e pratica.
La quale figura è nell'Opera in compagnia dell'altre.
L'anno poi 1515, volendo i capi e maggiori dell'Ordine di Vallombrosa traslatar il corpo di San Giovanni Gualberto dalla Badia di Passignano nella chiesa di Santa Trinita di Fiorenza, badia del medesimo Ordine, feciono fare a Benedetto il disegno e metter mano a una cappella e sepoltura insieme, con grandissimo numero di figure tonde e grandi quanto il vivo, che accomodatamente venivano nel partimento di quell'opera in alcune nicchie tramezzate di pilastri, pieni di fregiature e di grottesche intagliate sottilmente.
E sotto a tutta questa opera aveva ad essere un basamento alto un braccio e mezzo, dove andavano storie della vita di detto San Giovangualberto et altri infiniti ornamenti avevano a essere intorno alla cassa e per finimento dell'opera.
In questa sepoltura dunque lavorò Benedetto, aiutato da molti intagliatori, dieci anni continui, con grandissima spesa di quella Congregazione, e condusse a fine quel lavoro nelle case del Guarlondo, luogo vicino a San Salvi, fuor della porta alla Croce, dove abitava quasi di continuo il generale di quell'Ordine che faceva far l'opera.
Benedetto dunque condusse di maniera questa cappella e sepoltura, che fece stupire Fiorenza.
Ma come volle la sorte (essendo anco i marmi e l'opere egregie degl'uomini eccellenti sottoposte alla fortuna) essendosi fra que' monaci, dopo molte discordie, mutato governo, si rimase nel medesimo luogo quell'opera imperfetta insino al 1530.
Nel qual tempo, essendo la guerra intorno a Fiorenza, furono da e' soldati guaste tante fatiche e quelle teste lavorate con tanta diligenza spiccate empiamente da quelle figurine et in modo rovinato e spezzato ogni cosa, che que' monaci hanno poi venduto il rimanente per piccolissimo prezzo.
E chi ne vuole veder una parte, vada nell'Opera di Santa Maria del Fiore, dove ne sono alcuni pezzi stati comperi per marmi rotti, non sono molti anni, dai ministri di quel luogo.
E nel vero sì come si conduce ogni cosa a buon fine in que' monasteri e luoghi dove è la concordia e la pace, così per lo contrario dove non è se non ambizione e discordia, niuna cosa si conduce mai a perfezzione, né a lodato fine; perché quanto acconcia un buono e savio in cento anni, tanto rovina un ignorante villano e pazzo in un giorno.
E pare che la sorte voglia, che bene spesso coloro che manco sanno e di niuna cosa virtuosa si dilettano, siano sempre quelli che comandino e governino, anzi rovinino ogni cosa; sì come anco disse de' principi secolari non meno dottamente che con verità l'Ariosto nel principio del XVII canto.
Ma tornando a Benedetto, fu peccato grandissimo che tante sue fatiche e spese di quella Religione siano così sgraziatamente capitate male.
Fu ordine et architettura del medesimo la porta e vestibulo della Badia di Firenze, e parimente alcune cappelle, et infra l'altre quella di Santo Stefano, fatta dalla famiglia de' Pandolfini.
Fu ultimamente Benedetto condotto in Inghilterra a' servigi del re, al quale fece molti lavori di marmo e di bronzo, e particolarmente la sua sepoltura, delle quali opere, per la liberalità di quel re, cavò da poter vivere il rimanente della vita acconciamente; per che tornato a Firenze, dopo aver finito alcune piccole cose, le vertigini, che insino in Inghilterra gl'avevano cominciato a dar noia a gl'occhi, et altri impedimenti causati, come si disse, dallo star troppo intorno al fuoco a fondere i metalli, o pure d'altre cagioni, gli levarono in poco tempo del tutto il lume degl'occhi.
Onde restò di lavorare intorno all'anno 1550 e di vivere pochi anni dopo.
Portò Beneddetto con buona e cristiana pacienza quella cecità negl'ultimi anni della sua vita, ringraziando Dio che prima gl'aveva proveduto, mediante le sue fatiche, da poter vivere onestamente.
Fu Benedetto cortese e galantuomo e si dilettò sempre di praticare con uomini virtuosi.
Il suo ritratto si è cavato da uno che fu fatto quando egli era giovine, da Agnolo di Donino.
Il quale proprio è in sul nostro libro de' disegni, dove sono anco alcune carte di mano di Benedetto molto ben disegnate.
Il quale per queste opere merita di essere fra questi eccellenti artefici annoverato.
VITA DI BACCIO DA MONTE LUPO SCULTORE E DI RAFFAELLO SUO FIGLIUOLO
Quanto manco pensano i popoli che gli straccurati delle stesse arti che e' voglion fare, possino quelle già mai condurre ad alcuna perfezzione, tanto più contra il giudizio di molti imparò Baccio da Monte Lupo l'arte della scultura.
E questo gli avvenne perché nella sua giovanezza sviato da' molti piaceri quasi mai non istudiava; et ancora che da molti fusse sgridato e sollecitato, nulla o poco stimava l'arte.
Ma venuti gli anni della discrezione, i quali arrecano il senno seco, gli fecero subitamente conoscere quanto egli era lontano da la buona via.
Per il che, vergognatosi dagli altri, che in tale arte gli passavono innanzi, con bonissimo animo si propose seguitare et osservare con ogni studio quello che con la infingardaggine sino allora aveva fuggito.
Questo pensiero fu cagione ch'egli fece nella scultura que' frutti che la credenza di molti da lui più non aspettava.
Datosi dunque alla arte con tutte le forze et esercitandosi molto in quella, divenne eccellente e raro.
E ne mostrò saggio in una opera di pietra forte lavorata di scarpello, in Fiorenza sul cantone del giardino appiccato col palazzo de' Pucci; che fu l'arme di papa Leone X, dove son due fanciulli che la reggono, con bella maniera e pratica condotti.
Fece uno Ercole per Pier Francesco de' Medici, e fugli allogato dall'Arte di porta Santa Maria una statua di S.
Giovanni Evangelista per farla di bronzo; la quale prima che avesse, ebbe assai contrarii, perché molti maestri fecero modelli a concorrenza.
La quale figura fu posta poi sul canto di S.
Michele in Orto, dirimpetto all'ufficio.
Fu questa opera finita da lui con somma diligenzia.
Dicesi che quando egli ebbe fatto la figura di terra, chi vide l'ordine delle armadure e le forme fattele addosso, l'ebbe per cosa bellissima, considerando il bello ingegno di Baccio in tal cosa; e quegli, che con tanta facilità la videro gettare, diedero a Baccio il titolo di avere con grandissima maestria saldissimamente fatto un bel getto.
Le quali fatiche durate in quel mestiero, nome di buono, anzi di ottimo maestro gli diedero, et oggi più che mai da tutti gli artefici è tenuta bellissima questa figura.
Mettendosi anco a lavorare di legno, intagliò crocifissi grandi quanto il vivo, onde infinito numero per Italia ne fece, e fra gli altri uno a' frati di San Marco in Fiorenza sopra la porta del coro.
Questi tutti sono ripieni di bonissima grazia; ma pure ve ne sono alcuni molto più perfetti degli altri, come quello delle Murate di Fiorenza et uno che è in San Pietro Maggiore, mon manco lodato di quello.
Et a' monaci di Santa Fiora e Lucilla ne fece un simile che lo locarono sopra l'altar maggiore nella loro badia in Arezzo, che è tenuto molto più bello degli altri.
Nella venuta di papa Leone Decimo in Fiorenza, fece Baccio fra il palagio del podestà e badia un arco trionfale bellissimo di legname e di terra e molte cose piccole che si sono smarrite e sono per le case de' cittadini.
Ma venutogli a noia lo stare a Fiorenza, se n'andò a Lucca, dove lavorò alcune opere di scultura, ma molte più d'architettura, in servigio di quella città; e particolarmente il bello e ben composto tempio di San Paulino, avvocato de' Lucchesi, con buona e dotta intelligenza di dentro e di fuori e con molti ornamenti.
Dimorando dunque in quella città infino al 88 anno della sua età, vi finì il corso della vita, et in San Paulino predetto ebbe onorata sepoltura da coloro che egli aveva in vita onorato.
Fu coetaneo di costui Agostino Milanese, scultore et intagliatore molto stimato, il quale in Santa Marta di Milano cominciò la sepoltura de Monsignor di Fois, oggi rimasa imperfetta; nella quale si veggiono ancora molte figure grandi e finite et alcune mezze fatte et abbozzate, con assai storie di mezzo rilievo in pezzi e non murate e con moltissimi fogliami e trofei.
Fece anco un'altra sepoltura, che è finita e murata in San Francesco, fatta a' Biraghi, con sei figure grandi et il basamento storiato, con altri bellissimi ornamenti che fanno fede della pratica e maestria di quel valoroso artefice.
Lasciò Baccio alla morte sua, fra gl'altri figliuoli, Raffaello, che attese alla scultura e non pure paragonò suo padre, ma lo passò di gran lunga.
Questo Raffaello, cominciando nella sua giovanezza a lavorare di terra, di cera e di bronzo, s'acquistò nome d'eccellente scultore e perciò, essendo condotto da Antonio da San Gallo a Loreto, insieme con molti altri per dar fine all'ornamento di quella camera, secondo l'ordine lasciato da Andrea Sansovino, finì del tutto Raffaello lo Sposalizio di Nostra Donna, stato cominciato dal detto Sansovino, conducendo molte cose a perfezzione con bella maniera, parte sopra le bozze d'Andrea, parte di sua fantasia.
Onde fu meritamente stimato de' migliori artefici che vi lavorassino al tempo suo.
Finita quell'opera, Michelagnolo mise mano, per ordine di papa Clemente Settimo, a dar fine, secondo l'ordine cominciato, alla sagrestia nuova et alla libreria di San Lorenzo di Firenze; onde Michelagnolo, conosciuta la virtù di Raffaello, si servì di lui in quell'opera, e fra l'altre cose gli fece fare, secondo il modello che n'aveva egli fatto, il San Damiano di marmo che è oggi in detta sagrestia, statua bellissima e sommamente lodata da ognuno.
Dopo la morte di Clemente, trattenendosi Raffaello appresso al duca Alessandro de' Medici, che allora faceva edificare la fortezza del Prato, gli fece di pietra bigia in una punta del baluardo principale di detta fortezza, cioè dalla parte di fuori, l'arme di Carlo Quinto imperatore, tenuta da due Vittorie ignude e grandi quanto il vivo, che furono e sono molto lodate.
E nella punta d'un altro, cioè verso la città dalla parte di mezzogiorno, fece l'arme del detto duca Alessandro della medesima pietra con due figure.
E non molto dopo lavorò un Crucifisso grande di legno per le monache di Santa Apollonia.
E per Alessandro Antinori, allora nobilissimo e ricchissimo mercante fiorentino, nelle nozze d'una sua figliuola, un apparato ricchissimo con statue, storie e molti altri ornamenti bellissimi.
Andato poi a Roma, dal Buonarroto gli furono fatte fare due figure di marmo, grandi braccia cinque, per la sepoltura di Giulio Secondo a San Pietro in Vincula, murata e finita allora da Michelagnolo.
Ma amalandosi Rafaello mentre faceva questa opera, non poté mettervi quello studio e diligenza che era solito, onde ne perdé di grado e sodisfece poco a Michelagnolo.
Nella venuta di Carlo Quinto imperatore a Roma, facendo fare papa Paulo Terzo un apparato degno di quell'invittissimo principe, fece Raffaello in sul ponte Santo Agnolo di terra e stucchi quattordici statue tanto belle ch'elle furono giudicate le migliori che fussero state fatte in quell'apparato; e, che è più, le fece con tanta prestezza, che fu a tempo a venir a Firenze, dove si aspettava similmente l'imperatore, a fare nello spazio di cinque giorni, e non più, in sulla coscia del ponte a Santa Trinita due fiumi di terra di nove braccia l'uno: cioè il Reno per la Germania et il Danubio per l'Ungheria.
Dopo, essendo condotto a Orvieto, fece di marmo in una capella dove aveva prima fatto il Mosca, scultore eccellente, molti ornamenti bellissimi, di mezzo rilievo la storia de' Magi, che riuscì opera molto bella per la varietà di molte figure che egli vi fece con assai buona maniera.
Tornato poi a Roma, da Tiberio Crispo, castellano allora di Castel Sant'Agnolo, fu fatto architetto di quella gran mole, onde egli vi acconciò et ornò molte stanze con intagli di molte pietre e mischi di diverse sorti ne' camini, finestre e porte.
Fecegli, oltre ciò, una statua di marmo alta cinque braccia, cioè l'Angelo di Castello, che è in cima del torrion quadro di mezzo, dove sta lo stendardo, a similitudine di quello che apparve a San Gregorio, quando avendo pregato per il popolo oppresso da crudelissima pestilenza, lo vide rimettere la spada nella guaina.
Appresso, essendo il detto Crispo fatto cardinale, mandò più volte Raffaello a Bolsena dove fabricava un palazzo.
Né passò molto che il reverendissimo cardinale Salviati e Messer Baldassarri Turrini da Pescia diedero a fare a Raffaello, già toltosi da quella servitù del Castello e del cardinale Crispo, la statua di papa Leone, che è oggi sopra la sua sepoltura nella Minerva di Roma.
E, quella finita, fece Raffaello al detto Messer Baldassarri per la chiesa di Pescia, dove aveva murato una capella di marmo, una sepoltura, et alla Consolazione di Roma fece tre figure di marmo di mezzo rilievo in una capella.
Ma datosi poi a una certa vita più da filosofo che da scultore, si ridusse, amando di vivere quietamente, a Orvieto, dove presa la cura della fabrica di Santa Maria, vi fece molti acconcimi, trattenendovisi molti anni et invecchiando inanzi tempo; credo che se Raffaello avesse preso a fare opere grandi, come avrebbe potuto, arebbe fatto molto più cose e migliori che non fece nell'arte.
Ma l'essere egli troppo buono e rispettoso, fuggendo le noie e contentandosi di quel tanto che gli aveva la sorte proveduto, lasciò molte occasioni di fare opere segnalate.
Disegnò Raffaello molto praticamente et intese molto meglio le cose dell'arte che non aveva fatto Baccio suo padre.
E di mano così dell'uno come dell'altro sono alcuni disegni nel nostro libro, ma molto migliori sono e più graziosi e fatti con miglior arte quelli di Raffaello, il quale negl'ornamenti d'architettura seguitò assai la maniera di Michelagnolo, come ne fanno fede i camini e le porte e le finestre che egli fece in detto Castello Sant'Agnolo et alcune capelle fatte di suo ordine a Orvieto di bella e rara maniera.
Ma tornando a Baccio, dolse assai la sua morte ai Lucchesi, avendo essi conosciuto giusto e buono uomo e verso ognuno cortese et amorevole molto.
Furono l'opere di Baccio circa gl'anni del Signore 1533.
Fu suo grandissimo amico e da lui imparò molte cose Zaccaria da Volterra, che in Bologna ha molte cose lavorato di terra cotta, delle quali alcune ne sono nella chiesa di San Giuseppo.
VITA DI LORENZO DI CREDI PITTORE FIORENTINO
Mentre che maestro Credi, orefice ne' suoi tempi eccellente, lavorava in Fiorenza con molto buon credito e nome, Andrea Sciarpelloni acconciò con esso lui, acciò imparasse quel mestiero, Lorenzo suo figliuolo, giovanetto di bellissimo ingegno e d'ottimi costumi.
E perché quanto il maestro era valente et insegnava volentieri, tanto il discepolo apprendeva con studio e prestezza qualunche cosa se gli mostrava, non passò molto tempo che Lorenzo divenne non solamente diligente e buon disegnatore, ma orefice tanto pulito e valente, che niuno giovane gli fu pari in quel tempo, e ciò con tanta lode di Credi che Lorenzo da indi in poi fu sempre chiamato, non Lorenzo Sciarpelloni, ma di Credi da ognuno.
Cresciuto dunque l'animo a Lorenzo, si pose con Andrea del Verrocchio, che allora per un suo così fatto umore si era dato al dipignere; e, sotto lui, avendo per compagni e per amici, se bene erano concorrenti, Pietro Perugino e Lionardo da Vinci, attese con ogni diligenza alla pittura.
E perché a Lorenzo piaceva fuor di modo la maniera di Lionardo, la seppe così bene imitare che niuno fu che nella pulitezza e nel finir l'opere con diligenza l'imitasse più di lui, come si può vedere in molti disegni fatti e di stile e di penna o d'acquerello, che sono nel nostro libro; fra i quali sono alcuni ritratti da medaglie di terra, acconci sopra con pannolino incerato e con terra liquida; con tanta diligenza imitati e con tanta pacienza finiti, che non si può a pena credere non che fare.
Per queste cagioni adunque fu tanto Lorenzo dal suo maestro amato, che quando Andrea andò a Vinezia a gettare di bronzo il cavallo e la statua di Bartolomeo da Bergamo, egli lasciò a Lorenzo tutto il maneggio et amministrazione delle sue entrate e de' negozii e parimente tutti i disegni, rilievi, statue e masserizie dell'arte.
Et all'incontro amò tanto Lorenzo esso Andrea suo maestro, che oltre all'adoperarsi in Firenze con incredibile amore in tutte le cose di lui, andò anco più d'una volta a Vinezia a vederlo e rendergli conto della sua buona amministrazione; e ciò con tanta sodisfazione d'Andrea, che se Lorenzo l'avesse acconsentito egli se l'arebbe instituito erede; né di questo buono animo fu punto ingrato Lorenzo, poi che egli, morto Andrea, andò a Vinezia e condusse il corpo di lui a Firenze; et agl'eredi poi consegnò ciò che si trovava in mano d'Andrea, eccetto i disegni, pitture, sculture et altre cose dell'arte.
Le prime pitture di Lorenzo furono un tondo d'una Nostra Donna, che fu mandato al re di Spagna, il disegno della qual pittura ritrasse da una d'Andrea suo maestro; et un quadro, molto meglio che l'altro, che fu similmente da Lorenzo ritratto da uno di Lionardo da Vinci e mandato anch'esso in Ispagna, ma tanto simile a quello di Lionardo, che non si conosceva l'uno dall'altro.
È di mano di Lorenzo una Nostra Donna in una tavola molto ben condotta, la quale è a canto alla chiesa grande di San Iacopo di Pistoia.
E parimente una che n'è nello spedale del Ceppo, che è delle migliori pitture che siano in quella città.
Fece Lorenzo molti ritratti e quando era giovane fece quello di se stesso, che è oggi appresso Gianiacopo suo discepolo, pittore in Fiorenza, con molte altre cose lasciategli da Lorenzo, fra le quali sono il ritratto di Pietro Perugino e quello d'Andrea del Verrocchio suo maestro.
Ritrasse anco Girolamo Benivieni, uomo dottissimo e suo molto amico.
Lavorò nella Compagnia di S.
Bastiano dietro la chiesa de' Servi in Fiorenza in una tavola la Nostra Donna, S.
Bastiano et altri Santi, e fece all'altare di S.
Giuseppo in Santa Maria del Fiore esso Santo.
Mandò a Monte Pulciano una tavola, che è nella chiesa di Santo Agostino, dentrovi un Crucifisso, la Nostra Donna e S.
Giovanni, fatti con molta diligenza.
Ma la migliore opera che Lorenzo facesse mai, e quella in cui pose maggiore studio e diligenza per vincere se stesso, fu quella che è in Cestello a una capella dove in una tavola è la Nostra Donna, S.
Giuliano e S.
Niccolò; e chi vuol conoscere che il lavorare pulito a olio è necessario a volere che l'opere si conservino, veggia questa tavola lavorata con tanta pulitezza che non si può più.
Dipinse Lorenzo essendo ancor giovane, in un pilastro d'Or S.
Michele, un San Bartolomeo, et alle monache di Santa Chiara in Fiorenza una tavola della Natività di Cristo, con alcuni pastori et Angeli; et in questa, oltre l'altre cose, mise gran diligenza in contrafare alcune erbe tanto bene, che paiono naturali; nel medesimo luogo fece in un quadro una S.
Madalena in penitenza, et in un altro appresso la casa di Messer Ottaviano de' Medici fece un tondo d'una Nostra Donna.
In S.
Friano fece una tavola, et in San Matteo dello spedale di Lelmo lavorò alcune figure; in Santa Reparata dipinse l'angelo Michele in un quadro, e nella Compagnia dello Scalzo una tavola fatta con molta diligenza; et oltre a queste opere, fece molti quadri di Madonne e d'altre pitture, che sono per Fiorenza nelle case de' cittadini.
Avendo dunque Lorenzo, mediante queste fatiche, messo insieme alcune somme di danari, come quello che più tosto che arrichire disiderava quiete, si commise in S.
Maria Nuova di Fiorenza, là dove visse et ebbe commoda abitazione insino alla morte.
Fu Lorenzo molto parziale della setta di fra' Girolamo da Ferrara e visse sempre come uomo onesto e di buona vita, usando amorevolmente cortesia dovunque se gliene porgeva occasione.
Finalmente pervenuto al 78 anno della sua vita, si morì di vecchiezza e fu sepellito in S.
Piero Maggiore l'anno 1530.
Fu costui tanto finito e pulito ne' suoi lavori, che ogni altra pittura a comparazione delle sue parrà sempre abbozzata e mal netta.
Lasciò molti discepoli e fra gl'altri Giovanni Antonio Sogliani e Tommaso di Stefano.
Ma perché del Sogliano si parlerà in altro luogo, dirò quanto a Tommaso ch'egli imitò molto nella pulitezza il suo maestro e fece in Fiorenza e fuori molte opere; nella villa d'Arcetri a Marco del Nero una tavola d'una Natività di Cristo condotta molto pulitamente.
Ma la principal professione di Tommaso fu col tempo di dipignere drapperie, onde lavorò i drappelloni meglio che alcun'altro.
E perché Stefano, padre di Tommaso, era stato miniatore et anco aveva fatto qualche cosa d'architettura, Tommaso per imitarlo condusse dopo la morte di esso suo padre il ponte a Sieve, lontano a Fiorenza X miglia, che allora era per una piena rovinato; e similmente quello di S.
Piero a ponte in sul fiume di Bisenzio, che è una bell'opera.
E dopo molte fabriche fatte per monasterii et altri luoghi, ultimamente, essendo architettore dell'Arte della Lana, fece il modello delle case nuove che fece fare quell'Arte dietro alla Nunziata; e finalmente si morì essendo già vecchio di 70 anni o più, l'anno 1564, e fu sepolto in S.
Marco, dove fu onorevolmente accompagnato dall'Accademia del Disegno.
Ma tornando a Lorenzo, ei lasciò molte opere imperfette alla sua morte, e particolarmente un quadro d'una Passione di Cristo, molto bello, che venne nelle mani d'Antonio da Ricasoli et una tavola di Messer Francesco da Castiglioni canonico di Santa Maria del Fiore, che la mandò a Castiglioni, molto bella.
Non si curò Lorenzo di fare molte opere grandi, perché penava assai a condurle e vi durava fatica incredibile e massimamente perché i colori ch'egli adoperava erano troppo sottilmente macinati; oltre che, purgava gl'olii di noce e stillavagli e faceva in sulle tavolelle le mestiche de' colori in gran numero, tanto che dalla prima tinta chiara all'ultima oscura si conduceva a poco a poco con troppo e veramente soverchio ordine, onde n'aveva alcuna volta in sulla tavolella 25 e trenta e per ciascuna teneva il suo pennello appartato, e dove egli lavorava non voleva che si facesse alcun movimento che potesse far polvere, la quale troppo estrema diligenza non è forse più lodevole punto che si sia una strema negligenza: perché in tutte le cose si vuole avere un certo mezzo e star lontano dagl'estremi che sono comunemente viziosi.
VITA DI LORENZETTO SCULTORE ET ARCHITETTO FIORENTINO E DI BOCCACCINO PITTORE CREMONESE
Quando la fortuna ha tenuto un pezzo a basso con la povertà la virtù di qualche bell'ingegno, alcuna volta suole ravvedersi et in un punto non aspettato procacciare a colui, che dianzi gl'era nimico, in varii modi beneficii, per ristorare in un anno i dispetti e l'incomodità di molti.
Il che si vide in Lorenzo di Lodovico campanaio fiorentino, il quale si adoperò così nelle cose d'architettura, come di scultura, e fu tanto amato da Raffaello da Urbino, che non solo fu da lui aiutato et adoperato in molte cose, ma ebbe dal medesimo per moglie una sorella di Giulio Romano, discepolo di esso Raffaello.
Finì Lorenzetto (che così fu sempre chiamato) nella sua giovanezza, la sepoltura del cardinale Forteguerri, posta in San Iacopo di Pistoia e stata già cominciata da Andrea del Verrocchio; e fra l'altre cose vi è di mano di Lorenzetto una Carità che non è se non ragionevole; e poco dopo fece a Giovanni Bartolini per il suo orto una figura, la quale finita, andò a Roma, dove lavorò ne' primi anni molte cose, delle quali non accade fare altra memoria.
Dopo, essendogli allogata da Agostino Ghigi per ordine di Raffaello da Urbino, la sua sepoltura in Santa Maria del Popolo, dove aveva fabricato una capella, Lorenzo si mise a questa opera con tutto quello studio, diligenza e fatica che mai gli fu possibile, per uscirne con lode, per piacere a Raffaello, dal quale poteva molti favori et aiuti sperare, e per esserne largamente rimunerato dalla liberalità d'Agostino, uomo ricchissimo.
Né cotali fatiche furono se non benissimo spese, perché, aiutato dal giudizio di Raffaello, condusse a perfezzione quelle figure, cioè un Iona ignudo uscito del ventre del pesce, per la ressurezzione de' morti, et uno Elia, che col vaso d'acqua e col pane subcinerizio vive di grazia sotto il ginepro.
Queste statue, dunque, furono da Lorenzo a tutto suo potere con arte e diligenza a somma bellezza finite, ma egli non ne conseguì già quel premio che il bisogno della sua famiglia e tante fatiche meritavano; perciò che avendo la morte chiusi gl'occhi ad Agostino e quasi in un medesimo tempo a Raffaello, le dette figure, per la poca pietà degl'eredi d'Agostino, se gli rimasono in bottega dove stettono molti anni; pure oggi sono state messe in opera nella detta chiesa di Santa Maria del Popolo alla detta sepoltura.
Lorenzo dunque, caduto d'ogni speranza per le dette cagioni, si trovò per allora avere gettato il tempo e la fatica.
Dovendosi poi essequire il testamento di Raffaello gli fu fatta fare una statua di marmo di quattro braccia d'una Nostra Donna, per lo sepolcro di esso Raffaello nel tempio di Santa Maria Ritonda, dove per ordine suo fu restaurato quel tabernacolo.
Fece il medesimo Lorenzo per un mercante de' Perini alla Trinità di Roma una sepoltura con due fanciulli di mezzo rilievo.
E d'architettura fece il disegno di molte case e particolarmente quello del palazzo di Messer Bernardino Caffarelli; e nella Valle la facciata di dentro e così il disegno delle stalle et il giardino di sopra, per Andrea cardinale della Valle, dove accomodò nel partimento di quell'opera colonne basse e capitegli antichi, e spartì attorno per basamento di tutta quell'opera pili antichi pieni di storie.
E più alto fece sotto certe nicchione un altro fregio di rottami di cose antiche, e di sopra nelle dette nicchie pose alcune statue pur antiche e di marmo, le quali se bene non erano intere, per essere quale senza testa, quale senza braccia et alcuna senza gambe, et insomma ciascuna con qualche cosa meno, l'accomodò non di meno benissimo, avendo fatto rifare a buoni scultori tutto quello che mancava.
La quale cosa fu cagione che altri signori hanno poi fatto il medesimo e restaurato molte cose antiche, come il cardinale Cefis, Ferrara, Farnese e, per dirlo in una parola, tutta Roma.
E nel vero hanno molto più grazia queste anticaglie in questa maniera restaurate, che non hanno que' tronchi imperfetti e le membra senza capo o in altro modo difettose e manche.
Ma tornando al giardino detto, fu posto sopra le nicchie la fregiatura che vi si vede di storie antiche di mezzo rilievo bellissima e rarissima.
La quale invenzione di Lorenzo gli giovò infinitamente, perché passati gl'infortunii di papa Clemente, egli fu adoperato con suo molto onore et utile; perciò che avendo il Papa veduto, quando si combatté Castello Santo Agnolo, che due cappellette di marmo, che erano all'entrare del ponte, avevano fatto danno, perché standovi dentro alcuni soldati archibugieri amazzavano chiunche s'affacciava alle mura e con troppo danno, stando essi al sicuro levavano le diffese, si risolvé Sua Santità levare le dette cappelle e ne' luoghi loro mettere sopra due basamenti due statue di marmo.
E così, fatto metter su il San Paulo di Paulo Romano, del quale si è in altro luogo ragionato, fu data a fare l'altra, cioè un San Pietro, a Lorenzetto, il quale si portò assai bene, ma non passò già quella di Paulo Romano.
Le quali due statue furono poste e si veggiono oggi all'entrata del ponte.
Venuto poi a morte papa Clemente, furono allogate a Baccio Bandinelli le sepolture di esso Clemente e quella di Leone Decimo et a Lorenzo data la cura del lavoro di quadro che vi si aveva a fare di marmo; onde egli si andò in questa opera qualche tempo trattenendo.
Finalmente quando fu creato pontefice papa Paulo III, essendo Lorenzo molto male condotto et assai consumato, e non avendo altro che una casa, la quale egli stesso si aveva al Macello de' Corbi fabricato, et aggravato di cinque figliuoli et altre spese, si voltò la fortuna a ingrandirlo e ristorarlo per altra via.
Perciò che volendo papa Paulo che si seguitasse la fabrica di San Piero e non essendo più vivo né Baldassarri Sanese, né altri di coloro che vi avevano atteso, Antonio da San Gallo mise Lorenzo in quell'opera per architetto, dove si facevano le mura in cottimo a tanto la canna.
Laonde in pochi anni fu più conosciuto e ristorato Lorenzo senza affaticarsi, che non era stato in molti con mille fatiche, avendo in quel punto propizio Dio, gl'uomini e la fortuna; e se egli fusse più lungamente vivuto, averebbe anco molto meglio ristorato que' danni che la violenza della sorte, quando bene operava, indegnamente gli avea fatto.
Ma condottosi all'età d'anni XLVII si morì di febre l'anno 1541.
Dolse infinitamente la morte di costui a molti amici suoi, che lo conobbero sempre amorevole e discreto; e perché egli visse sempre da uomo da bene e costumatamente, i deputati di San Piero gli diedero in un deposito onorato sepolcro e posero in quello lo infrascritto epitaffio:
SCULPTORI LAURENTIO FLORENTINO
Roma mihi tribuit tumulum, Florentia vitam;
Nemo alio vellet nasci et obire loco.
MDXLI
Vixit annos XLVII.
Menses II.
Dies XV.
Avendosi Boccaccino cremonese, il quale fu quasi ne' medesimi tempi, nella sua patria e per tutta Lombardia acquistato fama di raro e d'eccellente pittore, erano sommamente lodate l'opere sue, quando egli andato a Roma per vedere l'opere di Michelagnolo tanto celebrate non l'ebbe sì tosto vedute che quanto poté il più cercò d'avilirle et abbassarle, parendogli quasi tanto inalzare se stesso quanto biasimava un uomo veramente nelle cose del disegno, anzi in tutte generalmente eccellentissimo.
A costui dunque essendo allogata la capella di Santa Maria Traspontina, poi che l'ebbe finita di dipignere e scoperta, chiarì tutti coloro i quali, pensando che dovesse passare il cielo, non lo videro pur aggiugnere al palco degl'ultimi solari delle case.
Perciò che veggendo i pittori di Roma la incoronazione di Nostra Donna, che egli aveva fatto in quell'opera con alcuni fanciulli volanti, cambiarono la maraviglia in riso.
E da questo si può conoscere, che quando i popoli cominciano ad inalzare col grido alcuni più eccellenti nel nome che nei fatti, è difficile cosa potere, ancora che a ragione, abbattergli con le parole, insino a che l'opere stesse contrarie in tutto a quella credenza non discuoprono quello che coloro tanto celebrati sono veramente.
Et è questo certissimo, che il maggior danno che agl'altri uomini facciano gl'uomini, sono le lodi che si dànno troppo presto agli ingegni che si affaticano nell'operare, perché facendo cotali lodi coloro gonfiare acerbi, non gli lasciano andare più avanti, e coloro tanto lodati, quando non riescono l'opere di quella bontà che si aspettavano, accorandosi di quel biasimo, si disperano al tutto di potere mai più bene operare; laonde coloro che savi sono deono assai più temere le lodi che il biasimo: perché quelle adulando ingannano, e questo, scoprendo il vero, insegna.
Partendosi addunque Boccaccino di Roma per sentirsi da tutte le parti trafitto e lacero, se ne tornò a Cremona, e quivi il meglio che seppe, e poté, continuò d'essercitar la pittura; e dipinse nel Duomo, sopra gl'archi di mezzo, tutte le storie della Madonna, la quale opera è molto stimata in quella città; fece anco altre opere e per la città e fuori, delle quali non accade far menzione.
Insegnò costui l'arte a un suo figliuolo, chiamato Camillo, il quale attendendo con più studio all'arte s'ingegnò di rimediare dove aveva mancato la vanagloria di Boccaccino.
Di mano di questo Camillo sono alcune opere in San Gismondo lontano da Cremona un miglio, le quali dai cremonesi sono stimate la miglior pittura che abbiano; fece ancora in piazza nella facciata d'una casa et in Santa Agata tutti i parimenti delle volte et alcune tavole e la facciata di Santo Antonio con altre cose, che lo fecero conoscere per molto pratico.
E se la morte non l'avesse anzi tempo levato del mondo, averebbe fatto onoratissima riuscita, perché caminava per buona via.
Ma quelle opere nondimeno che ci ha lasciate meritano che di lui si faccia memoria.
Ma tornando a Boccaccino, senza aver mai fatto alcun miglioramento nell'arte, passò di questa vita d'anni 58.
Ne' tempi di costui fu in Milano un miniatore assai valente chiamato Girolamo, di mano del quale si veggiono assai opere e quivi et in tutta Lombardia.
Fu similmente milanese, e quasi ne' medesimi tempi, Bernardino del Lupino, pittore dilicatissimo e molto vago, come si può vedere in molte opere che sono di sua mano in quella città et a Sarone, luogo lontano da quella 12 miglia, in uno sposalizio di Nostra Donna et in altre storie che sono nella chiesa di Santa Maria, fatte in fresco perfettissimamente.
Lavorò anco a olio molto pulitamente e fu persona cortese et amorevole molto delle cose sue: onde se gli convengono meritamente tutte quelle lodi che si deono a qualunche artefice che con l'ornamento della cortesia fa non meno risplendere l'opere et i costumi della vita, che con l'essere eccellente quelle dell'arte.
VITA DI BALDASSARRE PERUZZI SANESE PITTORE ET ARCHITETTO
Fra tutti i doni che distribuisce il cielo ai mortali, nessuno giustamente si puote o dee tener maggior della virtù e quiete e pace dell'animo, facendoci quella per sempre immortali e questa beati; e però chi di queste è dotato, oltre l'obligo che ne dee avere grandisimo a Dio, tra gl'altri, quasi fra le tenebre un lume, si fa conoscere; nella maniera che ha fatto ne' tempi nostri Baldassarre Peruzzi pittore et architetto sanese; del quale sicuramente possiamo dire che la modestia e la bontà che si videro in lui fussino rami non mediocri della somma tranquillità che sospirano sempre le menti di chi ci nasce e che l'opere da lui lasciateci siano onoratissimi frutti di quella vera virtù che fu in lui infusa dal cielo.
Ma se bene ho detto di sopra Baldassarre sanese, perché fu sempre per sanese conosciuto, non tacerò che, sì come sette città combatterono fra loro Omero, volendo ciascuno che egli fusse suo cittadino, così tre nobilissime città di Toscana, cioè Fiorenza, Volterra e Siena, hanno tenuto ciascuna che Baldassarre sia suo.
Ma a dirne il vero, ciascheduna ci ha parte, perciò che essendo già travagliata Fiorenza dalle guerre civili, Antonio Peruzzi, nobile cittadino fiorentino, se n'andò, per vivere più quietamente, ad abitare a Volterra: là dove avendo qualche tempo dimorato, l'anno 1482 prese moglie in quella città et in pochi anni ebbe due figliuoli, uno maschio chiamato Baldassarre et una femmina che ebbe nome Virginia.
Ora avvenne, correndo dietro la guerra a costui che null'altro cercava che pace e quiete, che Volterra indi a non molto fu saccheggiata; perché fu sforzato Antonio fuggirsi a Siena, e lì, avendo perduto quasi tutto quello che aveva, a starsi assai poveramente.
Intanto, essendo Baldassarre cresciuto, praticava sempre con persone ingegnose e particolarmente con orafi e disegnatori, per che, cominciatogli a piacere quell'arti, si diede del tutto al disegno.
E non molto dopo morto il padre, si diede alla pittura con tanto studio, che in brevissimo tempo fece in essa meraviglioso acquisto imitando, oltre l'opere de' maestri migliori, le cose vive e naturali; e così facendo qualche cosa, poté con quell'arte aiutare se stesso, la madre e la sorella e seguitare gli studii della pittura.
Furono le sue prime opere (oltre alcune cose in Siena non degne di memoria) una capelletta in Volterra appresso alla porta Fiorentina, nella quale condusse alcune figure con tanta grazia, che elle furono cagione che fatto amicizia con un pittore volterrano chiamato Piero, il quale stava il più del tempo in Roma, egli se n'andasse là con esso lui che lavorava per Alessandro Sesto alcune cose in palazzo.
Ma essendo morto Alessandro e non lavorando più maestro Piero in quel luogo, si mise Baldassarre in bottega del padre di Maturino, pittore non molto eccellente, che in quel tempo di lavori ordinarii aveva sempre molte cose da fare.
Colui dunque, messo innanzi a Baldassarre un quadro ingessato, gli disse, senza dargli altro cartone o disegno, che vi facesse dentro una Nostra Donna.
Baldassarre, preso un carbone, in un tratto ebbe con molta pratica disegnato quello che voleva dipignere nel quadro; et appresso, dato di mano ai colori, fece in pochi giorni un quadro tanto bello e ben finito, che fece stupire non solo il maestro della bottega, ma molti pittori che lo videro.
I quali conosciuta la virtù sua, furono cagione che gli fu dato a fare nella chiesa di Santo Onofrio la capella dell'altar maggiore, la quale egli condusse a fresco con molto bella maniera e con molta grazia.
Dopo nella chiesa di Santo Rocco a Ripa fece due altre capellette in fresco; per che cominciato a essere in buon credito fu condotto a Ostia, dove nel Maschio della Rocca dipinse di chiaro scuro in alcune stanze storie bellissime, e particolarmente una battaglia da mano, in quella maniera che usavano di combattere anticamente i Romani; et appresso uno squadrone di soldati che danno l'assalto a una rocca, dove si veggiono i soldati con bellissima e pronta bravura, coperti colle targhe, appoggiare le scale alla muraglia e quelli di dentro ributtargli con fierezza terribile.
Fece anco in questa storia molti instrumenti da guerra antichi e similmente diverse sorti d'armi, et in una sala molte altre storie tenute quasi delle migliori cose che facesse; bene è vero, che fu aiutato in questa opera da Cesare da Milano.
Ritornato Baldassarre dopo questi lavori in Roma, fece amicizia strettissima con Agostino Ghigi sanese, sì perché Agostino naturalmente amava tutti i virtuosi e sì perché Baldassarre si faceva sanese, onde poté con l'aiuto di tanto uomo trattenersi e studiare le cose di Roma, massimamente d'architettura, nelle quali, per la concorrenza di Bramante, fece in poco tempo maraviglioso frutto, il che gli fu poi, come si dirà, di onore e d'utile grandissimo.
Attese anco alla prospettiva e si fece in quella scienzia tale che in essa pochi pari a lui abbiam veduti a' tempi nostri operare; il che si vede manifestamente in tutte l'opere sue.
Avendo intanto papa Giulio Secondo fatto un corridore in palazzo e vicino al tetto un'ucelliera, vi dipinse Baldassarre tutti i mesi di chiaro scuro e gl'essercizii che si fanno per ciascun d'essi in tutto l'anno; nella quale opera si veggiono infiniti casamenti, teatri, anfiteatri, palazzi et altre fabbriche con bella invenzione in quel luogo accomodate; lavorò poi nel palazzo di San Giorgio, per il cardinale Raffaello Riario vescovo d'Ostia, in compagnia d'altri pittori, alcune stanze, e fece una facciata dirimpetto a Messer Ulisse da Fano e similmente quella di esso Messer Ulisse, nella quale le storie che egli vi fece d'Ulisse gli diedero nome e fama grandissima.
Ma molto più gliene diede il modello, del palazzo d'Agostino Ghigi, condotto con quella bella grazia che si vede, non murato, ma veramente nato, e l'adornò fuori di terretta con istorie di sua mano molto belle.
La sala similmente è fatta in partimenti di colonne, figurate in prospettiva, le quali con istrafori mostrano quella essere maggiore.
E, quello che è di stupenda maraviglia, vi si vede una loggia in sul giardino dipinta da Baldassarre, con le storie di Medusa, quando ella converte gl'uomini in sasso, che non può immaginarsi più bella; et appresso quando Perseo le taglia la testa, con molte altre storie ne' peducci di quella volta; e l'ornamento tirato in prospettiva di stucchi e colori contrafatti è tanto naturale e vivo, che anco agl'artefici eccellenti pare di rilievo.
E mi ricorda che, menando io il cavaliere Tiziano, pittore eccellentissimo et onorato, a vedere quella opera, egli per niun modo voleva credere che quella fusse pittura: per che, mutato veduta, ne rimase maravigliato.
Sono in questo luogo alcune cose fatte da fra' Sebastian Viniziano della prima maniera, e di mano del divino Raffaello vi è (come si è detto) una Galatea rapita dagli dii marini.
Fece anco Baldassarre, passato Campo di Fiore, per andare a piazza Giudea, una facciata bellissima di terretta con prospettive mirabili, la quale fu fatta finire da un cubiculario del papa et oggi è posseduta da Iacopo Strozzi fiorentino.
Similmente fece nella Pace una capella a Messer Ferrando Ponzetti, che fu poi cardinale, all'entrata della chiesa a man manca, con istorie piccole del Testamento Vecchio e con alcune figure anco assai grandi, la quale opera, per cosa in fresco, è lavorata con molta diligenza.
Ma molto più mostrò quanto valesse nella pittura e nella prospettiva nel medesimo tempio vicino all'altar maggiore, dove fece, per Messer Filippo da Siena cherico di camera, in una storia quando la Nostra Donna salendo i gradi va al Tempio, con molte figure degne di lode, come un gentiluomo vestito all'antica, il quale, scavalcato d'un suo cavallo, porge, mentre i servidori l'aspettano, la limosina a un povero ignudo e meschinissimo, il quale si vede che con grande affetto gliela chiede.
Sono anco in questo luogo casamenti varii et ornamenti bellissimi; et in questa opera, similmente lavorata in fresco, sono contrafatti ornamenti di stucco intorno intorno, che mostrano essere con campanelle grandi appiccati al muro, come fusse una tavola dipinta a olio.
E ne l'onoratissimo apparato, che fece il popolo romano in Campidoglio, quando fu dato il bastone di Santa Chiesa al duca Giuliano de' Medici, di sei storie di pittura che furono fatte da sei diversi eccellenti pittori, quella che fu di mano di Baldassarri, alta sette canne e larga tre e mezzo, nella quale era quando Giulia Tarpea fa tradimento ai Romani, fu senza alcun dubbio di tutte l'altre giudicata la migliore.
Ma quello che fece stupire ognuno fu la prospettiva, o vero scena d'una comedia, tanto bella che non è possibile immaginarsi più: perciò che la varietà e bella maniera de' casamenti, le diverse loggie, la bizzarria delle porte e finestre e l'altre cose che vi si videro d'architettura, furono tanto belle intese e di così straordinaria invenzione, che non si può dirne la millesima parte.
A Messer Francesco da Norcia fece, per la sua casa in sulla piazza de' Farnesi, una porta d'ordine dorico molto graziosa; et a Messer Francesco Buzio, vicino alla piazza degl'Altieri, una molto bella facciata, e nel fregio di quella mise tutti i cardinali romani che allora vivevano, ritratti di naturale, e nella facciata figurò le storie di Cesare, quando gli sono presentati i tributi da tutto il mondo, e sopra vi dipinse i dodici imperatori, i quali posano sopra certe mensole e scortano le vedute al disotto in su e sono con grandissima arte lavorati, per la quale tutta opera meritò commendazzione infinita.
Lavorò in Banchi un'arme di papa Leone, con tre fanciulli a fresco che di tenerissima carne e vivi parevano; et a fra' Mariano Fetti, frate del Piombo, fece a Monte Cavallo, nel giardino, un San Bernardo di terretta, bellissimo.
Et alla Compagnia di Santa Caterina da Siena in strada Giulia, oltre una bara da portar morti alla sepoltura, che è mirabile, molte altre cose tutte lodevoli; similmente in Siena diede il disegno dell'organo del Carmino e fece altre cose in quella città, ma di non molta importanza.
Dopo, essendo condotto a Bologna dagl'Operai di San Petronio perché facesse il modello della facciata di quel tempio, ne fece due piante grandi e due proffili, uno alla moderna et un altro alla tedesca, che ancora si serba come cosa veramente rara, per avere egli in prospettiva di maniera squartata e tirata quella fabrica che pare di rilievo, nella sagrestia di detto San Petronio.
Nella medesima città, in casa del conte Giovambatista Bentivogli, fece per la detta fabrica più disegni, che furono tanto belli che non si possono a bastanza lodare le belle investigazioni da quest'uomo trovate per non rovinare il vecchio, che era murato, e con bella proporzione congiugnerlo col nuovo.
Fece al conte Giovambatista sopra detto un disegno d'una Natività, con i Magi di chiaro scuro, nella quale è cosa maravigliosa vedere i cavalli, i carriaggi, le corti dei tre Re, condotti con bellissima grazia, sì come anco sono le muraglie de' tempii et alcuni casamenti intorno alla capanna; la quale opera fece poi colorire il conte da Girolamo Trevigi, che la condusse a buona perfezzione.
Fece ancora il disegno della porta della chiesa di San Michele in Bosco, bellissimo monasterio de' monaci di Monte Oliveto, fuor di Bologna; et il disegno e modello del Duomo di Carpi, che fu molto bello e secondo le regole di Vitruvio con suo ordine fabbricato.
E nel medesimo luogo diede principio alla chiesa di San Niccola, la quale non venne a fine in quel tempo perché Baldassarri fu quasi forzato tornare a Siena a fare i disegni per le fortificazioni delle città, che poi furono secondo l'ordine suo messe in opera.
Di poi, tornato a Roma e fatta la casa che è dirimpetto a' Farnese et alcun'altre che sono dentro a quella città, fu da papa Leone X in molte cose adoperato; il quale Pontefice, volendo finire la fabbrica di San Piero cominciata da Giulio Secondo col disegno di Bramante, e parendogli che fusse troppo grande edifizio e da reggersi poco insieme, fece Baldassarre un nuovo modello magnifico e veramente ingegnoso, e con tanto buon giudizio, che d'alcune parti di quello si sono poi serviti gl'altri architetti.
E di vero questo artefice fu tanto diligente e di sì raro e bel giudizio che le cose sue furono sempre in modo ordinate che non ha mai avuto pari nelle cose d'architettura, per avere egli, oltre l'altre cose, quella professione con bella e buona maniera di pittura accompagnato.
Fece il disegno della sepoltura di Adriano Sesto e quello che vi è dipinto intorno è di sua mano, e Michelagnolo, scultore sanese, condusse la detta sepoltura di marmo, con l'aiuto di esso Baldassarre; e quando si recitò al detto papa Leone la Calandra, comedia del cardinale di Bibbiena, fece Baldassarre l'apparato e la prospettiva che non fu manco bella, anzi più assai che quella che aveva altra volta fatto, come si è detto di sopra; et in queste sì fatte opere meritò tanto più lode, quanto per un gran pezzo adietro l'uso delle comedie e conseguentemente delle scene e prospettive era stato dismesso, facendosi in quella vece feste e rappresentazioni.
Et o prima o poi che si recitasse la detta Calandra, la quale fu delle prime comedie volgari che si vedesse o recitasse, basta che Baldassarre fece al tempo di Leone X due scene che furono maravigliose et apersono la via a coloro che ne hanno poi fatto a' tempi nostri.
Né si può immaginare come egli in tanta strettezza di sito accomodasse tante strade, tanti palazzi e tante bizzarrie di tempii, di loggie e d'andare di cornici, così ben fatte che parevano non finte, ma verissime, e la piazza non una cosa dipinta e picciola, ma vera e grandissima.
Ordinò egli similmente le lumiere, i lumi di dentro che servono alla prospettiva e tutte l'altre cose che facevano di bisogno con molto giudizio, essendosi, come ho detto, quasi perduto del tutto l'uso delle comedie, la quale maniera di spettacolo avanza, per mio creder, quando ha tutte le sue appartenenze, qualunche altro quanto si voglia magnifico e sontuoso.
Nella creazione poi di papa Clemente Settimo l'anno 1524, fece l'apparato della coronazione e finì in San Piero la facciata della capella maggiore di preperigni, già stata cominciata da Bramante.
E nella capella, dove è la sepoltura di bronzo di papa Sisto, fece di pittura quegli Apostoli che sono di chiaro scuro nelle nicchie dietro l'altare, et il disegno del tabernacolo del Sagramento, che è molto grazioso.
Venuto poi l'anno 1527, nel crudelissimo sacco di Roma, il povero Baldassarre fu fatto prigione degli Spagnuoli, e non solamente perdé ogni suo avere, ma fu anco molto straziato e tormentato: per che, avendo egli l'aspetto grave, nobile e grazioso, lo credevano qualche gran prelato travestito, o altro uomo atto a pagare una grossissima taglia.
Ma finalmente, avendo trovato quegli impiissimi barbari che egli era un dipintore, gli fece un di loro, stato affezionatissimo di Borbone fare il ritratto di quel sceleratissimo capitano nimico di Dio e degli uomini, o che gliele facesse vedere così morto o in altro modo che glielo mostrasse con disegni o con parole.
Dopo ciò, essendo uscito Baldassarre delle mani loro, imbarcò per andarsene a Porto Ercole e di lì a Siena, ma fu per la strada di maniera sua ligato e spogliato d'ogni cosa, che se n'andò a Siena in camicia.
Nondimeno, essendo onoratamente ricevuto e rivestito dagl'amici, gli fu poco appresso ordinato provisione e salario dal publico, acciò attendesse alla fortificazione di quella città, nella quale dimorando ebbe due figliuoli, et oltre quello che fece per il publico, fece molti disegni di case ai suoi cittadini, e nella chiesa del Carmino il disegno dell'ornamento dell'organo, che è molto bello.
Intanto venuto l'essercito imperiale e del papa all'assedio di Firenze, Sua Santità mandò Baldassarre in campo a Baccio Valori comissario, acciò si servisse dell'ingegno di lui ne' bisogni del campo e nell'espugnazione della città.
Ma Baldassarre, amando più la libertà dell'antica patria che la grazia del Papa, senza temer punto l'indignazione di tanto Pontefice, non si volle mai adoperare in cosa alcuna di momento, di che accortosi il Papa, gli portò per un pezzo non piccolo odio.
Ma finita la guerra, desiderando Baldassarre di ritornare a Roma, i cardinali Salviati, Triulzi e Cesarino, i quali tutti aveva in molte cose amorevolmente serviti, lo ritornarono in grazia del Papa e ne' primi maneggi, onde poté liberamente ritornarsene a Roma, dove, dopo non molti giorni, fece per i signori Orsini il disegno di due bellissimi palazzi che furono fabbricati in verso Viterbo, e d'alcuni altri edifizii per la Paglia.
Ma non intermettendo in questo mentre gli studii d'astrologia, né quelli della matematica e gl'altri, di che molto si dilettava, cominciò un libro dell'antichità di Roma et a comentare Vitruvio facendo i disegni di mano in mano delle figure, sopra gli scritti di quell'autore, di che ancor oggi se ne vede una parte appresso Francesco da Siena, che fu suo discepolo; dove in alcune carte sono i disegni dell'antichità e del modo di fabricare alla moderna.
Fece anco, stando in Roma, il disegno della casa de' Massimi girato in forma ovale, con bello e nuovo modo di fabbrica; e nella facciata dinanzi fece un vestibulo di colonne doriche molto artifizioso e proporzionato, et un bello spartimento nel cortile e nell'acconcio delle scale, ma non poté vedere finita quest'opera, sopragiunto dalla morte.
Ma ancor che tante fussero le virtù e le fatiche di questo nobile artefice, elle giovarono poco nondimeno a lui stesso et assai ad altri, perché, se bene fu adoperato da papi, cardinali et altri personaggi grandi e ricchissimi, non però alcuno d'essi gli fece mai rilevato benefizio; e ciò poté agevolmente avvenire non tanto dalla poca liberalità de' signori, che per lo più meno sono liberali dove più doverebbono, quanto dalla timidità e troppa modestia, anzi, per dir meglio in questo caso, dappocaggine di Baldassarri.
E per dire il vero quanto si deve esser discreto con i principi magnanimi e liberali, tanto bisogna essere con gl'avari, ingrati e discortesi, importuno sempre e fastidioso, perciò che, sì come con i buoni l'importunità et il chieder sempre sarebbe vizio, così con gl'avari ell'è virtù, e vizio sarebbe con i sì fatti essere discreto.
Si trovò dunque negl'ultimi anni della vita sua Baldassarre vecchio, povero e carico di famiglia.
E finalmente, essendo vivuto sempre costumatissimo, amalato gravemente, si mise in letto.
Il che intendendo papa Paulo Terzo, e tardi conoscendo il danno che riceveva nella perdita di tanto uomo, gli mandò a donare per Iacomo Melighi, computista di San Piero, cento scudi, et a fargli amorevolissime offerte.
Ma egli aggravato nel male, o pure che così avesse a essere (come si crede) sollecitatagli la morte con veleno da qualche suo emulo che il suo luogo disiderava, del quale traeva scudi 250 di provisione, il che fu tardi dai medici conosciuto, si morì malissimo contento, più per cagione della sua povera famiglia che di se medesimo, vedendo in che mal termine egli la lasciava.
Fu dai figliuoli e dagl'amici molto pianto e nella Ritonda appresso a Raffaello da Urbino, dove fu da tutti i pittori, scultori et architettori di Roma onorevolmente pianto et accompagnato, datogli onorata sepoltura con questo epitaffio:
Balthasari Perutio senensi, viro et pictura et architectura,
aliisque ingeniorum artibus adeo
excellenti, ut si priscorum occubuisset temporibus,
nostra illum felicius legerent.
Vixit annos LV.
Menses XI.
Dies XX.
Lucretia et Io.
Salustius optimo coniugi et parenti,
non sine lachrimis
Simonis, Honorii, Claudii AEmiliae ac Sulpitiae
minorum filiorum, dolentes posuerunt.
Die IIII Ianuarii M.D.XXXVI.
Fu maggiore la fama et il nome di Baldassarre essendo morto che non era stato in vita; et allora massimamente fu la sua virtù desiderata che papa Paulo Terzo si risolvé di far finire San Piero, perché l'avidero allora di quanto aiuto egli sarebbe stato ad Antonio da San Gallo; perché, se bene Antonio fece quello che si vede, avrebbe nondimeno (come si crede) meglio veduto in compagnia di Baldassarre alcune difficultà di quell'opera.
Rimase erede di molte cose di Baldassarre Sebastiano Serlio bolognese, il quale fece il terzo libro dell'architetture et il quarto dell'antichità di Roma misurate, et in questi le già dette fatiche di Baldassarre furono parte messe in margine e parte furono di molto aiuto all'autore.
I quali scritti di Baldassarre rimasero per la maggior parte in mano a Iacopo Melighino ferrarese, che fu poi fatto architetto da papa Paulo detto nelle sue fabbriche; et al detto Francese Sanese, stato suo creato e discepolo, di mano del quale Francesco è in Roma l'arme del cardinale di Trani in Navona molto lodata et alcune altre opere.
E da costui avemo avuto il ritratto di Baldassarre e notizia di molte cose che non potei sapere quando uscì la prima volta fuori questo libro.
Fu anco discepolo di Baldassarre Virgilio Romano, che nella sua patria fece a mezzo Borgo Nuovo una facciata di granito con alcuni prigioni e molte altre opere belle.
Ebbe anco dal medesimo i primi principii d'architettura Antonio del Rozzo, cittadino sanese, et ingegneri eccellentissimo.
E seguitollo parimente il Riccio, pittore sanese, se bene ha poi imitato assai la maniera di Giovan Antonio Soddoma da Vercelli.
Fu anco suo creato Giovambatista Peloro, architetto sanese, il quale attese molto alle matematiche ed alla cosmografia e fece di sua mano bussole, quadranti e molti ferri e stromenti da misurare, e similmente le piante di molte fortificazioni, che sono per la maggior parte appresso maestro Giuliano orefice sanese, amicissimo suo.
Fece questo Giovambatista al Duca Cosimo de' Medici tutto di rilievo e bello affatto il sito di Siena, con le valli e ciò che ha intorno a un miglio e mezzo, le mura, le strade, i forti et insomma del tutto un bellissimo modello.
Ma perché era costui instabile, si partì, ancor che avesse buona provisione da quel principe, e, pensando di far meglio, si condusse in Francia dove, avendo seguitato la corte senza alcun frutto molto tempo, si morì finalmente in Avignone.
Ma ancor che costui fusse molto pratico et intendente architetto, non si vede però in alcun luogo fabbriche fatte da lui o con suo ordine, stando egli sempre tanto poco in un luogo, che non si poteva risolvere niente; onde consumò tutto il tempo in disegni, capricci, misure e modelli.
Ha meritato nondimeno, come professor delle nostre arti, che di lui si faccia memoria.
Disegnò Baldassare eccellentemente in tutt'i modi e con gran giudizio e diligenza, ma più di penna, d'acquerello e chiaro scuro che d'altro, come si vede in molti disegni suoi, che sono appresso gl'artefici e particolarmente nel nostro libro in diverse carte: in una delle quali è una storia finta per capriccio, cioè una piazza piena d'archi, colossi, teatri, obelisci, piramidi, tempii di diverse maniere, portici et altre cose tutte fatte all'antica, e sopra una base è Mercurio al quale correndo intorno tutte le sorti d'archimisti con soffietti, mantici, bocce et altri instrumenti da stillare, gli fanno un serviziale per farlo andar del corpo, con non meno ridicola che bella invenzione e capriccio.
Furono amici e molto domestici di Baldassarre, il quale fu con ognuno sempre cortese, modesto e gentile, Domenico Beccafumi sanese, pittore eccellente, et il Capanna, il quale, oltre molte cose che dipinse in Siena, fece la facciata de' Turchi et un'altra che v'è sopra la piazza.
VITA DI GIOVAN FRANCESCO DETTO IL FATTORE FIORENTINO E DI PELLEGRINO DA MODANA PITTORI
Giovanfrancesco Penni, detto il Fattore, pittor fiorentino, non fu manco obligato alla fortuna che egli si fusse alla bontà della sua natura, poiché i costumi, l'inclinazione alla pittura e l'altre sue virtù, furono cagione che Raffaello da Urbino se lo prese in casa et insieme con Giulio Romano se l'allevò e tenne poi sempre l'uno e l'altro come figliuoli, dimostrando alla sua morte quanto conto tenesse d'amendue, nel lasciargli eredi delle virtù sue e delle facultadi insieme.
Giovanfrancesco dunque, il quale cominciando da putto, quando prima andò in casa di Raffaello, a esser chiamato il Fattore, si ritenne sempre quel nome, immitò ne' suoi disegni la maniera di Raffaello e quella osservò del continuo, come ne possono far fede alcuni suoi disegni che sono nel nostro libro.
E non è gran fatto che molti se ne veggiano e tutti con diligenza finiti, perché si dilettò molto più di disegnare che di colorire.
Furono le prime cose di Giovan Francesco da lui lavorate nelle logge del papa a Roma in compagnia di Giovanni da Udine, di Perino del Vaga e d'altri eccellenti maestri.
Nelle quali opere si vede una bonissima grazia e di maestro che attendesse alla perfezzione delle cose; fu universale e dilettossi molto di far paesi e casamenti; colorì bene a olio, a fresco et a tempera e ritrasse di naturale eccellentemente e fu in ogni cosa molto aiutato dalla natura, intanto che senza molto studio intendeva bene tutte le cose dell'arte, onde fu di grande aiuto a Raffaello a dipignere gran parte de' cartoni dei panni d'arazzo della cappella del papa e del Concistoro, e particolarmente le fregiature.
Lavorò anco molte altre cose con i cartoni et ordine di Raffaello, come la volta d'Agostino Chigi in Trastevere e molti quadri, tavole et altre opere diverse.
Nelle quali si portò tanto bene, che meritò più l'un giorno che l'altro da Raffaello essere amato.
Fece in Monte Giordano in Roma una facciata di chiaro scuro et in Santa Maria di Anima, alla porta del fianco che va alla Pace, in fresco un San Cristofano d'otto braccia, che è bonissima figura; et in quest'opera è un romito in una grotta con una lanterna in mano, con buon disegno e grazia unitamente condotto.
Venuto poi Giovan Francesco a Firenze, fece a Lodovico Capponi a Montughi, luogo fuor della porta a San Gallo, un tabernacolo con una Nostra Donna molto lodata.
Intanto, venuto a morte Raffaello, Giulio Romano e Giovan Francesco, stati suoi discepoli, stettono molto tempo insieme e finirono di compagnia l'opere che di Raffaello erano rimase imperfette, e particolarmente quelle che egli aveva cominciato nella vigna del papa e similmente quelle della sala grande di palazzo; dove sono di mano di questi due dipinti le storie di Gostantino con bonissime figure e condotte con bella pratica e maniera, ancor che le invenzioni e gli schizzi delle storie venissero in parte da Raffaello.
Mentre che questi lavori si facevano, Perino del Vaga, pittore molto eccellente, tolse per moglie una sorella di Giovan Francesco, onde fecero molti lavori insieme, e seguitando poi Giulio e Giovan Francesco fecero in compagnia una tavola di due pezzi, drentovi l'assunzione di Nostra Donna che andò a Perugia a Monteluci, e così altri lavori e quadri per diversi luoghi.
Avendo poi commessione da Papa Clemente di fare una tavola simile a quella di Raffaello che è a San Piero a Montorio, la quale si aveva a mandare in Francia, dove quella era prima stata da Raffaello destinata, la cominciarono et appresso venuti a divisione e partita la roba, i disegni et ogni altra cosa lasciata loro a Raffaello, Giulio se n'andò a Mantova, dove al Marchese lavorò infinite cose; là dove, non molto dopo, capitando ancor Giovan Francesco, o tiratovi dall'amicizia di Giulio o da speranza di dovervi lavorare, fu sì poco da Giulio accarezzato, che se ne partì tostamente e, girata la Lombardia, se ne tornò a Roma; e da Roma in sulle galee se n'andò a Napoli dietro al Marchese del Vasto, portando seco la tavola finita, che era imposta, di San Piero a Montorio et altre cose, le quali fece posare in Ischia, isola del Marchese.
Ma la tavola fu posta poi, dove è oggi, in Napoli nella chiesa di Santo Spirito degl'Incurabili.
Fermatosi dunque Giovan Francesco in Napoli et attendendo a disegnare e dipignere, si tratteneva, essendo da lui molto carezzato, con Tommaso Cambi, mercante fiorentino che governava le cose di quel signore.
Ma non vi dimorò lungamente perché, essendo di mala complessione, ammalatosi vi si morì con incredibile dispiacere di quel signor Marchese e di chiunche lo conosceva.
Ebbe costui un fratello, similmente dipintore, chiamato Luca, il quale lavorò in Genoa con Perino suo cognato et in Lucca et in molti altri luoghi d'Italia.
E finalmente se n'andò in Inghilterra dove avendo alcune cose lavorato al re e per alcuni mercanti, si diede finalmente a far disegni per mandar fuori stampe di rame che si conoscono, oltre alla maniera, al nome suo: e fra l'altre è sua opera una carta, dove alcune femmine sono in un bagno, l'originale della quale di propria mano di Luca è nel nostro libro.
Fu discepolo di Giovan Francesco Lionardo, detto il Pistoia per esser pistolese, il quale lavorò alcune cose in Lucca et in Roma fece molti ritratti di naturale; et in Napoli per il vescovo d'Ariano Diomede Caraffa, oggi cardinale, fece in San Domenico una tavola della lapidazione di Santo Stefano in una sua cappella.
Et in Monte Oliveto ne fece un'altra, che fu posta all'altar maggiore, e levatane poi per dar luogo a un'altra di simile invenzione di mano di Giorgio Vasari aretino.
Guadagnò Lionardo molti danari con que' signori napoletani, ma ne fece poco capitale, perché se gli giocava di mano in mano.
E finalmente si morì in Napoli, lasciando nome di essere stato buono coloritore, ma non già d'avere avuto molto buon disegno.
Visse Giovan Francesco anni 40, e l'opere sue furono circa al 1528.
Fu amico di Giovan Francesco e discepolo anch'egli di Raffaello, Pellegrino da Modana, il quale avendosi nella pittura acquistato nome di bello ingegno nella patria, deliberò, udite le maraviglie di Raffaello da Urbino, per corrispondere mediante l'affaticarsi alla speranza già conceputa di lui, andarsene a Roma; là dove, giunto, si pose con Raffaello, che niuna cosa negò mai agl'uomini virtuosi.
Erano allora in Roma infiniti giovani che attendevano alla pittura et emulando fra loro cercavano l'uno l'altro avanzare nel disegno, per venire in grazia di Raffaello e guadagnarsi nome fra i popoli, per che attendendo continuamente Pellegrino agli studi, divenne, oltre al disegno, di pratica maestrevole nell'arte.
E quando Leone Decimo fece dipignere le logge a Raffaello, vi lavorò anch'egli in compagnia degl'altri giovani e riuscì tanto bene che Raffaello si servì poi di lui in molte altre cose.
Fece Pellegrino in Santo Eustachio di Roma, entrando in chiesa, tre figure in fresco a uno altare, e nella chiesa de' Portughesi alla Scrofa la cappella dell'altare maggiore in fresco, insieme con la tavola.
Dopo, avendo in San Iacopo della nazione spagnuola fatta fare il cardinale Alborense una cappella adorna di molti marmi, e da Iacopo Sansovino un San Iacopo di marmo alto quattro braccia e mezzo e molto lodato, Pellegrino vi dipinse in fresco le storie della vita di quello Apostolo, facendo alle figure gentilissima aria a immitazione di Raffaello suo maestro et avendo tanto bene accommodato tutto il componimento, che quell'opera fece conoscere Pellegrino per uomo desto e di bello e buono ingegno nella pittura.
Finito questo lavoro, ne fece molti altri in Roma e da per sé et in compagnia.
Ma venuto finalmente a morte Raffaello, egli se ne tornò a Modana, dove fece molte opere, et in fra l'altre per una Confraternita di Battuti fece in una tavola a olio San Giovanni che battezza Cristo, e nella chiesa de' Servi in un'altra tavola San Cosmo e Damiano con altre figure.
Dopo, avendo preso moglie, ebbe un figliuolo che fu cagione delle sua morte; perché venuto a parole con alcuni suoi compagni, giovani modanesi, n'amazzò uno.
Di che portata la nuova a Pellegrino, egli, per soccorrere al figliuolo, acciò non andasse in mano della giustizia, si mise in via per trafugarlo.
Ma non essendo ancora molto lontano da casa, lo scontrarono i parenti del giovane morto, i quali andavano cercando l'omicida; costoro dunque, affrontando Pellegrino, che non ebbe tempo a fuggire, tutti infuriati poiché non avevano potuto giugnere il figliuolo, gli diedero tante ferite, che lo lasciarono in terra morto.
Dolse molto ai Modanesi questo caso, conoscendo essi che per la morte di Pellegrino restavano privi di uno spirito veramente peregrino e raro.
Fu coetaneo di costui Gaudenzio Milanese, pittore eccellente, pratico et espedito, il quale in fresco fece in Milano molte opere, e particularmente ai frati della Passione un Cenacolo bellissimo, che per la morte sua rimase imperfetto.
Lavorò anco a olio eccellentemente, e di sua mano sono assai opere a Vercelli et a Veralla molto stimate.
VITA D'ANDREA DEL SARTO ECCELLENTISSIMO PITTORE FIORENTINO
Eccoci dopo le vite di molti artefici stati eccellenti chi per colorito, chi per disegno e chi per invenzione, pervenuti all'eccellentissimo Andrea del Sarto: nel quale uno mostrarono la natura e l'arte tutto quello che può far la pittura, mediante il disegno, il colorire e l'invenzione; in tanto che, se fusse stato Andrea d'animo alquanto più fiero et ardito, sì come era d'ingegno e giudizio profondissimo in questa arte, sarebbe stato senza dubitazione alcuna senza pari.
Ma una certa timidità d'animo, et una sua certa natura dimessa e semplice, non lasciò mai vedere in lui un certo vivace ardore, né quella fierezza, che aggiunta all'altre sue parti l'arebbe fatto essere nella pittura veramente divino; perciò che egli mancò per questa cagione di quegli ornamenti, grandezza e copiosità di maniere, che in molti altri pittori si sono vedute.
Sono non di meno le sue figure, se bene semplici e pure, bene intese, senza errori et in tutti i conti di somma perfezzione; l'arie delle teste, così di putti come di femmine, sono naturali e graziose, e quelle de' giovani e de' vecchi con vivacità e prontezza mirabile; i panni begli a maraviglia e gl'ignudi molto bene intesi.
E se bene disegnò semplicemente, sono non di meno i coloriti suoi rari e veramente divini.
Nacque Andrea l'anno 1478 in Fiorenza di padre che esercitò sempre l'arte del sarto, onde egli fu sempre così chiamato da ognuno.
E pervenuto all'età di sette anni, levato dalla scuola di leggere e scrivere, fu messo all'arte dell'orefice.
Nella quale molto più volentieri si esercitò sempre (a ciò spinto da naturale inclinazzione) in disegnare che in maneggiando ferri per lavorare d'argento o d'oro; onde avvenne che Gian Barile, pittore fiorentino, ma grosso e plebeo, veduto il buon modo di disegnare del fanciullo, se lo tirò appresso e, fattogli abbandonare l'orefice, lo condusse all'arte della pittura.
Nella quale cominciandosi ad esercitare Andrea con suo molto piacere, conobbe che la natura per quello esercizio l'aveva creato; onde cominciò in assai picciolo spazio di tempo a far cose con i colori, che Gian Barile e gl'altri artefici della città ne restavano maravigliati.
Ma avendo dopo tre anni fatto bonissima pratica nel lavorare e studiando continuamente, s'avvide Gian Barile che, attendendo il fanciullo a quello studio, egli era per fare una straordinaria riuscita, perché, parlatone con Piero di Cosimo, tenuto allora dei migliori pittori che fussero in Fiorenza, acconciò seco Andrea il quale, come desideroso d'imparare, non restava mai di affaticarsi, né di studiare.
E la natura, che l'aveva fatto nascere pittore, operava tanto in lui che nel maneggiare i colori lo faceva con tanta grazia, come se avesse lavorato cinquanta anni; onde Piero gli pose grandissimo amore e sentiva incredibile piacere nell'udire che quando aveva punto di tempo, e massimamente i giorni di festa, egli spendeva tutto il dì insieme con altri giovani disegnando alla sala del papa, dove era il cartone di Michelagnolo e quello di Lionardo da Vinci; e che superava, ancor che giovanetto, tutti gl'altri disegnatori che, terrazzani e forestieri, quasi senza fine vi concorrevano.
In fra i quali piacque più che quella di tutti gl'altri ad Andrea la natura e conversazione del Francia Bigio pittore, e parimente al Francia quella d'Andrea; onde, fatti amici, Andrea disse al Francia che non poteva più sopportare la stranezza di Piero già vecchio e che voleva perciò torre una stanza da sé, la quale cosa udendo il Francia, che era forzato a fare il medesimo, perché Mariotto Albertinelli suo maestro aveva abbandonata l'arte della pittura, disse al suo compagno Andrea che anch'egli aveva bisogno di stanza e che sarebbe con comodo dell'uno e dell'altro ridursi insieme.
Avendo essi addunque tolta una stanza alla piazza del Grano, condussero molte opere di compagnia, una delle quali furono le cortine che cuoprono l'altar maggior delle tavole de' Servi, le quali furono allogate loro da un sagrestano, strettissimo parente del Francia.
Nelle quali tele dipinsero, in quella che è volta verso il coro, una Nostra Donna Annunziata, e nell'altra, che è dinanzi, un Cristo diposto di croce, simile a quello che è nella tavola che quivi era di mano di Filippo e di Pietro Perugino.
Solevano ragunarsi in Fiorenza in capo della via Larga, sopra le case del Magnifico Ottaviano de' Medici, dirimpetto all'orto di San Marco, gli uomini della Compagnia che si dice dello Scalzo, intitolata in San Giovanni Battista; la quale era stata murata in que' giorni da molti artefici fiorentini, i quali fra l'altre cose vi avevano fatto di muraglia un cortile di prima giunta che posava sopra alcune colonne non molto grandi; onde, vedendo alcuni di loro che Andrea veniva in grado d'ottimo pittore, deliberarono, essendo più ricchi d'animo che di danari, che egli facesse intorno a detto chiostro in dodici quadri di chiaro scuro, cioè di terretta in fresco, dodici storie della vita di San Giovanbatista; per lo che egli, messovi mano, fece nella prima quando San Giovanni battezza Cristo, con molta diligenza e tanto buona maniera, che gl'acquistò credito, onore e fama per sì fatta maniera, che molte persone si voltarono a fargli fare opere, come a quello che stimavano dover col tempo a quello onorato fine che prometteva il principio del suo operare straordinario pervenire.
E fra l'altre cose che egli allora fece di quella prima maniera, fece un quadro che oggi è in casa di Filippo Spini, tenuto per memoria di tanto artefice in molta venerazione.
Né molto dopo in San Gallo, chiesa de' frati Eremitani osservanti dell'Ordine di Santo Agostino, fuor della porta a San Gallo, gli fu fatto fare per una capella una tavola d'un Cristo, quando in forma d'ortolano apparisce nell'orto a Maria Maddalena; la quale opera, per colorito e per una certa morbidezza et unione, è dolce per tutto e così ben condotta, che ella fu cagione che non molto poi ne fece due altre nella medesima chiesa, come si dirà di sotto.
Questa tavola è oggi al Canto agl'Alberti in San Jacopo tra' Fossi, e similmente l'altre due.
Dopo queste opere, partendosi Andrea et il Francia dalla piazza del Grano, presono nuove stanze vicino al convento della Nunziata, nella Sapienza; onde avvenne che Andrea et Iacopo Sansovino allora giovane, il quale nel medesimo luogo lavorava di scultura sotto Andrea Contucci suo maestro, feciono sì grande e stretta amicizia insieme che né giorno né notte si staccava l'uno dall'altro, e per lo più i loro ragionamenti erano delle difficultà dell'arte; onde non è maraviglia se l'uno e l'altro sono poi stati eccellentissimi, come si dice ora d'Andrea e come a suo luogo si dirà di Iacopo.
Stando in quel tempo medesimo nel detto convento de' Servi et al banco delle candele un frate sagrestano, chiamato fra' Mariano dal canto alle macine, egli sentiva molto lodare a ognuno Andrea e dire che egli andava facendo maraviglioso acquisto nella pittura, perché pensò di cavarsi una voglia con non molta spesa.
E così, tentando Andrea (che dolce e buono uomo era) nelle cose dell'onore, cominciò a mostrargli sotto spezie di carità di volerlo aiutare in cosa che egli recarebbe onore et utile e lo farebbe conoscere per sì fatta maniera, che non sarebbe mai più povero.
Aveva già molti anni innanzi, nel primo cortile de' Servi, fatto Alesso Baldovinetti nella facciata, che fa spalle alla Nunziata, una Natività di Cristo, come si è detto di sopra; e Cosimo Rosselli dall'altra parte aveva cominciato nel medesimo cortile una storia, dove San Filippo autore di quell'Ordine de' Servi piglia l'abito, la quale storia non aveva Cosimo condotta a fine per essere, mentre appunto la lavorava, venuto a morte.
Il frate dunque, avendo volontà grande di seguitare il resto, pensò di fare con suo utile che Andrea et il Francia, i quali erano d'amici venuti concorrenti nell'arte, gareggiassino insieme e ne facessino ciascun di loro una parte; il che, oltre all'essere servito benissimo, averebbe fatto la spesa minore et a loro le fatiche più grandi.
Laonde, aperto l'animo suo ad Andrea, lo persuase a pigliare quel carico, mostrandogli che per essere quel luogo publico e molto frequentato, egli sarebbe, mediante cotale opera, conosciuto non meno dai forestieri che dai fiorentini e che egli per ciò che doveva pensare a prezzo nessuno, anzi neanco di esserne pregato, ma più tosto di pregare altrui e che, quando egli a ciò che non volesse attendere, aveva il Francia, che, per farsi conoscere, aveva offerto di farle e del prezzo rimettersi in lui.
Furono questi stimoli molto gagliardi a far che Andrea si risolvesse a pigliare quel carico, essendo egli massimamente di poco animo.
Ma questo ultimo del Francia l'indusse a risolversi affatto et ad essere d'accordo, mediante una scritta, di tutta l'opera, perché niun altro v'entrasse.
Così dunque avendolo il frate imbarcato e datogli danari, volle che per la prima cosa egli seguitasse la vita di San Filippo e non avesse per prezzo da lui altro che dieci ducati per ciascuna storia, dicendo che anco quelli gli dava di suo e che ciò faceva più per bene e commodo di lui, che per utile o bisogno del convento.
Seguitando dunque quell'opera con grandissima diligenza, come quello che più pensava all'onore che all'utile, finì del tutto, in non molto tempo, le prime tre storie e le scoperse: cioè in una quando San Filippo già frate riveste quell'ignudo, nell'altra quando egli sgridando alcuni giuocatori che biastemmano Dio e si ridevano di S.
Filippo, facendosi beffe del suo ammonirgli, viene in un tempo una saetta dal cielo, e percosso un albero dove eglino stavano sotto all'ombra, ne uccide due e mette negl'altri incredibile spavento: alcuni con le mani alla testa si gettano sbalorditi innanzi et altri si mettono gridando in fuga tutti spaventati; et una femmina, uscita di sé per lo tuono della saetta e per la paura et in fuga tanto naturale, che pare ch'ella veramente viva; et un cavallo scioltosi a tanto rumore e spavento, fa con i salti e con un orribile movimento vedere quanto le cose improvise e che non si aspettino rechino timore e spavento; nel che tutto si conosce quanto Andrea pensasse alla varietà delle cose ne' casi che avvengono, con avvertenze certamente belle e necessarie a chi esercita la pittura.
Nella terza fece quando S.
Filippo cava gli spiriti da dosso a una femmina, con tutte quelle considerazioni che migliori in sì fatta azzione possono immaginarsi.
Onde recarono tutte queste storie ad Andrea onore grandissimo e fama; perché inanimito seguitò di fare due altre storie nel medesimo cortile: in una faccia è San Filippo morto e i suoi frati intorno che lo piangono, et oltre ciò, un putto morto che toccando la bara dove è S.
Filippo, risuscita; onde vi si vede prima morto e poi risuscitato e vivo con molto bella considerazione e naturale e propria.
Nell'ultima da quella banda figurò i frati che mettono la veste di San Filippo in capo a certi fanciulli; et in questa ritrasse Andrea della Robbia scultore in un vecchio vestito di rosso, che viene chinato e con una mazza in mano.
Similmente vi ritrasse Luca suo figliuolo sì come nell'altra già detta, dove è morto San Filippo, ritrasse Girolamo pur figliuolo d'Andrea, scultore e suo amicissimo, il quale è morto, non è molto, in Francia.
E così, dato fine al cortile di quella banda, parendogli il prezzo poco e l'onore troppo, si risolvé licenziare il rimanente dell'opera, quantunque il frate molto se ne dolesse, ma per l'obbligo fatto non volle disobligarlo, se Andrea non gli promisse prima fare due altre storie a suo commodo piacimento e crescendogli il frate il prezzo, e così furono d'accordo.
Per queste opere venuto Andrea in maggior cognizione, gli furono allogati molti quadri et opere d'importanza, e fra l'altre dal generale de' monaci di Vallombrosa, per il monasterio di San Salvi, fuor della porta alla Croce nel refettorio, l'arco d'una volta e la facciata, per farvi un Cenacolo.
Nella quale volta fece in quattro tondi quattro figure: San Benedetto, San Giovanni Gualberto, San Salvi vescovo e San Bernardo degl'Uberti di Firenze loro frate e cardinale; e nel mezzo fece un tondo dentrovi tre faccie, che sono una medesima, per la Trinità, e fu questa opera, per cosa in fresco, molto ben lavorata e per ciò tenuto Andrea quello che egli era veramente nella pittura.
Laonde per ordine di Baccio d'Agnolo gli fu dato a fare in fresco allo sdrucciolo d'Or San Michele, che va in Mercato Nuovo, in un biscanto, quella Nunziata di maniera minuta, che ancor vi si vede, la quale non gli fu molto lodata e ciò poté essere perché Andrea, il quale faceva bene senza affaticarsi o sforzare la natura, volle, come si crede, in questa opera sforzarsi e farla con troppo studio.
Fra i molti quadri, che poi fece per Fiorenza, de' quali tutti sarei troppo lungo a volere ragionare, dirò che fra i più segnalati si può anoverare quello che oggi è in camera di Baccio Barbadori, nel quale è una Nostra Donna intera con un Putto in collo e Santa Anna e San Giuseppo, lavorati di bella maniera e tenuti carissimi da Baccio.
Uno ne fece similmente molto lodevole, che è oggi appresso Lorenzo di Domenico Borghini, et un altro a Lionardo del Giocondo d'una Nostra Donna, che al presente è posseduto da Piero suo figliuolo.
A Carlo Ginori ne fece due non molto grandi, che poi furono comperi dal Magnifico Ottaviano de' Medici, de' quali oggi n'è uno nella sua bellissima villa di Campi, e l'altro ha in camera, con molte altre pitture moderne fatte da eccellentissimi maestri, il signor Bernardetto, degno figliuolo di tanto padre, il quale come onora e stima l'opere de' famosi artefici, così è in tutte l'azzioni veramente magnifico e generoso signore.
Aveva in questo mentre il frate de' Servi allogato al Francia Bigio una delle storie del sopradetto cortile, ma egli non aveva anco finito di fare la turata, quando Andrea, insospettito perché gli pareva che il Francia in maneggiare i colori a fresco fusse di sé più pratico e spedito maestro, fece, quasi per gara, i cartoni delle due storie, per mettergli in opera nel canto fra la porta del fianco di San Bastiano e la porta minore, che del cortile entra nella Nunziata; e fatto i cartoni, si mise a lavorare in fresco e fece nella prima la Natività di Nostra Donna, con un componimento di figure benissimo misurate et accommodate con grazia in una camera, dove alcune donne, come amiche e parenti, essendo venute a visitarla, sono intorno alla donna di parto, vestite di quegli abiti che in quel tempo si usavano, et alcune altre manco manco nobili, standosi intorno al fuoco, lavano la puttina pur allor nata, mentre alcune altre fanno le fascie et altri così fatti servigi; e fra gl'altri vi è un fanciullo che si scalda a quel fuoco, molto vivace, et un vecchio che si riposa sopra un lettuccio, molto naturale; et alcune donne similmente che portano da mangiare alla donna che è nel letto, con modi veramente proprii e naturalissimi.
E tutte queste figure insieme con alcuni putti, che stando in aria gettano fiori, sono per l'aria, per i panni e per ogn'altra cosa consideratissimi e coloriti tanto morbidamente, che paiono di carne le figure e l'altre cose più tosto naturali che dipinte.
Nell'altra Andrea fece i tre Magi d'Oriente, i quali guidati dalla stella andarono ad adorare il fanciullino Gesù Cristo; e gli finse scavalcati, quasi che fussero vicini al destinato luogo, e ciò per esser solo lo spazio delle due porte per vano fra loro e la Natività di Cristo, che di mano di Alesso Baldovinetti si vede; nella quale storia Andrea fece la corte di que' tre Re venire lor dietro con i cariaggi e molti arnesi e genti che gl'accompagnano, fra i quali sono in un cantone ritratti di naturale tre persone vestite d'abito fiorentino, l'uno è Iacopo Sansovino, che guarda in verso chi vede la storia tutto intero, l'altro appoggiato a esso, che ha un braccio in iscorto et accenna è Andrea, maestro dell'opera, et un'altra testa in mezzo occhio dietro a Iacopo è l'Aiolle musico.
Vi sono, oltre ciò, alcuni putti che salgono su per le mura, per stare a vedere passare le magnificenze e le stravaganti bestie, che menano con esso loro que' tre Re.
La quale istoria è tutta simile all'altra già detta di bontà, anzi nell'una e nell'altra superò se stesso, non che il Francia, che anch'egli la sua vi finì.
In questo medesimo tempo fece una tavola, per la Badia di San Godenzo, benefizio dei medesimi frati, che fu tenuta molto ben fatta; e per i frati di San Gallo fece in una tavola la Nostra Donna annunziata dall'Angelo, nella quale si vede un'unione di colorito molto piacevole et alcune teste d'Angeli che accompagnano Gabbriello, con dolcezza sfumate e di bellezza d'arie di teste condotte perfettamente, e sotto questa fece una predella Iacopo da Puntormo, allora discepolo d'Andrea, il quale diede saggio in quell'età giovenile d'avere a far poi le bell'opere che fece in Fiorenza di sua mano; prima che egli diventasse si può dire un altro, come si dirà nella sua vita.
Dopo fece Andrea un quadro di figure non molto grandi a Zanobi Girolami, nel quale era dentro una storia di Giuseppo, figliuolo di Iacob, che fu da lui finita con una diligenza molto continuata e perciò tenuta una bellissima pittura.
Prese, non molto dopo, a fare agl'uomini della Compagnia di Santa Maria della Neve, dietro alle monache di Santo Ambrogio, in una tavolina tre figure: la Nostra Donna, San Giovambatista e Santo Ambruogio, la quale opera finita fu col tempo posta in sull'altare di detta Compagnia.
Aveva in questo mentre preso dimestichezza Andrea, mediante la sua virtù, con Giovanni Gaddi, che fu poi cherico di camera; il quale, perché si dilettò sempre dell'arti del disegno, faceva allora lavorare del continuo Iacopo Sansovino; onde, piacendo a costui la maniera d'Andrea, gli fece fare per sé un quadro d'una Nostra Donna bellissima; il quale, per avergli Andrea fatto intorno e modegli et altre fatiche ingegnose, fu stimato la più bella opera che insino allora Andrea avesse dipinto.
Fece dopo questo un altro quadro di Nostra Donna a Giovanni di Paulo merciaio, che piacque a chiunque il vide infinitamente per essere veramente bellissimo.
Et ad Andrea Santini ne fece un altro, dentrovi la Nostra Donna, Cristo, San Giovanni e San Giuseppo, lavorati con tanta diligenza, che sempre furono stimati in Fiorenza pittura molto lodevole.
Le quali tutte opere diedero sì gran nome ad Andrea nella sua città, che fra molti giovani e vecchi, che allora dipignevano, era stimato dei più eccellenti che adoperassino colori e pennelli; laonde si trovava non solo essere onorato, ma in istato ancora, se bene si faceva poco affatto pagare le sue fatiche, che poteva in parte aiutare e sovvenire i suoi e difenderse dai fastidii e dalle noie che hanno coloro che ci vivono poveramente.
Ma essendosi d'una giovane innamorato e poco appresso, essendo rimasta vedova, toltala per moglie, ebbe più che fare il rimanente della sua vita e molto più da travagliare che per l'adietro fatto non aveva; perciò che, oltre le fatiche e fastidii che seco portano simili impacci comunemente, egli se ne prese alcuni da vantaggio, come quello che fu ora da gelosia et ora da una cosa et ora da un'altra combattuto.
Ma per tornare all'opere che fece, le quali, come furono assai, così furono rarissime, egli fece, dopo quelle di che si è favellato di sopra, a un frate di Santa Croce dell'Ordine minore, il quale era governatore allora delle monache di San Francesco in via Pentolini e si dilettava molto della pittura, in una tavola per la chiesa di dette monache, la Nostra Donna ritta e rilevata sopra una basa in otto faccie; in sulle cantonate della quale sono alcune arpie che seggono quasi adorando la Vergine, la quale con una mano tiene in collo il Figliuolo, che con attitudine bellissima la strigne con le braccia tenerissimamente, e con l'altra un libro serrato, guardando due putti ignudi i quali, mentre l'aiutano a reggere, le fanno intorno ornamento.
Ha questa Madonna, da man ritta, un San Francesco molto ben fatto, nella testa del quale si conosce la bontà e semplicità che fu veramente in quel santo uomo; oltre ciò sono i piedi bellissimi, e così i panni, perché Andrea con un girar di pieghe molto ricco e con alcune ammaccature dolci sempre contornava le figure in modo che si vedeva l'ignudo; a man destra ha un San Giovanni Evangelista, finto giovane et in atto di scrivere l'Evangelio, in molto bella maniera; si vede, oltre ciò, in questa opera un fumo di nuvoli trasparenti sopra il casamento e le figure che pare che si muovino.
La quale opera è tenuta oggi fra le cose d'Andrea di singolare e veramente rara bellezza.
Fece anco al Nizza legnaiuolo un quadro di Nostra Donna che fu non men bello stimato che l'altre opere sue.
Deliberando poi l'Arte de' Mercatanti che si facessero alcuni carri trionfali di legname, a guisa degl'antichi Romani, perché andassero la mattina di San Giovanni a processione in cambio di certi paliotti di drappo e ceri che le città e castella portano in segno di tributo, passando dinanzi al Duca e magistrati principali, di dieci che se ne fecero allora, ne dipinse Andrea alcuni a olio e di chiaro scuro, con alcune storie che furono molto lodate.
E se bene si doveva seguitare di farne ogni anno qualcuno, per insino a che ogni città e terra avesse il suo (il che sarebbe stato magnificenza e pompa grandissima) fu nondimeno dismesso il ciò fare l'anno 1527.
Mentre dunque che con queste et altre opere Andrea adornava la sua città et il suo nome ogni giorno maggiormente cresceva, deliberarono gl'uomini della Compagnia dello Scalzo che Andrea finisse l'opera del loro cortile, che già aveva cominciato e fattovi la storia del battesimo di Cristo; e così, avendo egli rimesso mano all'opera più volentieri, vi fece due storie, e per ornamento della porta che entra nella Compagnia, una Carità et una Iustizia bellissime.
In una delle storie fece San Giovanni che predica alle turbe in attitudine pronta, con persona adulta e simile alla vita che faceva e con un'aria di testa che mostra tutto spirito e considerazione.
Similmente la varietà e prontezza degl'ascoltatori è maravigliosa, vedendosi alcuni stare ammirati e tutti attoniti nell'udire nuove parole et una così rara e non mai più udita dottrina.
Ma molto più si adoperò l'ingegno d'Andrea nel dipignere Giovanni che battezza in acqua una infinità di popoli, alcuni de' quali si spogliano, altri ricevono il battesimo et altri, essendo spogliati, aspettano che finisca di battezzare quelli che sono inanzi a loro; et in tutti mostrò un vivo affetto e molto ardente disiderio nell'attitudini di coloro che si affrettano per essere mondati dal peccato, senzaché tutte le figure sono tanto ben lavorate in quel chiaro scuro ch'elle rappresentano vive istorie di marmo e verissime.
Non tacerò che, mentre Andrea in queste et in altre pitture si adoperava, uscirono fuori alcune stampe intagliate in rame d'Alberto Duro, e che egli se ne servì e ne cavò alcune figure, riducendole alla maniera sua.
Il che ha fatto credere ad alcuni, non che sia male servirsi delle buone cose altrui destramente, ma che Andrea non avesse molta invenzione.
Venne in quel tempo disiderio a Baccio Bandinelli, allora disegnatore molto stimato, d'imparare a colorire a olio; onde, conoscendo che niuno in Fiorenza ciò meglio sapea fare di esso Andrea, gli fece fare un ritratto di sé, che somigliò molto in quell'età, come si può anco vedere.
E così nel vedergli fare questa et altre opere, vide il suo modo di colorire, se ben poi o per la difficultà o per non se ne curare, non seguitò di colorire, tornandogli più a proposito la scultura.
Fece Andrea un quadro ad Alessandro Corsini pieno di putti intorno et una Nostra Donna che siede in terra con un putto in collo; il quale quadro fu condotto con bell'arte e con un colorito molto piacevole.
Et a un merciaio, che faceva bottega in Roma et era suo molto amico, fece una testa bellissima.
Similmente Giovanbatista Puccini fiorentino, piacendogli straordinariamente il modo di fare d'Andrea, gli fece fare un quadro di Nostra Donna per mandare in Francia, ma riuscitogli bellissimo se lo tenne per sé e non lo mandò altrimenti.
Ma nondimeno, facendo egli in Francia suoi traffichi e negozii e perciò essendogli commesso che facesse opera di mandar la pittura eccellente, diede a fare ad Andrea un quadro d'un Cristo morto e certi Angeli attorno che lo sostenevano e con atti mesti e pietosi contemplavano il loro Fattore in tanta miseria per i peccati degli uomini.
Questa opera finita che fu, piacque di maniera universalmente, che Andrea, pregato da molti, la fece intagliare in Roma da Agostino Viniziano; ma non gli essendo riuscita molto bene, non volle mai più dare alcuna cosa alla stampa.
Ma tornando al quadro, egli non piacque meno in Francia, dove fu mandato, che s'avesse fatto in Fiorenza, in tanto che il re, acceso di maggior disiderio d'avere dell'opere d'Andrea, diede ordine che ne facesse alcun'altre, la quale cosa fu cagione che Andrea, persuaso dagl'amici, si risolvé d'andare poco dopo in Francia.
Ma intanto, intendendo i Fiorentini, il che fu l'anno 1515, che papa Leone Decimo voleva fare grazie alla patria di farsi in quella vedere, ordinarono per riceverlo feste grandissime et un magnifico e sontuoso apparato con tanti archi, facciate, tempii, colossi et altre statue et ornamenti, che infino allora non era mai stato fatto né il più sontuoso, né il più ricco e bello; perché allora fioriva in quella città maggior copia di begli et elevati ingegni, che in altri tempi fusse avvenuto già mai.
All'entrata della porta di San Pier Gattolini, fece Iacopo di Sandro un arco tutto istoriato et insieme con esso lui Baccio da Monte Lupo; a San Felice in Piazza ne fece un altro Giuliano del Tasso, et a Santa Trinita alcune statue e la meta di Romolo; et in Mercato Nuovo la Colonna Traiana.
In piazza de' Signori fece un tempio a otto faccie Antonio, fratello di Giuliano da San Gallo; e Baccio Bandinelli fece un gigante in sulla loggia.
Fra la Badia et il palazzo del podestà fecero un arco il Granaccio et Aristotile da San Gallo, et al canto de' Bischeri ne fece un altro il Rosso, con molto bello ordine e varietà di figure.
Ma quello che fu più di tutto stimato fu la facciata di Santa Maria del Fiore, fatta di legname e lavorata in diverse storie di chiaro scuro dal nostro Andrea, tanto bene che più non si sarebbe potuto disiderare; e perché l'architettura di questa opera fu di Jacopo Sansovino e similmente alcune storie di basso rilievo e di scultura molte figure tonde, fu giudicato dal Papa che non sarebbe potuto essere quell'edifizio più bello quando fusse stato di marmo, e ciò fu invenzione di Lorenzo de' Medici, padre di quel Papa, quando viveva.
Fece il medesimo Iacopo in sulla piazza di Santa Maria Novella un cavallo simile a quello di Roma, che fu tenuto bello affatto.
Furono anco fatti infiniti ornamenti alla sala del papa nella via della Scala, e la metà di quella strada piena di bellissime storie di mano di molti artefici; ma per la maggior parte disegnate da Baccio Bandinelli.
Entrando dunque Leone in Fiorenza del medesimo anno, il terzo dì di settembre, fu giudicato questo apparato il maggiore che fusse stato fatto già mai et il più bello.
Ma tornando oggimai ad Andrea, essendo di nuovo ricerco di fare un altro quadro per lo re di Francia, ne finì in poco tempo uno, nel quale fece una Nostra Donna bellissima, che fu mandato subito e cavatone dai mercanti quattro volte più che non l'avevano essi pagato.
Aveva a punto allora Pier Francesco Borgherini fatto fare a Baccio d'Agnolo di legnami intagliati spalliere, cassoni, sederi e letto di noce molto belli, per fornimento d'una camera; onde, perché corrispondessero le pitture all'eccellenza degl'altri lavori, fece in quelli fare una parte delle storie da Andrea, in figure non molto grandi, de' fatti di Giuseppo figliuolo di Iacob, a concorrenza d'alcune che n'aveva fatte il Granaccio e Iacopo da Pontorno, che sono molto belle.
Andrea dunque si sforzò, con mettere in quel lavoro diligenza e tempo straordinario, di far sì che gli riuscissero più perfette che quelle degli altri sopra detti.
Il che gli venne fatto benissimo, avendo egli nella varietà delle cose, che accaggiono in quelle storie, mostro quanto egli valesse nell'arte della pittura.
Le quali storie per la bontà loro furono per l'assedio di Fiorenza volute scassare di dove erano confitte da Giovanbatista della Palla, per mandare al re di Francia; ma perché erano confitte di sorte che tutta l'opera si sarebbe guasta, restarono nel luogo medesimo con un quadro di Nostra Donna che è tenuto cosa rarissima.
Fece dopo questo Andrea una testa d'un Cristo, tenuta oggi dai frati de' Servi in sull'altare della Nunziata, tanto bella, che io per me non so se può imaginare da umano intelletto, per una testa d'un Cristo, la più bella.
Erano state fatte in San Gallo, fuor della porta nelle capelle della chiesa, oltre alle due tavole d'Andrea, molte altre, le quali non paragonano le sue; onde avendosene ad allogare un'altra, operarono que' frati col padrone della capella ch'ella si desse ad Andrea; il quale, cominciandola subito, fece in quella quattro figure ritte che disputano della Trinità, cioè un Santo Agostino, che con aria veramente africana et in abito di vescovo si muove con veemenzia verso un San Pier martire, che tiene un libro aperto in aria et atto fieramente terribile, la quale testa e figura è molto lodata.
Allato a questo è un San Francesco che con una mano tiene un libro e l'altra ponendosi al petto pare che esprima con la bocca una certa caldezza di fervore che lo faccia quasi struggere in quel ragionamento.
Èvvi anco un S.
Lorenzo, che ascolta come giovane e pare che ceda all'autorità di coloro.
Abbasso sono ginocchioni due figure, una Maddalena con bellissimi panni, il volto della quale è ritratto della moglie, perciò che non faceva aria di femine in nessun luogo che da lei non la ritraesse; se pur aveniva che da altre tallora la togliesse, per l'uso del continuo vederla e per tanto averla disegnata e, che è più, averla nell'animo impressa, veniva che quasi tutte le teste che faceva di femmine, la somigliavano.
L'altra delle quattro figure fu un San Bastiano, il quale, essendo ignudo, mostra le schiene che non dipinte, ma paiono a chiunche le mira vivissime.
E certamente questa fra tante opere a olio fu dagl'artefici tenuta la migliore, conciò sia che in essa si vede molta osservanza nella misura delle figure et un modo molto ordinato e la proprietà dell'aria ne' volti, perché hanno le teste de' giovani dolcezza, crudezza quelle de' vecchi, et un certo mescolato che tiene dell'une e dell'altre quelle di mezza età.
Insomma questa tavola è in tutte le parti bellissima e si truova oggi in San Iacopo tra' Fossi al canto agl'Alberti insieme con l'altre di mano del medesimo.
Mentre che Andrea si andava trattenendo in Fiorenza dietro a queste opere, assai poveramente, senza punto sollevarsi, erano stati considerati in Francia i due quadri che vi aveva mandati dal re Francesco Primo; e fra molti altri stati mandati di Roma, di Vinezia e di Lombardia erano stati di gran lunga giudicati i migliori; lodandogli dunque straordinariamente quel re, gli fu detto che essere potrebbe agevolmente che Andrea si conducesse in Francia al servigio di Sua Maestà.
La qual cosa fu carissima al re, onde data commessione di quanto si avea da fare e che in Fiorenza gli fussero pagati danari per il viaggio, Andrea si mise allegramente in camino per Francia conducendo seco Andrea Sguazzella suo creato.
Arrivati poi finalmente alla corte, furono da quel re con molta amorevolezza et allegramente ricevuti, et Andrea, prima che passasse il primo giorno del suo arrivo, provò quanta fosse la liberalità e cortesia di quel magnanimo re, ricevendo in dono danari e vestimenti ricchi et onorati.
Cominciando poco appresso a lavorare, si fece al re et a tutta la corte grato di maniera, che essendo da tutti carezzato, gli pareva che la sua partita l'avesse condotto da una estrema infelicità a una felicità grandissima.
Ritrasse fra le prime cose, di naturale il Dalfino figliuolo del re, nato di pochi mesi, e così in fascie; e portatolo al re n'ebbe in dono trecento scudi d'oro.
Dopo, seguitando di lavorare, fece al re una Carità che fu tenuta cosa rarissima e dal re tenuta in pregio, come cosa che lo meritava; ordinatogli appresso grossa provisione, faceva ogni opera perché volentieri stesse seco, promettendo che niuna cosa gli mancherebbe.
E questo perché gli piaceva nell'operare d'Andrea la prestezza et il procedere di quell'uomo che si contentava d'ogni cosa; oltre ciò, sodisfacendo molto a tutta la corte, fece molti quadri e molte opere; e se egli avesse considerato donde si era partito e dove la sorte l'aveva condotto, non ha dubbio che sarebbe salito (lasciamo stare le ricchezze) a onoratissimo grado.
Ma essendogli un giorno, che lavorava per la madre del re un San Girolamo in penitenza, venuto alcune lettere da Fiorenza, le quali gli scriveva la moglie, cominciò (qualunque si fusse la cagione) a pensare di partirsi.
Chiese dunque licenza al re, dicendo di volere andare a Firenze e che, accommodate alcune sue faccende, tornerebbe a Sua Maestà per ogni modo e che per starvi più riposato menarebbe seco la moglie, et al ritorno suo porterebbe pitture e sculture di pregio.
Il re, fidandosi di lui, gli diede per ciò danari, et Andrea giurò sopra il Vangelo di ritornare a lui fra pochi mesi.
E così arrivato a Fiorenza felicemente, si godé la sua bella donna parecchi mesi e gl'amici e la città.
Finalmente, passando il termine in fra 'l quale doveva ritornare al re, egli si trovò in ultimo, fra in murare e darsi piacere e non lavorare, aver consumati i suoi danari e quelli del re parimente.
Ma nondimeno volendo egli tornare, potettero più in lui i pianti e i preghi della sua donna che il proprio bisogno e la fede promessa al re.
Onde, non essendo (per compiacere alla donna) tornato, il re ne prese tanto sdegno, che mai più con diritto occhio non volle vedere per molto tempo pittori fiorentini; e giurò che se mai gli fusse capitato Andrea alle mani, più dispiacere che piacere gli arebbe fatto, senza avere punto di riguardo alla virtù di quello.
Così Andrea restato in Fiorenza e da uno altissimo grado venuto a uno infimo, si tratteneva e passava tempo, come poteva il meglio.
Nella sua partita per Francia avevano gl'uomini dello Scalzo, pensando che non dovesse mai più tornare, allogato tutto il restante dell'opera del cortile al Francia Bigio, che già vi aveva fatto due storie; quando vedendo Andrea tornato in Firenze fecero che egli rimise mano all'opera, e seguitando vi fece quattro storie, l'una a canto all'altra.
Nella prima è San Giovanni preso dinanzi a Erode; nell'altra è la cena et il ballo d'Erodiana, con figure molto accomodate et a proposito; nella terza è la decollazione di esso San Giovanni, nella quale il maestro della iustizia mezzo ignudo è figura molto eccellentemente disegnata, sì come sono anco tutte l'altre; nella quarta Erodiana presenta la testa, et in questa sono alcune figure che si maravigliano, fatte con bellissima considerazione; le quali storie sono state un tempo lo studio e la scuola di molti giovani che oggi sono eccellenti in queste arti.
Fece in sul canto che fuor della porta a Pinti voltava per andare agl'Ingesuati, in un tabernacolo a fresco una Nostra Donna a sedere con un Putto in collo et un San Giovanni fanciullo che ride, fatto con arte grandissima e lavorato così perfettamente, che è molto stimato per la bellezza e vivezza sua; e la testa della Nostra Donna è il ritratto della sua moglie di naturale.
Il quale tabernacolo, per la incredibile bellezza di questa pittura, che è veramente maravigliosa, fu lasciato in piedi, quando l'anno 1530 per l'assedio di Fiorenza fu rovinato il detto convento degl'Ingesuati et altri molti bellissimi edifizii.
In que' medesimi tempi, facendo in Francia Bartolomeo Panciatichi il vecchio molte facende di mercanzia, come disideroso di lasciare memoria di sé in Lione, ordinò a Baccio d'Agnolo che gli facesse fare da Andrea una tavola e gliela mandasse là, dicendo che in quella voleva un'Assunta di Nostra Donna con gl'Apostoli intorno al sepolcro.
Questa opera dunque condusse Andrea fin presso alla fine, ma perché il legname di quella parecchie volte s'aperse, or lavorandovi, or lasciandola stare, ella si rimase a dietro non finita del tutto alla morte sua e fu poi da Bartolomeo Panciatichi il giovane riposta nelle sue case, come opera veramente degna di lode, per le bellissime figure degl'Apostoli, oltre alla Nostra Donna che da un coro di putti ritti è circondata, mentre alcuni altri la reggono e portano con una grazia singularissima; et a sommo della tavola è ritratto fra gl'Apostoli Andrea tanto naturalmente che par vivo; è oggi questa nella villa de' Baroncelli, poco fuor di Fiorenza in una chiesetta stata murata da Piero Salviati vicina alla sua villa, per ornamento di detta tavola.
Fece Andrea a sommo dell'orto de' Servi in due cantoni due storie della vigna di Cristo, cioè quando ella si pianta, lega e paleggia, et appresso quel padre di famiglia che chiama a lavorare coloro che si stavano oziosi, fra i quali è uno che mentre dimandato se vuole entrare in opera, sedendo si gratta le mani e sta pensando se vuole andare fra gl'altri operai, nella guisa a punto che certi infingardi si stanno con poca voglia di lavorare.
Ma molto più bella è l'altra, dove il detto padre di famiglia gli fa pagare, mentre essi mormorando si dogliono; e fra questi uno che da sé annovera i danari, stando intento a quello che gli tocca, par vivo; sì come anco pare il castaldo che gli paga; le quali storie sono di chiaro scuro e lavorate in fresco con destrissima pratica.
Dopo queste fece nel noviziato del medesimo convento a sommo d'una scala, una Pietà colorita a fresco in una nicchia, che è molto bella.
Dipinse anco in un quadretto a olio un'altra Pietà et insieme una Natività nella camera di quel convento, dove già stava il generale Angelo Aretino.
Fece il medesimo a Zanobi Bracci, che molto disiderava avere opere di sua mano, in un quadro per una camera, una Nostra Donna che inginocchiata si appoggia a un masso contemplando Cristo che, posato sopra un viluppo di panni, la guarda sorridendo; mentre un San Giovanni, che vi è ritto, accenna alla Nostra Donna quasi mostrando quello essere il vero Figliuol di Dio.
Dietro a questi è un Giuseppo appoggiato con la testa in su le mani posate sopra uno scoglio, che pare si beatifichi l'anima nel vedere la generazione umana essere diventata, per quella nascita, divina.
Dovendo Giulio cardinale de' Medici per commessione di papa Leone far lavorare di stucco e di pittura la volta della sala grande del Poggio a Caiano, palazzo e villa della casa de' Medici, posta fra Pistoia e Fiorenza, fu data la cura di quest'opera e di pagar i danari al Magnifico Ottaviano de' Medici, come a persona che non tralignando dai suoi maggiori s'intendeva di quel mestiere et era amico et amorevole a tutti gl'artefici delle nostre arti, dilettandosi più che altri d'avere adorne le sue case dell'opere dei più eccellenti; ordinò dunque, essendosi dato carico di tutta l'opera al Francia Bigio, ch'egli n'avesse un terzo solo, un terzo Andrea e l'altro Iacopo da Pontormo, Né fu possibile per molto che il Magnifico Ottaviano sollecitasse costoro, né per danari che offerisse e pagasse loro, far sì che quell'opera si conducesse a fine; per che Andrea solamente finì con molta diligenza in una facciata una storia, dentrovi quando a Cesare sono presentati i tributi di tutti gl'animali: il disegno della quale opera è nel nostro libro insieme con molti altri di sua mano; et è il più finito, essendo di chiaro scuro, che Andrea facesse mai.
In questa opera Andrea, per superare il Francia e Iacopo, si mise a fatiche non più usate, tirando in quella una magnifica prospettiva et un ordine di scale molto difficile, per le quali salendo si perviene alla sedia di Cesare; e queste adornò di statue molto ben considerate.
Non gli bastando aver mostro il bell'ingegno suo nella varietà di quelle figure che portano addosso que' tanti diversi animali, come sono una figura indiana che ha una casacca gialla indosso e sopra le spalle una gabbia, tirata in prospettiva, con alcuni papagalli dentro e fuori, che sono cosa rarissima; e come sono ancora alcuni che guidano capre indiane, leoni, giraffi, leonze, lupi cervieri, scimie e mori et altre belle fantasie accommodate con bella maniera e lavorate in fresco divinissimamente, fece anco in su quelle scalee a sedere un nano che tiene in una scatola il camaleonte, tanto ben fatto, che non si può immaginare nella disformità della stranissima forma sua la più bella proporzione di quella che gli diede.
Ma questa opera rimase, come s'è detto, imperfetta per la morte di papa Leone.
E se bene il duca Alessandro de' Medici ebbe disiderio che Iacopo da Pontormo la finisse, non ebbe forza di far sì che vi mettessi mano.
E nel vero ricevé torto grandissimo a restare imperfetta, essendo per cosa di villa la più bella sala del mondo.
Ritornato in Fiorenza, Andrea fece in un quadro una mezza figura ignuda d'un S.
Giovan Battista, che è molto bella, la quale gli fu fatta fare da Giovan Maria Benintendi, che poi la donò al signor duca Cosimo.
Mentre le cose succedevano in questa maniera, ricordandosi alcuna volta Andrea delle cose di Francia, sospirava di cuore; e se avesse pensato trovar perdono del fallo commesso, non ha dubbio che egli vi sarebbe tornato.
E per tentare la fortuna, volle provare se la virtù sua gli potesse a ciò essere giovevole.
Fece addunque in un quadro un S.
Giovanni Battista mezzo ignudo, per mandarlo al gran Maestro di Francia, acciò si adoperasse per farlo ritornare in grazia del re.
Ma qualunche di ciò fusse la cagione, non glielo mandò altrimenti, ma lo vendé al magnifico Ottaviano de' Medici, il quale lo stimò sempre assai mentre visse, sì come fece anco due quadri di Nostre Donne, che gli fece d'una medesima maniera, i quali sono oggi nelle sue case.
Né dopo molto gli fece fare Zanobi Bracci per monsignore di San Biause un quadro, il quale condusse con ogni diligenza, sperando che potesse esser cagione di fargli riavere la grazia del re Francesco, il quale desiderava di tornare a servire.
Fece anco un quadro a Lorenzo Iacopi, di grandezza molto maggiore che l'usato, dentrovi una Nostra Donna a sedere con il Putto in braccio e due altre figure, che l'accompagnano, le quali seggono sopra certe scalee, che di disegno e colorito sono simili all'altre opere sue.
Lavorò similmente un quadro di Nostra Donna bellissimo a Giovanni d'Agostino Dini, che è oggi per la sua bellezza molto stimato; e Cosimo Lapi ritrasse di naturale tanto bene, che pare vivissimo.
Essendo poi venuto l'anno 1523 in Fiorenza la peste et anco pel contado in qualche luogo, Andrea, per mezzo d'Antonio Brancacci, per fuggire la peste et anco lavorare qualche cosa, andò in Mugello a fare per le monache di San Piero a Luco dell'ordine di Camaldoli una tavola.
Là dove menò seco la moglie et una figliastra, e similmente la sorella di lei et un garzone.
Quivi dunque standosi quietamente mise mano all'opera; e perché quelle venerande donne più l'un giorno che l'altro facevano carezze e cortesie alla moglie, a lui et a tutta la brigata, si pose con grandissimo amore a lavorare quella tavola.
Nella quale fece un Cristo morto, pianto dalla Nostra Donna, S.
Giovanni Evangelista e da una Madalena in figure tanto vive, che pare ch'elle abbiano veramente lo spirito e l'anima.
Nel S.
Giovanni si scorge la tenera dilezzione di quell'Apostolo e l'amore della Madalena nel pianto et un dolore estremo nel volto et attitudine della Madonna, la quale vedendo il Cristo, che pare veramente di rilievo in carne e morto, fa per la compassione stare tutto stupefatto e smarrito San Piero e San Paulo, che contemplano morto il Salvatore del mondo in grembo alla madre.
Per le quali maravigliose considerazioni si conosce quanto Andrea si dilettasse delle fini e perfezzioni dell'arte; e per dire il vero questa tavola ha dato più nome a quel monasterio, che quante fabriche e quante altre spese vi sono state fatte, ancor che magnifiche e straordinarie.
Finita la tavola, perché non era ancor passato il pericolo della peste, dimorò nel medesimo luogo, dove era benissimo veduto e carezzato, alcune settimane.
Nel qual tempo, per non si stare, fece non solamente una Visitazione di Nostra Donna e S.
Lisabetta, che è in chiesa a man ritta sopra il presepio, per finimento d'una tavoletta antica, ma ancora in una tela non molto grande una bellissima testa d'un Cristo, alquanto simile a quella che è sopra l'altare della Nunziata, ma non sì finita; la qual testa, che invero si può annoverare fra le buone cose che uscissero delle mani d'Andrea, è oggi nel monasterio de' monaci degl'Angeli di Firenze, appresso il molto reverendo padre don Antonio da Pisa, amator non solo degl'uomini eccellenti nelle nostre arti, ma generalmente di tutti i virtuosi.
Da questo quadro ne sono stati ricavati alcuni; per che avendolo don Silvano Razzi fidato a Zanobi Poggini pittore, acciò uno ne ritraesse a Bartolomeo Gondi, che ne lo richiese, ne furono ricavati alcuni altri, che sono in Firenze tenuti in somma venerazione.
In questo modo adunque passò Andrea senza pericolo il tempo della peste e quelle donne ebbero dalla virtù di tanto uomo quell'opera, che può stare al paragone delle più eccellenti pitture che siano state fatte a' tempi nostri; onde non è maraviglia se Ramazzotto, capo di parte a Scaricalasino, tentò per l'assedio di Firenze più volte d'averla, per mandarla a Bologna in San Michele in Bosco alla sua capella.
Tornato Andrea a Firenze, lavorò a Becuccio Bicchieraio da Gambassi, amicissimo suo, in una tavola una Nostra Donna in aria col Figliuolo in collo, et abbasso quattro figure, San Giovanni Battista, S.
Maria Madalena, S.
Bastiano e San Rocco; e nella predella ritrasse di naturale esso Becuccio e la moglie, che sono vivissimi.
La quale tavola è oggi a Gambassi, castello fra Volterra e Fiorenza nella Valdelsa.
A Zanobi Bracci per una capella della sua villa di Rovezzano fece un bellissimo quadro di una Nostra Donna, che allatta un Putto, et un Giuseppo con tanta diligenza che si staccano, tanto hanno rilievo, dalla tavola.
Il quale quadro è oggi in casa di Messer Antonio Bracci, figliuolo di detto Zanobi.
Fece anco Andrea nel medesimo tempo e nel già detto cortile dello Scalzo, due altre storie; in una delle quali figurò Zacheria che sacrifica et ammutolisce nell'apparirgli l'Angelo; nell'altra è la Visitazione di Nostra Donna, bella a maraviglia.
Federigo Secondo duca di Mantoa, nel passare per Fiorenza, quando andò a far reverenza a Clemente Settimo, vide sopra una porta, in casa Medici, quel ritratto di papa Leone in mezzo al cardinale Giulio de' Medici et al cardinale de' Rossi, che già fece l'eccellentissimo Raffaello da Urbino; per che, piacendogli straordinariamente, pensò, come quello che si dilettava di così fatte pitture eccellenti, farlo suo.
E così quando gli parve tempo, essendo in Roma, lo chiese in dono a papa Clemente, che gliene fece grazia cortesemente; onde fu ordinato in Fiorenza a Ottaviano de' Medici, sotto la cui cura e governo erano Ippolito et Alessandro, che incassatolo, lo facesse portare a Mantoa.
La qual cosa dispiacendo molto al Magnifico Ottaviano, che non arebbe voluto privar Fiorenza d'una sì fatta pittura, si maravigliò che il Papa l'avesse corsa così a un tratto, pure rispose che non mancherebbe di servire il Duca, ma che essendo l'ornamento cattivo ne faceva fare un nuovo, il quale come fusse messo d'oro manderebbe sicurissimamente il quadro a Mantoa; e ciò fatto, Messer Ottaviano, per salvare, come si dice, la capra et i cavoli, mandò segretamente per Andrea e gli disse come il fatto stava, e che a ciò non era altro rimedio che contrafare quello con ogni diligenza; e mandandone un simile al Duca, ritenere, ma nascosamente, quello di mano di Raffaello.
Avendo dunque promesso Andrea di fare quanto sapeva e poteva, fatto fare un quadro simile di grandezza et in tutte le parti, lo lavorò in casa di Messer Ottaviano segretamente.
E vi si affaticò di maniera che esso Messer Ottaviano, intendentissimo delle cose dell'arti, quando fu finito non conosceva l'uno dall'altro, né il proprio e vero dal simile, avendo massimamente Andrea contrafatto insino alle macchie del sucido, come era il vero apunto.
E così, nascosto che ebbero quello di Raffaello, mandarono quello di mano d'Andrea in un ornamento simile a Mantoa.
Di che il Duca restò soddisfattissimo, avendoglielo massimamente lodato, senza essersi avveduto della cosa, Giulio Romano pittore e discepolo di Raffaello.
Il quale Giulio si sarebbe stato sempre in quella openione e l'arebbe creduto di mano di Raffaello.
Ma capitando a Mantoa Giorgio Vasari, il quale, essendo fanciullo e creatura di Messer Ottaviano, aveva veduto Andrea lavorare quel quadro, scoperse la cosa.
Per che, facendo il detto Giulio molte carezze al Vasaro e mostrandogli, dopo molte anticaglie e pitture, quel quadro di Raffaello come la miglior cosa che vi fusse, disse Giorgio: "L'opera è bellissima, ma non è altrimenti di mano di Raffaello".
"Come no?", disse Giulio, "non lo so io, che riconosco i colpi che vi lavorai su?".
"Voi ve gli sete dimenticati", soggiunse Giorgio, "perché questo è di mano d'Andrea del Sarto; e per segno di ciò, eccovi un segno (e glielo mostrò) che fu fatto in Fiorenza, perché quando erano insieme si scambiavano." Ciò udito fece rivoltar Giulio il quadro, e visto il contrasegno, si strinse nelle spalle, dicendo queste parole: "Io non lo stimo meno che s'ella fusse di mano di Raffaello, anzi molto più, perché è cosa fuor di natura che un uomo eccellente imiti sì bene la maniera d'un altro e la faccia così simile".
Basta, che si conosce che così valse la virtù d'Andrea accompagnata, come sola.
E così fu col giudizio e consiglio di Messer Ottaviano sodisfatto al Duca e non privata Fiorenza d'una sì degna opera.
La quale essendogli poi donata dal duca Alessandro, tenne molti anni appresso di sé.
E finalmente ne fece dono al duca Cosimo, che l'ha in guardaroba con molte altre pitture famose.
Mentre che Andrea faceva questo ritratto, fece anco per il detto Messer Ottaviano in un quadro, solo la testa di Giulio cardinal de' Medici, che fu poi papa Clemente, simile a quella di Raffaello, che fu molto bella.
La quale testa fu poi donata da esso Messer Ottaviano al vescovo vecchio de' Marzi.
Non molto dopo, disiderando Messer Baldo Magni da Prato fare alla Madonna della Carcere nella sua terra una tavola di pittura bellissima, dove aveva fatto fare prima un ornamento di marmo molto onorato, gli fu, fra molti altri pittori, messo inanzi Andrea; onde avendo Messer Baldo, ancor che di ciò non s'intendesse molto, più inchinato l'animo a lui che a niun altro, gli aveva quasi dato intenzione di volere che egli e non altri facesse; quando un Niccolò Soggi sansovino, che aveva qualche amicizia in Prato, fu messo inanzi a Messer Baldo per quest'opera, e di maniera aiutato, dicendo che non si poteva avere miglior maestro di lui, che gli fu allogata quell'opera.
Intanto, mandando per Andrea chi l'aiutava, egli con Domenico Puligo et altri pittori amici suoi, pensando al fermo che il lavoro fusse suo, se n'andò a Prato.
Ma giunto trovò che Niccolò non solo aveva rivolto l'animo di Messer Baldo, ma anco era tanto ardito e sfacciato, che in presenza di Messer Baldo disse ad Andrea che giocherebbe seco ogni somma di danari a far qualche cosa di pittura e chi facesse meglio tirasse.
Andrea, che sapea quanto Niccolò valesse, rispose, ancor che per ordinario fusse di poco animo: "Io ho qui meco questo mio garzone che non è stato molto all'arte, se tu vuoi giocar seco, io metterò i danari per lui, ma meco non voglio che tu ciò faccia per niente: perciò che, se io ti vincessi, non mi sarebbe onore, e se io perdessi, mi sarebbe grandissima vergogna".
E detto a Messer Baldo che desse l'opera a Niccolò, perché egli la farebbe di maniera che ella piacerebbe a chi andasse al mercato, se ne tornò a Fiorenza, dove gli fu allogata una tavola per Pisa, divisa in cinque quadri, che poi fu posta alla Madonna di S.
Agnesa lungo le mura di quella città, fra la cittadella vecchia et il Duomo.
Facendo dunque in ciascun quadro una figura, fece S.
Giovanni Battista e S.
Piero, che mettono in mezzo quella Madonna che fa miracoli; negl'altri è S.
Caterina martire, S.
Agnesa e S.
Margherita; figure, ciascuna per sé, che fanno maravigliare per la loro bellezza chiunche le guarda e sono tenute le più leggiadre e belle femmine che egli facesse mai.
Aveva Messer Iacopo, frate de' Servi, nell'assolvere e permutar un voto d'una donna, ordinatole ch'ella facesse fare sopra la porta del fianco della Nunziata che va nel chiostro, dalla parte di fuori, una figura d'una Nostra Donna; per che trovato Andrea, gli disse che aveva a fare spendere questi danari e che, se bene non erano molti, gli pareva ben fatto, avendogli tanto nome acquistato le altre opere fatte in quel luogo, che egli e non altri facesse anco questa.
Andrea, che era anzi dolce uomo che altrimenti, spinto dalle persuasioni di quel padre, dall'utile e dal desiderio della gloria, rispose che la farebbe volentieri; e poco appresso, messovi mano, fece in fresco una Nostra Donna che siede, bellissima, con il Figliuolo in collo et un San Giuseppo, che appoggiato a un sacco, tien gl'occhi fissi a un libro aperto.
E fu si fatta quest'opera, che per disegno, grazia e bontà di colorito e per vivezza e rilievo, mostrò egli avere di gran lunga superati et avanzati tutti i pittori che avevano insino a quel tempo lavorato.
Et invero è questa pittura così fatta che apertamente da se stessa, senza che altri la lodi, si fa conoscere per stupenda e rarissima.
Mancava al cortile dello Scalzo solamente una storia a restare finito del tutto; per il che Andrea, che aveva ringrandito la maniera per aver visto le figure che Michelagnolo aveva cominciate e parte finite per la sagrestia di San Lorenzo, mise mano a fare quest'ultima storia; et in essa, dando l'ultimo saggio del suo miglioramento, fece il nascer di San Giovanni Battista in figure bellissime e molto migliori e di maggior rilievo che l'altre da lui state fatte per l'adietro nel medesimo luogo.
Sono bellissime in questa opera fra l'altre, una femmina che porta il putto nato al letto, dove è S.
Lisabetta, che anch'ella è bellissima figura; e Zacheria che scrive sopra una carta, la quale ha posata sopra un ginocchio, tenendola con una mano e con l'altra scrivendo il nome del figliuolo, tanto vivamente che non gli manca altro che il fiato stesso.
È bellissima similmente una vecchia che siede in su una predella, ridendosi del parto di quell'altra vecchia e mostra nell'attitudine e nell'affetto quel tanto che in simile cosa farebbe la natura.
Finita quell'opera, che certamente è dignissima di ogni lode, fece per il generale di Vallombrosa in una tavola quattro bellissime figure, San Giovanni Battista, S.
Giovangualberto, institutor di quell'Ordine, S.
Michelagnolo e S.
Bernardo, cardinale e loro monaco; e nel mezzo alcuni putti che non possono esser né più vivaci, né più belli.
Questa tavola è a Vallombrosa sopra l'altezza d'un sasso, dove stanno certi monaci separati dagl'altri, in alcune stanze, dette le celle, quasi menando vita da romiti.
Dopo questa, gli fece fare Giuliano Scala, per mandare a Serrezzana, in una tavola una Nostra Donna a sedere col Figlio in collo e due mezze figure dalle ginocchia in su, San Celso e S.
Iulia, S.
Onofrio, S.
Caterina, San Benedetto, S.
Antonio da Padoa, San Piero e San Marco.
La quale tavola fu tenuta simile all'altre cose d'Andrea et al detto Giuliano Scala rimase per un resto, che coloro gli dovevano di danari pagati per loro, un mezzo tondo, dentro al quale è una Nunziata, che andava sopra per finimento della tavola; il quale è nella chiesa de' Servi a una sua capella intorno al coro nella tribuna maggiore.
Erano stati i monaci di San Salvi molti anni senza pensare che si mettesse mano al loro Cenacolo, che avevano dato a fare ad Andrea, allora che fece l'arco con le quattro figure; quando un abbate galantuomo e di giudizio, deliberò che egli finisse quell'opera; onde Andrea, che già si era a ciò altra volta obligato, non fece alcuna resistenza, anzi messovi mano in non molti mesi, lavorandone a suo piacere un pezzo per volta, lo finì e di maniera che quest'opera fu tenuta, ed è certamente, la più facile, la più vivace di colorito e di disegno che facesse già mai, anzi che fare si possa: avendo, oltre all'altre cose, dato grandezza, maestà e grazia infinita a tutte quelle figure; intanto che io non so che mi dire di questo Cenacolo che non sia poco, essendo tale che chiunche lo vede resta stupefatto; onde non è maraviglia se la sua bontà fu cagione che nelle rovine dell'assedio di Firenze l'anno 1529 egli fusse lasciato stare in piedi, allora che i soldati e guastatori, per comandamento di chi reggeva, rovinarono tutti i borghi fuor della città, i monasteri, spedali e tutti altri edifizii.
Costoro dico, avendo rovinato la chiesa et il campanile di San Salvi e cominciando a mandar giù parte del convento, giunti che furono al refettorio, dove è questo Cenacolo, vedendo chi gli guidava e forse avendone udito ragionare sì maravigliosa pittura, abbandonando l'impresa, non lasciò rovinar altro di quel luogo, serbandosi a ciò fare quando non avessero potuto fare altro.
Dopo fece Andrea alla Compagnia di San Iacopo detta il Nicchio, in un segno da portare a processione, un San Iacopo che fa carezze, toccandolo sotto il mento, a un putto vestito da Battuto et un altro putto, che ha un libro in mano, fatto con bella grazia e naturale.
Ritrasse di naturale un commesso de' monaci di Vallonbrosa, che per bisogni del suo monasterio si stava sempre in villa e fu messo sotto un pergolato, dove aveva fatto suoi acconcimi e pergole con varie fantasie e dove percuoteva assai l'acqua et il vento, sì come volle quel commesso amico d'Andrea.
E perché finita l'opera avanzò de' colori e della calcina, Andrea, preso un tegolo, chiamò la Lucrezia sua donna e le disse: "Vien qua, poiché ci sono avanzati questi colori, io ti voglio ritrarre, acciò si veggia in questa tua età come ti sei ben conservata, e si conosca nondimeno quanto hai mutato effigie e sia per esser questo diverso dai primi ritratti".
Ma non volendo la donna, che forse aveva altra fantasia, star ferma, Andrea, quasi indovinando esser vicino al suo fine, tolta una spera, ritrasse se medesimo in quel tegolo, tanto bene che par vivo e naturalissimo.
Il qual ritratto è appresso alla detta Madonna Lucrezia sua donna, che ancor vive.
Ritrasse similmente un canonico pisano suo amicissimo, et il ritratto, che è naturale e molto bello, è anco in Pisa.
Cominciò poi, per la Signoria, i cartoni che si avevano a colorire, per far le spalliere della ringhiera di piazza con molte belle fantasie sopra i quartieri della città, con le bandiere delle capitudini tenute da certi putti, con ornamenti ancora dei simulacri di tutte le virtù, e parimente i monti e' fiumi più famosi del dominio di Fiorenza.
Ma quest'opera così cominciata rimase imperfetta per la morte d'Andrea; come rimase anco, ma poco meno che finita, una tavola che fece per i monaci di Vallombrosa alla loro badia di Poppi in Casentino; nella quale tavola fece una Nostra Donna Assunta con molti putti intorno, San Giovanni Gualberto, San Bernardo cardinale loro monaco, come s'è detto, S.
Caterina e San Fedele.
La quale tavola così imperfetta è oggi in detta Badia di Poppi.
Il simile avvenne d'una tavola non molto grande, che finita doveva andar a Pisa.
Lasciò bene finito del tutto un molto bel quadro, che oggi è in casa di Filippo Salviati, et alcuni altri.
Quasi ne' medesimi tempi Giovanbattista della Palla, avendo compere quante sculture e pitture notabili aveva potuto, facendo ritrarre quelle che non poteva avere, aveva spogliato Fiorenza d'una infinità di cose elette, senza alcun rispetto, per ordinare al re di Francia un appartamento di stanze, che fusse il più ricco di così fatti ornamenti che ritrovare si potesse.
Costui dunque, desiderando che Andrea tornasse in grazia et al servigio del re, gli fece fare due quadri: in uno dipinse Andrea Abramo in atto di volere sacrificare il figliuolo; e ciò con tanta diligenza, che fu giudicato che insino allora non avesse mai fatto meglio.
Si vedeva nella figura del vecchio espressa divinamente quella viva fede e constanza che senza punto spaventarlo, lo faceva di buonissima voglia pronto a uccidere il proprio figliuolo.
Si vedeva anco il medesimo volgere la testa verso un bellissimo putto, il quale parea gli dicesse che fermasse il colpo.
Non dirò quali fussero l'attitudini, l'abito, i calzari et altre cose di quel vecchio, perché non è possibile dirne a bastanza.
Dirò bene che si vedeva il bellissimo e tenero putto Isaac tutto nudo tremare per timore della morte e quasi morto senza esser ferito.
Il medesimo aveva, non che altro, il collo tinto dal calor del sole e candidissime quelle parti che nel viaggio di tre giorni avevano ricoperto i panni.
Similmente il montone fra le spine pareva vivo et i panni di Isaac in terra più tosto veri e naturali che dipinti.
Vi erano, oltre ciò, certi servi ignudi che guardavano un asino che pasceva et un paese tanto ben fatto che quel proprio dove fu il fatto non poteva esser più bello né altrimenti.
La qual pittura, avendo dopo la morte d'Andrea e la cattura di Battista compera Filippo Strozzi, ne fece dono al signor Alfonso Davalos marchese del Vasto, il quale la fece portar nell'isola d'Ischia, vicina a Napoli, e porre in alcune stanze in compagnia d'altre dignissime pitture.
Nell'altro quadro fece una Carità bellissima con tre putti, e questo comperò poi dalla donna d'Andrea, essendo egli morto, Domenico Conti pittore, che poi lo vendé a Niccolò Antinori, che lo tiene come cosa rara, che ell'è veramente.
Venne in questo mentre desiderio al Magnifico Ottaviano de' Medici, vedendo quanto Andrea aveva in quest'ultimo migliorata la maniera, d'avere un quadro di sua mano; onde Andrea, che desiderava servirlo, per esser molto obligato a quel signore, che sempre aveva favorito i begli ingegni e particolarmente i pittori, gli fece in un quadro una Nostra Donna, che siede in terra con un putto in su le gambe a cavalcione, che volge la testa a un San Giovannino, sostenuto da una S.
Elisabetta vecchia, tanto ben fatta e naturale, che par viva, sì come anco ogni altra cosa è lavorata con arte, disegno e diligenza incredibile.
Finito che ebbe questo quadro, Andrea lo portò a Messer Ottaviano; ma perché, essendo allora l'assedio attorno a Firenze, aveva quel signore altri pensieri, gli rispose che lo desse a chi voleva, scusandosi e ringraziandolo sommamente.
Al che Andrea non rispose altro se non: "La fatica è durata per voi e vostro sarà sempre".
"Vendilo", rispose Messer Ottaviano "e serveti de' danari, perciò che io so quel che io mi dico." Partitosi dunque Andrea, se ne tornò a casa, né per chieste che gli fussino fatte volle mai dare il quadro a nessuno, anzi, fornito che fu l'assedio et i Medici tornati in Firenze, riportò Andrea il quadro a Messer Ottaviano, il quale presolo ben volentieri e ringraziandolo, glielo pagò doppiamente.
La qual opera è oggi in camera di Madonna Francesca, sua donna, e sorella del reverendissimo Salviati; la quale non tiene men conto delle belle pitture lasciateli dal Magnifico suo consorte che ella si faccia del conservare e tener conto degl'amici di lui.
Fece un altro quadro Andrea, quasi simile a quello della Carità già detta, a Giovanni Borgherini, dentrovi una Nostra Donna, un S.
Giovanni putto che porge a Cristo una palla, figurata per il mondo, et una testa di S.
Giuseppo molto bella.
Venne voglia a Pavolo da Terra Rossa, veduta la bozza del sopra detto Abramo, d'avere qualche cosa di mano d'Andrea, come amico universalmente di tutti i pittori.
Per che richiestolo d'un ritratto di quello Abramo, Andrea volentieri lo servì, e glielo fece tale che nella sua piccolezza non fu punto inferiore alla grandezza dell'originale.
Laonde, piacendo molto a Pavolo, gli domandò del prezzo per pagarlo, stimando che dovesse costarli quello che veramente valeva; ma chiedendoli Andrea una miseria, Pavolo quasi si vergognò e strettosi nelle spalle gli diede tutto quello che chiese.
Il quadro fu poi mandato da lui a Napoli...
et in quel luogo è la più bella et onorata pittura che vi sia.
Erano per l'assedio di Firenze fuggitisi con le paghe alcuni capitani della città, onde essendo richiesto Andrea di dipignere nella facciata del palazzo del podestà et in piazza non solo detti capitani, ma ancora alcuni cittadini fuggiti e fatti ribelli, disse che gli farebbe; ma per non si acquistare, come Andrea dal Castagno, il cognome degli Impiccati, diede nome di fargli fare a un suo garzone, chiamato Bernardo del Buda.
Ma fatta una turata grande, dove egli stesso entrava e usciva di notte, condusse quelle figure di maniera che parevano coloro stessi vivi e naturali.
I soldati che furon dipinti in piazza nella facciata della Mercatanzia Vecchia vicino alla condotta furono, già sono molt'anni, coperti di bianco perché non si vedesseno.
E similmente i cittadini che egli finì tutti di sua mano nel palazzo del podestà guasti.
Essendo dopo Andrea in questi suoi ultimi anni molto familiare d'alcuni che governavano la Compagnia di San Bastiano che è dietro a' Servi, fece loro di sua mano un San Bastiano dal bellico in su tanto bello, che ben parve che quelle avessero a essere l'ultime pennellate che egli avesse a dare.
Finito l'assedio se ne stava Andrea aspettando che le cose si allargassino, se bene con poca speranza, che il disegno di Francia gli dovesse riuscire, essendo stato preso Giovambatista della Palla, quando Fiorenza si riempié dei soldati del campo e di vettovaglie.
Fra i quali soldati essendo alcuni Lanzi appestati, diedero non piccolo spavento alla città e poco appresso la lasciarono infetta.
Laonde, o fusse per questo sospetto o pure perché avesse disordinato nel mangiare, dopo aver molto in quello assedio patito, si ammalò un giorno Andrea gravemente.
E postosi nel letto giudicatissimo senza trovar rimedio al suo male e senza molto governo, standoli più lontana che poteva la moglie, per timor della peste, si morì (dicono) che quasi nissuno se n'avide; e così con assai poche cirimonie gli fu nella chiesa de' Servi vicino a casa sua dato sepoltura dagli uomini dello Scalzo, dove sogliono sepellirsi tutti quelli di quella Compagnia.
Fu la morte d'Andrea di grandissimo danno alla sua città et all'arte, perché insino all'età di quarantadue anni che visse, andò sempre di cosa in cosa migliorando di sorte, che quanto più fusse vivuto, sempre averebbe accresciuto miglioramento all'arte; perciò che meglio si va acquistando a poco a poco, andandosi col piede più sicuro e fermo nelle difficultà dell'arte, che non si fa in volere sforzare la natura e l'ingegno a un tratto.
Né è dubbio che se Andrea si fusse fermo a Roma, quando egli vi andò per vedere l'opere di Raffaello e di Michelagnolo, e parimente le statue e le rovine di quella città, che egli averebbe molto arrichita la maniera ne' componimenti delle storie et averebbe dato un giorno più finezza e maggior forza alle sue figure.
Il che non è venuto fatto interamente, se non a chi è stato qualche tempo in Roma a praticarle e considerarle minutamente.
Avendo egli dunque dalla natura una dolce e graziosa maniera nel disegno et un colorito facile e vivace molto, così nel lavorare in fresco, come a olio, si crede senza dubbio, se si fusse fermo in Roma, che egli averebbe avanzati tutti gl'artefici del tempo suo.
Ma credono alcuni che da ciò lo ritraesse l'abondanza dell'opere che vidde in quella città di scultura e pittura, e così antiche come moderne, et il vedere molti giovani discepoli di Raffaello e d'altri essere fieri nel disegno e lavorare sicuri e senza stento; i quali, come timido che egli era, non gli diede il cuore di passare.
E così, facendosi paura da sé, si risolvé per lo meglio tornarsene a Firenze, dove, considerando a poco a poco quello che avea veduto, fece tanto profitto che l'opere sue sono state tenute in pregio et amirate, e, che è più, imitate più dopo la morte che mentre visse.
E chi n'ha le tien care, e chi l'ha volute vendere n'ha cavato tre volte più che non furono pagate a lui, atteso che delle sue cose ebbe sempre poco prezzo, sì perché era, come si è detto, timido di natura, e sì perché certi maestri di legname, che allora lavoravano le migliori cose in casa de' cittadini, non gli facevano mai allogare alcun'opera, per servire gl'amici loro, se non quando sapevano che Andrea avesse gran bisogno, nel qual tempo si contentava d'ogni pregio.
Ma questo non toglie che l'opere sue non siano rarissime e che non ne sia tenuto grandissimo conto e meritamente, per essere egli stato de' maggiori e migliori maestri, che siano stati insin qui.
Sono nel nostro libro molti disegni di sua mano, e tutti buoni, ma particolarmente è bello affatto quello della storia che fece al Poggio, quando a Cesare è presentato il tributo di tutti gl'animali orientali; il quale disegno, che è fatto di chiaro scuro, è cosa rara et il più finito che Andrea facesse mai; avenga che quando egli disegnava le cose di naturale per metterle in opera faceva certi schizzi così abbozzati, bastandogli vedere quello che faceva il naturale.
Quando poi gli metteva in opera gli conduceva a perfezzione.
Onde i disegni gli servivano più per memoria di quello che aveva visto che per copiare a punto da quelli le sue pitture.
Furono i discepoli d'Andrea infiniti, ma non tutti fecero il medesimo studio sotto la disciplina di lui, perché vi dimorarono chi poco e chi assai, non per colpa d'Andrea, ma della donna sua, che senza aver rispetto a nessuno, comandando a tutti imperiosamente gli teneva tribolati.
Furono dunque suoi discepoli Iacopo da Puntormo, Andrea Sguazzella, che tenendo la maniera d'Andrea, ha lavorato in Francia un palazzo fuor di Parigi, che è cosa molto lodata; il Solosmeo, Pierfrancesco di Iacopo di Sandro, il qual ha fatto in Santo Spirito tre tavole, e Francesco Salviati e Giorgio Vasari aretino, che fu compagno del detto Salviati, ancor che poco dimorasse con Andrea; Iacopo del Conte fiorentino e Nannoccio, ch'oggi è in Francia col cardinale Tornone in bonissimo credito.
Similmente Iacopo, detto Iacone fu discepolo d'Andrea e molto amico suo et imitatore della sua maniera.
Il quale Iacone, mentre visse Andrea si valse assai di lui, come appare in tutte le sue opere e massimamente nella facciata del cavalier Buondelmonti in sulla piazza di S.
Trinità.
Restò dopo la sua morte erede dei disegni d'Andrea e dell'altre cose dell'arte Domenico Conti, che fece poco profitto nella pittura, al quale furono da alcuni (come si crede) dell'arte rubati una notte tutti i disegni e cartoni et altre cose che aveva d'Andrea.
Né mai si è potuto sapere chi que' tali fussero.
Domenico Conti adunque, come non ingrato de' benefizii ricevuti dal suo maestro e disideroso di dargli dopo la morte quelli onori che meritava, fece sì che la cortesia di Raffaello da Montelupo gli fece un quadro assai ornato di marmo, il quale fu nella chiesa de' Servi murato in un pilastro, con questo epitaffio fattogli dal dottissimo Messer Pier Vettori, allora giovane:
ANDREAE SARTIO
Admirabilis ingenii pictori, ac veteribus illis omnium
iudicio comparando.
Dominicus Contes, discipulus, pro laboribus,
in se instituendo susceptis, grato animo posuit.
Vixit annos XLII.
Obiit Anno MDXXX.
Dopo non molto tempo alcuni cittadini Operai della detta chiesa, più tosto ignoranti che nemici delle memorie onorate, sdegnandosi che quel quadro fusse in quel luogo stato messo senza loro licenza, operarono di maniera che ne fu levato, né per ancora è stato rimurato in altro luogo.
Nel che volle forse mostrarci la fortuna che non solo gl'influssi de' fati possono in vita, ma ancora nelle memorie dopo la morte.
Ma a dispetto loro sono per vivere l'opere et il nome d'Andrea lunghissimo tempo e per tenerne, spero, questi miei scritti, molti secoli, memoria.
Conchiudiamo adunque che se Andrea fu d'animo basso nell'azzioni della vita, contentandosi di poco, egli non è perciò che nell'arte non fusse d'ingegno elevato e speditissimo e pratico in ogni lavoro; avendo con l'opere sue, oltre l'ornamento ch'elle fanno a' luoghi dove elle sono, fatto grandissimo giovamento ai suoi artefici nella maniera, nel disegno e nel colorito; et il tutto con manco errori che altro pittor fiorentino; per avere egli, come si è detto inanzi, inteso benissimo l'ombre et i lumi e lo sfuggire delle cose negli scuri e dipinte le sue cose con una dolcezza molto viva, senzaché egli mostrò il modo di lavorare in fresco con perfetta unione e senza ritoccare molto a secco: il che fa parer fatta ciascuna opera sua tutta in un medesimo giorno.
Onde può agli artefici toscani stare per essempio in ogni luogo et avere fra i più celebrati ingegni loro lode grandissima et onorata palma.
IL FINE DELLA VITA D'ANDREA DEL SARTO, PITTOR FIORENTINO
VITA DI MADONNA PROPERZIA DE' ROSSI SCULTRICE BOLOGNESE
È gran cosa che in tutte quelle virtù et in tutti quelli esercizii ne' quali, in qualunque tempo, hanno voluto le donne intromettersi con qualche studio, elle siano sempre riuscite eccellentissime e più che famose, come con una infinità di esempli agevolmente potrebbe dimostrarsi.
E certamente ognun sa quanto elleno universalmente tutte nelle cose economiche vagliono, oltra che nelle cose della guerra, medesimamente si sa chi fu Camilla, Arpalice, Valasca, Tomiri, Pantasilea, Molpadia, Orizia, Antiope, Ippolita, Semiramide, Zenobia; chi finalmente Fulvia di Marcantonio che, come dice Dione istorico, tante volte s'armò per defender il marito e se medesima.
Ma nella poesia ancora sono state maravigliosissime: come racconta Pausania, Corinna fu molto celebre nel versificare, et Eustachio, nel catalogo delle navi d'Omero, fa menzione di Safo, onoratissima giovane; il medesimo fa Eusebio nel libro de' tempi, la quale invero se ben fu donna, ella fu però tale che superò di gran lunga tutti gli eccellenti scrittori di quella età.
E Varrone loda anch'egli fuor di modo, ma meritamente Erinna, che con trecento versi s'oppose alla gloriosa fama del primo lume della Grecia, e con un suo picciol volume, chiamato Elecate, equiperò la numerosa Iliade del grand'Omero.
Aristofane celebra Carissena, nella medesima professione, per dottissima et eccellentissima femina; e similmente Teano, Merone, Polla, Elpe, Cornificia e Telisilla, alla quale fu posta nel tempio di Venere per maraviglia delle sue tante virtù, una bellissima statua.
E per lassar tant'altre versificatrici, non leggiamo noi che Arete nelle difficultà di filosofia fu maestra del dotto Aristippo? E Lastenia et Assiotea discepole del divinissimo Platone? E nell'arte oratoria Sempronia et Ortensia, femmine romane, furono molto famose.
Nella grammatica, Agallide (come dice Ateneo) fu rarissima, e nel predir delle cose future, o diasi questo all'astrologia, o alla magica, basta che Temi e Cassandra e Manto ebbero ne' tempi loro grandissimo nome.
Come ancora Iside e Cerere nelle necessità dell'agricultura.
Et in tutte le scienze universalmente, le figliuole di Tespio.
Ma certo in nessun'altra età s'è ciò meglio potuto conoscere che nella nostra; dove le donne hanno acquistato grandissima fama, non solamente nello studio delle lettere, com'ha fatto la signora Vittoria del Vasto, la signora Veronica Gambara, la signora Caterina Anguisola, la Schioppa, la Nugarola, Madonna Laura Battiferra e cent'altre, sì nella volgare, come nella latina e nella greca lingua, dottissime; ma eziandio in tutte l'altre facultà.
Né si son vergognate, quasi per torci il vanto della superiorità, di mettersi con le tenere e bianchissime mani nelle cose mecaniche e fra la ruvidezza de' marmi e l'asprezza del ferro, per conseguir il desiderio loro e riportarsene fama, come fece ne' nostri dì Properzia de' Rossi da Bologna, giovane virtuosa, non solamente nelle cose di casa, come l'altre, ma in infinite scienze che non che le donne, ma tutti gli uomini gl'ebbero invidia.
Costei fu del corpo bellissima e sonò e cantò ne' suoi tempi meglio che femmina della sua città.
E perciò ch'era di capriccioso e destrissimo ingegno, si mise ad intagliar noccioli di pesche, i quali sì bene e con tanta pazienza lavorò, che fu cosa singulare e maravigliosa il vederli.
Non solamente per la sottilità del lavoro, ma per la sveltezza delle figurine che in quegli faceva e per la delicatissima maniera del compartirle.
E certamente era un miracolo veder in su un nocciolo così piccolo tutta la Passione di Cristo, fatta con bellissimo intaglio, con una infinità di persone, oltre i crucifissori e gli Apostoli.
Questa cosa le diede animo, dovendosi far l'ornamento delle tre porte della prima facciata di San Petronio, tutta a figure di marmo, che ella per mezzo del marito, chiedesse agli Operai una parte di quel lavoro, i quali di ciò furon contentissimi, ogni volta ch'ella facesse veder loro qualche opera di marmo condotta di sua mano.
Onde ella subito fece al conte Alessandro de' Peppoli un ritratto di finissimo marmo, dov'era il conte Guido suo padre di naturale.
La qual cosa piacque infinitamente, non solo a coloro, ma a tutta quella città, e perciò gl'Operai non mancarono di allogarle una parte di quel lavoro.
Nel quale ella finì, con grandissima maraviglia di tutta Bologna, un leggiadrissimo quadro, dove (perciò che in quel tempo la misera donna era innamoratissima d'un bel giovane, il quale parea che poco di lei si curasse) fece la moglie del maestro di casa di Faraone, che innamoratasi di Giosep, quasi disperata del tanto pregarlo, all'ultimo gli toglie la veste d'attorno con una donnesca grazia e più che mirabile.
Fu questa opera da tutti riputata bellissima et a lei di gran sodisfazzione, parendole con questa figura del Vecchio Testamento avere isfogato in parte l'ardentissima sua passione.
Né volse far altro mai per conto di detta fabbrica, né fu persona che non la pregasse ch'ella seguitar volesse, eccetto maestro Amico, che per l'invidia sempre la sconfortò e sempre ne disse male agli Operai, e fece tanto il maligno, che il suo lavoro le fu pagato un vilissimo prezzo.
Fece ancor ella due Agnoli di grandissimo rilievo e di bella proporzione, ch'oggi si veggono, contra sua voglia però, nella medesima fabbrica.
All'ultimo costei si diede ad intagliar stampe di rame e ciò fece fuor d'ogni biasimo e con grandissima lode.
Finalmente alla povera innamorata giovane ogni cosa riuscì perfettissimamente, eccetto il suo infelicissimo amore.
Andò la fama di così nobile et elevato ingegno per tutt'Italia, et all'ultimo pervenne agli orecchi di papa Clemente VII, il quale, subito che coronato ebbe l'imperatore in Bologna, domandato di lei, trovò la misera donna esser morta quella medesima settimana et esser stata sepolta nello spedale della Morte, che così avea lasciato nel suo ultimo testamento.
Onde al Papa, ch'era volenteroso di vederla, spiacque grandissimamente la morte di quella, ma molto più a' suoi cittadini, li quali mentre ella visse, la tennero per un grandissimo miracolo della natura ne' nostri tempi.
Sono nel nostro libro alcuni disegni di mano di costei fatti di penna e ritratti dalle cose di Raffaello da Urbino, molto buoni, et il suo ritratto si è avuto da alcuni pittori che furono suoi amicissimi.
Ma non è mancato, ancor che ella disegnasse molto bene, chi abbia paragonato Properzia non solamente nel disegno, ma fatto così bene in pittura, com'ella di scultura.
Di queste la prima è suor Plautilla, monaca et oggi priora nel monasterio di S.
Caterina da Siena in Fiorenza in sulla piazza di San Marco.
La quale cominciando a poco a poco a disegnare et ad imitar coi colori quadri e pitture di maestri eccellenti ha con tanta diligenza condotte alcune cose, che ha fatto maravigliare gl'artefici.
Di mano di costei sono due tavole nella chiesa del detto monasterio di S.
Caterina.
Ma quella è molto lodata dove sono i Magi che adorano Gesù.
Nel monasterio di S.
Lucia di Pistoia è una tavola grande nel coro, nella quale è la Madonna col Bambino in braccio, San Tommaso, S.
Agostino, S.
Maria Maddalena, S.
Caterina da Siena, S.
Agnese, S.
Caterina martire e S.
Lucia.
Et un'altra tavola grande di mano della medesima mandò di fuori lo spedalingo di Lemo.
Nel reffettorio del detto monasterio di S.
Caterina è un Cenacolo grande e nella sala del lavoro una tavola di mano della detta.
E per le case de' gentiluomini di Firenze tanti quadri che troppo sarei lungo a volere di tutti ragionare.
Una Nunziata in un gran quadro ha la moglie del signor Mondragone spagnuolo et un'altra simile ne ha Madonna Marietta de Fedini.
Un quadretto di Nostra Donna è in S.
Giovannino di Firenze.
Et una predella d'altare è in S.
Maria del Fiore, nella quale sono istorie della vita di S.
Zanobi molto belle.
E perché questa veneranda e virtuosa suora, inanzi che lavorasse tavole et opere d'importanza, attese a far di minio, sono di sua mano molti quadretti belli affatto in mano di diversi, dei quali non accade far menzione.
Ma quelle cose di mano di costei sono migliori che ella ha ricavato da altri, nelle quali mostra che arebbe fatto cose maravigliose se, come fanno gl'uomini, avesse avuto commodo di studiare et attendere al disegno e ritrarre cose vive e naturali.
E che ciò sia vero, si vede manifestamente in un quadro d'una Natività di Cristo, ritratto da uno che già fece il Bronzino a Filippo Salviati.
Similmente, il vero di ciò si dimostra in questo: che nelle sue opere i volti e fattezze delle donne, per averne veduto a suo piacimento, sono assai migliori che le teste degli uomini non sono e più simili al vero.
Ha ritratto in alcuna delle sue opere in volti di donne Madonna Gostanza de' Doni, stata ne' tempi nostri essempio d'incredibile bellezza et onestà, tanto bene, che da donna, in ciò per le dette cagioni non molto pratica, non si può più oltre desiderare.
Similmente ha con molta sua lode atteso al disegno et alla pittura et attende ancora, avendo imparato da Alessandro Allori allievo del Bronzino, Madonna Lucrezia figliuola di Messer Alfonso Quistelli dalla Mirandola e donna oggi del conte Clemente Pietra; come si può vedere in molti quadri e ritratti che ha lavorati di sua mano, degni d'esser lodati da ognuno.
Ma Soffonisba Cremonese figliuola di Messer Amilcaro Angusciuola, ha con più studio e con miglior grazia che altra donna de' tempi nostri faticato dietro alle cose del disegno, perciò che ha saputo non pure disegnare, colorire e ritrarre di naturale e copiare eccellentemente cose d'altri, ma da sé sola ha fatto cose rarissime e bellissime di pittura.
Onde ha meritato che Filippo re di Spagna, avendo inteso dal signor Duca d'Alba le virtù e meriti suoi, abbia mandato per lei e fattala condurre onoratissimamente in Ispagna, dove la tiene appresso la reina con grossa provisione e con stupor di tutta quella corte che ammira, come cosa maravigliosa, l'eccellenza di Soffonisba.
E non è molto, che Messer Tommaso Cavalieri, gentiluomo romano, mandò al signor duca Cosimo (oltre una carta di mano del divino Michelagnolo dove è una Cleopatra) un'altra carta di mano di Sofonisba, nella quale è una fanciullina che si ride di un putto che piagne, perché avendogli ella messo inanzi un canestrino pieno di gambari, uno d'essi gli morde un dito.
Del quale disegno non si può veder cosa più graziosa, né più simile al vero.
Onde io in memoria della virtù di Sofonisba, poiché vivendo ella in Ispagna non ha l'Italia copia delle sue opere, l'ho messo nel nostro libro de' disegni.
Possiamo dunque dire col divino Ariosto e con verità che:
Le donne son venute in eccellenza
di ciascun'arte ov'hanno posto cura.
E questo sia il fine della vita di Properzia, scultrice bolognese.
VITE D'ALFONSO LOMBARDI FERRARESE DI MICHELAGNOLO DA SIENA E DI GIROLAMO S.
CROCE NAPOLETANO SCULTORI E DI DOSSO E BATTISTA PITTORI FERRARESI
Alfonso Ferrarese, lavorando nella sua prima giovanezza di stucchi e di cera, fece infiniti ritratti di naturale in medagliette piccole a molti signori e gentiluomini della sua patria; alcuni de' quali, che ancora si veggiono di cera e stucco bianchi, fanno fede del buon ingegno e giudizio ch'egli ebbe, come sono quello del principe Doria, d'Alfonso duca di Ferrara, di Clemente Settimo, di Carlo Quinto imperatore, del cardinale Ippolito de' Medici, del Bembo, dell'Ariosto e d'altri simili personaggi.
Costui trovandosi in Bologna per la incoronazione di Carlo Quinto, dove aveva fatto per quello apparato gl'ornamenti della porta di S.
Petronio, fu in tanta considerazione, per essere il primo che introducesse il buon modo di fare ritratti di naturale, in forma di medaglie, come si è detto, che non fu alcun grande uomo in quelle corti per lo quale egli non lavorasse alcuna cosa, con suo molto utile et onore.
Ma non si contentando della gloria et utile che gli veniva dal fare opere di terra, di cera e di stucco, si mise a lavorar di marmo et acquistò tanto in alcune cose di non molta importanza che fece, che gli fu dato a lavorare in San Michele in Bosco fuori di Bologna la sepoltura di Ramazzotto, la quale gli acquistò grandissimo onore e fama.
Dopo la quale opera, fece nella medesima città alcune storiette di marmo di mezzo rilievo all'arca di San Domenico nella predella dell'altare.
Fece similmente per la porta di San Petronio in alcune storiette di marmo a man sinistra, entrando in chiesa, la Resurrezzione di Cristo, molto bella.
Ma quello che ai Bolognesi piacque sommamente fu la morte di Nostra Donna in figure tonde di mistura e di stucco molto forte, nello spedale della Vita, nella stanza di sopra.
Nella quale opera è fra l'altre cose maraviglioso il giudeo, che lascia appiccate le mani al cataletto della Madonna.
Fece anco della medesima mistura nel palazzo publico di quella città, nella sala di sopra del governatore, un Ercole grande che ha sotto l'Idra morta.
La quale statua fu fatta a concorrenza di Zacheria da Volterra, il quale fu di molto superato dalla virtù et eccellenza d'Alfonso.
Alla Madonna del Baracane fece il medesimo due Angeli di stucco, che tengono un padiglione di mezzo rilievo; et in San Giuseppo nella nave di mezzo fra un arco e l'altro fece di terra in alcuni tondi i dodici Apostoli dal mezzo in su di tondo rilievo.
Di terra parimente fece nella medesima città nei cantoni della volta della Madonna del Popolo, quattro figure maggiori del vivo; cioè S.
Petronio, San Procolo, San Francesco e San Domenico, che sono figure bellissime e di gran maniera.
Di mano del medesimo sono alcune cose pur di stucco a Castel Bolognese, et alcune altre in Cesena nella Compagnia di San Giovanni.
Né si maravigli alcuno se in sin qui non si è ragionato che costui lavorasse quasi altro che terra, cera e stucchi e pochissimo di marmo, perché oltre che Alfonso fu sempre in questa maniera di lavori inclinato, passata una certa età, essendo assai bello di persona e d'aspetto giovinile, esercitò l'arte più per piacere e per una certa vanagloria, che per voglia di mettersi a scarpellare sassi.
Usò sempre di portare alle braccia et al collo e ne' vestimenti, ornamenti d'oro et altre frascherie, che lo dimostravano più tosto uomo di corte lascivo e vano che artefice desideroso di gloria.
E nel vero quanto risplendono cotali ornamenti in coloro ai quali per ricchezze, stati e nobiltà di sangue non disconvengono, tanto sono degni di biasimo negl'artefici et altre persone, che non deono, chi per un rispetto e chi per un altro, agguagliarsi a gl'uomini ricchissimi; perciò che in cambio d'esserne questi cotali lodati, sono dagl'uomini di giudizio meno stimati e molte volte scherniti.
Alfonso dunque invaghito di se medesimo et usando termini e lascivie poco convenienti a virtuoso artefice, si levò con sì fatti costumi alcuna volta, tutta quella gloria che gl'aveva acquistato l'affaticarsi nel suo mestiero; perciò che trovandosi una sera a certe nozze in casa d'un conte in Bologna et avendo buona pezza fatto all'amore con una onoratissima gentildonna, fu per avventura invitato da lei al ballo della torcia: perché aggirandosi con essa, vinto da smania d'amore, disse con un profondissimo sospiro e con voce tremante, guardando la sua donna con occhi pieni di dolcezza:
"S'amor non è, che dunque è quel ch'io sento?"
Il che udendo la gentildonna, che accortissima era, per mostrargli l'error suo, rispose: "È sarà qualche pidocchio".
La qual risposta, essendo udita da molti, fu cagione che s'empiesse di questo motto tutta Bologna e ch'egli ne rimanesse sempre scornato.
E veramente se Alfonso avesse dato opera non alle vanità del mondo, ma alle fatiche dell'arte, egli avrebbe senza dubbio fatto cose maravigliose.
Perché se ciò faceva in parte, non si essercitando molto, che averebbe fatto se avesse durato fatica?
Essendo il detto imperador Carlo Quinto in Bologna e venendo l'eccellentissimo Tiziano da Cadór a ritrarre Sua Maestà, venne in desiderio Alfonso di ritrarre anch'egli quel signore; né avendo altro commodo di potere ciò fare, pregò Tiziano senza scoprirgli quello che aveva in animo di fare, che gli facesse grazia di condurlo, in cambio d'un di coloro che gli portavano i colori, alla presenza di Sua Maestà.
Onde Tiziano, che molto l'amava, come cortesissimo che è sempre stato veramente, condusse seco Alfonso nelle stanze dell'imperatore.
Alfonso dunque, posto che si fu Tiziano a lavorare, se gl'accommodò dietro in guisa che non poteva da lui, che attentissimo badava al suo lavoro, esser veduto.
E messo mano a una sua scatoleta in forma di medaglia, ritrasse in quella di stucco l'istesso imperadore e l'ebbe condotto a fine, quando appunto Tiziano ebbe finito anch'egli il suo ritratto.
Nel rizzarsi dunque l'imperatore, Alfonso chiusa la scatola, se l'aveva, acciò Tiziano non la vedesse, già messa nella manica, quando dicendogli Sua Maestà: "Mostra quello che tu hai fatto", fu forzato a dare umilmente quel ritratto in mano dell'imperatore, il quale avendo considerato e molto lodato l'opera, gli disse: "Bastarebbeti l'animo di farla di marmo?".
"Sacra Maestà, sì", rispose Alfonso.
"Falla dunque", soggiunse l'imperatore, "e portamela a Genova." Quanto paresse nuovo questo fatto a Tiziano, se lo può ciascuno per se stesso imaginare.
Io per me credo che gli paresse avere messo la sua virtù in compromesso.
Ma quello che più gli dovette parer strano, si fu che mandando Sua Maestà a donare mille scudi a Tiziano, gli commise che ne desse la metà, cioè cinquecento, ad Alfonso, e gl'altri cinquecento si tenesse per sé.
Di che è da credere, che seco medesimo si dolesse Tiziano.
Alfonso dunque messosi con quel maggiore studio che gli fu possibile a lavorare, condusse con tanta diligenza a fine la testa di marmo, che fu giudicata cosa rarissima.
Onde meritò, portandola all'imperatore, che Sua Maestà gli facesse donare altri trecento scudi.
Venuto Alfonso per i doni e per le lodi dategli da Cesare in riputazione, Ippolito cardinal de' Medici lo condusse a Roma, dove aveva appresso di sé, oltre agl'altri infiniti virtuosi, molti scultori e pittori; e gli fece da una testa antica molto lodata ritrarre in marmo Vitellio imperatore.
Nella quale opera, avendo confirmata l'openione che di lui aveva il cardinale e tutta Roma, gli fu dato a fare dal medesimo in una testa di marmo il ritratto naturale di papa Clemente Settimo; e poco appresso quello di Giuliano de' Medici padre di detto cardinale; ma questa non restò del tutto finita.
Le quali teste furono poi vendute in Roma e da me comperate a requisizione del Magnifico Ottaviano de' Medici, con alcune pitture.
Et oggi dal signor duca Cosimo de' Medici sono state poste nelle stanze nuove del suo palazzo, nella sala dove sono state fatte da me nel palco e nelle facciate, di pittura, tutte le storie di papa Leone Decimo; sono state poste dico in detta sala sopra le porte fatte di quel mischio rosso che si truova vicino a Fiorenza, in compagnia d'altre teste d'uomini illustri della casa de' Medici.
Ma tornando ad Alfonso, egli seguitò poi di fare di scultura al detto cardinale molte cose, che per essere state piccole si sono smarrite.
Venendo poi la morte di Clemente e dovendosi fare la sepoltura di lui e di Leone, fu ad Alfonso allogata quell'opera dal cardinale de' Medici.
Per che avendo egli fatto sopra alcuni schizzi di Michelagnolo Buonarroti un modello con figure di cera, che fu tenuta cosa bellissima, se n'andò con danari a Carrara per cavare i marmi.
Ma essendo non molto dopo morto il cardinale a Itri, essendo partito di Roma per andar in Africa, uscì di mano ad Alfonso quell'opera, perché da' cardinali Salviati, Ridolfi, Pucci, Cibò e Gaddi commessarii di quella, fu ributtato.
E dal favore di Madonna Lucrezia Salviati, figliuola del gran Lorenzo Vecchio de' Medici e sorella di Leone, allogata a Baccio Bandinelli scultor fiorentino, che ne aveva, vivendo Clemente, fatto i modelli; per la qual cosa Alfonso mezzo fuor di sé, posta giù l'alterezza, deliberò tornarsene a Bologna, et arrivato a Fiorenza, donò al duca Alessandro una bellissima testa di marmo d'un Carlo Quinto imperatore, la quale è oggi in Carrara, dove fu mandata dal cardinale Cibò, che la cavò alla morte del duca Alessandro della guardaroba di quel signore.
Era in umore il detto Duca, quando arrivò Alfonso in Fiorenza, di farsi ritrarre: perché, avendolo fatto Domenico di Polo, intagliatore di ruote, e Francesco di Girolamo dal Prato in medaglia, Benvenuto Cellini per le monete, e di pittura Giorgio Vasari aretino e Iacopo da Puntormo, volle che anco Alfonso lo ritraesse; perché, avendone egli fatto uno di rilievo molto bello e miglior assai di quello che avea fatto il Danese da Carrara, gli fu dato commodità, poiché ad ogni modo voleva andar a Bologna, di farne là un di marmo simile al modello.
Avendo dunque Alfonso ricevuto molti doni e cortesie dal duca Alessandro, se ne tornò a Bologna; dove, essendo anco per la morte del cardinale poco contento e per la perdita delle sepolture molto dolente, gli venne una rogna pestifera et incurabile, che a poco a poco l'andò consumando fin che, condottosi a 49 anni della sua età, passò a miglior vita, continuamente dolendosi della fortuna che gl'avesse tolto un signore dal quale poteva sperare tutto quel bene che poteva farlo in questa vita felice; e che ella doveva pur prima chiuder gl'occhi a lui condottosi a tanta miseria, che al cardinale Ippolito de' Medici.
Morì Alfonso l'anno 1536.
Michelagnolo scultore sanese, poi che ebbe consumato i suoi migliori anni in Schiavonia con altri eccellenti scultori, si condusse a Roma con questa occasione.
Morto papa Adriano, il cardinale Hincfort, il quale era stato dimestico e creato di quel Pontefice, non ingrato de' benefizii da lui ricevuti deliberò di fargli una sepoltura di marmo e ne diede cura a Baldassarre Petrucci pittor sanese, il quale fattone il modello, volle che Michelagnolo scultore suo amico e compatriota ne pigliasse carico sopra di sé.
Michelagnolo dunque fece in detta sepoltura esso papa Adriano grande quanto il vivo, disteso in sulla cassa e ritratto di naturale, e sotto a quello in una storia pur di marmo, la sua venuta a Roma et il popolo romano, che va a incontrarlo e l'adora.
Intorno poi sono in quattro nicchie, quattro Virtù di marmo: la Giustizia, la Fortezza, la Pace e la Prudenza, tutte condotte con molta diligenza dalla mano di Michelagnolo e dal consiglio di Baldassarre; bene è vero che alcune delle cose che sono in quell'opera, furono lavorate dal Tribolo scultore fiorentino allora giovanetto, e queste fra tutte furono stimate le migliori.
E perché Michelagnolo con sottilissima diligenza lavorò le cose minori di quell'opera, le figure piccole che vi sono meritano di essere più che tutte l'altre lodate.
Ma fra l'altre cose vi sono alcuni mischi con molta pulitezza lavorati e commessi tanto bene, che più non si può desiderare.
Per le quali fatiche fu a Michelagnolo dal detto cardinale donato giusto et onorato premio e poi sempre carezzato mentre che visse; e nel vero a gran ragione, perciò che questa sepoltura e gratitudine non ha dato minor fama al cardinale che a Michelagnolo si facesse nome in vita e fama dopo la morte.
La quale opera finita non andò molto che Michelagnolo passò da questa all'altra vita d'anni cinquanta in circa.
Girolamo Santa Croce napolitano, ancor che nel più bel corso della sua vita, e quando di lui maggior cose si speravano, ci fusse dalla morte rapito, mostrò nell'opere di scultura, che in que' pochi anni fece in Napoli, quello che arebbe fatto se fusse più lungamente vivuto.
L'opere, adunque, che costui lavorò di scultura in Napoli, furono con quell'amore condotte e finite, che maggiore si può desiderare in un giovane che voglia di gran lunga avanzar gl'altri che abbiano inanzi a lui tenuto in qualche nobile esercizio molti anni il principato.
Lavorò costui in San Giovanni Carbonaro di Napoli la capella del marchese di Vico, la quale è un tempio tondo, partito in colonne e nicchie, con alcune sepolture intagliate con molta diligenza.
E perché la tavola di questa capella, nella quale sono di mezzo rilievo in marmo i Magi che offeriscono a Cristo, è di mano d'uno Spagnuolo, Girolamo fece a concorrenza di quella un San Giovanni di tondo rilievo in una nicchia così bello che mostrò non esser inferiore allo Spagnuolo né d'animo, né di giudizio; onde si acquistò tanto nome, che ancor che in Napoli fusse tenuto scultore maraviglioso, e di tutti migliore Giovanni da Nola, egli nondimeno lavorò mentre Giovanni visse a sua concorrenza, ancor che Giovanni fusse già vecchio et avesse in quella città, dove molto si costuma fare le capelle e le tavole di marmo, lavorato moltissime cose.
Prese dunque Girolamo per concorrenza di Giovanni a fare una capella in Monte Oliveto di Napoli dentro la porta della chiesa a man manca, dirimpetto alla quale ne fece un'altra dall'altra banda Giovanni del medesimo componimento.
Fece Girolamo nella sua una Nostra Donna quanto il vivo tutta tonda, che è tenuta bellissima figura.
E perché misse infinita diligenza nel fare i panni, le mani e spiccare con straforamenti il marmo, la condusse a tanta perfezzione che fu openione che egli avesse passato tutti coloro che in Napoli avevano adoperato al suo tempo ferri per lavorare di marmo.
La qual Madonna pose in mezzo a un S.
Giovanni et un San Piero, figure molto bene intese e con bella maniera lavorate e finite, come sono anco alcuni fanciulli che sono sopra queste collocati.
Fece oltre ciò nella chiesa di Capella, luogo de' monaci di Monte Oliveto, due statue grandi di tutto rilievo, bellissime.
Dopo cominciò una statua di Carlo Quinto imperatore, quando tornò da Tunisi, e quella abbozzata e subbiata in alcuni luoghi, rimase gradinata; perché la fortuna e la morte invidiando al mondo tanto bene, ce lo tolsero d'anni trentacinque.
E certo se Girolamo vivea, si sperava che sì come aveva nella sua professione avanzati tutti quelli della sua patria, così avesse a superare tutti gl'artefici del tempo suo.
Onde dolse a' Napoletani infinitamente la morte di lui e tanto più, quanto egli era stato dalla natura dotato, non pure di bellissimo ingegno, ma di tanta modestia, umanità e gentilezza, quanto più non si può in uomo desiderare; per che non è maraviglia, se tutti coloro che lo conobbono quando di lui ragionano non possono tenere le lacrime.
L'ultime sue sculture furono l'anno 1537, nel quale anno fu sotterrato in Napoli con onoratissime essequie, rimanendo anco vivo il detto Giovanni da Nola vecchio et assai pratico scultore, come si vede in molte opere fatte in Napoli con buona pratica, ma con non molto disegno.
A costui fece lavorare don Petro di Tolledo marchese di Villafranca et allora vece re di Napoli, una sepoltura di marmo per sé e per la sua donna; nella quale opera fece Giovanni una infinità di storie delle vittorie ottenute da quel signore contra i Turchi, con molte statue, che sono in quell'opera tutta isolata, e condotta con molta diligenza.
Doveva questo sepolcro esser portato in Ispagna, ma non avendo ciò fatto mentre visse quel signore, si rimase in Napoli.
Morì Giovanni d'anni settanta e fu sotterrato in Napoli l'anno 1558.
Quasi ne' medesimi tempi che il cielo fece dono a Ferrara, anzi al mondo, del divino Lodovico Ariosto, nacque il Dosso pittore nella medesima città, il quale, se bene non fu così raro tra i pittori come l'Ariosto tra i poeti, si portò non di meno per sì fatta maniera nell'arte, che oltre all'essere state in gran pregio le sue opere in Ferrara, meritò anco che il dotto poeta amico e dimestico suo facesse di lui onorata memoria ne' suoi celebratissimi scritti.
Onde al nome del Dosso ha dato maggior fama la penna di Messer Lodovico, che non fecero tutti i pennelli e colori che consumò in tutta sua vita.
Onde io per me confesso che grandissima ventura è quella di coloro che sono da così grandi uomini celebrati; perché il valor della penna sforza infiniti a dar credenza alle lodi di quelli, ancor che interamente non le meritino.
Fu il Dosso molto amato dal duca Alfonso di Ferrara, prima per le sue qualità nell'arte della pittura e poi per essere uomo affabile molto e piacevole, della quale maniera d'uomini molto si dilettava quel Duca.
Ebbe in Lombardia nome il Dosso di far meglio i paesi che alcun altro che di quella pratica operasse, o in muro o a olio o a guazzo; massimamente da poi che si è veduta la maniera tedesca.
Fece in Ferrara nella chiesa catedrale una tavola con figure a olio, tenuta assai bella, e lavorò nel palazzo del Duca molte stanze in compagnia d'un suo fratello detto Battista, i quali sempre furono nimici l'uno dell'altro, ancor che per voler del Duca lavorassero insieme.
Fecero di chiaro scuro nel cortile di detto palazzo istorie d'Ercole et una infinità di nudi per quelle mura.
Similmente per tutta Ferrara lavorarono molte cose in tavola et in fresco.
E di lor mano è una tavola del Duomo di Modena.
Et in Trento nel palazzo del cardinale in compagnia d'altri pittori fecero molte cose di lor mano.
Ne' medesimi tempi, facendo Girolamo Genga pittore et architettore, per il duca Francesco Maria d'Urbino sopra Pesero al palazzo dell'imperiale molti ornamenti, come al suo luogo si dirà, fra molti pittori, che a quell'opera furono condotti per ordine del detto signor Francesco Maria, vi furono chiamati Dosso e Battista ferraresi, massimamente per far paesi, avendo molto innanzi fatto in quel palazzo molte pitture Francesco di Mirozzo da Forlì, Raffaello dal Colle del Borgo a Sansepolcro e molti altri.
Arrivati dunque il Dosso e Battista all'imperiale, come è usanza di certi uomini così fatti, biasimarono la maggior parte di quelle cose che videro e promessero a quel signore di voler essi fare cose molto migliori; per che il Genga, che era persona accorta, vedendo dove la cosa doveva riuscire, diede loro a dipignere una camera da per loro.
Onde essi messesi a lavorare si sforzarono con ogni fatica e studio di mostrare la virtù loro.
Ma qualunque si fusse di ciò la cagione, non fecero mai in tutto il tempo di lor vita alcuna cosa meno lodevole, anzi peggio di quella.
E pare che spesso avvenga che gl'uomini nei maggior bisogni e quando sono in maggior aspettazione, abagliandosi et acecandosi il giudizio, facciano peggio che mai: il che può forse avvenire dalla loro malignità e cattiva natura di biasimare sempre le cose altrui o dal troppo volere sforzare l'ingegno; essendo che nell'andar di passo e come porge la natura, senza mancar però di studio e diligenza, pare che sia miglior modo che il voler cavar le cose quasi per forza dell'ingegno, dove non sono; donde è vero che anco nell'altre arti e massimamente negli scritti, troppo bene si conosce l'affettazione e per dir così il troppo studio in ogni cosa.
Scopertasi dunque l'opera dei Dossi, ella fu di maniera ridicola che si partirono con vergogna da quel signore; il quale fu forzato a buttar in terra tutto quello che avevano lavorato e farlo da altri ridipignere con il disegno del Genga.
In ultimo fecero costoro nel duomo di Faenza per Messer Giovambattista cavaliere de' Buosi una molto bella tavola d'un Cristo che disputa nel tempio, nella quale opera vinsero se stessi, per la nuova maniera che vi usarono e massimamente nel ritratto di detto cavaliere e d'altri.
La qual tavo