LE VITE DE' PIU' ECCELLENTI PITTORI, SCULTORI, E ARCHITETTORI, di Giorgio Vasari - pagina 58
...
.
Avendo poi, come s'è detto, finita la capella de' Pugliesi, et essendo molto piaciute ai Fiorentini l'opere che vi fece di S.
Girolamo, per avere egli espresso vivamente molti affetti et attitudini non state messe in opera fino allora dai pittori stati innanzi a lui, il Comune di Firenze, l'anno che Gabriel Maria signor di Pisa vendé quella città ai Fiorentini per prezzo di dugentomila scudi dopo l'avere sostenuto Giovanni Gambacorta l'assedio tredici mesi et in ultimo accordatosi anch'egli alla vendita, fece dipignere dallo Starnina, per memoria di ciò, nella facciata del palazzo della Parte Guelfa, un San Dionigi vescovo con due Angeli, e sotto a quello ritratta di naturale la città di Pisa, nel che fare egli usò tanta diligenza in ogni cosa e particolarmente nel colorirla a fresco, che nonostante l'aria e le pioggie e l'essere volta a tramontana, ell'è sempre stata tenuta pittura degna di molta lode, e si tiene al presente per essersi mantenuta fresca e bella come s'ella fusse fatta pur ora.
Venuto dunque per questa o per l'altre opere sue Gherardo in reputazione e fama grandissima nella patria e fuori, la morte, invidiosa e nemica sempre delle virtuose azzioni, in sul più bello dell'operare troncò la infinita speranza di molto maggior cose che il mondo si aveva promesso di lui; perché in età d'anni XLVIIII inaspettatamente giunto al suo fine, con essequie onoratissime fu sepellito nella chiesa di S.
Iacopo sopra Arno.
Furono discepoli di Gherardo Masolino da Panicale, che fu prima eccellente orefice e poi pittore, et alcuni altri che per non esser stati molto valenti uomini non accade ragionarne.
Il ritratto di Gherardo è nella storia sopradetta di S.
Girolamo in una delle figure che sono intorno al Santo quando muore, in proffilo con un capuccio intorno alla testa et indosso un mantello affibbiato.
Nel nostro libro sono alcuni disegni di Gherardo fatti di penna in carta pecora che non sono se non ragionevoli, etc.
FINE DELLA VITA DI GHERARDO STARNINA
VITA DI LIPPO PITTORE FIORENTINO
Sempre fu tenuta e sarà la invenzione madre verissima dell'architettura, della pittura e della poesia, anzi pure di tutte le migliori arti e di tutte le cose maravigliose che dagl'uomini si fanno; perciò che ella gradisce gl'artefici molto e di loro mostra i ghiribizzi et i capricci de' fantastichi cervelli che truovano la varietà delle cose; le novità delle quali esaltano sempre con maravigliosa lode tutti quelli che in cose onorate adoperandosi, con straordinaria bellezza danno forma, sotto coperta e velata ombra alle cose che fanno, talora lodando altrui con destrezza, e talvolta biasimando senza essere apertamente intesi.
Lippo dunque, pittore fiorentino che tanto fu vario e raro nell'invenzione quanto furono veramente infelici l'opere sue e la vita che gli durò poco, nacque in Fiorenza intorno agl'anni di nostra salute 1354, e se bene si mise all'arte della pittura assai ben tardi e già grande, nondimeno fu in modo aiutato dalla natura che a ciò l'inclinava e dall'ingegno che aveva bellissimo, e che presto fece in essa maravigliosi frutti; perciò che, cominciando in Fiorenza i suoi lavori, fece in S.
Benedetto, grande e bel monasterio fuor della porta a Pinti, dell'Ordine di Camaldoli, oggi rovinato, molte figure che furono tenute bellissime, e particolarmente tutta una capella di sua mano, che mostrava quanto un sollecito studio faccia tostamente fare cose grandi a chi per disiderio di gloria onoratamente s'affatica.
Da Fiorenza essendo condotto in Arezzo, nella chiesa di Santo Antonio alla capella de' Magi fece in fresco una storia grande, dove eglino adorano Cristo, et in Vescovado la capella di San Iacopo e San Cristofano, per la famiglia degl'Ubertini, le quali tutte cose, avendo egli invenzione nel comporre le storie e nel colorire, furono bellissime, e massimamente essendo egli stato il primo che cominciasse a scherzare, per dir così, con le figure, e svegliare gl'animi di coloro che furono dopo lui, la qual cosa inanzi non era stata, non che messa in uso, pure acennata.
Avendo poi molte cose lavorato in Bologna, et in Pistoia una tavola che fu ragionevole, se ne tornò a Fiorenza, dove in Santa Maria Maggiore dipinse nella cappella de' Beccundi l'anno 1383 le storie di San Giovanni Evangelista; allato alla quale capella, che è accanto alla maggiore a man sinistra, seguitano nella facciata della chiesa, di mano del medesimo, sei storie del medesimo santo, molto ben composte et ingegnosamente ordinate, dove fra l'altre cose e molto vivamente espresse un San Giovanni che fa mettere da San Dionigi Areopagita la veste di se stesso sopra alcuni morti che nel nome di Gesù Cristo rianno la vita, con molta maraviglia d'alcuni che presenti al fatto a pena il credono agl'occhi loro medesimi.
Così anche nelle figure de' morti si vede grandissimo artifizio in alcuni scorti, ne' quali apertamente si dimostra che Lippo conobbe e tentò in parte alcune difficultà dell'arte della pittura.
Lippo medesimamente fu quegli che dipinse i portelli nel tempio di San Giovanni, cioè del tabernacolo dove sono gl'Angeli et il San Giovanni di rilievo di mano d'Andrea, nei quali lavorò a tempera molto diligentemente istorie di San Giovanni Battista.
E perché si dilettò anco di lavorare di musaico, nel detto San Giovanni sopra la porta che va alla Misericordia, fra le finestre, fece un principio, che fu tenuto bellissimo e la migliore opera di musaico che in quel luogo fino allora fusse stata fatta e racconciò ancora alcune cose, pure di musaico, che in quel tempio erano guaste.
Dipinse ancora fuor di Fiorenza, in San Giovanni fra l'Arcora, fuor della porta a Faenza, che fu rovinato per l'assedio di detta città, allato a una Passione di Cristo fatta da Buffalmacco, molte figure a fresco che furono tenute bellissime da chiunche le vide.
Lavorò similmente a fresco in certi spedaletti della porta a Faenza et in Santo Antonio dentro a detta porta, vicino allo spedale, certi poveri in diverse bellissime maniere et attitudini, e dentro nel chiostro fece con bella e nuova invenzione una visione nella quale figurò quando Santo Antonio vede i lacci del mondo et appresso a quelli la volontà e gl'appetiti degl'uomini, che sono dall'una e dagl'altri tirati alle cose diverse di questo mondo, il che tutto fece con molta considerazione e giudizio.
Lavorò ancora Lippo cose di musaico in molti luoghi d'Italia e, nella Parte guelfa in Firenze fece una figura con la testa invetriata, et in Pisa ancora sono molte cose sue.
Ma nondimeno si può dire che egli fusse veramente infelice, poiché non solo la maggior parte delle fatiche sue sono oggi per terra e nelle rovine dell'assedio di Fiorenza andate in perdizione, ma ancora per avere egli molto infelicemente terminato il corso degl'anni suoi, conciò sia che, essendo Lippo persona litigiosa e che più amava la discordia che la pace, per avere una mattina detto bruttissime parole a un suo avversario al Tribunale della Mercanzia, egli fusse una sera, che se ne tornava a casa, da colui appostato e con un coltello di maniera ferito nel petto che pochi giorni dopo miseramente si morì.
Furono le sue piture circa il MCCCCX.
Fu nei medesimi tempi di Lippo, in Bologna, un altro pittore chiamato similmente Lippo Dalmasi, il quale fu valente uomo, e fra l'altre cose dipinse, come si può vedere in San Petronio di Bologna, l'anno 1407, una Nostra Donna che è tenuta in molta venerazione, et in fresco l'arco sopra la porta di San Proclo, e nella chiesa di San Francesco nella tribuna dell'altar maggiore fece un Cristo grande in mezzo a San Pietro e San Paulo, con buona grazia e maniera; e sotto questa opera si vede scritto il nome suo con lettere grandi.
Disegnò costui ragionevolmente, come si può vedere nel nostro libro; et insegnò l'arte a Messer Galante da Bologna, che disegnò poi molto meglio, come si può vedere nel detto libro in un ritratto dal vivo con abito corto e le maniche a gozzi.
FINE DELLA VITA DI LIPPO PITTORE FIORENTINO
VITA DI DON LORENZO MONACO DEGLI ANGELI DI FIRENZE PITTORE
A una persona buona e religiosa, credo io che sia di gran contento il trovarsi alle mani qualche esercizio onorato o di lettere o di musica o di pittura o di altre liberali e meccaniche arti, che non siano biasimevoli, ma più tosto di utile agl'altri uomini e di giovamento; perciò che dopo i divini uffici, si passa onoratamente il tempo col diletto che si piglia nelle dolci fatiche dei piacevoli esercizii; a che si aggiugne che non solo è stimato e tenuto in pregio dagl'altri, solo che invidiosi non siano e maligni mentre che vive, ma che ancora è dopo la morte da tutti gli uomini onorato, per l'opere e buon nome che di lui resta a coloro che rimangono.
E nel vero, chi dispensa il tempo in questa maniera, vive in quieta contemplazione e senza molestia alcuna di que' stimoli ambiziosi che negli scioperati et oziosi, che per lo più sono ignoranti, con loro vergogna e danno quasi sempre si veggiono.
E se pur avviene che un così fatto virtuoso dai maligni sia tallora percosso, può tanto il valore della virtù che il tempo ricuopre e sotterra la malignità de' cattivi, et il virtuoso ne' secoli che succedono rimane sempre chiaro et illustre.
Don Lorenzo dunque pittore fiorentino, essendo monaco della Relligione di Camaldoli e nel monasterio degl'Angeli (il qual monasterio ebbe il suo principio l'anno 1294 da fra' Guittone d'Arezzo dell'Ordine e Milizia della Vergine Madre di Gesù Cristo, o vero, come volgarmente erano i religiosi di quell'Ordine chiamati, de' frati Gaudenti), attese ne' suoi primi anni con tanto studio al disegno et alla pittura, che egli fu poi meritamente in quello esercizio fra i migliori dell'età sua annoverato.
Le prime opere di questo monaco pittore, il quale tenne la maniera di Taddeo Gaddi e degl'altri suoi, furono nel suo monasterio degli Agnoli, dove, oltre molte altre cose, dipinse la tavola dell'altar maggiore, che ancor oggi nella loro chiesa si vede, la quale fu posta su, finita del tutto, come per lettere scritte da basso nel fornimento si può vedere, l'anno 1413.
Dipinse similmente don Lorenzo in una tavola, che era nel monasterio di San Benedetto del medesimo ordine di Camaldoli, fuor della porta a Pinti, il quale fu rovinato per l'assedio di Firenze l'anno 1529, una coronazione di Nostra Donna sì come avea anco fatto nella tavola della sua chiesa degl'Angeli; la quale tavola di San Benedetto è oggi nel primo chiostro del detto monasterio degl'Angeli nella capella degl'Alberti a man ritta.
In quel medesimo tempo e forse prima, in S.
Trinita di Firenze, dipinse a fresco la capella e la tavola degl'Ardinghelli, che in quel tempo fu molto lodata; dove fece di naturale il ritratto di Dante e del Petrarca; in S.
Piero maggiore dipinse la capella de' Fioravanti, et in una capella di S.
Piero Scheraggio dipinse la tavola; e nella detta chiesa di S.
Trinita la capella de' Bartolini, in S.
Iacopo sopra Arno si vede anco una tavola di sua mano molto ben lavorata e condotta con infinita diligenza secondo la maniera di que' tempi.
Similmente nella Certosa fuor di Fiorenza dipinse alcune cose con buona pratica, et in S.
Michele di Pisa, monasterio dell'Ordine suo, alcune tavole che sono ragionevoli; et in Firenze nella chiesa de' Romiti, pur di Camaldoli (che oggi, essendo rovinata insieme col monasterio, ha lasciato solamente il nome a quella parte di là d'Arno che dal nome di quel santo luogo si chiama Camaldoli) oltre a molte altre cose fece un Crucifisso in tavola et un S.
Giovanni che furono tenuti bellissimi.
Finalmente, infermatosi d'una postema crudele che lo tenne oppresso molti mesi, si morì d'anni cinquantacinque, e fu da' suoi monaci, come le sue virtù meritavano, onoratamente nel capitolo del loro monasterio sotterrato.
E perché spesso, come la sperienza ne dimostra, da un solo germe, col tempo, mediante lo studio et ingegno degl'uomini, ne surgono molti, nel detto monasterio degl'Angeli, dove sempre per a dietro attesero i monaci alla pittura et al disegno, non solo il detto don Lorenzo fu eccellente in fra di loro ma vi fiorirono ancora per lungo spazio di molti anni e prima e poi uomini eccellenti nelle cose del disegno.
Onde non mi pare da passare in niun modo con silenzio un don Iacopo fiorentino che fu molto inanzi al detto don Lorenzo, perciò che, come fu ottimo e costumatissimo religioso, così fu il miglior scrittore di lettere grosse che fusse prima o sia stato poi non solo in Toscana ma in tutta Europa, come chiaramente ne dimostrano, non solo i venti pezzi grandissimi di libri da coro che egli lasciò nel suo monasterio, che sono i più belli quanto allo scritto e maggiori che siano forse in Italia, ma infiniti altri ancora che in Roma et in Vinezia et in molti altri luoghi si ritruovano; e massimamente in S.
Michele et in S.
Matia di Murano, monasterio della sua Relligione camaldolese.
Per le quali opere meritò questo buon padre, molti e molti anni poi che fu passato a miglior vita, non pure che don Paulo Orlandini, monaco dottissimo nel medesimo monasterio, lo celebrasse con molti versi latini ma che ancora fusse, come è, la sua man destra, con che scrisse i detti libri, in un tabernacolo serbata con molta venerazione, insieme con quella d'un altro monaco, chiamato don Silvestro, il quale non meno eccellentemente, per quanto portò la condizione di que' tempi, miniò i detti libri, che gl'avesse scritti don Iacopo; et io che molte volte gli ho veduti, resto maravigliato che fussero condotti con tanto disegno e con tanta diligenza in que' tempi che tutte l'arti del disegno erano poco meno che perdute, perciò che furono l'opere di questi monaci intorno agl'anni di nostra salute 1350, e poco e prima e poi, come in ciascuno di detti libri si vede.
Dicesi et ancora alcuni vecchi se ne ricordano, che quando Papa Leone X venne a Firenze, egli volle vedere e molto ben considerare i detti libri, ricordandosi avergli udito molto lodare al Magnifico Lorenzo de' Medici suo padre, e che poi che gli ebbe con attenzione guardati et ammirati mentre stavano tutti aperti sopra le prospere del coro, disse: "Se fussero secondo la Chiesa Romana e non, come sono, secondo l'ordine monastico et uso di Camaldoli, ne vorremmo alcuni pezzi, dando giusta ricompensa ai monaci, per S.
Piero di Roma", dove già n'erano, e forse ne sono, due altri di mano de' medesimi monaci molto belli.
Sono nel medesimo monasterio degl'Angeli molti ricami antichi, lavorati con molto bella maniera e con molto disegno dai padri antichi di quel luogo, mentre stavano in perpetua clausura, col nome non di monaci ma di romiti, senza uscir mai del monasterio, nella guisa che fanno le suore e monache de' tempi nostri; la quale clausura durò insino all'anno 1470.
Ma per tornare a don Lorenzo, insegnò costui a Francesco Fiorentino, il quale, dopo la morte sua, fece il tabernacolo che è in sul canto di S.
Maria Novella, in capo alla via della Scala per andare alla sala del Papa; et a un altro discepolo, che fu Pisano, il quale dipinse nella chiesa di S.
Francesco di Pisa, alla capella di Rutilio di Ser Baccio Maggiolini, la Nostra Donna, un S.
Piero, S.
Giovanni Battista, S.
Francesco e S.
Ranieri, con tre storie di figure piccole nella predella dell'altare.
La qual opera, che fu fatta nel 1315, per cosa lavorata a tempera fu tenuta ragionevole.
Nel nostro libro de' disegni ho di mano di don Lorenzo le virtù teologiche, fatte di chiaro scuro con buon disegno e bella e graziosa maniera, in tanto che sono per avventura migliori che i disegni di qual si voglia altro maestro di que' tempi.
Fu ragionevole dipintore ne' tempi di don Lorenzo Antonio Vite da Pistoia, il qual dipinse, oltre molte altre cose, come s'è detto nello Starnina, nel palazzo del Ceppo di Prato, la vita di Francesco di Marco, fondatore di quel luogo pio.
FINE DELLA VITA DI DON LORENZO MONACO DEGLI ANGELI
VITA DI TADDEO BARTOLI PITTORE
Meritano quegli artefici che per guadagnarsi nome si mettono a molte fatiche nella pittura, che l'opere loro siano poste non in luogo oscuro e disonorato, onde siano da chi non intende più là che tanto biasimate, ma in parte che per la nobiltà del luogo, per i lumi e per l'aria possano essere rettamente da ognuno vedute e considerate, come è stata et è ancora l'opera publica della capella che Taddeo Bartoli pittor sanese fece nel palazzo di Siena alla Signoria.
Taddeo dunque nacque di Bartolo di maestro Fredi, il quale fu dipintore nell'età sua mediocre, e dipinse in S.
Gimignano nella Pieve, entrando a man sinistra, tutta la facciata d'istorie del Testamento Vecchio.
Nella quale opera, che in vero non fu molto buona, si legge ancor nel mezzo questo epitaffio: "Anno Domini 1356 Bartolus Magistri Fredi de Senis me pinxit".
Nel qual tempo bisogna che Bartolo fusse giovane, perché si vede in una tavola fatta pur da lui l'anno 1388 in Santo Agostino della medesima terra entrando in chiesa per la porta principale, a man manca, dove è la Circoncisione di Nostro Signore con certi Santi, che egli ebbe molto miglior maniera così nel disegno come nel colorito, perciò che vi sono alcune teste assai belle, se bene i piedi di quelle figure sono della maniera antica, et insomma si veggiono molte altre opere di mano di Bartolo per que' paesi.
Ma per tornare a Taddeo, essendogli data a fare nella sua patria, come si è detto, la capella del palazzo della Signoria, come al miglior maestro di que' tempi, ella fu da lui con tanta diligenza lavorata e rispetto al luogo tanto onorata e per sì fatta maniera dalla Signoria guiderdonata, che Taddeo n'acrebbe di molto la gloria e la fama sua; onde non solamente fece poi, con suo molto onore et utile grandissimo, molte tavole nella sua patria, ma fu chiamato con gran favore e dimandato alla Signoria di Siena da Francesco da Carrara signor di Padoa, perché andasse, come fece, a fare alcune cose in quella nobilissima città, dove, nella Rena particolarmente e nel Santo, lavorò alcune tavole et altre cose con molta diligenza e con suo molto onore e sodisfazione di quel signore e di tutta la città.
Tornato poi in Toscana, lavorò in S.
Gimignano una tavola a tempera che tiene della maniera d'Ugolino Sanese, la qual tavola è oggi dietro all'altar maggiore della Pieve e guarda il coro de' preti.
Dopo, andato a Siena, non vi dimorò molto che da uno de' Lanfranchi, Operaio del duomo, fu chiamato a Pisa, dove trasferitosi, fece nella capella della Nunziata a fresco quando la Madonna saglie i gradi del tempio, dove in capo il sacerdote l'aspetta in pontificale, molto pulitamente: nel volto del quale sacerdote ritrasse il detto operaio, et appresso a quello se stesso.
Finito questo lavoro, il medesimo Operaio gli fece dipignere in Campo Santo, sopra la capella, una Nostra Donna incoronata da Gesù Cristo, con molti Angeli, in attitudini bellissime e molto ben coloriti.
Fece similmente Taddeo, per la capella della sagrestia di S.
Francesco di Pisa, in una tavola dipinta a tempera, una Nostra Donna et alcuni Santi, mettendovi il nome suo e l'anno ch'ella fu dipinta, che fu l'anno 1394.
Et intorno a questi medesimi tempi, lavorò in Volterra certe tavole a tempera, et in Monte Uliveto una tavola, e nel muro un Inferno a fresco, nel quale seguì l'invenzione di Dante, quanto attiene alla divisione de' peccati e forma delle pene: ma nel sito o non seppe, o non potette, o non volle imitarlo.
Mandò ancora in Arezzo una tavola che è in S.
Agostino, dove ritrasse papa Gregorio Undecimo, cioè quello che dopo essere stata la corte tante decine d'anni in Francia, la ritornò in Italia.
Dopo queste opere, ritornatosene a Siena, non vi fece molto lunga stanza, perché fu chiamato a lavorare a Perugia nella chiesa di S.
Domenico, dove nella capella di S.
Caterina dipinse a fresco tutta la vita di essa Santa, et in S.
Francesco, a canto alla porta della sagrestia, alcune figure le quali, ancor che oggi poco si discernino, sono conosciute per di mano di Taddeo, avendo egli tenuto sempre una maniera medesima.
Seguendo poco poi la morte di Biroldo signor di Perugia che fu amazzato l'anno 1398, si ritornò Taddeo a Siena; dove, lavorando continuamente, attese in modo agli studi dell'arte per farsi valente uomo, che si può affermare, se forse non seguì l'intento suo, che certo non fu per difetto o negligenza che mettesse nel fare, ma sì bene per indisposizione d'un male opilativo che l'assassinò di maniera, che non potette conseguire pienamente il suo desiderio.
Morì Taddeo, avendo insegnato l'arte a suo nipote chiamato Domenico, d'anni 59, e le pitture sue furono intorno agl'anni di nostra salute 1410.
Lasciò dunque, come si è detto, Domenico Bartoli suo nipote e discepolo, che attendendo all'arte della pittura, dipinse con maggiore e migliore pratica; e nelle storie che fece mostrò molto più copiosità, variandole in diverse cose, che non aveva fatto il zio.
Sono nel pellegrinario dello spedale grande di Siena due storie grandi lavorate in fresco da Domenico, dove e prospettive et altri ornamenti si veggiono assai ingegnosamente composti.
Dicesi essere stato Domenico modesto e gentile e d'una singolare amorevolezza e liberalissima cortesia, e che ciò non fece manco onore al nome suo, che l'arte stessa della pittura.
Furono l'opere di costui intorno agl'anni del Signore 1436; e l'ultime furono in S.
Trinita di Firenze, una tavola dentrovi la Nunziata, e nella chiesa del Carmine la tavola dell'altar maggiore.
Fu ne' medesimi tempi e quasi della medesima maniera, ma fece più chiaro il colorito e le figure più basse, Alvaro di Piero di Portogallo, che in Volterra fece più tavole et in S.
Antonio di Pisa n'è una et in altri luoghi altre, che per non essere di molta eccellenza non occorre farne altra memoria.
Nel nostro libro è una carta disegnata da Taddeo molto praticamente, nella quale è un Cristo e due Angeli, etc.
FINE DELLA VITA DI TADDEO BARTOLI
VITA DI LORENZO DI BICCI PITTORE
Quando gli uomini che sono eccellenti in uno qualsivoglia onorato esercizio, accompagnano la virtù dell'operare con la gentilezza de' costumi e delle buone creanze e particolarmente con la cortesia, servendo chiunche ha bisogno dell'opera loro presto e volentieri, eglino senza alcun fatto conseguono con molta lode loro e con utile tutto quello che si può, in un certo modo, in questo mondo desiderare.
Come fece Lorenzo di Bicci pittor fiorentino, il quale essendo nato in Firenze l'anno 1400 quando apunto l'Italia cominciava a esser travagliata dalle guerre, che poco appresso la condussono a mal termine, fu quasi nella puerizia in bonissimo credito; perciò che avendo sotto la disciplina paterna i buoni costumi, e da Spinello pittore apparato l'arte della pittura, ebbe sempre nome non solo di eccellente pittore, ma di cortesissimo et onorato valente uomo.
Avendo dunque Lorenzo così giovinetto fatto alcune opere a fresco in Firenze e fuora per adestrarsi, Giovanni di Bicci de' Medici, veduta la buona maniera sua, gli fece dipigner nella sala della casa vecchia de' Medici, che poi restò a Lorenzo fratel carnale di Cosimo Vecchio, murato che fu il palazzo grande, tutti quegli uomini famosi che ancor oggi assai ben conservati vi si veggiono; la quale opera finita, perché Lorenzo di Bicci disiderava, come ancor fanno i medici che si esperimentano nell'arte loro sopra la pelle de' poveri uomini di contado, esercitarsi ne' suoi studi della pittura dove le cose non sono così minutamente considerate, per qualche tempo accettò l'opere che gli vennono per le mani; onde fuor della porta a S.
Friano dipinse al ponte a Scandicci un tabernacolo nella maniera che ancor oggi si vede, et a Cerbaia sotto un portico, dipinse in una facciata, in compagnia d'una Nostra Donna, molti Santi assai acconciamente.
Essendogli poi dalla famiglia de' Martini fatta allogazione d'una capella in S.
Marco di Firenze, fece nelle facciate a fresco molte storie della Madonna, e nella tavola essa Vergine in mezzo a molti Santi; e nella medesima chiesa, sopra la capella di S.
Giovanni Evangelista della famiglia de' Landi, dipinse a fresco un Agnolo Raffaello e Tobia; e poi, l'anno 1418, per Ricciardo di Messer Niccolò Spinelli, fece nella facciata del convento di S.
Croce in sulla piazza in una storia grande a fresco, un S.
Tommaso che cerca la piaga a Gesù Cristo, et appresso et intorno a lui tutti gli altri Apostoli, che reverenti et ingenocchioni stanno a veder cotal caso.
Et appresso alla detta storia fece similmente a fresco un S.
Cristofano alto braccia dodici e mezzo che è cosa rara; perché insino allora, eccetto il S.
Cristofano di Buffalmacco, non era stata veduta la maggior figura, né per cosa grande, se bene non è di buona maniera, la più ragionevole e più proporzionata immagine di quella in tutte le sue parti; senzaché l'una e l'altra di queste pitture furono lavorate con tanta pratica che, ancora che siano state all'aria molti anni e percosse dalle pioggie e dalla tempesta per esser volte a tramontana, non hanno mai perduta la vivezza de' colori, né sono rimase in alcuna parte offese.
Fece ancora dentro la porta che è in mezzo a queste figure, chiamata la porta del Martello, il medesimo Lorenzo, a richiesta del detto Ricciardo e del guardiano del convento, un Crucifisso con molte figure; e nelle facciate intorno la confermazione della Regola di S.
Francesco fatta da Papa Onorio, et appresso il martirio d'alcuni frati di quell'Ordine che andarono a predicare la fede fra i Saracini; negl'archi e nelle volte fece alcuni re di Francia, frati e divoti di S.
Francesco e gli ritrasse di naturale, e così molti uomini dotti di quell'Ordine e segnalati per dignità, cioè vescovi, cardinali e papi: infra i quali sono ritratti di naturale in due tondi delle volte papa Nicola Quarto et Alessandro Quinto; alle quali tutte figure, ancor che facesse Lorenzo gl'abiti bigi, gli variò nondimeno, per la buona pratica che egli aveva nel lavorare, di maniera che tutti sono fra loro differenti; alcuni pendono in rossigno, altri in azzurriccio, altri sono scuri et altri più chiari, et insomma sono tutti varii e degni di considerazione; e, quello che è più, si dice che fece questa opera con tanta facilità e prestezza, che facendolo una volta chiamare il guardiano che gli faceva le spese a desinare, quando a punto aveva fatto l'intonaco per una figura e cominciatala, egli rispose: "Fate le scodelle, che io faccio questa figura e vengo".
Onde a gran ragione si dice che Lorenzo ebbe tanta velocità nelle mani, tanta pratica ne' colori, e fu tanto risoluto, che più non fu niun altro già mai.
È di mano di costui il tabernacolo in fresco ch'è in sul canto delle monache di Foligno e la Madonna et alcuni Santi che sono sopra la porta della chiesa di quel monasterio, fra i quali è un S.
Francesco che sposa la povertà.
Dipinse anco nella chiesa di Camaldoli di Firenze, per la Compagnia de' Martiri, alcune storie del martirio d'alcuni Santi, e nella chiesa due capelle che mettono in mezzo la capella maggiore.
E perché queste pitture piacquero assai a tutta la città universalmente, gli fu, dopo che l'ebbe finite, data a dipignere nel Carmine, dalla famiglia de' Salvestrini - la quale è oggi quasi spenta, non essendone, ch'io sappia, altri che un frate degli Angeli di Firenze, chiamato fra' Nemesio, buono e costumato religioso -, una facciata della chiesa del Carmine; dove egli fece i martiri quando, essendo condennati alla morte, sono spogliati nudi e fatti caminare scalzi sopra triboli, seminati dai ministri de' tiranni mentre andavano a esser posti in croce, sì come più in alto si veggiono esser posti in varie e stravaganti attitudini; in questa opera, la quale fu la maggiore che fusse stata fatta insino allora, si vede fatto, secondo il parere di que' tempi, ogni cosa con molta pratica e disegno, essendo tutta piena di questi affetti che fa diversamente far la natura a coloro che con violenza sono fatti morire; onde io non mi maraviglio se molti valenti uomini si sono saputi servir d'alcune cose che in questa pittura si veggiono.
Fece dopo queste nella medesima chiesa molte altre figure, e particolarmente nel tramezzo due capelle; e ne' medesimi tempi il tabernacolo del canto alla Cuculia, e quello che è nella via de' Martelli nella faccia delle case; e sopra la porta del Martello di Santo Spirito, in fresco, un S.
Agostino che porge a' suoi frati la Regola.
In S.
Trinita dipinse a fresco la vita di S.
Giovanni Gualberto nella cappella di Neri Compagni; e nella cappella maggiore di S.
Lucia, nella via de' Bardi, alcune storie in fresco della vita di quella santa per Niccolò da Uzzano, che vi fu da lui ritratto di naturale insieme con alcuni altri cittadini; il quale Niccolò col parere e modello di Lorenzo, murò vicino a detta chiesa il suo palazzo et il magnifico principio per una sapienza o vero studio, fra il convento de' Servi e quello di San Marco, cioè dove sono oggi i lioni.
La quale opera, veramente lodevolissima e più tosto da magnanimo principe che da privato cittadino, non ebbe il suo fine perché i danari, che in grandissima somma Niccolò lasciò in sul Monte di Firenze per la fabrica e per l'entrata di quello studio, furono in alcune guerre o altri bisogni della città consumati dai fiorentini.
E se bene non potrà mai la fortuna oscurare la memoria e la grandezza dell'animo di Niccolò da Uzzano non è però che l'universale dal non si essere finita questa opera non riceva danno grandissimo; laonde, chi disidera giovare in simili modi al mondo e lasciare di sé onorata memoria, faccia da sé mentre ha vita e non si fidi della fede de' posteri e degl'eredi, perché rade volte si vede avere avuto effetto interamente cosa che si sia lasciata perché si faccia dai sucessori.
Ma tornando a Lorenzo, egli dipinse, oltre quello che si è detto, in sul ponte Rubaconte a fresco in un tabernacolo, una Nostra Donna e certi Santi che furono ragionevoli.
Né molto dopo, essendo ser Michele di Fruosino spedalingo di Santa Maria Nuova di Firenze, il quale spedale ebbe principio da Folco Portinari cittadino fiorentino, egli deliberò, sì come erano cresciute le facultà dello spedale, che così fusse accresciuta la sua chiesa dedicata a Santo Egidio, che allora era fuor di Firenze e piccola affatto.
Onde, presone consiglio da Lorenzo di Bicci suo amicissimo, cominciò a' dì cinque di settembre, l'anno 1418, la nuova chiesa, la quale fu in un anno finita nel modo ch'ella sta oggi, e poi consegrata solennemente da papa Martino Quinto a richiesta di detto ser Michele, che fu ottavo spedalingo, e degl'uomini della famiglia de' Portinari.
La quale sagrazione dipinse poi Lorenzo, come volle ser Michele, nella facciata di quella chiesa, ritraendovi di naturale quel papa et alcuni cardinali; la quale opera, come cosa nuova e bella, fu allora molto lodata; onde meritò d'essere il primo che dipignesse nella principale chiesa della sua città, cioè in Santa Maria del Fiore, dove sotto le finestre di ciascuna capella dipinse quel Santo al quale ell'è intitolata, e nei pilastri poi e per la chiesa i dodici Apostoli con le croci della consegrazione, essendo quel tempio stato solennissimamente quello stesso anno consegrato da papa Eugenio Quarto viniziano.
Nella medesima chiesa gli fecero dipignere gl'Operai, per ordine del publico, nel muro a fresco, un deposito finto di marmo, per memoria del cardinale de' Corsini che ivi è sopra la cassa ritratto di naturale; e sopra quello un altro simile, per memoria di maestro Luigi Marsili famosissimo teologo, il quale andò ambasciadore con Messer Luigi Guicciardini e Messer Guccio di Gino, onoratissimi cavalieri, al duca d'Angiò.
Fu poi Lorenzo condotto in Arezzo da don Laurentino abbate di San Bernardo, monasterio dell'Ordine di Monte Oliveto, dove dipinse, per Messer Carlo Marsupini, a fresco, istorie della vita di San Bernardo nella capella maggiore; ma volendo poi dipignere nel chiostro del convento la vita di San Benedetto, poi dico che egli avesse per Francesco Vecchio de' Bacci dipinta la maggior capella della chiesa di San Francesco, dove fece solo la volta e mezzo l'arco, s'amalò di mal di petto; per che, facendosi portare a Firenze, lasciò che Marco da Monte Pulciano suo discepolo, col disegno che aveva egli fatto e lasciato a don Laurentino, facesse nel detto chiostro le storie della vita di San Benedetto; il che fece Marco, come seppe il meglio, e diede finita l'anno 1448 a' dì 24 d'aprile tutta l'opera di chiaro scuro, come si vede esservi scritto di sua mano, con versi e parole che non sono men goffi che siano le pitture.
Tornato Lorenzo alla patria, risanato che fu, nella medesima facciata del convento di S.
Croce, dove aveva fatto il S.
Cristofano, dipinse l'assunzione di Nostra Donna in cielo, circundata da un coro d'Angeli, et a basso un S.
Tommaso che riceve la cintola; nel far la quale opera, per esser Lorenzo malaticcio, si fece aiutare a Donatello allora giovanetto; onde con sì fatto aiuto fu finita di sorte l'anno 1450, che io credo ch'ella sia la miglior opera, e per disegno e per colorito, che mai facesse Lorenzo; il quale non molto dopo, essendo vecchio et affaticato, si morì d'età di sessanta anni in circa, lasciando due figliuoli che attesero alla pittura, l'uno de' quali, che ebbe nome Bicci, gli diede aiuto in fare molti lavori e l'altro, che fu chiamato Neri, ritrasse suo padre e se stesso nella capella de' Lenzi in Ogni Santi, in due tondi con lettere intorno che dicono il nome dell'uno e dell'altro.
Nella quale capella de' Lenzi facendo il medesimo alcune storie della Nostra Donna, si ingegnò di contrafare molti abiti di que' tempi, così di maschi come di femine, e nella capella fece la tavola a tempera.
Parimente, nella Badia di S.
Felice, in piazza di Firenze, dell'Ordine di Camaldoli, fece alcune tavole, et una all'altare maggiore di S.
Michele d'Arezzo del medesimo Ordine; e fuor d'Arezzo, a S.
Maria delle Grazie, nella chiesa di S.
Bernardino, una Madonna che ha sotto il manto il popolo d'Arezzo, e da un lato quel S.
Bernardino inginocchioni con una croce di legno in mano, sì come costumava di portare quando andava per Arezzo predicando, e dall'altro lato e d'intorno S.
Niccolò e S.
Michelagnolo.
E nella predella sono dipinte storie de' fatti di detto S.
Bernardino e de' miracoli che fece, e particolarmente in quel luogo.
Il medesimo Neri fece in S.
Romolo di Firenze la tavola dell'altar maggiore, et in S.
Trinita, nella capella degli Spini, la vita di S.
Giovanni Gualberto a fresco, e la tavola a tempera che è sopra l'altare: dalle quali opere si conosce che se Neri fusse vivuto e non mortosi d'età di trentasei anni, che egli averebbe fatto molte più opere e migliori che non fece Lorenzo suo padre.
Il quale, essendo stato l'ultimo de' maestri della maniera vecchia di Giotto, sarà anco la sua vita l'ultima di questa Prima Parte, la quale con l'aiuto di Dio benedetto avemo condotta a fine.
FINE DELLA VITA DI LORENZO DI BICCI E DELLA PRIMA PARTE DELL'OPERA
DELLE VITE DE' PITTORI, SCULTORI ET ARCHITETTORI CHE SONO STATI DA CIMABUE IN QUA
SCRITTE DA MESSER GIORGIO VASARI PITTORE ARETINO
PARTE SECONDA
PROEMIO
Quando io presi primieramente a descrivere queste Vite, non fu mia intenzione fare una nota delli artefici et uno inventario, dirò così, dell'opere loro, né giudicai mai degno fine di queste mie, non so come belle, certo lunghe e fastidiose fatiche, ritrovare il numero et i nomi e le patrie loro, et insegnare in che città et in che luogo appunto di esse si trovassino al presente le loro pitture o sculture o fabriche; ché questo io l'arei potuto fare con una semplice tavola, senza interporre in parte alcuna il giudizio mio.
Ma vedendo che gli scrittori delle istorie, quegli che per comune consenso hanno nome di avere scritto con miglior giudizio, non solo non si sono contentati di narrare semplicemente i casi seguiti, ma con ogni diligenza e con maggior curiosità che hanno potuto, sono iti investigando i modi et i mezzi e le vie che hanno usati i valenti uomini nel maneggiare l'imprese, e sonsi ingegnati di toccare gli errori, et appresso i bei colpi e' ripari e' partiti prudentemente qualche volta presi ne' governi delle faccende, e tutto quello insomma che sagacemente o straccuratamente, con prudenza o con pietà o con magnanimità hanno in esse operato, come quelli che conoscevano la istoria essere veramente lo specchio della vita umana, non per narrare asciuttamente i casi occorsi a un principe o d'una republica, ma per avvertire i giudizii, i consigli, i partiti et i maneggi degli uomini, cagione poi delle felici et infelici azzioni; il che è proprio l'anima dell'istoria; e quello che invero insegna vivere e fa gli uomini prudenti, e che appresso al piacere che si trae del vedere le cose passate come presenti, è il vero fine di quella; per la qual cosa avendo io preso a scriver la istoria de' nobilissimi artefici, per giovar all'arti quanto patiscono le forze mie, et appresso per onorarle, ho tenuto quanto io poteva, ad imitazione di così valenti uomini, il medesimo modo; e mi sono ingegnato non solo di dire quel che hanno fatto, ma di scegliere ancora discorrendo il meglio dal buono, e l'ottimo dal migliore, e notare un poco diligentemente i modi, le arie, le maniere, i tratti e le fantasie de' pittori e degli scultori; investigando, quanto più diligentemente ho saputo, di far conoscere a quegli che questo per se stessi non sanno fare, le cause e le radici delle maniere e del miglioramento e peggioramento delle arti accaduto in diversi tempi et in diverse persone.
E perché nel principio di queste Vite io parlai de la nobiltà et antichità di esse arti, quanto a questo proposito si richiedeva, lasciando da parte molte cose di che io mi sarei potuto servire di Plinio e d'altri autori, se io non avessi voluto, contra la credenza forse di molti, lasciar libero a ciascheduno il vedere le altrui fantasie ne' proprii fonti, mi pare che e' si convenga fare al presente quello che, fuggendo il tedio e la lunghezza, mortal nemica delle attenzioni, non mi fu lecito fare allora, cioè aprire più diligentemente l'animo et intenzione mia, e mostrare a che fine io abbia diviso questo corpo delle Vite in tre parti.
Bene è vero che quantunque la grandezza delle arti nasca in alcuno da la diligenza, in un altro da lo studio, in questo da la imitazione, in quello da la cognizione delle scienzie che tutte porgono aiuto a queste, et in chi da le predette cose tutte insieme o da la parte maggiore di quelle, io nientedimanco per avere nelle vite de' particolari ragionato a bastanza de' modi de l'arte, de le maniere e de le cagioni del bene e meglio et ottimo operare di quelli, ragionerò di questa cosa generalmente, e più presto de la qualità de' tempi che de le persone, distinte e divise da me, per non ricercarla troppo minutamente, in tre parti, o vogliamole chiamare età, da la rinascita di queste arti sino al secolo che noi viviamo, per quella manifestissima differenza che in ciascuna di loro si conosce.
Conciò sia che nella prima e più antica si sia veduto queste tre arti essere state molto lontane da la loro perfezzione, e come che elle abbiano avuto qualcosa di buono, essere stato accompagnato da tanta imperfezzione, che e' non merita per certo troppa gran lode; ancora che, per aver dato principio e via e modo al meglio che seguitò poi, se non fusse altro, non si può se non dirne bene, e darle un po' più gloria che, se si avesse a giudicare con la perfetta regola dell'arte, non hanno meritato l'opere stesse.
Nella seconda poi si veggono manifesto esser le cose migliorate assai e nell'invenzioni e nel condurle con più disegno e con miglior maniere e con maggior diligenza, e così tolto via quella ruggine della vecchiaia e quella goffezza e sproporzione che la grossezza di quel tempo le aveva recata adosso.
Ma chi ardirà di dire, in quel tempo essersi trovato uno in ogni cosa perfetto? E che abbia ridotto le cose al termine di oggi e d'invenzione e di disegno e di colorito? E che abbia osservato lo sfuggire dolcemente delle figure con la scurità del colore, che i lumi siano rimasti solamente in sui rilievi, e similmente abbia osservato gli strafori e certe fini straordinarie nelle statue di marmo come in quelle si vede? Questa lode certo è tòcca alla terza età; nella quale mi par potere dir sicuramente che l'arte abbia fatto quello che ad una imitatrice della natura è lecito poter fare, e che ella sia salita tanto alto, che più presto si abbia a temere del calare a basso, che sperare oggimai più augumento.
Queste cose considerando io meco medesimo attentamente, giudico ch'e' sia una proprietà et una particolare natura di queste arti, le quali da uno umile principio vadino appoco appoco migliorando, e finalmente pervenghino al colmo della perfezzione.
E questo me lo fa credere il vedere essere intervenuto quasi questo medesimo in altre facultà; che, per essere fra tutte le arti liberali un certo che di parentado, è non piccolo argumento che e' sia vero.
Ma nella pittura e scultura in altri tempi debbe essere accaduto questo tanto simile, che, se e' si scambiassino insieme i nomi, sarebbono appunto i medesimi casi.
Imperò che e' si vede (se e' si ha a dar fede a coloro che furono vicini a que' tempi, e potettono vedere e giudicare de le fatiche degli antichi) le statue di Canaco esser molto dure e senza vivacità o moto alcuno, e però assai lontane dal vero, e di quelle di Calamide si dice il medesimo, benché fussero alquanto più dolci che le predette.
Venne poi Mirone, che non imitò affatto affatto la verità della natura, ma dette alle sue opere tanta proporzione e grazia che elle si potevono ragionevolmente chiamar belle.
Successe nel terzo grado Policleto e gli altri tanto celebrati, i quali, come si dice e credere si debbe, interamente le fecero perfette.
Questo medesimo progresso dovette accadere nelle pitture ancora, perché e' si dice, e verisimilmente si ha a pensare che fussi così, nell'opere di quelli che con un solo colore dipinsero, e però furon chiamati monocromati, non essere stata una gran perfezzione.
Di poi nelle opere di Zeusi e di Polignoto e di Timante, o degli altri che solo ne messono in opera quattro, si lauda in tutto i lineamenti et i dintorni e le forme, e senza dubbio vi si doveva pure desiderare qualcosa.
Ma poi in Erione, Nicomaco, Protogene et Apelle, è ogni cosa perfetta e bellissima, e non si può imaginar meglio, avendo essi dipinto non solo le forme e gli atti de' corpi eccellentissimamente, ma ancora gli affetti e le passioni dell'animo.
Ma lasciando ire questi, che bisogna referirsene ad altri e molte volte non convengano i giudizii e, che è peggio, né [i] tempi, ancora che io in ciò seguiti i migliori autori, vegnamo a' tempi nostri, dove abbiamo l'occhio assai miglior guida e giudice che non è l'orecchio.
Non si vede egli chiaro quanto miglioramento e acquisto fece, per cominciarsi da un capo, l'architettura da Buschetto greco ad Arnolfo tedesco et a Giotto? Vegghinsi le fabriche di que' tempi, i pilastri, le colonne, le base, i capitegli e tutte le cornici con i membri difformi, come n'è in Fiorenza in S.
Maria del Fiore, e nell'incrostatura di fuori di S.
Giovanni, a S.
Miniato al Monte, nel Vescovado di Fiesole, al Duomo di Milano, a S.
Vitale di Ravenna, a S.
Maria Maggiore di Roma et al Duomo vecchio fuori d'Arezzo; dove, ecettuato quel poco di buono rimasto de' frammenti antichi, non vi è cosa che abbia ordine o fattezza buona.
Ma quelli certo la migliorarono assai, e fece non poco acquisto sotto di loro; perché e' la ridussero a migliore proporzione, e fecero le lor fabbriche non solamente stabili e gagliarde, ma ancora in qualche parte ornate; certo è nientedimeno che gli ornamenti loro furono confusi e molto imperfetti, e per dirla così, non con grande ornamento; perché nelle colonne non osservarono quella misura e proporzione che richiedeva l'arte, né distinsero ordine che fusse più dorico, che corinto o ionico o toscano, ma alla mescolata con una loro regola senza regola, faccendole grosse grosse o sottili sottili, come tornava lor meglio.
E le invenzioni furono tutte, parte di lor cervello, parte del resto delle anticaglie vedute da loro.
E facevano le piane parte cavate dal buono, parte agiuntovi lor fantasie, che rizzate con le muraglie avevano un'altra forma.
Nientedimeno chi comparerà le cose loro a quelle dinanzi, vi vedrà migliore ogni cosa, e vedrà delle cose che [non] danno dispiacere in qualche parte a' tempi nostri, come sono alcuni tempietti di mattoni lavorati di stucchi a S.
Ianni Laterano di Roma.
Questo medesimo dico de la scultura, la quale in quella prima età della sua rinascita ebbe assai del buono, perché, fuggita la maniera goffa greca, ch'era tanto rozza che teneva ancora più della cava che dell'ingegno degli artefici, essendo quelle loro statue intere intere senza pieghe o attitudine o movenza alcuna, e proprio da chiamarsi statue, dove, essendo poi migliorato il disegno per Giotto, molti migliorarono ancora le figure de' marmi e delle pietre, come fece Andrea Pisano e Nino suo figliuolo, e gl'altri suoi discepoli che furon molto meglio che i primi, e storsono più le lor statue, e dettono loro migliore attitudine assai; come que' due sanesi Agostino et Agnolo, che feciono, come si è detto, la sepoltura di Guido vescovo di Arezzo, e que' Todeschi che feciono la facciata d'Orvieto.
Vedesi, adunque, in questo tempo la scultura essersi un poco migliorata e dato qualche forma migliore alle figure, con più bello andar di pieghe di panni, e qualche testa con migliore aria, certe attitudini non tanto intere, et infine cominciato a tentare il buono; ma avere tutta volta mancato di infinite parti per non esser in quel tempo in gran perfezzione il disegno, né vedersi troppe cose di buono da potere imitare.
Laonde que' maestri che furono in questo tempo, e da me son stati messi nella prima parte, meriteranno quella lode e d'esser tenuti in quel conto che meritano le cose fatte da loro, pur che si consideri, come anche quelle delli architetti e de' pittori di que' tempi, che non ebbono innanzi aiuto, et ebbono a trovare la via da per loro; et il principio, ancora che piccolo, è degno sempre di lode non piccola.
Non corse troppo miglior fortuna la pittura in questi tempi, se non che essendo allora più in uso per la divozione de' popoli, ebbe più artefici, e per questo fece più evidente progresso che quelle due.
Così si vede che la maniera greca, prima col principio di Cimabue, poi con l'aiuto di Giotto, si spense in tutto e ne nacque una nuova la quale io volentieri chiamo maniera di Giotto, perché fu trovata da lui e da' suoi discepoli, e poi universalmente da tutti venerata et imitata.
E si vede in questa levato via il proffilo che ricigneva per tutto le figure, e quegli occhi spiritati e' piedi ritti in punta e le mani aguzze et il non avere ombre et altre mostruosità di que' Greci, e dato una buona grazia nelle teste e morbidezza nel colorito.
E Giotto in particolare fece migliori attitudini alle sue figure, e mostrò qualche principio di dare una vivezza alle teste, e piegò i panni che traevano più alla natura che non quegli innanzi, e scoperse in parte qualcosa de lo sfuggire e scortare le figure.
Oltre a questo egli diede principio agli affetti che si conoscesse in parte il timore, la speranza, l'ira e lo amore; e ridusse a una morbidezza la sua maniera che prima era e ruvida e scabrosa; e se non fece gli occhi con quel bel girare che fa il vivo e con la fine de' suoi lagrimatoi et i capegli morbidi, e le barbe piumose, e le mani con quelle sue nodature e muscoli, e gli ignudi come il vero, scusilo la difficultà dell'arte et il non aver visto pittori migliori di lui.
E pigli ognuno in quella povertà dell'arte e de' tempi, la bontà del giudizio nelle sue istorie, l'osservanza dell'arie, e l'obedienza di un naturale molto facile, perché pur si vede che le figure obbedivano a quel che elle avevano a fare; e perciò si mostra che egli ebbe un giudizio molto buono, se non perfetto.
E questo medesimo si vede poi negli altri, come in Taddeo Gaddi nel colorito, il quale è più dolce et ha più forza; e dette megliori incarnazioni e colore ne' panni, e più gagliardezza ne' moti alle sue figure.
In Simon Sanese si vede il decoro nel compor le storie; in Stefano Scimmia et in Tommaso suo figliuolo, che arecarono grande utile e perfezzione al disegno, et invenzione alla prospettiva e lo sfumare et unire de' colori, riservando sempre la maniera di Giotto.
Il simile feciono nella pratica e destrezza Spinello aretino, Parri suo figliuolo, Iacopo di Casentino, Antonio Veniziano, Lippo e Gherardo Starnini e gli altri pittori che lavorarono dopo Giotto, seguitando la sua aria, lineamento, colorito, maniera et ancora migliorandola qualche poco, ma non tanto però che e' paresse ch'e' la volessino tirare ad altro segno.
Laonde chi considererà questo mio discorso vedrà queste tre arti fino qui essere state come dire abbozzate, e mancar loro assai di quella perfezzione che elle meritavano; e certo, se non veniva meglio, poco giovava questo miglioramento e non era da tenerne troppo conto.
Né voglio che alcuno creda che io sia sì grosso, né di sì poco giudizio, che io non conosca che le cose di Giotto e di Andrea Pisano e Nino e degli altri tutti, che per la similitudine delle maniere ho messi insieme nella Prima Parte, se elle si compareranno a quelle di coloro che dopo loro hanno operato, non meriteranno lode straordinaria né anche mediocre; né è che io non abbia ciò veduto, quando io gli ho laudati.
Ma chi considererà la qualità di que' tempi, la carestia degli artefici, la difficultà de' buoni aiuti, le terrà non belle, come ho detto io, ma miracolose, et arà piacere infinito di vedere i primi principii e quelle scintille di buono che nelle pitture e sculture cominciavono a risuscitare.
Non fu certo la vittoria di Lucio Marzio in Spagna tanto grande, che molte non avessino i Romani delle maggiori.
Ma avendo rispetto al tempo, al luogo, al caso, alla persona et al numero, ella fu tenuta stupenda et ancor oggi pur degna delle lodi, che infinite e grandissime le son date dagli scrittori.
Così a me, per tutti i sopra detti rispetti, è parso che e' meritino non solamente d'essere scritti da me con diligenza, ma laudati con quello amore e sicurtà che io ho fatto.
E penso che non sarà stato fastidioso a' miei artefici l'aver udite queste lor Vite e considerato le lor maniere e' lor modi: e ne ritrarranno forse non poco utile, il che mi sia carissimo e lo reputerò a buon premio delle mie fatiche, nelle quali non ho cerco altro che far loro, in quanto io ho potuto, utile e diletto.
Ora, poi che noi abbiamo levate da balia, per un modo di dir così fatto, queste tre arti, e cavatele da la fanciullezza, ne viene la seconda età, dove si vedrà infinitamente migliorato ogni cosa: e la invenzione più copiosa di figure, più ricca d'ornamenti, et il disegno più fondato e più naturale verso il vivo, et inoltre una fine nell'opre condotte con manco pratica, ma pensatamente con diligenza; la maniera più leggiadra, i colori più vaghi, in modo che poco ci resterà a ridurre ogni cosa al perfetto, e che elle imitino appunto la verità della natura.
Perché prima con lo studio e con la diligenza del gran Filippo Brunelleschi l'architettura ritrovò le misure e le proporzioni degli antichi, così nelle colonne tonde come ne' pilastri quadri e nelle cantonate rustiche e pulite, et allora si distinse ordine per ordine e fecesi vedere la differenza che era tra loro.
Ordinossi che le cose andassino per regola, seguitassino con più ordine, e fussino spartite con misura.
Crebbesi la forza et il fondamento al disegno, e dettesi alle cose una buona grazia, e fecesi conoscere l'eccellenzia di quella arte.
Ritrovossi la bellezza e varietà de' capitelli e delle cornici, in tal modo che si vide le piante de' tempii e degli altri suoi edifizii esser benissimo intese, e le fabriche ornate, magnifiche e proporzionatissime, come si vede nella stupendissima machina della cupola di S.
Maria del Fiore di Fiorenza, nella bellezza e grazia della sua lanterna, ne l'ornata, varia e graziosa chiesa di S.
Spirito, e nel non manco bello di quella edifizio di S.
Lorenzo, nella bizzarrissima invenzione del Tempio in otto facce degli Angioli, e nella ariosissima chiesa e convento della Badia di Fiesole, e nel magnifico e grandissimo principio del palazzo de' Pitti.
Oltra il comodo e grande edifizio che Francesco di Giorgio fece nel palazzo e chiesa del Duomo di Urbino, et il fortissimo e ricco castello di Napoli, e lo inespugnabile castello di Milano, senza molte altre fabbriche notabili di quel tempo, et ancora che non ci fusse la finezza et una certa grazia esquisita et appunto nelle cornici, e certe pulitezze e leggiadrie nello intaccar le foglie e far certi stremi ne' fogliami, et altre perfezzioni che furon di poi, come si vedrà nella terza parte, dove seguiteranno quegli che faranno tutto quel di perfetto nella grazia, nella fine e nella copia e nella prestezza che non feceno gli altri architetti vecchi, nondimeno elle si possono sicuratamente chiamar belle e buone.
Non le chiamo già perfette, perché, veduto poi meglio in questa arte, mi par potere ragionevolmente affermare che le mancava qualcosa.
E se bene e' vi è qualche parte miracolosa e de la quale ne' tempi nostri per ancora non si è fatto meglio, né per avventura si farà in que' che verranno, come verbigrazia la lanterna della cupola di S.
Maria del Fiore, e, per grandezza, essa cupola, dove non solo Filippo ebbe animo di paragonar gli antichi ne' corpi delle fabbriche, ma vincerli nella altezza delle muraglie, pur si parla universalmente in genere, e non si debbe da la perfezzione e bontà d'una cosa sola, argomentare l'eccellenza del tutto.
Il che della pittura ancora dico e de la scultura, nelle quali si vede ancora oggi cose rarissime de' maestri di questa seconda età, come quelle di Masaccio nel Carmine, che fece uno ignudo che triema del freddo, et in altre pitture vivezze e spiriti; ma in genere e' non aggiunsono a la perfezzione de' terzi, de' quali parleremo al suo tempo, bisognandoci qui ragionare de' secondi; i quali per dire prima degli scultori, molto si allontanarono dalla maniera de' primi, e tanto la migliorarono, che lasciorno poco ai terzi.
Et ebbono una lor maniera tanto più graziosa, più naturale, più ordinata, di più disegno e proporzione, che le loro statue cominciarono a parere presso che persone vive, e non più statue come le prime; come ne fanno fede quelle opere, che in quella rinovazione della maniera si lavorarono, come si vedrà in questa seconda parte, dove le figure di Iacopo della Quercia sanese hanno più moto e più grazia e più disegno e diligenza, quelle di Filippo più bel ricercare di muscoli e miglior proporzione e più giudizio, e così quelle de' loro discepoli.
Ma più vi aggiunse Lorenzo Ghiberti nell'opera delle porte di S.
Giovanni, dove mostrò invenzione, ordine, maniera e disegno, che par che le sue figure si muovino et abbiano l'anima.
Ma non mi risolvo in tutto, ancora che fussi ne' lor tempi Donato, se io me lo voglia metter fra i terzi, restando l'opre sua a paragone degli antichi buoni; dirò bene che in questa parte si può chiamar lui regola degli altri, per aver in sé solo le parti tutte che a una a una erano sparte in molti; poiché e' ridusse in moto le sue figure dando loro una certa vivacità e prontezza, che posson stare e con le cose moderne e, come io dissi, con le antiche medesimamente.
Et il medesimo augumento fece in questo tempo la pittura, de la quale l'eccellentissimo Masaccio levò in tutto la maniera di Giotto, nelle teste, ne' panni, ne' casamenti, negli ignudi, nel colorito, negli scorti che egli rinovò, e messe in luce quella maniera moderna, che fu in que' tempi e sino a oggi è da tutti i nostri artefici seguitata e di tempo in tempo con miglior grazia, invenzione, ornamenti, arricchita et abbellita; come particularmente si vedrà nelle vite di ciascuno, e si conoscerà una nuova maniera di colorito, di scorci, d'attitudini naturali; e molto più espressi moti dell'animo et i gesti del corpo, con cercare di appressarsi più al vero delle cose naturali nel disegno; e le arie del viso che somigliassino interamente gli uomini, sì che fussino conosciuti per chi eglino erano fatti.
Così cercaron far quel che vedevono nel naturale e non più; e così vennon ad esser più considerate e meglio intese le cose loro, e questo diede loro ardimento di metter regola alle prospettive e farle scortar appunto, come faccevano, di rilievo, naturali e in propria forma, e così andarono osservando l'ombre et i lumi, gli sbattimenti e le altre cose difficili, e le composizioni delle storie con più propria similitudine, e tentaron fare i paesi più simili al vero, e gli àlbori, l'erbe, i fiori, l'arie, i nuvoli et altre cose della natura, tanto che si potrà dire arditamente che queste arti sieno non solo allevate, ma ancora ridotte nel fiore della lor gioventù, e da sperare quel frutto che intervenne di poi, e che in breve elle avessino a venire a la loro perfetta età.
Daremo, adunque, con lo aiuto di Dio principio alla Vita di Iacopo della Quercia sanese, e poi agli altri architetti e scultori, fino a che perverremo a Masaccio; il quale, per essere stato primo a migliorare il disegno nella pittura, mostrerrà quanto obligo se gli deve per la sua nuova rinascita.
E poi che ho eletto Iacopo sopra detto per onorato principio di questa Seconda Parte, seguitando l'ordine delle maniere, verrò aprendo sempre colle Vite medesime, la dificultà di sì belle, dificili et onoratissime arti.
IL FINE
VITA DI IACOPO DALLA QUERCIA SCULTORE SANESE
Fu adunque Iacopo di maestro Piero di Filippo dalla Quercia, luogo del contado di Siena, scultore, il primo dopo Andrea Pisano, l'Orgagna e gl'altri di sopra nominati, che operando nella scultura con maggior studio e diligenza, cominciasse a mostrare che si poteva appressare alla natura, et il primo che desse animo e speranza agl'altri di poterla, in un certo modo, pareggiare.
Le prime opere sue da mettere in conto, furono da lui fatte in Siena, essendo d'anni XIX, con questa occasione.
Avendo i Sanesi l'essercito fuori contra i Fiorentini, sotto Gian Tedesco, nipote di Saccone da Pietramala, e Giovanni d'Azzo Ubaldini capitani, ammalò in campo Giovanni d'Azzo, onde, portato a Siena, vi si morì; per che, dispiacendo la sua morte ai Sanesi, gli feciono fare nell'essequie, che furono onoratissime, una capanna di legname a uso di piramide, e sopra quella porre di mano di Iacopo la statua di esso Giovanni a cavallo maggior del vivo, fatta con molto giudizio e con invenzione, avendo, il che non era stato fatto insino allora, trovato Iacopo, per condurre quell'opera, il modo di fare l'ossa del cavallo e della figura di pezzi di legno e di piane confitti insieme, e fasciati poi di fieno e di stoppa, e con funi legato ogni cosa strettamente insieme, e sopra messo terra mescolata con cimatura di panno lino, pasta e colla.
Il qual modo di far fu veramente et è il miglior di tutti gl'altri per simili cose; perché, se bene l'opere, che in questo modo si fanno, sono in apparenza gravi, riescono nondimeno, poi che son fatte e secche, leggere e coperte di bianco, simili al marmo e molto vaghe all'occhio, sì come fu la detta opera di Iacopo.
Al che si aggiugne, che le statue fatte a questo modo e con le dette mescolanze, non si fendono, come farebbono se fussero di terra schietta solamente.
Et in questa maniera si fanno oggi i modelli delle sculture con grandissimo comodo degl'artefici che, mediante quelle, hanno sempre l'essempio inanzi e le giuste misure delle sculture che fanno; di che si deve avere non piccolo obligo a Iacopo che, secondo si dice, ne fu inventore.
Fece Iacopo dopo questa opera in Siena due tavole di legno di tiglio, intagliando in quelle le figure, le barbe et i capegli, con tanta pacienza, che fu a vederle una maraviglia.
E dopo queste tavole, che furono messe in Duomo, fece di marmo alcuni profeti non molto grandi che sono nella facciata del detto Duomo; nell'opera del quale avrebbe continuato di lavorare, se la peste, la fame e le discordie cittadine de' Sanesi, dopo aver più volte tumultuato, non avessero mal condotta quella città e cacciatone Orlando Malevolti, col favore del quale era Iacopo con riputazione adoperato nella patria.
Partito dunque da Siena, si condusse, per mezzo d'alcuni amici, a Lucca, e quivi a Paulo Guinigi, che n'era signore, fece per la moglie che poco inanzi era morta, nella chiesa di S.
Martino una sepoltura, nel basamento della quale condusse alcuni putti di marmo che reggono un festone tanto pulitamente che parevano di carne, e nella cassa posta sopra il detto basamento fece con infinita diligenza l'immagine della moglie d'esso Paulo Guinigi che dentro vi fu sepolta, e a' piedi d'essa fece nel medesimo sasso un cane di tondo rilievo, per la fede da lei portata al marito.
La qual cassa, partito o più tosto cacciato che fu Paulo l'anno 1429 di Lucca, e che la città rimase libera, fu levata di quel luogo, e per l'odio che alla memoria del Guinigio portavano i Lucchesi, quasi del tutto rovinata.
Pure la reverenza, che portarono alla bellezza della figura e di tanti ornamenti gli ratenne, e fu cagione che poco appresso la cassa e la figura furono con diligenza all'entrata della porta della sagrestia collocate, dove al presente sono e la capella del Guinigio fatta della comunità.
Iacopo intanto, avendo inteso che in Fiorenza l'Arte de' Mercatanti di Calimara voleva dare a far di bronzo una delle porte del tempio di S.
Giovanni, dove aveva la prima lavorato, come si è detto, Andrea Pisano, se n'era venuto a Fiorenza per farsi conoscere, atteso massimamente che cotale lavoro si doveva allogare a chi nel fare una di quelle storie di bronzo, avesse dato di sé e della virtù sua miglior saggio.
Venuto dunque a Fiorenza, fece non pur il modello, ma diede finita del tutto e pulita una molto ben condotta storia, la quale piacque tanto, che se non avesse avuto per concorrenti gli eccellentissimi Donatello e Filippo Brunelleschi, i quali in verità nei loro saggi lo superarono, sarebbe tocco a lui a far quel lavoro di tanta importanza.
Ma essendo andata la bisogna altramente, egli se n'andò a Bologna, dove, col favore di Giovanni Bentivogli, gli fu dato a fare di marmo dagl'Operai di San Petronio, la porta principale di quella chiesa, la quale egli seguitò di lavorare d'ordine tedesco, per non alterare il modo, che già era stato cominciato, riempiendo dove mancava l'ordine de' pilastri che reggono la cornice e l'arco, di storie lavorate con infinito amore nello spazio di dodici anni che egli mise in quell'opera, dove fece di sua mano tutti i fogliami e l'ornamento di detta porta, con quella maggiore diligenza e studio che gli fu possibile.
Nei pilastri che reggono l'architrave, la cornice e l'arco, sono cinque storie per pilastro e cinque nell'architrave, che in tutto son quindici.
Nelle quali tutte intagliò di basso rilievo istorie del Testamento Vecchio, cioè da che Dio creò l'uomo insino al Diluvio e l'Arca di Noè, facendo grandissimo giovamento alla scultura, perché dagl'antichi insino allora non era stato chi avesse lavorato di basso rilievo alcuna cosa, onde era quel modo di fare più tosto perduto che smarrito.
Nell'arco di questa porta fece tre figure di marmo, grandi quanto il vivo e tutte tonde, cioè una Nostra Donna, col Putto in collo, molto bella, San Petronio et un altro Santo molto ben disposti e con belle attitudini, onde i Bolognesi, che non pensavano che si potesse fare opera di marmo, non che migliore, eguale a quella che Agostino et Agnolo sanesi avevano fatto di maniera vecchia in San Francesco all'altar maggiore nella loro città, restarono ingannati vedendo questa di gran lunga più bella.
Dopo la quale, essendo ricerco Iacopo di ritornare a Lucca, vi andò ben volentieri, e vi fece in San Friano, per Federigo di Maestro Trenta del Veglia, in una tavola di marmo, una Vergine col Figliuolo in braccio, San Bastiano, Santa Lucia, San Ieronimo e San Gismondo con buona maniera, grazia e disegno, e da basso nella predella di mezzo rilievo, sotto ciascun Santo alcuna storia della vita di quello, il che fu cosa molto vaga e piacevole, avendo Iacopo con bella arte fatto sfuggire le figure in su' piani, e nel diminuire più basse.
Similmente diede molto animo agl'altri d'acquistare alle loro opere grazia e bellezza con nuovi modi, avendo in due lapide grandi, fatte di basso rilievo per due sepolture, ritratto di naturale Federigo padrone dell'opera e la moglie.
Nelle quali lapide sono queste parole: "Hoc opus fecit Iacobus Magistri Petri de Senis 1422".
Venendo poi Iacopo a Firenze, gl'Operai di Santa Maria del Fiore, per la buona relazione avuta di lui, gli diedero a fare di marmo il frontespizio, che è sopra la porta di quella chiesa la quale va alla Nunziata; dove egli fece in una mandorla la Madonna, la quale da un coro d'Angeli è portata, sonando eglino e cantando, in cielo con le più belle movenze e con le più belle attitudini, vedendosi che hanno moto e fierezza nel volare, che fussero insino allora state fatte mai.
Similmente la Madonna è vestita con tanta grazia et onestà, che non si può immaginare meglio, essendo il girare delle pieghe molto bello e morbido, e vedendosi ne' lembi de' panni, che e' vanno accompagnando l'ignudo di quella figura, che scuopre coprendo ogni svoltare di membra.
Sotto la quale Madonna è un San Tommaso che riceve la cintola.
Insomma questa opera fu condotta in quattro anni da Iacopo con tutta quella maggior perfezione che a lui fu possibile, perciò che oltre al disiderio che aveva naturalmente di far bene, la concorrenza di Donato, di Filippo e di Lorenzo di Bartolo, de' quali già si vedevano alcune opere molto lodate, lo sforzarono anco da vantaggio a fare quello che fece; il che fu tanto, che anco oggi è dai moderni artefici guardata questa opera come cosa rarissima.
Dall'altra banda della Madonna, dirimpetto a San Tomaso, fece Iacopo un orso che monta in sur un pero, sopra il quale capriccio, come si disse allora molte cose, così se ne potrebbe anco da noi dire alcune altre, ma le tacerò per lasciare a ognuno sopra cotale invenzione credere e pensare a suo modo.
Disiderando dopo ciò Iacopo di rivedere la patria, se ne tornò a Siena, dove, arrivato che fu, se gli porse, secondo il desiderio suo, occasione di lasciare in quella di sé qualche onorata memoria.
Perciò che la Signoria di Siena, risoluta di fare un ornamento ricchissimo di marmi all'acqua che in sulla piazza avevano condotta Agnolo et Agostino Sanesi l'anno 1343, allogarono quell'opera a Iacopo per prezzo di duemiladugento scudi d'oro, onde egli, fatto un modello e fatti venire i marmi, vi mise mano e la finì di fare con molta sodisfazione de' suoi cittadini, che non più Iacopo dalla Quercia, ma Iacopo dalla Fonte fu poi sempre chiamato.
Intagliò dunque nel mezzo di questa opera la gloriosa Vergine Maria, avvocata particolare di quella città, un poco maggiore dell'altre figure, e con maniera graziosa e singolare.
Intorno poi fece le sette virtù teologiche, le teste delle quali, che sono delicate e piacevoli, fece con bell'aria e con certi modi che mostrano che egli cominciò a trovare il buono [nel]le difficultà dell'arte et a dare grazia al marmo, levando via quella vecchiaia che avevano insino allora usato gli scultori, facendo le loro figure intere e senza una grazia al mondo; là dove Iacopo le fece morbide e carnose, e finì il marmo con pacienza e delicatezza.
Fecevi, oltre ciò, alcune storie del Testamento Vecchio, cioè la creazione de' primi parenti et il mangiar del pomo vietato, dove nella figura della femmina si vede un'aria nel viso sì bella, et una grazia et attitudine della persona tanto reverente verso Adamo nel porgergli il pomo, che non pare che possa ricusarlo; senza il rimanente dell'opera, che è tutta piena di bellissime considerazioni et adornata di bellissimi fanciulletti et altri ornamenti di leoni e di lupe, insegne della città, condotti tutti da Iacopo con amore, pratica e giudizio in ispazio di dodici anni.
Sono di sua mano similmente tre storie bellissime di bronzo, della vita di San Giovanbattista, di mezzo rilievo, le quali sono intorno al battesimo di San Giovanni, sotto il Duomo; et alcune figure ancora tonde e pur di bronzo, alte un braccio, che sono fra l'una e l'altra delle dette istorie, le quali sono veramente belle e degne di lode.
Per queste opere, adunque, come eccellente e per la bontà della vita come costumato, meritò Iacopo essere dalla Signoria di Siena fatto cavaliere, e poco dopo Operaio del Duomo.
Il quale uffizio esercitò di maniera che né prima né poi fu quell'opera meglio governata, avendo egli in quel Duomo, se bene non visse, poi che ebbe cotal carico avuto, se non tre anni, fatto molti acconcimi utili et onorevoli.
E se bene Iacopo fu solamente scultore, disegnò nondimeno ragionevolmente, come ne dimostrano alcune carte da lui disegnate che sono nel nostro libro, le quali paiono più tosto di mano d'un miniatore che d'uno scultore.
Et il ritratto suo, fatto come quello che di sopra si vede, ho avuto da maestro Domenico Beccafumi pittore sanese, il quale mi ha assai cose raccontato della virtù, bontà e gentilezza di Iacopo, il quale, stracco dalle fatiche e dal continuo lavorare, si morì finalmente di anni sessantaquattro et in Siena sua patria fu dagl'amici suoi e parenti, anzi da tutta la città pianto et onoratamente sotterrato.
E nel vero non fu se non buona fortuna la sua, che tanta virtù fusse nella sua patria riconosciuta; poiché rade volte adiviene che i virtuosi uomini siano nella patria universalmente amati et onorati.
Fu discepolo di Iacopo Matteo, scultore lucchese, che nella sua città fece l'anno 1444 per Domenico Galigano lucchese, nella chiesa di San Martino, il tempietto a otto facce di marmo, dove è l'imagine di Santa Croce, scultura stata miracolosamente, secondo che si dice, lavorata da Niccodemo, uno de' settantadue discepoli del Salvatore; il quale tempio non è veramente se non molto bello e proporzionato.
Fece il medesimo di scultura una figura d'un San Bastiano di marmo tutto tondo di braccia tre, molto bello, per essere stato fatto con buon disegno, con bella attitudine e lavorato pulitamente.
È di sua mano ancora una tavola, dove in tre nicchie sono tre figure belle affatto, nella chiesa dove si dice essere il corpo di S.
Regolo, e la tavola similmente che è in S.
Michele, dove sono tre figure di marmo, e la statua parimente che è in sul canto della medesima chiesa dalla banda di fuori, cioè una Nostra Donna, che mostra che Matteo andò sforzandosi di paragonare Iacopo suo maestro.
Niccolò Bolognese ancora fu discepolo di Iacopo e condusse a fine, essendo imperfetta, divinamente fra l'altre cose, l'arca di marmo piena di storie e figure che già fece Nicola Pisano a Bologna, dove è il corpo di S.
Domenico e ne riportò, oltre l'utile, questo nome d'onore, che fu poi sempre chiamato maestro Niccolò dell'Arca.
Finì costui quell'opera l'anno 1460, e fece poi nella facciata del palazzo dove sta oggi il Legato di Bologna, una Nostra Donna di bronzo alta quattro braccia, e la pose su l'anno 1478.
Insomma fu costui valente maestro e degno discepolo di Iacopo dalla Quercia sanese.
FINE DELLA VITA DI IACOPO SCULTORE SANESE
VITA DI NICCOLÒ ARETINO SCULTORE
Fu ne' medesimi tempi e nella medesima facultà della scultura e quasi della medesima bontà nell'arte Niccolò di Piero, cittadino aretino, al quale quanto fu la natura liberale delle doti sue, cioè d'ingegno e di vivacità d'animo, tanto fu avara la fortuna de' suoi beni.
Costui dunque, per essere povero compagno e per avere alcuna ingiuria ricevuta dai suoi più prossimi nella patria, si partì, per venirsene a Firenze, d'Arezzo, dove sotto la disciplina di maestro Moccio scultore sanese, il quale, come si è detto altrove, lavorò alcune cose in Arezzo, aveva con molto frutto atteso alla scultura, come che non fusse detto maestro Moccio molto eccellente.
E così arrivato Niccolò a Firenze, da prima lavorò per molti mesi qualunche cosa gli venne alle mani, sì perché la povertà et il bisogno l'assassinavano e sì per la concorrenza d'alcuni giovani che con molto studio e fatica, gareggiando virtuosamente, nella scultura s'esercitavano.
Finalmente, essendo dopo molte fatiche riuscito Niccolò assai buono scultore, gli furono fatte fare da gl'Operai di Santa Maria del Fiore, per lo campanile, due statue, le quali essendo in quello poste verso la canonica, mettono in mezzo quelle che fece poi Donato; e furono tenute, per non si essere veduto di tondo rilievo meglio, ragionevoli.
Partito poi di Firenze per la peste dell'anno 1383, se n'andò alla patria; dove, trovando che per la detta peste gl'uomini della Fraternità di Santa Maria della Misericordia, della quale si è di sopra ragionato, avevano molti beni acquistato per molti lasci stati fatti da diverse persone della città, per la divozione che avevano a quel luogo pio et agl'uomini di quello, che senza tema di niuno pericolo, in tutte le pestilenze governano gl'infermi e sotterrano i morti, e che per ciò volevano fare la facciata di quel luogo di pietra bigia, per non avere commodità di marmi, tolse a fare quel luogo stato cominciato inanzi d'ordine tedesco, e lo condusse, aiutato da molti scarpellini da Settignano, a fine perfettamente, facendo di sua mano, nel mezzo tondo della facciata, una Madonna col Figliuolo in braccio, e certi Angeli che le tengono aperto il manto, sotto il quale pare che si riposi il popolo di quella città, per lo quale intercedono da basso in ginocchioni San Laurentino e Pergentino.
In due nicchie, poi, che sono dalle bande, fece due statue di tre braccia l'una; cioè San Gregorio papa e San Donato vescovo e protettore di quella città, con buona grazia e ragionevole maniera.
E per quanto si vede, aveva, quando fece queste opere, già fatto in sua giovanezza sopra la porta del Vescovado, tre figure grandi di terra cotta che oggi sono in gran parte state consumate dal ghiaccio; sì come è ancora un San Luca di macigno stato fatto dal medesimo mentre era giovanetto, e posto nella facciata del detto Vescovado.
Fece similmente in Pieve, alla Capella di San Biagio, la figura di detto Santo di terra cotta, bellissima; e nella chiesa di S.
Antonio, lo stesso Santo pur di rilievo, e di terra cotta, et un altro Santo a sedere sopra la porta dello spedale di detto luogo.
Mentre faceva queste et alcune altre opere simili, rovinando per un terremuoto le mura del Borgo a San Sepolcro, fu mandato per Niccolò, acciò facesse, sì come fece con buon giudizio, il disegno di quella muraglia che riuscì molto meglio e più forte che la prima.
E così, continuando di lavorare quando in Arezzo, quando ne' luoghi convicini, si stava Niccolò assai quietamente et agiato nella patria, quando la guerra, capital nimica di queste arti, fu cagione che se ne partì; perché essendo cacciati da Pietra Mala i figliuoli di Piero Saccone et il castello rovinato insino ai fondamenti, era la città d'Arezzo et il contado tutto sottosopra.
Perciò, dunque, partitosi di quel paese, Niccolò se ne venne a Firenze, dove altre volte aveva lavorato; e fece per gl'Operai di S.
Maria del Fiore una statua di braccia quattro di marmo, che poi fu posta alla porta principale di quel tempio, a man manca; nella quale statua, che è un Vangelista a sedere, mostrò Niccolò d'essere veramente valente scultore.
E ne fu molto lodato non si essendo veduto insino allora, come si vide poi, alcuna cosa migliore tutta tonda e di rilievo.
Essendo poi condotto a Roma di ordine di Papa Bonifazio IX, fortificò e diede miglior forma a Castel S.
Agnolo, come migliore di tutti gl'architetti del suo tempo.
E ritornato a Firenze, fece in sul canto d'Or San Michele, che è verso l'Arte della Lana, per i maestri di Zecca, due figurette di marmo, nel pilastro sopra la nicchia, dove è oggi il S.
Matteo che fu fatto poi, le quali furono tanto ben fatte et in modo accomodate sopra la cima di quel tabernacolo, che furono allora e sono state sempre poi molto lodate.
E parve che in quelle avanzasse Niccolò se stesso, non avendo mai fatto cosa migliore.
Insomma elleno sono tali, che possono stare appetto ad ogni altra opera simile; onde n'acquistò tanto credito che meritò essere nel numero di coloro che furono in considerazione per fare le porte di bronzo di S.
Giovanni; se bene, fatto il saggio, rimase a dietro e furono allogate, come si dirà al suo luogo, ad altri.
Dopo queste cose, andatosene Niccolò a Milano, fu fatto capo nell'Opera del Duomo di quella città, e vi fece alcune cose di marmo che piacquero pur assai.
Finalmente essendo dagl'Aretini richiamato alla patria, perché facesse un tabernacolo pel Sagramento, nel tornarsene gli fu forza fermarsi in Bologna e fare, nel convento de' frati Minori, la sepoltura di Papa Alessandro Quinto, che in quella città aveva finito il corso degl'anni suoi.
E come che egli molto ricusasse quell'opera, non potette però non conscendere ai preghi di Messer Lionardo Bruni Aretino, che era stato molto favorito segretario di quel Pontefice.
Fece dunque Niccolò il detto sepolcro, e vi ritrasse quel Papa di naturale.
Ben è vero che per la incommodità de' marmi et altre pietre, fu fatto il sepolcro e gl'ornamenti di stucchi e di pietre cotte, e similmente la statua del Papa sopra la cassa, la quale è posta dietro al coro della detta chiesa.
La quale opera finita, si ammalò Niccolò gravamente, e poco appresso si morì d'anni 67 e fu nella medesima chiesa sotterrato l'anno 1417.
Et il suo ritratto fu fatto da Galasso ferrarese suo amicissimo, il quale dipigneva a que' tempi in Bologna a concorrenza di Iacopo e Simone pittori bolognesi e d'un Cristofano, non so se ferrarese, o come altri dicono, da Modena; i quali tutti dipinsono, in una chiesa, detta la Casa di Mezzo, fuor della porta di S.
Mammolo, molte cose a fresco.
Cristofano fece da una banda da che Dio fa Adamo insino alla morte di Moisè, e Simone et Iacopo trenta storie, da che nasce Cristo insino alla cena che fece con i discepoli.
E Galasso poi fece la Passione, come si vede al nome di ciascuno che vi è scritto da basso.
E queste pitture furono fatte l'anno 1404.
Dopo le quali fu dipinto il resto della chiesa, da altri maestri, di storie di Davitte re assai pulitamente.
E nel vero queste così fatte pitture non sono tenute, se non a ragione, in molta stima dai Bolognesi, sì perché come vecchie sono ragionevoli, e sì perché il lavoro essendosi mantenuto fresco e vivace, merita molta lode.
Dicono alcuni che il detto Galasso lavorò anco a olio, essendo vecchissimo, ma io né in Ferrara né in altro luogo, ho trovato altri lavori di suo, che a fresco.
Fu discepolo di Galasso, Cosmè, che dipinse in S.
Domenico di Ferrara una capella e gli sportelli che serrano l'organo del Duomo e molte altre cose che sono migliori che non furono le pitture di Galasso suo maestro.
Fu Niccolò buon disegnatore, come si può vedere nel nostro libro, dove è di sua mano uno Evangelista e tre teste di cavallo, disegnate bene affatto.
FINE DELLA VITA DI NICCOLÒ ARETINO, etc.
VITA DI DELLO PITTOR FIORENTINO
Se bene Dello fiorentino ebbe mentre visse et ha avuto sempre poi nome di pittore solamente, egli attese nondimeno anco alla scultura, anzi le prime opere sue furono di scultura, essendo che fece, molto inanzi che cominciasse a dipignere, di terra cotta, nell'arco che è sopra la porta della chiesa di S.
Maria Nuova, una incoronazione di Nostra Donna e dentro in chiesa i dodici Apostoli; e nella chiesa de' Servi un Cristo morto in grembo alla Vergine et altr'opere assai per tutta la città.
Ma vedendo (oltre che era capriccioso) che poco guadagnava in far di terra e che la sua povertà aveva di maggior aiuto bisogno, si risolvette, avendo buon disegno, d'attendere alla pittura, e gli riuscì agevolmente; perciò che imparò presto a colorire con buona pratica, come ne dimostrano molte pitture fatte nella sua città, e massimamente di figure piccole, nelle quali egli ebbe miglior grazia che nelle grandi assai.
La qual cosa gli venne molto a proposito, perché, usandosi in que' tempi per le camere de' cittadini cassoni grandi di legname a uso di sepolture e con altre varie fogge ne' coperchi, niuno era che i detti cassoni non facesse dipignere; et oltre alle storie che si facevano nel corpo dinanzi e nelle teste, in sui cantoni e tallora altrove, si facevano fare l'arme o vero insegne delle casate.
E le storie, che nel corpo dinanzi si facevano, erano per lo più di favole tolte da Ovidio e da altri poeti, o vero storie raccontate dagli istorici greci o latini, e similmente cacce, giostre, novelle d'amore et altre cose somiglianti, secondo che meglio amava ciascuno.
Il didentro poi si foderava di tele o di drappi, secondo il grado e potere di coloro che gli facevano fare, per meglio conservarvi dentro le veste di drappo et altre cose preziose.
E, che è più, si dipignevano in cotal maniera non solamente i cassoni, ma i lettucci, le spalliere, le cornici che ricignevano intorno e altri così fatti ornamenti da camera, che in que' tempi magnificamente si usavano, come infiniti per tutta la città se ne possono vedere.
E per molti anni fu di sorte questa cosa in uso, che eziandio i più eccellenti pittori in così fatti lavori si esercitavano, senza vergognarsi, come oggi molti farebbono, di dipignere e mettere d'oro simili cose.
E che ciò sia vero, si è veduto insino a' giorni nostri, oltre molti altri, alcuni cassoni, spalliere e cornici nelle camere del Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici, nei quali era dipinto di mano di pittori non mica plebei, ma eccellenti maestri, tutte le giostre, torneamenti, cacce, feste et altri spettacoli fatti ne' tempi suoi, con giudizio, con invenzione e con arte maravigliosa.
Delle quali cose se ne veggiono, non solo nel palazzo e nelle case vecchie de' Medici, ma in tutte le più nobili case di Firenze ancora alcune reliquie.
E ci sono alcuni che attenendosi a quelle usanze vecchie, magnifiche veramente et orrevolissime, non hanno sì fatte cose levate per dar luogo agl'ornamenti et usanze moderne.
Dello, dunque, essendo molto pratico e buon pittore, e massimamente come si è detto in far pitture piccole con molta grazia, per molti anni, con suo molto utile et onore, ad altro non attese che a lavorare e dipignere cassoni, spalliere, lettucci et altri ornamenti della maniera che si è detto di sopra, intanto che si può dire ch'ella fusse la sua principale e propria professione.
Ma perché niuna cosa di questo mondo ha fermezza, né dura lungo tempo, quantunque buona e lodevole, da quel primo modo di fare, assottigliandosi gl'ingegni, si venne non è molto a far ornamenti più ricchi et agl'intagli di noce messi d'oro che fanno ricchissimo ornamento, et al dipignere e colorire a olio in simili masserizie istorie bellissime, che hanno fatto e fanno conoscere così la magnificenza de' cittadini che l'usano, come l'eccellenza de' pittori.
Ma per venire all'opere di Dello, il quale fu il primo che con diligenza e buona pratica in sì fatte opere si adoperasse, egli dipinse particolarmente a Giovanni de' Medici tutto il fornimento d'una camera che fu tenuto cosa veramente rara et in quel genere bellissima, come alcune reliquie che ancora ce ne sono, dimostrano.
E Donatello, essendo giovanetto, dicono che gli aiutò, facendovi di sua mano con stucco, gesso, colla e matton pesto, alcune storie et ornamenti di basso rilievo, che poi messi d'oro, accompagnarono con bellissimo vedere le storie dipinte; e di questa opera e d'altre molte simili, fa menzione con lungo ragionamento Drea Cennini nella sua opera, della quale si è detto di sopra a bastanza; e perché di queste cose vecchie è ben fatto serbare qualche memoria, nel palazzo del signor Duca Cosimo n'ho fatto conservare alcune e di mano propria di Dello, dove sono e saranno sempre degne d'essere considerate, almeno per gl'abiti varii di que' tempi, così da uomini come da donne, che in esse si veggiono.
Lavorò ancora Dello in fresco nel chiostro di S.
Maria Novella in un cantone di verde terra la storia d'Isaac quando dà la benedizione a Esaù.
E poco dopo questa opera, essendo condotto in Ispagna al servigio del Re, venne in tanto credito, che molto più disiderare da alcuno artefice non si sarebbe potuto.
E se bene non si sa particolarmente che opere facesse in quelle parti essendone tornato richissimo et onorato molto, si può giudicare ch'elle fussero assai e belle e buone.
Dopo qualche anno, essendo stato delle sue fatiche realmente rimunerato, venne capriccio a Dello di tornare a Firenze, per far vedere agl'amici come da estrema povertà fosse a gran ricchezze salito.
Onde, andato per la licenza a quel Re, non solo l'ottenne graziosamente (come che volentieri l'arebbe ratenuto se fusse stato in piacere di Dello), ma per maggiore segno di gratitudine fu fatto da quel liberalissimo Re cavaliere; per che, tornando a Firenze per avere le bandiere e la confermazione de' privilegii, gli furono denegate per cagione di Filippo Spano degli Scolari che in quel tempo, come gran Siniscalco del Re d'Ungheria, tornò vittorioso de' Turchi.
Ma avendo Dello scritto subitamente in Ispagna al Re, dolendosi di questa ingiuria, il Re scrisse alla Signoria in favore di lui sì caldamente, che gli fu senza contrasto conceduta la disiderata e dovuta onoranza.
Dicesi che, tornando Dello a casa a cavallo con le bandiere, vestito di broccato et onorato dalla Signoria, fu proverbiato nel passare per Vacchereccia, dove allora erano molte botteghe d'orefici, da certi domestici amici che in gioventù l'avevano conosciuto, o per ischerno o per piacevolezza che lo facessero, e che egli rivolto dove aveva udito la voce, fece con ambe le mani le fiche e senza dire alcuna cosa passò via, sì che quasi nessuno se n'accorse, se non se quelli stessi che l'avevano uccellato.
Per questo e per altri segni che gli fecero conoscere che nella patria non meno si adoperava contra di lui l'invidia che già s'avesse fatto la malignità quando era poverissimo, deliberò di tornarsene in Ispagna.
E così, scritto et avuto risposta dal Re, se ne tornò in quelle parti, dove fu ricevuto con favore grande e veduto poi sempre volentieri e dove attese a lavorar e vivere come signore, dipignendo sempre da indi inanzi col grembiule di broccato.
Così, dunque, diede luogo all'invidia et appresso di quel Re onoratamente visse e morì d'anni quarantanove, e fu dal medesimo fatto sepellire onorevolmente con questo epifaffio:
Dellus eques Florentinus, picturae arte percelebris: Regisque
Hispaniarum liberalitate et ornamentis amplissimus.
H.
S.
E.
S.
T.
T.
L.
Non fu Dello molto buon disegnatore, ma fu bene fra i primi che cominciassero a scoprir con qualche giudizio i muscoli ne' corpi ignudi, come si vede in alcuni disegni di chiaro scuro fatti da lui nel nostro libro.
Fu ritratto in S.
Maria Novella da Paulo Ucelli di chiaro scuro, nella storia dove Noè è inebriato da Cam suo figliuolo.
FINE DELLA VITA DI DELLO PITTOR FIORENTINO
VITA DI NANNI D'ANTONIO DI BANCO SCULTORE
Nanni d'Antonio di Banco, il quale, come fu assai ricco di patrimonio, così non fu basso al tutto di sangue, dilettandosi della scultura non solamente non si vergognò d'impararla e di esercitarla, ma se lo tenne a gloria non piccola, e vi fece dentro tal frutto che la sua fama durerà sempre, e tanto più sarà celebrata quanto si saprà che egli attese a questa nobile arte non per bisogno, ma per vero amore di essa virtù.
Costui, il quale fu uno de' discepoli di Donato, se bene è da me posto inanzi al maestro perché morì molto inanzi a lui, fu persona alquanto tardetta, ma modesta, umile e benigna nella conversazione.
È di sua mano in Fiorenza il San Filippo di marmo che è in un pilastro di fuori dell'oratorio d'Or San Michele, la qual opera fu da prima allogata a Donato dall'Arte de' Calzolai, e poi, per non essere stati con esso lui d'accordo del prezzo, riallogata, quasi per far dispetto a Donato, a Nanni, il quale promise che si pigliarebbe quel pagamento e non altro che essi gli darebbono.
Ma la bisogna non andò così, perché, finita la statua e condotta al suo luogo, domandò dell'opera sua molto maggior prezzo che non aveva fatto da principio Donato; per che, rimessa la stima di quella dall'una parte e l'altra in Donato, credevano al fermo i consoli di quell'arte che egli per invidia, non l'avendo fatta, la stimasse molto meno che s'ella fusse sua opera; ma rimasero della loro credenza ingannati, perciò che Donato giudicò che a Nanni fusse molto più pagata la statua che egli non aveva chiesto.
Al qual giudizio non volendo in modo niuno starsene i Consoli, gridando dicevano a Donato: "Perché tu, che facevi questa opera per minor prezzo, la stimi più essendo di man d'un altro e ci strigni a dargliene più che egli stesso non chiede? E pur conosci, sì come noi altresì facciamo, ch'ella sarebbe delle tue mani uscita molto migliore".
Rispose Donato ridendo: "Questo buon uomo non è nell'arte quello che sono io, e dura nel lavorare molto più fatica di me, però sete forzati volendo sodisfarlo, come uomini giusti che mi parete, pagarlo del tempo che vi ha speso".
E così ebbe effetto il lodo di Donato, nel quale n'avevano fatto compromesso d'accordo ambe le parti.
Questa opera posa assai bene e ha buona grazia e vivezza nella testa; i panni non sono crudi e non sono se non bene indosso alla figura accommodati.
Sotto questa nicchia sono in un'altra quattro Santi di marmo, i quali furono fatti fare al medesimo Nanni dall'Arte de' Fabbri, Legnaiuoli e Muratori; e si dice che, avendoli finiti tutti tondi e spiccati l'uno dall'altro e murata la nicchia, che a mala fatica non ve ne entravano dentro se non tre, avendo egli nell'attitudini loro ad alcuni aperte le braccia, e che disperato e malcontento, pregò Donato che volesse col consiglio suo riparare alla disgrazia e poca avvertenza sua, e che Donato ridendosi del caso disse: "Se tu prometti di pagare una cena a me et a tutti i miei giovani di bottega, mi dà il cuore di fare entrare i Santi nella nicchia senza fastidio nessuno".
Il che avendo Nanni promesso di fare ben volentieri, Donato lo mandò a pigliare certe misure a Prato et a fare alcuni altri negozii di pochi giorni.
E così essendo Nanni partito, Donato con tutti i suoi discepoli e garzoni andatosene al lavoro, scantonò a quelle statue, a che le spalle et a chi le braccia talmente, che facendo luogo l'una all'altra le accostò insieme, facendo apparire una mano sopra le spalle di una di loro.
E così il giudizio di Donato avendole unitamente commesse, ricoperse di maniera l'errore di Nanni che, murate ancora in quel luogo, mostrano indizii manifestissimi di concordia e di fratellanza; e chi non sa la cosa non si accorge di quello errore.
Nanni, trovato nel suo ritorno che Donato aveva corretto il tutto e rimediato a ogni disordine, gli rendette grazie infinite, et a lui e suoi creati pagò la cena di bonissima voglia.
Sotto i piedi di questi quattro santi, nell'ornamento del tabernacolo, è nel marmo di mezzo rilievo una storia, dove uno scultore fa un fanciullo molto pronto et un maestro che mura con due che l'aiutano; e queste tutte figurine si veggiono molto ben disposte et attente a quello che fanno.
Nella faccia di S.
Maria del Fiore è di mano del medesimo, dalla banda sinistra, entrando in chiesa per la porta del mezzo, uno evangelista che, secondo que' tempi, è ragionevole figura.
Stimasi che il Santo Lò, che è intorno al detto oratorio d'Or San Michele, stato fatto fare dall'Arte de' Maniscalchi, sia di mano del medesimo Nanni, e così il tabernacolo di marmo, nel basamento del quale è da basso in una storia S.
Lò maniscalco che ferra un cavallo indemoniato, tanto ben fatto che ne meritò Nanni molta lode.
Ma in altre opere l'averebbe molto maggiore meritata e conseguita, se non si fusse morto, come fece, giovane.
Fu nondimeno per queste poche opere tenuto Nanni ragionevole scultore; e perché era cittadino ottenne molti uffici nella sua patria Fiorenza, e perché in quelli et in tutti gl'altri affari si portò come giusto uomo e ragionevole, fu molto amato.
Morì di mal di fianco l'anno 1430, e di sua età XLVII.
FINE DELLA VITA DI NANNI D'ANTONIO DI BANCO
VITA DI LUCA DELLA ROBBIA SCULTORE
Nacque Luca della Robbia scultore fiorentino l'anno 1388 nelle case de' suoi antichi, che sono sotto la chiesa di S.
Bernaba in Fiorenza, e fu in quelle alevato costumatamente insino a che non pure leggere e scrivere, ma far di conto ebbe, secondo il costume de' più de' Fiorentini, per quanto gli faceva bisogno, apparato.
E dopo fu dal padre messo a imparare l'arte dell'orefice con Lionardo di ser Giovanni tenuto allora in Fiorenza il miglior maestro che fusse di quell'arte.
Sotto costui adunque avendo imparato Luca a disegnare et a lavorare di cera, cresciutogli l'animo si diede a fare alcune cose di marmo e di bronzo; le quali, essendogli riuscite assai bene, furono cagione che, abbandonato del tutto il mestier dell'orefice, egli si diede di maniera alla scultura, che mai faceva altro che tutto il giorno scarpellare e la notte disegnare; e ciò fece con tanto studio, che molte volte, sentendosi di notte aghiadare i piedi, per non partirsi dal disegno, si mise per riscaldargli a tenerli in una cesta di bruscioli, cioè di quelle piallature che i lignaiuoli levano dall'asse quando con la pialla le lavorano.
Né io di ciò mi maraviglio punto, essendo che niuno mai divenne in qualsivoglia esercizio eccellente, il quale e caldo e gelo e fame e sete et altri disagi non cominciasse ancor fanciullo a sopportare, laonde sono coloro del tutto ingannati, i quali si avisano di potere negl'agi e con tutti i commodi del mondo ad onorati gradi pervenire; non dormendo, ma vegghiando e studiando continuamente s'acquista.
Aveva a malapena quindici anni Luca, quando, insieme con altri giovani scultori, fu condotto in Arimini, per fare alcune figure et altri ornamenti di marmo a Sigismondo di Pandolfo Malatesti signore di quella città, il quale allora nella chiesa di S.
Francesco faceva fare una capella, e per la moglie sua, già morta, una sepoltura; nella quale opera diede onorato saggio del saper suo Luca in alcuni bassi rilievi che ancora vi si veggiono, prima che fusse dagl'Operai di S.
Maria del Fiore richiamato a Firenze, dove fece, per lo campanile di quella chiesa, cinque storiette di marmo, che sono da quella parte che è verso la chiesa, le quali mancavano, secondo il disegno di Giotto, a canto a quelle dove sono le scienze et arti, che già fece, come si è detto, Andrea Pisano.
Nella prima Luca fece Donato che insegna la gramatica; nella seconda Platone et Aristotile per la filosofia; nella terza uno che suona un liuto, per la musica; nella quarta un Tolomeo per l'astrologia e nella quinta Euclide per la geometria; le quali storie per pulitezza, grazia e disegno avanzarono d'assai le due fatte da Giotto, come si disse, dove in una per la pittura Apelle dipigne e nell'altra Fidia per la scultura lavora con lo scarpello.
Per lo che i detti Operai, che oltre ai meriti di Luca furono a ciò fare persuasi da Messer Vieri de' Medici, allora gran cittadino popolare, il quale molto amava Luca, gli diedero a fare l'anno 1405 l'ornamento di marmo dell'organo che grandissimo faceva allora far l'Opera, per metterlo sopra la porta della sagrestia di detto tempio.
Della quale opera fece Luca nel basamento in alcune storie, i cori della musica che in varii modi cantano; e vi mise tanto studio e così bene gli riuscì quel lavoro, che, ancora che sia alto da terra sedici braccia, si scorge il gonfiare delle gole di chi canta, il battere delle mani da chi regge la musica in sulle spalle de' minori, et insomma diverse maniere di suoni, canti, balli et altre azzioni piacevoli che porge il diletto della musica.
Sopra il cornicione poi di questo ornamento, fece Luca due figure di metallo dorate, cioè due Angeli nudi, condotti molto pulitamente, sì come è tutta l'opera, che fu tenuta cosa rara; se bene Donatello, che poi fece l'ornamento dell'altro organo che è dirimpetto a questo, fece il suo con molto più giudizio e pratica che non aveva fatto Luca, come si dirà al luogo suo, per avere egli quell'opera condotta quasi tutta in bozze e non finita pulitamente, acciò che apparisse di lontano assai meglio, come fa, che quella di Luca, la quale, se bene è fatta con buon disegno e diligenza, ella fa nondimeno con la sua pulitezza e finimento, che l'occhio per la lontananza la perde e non la scorge bene come si fa quella di Donato, quasi solamente abbozzata.
Alla quale cosa deono molto avere avvertenza gl'artefici perciò che la sperienza fa conoscere che tutte le cose che vanno lontane, o siano pitture o siano sculture o qualsivoglia altra somigliante cosa, hanno più fierezza e maggior forza se sono una bella bozza che se sono finite; et oltre che la lontananza fa questo effetto, pare anco che nelle bozze molte volte, nascendo in un subito dal furore dell'arte, si sprima il suo concetto in pochi colpi, e che per contrario lo stento e la troppa diligenza alcuna fiata toglia la forza et il sapere a coloro che non sanno mai levare le mani dall'opera che fanno.
E chi sa che l'arti del disegno, per non dir la pittura solamente, sono alla poesia simili, sa ancora che come le poesie dettate dal furore poetico sono le vere e le buone e migliori che le stentate, così l'opere degli uomini eccellenti nell'arti del disegno sono migliori quando sono fatte a un tratto dalla forza di quel furore, che quando si vanno ghiribizzando a poco a poco con istento e con fatica; e chi ha da principio, come si dee avere, nella idea quello che vuol fare, camina sempre risoluto alla perfezzione con molta agevolezza.
Tuttavia, perché gl'ingegni non sono tutti d'una stampa, sono alcuni ancora, ma rari, che non fanno bene se non adagio, e per tacere de' pittori, fra i poeti si dice che il reverendissimo e dottissimo Bembo penò tallora a fare un sonetto molti mesi e forse anni, se a coloro si può creder che l'affermano; il che non è gran fatto che avvenga alcuna volta ad alcuni uomini delle nostre arti; ma per lo più è la regola in contrario, come si è detto di sopra; come che il volgo migliore giudichi una certa delicatezza esteriore et apparente, che poi manca nelle cose essenziali, ricoperte dalla diligenza che il buono fatto con ragione e giudizio, ma non così di fuori ripulito e lisciato.
Ma per tornare a Luca, finita la detta opera che piacque molto, gli fu allogata la porta di bronzo della detta sagrestia, nella quale scompartì in dieci quadri, cioè in cinque per parte, con fare in ogni quadratura delle cantonate, nell'ornamento, una testa d'uomo; et in ciascuna testa variò, facendovi giovani, vecchi, di mezza età, e chi con la barba e chi raso, et insomma in diversi modi tutti belli in quel genere, onde il telaio di quell'opera ne restò ornatissimo.
Nelle storie poi de' quadri fece, per cominciarmi di sopra, la Madonna col Figliuolo in braccio con bellissima grazia, e nell'altro Iesù Cristo che esce del sepolcro; di sotto a questi, in ciascuno dei primi quattro quadri, è una figura, cioè un Evangelista, e sotto questi i quattro Dottori della Chiesa, che in varie attitudini scrivono.
E tutto questo lavoro è tanto pulito e netto, che è una maraviglia, e fa conoscere che molto giovò a Luca essere stato orefice.
Ma perché, fatto egli conto dopo queste opere di quanto gli fusse venuto nelle mani e del tempo che in farle aveva speso, conobbe che pochissimo aveva avanzato e che la fatica era stata grandissima, si risolvette di lasciare il marmo et il bronzo e vedere se maggior frutto potesse altronde cavare.
Per che, considerando che la terra si lavorava agevolmente con poca fatica, e che mancava solo trovare un modo mediante il quale l'opere che in quella si facevano si potessono lungo tempo conservare, andò tanto ghiribizzando che trovò modo da diffenderle dall'ingiurie del tempo; per che, dopo avere molte cose esperimentato, trovò che il dar loro una coperta d'invetriato addosso, fatto con stagno, terra ghetta, antimonio et altri minerali e misture, cotte al fuoco d'una fornace a posta, faceva benissimo questo effetto e faceva l'opere di terra quasi eterne.
Del quale modo di fare, come quello che ne fu inventore, riportò lode grandissima e gliene averanno obligo tutti i secoli che verranno.
Essendogli dunque riuscito in ciò tutto quello che disiderava, volle che le prime opere fussero quelle che sono nell'arco che è sopra la porta di bronzo, che egli sotto l'organo di S.
Maria del Fiore aveva fatta per la sagrestia; nelle quali fece una Resurrezzione di Cristo tanto bella in quel tempo che, posta su, fu come cosa veramente rara ammirata.
Da che mossi i detti Operai, vollono che l'arco della porta dell'altra sagrestia, dove aveva fatto Donatello l'ornamento di quell'altro organo, fusse nella medesima maniera da Luca ripieno di simili figure et opere di terra cotta; onde Luca vi fece un Gesù Cristo che ascende in cielo, molto bello.
Ora, non bastando a Luca questa bella invenzione tanto vaga e tanto utile, e massimamente per i luoghi dove sono acque e dove per l'umido o altre cagioni non hanno luogo le pitture, andò pensando più oltre, e, dove faceva le dette opere di terra semplicemente bianche, vi aggiunse il modo di dare loro il colore, con maraviglia e piacere incredibile d'ognuno; onde il Magnifico Piero di Cosimo de' Medici, fra i primi che facessero lavorar a Luca cose di terra colorite, gli fece fare tutta la volta in mezzo tondo d'uno scrittoio, nel palazzo edificato, come si dirà, da Cosimo suo padre, con varie fantasie, et il pavimento similmente, che fu cosa singolare e molto utile per la state.
Et è certo una maraviglia, che essendo la cosa allora molto difficile e bisognando avere molti avvertimenti nel cuocere la terra, che Luca conducesse questi lavori a tanta perfezzione, che così la volta come il pavimento paiono, non di molti, ma d'un pezzo solo.
La fama delle quali opere spargendosi non pure per Italia, ma per tutta l'Europa, erano tanti coloro che ne volevano, che i mercatanti fiorentini, facendo continuamente lavorare a Luca con suo molto utile, ne mandavano per tutto il mondo.
E perché egli solo non poteva al tutto suplire, levò dallo scarpello Ottaviano et Agostino suoi fratelli e gli mise a fare di questi lavori, nei quali egli insieme con esso loro guadagnavano molto più, che insino allora con lo scarpello fatto non avevano; perciò che, oltre all'opere che di loro furono in Francia et in Ispagna mandate, lavorarono ancora molte cose in Toscana, e particularmente al detto Piero de' Medici, nella chiesa di S.
Miniato a Monte, la volta della capella di marmo che posa sopra quattro colonne nel mezzo della chiesa, facendovi un partimento d'ottangoli bellissimo.
Ma il più notabile lavoro che in questo genere uscisse delle mani loro, fu, nella medesima chiesa, la volta della capella di S.
Iacopo, dove è sotterrato il cardinale di Portogallo, nella quale, se bene è senza spigoli, fecero in quattro tondi ne' cantoni i quattro Evangelisti, e nel mezzo della volta in un tondo lo Spirito Santo, rimpiendo il resto de' vani a scaglie che girano secondo la volta e diminuiscono a poco a poco insino al centro, di maniera che non si può in quel genere veder meglio, né cosa murata e commessa con più diligenza di questa.
Nella chiesa poi di S.
Piero Buon Consiglio sotto Mercato Vecchio, fece in un archetto sopra la porta la Nostra Donna con alcuni Angeli intorno molto vivaci, e sopra una porta d'una chiesina vicina a S.
Pier Maggiore, in un mezzo tondo, un'altra Madonna et alcuni Angeli che sono tenuti bellissimi.
E nel capitolo similmente di S.
Croce, fatto dalla famiglia de' Pazzi e d'ordine di Pippo di ser Brunellesco, fece tutti gl'invetriati di figure che dentro e fuori vi si veggiono.
Et in Ispagna si dice che mandò Luca al Re alcune figure di tondo rilievo molto belle insieme con alcuni lavori di marmo.
Per Napoli ancora fece, in Fiorenza, la sepoltura di marmo all'Infante fratello del Duca di Calavria, con molti ornamenti d'invetriati, aiutato da Agostino suo fratello.
Dopo le quali cose, cercò Luca di trovare il modo di dipignere le figure e le storie in sul piano di terra cotta, per dar vita alle pitture, e ne fece sperimento in un tondo, che è sopra il tabernacolo de' quattro Santi intorno a Or San Michele, nel piano del quale fece in cinque luoghi gl'istrumenti et insegne dell'arti de' fabricanti, con ornamenti bellissimi.
E due altri tondi fece nel medesimo luogo di rilievo, in uno per l'Arte degli Speziali una Nostra Donna e nell'altro, per la Mercatanzia, un giglio sopra una balla, che ha intorno un festone di frutti e foglie di varie sorti, tanto ben fatte che paiono naturali e non di terra cotta dipinta.
Fece ancora, per Messer Benozzo Federighi, vescovo di Fiesole, nella chiesa di S.
Brancazio, una sepoltura di marmo, e sopra quella esso Federigo a giacere ritratto di naturale e tre altre mezze figure; e nell'ornamento de' pilastri di quell'opera dipinse nel piano certi festoni a mazzi di frutti e foglie sì vive e naturali che col pennello in tavola non si farebbe altrimenti a olio; et invero questa opera è maravigliosa e rarissima avendo in essa Luca fatto i lumi e l'ombre tanto bene, che non pare quasi che a fuoco ciò sia possibile.
E se questo artefice fusse vivuto più lungamente che non fece, si sarebbono anco vedute maggior cose uscire delle sue mani; perché, poco prima che morisse, aveva cominciato a fare storie e figure dipinte in piano, delle quali vidi già io alcuni pezzi in casa sua, che mi fanno credere che ciò gli sarebbe agevolmente riuscito, se la morte, che quasi sempre rapisce i migliori quando sono per fare qualche giovamento al mondo, non l'avesse levato, prima che bisogno non era, di vita.
Rimase, dopo Luca, Ottaviano et Agostino suoi fratelli e d'Agostino nacque un altro Luca, che fu ne' suoi tempi litteratissimo.
Agostino dunque, seguitando dopo Luca l'arte, fece in Perugia l'anno 1461 la facciata di S.
Bernardino e dentrovi tre storie di basso rilievo e quattro figure tonde molto ben condotte e con delicata maniera.
Et in questa opera pose il suo nome con queste parole: Augustini florentini lapicidae.
Della medesima famiglia, Andrea nipote di Luca lavorò di marmo benissimo, come si vede nella capella di S.
Maria delle Grazie fuor d'Arezzo, dove per la comunità fece in un grande ornamento di marmo molte figurette e tonde e di mezzo rilievo, in un ornamento, dico, a una Vergine di mano di Parri di Spinello Aretino.
Il medesimo fece di terra cotta, in quella città, la tavola della capella di Puccio di Magio in S.
Francesco, e quella della Circoncisione per la famiglia de' Bacci.
Similmente in S.
Maria in Grado è di sua mano una tavola bellissima con molte figure, e nella compagnia della Trinità, all'altar maggiore, è di sua mano, in una tavola, un Dio Padre che sostiene con le braccia Cristo crucifisso circondato da una moltitudine d'angeli, e da basso San Donato e S.
Bernardo ginocchioni.
Similmente nella chiesa et in altri luoghi del Sasso della Vernia fece molte tavole che si sono mantenute in quel luogo deserto, dove niuna pittura, né anche pochissimi anni si sarebbe conservata.
Lo stesso Andrea lavorò in Fiorenza tutte le figure che sono nella loggia dello spedale di S.
Paulo, di terra invetriata, che sono assai buone, e similmente i putti, che fasciati e nudi sono fra un arco e l'altro ne' tondi della loggia dello spedale degl'Innocenti, i quali tutti sono veramente mirabili e mostrano la gran virtù et arte d'Andrea; senza molte altre, anzi infinite, opere che fece nello spazio della sua vita, che gli durò anni ottantaquattro.
Morì Andrea l'anno 1528 et io, essendo ancor fanciullo, parlando con esso lui gli udii dire, anzi gloriarsi, d'essersi trovato a portar Donato alla sepoltura; e mi ricorda che quel buon vecchio di ciò ragionando n'aveva vanagloria.
Ma per tornare a Luca, egli fu con gl'altri suoi sepellito in San Pier Maggiore, nella sepoltura di casa loro; e dopo lui nella medesima fu riposto Andrea, il qual lasciò due figliuoli frati in San Marco stati vestiti dal reverendo fra' Girolamo Savonarola, del quale furono sempre que' della Robbia molto divoti, e lo ritrassero in quella maniera che ancora oggi si vede nelle medaglie.
Il medesimo, oltre i detti due frati, ebbe tre altri figliuoli: Giovanni, che attese all'arte e che ebbe tre figliuoli, Marco, Lucantonio e Simone che morirno di peste l'anno 1527 essendo in buona espettazione; e Luca e Girolamo, che attesono alla scultura; de' quali due, Luca fu molto diligente negl'invetriati e fece di sua mano, oltre a molte altre opere, i pavimenti delle logge papali, che fece fare in Roma, con ordine di Raffaello da Urbino, papa Leone Decimo, e quelli ancora di molte camere dove fece l'imprese di quel Pontefice; Girolamo, che era il minore di tutti, attese a lavorare di marmo e di terra e di bronzo, e già era per la concorrenza di Iacopo Sansovino, Baccio Bandinelli et altri maestri de' suoi tempi, fattosi valente uomo, quando da alcuni mercatanti fiorentini fu condotto in Francia, dove fece molte opere per lo re Francesco a Madrì, luogo non molto lontano da Parigi, e particolarmente un palazzo con molte figure et altri ornamenti, d'una pietra che è come fra noi il gesso di Volterra, ma di miglior natura perché è tenera quando si lavora e poi col tempo diventa dura.
Lavorò ancora di terra molte cose in Orliens e per tutto quel regno fece opere, acquistandosi fama e bonissime facultà.
Dopo queste cose, intendendo che in Fiorenza non era rimaso se non Luca suo fratello, trovandosi ricco e solo al servigio del re Francesco, condusse ancor lui in quelle parti, per lasciarlo in credito e buono aviamento; ma il fatto non andò così, perché Luca in poco tempo vi si morì, e Girolamo di nuovo si trovò solo e senza nessuno de' suoi; per che, risolutosi di tornare a godersi nella patria le ricchezze che si aveva con fatica e sudore guadagnate, et anco lasciare in quella qualche memoria, si acconciava a vivere in Fiorenza l'anno 1553, quando fu quasi forzato mutar pensiero; perché, vedendo il Duca Cosimo, dal quale sperava dovere essere con onor adoperato, occupato nella guerra di Siena, se ne tornò a morire in Francia.
E la sua casa non solo rimase chiusa e la famiglia spenta, ma restò l'arte priva del vero modo di lavorare gl'invetriati, perciò che, se bene dopo loro si è qualcuno esercitato in quella sorte di scultura, non è però niuno già mai a gran pezza arivato all'eccellenza di Luca vecchio, d'Andrea e degl'altri di quella famiglia.
Onde, se io mi sono disteso in questa materia forse più che non pareva che bisognasse, scusimi ognuno, poiché l'avere trovato Luca queste nuove sculture, le quali non ebbero, che si sappia, gl'antichi Romani, richiedeva che, come ho fatto, se ne ragionasse allungo.
E se, dopo la vita di Luca vecchio, ho succintamente detto alcune cose de' suoi descendenti che sono stati insino a' giorni nostri, ho così fatto per non avere altra volta a rientrare in questa materia.
Luca dunque, passando da un lavoro ad un altro, e dal marmo al bronzo e dal bronzo alla terra, ciò fece non per infingardagine, né per essere, come molti sono, fantastico, instabile e non contento dell'arte sua, ma perché si sentiva dalla natura tirato a cose nuove, e dal bisogno a uno essercizio secondo il gusto suo e di manco fatica e più guadagno.
Onde ne venne arricchito il mondo e l'arti del disegno d'un'arte nuova, utile e bellissima, et egli di gloria e lode immortale e perpetua.
Ebbe Luca bonissimo disegno e grazioso, come si può vedere in alcune carte del nostro libro, lumeggiate di biacca; in una delle quali è il suo ritratto fatto da lui stesso, con molta diligenza, guardandosi in una spera.
IL FINE DELLA VITA DI LUCA DELLA ROBBIA SCULTORE
VITA DI PAULO UCCELLO PITTOR FIORENTINO
Paulo Uccello sarebbe stato il più leggiadro e capriccioso ingegno che avesse avuto, da Giotto in qua, l'arte della pittura se egli si fusse affaticato tanto nelle figure et animali, quanto egli si affaticò e perse tempo nelle cose di prospettiva; le quali ancor che sieno ingegnose e belle, chi le segue troppo fuor di misura, getta il tempo dietro al tempo, affatica la natura, e l'ingegno empie di difficultà, e bene spesso di fertile e facile lo fa tornar sterile e difficile, e se ne cava (da chi più attende a lei che alle figure) la maniera secca e piena di proffili; il che genera il voler troppo minutamente tritar le cose; oltre che bene spesso si diventa solitario, strano, malinconico e povero, come Paulo Uccello, il quale, dotato dalla natura d'uno ingegno sofistico e sottile, non ebbe altro diletto che d'investigare alcune cose di prospettiva difficili et impossibili, le quali, ancor che capricciose fussero e belle, l'impedirono nondimeno tanto nelle figure, che poi, invecchiando, sempre le fece peggio.
E non è dubbio che chi con gli studii troppo terribili violenta la natura, se ben da un canto egli assottiglia l'ingegno, tutto quel che fa non par mai fatto con quella facilità e grazia, che naturalmente fanno coloro che temperatamente, con una considerata intelligenza piena di giudizio, mettono i colpi a' luoghi loro, fuggendo certe sottilità, che più presto recano a dosso all'opere un non so che di stento, di secco, di difficile e di cattiva maniera, che muove a compassione chi le guarda, più tosto che a maraviglia; atteso che l'ingegno vuol essere affaticato quando l'intelletto ha voglia di operare, e che 'l furore è acceso, perché allora si vede uscirne parti eccellenti e divini, e concetti maravigliosi.
Paulo dunque andò, senza intermettere mai tempo alcuno, dietro sempre alle cose dell'arte più difficili; tanto che ridusse a perfezzione il modo di tirare le prospettive dalle piante de' casamenti e da' profili degli edifizii condotti in sino alle cime delle cornici e de' tetti, per via dell'intersecare le linee, facendo che le scortassino e diminuissino al centro, per aver prima fermato o alto o basso, dove voleva, la veduta dell'occhio; e tanto insomma si adoperò in queste difficultà, che introdusse via modo e regola di mettere le figure in su' piani dove elle posano i piedi e di mano in mano dove elle scortassino e diminuendo a proporzione sfuggissino, il che prima si andava facendo a caso.
Trovò similmente il modo di girare le crociere e gli archi delle volte, lo scortare de' palchi con gli sfondati delle travi, le colonne tonde per far in un canto vivo del muro d'una casa, che nel canto si ripieghino e tirate in prospettiva rompino il canto e lo faccia per il piano.
Per le quali considerazioni si ridusse a starsi solo e quasi salvatico, senza molte pratiche, le settimane e i mesi in casa senza lasciarsi vedere.
Et avvenga che queste fussino cose difficili e belle, s'egli avesse speso quel tempo nello studio delle figure, ancor che le facesse con assai buon disegno, l'arebbe condotte del tutto perfettissime; ma consumando il tempo in questi ghiribizzi, si trovò mentre che visse più povero che famoso.
Onde Donatello scultore suo amicissimo li disse molte volte, mostrandogli Paulo mazzochi a punte e quadri tirati in prospettiva per diverse vedute, e palle a 72 facce a punte di diamanti e in ogni faccia brucioli avvolti su per e' bastoni, e altre bizzarrie in che spendeva e consumava il tempo: "Eh, Paulo, questa tua prospettiva ti fa lasciare il certo per l'incerto; queste son cose che non servono se non a questi che fanno le tarsie; perciò che empiono i fregi di brucioli, di chiocciole tonde e quadre e d'altre cose simili".
Le pitture prime di Paulo furono in fresco, in una nicchia bislunga tirata in prospettiva nello spedale di Lelmo, cioè un Santo Antonio abbate e S.
Cosimo e Damiano che lo mettono in mezzo.
In Annalena (monastero di donne) fece dua figure, et in S.
Trinita, sopra alla porta sinistra dentro alla chiesa, in fresco, storie di S.
Francesco, cioè il ricevere delle stìmate, il riparare alla chiesa reggendola con le spalle e lo abboccarsi con S.
Domenico.
Lavorò ancora in S.
Maria Maggiore, in una capella allato alla porta del fianco che va a S.
Giovanni dove è la tavola e predella di Masaccio, una Nunziata in fresco, nella qual fece un casamento degno di considerazione, e cosa nuova e difficile in que' tempi, per essere stata la prima, che si mostrasse con bella maniera agli artefici, e con grazia e proporzione mostrando il modo di fare sfuggire le linee, e fare che in un piano lo spazio che è poco e piccolo acquisti tanto che paia assai lontano e largo e coloro che con giudizio sanno a questo con grazia aggiugnere l'ombre a' suoi luoghi e i lumi con colori, fanno senza dubbio che l'occhio s'inganna, ché pare che la pittura sia viva e di rilievo.
E non gli bastando questo, volle anco mostrare maggiore difficultà in alcune colonne che scortano per via di prospettiva, le quali ripiegandosi rompono il canto vivo della volta dove sono i quattro Evangelisti, la qual cosa fu tenuta bella e difficile; e invero Paulo in quella professione fu ingegnoso e valente.
Lavorò anco in S.
Miniato fuor di Fiorenza, in un chiostro, di verde terra e in parte colorito, la vita de' Santi padri nelle quali non osservò molto l'unione di fare d'un solo colore come si deono le storie, perché fece i campi azzurri, le città di color rosso, e gli edifici variati secondo che gli parve, et in questo mancò, perché le cose che si fingono di pietra non possono e non deon essere tinte d'altro colore.
Dicesi che mentre Paulo lavorava questa opra, un abbate che era allora in quel luogo gli faceva mangiar quasi non altro che formaggio; per che, essendogli venuto annoia, deliberò Paulo, come timido ch'egli era, di non vi andare più a lavorare, onde, facendolo cercar l'abbate, quando sentiva domandarsi da' frati, non voleva mai esser in casa, e se per avventura alcune coppie di quell'ordine scontrava per Fiorenza, si dava a correre quanto più poteva, da essi fuggendo.
Per il che due di loro più curiosi e di lui più giovani, lo raggiunsero un giorno e gli domandarono per qual cagione egli non tornasse a finir l'opra cominciata e perché, veggendo frati, si fuggisse; rispose Paulo: "Voi mi avete rovinato in modo che non solo fuggo da voi, ma non posso anco praticare né passare dove siano legnaiuoli, e di tutto è stato causa la poca discrezione dell'abbate vostro; il quale, fra torte e minestre fatte sempre con cacio, mi ha messo in corpo tanto formaggio, che io ho paura, essendo già tutto cacio, di non esser messo in opra per mastrice; e se più oltre continuassi, non sarei più forse Paulo, ma cacio".
I frati, partiti da lui con risa grandissime, dissero ogni cosa all'abate, il quale, fattolo tornare al lavoro, gli ordinò altra vita che di formaggio.
Dopo dipinse nel Carmine, nella cappella di San Girolamo de' Pugliesi, il dossale di San Cosimo e Damiano.
In casa de' Medici dipinse in tela a tempera alcune storie di animali, de' quali sempre si dilettò, e per fargli bene vi mise grandissimo studio; e, che è più, tenne sempre per casa dipinti uccelli, gatti, cani e d'ogni sorte di animali strani che potette aver in disegno, non potendo tenere de' vivi per esser povero; e perché si dilettò più degli uccelli che d'altro, fu cognominato Paulo Uccelli.
Et in detta casa, fra l'altre storie d'animali, fece alcuni leoni che combattevano fra loro, con movenze e fierezze tanto terribili, che parevono vivi.
Ma cosa rara era, fra l'altre, una storia dove un serpente, combattendo con un leone, mostrava con movimento gagliardo la sua fierezza et il veleno che gli schizzava per bocca e per gli occhi, mentre una contadinella ch'è presente guarda un bue, fatto in iscorto bellissimo del quale n'è il disegno proprio di mano di Paulo nel nostro libro de' disegni, e similmente della villanella tutta piena di paura e in atto di correre, fuggendo dinanzi a quegli animali.
Sonovi similmente certi pastori molto naturali et un paese che fu tenuto cosa molto bella nel suo tempo.
E nell'altre tele fece alcune mostre d'uomini d'arme a cavallo, di que' tempi, con assai ritratti di naturale.
Gli fu fatto poi allogagione nel chiostro di Santa Maria Novella d'alcune storie, le prime delle quali sono quando s'entra di chiesa nel chiostro: la creazion degli animali, con vario et infinito numero d'acquatici, terrestri e volatili.
E perché era capricciosissimo e come si è detto si dilettava grandemente di far bene gl'animali, mostrò in certi lioni, che si voglion mordere, quanto sia di superbo in quelli, et in alcuni cervi e daini la velocità et il timore; oltre che sono gli uccelli et i pesci con le penne e squamme vivissimi.
Fecevi la creazion dell'uomo e della femina, et il peccar loro, con bella maniera, affaticata e ben condotta.
Et in questa opera si dilettò a far gl'alberi di colore, i quali allora non era costume di far molto bene, così ne' paesi egli fu il primo che si guadagnasse nome fra i vecchi di lavorare e quegli ben condurre a più perfezzione che non avevano fatto gl'altri pittori inanzi a lui, se ben di poi è venuto chi gli ha fatti più perfetti, perché, con tanta fatica, non poté mai dar loro quella morbidezza né quella unione che è stata data loro a' tempi nostri nel colorirli a olio.
Ma fu ben assai, che Paulo con l'ordine della prospettiva gli andò diminuendo e ritraendo come stanno quivi appunto, facendovi tutto quel che vedeva, cioè campi arati, fossati et altre minuzie della natura, in quella sua maniera secca e tagliente; là dove se egli avesse scelto il buono delle cose e messo in opera quelle parti appunto che tornano bene in pittura, sarebbono stati del tutto perfettissimi.
Finito ch'ebbe questo, lavorò nel medesimo chiostro sotto due storie di mano d'altri, e più basso fece il Diluvio con l'Arca di Noè, et in essa con tanta fatica e con tanta arte e diligenza lavorò i morti, la tempesta, il furore de' venti, i lampi delle saette, il troncar degl'alberi e la paura degli uomini, che più non si può dire.
Et in iscorto fece in prospettiva un morto al quale un corbo gli cava gli occhi, et un putto annegato, che per aver il corpo pien d'acqua, fa di quello un arco grandissimo.
Dimostrovvi ancora varii affetti umani, come il poco timore dell'acqua in due che a cavallo combattono, e l'estrema paura del morire in una femina et in un maschio che sono a cavallo in sun'una bufola, la quale per le parti di dreto empiendosi d'acqua, fa disperare in tutto coloro di poter salvarsi: opera tutta di tanta bontà et eccellenza, che gli acquistò grandissima fama.
Diminuì le figure ancora per via di linee in prospettiva, e fece mazzocchi et altre cose in tal opra certo bellissime.
Sotto questa storia dipinse ancora l'inebriazione di Noè, col dispregio di Cam suo figliuolo, nel quale ritrasse Dello pittore e scultore fiorentino suo amico, e Sem e Iafet altri suoi figlioli che lo ricuoprono, mostrando esso le sue vergogne.
Fece quivi parimente in prospettiva una botte che gira per ogni lato, cosa tenuta molto bella, e così una pergola piena d'uva, i cui legnami di piane squadrate vanno diminuendo al punto; ma ingannossi, perché il diminuire del piano di sotto, dove posano i piedi le figure, va con le linee della pergola, e la botte non va con le medesime linee che sfuggano; onde mi sono maravigliato assai, che un tanto accurato e diligente facesse un errore così notabile.
Fecevi anco il sagrifizio con l'Arca aperta, tirata in prospettiva con gl'ordini delle stanghe nell'altezza partita per ordine, dove gli uccelli stavano accomodati, i quali si veggono uscir fuora volando in iscorto di più ragioni, e nell'aria si vede Dio Padre che appare sopra al sagrifizio che fa Noè con i figliuoli; e questa di quante figure fece Paulo in questa opera è la più difficile, perché vola col capo in scorto verso il muro e ha tanta forza che pare che 'l rilievo di quella figura lo buchi e lo sfondi.
E oltre ciò, ha quivi Noè attorno molti diversi et infiniti animali bellissimi.
Insomma diede a tutta questa opera morbidezza e grazia tanta, che ell'è senza comparazione superiore e migliore di tutte l'altre sue; onde fu, non pure allora, ma oggi grandemente lodata.
Fece in Santa Maria del Fiore, per la memoria di Giovanni Acuto inglese, capitano de' Fiorentini, che era morto l'anno 1393, un cavallo di terra verde tenuto bellissimo e di grandezza straordinaria, e sopra quello l'immagine di esso capitano di chiaro scuro di color di verde terra, in un quadro alto braccia dieci nel mezzo d'una facciata della chiesa, dove tirò Paulo in prospettiva una gran cassa da morti, fingendo che 'l corpo vi fusse dentro; e sopra vi pose l'immagine di lui armato da capitano, a cavallo.
La quale opera fu tenuta et è ancora cosa bellissima per pittura di quella sorte; e se Paulo non avesse fatto che quel cavallo muove le gambe da una banda sola, il che naturalmente i cavagli non fanno perché cascherebbano (il che forse gli avenne perché non era avvezzo a cavalcare, né praticò con cavalli come con gl'altri animali) sarebbe questa opera perfettissima perché la proporzione di quel cavallo, che è grandissimo, è molto bella; e nel basamento vi sono queste lettere: "Pauli Uccelli opus".
Fece nel medesimo tempo e nella medesima chiesa, di colorito, la sfera dell'ore sopra alla porta principale dentro la chiesa, con quattro teste ne' canti colorite in fresco.
Lavorò anco, di colore di verde terra, la loggia che è volta a ponente, sopra l'orto del munistero degli Angeli, cioè sotto ciascuno arco una storia de' fatti di S.
Benedetto abbate, e delle più notabili cose della sua vita, insin alla morte; dove, fra molti tratti che vi sono bellissimi, ve n'ha uno dove un monasterio, per opera del demonio, rovina, e sotto i sassi e' legni rimane un frate morto; né è manco notabile la paura d'un altro monaco, che fuggendo ha i panni che, girando intorno all'ignudo, svolazzano con bellissima grazia.
Nel che destò in modo l'animo agl'artefici, che eglino hanno poi seguitato sempre questa maniera.
È bellissima ancora la figura di San Benedetto dove egli con gravità e divozione nel conspetto de' suoi monaci risuscita il frate morto.
Finalmente in tutte quelle storie sono tratti da essere considerati, e massimamente in certi luoghi dove sono tirati in prospettiva infino agl'embrici e' tegoli del tetto.
E nella morte di San Benedetto, mentre i suoi monaci gli fanno l'essequie e lo piangono, sono alcuni infermi e decrepiti a vederlo, molto belli.
È da considerare ancora, che fra molti amorevoli e divoti di quel Santo, vi è un monaco vecchio con dua grucce sotto le braccia, nel qual si vede un affetto mirabile e forse speranza di riaver la sanità.
In questa opera non sono paesi di colore, né molti casamenti o prospettive difficili, ma sì bene gran disegno e del buono assai.
In molte case di Firenze sono assai quadri in prospettiva, per vani di lettucci, letti et altre cose piccole, di mano del medesimo; et in Gualfonda particolarmente, nell'orto che era de' Bartolini, è in un terrazzo, di sua mano 4 storie in legname piene di guerre, cioè cavalli et uomini armati, con portature di que' tempi bellissime; e fra gl'uomini è ritratto Paulo Orsino, Ottobuono da Parma, Luca da Canale e Carlo Malatesti signor di Rimini, tutti capitani generali di que' tempi.
Et i detti quadri furono a' nostri tempi, perché erano guasti et avevon patito, fatti racconciare da Giuliano Bugiardini, che più tosto ha loro nociuto che giovato.
Fu condotto Paulo da Donato a Padova, quando vi lavorò, e vi dipinse nell'entrata della casa de' Vitali di verde terra alcuni giganti che, secondo ho trovato in una lettera latina che scrive Girolamo Campagnola a Messer Leonico Tomeo filosofo, sono tanto belli che Andrea Mantegna ne faceva grandissimo conto.
Lavorò Paulo in fresco la volta de' Peruzzi a triangoli in prospettiva, et in su' cantoni dipinse nelle quadrature i quattro Elementi e a ciascuno fece un animale a proposito: alla terra una talpa, all'acqua un pesce, al fuoco la salamandra et all'aria il camaleonte che ne vive e piglia ogni colore.
E perché non ne aveva mai veduti, fece un camello che apre la bocca et inghiottisce aria empiendosene il ventre; simplicità certo grandissima, alludendo per lo nome del camello a un animale che è simile a un ramarro, secco e piccolo, col fare una bestiaccia disadatta e grande.
Grandi furono veramente le fatiche di Paulo nella pittura, avendo disegnato tanto che lasciò a' suoi parenti, secondo che da loro medesimi ho ritratto, le casse piene di disegni.
Ma se bene il disegnar è assai, meglio è nondimeno mettere in opera, poiché hanno maggior vita l'opere che le carte disegnate.
E se bene nel nostro libro de' disegni sono assai cose di figure, di prospettive, d'uccelli e d'animali, belli a maraviglia, di tutti è migliore un mazzocchio tirato con linee sole, tanto bello che altro che la pacienza di Paulo non l'averebbe condotto.
Amò Paulo, se bene era persona stratta, la virtù degli artefici suoi, e perché ne rimanesse a' posteri memoria, ritrasse di sua mano in una tavola lunga cinque uomini segnalati, e la teneva in casa per memoria loro: l'uno era Giotto pittore, per il lume e principio dell'arte, Filippo di ser Brunelleschi il secondo, per l'architettura, Donatello per la scultura, e se stesso per la prospettiva et animali, e per la matematica Giovanni Manetti suo amico, col quale conferiva assai e ragionava delle cose di Euclide.
Dicesi che essendogli dato a fare sopra la porta di S.
Tommaso in Mercato Vecchio, lo stesso Santo che a Cristo cerca la piaga, che egli mise in quell'opera tutto lo studio che seppe, dicendo che voleva mostrar in quella quanto valeva e sapeva.
E così fece fare una serrata di tavole, acciò nessuno potesse vedere l'opera sua se non quando fusse finita.
Per che, scontrandolo un giorno Donato tutto solo, gli disse: "E che opera sia questa tua, che così serrata la tieni?"; al qual respondendo Paulo disse: "Tu vedrai e basta".
Non lo volle astrigner Donato a dir più oltre, pensando, come era solito, vedere quando fusse tempo qualche miracolo.
Trovandosi poi una mattina Donato per comperar frutte in Mercato Vecchio, vide Paulo che scopriva l'opera sua; per che, salutandolo cortesemente, fu dimandato da esso Paulo, che curiosamente desiderava udirne il giudizio suo, quello che gli paresse di quella pittura.
Donato, guardato che ebbe l'opera ben bene, disse: "Eh Paulo, ora che sarebbe tempo di coprire e tu scuopri".
Allora, contristandosi Paulo grandemente, si sentì avere di quella sua ultima fatica molto più biasimo che non aspettava di averne lode, e non avendo ardire, come avvilito, d'uscir più fuora, si rinchiuse in casa, attendendo alla prospettiva, che sempre lo tenne povero et intenebrato insino alla morte.
E così, divenuto vecchissimo e poca contentezza avendo nella sua vecchiaia, morì l'anno ottantatreesimo della sua vita, nel 1432, e fu sepolto in Santa Maria Novella.
Lasciò di sé una figliuola che sapeva disegnare, e la moglie, la qual soleva dire che tutta la notte Paulo stava nello scrittoio per trovar i termini della prospettiva, e che quando ella lo chiamava a dormire, egli le diceva: "Oh che dolce cosa è questa prospettiva!".
Et invero, s'ella fu dolce a lui, ella non fu anco se non cara et utile, per opera sua, a coloro che in quella si sono dopo di lui esercitati.
IL FINE DELLA VITA DI PAULO UCCELLO PITTORE
VITA DI LORENZO GHIBERTI SCULTORE
Non è dubio, che in tutte le città, coloro che con qualche virtù vengon in qualche fama fra li uomini, non siano il più delle volte un santissimo lume d'esempio a molti che dopo lor nascono et in quella medesima età vivono, oltra le lodi infinite e lo straordinario premio ch'essi vivendo ne riportano.
Né è cosa che più desti gli animi delle genti e faccia parere loro men faticosa la disciplina degli studi, che l'onore e l'utilità che si cava poi dal sudore delle virtù; perciò che elle rendono facile a ciascheduno ogni impresa difficile, e con maggiore impeto fanno accrescere la virtù loro, quando con le lode del mondo s'inalzano.
Per che infiniti, che ciò sentono e veggono, si mettono alle fatiche, per venire in grado di meritare quello che veggono aver meritato un suo compatriota.
E per questo anticamente o si premiavano con richezze i virtuosi, o si onoravano con trionfi et imagini.
Ma perché rade volte è che la virtù non sia perseguitata dall'invidia, bisogna ingegnarsi, quanto si può il più, ch'ella sia da una estrema eccellenza superata, o almeno fatta gagliarda e forte a sostenere gl'impeti di quella come ben seppe e per meriti e per sorte Lorenzo di Cione Ghiberti altrimenti di Bartoluccio, il quale meritò da Donato scultore e Filippo Bruneleschi architetto e scultore, eccellenti artefici, essere posto nel luogo loro conoscendo essi in verità, ancora che il senso gli strignesse forse a fare il contrario, che Lorenzo era migliore maestro di loro nel getto.
Fu veramente ciò gloria di quegli e confusione di molti, i quali, presumendo di sé, si mettono in opera et occupano il luogo dell'altrui virtù, e non facendo essi frutto alcuno, ma penando mille anni a fare una cosa, sturbano et opprimono la scienzia degli altri con malignità e con invidia.
Fu dunque Lorenzo figliuolo di Bartoluccio Ghiberti, e dai suoi primi anni imparò l'arte dell'orefice col padre, il quale era eccellente maestro e gl'insegnò quel mestiero, il quale da Lorenzo fu preso talmente, ch'egli lo faceva assai meglio che 'l padre.
Ma dilettandosi molto più de l'arte della scultura e del disegno, manegiava qualche volta i colori et alcun'altra gettava figurette piccole di bronzo e le finiva con molta grazia.
Dilettossi anco di contraffare i conii delle medaglie antiche, e di naturale nel suo tempo ritrasse molti suoi amici.
E mentre egli con Bartoluccio lavorando cercava acquistare in quella professione, venne in Fiorenza [la peste] l'anno 1400, secondo che racconta egli medesimo in un libro di sua mano dove ragiona delle cose dell'arte, il quale è appresso al reverendo Messer Cosimo Bartoli gentiluomo fiorentino.
Alla quale peste aggiuntesi alcune discordie civili et altri travagli della città, gli fu forza partirsi et andarse in compagnia d'un altro pittore in Romagna; dove, in Arimini, dipinsero al signor Pandolfo Malatesti una camera e molti altri lavori, che da lor furono con diligenza finiti e con sodisfazione di quel signore, che ancora giovanetto si dilettava assai delle cose del disegno.
Non restando perciò in quel mentre Lorenzo di studiare le cose del disegno, né di lavorare di rilievo cera, stucchi et altre cose simili, conoscendo egli molto bene che sì fatti rilievi piccoli sono il disegnare degli scultori e che senza cotale disegno non si può da loro condurre alcuna cosa a perfezzione.
Ora, non essendo stato molto fuor della patria, cessò la pestilenza; onde la Signoria di Fiorenza e l'Arte de' Mercatanti deliberarno (avendo in quel tempo la scultura gli artefici suoi in eccellenza, così forestieri come Fiorentini) che si dovesse, come si era già molte volte ragionato, [fare] l'altre due porte di S.
Giovanni, tempio antichissimo e principale di quella città.
Et ordinato fra di loro che si facesse intendere a tutti i maestri, che erano tenuti migliori in Italia, che comparissino in Fiorenza per fare esperimento di loro in una mostra d'una storia di bronzo, simile a una di quelle che già Andrea Pisano aveva fatto nella prima porta, fu scritto questa deliberazione da Bartoluccio a Lorenzo ch'in Pesero lavorava, confortandolo a tornare a Fiorenza a dar saggio di sé; ché questa era una occasione da farsi conoscere e da mostrare l'ingegno suo, oltra che e' ne trarrebbe sì fatto utile, che né l'uno né l'altro arebbono mai più bisogno di lavorare pere.
Mossero l'animo di Lorenzo le parole di Bartoluccio di maniera che, quantunque il signor Pandolfo et il pittore e tutta la sua corte gli facessino carezze grandissime, prese Lorenzo da quel signore licenza e dal pittore, i quali pur con fatica e dispiacere loro lo lascioron partire, non giovando né promesse né accrescere provisione, parendo a Lorenzo ogn'ora mille anni di tornare a Fiorenza.
Partitosi dunque, felicemente a la sua patria si ridusse.
Erano già comparsi molti forestieri e fattesi conoscere a' Consoli dell'Arte, da' quali furono eletti di tutto il numero sette maestri, tre Fiorentini e gli altri Toscani, e fu ordinato loro una provisione di danari, e che fra un anno ciascuno dovesse aver finito una storia di bronzo della medesima grandezza ch'erano quelle della prima porta, per saggio.
Et elessero che dentro si facesse la storia quando Abraam sacrifica Isac suo figliuolo, nella quale pensorono dovere avere i detti maestri che mostrare, quanto a le difficultà dell'arte, per essere storia che ci va dentro paesi, ignudi, vestiti et animali, e si potevono far le prime figure di rilievo e le seconde di mezzo e le terze di basso.
Furono i concorrenti di questa opera Filippo di ser Brunelesco, Donato e Lorenzo di Bartoluccio fiorentini, et Iacopo della Quercia sanese, e Niccolò d'Arezzo suo creato, Francesco di Vandabrina e Simone da Colle detto de' bronzi; i quali tutti dinanzi a' consoli promessono dare condotta la storia nel tempo detto e ciascuno alla sua dato principio, con ogni studio e diligenza mettevano ogni lor forza e sapere per passare d'eccellenza l'un l'altro, tenendo nascoso quel che facevano secretissimamente, per non raffrontare nelle cose medesime.
Solo Lorenzo, che aveva Bartoluccio che lo guidava e li faceva far fatiche e molti modelli, innanzi che si risolvessino di mettere in opera nessuno, di continuo menava i cittadini a vedere, e talora i forestieri che passavano, se intendevano del mestiero, per sentire l'animo loro; i quali pareri furon cagione ch'egli condusse un modello molto ben lavorato e senza nessun difetto.
E così, fatte le forme e gittatolo di bronzo, venne benissimo, onde egli con Bartoluccio suo padre lo rinettò con amore e pazienza tale, che non si poteva condurre né finire meglio.
E venuto il tempo che si aveva a vedere a paragone, fu la sua e le altre di que' maestri finite del tutto, e date a giudizio dell'Arte de' Mercatanti, per che, veduti tutti dai Consoli e da molti altri cittadini, furono diversi i pareri che si fecero sopra di ciò.
Erano concorsi in Fiorenza molti forestieri, parte pittori e parte scultori et alcuni orefici, i quali furono chiamati dai Consoli a dover dar giudizio di queste opere insieme con gli altri di quel mestiero che abitavano in Fiorenza.
Il qual numero fu di 34 persone, e ciascuno nella sua arte peritissimo.
E quantunque fussino in fra di loro differenti di parere, piacendo a chi la maniera di uno e chi quella di un altro, si accordavano nondimeno che Filippo di ser Brunelesco e Lorenzo di Bartoluccio avessino e meglio e più copiosa di figure migliori composta e finita la storia loro, che non aveva fatto Donato la sua, ancora che anco in quella fusse gran disegno.
In quella di Iacopo della Quercia erano le figure buone, ma non avevano finezza, se bene erano fatte con disegno e diligenza.
L'opera di Francesco di Valdambrina aveva buone teste et era ben rinetta, ma era nel componimento confusa.
Quella di Simon da Colle era un bel getto perché ciò fare era sua arte, ma non aveva molto disegno.
Il saggio di Niccolò d'Arezzo, che era fatto con buona pratica, aveva le figure tozze et era mal rinetto.
Solo quella storia che per saggio fece Lorenzo, la quale ancora si vede dentro all'udienza dell'Arte de' Mercatanti, era in tutte le parti perfettissima: aveva tutta l'opera disegno et era benissimo composta; le figure di quella maniera erano svelte e fatte con grazia et attitudini bellissime, et era finita con tanta diligenza, che pareva fatta non di getto e rinetto con ferri, ma col fiato.
Donato e Filippo, visto la diligenza che Lorenzo aveva usata nell'opera sua, si tiroron da un canto, e parlando fra loro, risolverono che l'opera dovesse darsi a Lorenzo, parendo loro che il publico et il privato sarebbe meglio servito, e Lorenzo, essendo giovanetto che non passava 20 anni, arebbe nello esercitarsi a fare in quella professione que' frutti maggiori che prometteva la bella storia, che egli a giudizio loro aveva più degli altri eccellentemente condotta, dicendo che sarebbe stato più tosto opera invidiosa a levargliela, che non era virtuosa a fargliela avere.
Cominciando dunque Lorenzo l'opera di quella porta, per quella che è dirimpetto all'opera di San Giovanni, fece per una parte di quella un telaio grande di legno quanto aveva a esser appunto, scorniciato e con gl'ornamenti delle teste in sulle quadrature, intorno allo spartimento de' vani delle storie e con que' fregi che andavano intorno.
Dopo fatta e secca la forma con ogni diligenza, in una stanza che aveva compero dirimpetto a S.
Maria Nuova, dove è oggi lo spedale de' Tessitori, che si chiamava l'Aia, fece una fornace grandissima, la quale mi ricordo aver veduto, e gettò di metallo il detto telaio.
Ma, come volle la sorte, non venne bene, per che, conosciuto il disordine, senza perdersi d'animo o sgomentarsi, fatta l'altra forma con prestezza senza che niuno lo sapesse, lo rigettò e venne benissimo.
Onde così andò seguitando tutta l'opera, gettando ciascuna storia da per sé e rimettendole, nette che erano, al luogo suo.
E lo spartimento dell'istorie fu simile a quello che aveva già fatto Andrea Pisano nella prima porta che gli disegnò Giotto, facendovi venti storie del Testamento Nuovo.
Et in otto vani simili a quelli, seguitando le dette storie, da piè fece i quattro Evangelisti, due per porta, e così i quattro Dottori della chiesa nel medesimo modo, i quali sono differenti fra loro di attitudini e di panni: chi scrive, chi legge, altri pensa, e variati, l'un da l'altro si mostrano nella lor prontezza molto ben condotti.
Oltre che nel telaio dell'ornamento riquadrato a quadri intorno alle storie, v'è una fregiatura di foglie d'ellera e d'altre ragioni, tramezzate poi da cornici et in su ogni cantonata una testa d'uomo o di femina tutta tonda figurate per profeti e sibille, che son molto belle e nella loro varietà mostrano la bontà dell'ingegno di Lorenzo.
Sopra i Dottori et Evangelisti già detti, ne' quattro quadri dappiè, sèguita, da la banda di verso S.
Maria del Fiore, il principio; e quivi nel primo quadro è l'Annunziazione di Nostra Donna, dove egli finse nell'attitudine di essa Vergine uno spavento et un sùbito timore, storcendosi con grazia per la venuta dell'Angelo.
Et allato a questa fece il nascer di Cristo, dove è la Nostra Donna che, avendo partorito, sta a ghiacere, riposandosi; èvvi Giuseppo che contempla i pastori e gl'Angeli che cantano.
Nell'altra allato a questa, che è l'altra parte della porta, a un medesimo pari, sèguita la storia della venuta de' Magi, et il loro adorar Cristo dandoli i tributi; dov'è la corte che gli sèguita con cavagli et altri arnesi, fatta con grande ingegno.
E così allato a questa è il suo disputare nel tempio fra i Dottori, nella quale è non meno espressa l'ammirazione e l'udienza che danno a Cristo i Dottori, che l'allegrezza di Maria e Giuseppo ritrovandolo.
Sèguita sopra a queste, ricominciando sopra l'Annunziazione, la storia del battesimo di Cristo nel Giordano da Giovanni, dove si conosce negli atti loro la riverenza dell'uno e la fede dell'altro.
Allato a questa, sèguita il diavolo che tenta Cristo, che, spaventato per le parole di Gesù, fa un'attitudine spaventosa, mostrando per quella il conoscere che egli è figliuolo di Dio.
Allato a questa, nell'altra banda, è quando egli caccia del Tempio i venditori, mettendo loro sottosopra gli argenti, le vittime, le colombe e le altre mercanzie; nella quale sono le figure, che cascando l'una sopra l'altra hanno una grazia nella fuga del cadere molto bella e considerata.
Seguitò Lorenzo allato a questa il naufragio degl'Apostoli, dove S.
Piero uscendo della nave che affonda nell'acqua, Cristo lo sollieva; è questa storia copiosa di varii gesti nelli Apostoli che aiutano la nave, e la fede di S.
Piero si conosce nel suo venire a Cristo.
Ricomincia sopra la storia del battesimo, da l'altra parte la sua Trasfigurazione nel monte Tabor, dove Lorenzo espresse nelle attitudini de' tre Apostoli lo abbagliare che fanno le cose celesti le viste dei mortali; sì come si conosce ancora Cristo nella sua divinità, col tenere la testa alta e le braccia aperte, in mezzo d'Elia e di Mosè.
Et allato a questa è la resurrezzione del morto Lazzaro, il quale uscito del sepolcro, legato i piedi e le mani, sta ritto con maraviglia de' circostanti; èvvi Marta e Maria Maddalena che bacia i piedi del Signore con umiltà e reverenza grandissima.
Sèguita allato a questa, ne l'altra parte della porta, quando egli va in su l'asino in Gerusalem e che i figliuoli degli Ebrei, con varie attitudini, gettano le veste per terra e gli ulivi e le palme, oltre agli Apostoli che seguitano il Salvatore.
Et allato a questa è la cena degli Apostoli, bellissima e bene spartita, essendo finti a una tavola lunga, mezzi dentro e mezzi fuori.
Sopra la storia della Trasfigurazione comincia la adorazione nell'orto, dove si conosce il sonno in tre varie attitudini degli Apostoli.
Et allato a questa sèguita quando egli è preso, e che Giuda lo bacia; dove sono molte cose da considerare, per esservi e gli Apostoli che fuggono, et i Giudei che nel pigliar Cristo fanno atti e forze gagliardissime.
Nell'altra parte allato a questa è quando egli è legato alla colonna; dove è la figura di Gesù Cristo che nel duolo delle battiture si storce alquanto con una attitudine compassionevole, oltra che si vede in que' Giudei che lo flagellano una rabbia e vendetta molto terribile per i gesti che fanno.
Sèguita allato a questa quando lo menano a Pilato, e che e' si lava le mani e lo sentenzia a la croce.
Sopa l'adorazione dell'orto, dall'altra banda, nell'ultima fila delle storie, è Cristo che porta la croce e va a la morte, menato da una furia di soldati, i quali con strane attitudini par che lo tirono per forza; oltra il dolore e pianto che fanno co' gesti quelle Marie, che non le vide meglio chi fu presente.
Allato a questo fece Cristo crocifisso, et in terra a sedere con atti dolenti e pien di sdegno la Nostra Donna e S.
Giovanni Vangelista.
Sèguita, allato a questa nell'altra parte la sua Resurrezzione; ove, addormentate le guardie dal tuono, stanno come morti, mentre Cristo va in alto con una attitudine che ben pare glorificato nella perfezzione delle belle membra, fatto dalla ingegnosissima industria di Lorenzo.
Nell'ultimo vano è la venuta dello Spirito Santo, dove sono attenzioni et attitudini dolcissime in coloro che lo ricevono.
E fu condotto questo lavoro a quella fine e perfezzione senza risparmio alcuno di fatiche e di tempo che possa darsi a opera di metallo, considerando che le membra degli ignudi hanno tutte le parti bellissime, et i panni, ancora che tenessino un poco dello andare vecchio di verso Giotto, vi è dentro nondimeno un tutto che va in verso la maniera de' moderni, e si reca in quella grandezza di figure una certa grazia molto leggiadra.
E nel vero, i componimenti di ciascuna storia sono tanto ordinati e bene spartiti che meritò conseguire quella lode e maggiore, che da principio gli aveva data Filippo.
E così fu onoratissimamente fra i suoi cittadini riconosciuto, e da loro e dagli artefici terrazzani e forestieri sommamente lodato.
Costò questa opera fra gli ornamenti di fuori, che son pur di metallo et intagliatovi festoni di frutti et animali, ventiduamila fiorini, e pesò la porta di metallo trentaquattro migliaia di libbre.
Finita questa opera, parve a' Consoli dell'Arte de' Mercatanti esser serviti molto bene, e per le lode dateli da ognuno deliberarono che facesse Lorenzo, in un pilastro fuor d'Or San Michele, in una di quelle nicchie, ch'è quella che volta fra i Cimatori, una statua di bronzo di quatro braccia e mezzo in memoria di S.
Giovanni Battista, la quale egli principiò né la staccò mai che egli la rese finita; che fu et è opera molto lodata, et in quella nel manto fece un fregio di lettere scrivendovi il suo nome.
In questa opera, la quale fu posta su l'anno 1414, si vide cominciata la buona maniera moderna, nella testa, in un braccio che par di carne, e nelle mani, et in tutte l'attitudini della figura.
Onde fu il primo che cominciasse a imitare le cose degli antichi Romani; delle quali fu molto studioso come esser dee chiunche disidera di bene operare.
E nel frontespizio di quel tabernacolo si provò a far di musaico, faccendovi dentro un mezzo profeta.
Era già cresciuta la fama di Lorenzo per tutta Italia e fuori, dell'artifiziosissimo magistero nel getto, di maniera che avendo Iacopo della Fonte et il Vecchietto sanese e Donato fatto per la Signoria di Siena, nel loro San Giovanni, alcune storie e figure di bronzo, che dovevano ornare il battesimo di quel tempio, et avendo visto i Sanesi l'opere di Lorenzo in Fiorenza, si convennono con seco e li feciono fare due storie della vita di S.
Giovanni Battista.
In una fece quando egli battezzò Cristo, accompagnandola con molte figure et ignude e vestite molto riccamente; e nell'altra quando San Giovanni è preso e menato a Erode; nelle quali storie superò e vinse gl'altri che avevano fatto l'altre, onde ne fu sommamente lodato da' Sanesi e dagl'altri che le veggono.
Avevano in Fiorenza a far una statua i maestri della Zecca in una di quelle nicchie che sono intorno a Or San Michele dirimpetto a l'Arte della Lana, et aveva a esser un San Matteo d'altezza del S.
Giovanni sopra detto.
Onde l'allogorono a Lorenzo che la condusse a perfezzione, e fu lodata molto più che il San Giovanni, avendola fatta più alla moderna.
La quale statua fu cagione che i Consoli dell'Arte della Lana deliberorono che e' facesse nel medesimo luogo, nell'altra nicchia allato a quella, una statua di metallo medesimamente, che fusse alta alla medesima proporzione dell'altre due, in persona di S.
Stefano loro avvocato.
Et egli la condusse a fine e diede una vernice al bronzo molto bella.
La quale statua non manco satisfece che avesse[ro] fatto l'altre opere già lavorate da lui.
Essendo generale de' frati predicatori in quel tempo Messer Lionardo Dati, per lassare di sé memoria in S.
Maria Novella, dove egli aveva fatto professione, et alla patria, fece fabbricare a Lorenzo una sepoltura di bronzo e sopra quella sé a ghiacere morto, ritratto di naturale; e da questa, che piacque e fu lodata, ne nacque una che fu fatta fare in S.
Croce da Lodovico degli Albizi e da Niccolò Valori.
Dopo queste cose, volendo Cosimo e Lorenzo de' Medici onorare i corpi e reliquie de' tre martiri Proto, Iacinto e Nemesio, fattigli venire di Casentino, dove erano stati in poca venerazione molti anni, fecero fare a Lorenzo una cassa di metallo, dove nel mezzo sono due Angeli di basso rilievo che tengono una ghirlanda d'ulivo, dentro la quale sono i nomi de' detti martiri; et in detta cassa fecero porre le dette reliquie e la collocarono nella chiesa del monasterio degl'Angeli di Firenze, con queste parole da basso dalla banda della chiesa de' monaci, intagliate in marmo: "Clarissimi viri Cosmas et Laurentius fratres, neglectas diu sanctorum reliquias martirum, religioso studio ac fidelissima pietate suis sumptibus aereis loculis condendas, colendasque curarunt".
E dalla banda di fuori, che riesce nella chiesetta verso la strada, sotto un'arme di palle, sono nel marmo intagliate queste altre parole: "Hic condita sunt corpora sanctorum Christi martirum Prothi et Hyacinthi et Nemesii, Anno Domini 1428".
E da questa, che riuscì molto onorevole, venne volontà agli Operai di S.
Maria del Fiore di far fare la cassa e sepoltura di metallo per mettervi il corpo di S.
Zanobi, vescovo di Firenze, la quale fu di grandezza di braccia tre e mezzo et alta due.
Nella quale fece oltra il garbo della cassa, con diversi e varii ornamenti, nel corpo di essa cassa dinanzi una storia quando esso San Zanobi risuscita il fanciullo lasciatoli in custodia dalla madre, morendo egli, mentre che ella era in peregrinaggio.
In un'altra v'è quando un altro è morto dal carro e quando e' risuscita l'uno de' due famigli mandatoli da Santo Ambruogio, che rimase morto uno in su le Alpi, l'altro v'è che se ne duole alla presenza di San Zanobi che, venutoli compassione, disse: "Va', che e' dorme, tu lo troverrai vivo".
E nella parte di dietro sono sei Angioletti che tengono una ghirlanda di foglie d'olmo, nella quale son lettere intagliate in memoria e lode di quel Santo.
Questa opera condusse egli e finì con ogni ingegnosa fatica et arte, sì che ella fu lodata straordinariamente come cosa bella.
Mentre che l'opere di Lorenzo ogni giorno accrescevon fama al nome suo, lavorando e servendo infinite persone così in lavori di metallo come d'argento e d'oro, capitò nelle mani a Giovanni figliuolo di Cosimo de' Medici una corniuola assai grande, dentrovi lavorato d'intaglio in cavo quando Apollo fa scorticare Marsia; la quale, secondo che si dice, serviva già a Nerone imperatore per suggello; et essendo per il pezzo della pietra, ch'era pur grande, e per la maraviglia dello intaglio in cavo, cosa rara, Giovanni la diede a Lorenzo, che gli facesse intorno d'oro un ornamento intagliato, et esso, penatovi molti mesi, lo finì del tutto, facendo un'opera non men bella d'intaglio attorno a quella, che si fussi la bontà e perfezione del cavo in quella pietra.
La quale opera fu cagione ch'egli d'oro e d'argento lavorasse molte altre cose, che oggi non si ritruovano.
Fece d'oro medesimamente a papa Martino un bottone ch'egli teneva nel piviale con figure tonde di rilievo e fra esse gioie di grandissimo prezzo, cosa molto eccellente; e così una mitera maravigliosissima di fogliami d'oro straforati, e fra essi molte figure piccole tutte tonde che furon tenute bellissime.
E ne acquistò, oltra al nome, utilità grande da la liberalità di quel Pontefice.
Venne in Fiorenza l'anno 1439 papa Eugenio, per unire la chiesa Greca colla Romana, dove si fece il Concilio.
E visto l'opere di Lorenzo, e piaciutogli non manco la presenza sua, che si facessino quelle, gli fece fare una mitera d'oro di peso di libre quindici e le perle di libre cinque e mezzo, le quali erano stimate con le gioie in essa ligate trentamila ducati d'oro.
Dicono che in detta opera erano sei perle come nocciuole avellane, e non si può imaginare, secondo che s'è visto poi in un disegno di quella, le più belle bizzarrie di legami nelle gioie e nella varietà di molti putti et altre figure, che servivano a molti varii e graziati ornamenti.
Della quale ricevette infinite grazie e per sé e per gli amici da quel Pontefice oltra il primo pagamento.
Aveva Fiorenza ricevute tante lode per l'opere eccellenti di questo ingegnosissimo artefice, che e' fu deliberato da' Consoli dell'Arte de' Mercatanti di farli allogazione della terza porta di San Giovanni di metallo medesimamente.
E quantunque quella che prima aveva fatta, l'avesse d'ordine loro seguitata e condotta con l'ornamento, che segue intorno alle figure e che fascia il telaio di tutte le porte, simile a quello d'Andrea Pisano, visto quanto Lorenzo l'aveva avanzato, risolverono i consoli a mutare la porta di mezzo, dove era quella d'Andrea, e metterla a l'altra porta, ch'è dirimpetto alla Misericordia, e che Lorenzo facesse quella di nuovo, per porsi nel mezzo giudicando ch'egli avesse a fare tutto quello sforzo che egli poteva maggiore in quell'arte.
E se gli rimessono nelle braccia, dicendo che gli davon licenza, che e' facesse in quel modo ch'e' voleva o che pensasse che ella tornasse più ornata, più ricca, più perfetta e più bella ch'e' potesse o sapesse imaginarsi; né guardasse a tempo, né a spesa, acciò che così come egli aveva superato gl'altri statuarii per insino allora, superasse e vincesse tutte l'altre opere sue.
Cominciò Lorenzo detta opera mettendovi tutto quel sapere maggiore ch'egli poteva; e così compartì detta porta in dieci quadri, cinque per parte, che rimaseno i vani delle storie un braccio et un terzo, et a torno per ornamento del telaio che ricigne le storie, sono nicchie in quella parte ritte, e piene di figure quasi tonde, il numero delle quali è venti e tutte bellissime; come uno Sansone ignudo, che abbracciato una colonna, con una mascella in mano, mostra quella perfezzione che maggior può mostrare cosa fatta nel tempo degli antichi ne' loro Ercoli, o di bronzi o di marmi; e come fa testimonio un Iosuè, il quale in atto di locuzione par che parli allo esercito, oltra molti profeti e Sibille adorni l'uno e l'altro in varie maniere di panni per il dosso, e di acconciature di capo, di capegli et altri ornamenti, oltra dodici figure, che sono a ghiacere nelle nicchie, che ricingono l'ornamento delle storie per il traverso, faccendo in sulle crociere delle cantonate in certi tondi, teste di femmine e di giovani e di vecchi in numero trentaquattro.
Fra le quali nel mezzo di detta porta vicino al nome suo intagliato in essa, è ritratto Bartoluccio suo padre, ch'è quel più vecchio, et il più giovane è esso Lorenzo suo figliuolo, maestro di tutta l'opera; oltra a infiniti fogliami e cornici et altri ornamenti fatti con grandissima maestria.
Le storie, che sono in detta porta, sono del Testamento Vecchio; e nella prima è la creazione di Adamo e di Eva sua donna, quali sono perfettissimamente condotti; vedendosi che Lorenzo ha fatto, che sieno di membra più begli che egli ha possuto; volendo mostrare che, come quelli di mano di Dio furono le più belle figure che mai fussero fatte, così questi di suo avessino a passare tutte l'altre ch'erano state fatte da lui ne l'altre opere sue: avertenza certo grandissima.
E così fece nella medesma quando e' mangiano il pomo et insieme quando e' son cacciati di Paradiso, le qual figure in quegli atti rispondono a l'effetto, prima del peccato conoscendo la loro vergogna, coprendola con le mani, e poi nella penitenza quando sono dall'Angelo fatti uscir fuori di Paradiso.
Nel secondo quadro è fatto Adamo et Eva che hanno Caim et Abel piccoli fanciulli creati da loro; e così vi sono quando de le primizie Abel fa sacrifizio, e Caim de le men buone, dove si scorge negli atti di Caim l'invidia contro il prossimo, et in Abel l'amore in verso Iddio.
E quello che è di singular bellezza è il veder Caim arare la terra con un par di buoi, i quali nella fatica del tirare al giogo l'aratro, paiono veri e naturali; così come è il medesimo Abel, che guardando il bestiame Caim li dà la morte; dove si vede quello con attitudine impietosissima e crudele, con un bastone ammazzare il fratello, in sì fatto modo che il bronzo medesimo mostra la languidezza delle membra morte nella bellissima persona d'Abel; e così di basso rilievo da lontano è Iddio, che domanda a Caim quel che ha fatto d'Abel; contenendosi in ogni quadro gli effetti di quattro storie.
Figurò Lorenzo nel terzo quadro come Noè esce dall'Arca la moglie co' suoi figliuoli e figliuole e nuore et insieme tutti gli animali, così volatili come terrestri; i quali, ciascuno nel suo genere, sono intagliati con quella maggior perfezzione che può l'arte imitar la natura; vedendosi l'Arca aperta, e le stagge in prospettiva di bassissimo rilievo, che non si può esprimere la grazia loro.
Oltre che le figure di Noè e degli altri suoi, non possono esser più vive, né più pronte mentre faccendo egli sagrifizio, si vede l'arcobaleno, segno di pace fra Iddio e Noè; ma molto più eccellenti di tutte l'altre sono dove egli pianta la vigna, et inebriato del vino mostra le vergogne, e Cam suo figliuolo lo schernisce, e nel vero uno che dorma non può imitarsi meglio, vedendosi lo abandonamento delle membra ebbre, e la considerazione et amore degli altri due figliuoli, che lo ricuoprono con bellissime attitudini.
Oltre che v'è e la botte et i pampani e gli altri ordigni della vendemmia, fatti con avvertenza et accomodati in certi luoghi, che non impediscono la storia, ma le fanno un ornamento bellissimo.
Piacque a Lorenzo fare nella quarta storia l'apparire de' tre Angeli nella valle Mambre, e faccendo quegli simili l'uno all'altro, si vede quel santissimo vecchio adorarli, con una attitudine di mani e di volto molto propria e vivace; oltre che egli con affetto molto bello intagliò i suoi servi, che a' piè del monte con uno asino aspettano Abraam, che era andato a sacrificare il figliuolo.
Il quale stando ignudo in su l'altare, il padre con il braccio in alto cerca far l'obbedienza; ma è impedito dall'Angelo, che con una mano lo ritiene e con l'altra accenna dove è il montone da far sacrifizio, e libera Isac da la morte.
Questa storia è veramente bellissima, perché fra l'altre cose si vede differenza grandissima fra le delicate membra d'Isac e quelle de' servi e più robusti, in tanto che non pare che vi sia colpo che non sia con arte grandissima tirato.
Mostrò anco avanzar se medesmo Lorenzo in quest'opera; nelle difficultà de' casamenti e quando nasce Isaac, Iacob et Esaù, o quando Esaù caccia, per far la volontà del padre; et Iacob, ammaestrato da Rebecca, porge il cavretto cotto, avendo la pelle intorno al collo, mentre è cercato da Isac, in qual gli dà la benedizzione.
Nella quale storia sono cani bellissimi e naturali, oltre le figure che fanno quello effetto istesso, che Iacob et Isac e Rebecca nelli lor fatti, quando eron vivi, facevano.
Inanimito Lorenzo per lo studio dell'arte, che di continuo la rendeva più facile, tentò l'ingegno suo in cose più artifiziose e difficili; onde fece in questo sesto quadro Iosef messo da' suoi fratelli nella cisterna, e quando lo vendono a que' mercanti; e da loro è donato a Faraone, al quale interpreta il sogno della fame; e la provisione per rimedio, e gli onori fatti a Iosef da Faraone.
Similmente vi è quando Iacob manda i suoi figliuoli per il grano in Egitto, e che riconosciuti da lui, gli fa ritornare per il padre.
Nella quale storia, Lorenzo fece un tempio tondo girato in prospettiva con una difficultà grande, nel quale è dentro figure in diversi modi che caricano grano e farine, et asini straordinarii.
Parimente vi è il convito ch'e' fa loro et il nascondere la coppa d'oro nel sacco a Beniamin, e l'essergli trovata, e come egli abbraccia e riconosce i fratelli; la quale istoria per tanti affetti e varietà di cose è tenuta fra tutte l'opere la più degna e la più difficile e la più bella.
E veramente Lorenzo non poteva, avendo sì bello ingegno e sì buona grazia in questa maniera di statue, fare che, quando gli venivano in mente i componimenti delle storie belle, e' non facessi bellissime le figure; come appare in questo settimo quadro, dove egli figura il monte Sinai, e nella sommità Moisè che da Idio riceve le leggi, riverente e ingenocchioni.
A mezzo il monte è Iosuè che l'aspetta e tutto il popolo a' piedi impaurito per i tuoni, saette e tremuoti, in attitudini diverse fatte con una prontezza grandissima.
Mostrò appresso diligenza e grande amore nello ottavo quadro, dove egli fece quando Iosuè andò a Ierico, e volse il Giordano, e pose i dodici padiglioni pieni delle dodici tribù; figure molto pronte; ma più belle sono alcune di basso rilievo, quando girando con l'arca intorno alle mura della città predetta con suono di trombe rovinano le mura e gli Ebrei pigliano Ierico; nella quale è diminuito il paese, et abbassato sempre con osservanza da le prime figure ai monti e dai monti a la città, e da la città al lontano del paese di bassissimo rilievo, condotta tutta con una gran perfezzione.
E perché Lorenzo di giorno in giorno si fece più pratico in quell'arte, si vide poi nel nono quadro la occisione di Golia gigante al quale Davit taglia la testa con fanciullesca e fiera attitudine; e rompe lo esercito dei Filistei quello di Dio; dove Lorenzo fece cavalli, carri et altre cose da guerra.
Dopo fece Davit che tornando con la testa di Golia in mano, il popolo lo incontra sonando e cantando; i quali affetti sono tutti proprii e vivaci.
Restò a far tutto quel che poteva Lorenzo nella decima et ultima storia, dove la regina Sabba visita Salamone, con grandissima corte; nella qual parte fece un casamento tirato in prospettiva, molto bello; e tutte l'altre figure simili alle predette storie, oltra gl'ornamenti degli architravi che vanno intorno a dette porte, dove son frutti e festoni, fatti con la solita bontà.
Nella quale opera, da per sé e tutta insieme, si conosce quanto il valore e lo sforzo d'uno artefice statuario possa nelle figure quasi tonde, in quelle mezze, nelle basse e nelle bassissime, oprare con invenzione ne' componimenti delle figure, e stravaganza dell'attitudini, nelle femmine e ne' maschi e nella varietà di casamenti, nelle prospettive e nell'avere nelle graziose arie di ciascun sesso, parimente osservato il decoro in tutta l'opera: ne' vecchi la gravità, e ne' giovani la leggiadria e la grazia.
Et invero si può dire che questa opera abbia la sua perfezione in tutte le cose, e che ella sia la più bella opera del mondo e che si sia vista mai fra gli antichi e moderni.
E ben debbe essere veramente lodato Lorenzo, da che un giorno Michelagnolo Buonarroti, fermatosi a veder questo lavoro, e dimandato quel che gliene paresse e se queste porte eron belle, rispose: "Elle son tanto belle, che elle starebbon bene alle porte del Paradiso": lode veramente propria e detta da chi poteva giudicarla.
E ben le poté Lorenzo condurre, avendovi, dall'età sua di venti anni che le cominciò, lavorato su quaranta anni con fatiche via più che estreme.
Fu aiutato Lorenzo in ripulire e nettare questa opera, poi che fu gettata, da molti, allora giovani, che poi furono maestri eccellenti, cioè da Filippo Brunelleschi, Masolino da Panicale, Niccolò Lamberti, orefici; Parri Spinelli, Antonio Filareto, Paulo Uccello, Antonio del Pollaiuolo, che allora era giovanetto, e dal molti altri; i quali, praticando insieme intorno a quel lavoro e conferendo, come si fa, stando in compagnia, giovarono non meno a sé stessi, che a Lorenzo.
Al quale, oltre al pagamento che ebbe da' Consoli, donò la Signoria un buon podere vicino alla Badia di Settimo.
Né passò molto che fu fatto de' Signori et onorato del supremo magistrato della città.
Nel che tanto meritano di essere lodati i Fiorentini di gratitudine, quanto biasimati di essere stati verso altri uomini eccellenti della loro patria poco grati.
Fece Lorenzo dopo questa stupendissima opera l'ornamento di bronzo alla porta del medesimo tempio che è dirimpetto alla Misericordia con quei maravigliosi fogliami i quali non potette finire, sopragiugnendoli inaspettatamente la morte quando dava ordine, e già aveva quasi fatto il modello, di rifare la detta porta che già aveva fatta Andrea Pisano, il quale modello è oggi andato male, e lo vidi già, essendo giovanetto, in borgo Allegri, prima che dai descendenti di Lorenzo fusse lasciato andar male.
Ebbe Lorenzo un figliuolo chiamato Bonacorso, il quale finì di sua mano il fregio e quell'ornamento rimaso imperfetto, con grandissima diligenza; quell'ornamento, dico, il quale è la più rara e maravigliosa cosa che si possa veder di bronzo.
Non fece poi Bonacorso, perché morì giovane, molt'opere come arebbe fatto, essendo a lui rimaso il segreto di gettar le cose in modo che venissono sottili, e con esso la sperienza et il modo di straforare il metallo in quel modo che si veggiono essere le cose lasciate da Lorenzo; il quale, oltre le cose di sua mano, lasciò agl'eredi molte anticaglie di marmo e di bronzo, come il letto di Policleto che era cosa rarissima, una gamba di bronzo grande quanto è il vivo, et alcune teste di femine e di maschi, con certi vasi stati da lui fatti condurre di Grecia con non piccola spesa.
Lasciò parimente alcuni torsi di figure et altre cose molte; le quali tutte furono insieme con le facultà di Lorenzo mandate male; e parte vendute a Messer Giovanni Gaddi, allora cherico di camera e fra esse fu il detto letto di Policleto e l'altre cose migliori.
Di Bonacorso rimase un figliuolo, chiamato Vettorio, il quale attese alla scultura, ma con poco profitto, come ne mostrano le teste che a Napoli fece nel palazzo del duca di Gravina, che non sono molto buone, perché non attese mai all'arte con amore, né con diligenza, ma sì bene a mandare in malora le facultà et altre cose che gli furono lasciate dal padre e da l'avolo.
Finalmente, andando sotto papa Paulo Terzo in Ascoli per architetto, un suo servitore, per rubarlo, una notte lo scannò, e così spense la sua famiglia, ma non già la fama di Lorenzo, che viverà in eterno.
Ma tornando al detto Lorenzo, egli attese mentre visse a più cose e dilettossi della pittura e di lavorare di vetro; et in Santa Maria del Fiore fece quegli occhi che sono intorno alla cupola; eccetto uno che è di mano di Donato, che è quello dove Cristo incorona la Nostra Donna.
Fece similmente Lorenzo li tre che sono sopra la porta principale di essa Santa Maria del Fiore, e tutti quelli delle capelle e delle tribune; e così l'occhio della facciata dinanzi di Santa Croce.
In Arezzo fece una finestra per la capella maggior della Pieve, dentrovi la incoronazione di Nostra Donna e due altre figure per Lazzero di Feo di Baccio, mercante ricchissimo; ma perché tutte furono di vetri viniziani carichi di colore fanno i luoghi dove furono poste anzi oscuri che no.
Fu Lorenzo dato per compagno al Brunellesco, quando gli fu allogata la Cupola di Santa Maria del Fiore, ma ne fu poi levato, come si dirà nella vita di Filippo.
Scrisse il medesimo Lorenzo un'opera volgare, nella quale trattò di molte varie cose, ma sì fattamente che poco costrutto se ne cava.
Solo vi è, per mio giudizio, di buono che, dopo avere ragionato di molti pittori antichi, e particolarmente di quelli citati da Plinio, fa menzione brevemente di Cimabue, di Giotto e di molti altri di que' tempi.
E ciò fece con molto più brevità che non doveva, non per altra cagione che per cadere con bel modo in ragionamento di se stesso, e raccontare, come fece, minutamente a una per una tutte l'opere sue.
Né tacerò che egli mostra il libro essere stato fatto da altri, e poi nel processo dello scrivere, come quegli che sapea meglio disegnare, scarpellare e gettare di bronzo che tessere storie parlando di se stesso, dice in prima persona: "Io feci, io dissi, io faceva e diceva".
Finalmente pervenuto all'anno sessantaquattresimo della sua vita, assalito da una grave e continua febbre si morì, lasciando di sé fama immortale nell'opere che egli fece e nelle penne degli scrittori; e fu onorevolmente sotterrato in Santa Croce.
Il suo ritratto è nella porta principale di bronzo del tempio di San Giovanni, nel fregio del mezzo quando è chiusa, in un uomo calvo et a lato a lui è Bartoluccio suo padre, et appresso a loro si leggono queste parole: "Laurentii Cionis de Ghibertis mira arte fabricatum".
Furono i disegni di Lorenzo eccellentissimi e fatti con gran rilievo, come si vede nel nostro libro de' disegni, in uno Evangelista di sua mano et in alcuni altri di chiaro scuro bellissimi.
Disegnò anco ragionevolmente Bartoluccio suo padre, come mostra un altro Vangelista di sua mano in sul detto libro, assai meno buono che quello di Lorenzo.
I quali disegni con alcuni di Giotto e d'altri ebbi, essendo giovanetto, da Vettorio Ghiberti l'anno 1528, e gl'ho sempre tenuti e tengo in venerazione e perché sono belli e per memoria di tanti uomini.
E se quando io aveva stretta amicizia e pratica con Vettorio io avessi quello conosciuto che ora conosco, mi sarebbe agevolmente venuto fatto d'avere avuto molte altre cose che furono di Lorenzo, veramente bellissime.
Fra molti versi, che latini e volgari sono stati fatti in diversi tempi, in lode di Lorenzo, per meno essere noiosi a chi legge, ci basterà porre qui di sotto gl'infrascritti:
Dum cernit valvas aurato ex aere nitentes
in templo Michael Angelus obstupuit.
Attonitusque diu, sic alta silentia rupit:
"O divinum opus; o ianua digna polo!".
FINE DELLA VITA DI LORENZO GHIBERTI SCULTORE
VITA DI MASOLINO PITTORE
Grandissimo veramente credo che sia il contento di coloro che si avicinano al sommo grado della scienza in che si affaticano; e coloro parimente che oltre al diletto e piacere che sentono virtuosamente operando, godono qualche frutto delle loro fatiche, vivono vita senza dubbio quieta e felicissima.
E se per caso avviene che uno nel corso felice della sua vita, caminando alla perfezzione d'una qualche scienza o arte, sia dalla morte sopravenuto, non rimane del tutto spenta la memoria di lui se si sarà, per conseguire il vero fine dell'arte sua, lodevolmente affaticato.
Laonde dee ciascuno quanto può fatigare per conseguire la perfezzione, perché se ben è nel mezzo del corso impedito, si loda in lui, se non l'opere che non ha potuto finire, almeno l'ottima intenzione et il sollecito studio, che in quel poco che rimane è conosciuto.
Masolino da Panicale di Valdelsa, il quale fu discepolo di Lorenzo di Bartoluccio Ghiberti e nella sua fanciullezza bonissimo orefice e nel lavoro delle porte il miglior rinettatore che Lorenzo avesse, fu nel fare i panni delle figure molto destro e valente, e nel rinettare ebbe molto buona maniera et intelligenza.
Onde nel cesellare fece con più destrezza alcune ammaccature morbidamente, così nelle membra umane come ne' panni.
Diedesi costui alla pittura d'età d'anni XIX, et in quella si esercitò poi sempre, imparando il colorire da Gherardo dello Starnina.
Et andatosene a Roma per studiare, mentre che vi dimorò, fece la sala di casa Orsina Vecchia in Monte Giordano; poi, per un male che l'aria gli faceva alla testa, tornatosi a Fiorenza, fece nel Carmine allato alla cappella del Crocifisso la figura del S.
Pietro che vi si vede ancora.
La quale essendo dagli artefici lodata, fu cagione che gli allogarono in detta chiesa la capella de' Brancacci con le storie di S.
Pietro, della quale con gran studio condusse a fine una parte, come nella volta dove sono i quattro Vangelisti e dove Cristo toglie dalle reti Andrea e Piero; e dopo il suo piangere il peccato fatto, quando lo negò, et appresso la sua predicazione per convertire i popoli.
Fecevi il tempestoso naufragio degli Apostoli, e quando San Piero libera dal male Petronilla sua figliuola.
E nella medesima storia fece quando egli e Giovanni vanno al tempio, dove innanzi al portico è quel povero infermo che gli chiede la limosina, al quale non potendo dare né oro, né argento, col segno della croce lo libera.
Son fatte le figure per tutta quell'opera con molta buona grazia, e dato loro grandezza nella maniera, morbidezza et unione nel colorire e rilievo e forza nel disegno.
La quale opera fu stimata molto per la novità sua e per l'osservanza di molte parti che erono totalmente fuori della maniera di Giotto.
Le quali storie, sopragiunto dalla morte, lasciò imperfette.
Fu persona Masolino di bonissimo ingegno, e molto unito e facile nelle sue pitture, le quali con diligenza e con grand'amore a fine si veggono condotte.
Questo studio e questa volontà d'affaticarsi ch'era in lui del continovo, gli generò una cattiva complessione di corpo, la quale innanzi al tempo gli terminò la vita e troppo acerbo lo tolse al mondo.
Morì Masolino giovane d'età d'anni 37, troncando l'aspettazione che i popoli avevano concetta di lui.
Furono le pitture sue circa l'anno 1440.
E Paulo Schiavo, che in Fiorenza in sul canto de' Gori fece la Nostra Donna con le figure che scortano i piedi in su la cornice, si ingegnò molto di seguir la maniera di Masolino, l'opere del quale avendo io molte volte considerato, truovo la maniera sua molto variata da quella di coloro che furono inanzi a lui, avendo egli aggiunto maestà alle figure e fatto il panneggiare morbido e con belle falde di pieghe.
Sono anco le teste delle sue figure molto migliori che l'altre fatte inanzi, avendo egli trovato un poco meglio il girare degl'occhi, e nei corpi molte altre belle parti, e perché egli cominciò a intender bene l'ombre et i lumi; per ché lavorava di rilievo, fece benissimo molti scorti difficili, come si vede in quel povero che chiede la limosina a San Piero, il quale ha la gamba che manda indietro tanto accordata con le linee de' dintorni nel disegno e l'ombre nel colorito, che pare che ella veramente buchi quel muro.
Cominciò similmente Masolino a fare ne' volti delle femine l'arie più dolci et ai giovani gl'abiti più leggiadri, che non avevano fatto gl'artefici vecchi; et anco tirò di prospettiva ragionevolmente.
Ma quello in che valse più che in tutte l'altre cose fu nel colorire in fresco, perché egli ciò fece tanto bene, che le pitture sue sono sfumate et unite con tanta grazia, che le carni hanno quella maggiore morbidezza che si può imaginare.
Onde se avesse avuto l'intera perfezzione del disegno, come arebbe forse avuto se fusse stato di più lunga vita, si sarebbe costui potuto annoverare fra i migliori, perché sono l'opere sue condotte con buona grazia, hanno grandezza nella maniera, morbidezza et unione nel colorito, et assai rilievo e forza nel disegno, se bene non è in tutte le parti perfetto.
FINE DELLA VITA DI MASOLINO
VITA DI PARRI SPINELLI ARETINO
Parri di Spinello Spinelli dipintore aretino, avendo imparato i primi principii dell'arte dallo stesso suo padre, per mezzo di Messer Lionardo Bruni aretino condotto in Firenze, fu ricevuto da Lorenzo Ghiberti nella scuola dove molti giovani sotto la sua disciplina imparavano; e perché allora si rinettavano le porte di S.
Giovanni, fu messo a lavorare intorno a quelle figure, in compagnia di molti altri, come si è detto di sopra.
Nel che fare, presa amicizia con Masolino da Panicale perché gli piaceva il suo modo di disegnare, l'andò in molte cose imitando, sì come fece ancora in parte la maniera di Don Lorenzo degl'Angeli.
Fece Parri le sue figure molto più svelte e lunghe, che niun pittore che fusse stato inanzi a lui; e dove gl'altri le fanno il più di dieci teste, egli le fece d'undici e talvolta di dodici; né perciò avevano disgrazia, come che fossero sottili e facessero sempre arco o in sul lato destro o in sul manco, perciò che, sì come pareva a lui, avevano, e lo diceva egli stesso, più bravura.
Il panneggiare de' panni fu sottilissimo e copioso ne' lembi, i quali alle sue figure cascavano di sopra le braccia insino attorno ai piedi.
Colorì benissimo a tempera, et in fresco perfettamente.
E fu egli il primo che nel lavorare in fresco lasciasse il fare di verdaccio sotto le carni, per poi con rossetti di color di carne e chiari scuri, a uso d'acquerelli velarle, sì come aveva fatto Giotto e gl'altri vecchi pittori.
Anzi usò Parri i colori sodi nel far le mestiche e le tinte, mettendogli con molta discrezione, dove gli parea che meglio stessono, cioè i chiari nel più alto luogo, i mezzani nelle bande, e nella fine de' contorni gli scuri.
Col qual modo di fare mostrò nell'opere più facilità e diede più lunga vita alle pitture in fresco; perché, messi i colori ai luoghi loro, con un pennello grossetto e molliccio li univa insieme e faceva l'opere con tanta pulitezza, che non si può disiderar meglio, et i coloriti suoi non hanno paragone.
Essendo dunque stato Parri fuor della patria molti anni, poi che fu morto il padre fu dai suoi richiamato in Arezzo, là dove, oltre molte cose le quali troppo sarebbe lungo raccontare, ne fece alcune degne di non essere in niuna guisa taciute.
Nel Duomo vecchio fece in fresco tre Nostre Donne variate; e dentro alla principal porta di quella chiesa, entrando a man manca, dipinse in fresco una storia del Beato Tommasuolo romito dal Sacco et uomo in quel tempo di santa vita.
E perché costui usava di portare in mano uno specchio, dentro al quale vedeva, secondo che egli affermava, la passione di Gesù Cristo, Parri lo ritrasse in quella storia inginocchioni e con quello specchio nella destra mano, la quale egli teneva levata al cielo.
E di sopra facendo in un trono di nuvole Gesù Cristo et intorno a lui tutti i misterii della Passione, fece con bellissima arte che tutti riverberavano in quello specchio sì fattamente, che non solo il beato Tommasolo, ma gli vedeva ciascuno che quella pittura mirava.
La quale invenzione certo fu capricciosa, difficile e tanto bella che ha insegnato a chi è venuto poi a contraffare molte cose per via di specchi.
Né tacerò, poiché sono in questo proposito venuto, quello che operò questo santo uomo una volta in Arezzo, et è questo: non restando egli di affaticarsi continuamente per ridurre gl'Aretini in concordia, ora predicando e talora predicendo molte disavventure, conobbe finalmente che perdeva il tempo.
Onde, entrato un giorno nel palazzo dove i sessanta si ragunavano, il detto beato che ogni dì gli vedeva far consiglio e non mai deliberar cosa che fusse se non in danno della città, quando vide la sala esser piena, s'empié un gran lembo della vesta di carboni accesi, e con essi entrato dove erano i sessanta e tutti gl'altri magistrati della città, gli gettò loro fra i piedi arditamente, dicendo: "Signori, il fuoco è fra voi, abbiate cura alla rovina vostra", e ciò detto si partì.
Tanto potette la simplicità e, come volle Dio, il buon ricordo di quel sant'uomo, che quello che non avevano mai potuto le predicazioni e le minacce, adoperò compiutamente la detta azzione, conciò fusse che, uniti indi a non molto insieme, governarono per molti anni poi quella città con molta pace e quiete d'ognuno.
Ma tornando a Parri, dopo la detta opera, dipinse nella chiesa e spedale di S.
Cristofano, a canto alla Compagnia della Nunziata, per Monna Mattea de' Testi, moglie di Carcascion Florinaldi che lasciò a quella chiesetta bonissima entrata, in una capella, a fresco, Cristo crucifisso, et intorno e da capo molti Angeli che, in una certa aria oscura volando, piangono amaramente.
A' pie' della croce sono, da una banda la Madalena e l'altre Marie, che tengono in braccio la Nostra Donna tramortita, e dall'altra S.
Iacopo e S.
Cristofano.
Nelle faccie dipinse S.
Caterina, S.
Niccolò, la Nunziata e Gesù Cristo alla colonna.
E sopra la porta di detta chiesa in un arco, una Pietà, S.
Giovanni e la Nostra Donna.
Ma quelle di dentro sono state (dalla capella in fuori) guaste.
E l'arco per mettere una porta di macigno moderno fu rovinato, e per fare ancora, con l'entrate di quella Compagnia, un monasterio per cento monache.
Del quale monasterio aveva fatto un modello Giorgio Vasari, molto considerato, ma è stato poi alterato, anzi ridotto in malissima forma da chi ha di tanta fabrica avuto indegnamente il governo; essendo che bene spesso si percuote in certi uomini, come si dice, saccenti, (che per lo più sono ignoranti), i quali, per parere d'intendere, si mettono arrogantemente molte volte a voler far l'architetto, e sopra 'ntendere; e guastando il più delle volte gl'ordini et i modelli fatti da coloro che, consumati negli studi e nella pratica del fare, architettano giudiziosamente; e ciò con danno de' posteri, che perciò vengono privi dell'utile, commodo, bellezza, ornamento e grandezza, che nelle fabriche, e massimamente che hanno a servire al publico, sono richiesti.
Lavorò ancora Parri nella chiesa di S.
Bernardo, monasterio de' monaci di Monte Uliveto, dentro alla porta principale, due capelle che la mettono in mezzo: in quella che è a man ritta intitolata alla Trinità, fece un Dio Padre che sostiene con le braccia Cristo crucifisso, e sopra è la colomba dello Spirito Santo in un coro d'Angeli; et in una faccia della medesima dipinse a fresco alcuni Santi perfettamente; nell'altra, dedicata alla Nostra Donna, è la Natività di Cristo, et alcune femine, che in una tinelletta di legno lo lavano con una grazia donnesca troppo bene espressa.
Vi sono anco alcuni pastori nel lontano, che guardano le pecorelle, con abiti rusticali di que' tempi, molto pronti, et attentissimi alle parole dell'Angelo, che dice loro che vadano in Nazarette.
Nell'altra faccia è l'adorazione de' Magi, con cariaggi, camelli, giraffe e con tutta la corte di que' tre re; i quali offerendo reverentemente i loro tesori, adorano Cristo in grembo alla Madre.
Fece oltre ciò, nella volta et in alcuni frontespizii di fuori, alcune storie a fresco bellissime.
Dicesi che predicando, mentre Parri faceva quest'opera, fra' Bernardino da Siena, frate di S.
Francesco et uomo di santa vita, in Arezzo, che avendo ridotto molti de' suoi frati al vero vivere religioso e convertite molte altre persone, che nel far loro la chiesa di Sargiano, fece fare il modello a Parri; e che dopo, avendo inteso che lontano dalla città un miglio si facevano molte cose brutte in un bosco vicino a una fontana, se n'andò là, seguitato da tutto il popolo d'Arezzo, una mattina con una gran croce di legno in mano, sì come costumava di portare; e che, fatta una solenne predica, fece disfar la fonte e tagliar il bosco, e dar principio poco dopo a una capelletta che vi si fabricò a onore di Nostra Donna, con titolo di S.
Maria delle Grazie; dentro la quale volle poi che Parri dipignesse di sua mano, come fece, la Vergine Gloriosa che aprendo le braccia cuopre col suo manto tutto il popolo d'Arezzo.
La quale Santissima Vergine ha poi fatto, e fa di continuo in quel luogo, molti miracoli.
In questo luogo ha fatto poi la comunità d'Arezzo fare una bellissima chiesa, et in mezzo di quella, accomodata la Nostra Donna fatta da Parri; alla quale sono stati fatti molti ornamenti di marmo e di figure, attorno e sopra l'altare, come si è detto nella vita di Luca della Robbia e di Andrea suo nipote, e come si dirà di mano in mano nelle vite di coloro, l'opere dei quali adornano quel santo luogo.
Parri, non molto dopo, per la divozione che aveva in quel Santo uomo, ritrasse il detto S.
Bernardino a fresco in un pilastro grande del Duomo vecchio.
Nel qual luogo dipinse ancor in una capella dedicata al medesimo, quel Santo glorificato in cielo, e circondato da una legione d'Angeli, con tre mezze figure: due dalle bande, che erano la Pacienza e la Povertà, et una sopra che era la Castità; le quali tre virtù ebbe in sua compagnia quel Santo insino alla morte.
Sotto i piedi aveva alcune mitrie da vescovi e cappelli da cardinali, per dimostrare che, facendosi beffe del mondo, aveva cotali dignità dispregiate.
E sotto a queste pitture era ritratta la città d'Arezzo nel modo che ella in que' tempi si trovava.
Fece similmente Parri fuor del Duomo, per la Compagnia della Nunziata, in una capelletta o vero maestà, in fresco la Nostra Donna, che annunziata dall'Angelo, per lo spavento tutta si torce.
E nel cielo della volta, che è a crociere, fece in ogni angolo due Angeli, che volando in aria e facendo musica con varii strumenti, pare che s'accordino, e che quasi si senta dolcissima armonia; e nelle facce sono quattro Santi, cioè due per lato.
Ma quello in che mostrò di avere, variando, espresso il suo concetto, si vede ne' due pilastri che reggono l'arco dinanzi, dove è l'entrata; perciò che in uno è una Carità bellissima, che affettuosamente allatta un figliuolo, a un altro fa festa et il terzo tien per la mano; nell'altro è una Fede con un nuovo modo dipinta, avendo in una mano il calice e la croce, e nell'altra una tazza d'acqua, la quale versa sopra il capo d'un putto, faccendolo cristiano.
Le quali tutte figure sono le migliori senza dubbio che mai facesse Parri in tutta la sua vita, e sono eziandio appresso i moderni maravigliose.
Dipinse il medesimo dentro la città, nella chiesa di S.
Agostino dentro al coro de' frati, molte figure in fresco, che si conoscono alla maniera de' panni et all'essere lunghe, svelte e torte, come si è detto di sopra.
Nella chiesa di San Giustino dipinse in fresco nel tramezzo un S.
Martino a cavallo, che si taglia un lembo della vesta per darlo a un povero, e due altri Santi.
Nel Vescovado ancora, cioè nella facciata d'un muro, dipinse una Nunziata, che oggi è mezzo guasta per essere stata molti anni scoperta.
Nella Pieve della medesima città dipinse la capella che è oggi vicina alla stanza dell'Opera, la quale dall'umidità è stata quasi del tutto rovinata.
È stata grande veramente la disgrazia di questo povero pittore nelle sue opere, poiché quasi la maggior parte di quelle, o dall'umido o dalle rovine sono state consumate.
In una colonna tonda di detta Pieve dipinse a fresco un S.
Vincenzio, et in S.
Francesco fece, per la famiglia de' Viviani, intorno a una Madonna di mezzo rilievo, alcuni Santi, e sopra nell'arco, gli Apostoli che ricevono lo Spirito Santo, nella volta alcuni altri Santi, e da un lato Cristo con la croce in spalla, che versa dal costato sangue nel calice, et intorno a esso Cristo alcuni Angeli molto ben fatti.
Dirimpetto a questa fece per la Compagnia degli Scarpellini, Muratori e Legnaiuoli nella loro capella de' quattro Santi incoronati, una Nostra Donna, i detti Santi con gli strumenti di quelle arti in mano, e di sotto, pure in fresco, due storie de' fatti loro e quando sono decapitati e gettati in mare.
Nella quale opera sono attitudini e forze bellissime in coloro che si levano que' corpi insaccati sopra le spalle per portargli al mare, vedendosi in loro prontezza e vivacità.
Dipinse ancora in S.
Domenico, vicino all'altar maggiore nella facciata destra, una Nostra Donna, S.
Antonio e S.
Niccolò a fresco, per la famiglia degl'Alberti da Catenaia, del qual luogo erano signori, prima che rovinato quello venissero ad abitare Arezzo e Firenze.
E che siano una medesima cosa lo dimostra l'arme degl'uni e degl'altri, che è la medesima.
Ben è vero che oggi quelli d'Arezzo, non degl'Alberti ma da Catenaia sono chiamati, e quelli di Firenze non da Catenaia ma degl'Alberti.
E mi ricorda aver veduto, et anco letto, che la Badia del Sasso, la quale era nell'Alpe di Catenaia, e che oggi è rovinata e ridotta più a basso verso Arno, fu dagli stessi Alberti edificata alla Congregazione di Camaldoli, et oggi la possiede il monasterio degl'Angeli di Firenze, e la riconosce dalla detta famiglia che in Firenze è nobilissima.
Dipinse Parri nell'udienza vecchia della Fraternità di S.
Maria della Misericordia una Nostra Donna che ha sotto il manto il popolo d'Arezzo, nel quale ritrasse di naturale quelli che allora governavano quel luogo pio, con abiti indosso secondo l'usanze di que' tempi.
E fra essi uno chiamato Braccio, che oggi quando si parla di lui è chiamato Lazzaro ricco, il quale morì l'anno 1422, e lasciò tutte le sue ricchezze e facultà a quel luogo che le dispensa in servigio de' poveri di Dio, essercitando le sante opere della misericordia con molta carità.
Da un lato mette in mezzo questa Madonna S.
Gregorio papa, e dall'altro S.
Donato vescovo e protettore del popolo aretino.
E perché furono in questa opera benissimo serviti da Parri coloro che allora reggevano quella Fraternità, gli feciono fare in una tavola a tempera una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, alcuni Angeli che gl'aprono il manto sotto il quale è il detto popolo, e da basso S.
Laurentino e Pergentino martiri.
La qual tavola si mette ogni anno fuori a dì due di giugno e vi si posa sopra poi che è stata portata dagli uomini di detta Compagnia solennemente a processione insino alla chiesa di detti Santi, una cassa d'argento lavorata da Forzore orefice, fratello di Parri, dentro la quale sono i corpi di detti Santi Laurentino e Pergentino; si mette fuori dico, e si fa il detto altare sotto una coperta di tende in sul canto della Croce dove è la detta chiesa, perché essendo ella piccola non potrebbe capire il popolo che a quella festa concorre.
La predella sopra la quale posa la detta tavola, contiene di figure piccole il martirio di que' due Santi, tanto ben fatto che è certo per cosa piccola una maraviglia.
È di mano di Parri nel Borgo a Piano sotto lo sporto d'una casa, un tabernacolo, dentro al quale è una Nunziata in fresco, che è molto lodata; e nella Compagnia de' Puraccioli a S.
Agostino, fé in fresco una S.
Caterina vergine e martire bellissima.
Similmente nella chiesa di Muriello alla Fraternità de' Cherici, dipinse una Santa Maria Maddalena di tre braccia.
Et in S.
Domenico, dove all'entrare della porta sono le corde delle campane, dipinse la capella di S.
Niccolò in fresco, dentrovi un Crucifisso grande con quattro figure, lavorato tanto bene che par fatto ora.
Nell'arco fece due storie di S.
Niccolò, cioè quando getta le palle d'oro alle pulzelle, e quando libera due dalla morte; dove si vede il carnefice apparecchiato a tagliare loro la testa, molto ben fatto.
Mentre che Parri faceva quest'opera, fu assaltato da certi suoi parenti armati con i quali piativa non so che dote; ma perché vi sopragiunsono subito alcuni, fu soccorso di maniera che non gli feciono alcun male.
Ma fu nondimeno, secondo che si dice, la paura che egli ebbe cagione che, oltre al fare le figure pendenti in sur un lato, le fece quasi sempre da indi in poi spaventaticce.
E perché si trovò molte fiate lacero dalle male lingue e dai morsi dell'invidie, fece in questa capella una storia di lingue che abruciavano, et alcuni diavoli che intorno a quelle facevano fuoco; in aria era un Cristo che le malediceva e da un lato queste parole: "A lingua dolosa".
Fu Parri molto studioso delle cose dell'arte e disegnò benissimo, come ne dimostrano molti disegni che ho veduti di sua mano; e particolarmente un fregio di venti storie della vita di S.
Donato, fatto per una sua sorella che ricamava eccellentemente.
E si stima lo facesse perché s'avesse a fare ornamento all'altar maggiore di Vescovado.
E nel nostro libro sono alcune carte da lui disegnate di penna molto bene.
Fu ritratto Parri da Marco da Monte Pulciano, discepolo di Spinello, nel chiostro di S.
Bernardo d'Arezzo.
Visse anni LVI; e si abreviò la vita, per essere di natura malinconico, solitario e troppo assiduo negli studi dell'arte et al lavorare.
Fu sotterrato in S.
Agostino nel medesimo sepolcro dove era stato posto Spinello suo padre, e recò dispiacere la sua morte a tutti i virtuosi, che di lui ebbono cognizione, etc.
FINE DELLA VITA DI PARRI SPINELLI PITTORE
VITA DI MASACCIO DA S.
GIOVANNI DI VALDARNO PITTORE
È costume della natura, quando ella fa una persona molto eccellente in alcuna professione, molte volte non la far sola, ma in quel tempo medesimo, e vicino a quella, farne un'altra a sua concorrenza, a cagione che elle possino giovare l'uno all'altra nella virtù e nella emulazione.
La qual cosa, oltra il singular giovamento di quegli stessi che in ciò concorrono, accende ancora oltra modo gli animi di chi viene dopo quella età a sforzarsi con ogni studio e con ogni industria, di pervenire a quello onore et a quella gloriosa reputazione, che ne' passati tutto 'l giorno altamente sente lodare.
E che questo sia il vero, lo aver Fiorenza prodotto in una medesima età Filippo, Donato, Lorenzo, Paulo Uccello e Masaccio, eccellentissimi ciascuno nel genere suo, non solamente levò via le rozze e goffe maniere, mantenutesi fino a quel tempo, ma per le belle opere di costoro incitò et accese tanto gli animi di chi venne poi, che l'operare in questi mestieri si è ridotto in quella grandezza et in quella perfezzione che si vede ne' tempi nostri.
Di che abbiamo noi, nel vero, obligo grande a que' primi, che mediante le loro fatiche ci mostrarono la vera via da caminare al grado supremo; e quanto alla maniera buona delle pitture, a Masaccio massimamente, per avere egli, come disideroso d'acquistar fama, considerato, - non essendo la pittura altro che un contraffar tutte le cose della natura vive col disegno e co' colori semplicemente, come ci sono prodotte da lei, - che colui che ciò più perfettamente consegue si può dire eccellente.
La qual cosa, dico, conosciuta da Masaccio, fu cagione che mediante un continuo studio imparò tanto, che si può anoverare fra i primi che per la maggior parte levassino le durezze, imperfezzioni e difficultà dell'arte, e che egli desse principio alle belle attitudini, movenze, fierezze e vivacità, et a un certo rilievo veramente proprio e naturale.
Il che infino a lui non aveva mai fatto niun pittore.
E perché fu di ottimo giudizio, considerò che tutte le figure, che non posavano né scortavano coi piedi in sul piano, ma stavano in punta di piedi, mancavano d'ogni bontà e maniera nelle cose essenziali; e coloro che le fanno mostrano di non intender lo scorto.
E se bene Paulo Uccello vi si era messo et aveva fatto qualche cosa agevolando in parte questa difficultà, Masaccio nondimeno, variando in molti modi, fece molto meglio gli scorti, e per ogni sorte di veduta, che niun altro che insino allora fusse stato.
E dipinse le cose sue con buona unione e morbidezza, accompagnando con le incarnazioni delle teste e dei nudi i colori de' panni, i quali si dilettò di fare con poche pieghe e facili, come fa il vivo e naturale.
Il che è stato di grande utile a gl'artefici, e ne merita essere comendato, come se ne fusse stato inventore; perché invero le cose fatte inanzi a lui si possono chiamar dipinte, e le sue vive, veraci e naturali, allato a quelle state fatte dagli altri.
L'origine di costui fu da Castello San Giovanni di Valdarno, e dicono che quivi si veggono ancora alcune figure fatte da lui nella sua prima fanciullezza.
Fu persona astrattissima e molto a caso, come quello che avendo fisso tutto l'animo e la volontà alle cose dell'arte sola, si curava poco di sé e manco di altrui.
E perché e' non volle pensar già mai in maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e non che altro, al vestire stesso, non costumando riscuotere i danari da' suoi debitori, se non quando era in bisogno estremo, per Tommaso, che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio.
Non già perché e' fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta straccurataggine, con la quale nientedimanco era egli tanto amorevole nel fare altrui servizio e piacere, che più oltre non può bramarsi.
Cominciò l'arte nel tempo che Masolino da Panicale lavorava nel Carmine di Fiorenza la cappella de' Brancacci, seguitando sempre quanto e' poteva le vestigie di Filippo e di Donato, ancora che l'arte fusse diversa.
E cercando continuamente nell'operare, di fare le figure vivissime e con bella prontezza a la similitudine del vero.
E tanto modernamente trasse fuori degli altri i suoi lineamenti et il suo dipignere, che l'opere sue sicuramente possono stare al paragone con ogni disegno e colorito moderno.
Fu studiosissimo nello operare, e nelle difficultà della prospettiva artifizioso e mirabile, come si vede in una sua istoria di figure piccole, che oggi è in casa Ridolfo del Ghirlandaio, nella quale, oltre il Cristo che libera lo indemoniato, sono casamenti bellissimi in prospettiva, tirati in una maniera che e' dimostrano in un tempo medesimo il didentro et il difuori, per avere egli presa la loro veduta, non in faccia, ma in su le cantonate per maggior difficultà.
Cercò più degli altri maestri di fare gli ignudi e gli scorti nelle figure, poco usati avanti di lui.
Fu facilissimo nel far suo, et è, come si è detto, molto semplice nel panneggiare.
È di sua mano una tavola fatta a tempera, nella quale è una Nostra Donna in grembo a Sant'Anna, col Figliuolo in collo; la quale tavola è oggi in S.
Ambruogio di Firenze nella capella che è allato alla porta, che va al parlatorio delle monache.
Nella chiesa ancora di San Niccolò di là d'Arno, è nel tramezzo una tavola di mano di Masaccio dipinta a tempera, nella quale, oltra la Nostra Donna che vi è dall'Angelo annunziata, vi è un casamento pieno di colonne, tirato in prospettiva, molto bello perché, al disegno delle linee che è perfetto, lo fece di maniera con i colori sfuggire, che a poco a poco abagliatamente si perde di vista: nel che mostrò assai d'intender la prospettiva.
Nella Badia di Firenze dipinse a fresco in un pilastro, dirimpetto a uno di quegli che reggono l'arco dell'altar maggiore, Santo Ivo di Brettagna, figurandolo dentro a una nicchia, perché i piedi scortassino alla veduta di sotto.
La qual cosa non essendo sì bene stata usata da altri, gl'acquistò non piccola lode, e sotto il detto Santo sopra un'altra cornice, gli fece intorno vedove, pupilli e poveri, che da quel Santo sono nelle loro bisogne aiutati.
In Santa Maria Novella ancora dipinse a fresco sotto il tramezzo della chiesa una Trinità che è posta sopra l'altar di S.
Ignazio, e la Nostra Donna e S.
Giovanni Evangelista, che la mettono in mezzo contemplando Cristo crucifisso.
Dalle bande sono ginocchioni due figure, che per quanto si può giudicare, sono ritratti di coloro che la feciono dipignere; ma si scorgono poco, essendo ricoperti da un ornamento messo d'oro.
Ma quello che vi è bellissimo oltre alle figure, è una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni, che diminuiscono e scortano così bene, che pare che sia bucato quel muro.
Dipinse ancora in Santa Maria Maggiore, a canto alla porta del fianco, la quale va a San Giovanni, nella tavola d'una capella, una Nostra Donna, Santa Caterina e San Giuliano.
E nella predella fece alcune figure piccole della vita di Santa Caterina e San Giuliano che ammazza il padre e la madre, e nel mezzo fece la Natività di Gesù Cristo con quella semplicità e vivezza che era sua propria nel lavorare.
Nella chiesa del Carmine di Pisa, in una tavola che è dentro a una capella del tramezzo, è una Nostra Donna col Figliuolo, et a' piedi sono alcuni Angioletti che suonano, uno de' quali sonando un liuto, porge con attenzione l'orecchio all'armonia di quel suono.
Mettono in mezzo la Nostra Donna, San Piero, San Giovanni Battista, San Giuliano e San Niccolò, figure tutte molto pronte e vivaci.
Sotto, nella predella, sono di figure piccole storie della vita di que' Santi, e nel mezzo i tre Magi, che offeriscono a Cristo; et in questa parte sono alcuni cavalli ritratti dal vivo, tanto belli che non si può meglio desiderare; e gli uomini della corte di que' tre re sono vestiti di varii abiti, che si usavano in que' tempi.
E sopra, per finimento di detta tavola, sono in più quadri molti Santi intorno a un Crucifisso.
Credesi che la figura d'un Santo in abito di vescovo, che è in quella chiesa in fresco a lato alla porta che va nel convento, sia di mano di Masaccio, ma io tengo per fermo ch'ella sia di mano di fra Filippo, suo discepolo.
Tornato da Pisa, lavorò in Fiorenza una tavola, dentrovi un maschio et una femmina ignudi, quanto il vivo; la quale si truova oggi in casa Palla Rucellai.
Appresso, non sentendosi in Fiorenza a suo modo, e stimolato dalla affezione et amore dell'arte, deliberò per imparare e superar gli altri andarsene a Roma, e così fece.
E quivi, acquistata fama grandissima, lavorò al cardinale di San Clemente nella chiesa di San Clemente una cappella, dove a fresco fece la Passione di Cristo co' ladroni in croce e le storie di Santa Caterina Martire.
Fece ancora a tempera molte tavole, che ne' travagli di Roma si son tutte o perse o smarrite: una nella chiesa di Santa Maria Maggiore, in una capelletta vicina alla sagrestia, nella quale sono quattro Santi tanto ben condotti, che paiono di rilievo, e nel mezzo Santa Maria della Neve; et il ritratto di papa Martino di naturale, il quale con una zappa disegna i fondamenti di quella chiesa, et appresso a lui è Sigismondo Secondo imperatore.
Considerando questa opera un giorno Michelagnolo et io, egli la lodò molto, e poi soggiunse coloro essere stati vivi ne' tempi di Masaccio; al quale mentre in Roma lavoravano le facciate della chiesa di Santo Ioanni per Papa Martino, Pisanello e Gentile da Fabriano, n'avevano allogato una parte; quando egli avuto nuove che Cosimo de' Medici, dal qual era molto aiutato e favorito, era stato richiamato dall'esilio, se ne tornò a Fiorenza.
Dove gli fu allogato, essendo morto Masolino da Panicale, che l'aveva cominciata, la capella de' Brancacci nel Carmine, alla quale, prima che mettesse mano, fece come per saggio il San Paulo che è presso alle corde delle campane, per mostrare il miglioramento che egli aveva fatto nell'arte.
E dimostrò veramente infinita bontà in questa pittura; conoscendosi nella testa di quel Santo, il quale è Bartolo di Angiolino Angiolini ritratto di naturale, una terribilità tanto grande, che e' pare che la sola parola manchi a questa figura.
E chi non conobbe San Paulo, guardando questo, vedrà quel dabbene della civiltà romana, insieme con la invitta fortezza di quell'animo divinissimo tutto intento alle cure della fede.
Mostrò ancora in questa pittura medesima l'intelligenza di scortare le vedute di sotto in su, che fu veramente maravigliosa, come apparisce ancor oggi ne' piedi stessi di detto Apostolo, per una difficultà facilitata in tutto da lui, rispetto a quella goffa maniera vecchia che faceva (come io dissi poco di sopra) tutte le figure in punta di piedi; la qual maniera durò fino a lui senza che altri la correggesse, et egli solo e prima di ogni altro la ridusse al buono del dì d'oggi.
Accadde mentre che e' lavorava in questa opera, che e' fu consagrata la detta chiesa del Carmine, e Masaccio in memoria di ciò, di verde dipinse, di chiaro e scuro, sopra la porta che va in convento, dentro nel chiostro, tutta la sagra come ella fu.
E vi ritrasse infinito numero di cittadini in mantello et in cappuccio, che vanno dietro a la processione; fra i quali fece Filippo di Ser Brunellesco in zoccoli, Donatello, Masolino da Panicale, stato suo maestro, Antonio Brancacci, che gli fece far la cappella, Niccolò da Uzzano, Giovanni di Bicci de' Medici, Bartolomeo Valori, i quali sono anco, di mano del medesimo, in casa di Simon Corsi gentiluomo fiorentino.
Ritrassevi similmente Lorenzo Ridolfi, che in que' tempi era ambasciadore per la Repubblica fiorentina a Vinezia.
E non solo vi ritrasse i gentiluomini sopra detti di naturale, ma anco la porta del convento et il portinaio con le chiavi in mano.
Questa opera veramente ha in sé molta perfezzione, avendo Masaccio saputo mettere tanto bene in sul piano di quella piazza a cinque e sei per fila, l'ordinanza di quelle genti che vanno diminuendo con proporzione e giudizio secondo la veduta dell'occhio, che è proprio una maraviglia; e massimamente che vi si conosce come se fussero vivi, la discrezione che egli ebbe in far quegl'uomini non tutti d'una misura, ma con una certa osservanza che distingue quelli che sono piccoli e grossi, dai grandi e sottili, e tutti posano i piedi in sur un piano, scortando in fila tanto bene, che non fanno altrimenti i naturali.
Dopo questo, ritornato al lavoro della capella de' Brancacci, seguitando le storie di San Piero cominciate da Masolino, ne finì una parte, cioè l'istoria della cattedra, il liberare gl'infermi, suscitare i morti et il sanare gli attratti con l'ombra nell'andare al tempio con San Giovanni.
Ma tra l'altre notabilissima apparisce quella dove San Piero per pagare il tributo, cava per commissione di Cristo i danari del ventre del pesce; perché, oltra il vedersi quivi un Apostolo che è nell'ultimo, nel quale è il ritratto stesso di Masaccio fatto da lui medesimo a lo specchio, tanto bene ch'e' par vivo vivo, vi si conosce l'ardir di San Piero nella dimanda e la attenzione degl'Apostoli nelle varie attitudini intorno a Cristo, aspettando la resoluzione con gesti sì pronti che veramente appariscon vivi.
Et il San Piero massimamente, il quale nell'affaticarsi a cavare i danari del ventre del pesce ha la testa focosa per lo stare chinato.
E molto più quando e' paga il tributo, dove si vede l'affetto del contare e la sete di colui che riscuote, che si guarda i danari in mano con grandissimo piacere.
Dipinsevi ancora la resurrezzione del figliuolo del re, fatta da San Piero e San Paulo, ancora che per la morte d'esso Masaccio restasse imperfetta l'opera, che fu poi finita da Filippino.
Nell'istoria dove San Piero battezza, si stima grandemente un ignudo che triema tra gl'altri battezzati assiderando di freddo, condotto con bellissimo rilievo e dolce maniera, il quale dagli artefici e vecchi e moderni è stato sempre tenuto in riverenza et ammirazione, per il che da infiniti disegnatori e maestri continuamente fino al dì d'oggi è stata frequentata questa cappella.
Nella quale sono ancora alcune teste vivissime e tanto belle che ben si può dire che nessuno maestro di quella età si accostasse tanto a' moderni quanto costui.
Laonde le sue fatiche meritano infinitissime lodi; e massimamente per avere egli dato ordine nel suo magisterio alla bella maniera de' tempi nostri.
E che questo sia il vero, tutti i più celebrati scultori e pittori che sono stati da lui in qua esercitandosi e studiando in questa cappella, sono divenuti eccellenti e chiari, cioè fra' Giovanni da Fiesole, fra' Filippo, Filippino che la finì, Alessio Baldovinetti, Andrea dal Castagno, Andrea del Verrocchio, Domenico del Grillandaio, Sandro di Botticello, Lionardo da Vinci, Pietro Perugino, fra' Bartolomeo di San Marco, Mariotto Albertinelli et il divinissimo Michelagnolo Buonarroti.
Raffaello ancora da Urbino di quivi trasse il principio della bella maniera sua, il Granaccio, Lorenzo di Credi, Ridolfo del Grillandaio, Andrea del Sarto, il Rosso, il Francia Bigio, Baccio Bandinelli, Alonso Spagnuolo, Iacopo da Puntormo, Pierino del Vaga e Toto del Nunziata; et insomma tutti coloro che hanno cercato imparar quella arte, sono andati a imparar sempre a questa cappella, et apprendere i precetti e le regole del far bene da le figure di Masaccio.
E se io non ho nominati molti forestieri e molti Fiorentini che sono iti a studiare a detta cappella, basti che dove corrono i capi dell'arte, quivi ancora concorrono le membra.
Ma con tutto che le cose di Masaccio siano state sempre in cotanta riputazione, egli è nondimeno opinione, anzi pur credenza ferma di molti, che egli arebbe fatto ancora molto maggior frutto nell'arte, se la morte, che di 26 anni ce lo rapì, non ce lo avesse tolto così per tempo.
Ma, o fusse l'invidia o fusse pure che le cose buone comunemente non durano molto, e' si morì nel bel del fiorire, et andossene sì di subito, che e' non mancò chi dubitasse in lui di veleno, assai più che d'altro accidente.
Dicesi che sentendo la morte sua, Filippo di Ser Brunellesco disse: "Noi abbiamo fatto in Masaccio una grandissima perdita", e gli dolse infinitamente, essendosi affaticato gran pezzo in mostrargli molti termini di prospettiva e d'architettura.
Fu sotterrato nella medesima chiesa del Carmine l'anno 1443.
E se bene allora non gli fu posto sopra il sepolcro memoria alcuna, per essere stato poco stimato vivo, non gli è però mancato doppo la morte chi lo abbia onorato di questi epitaffi:
D'ANNIBAL CARO
Pinsi, e la mia pittura al ver fu pari;
l'atteggiai, l'avvivai, le diedi il moto,
le diedi affetto; insegni il Buonarroto
a tutti gli altri, e da me solo impari.
DI FABIO SEGNI
Invida cur Lachesis primo sub flore iuventae
pollice discindis stamina funereo?
Hoc uno occiso innumeros occidis Apelles;
picturae omnis obit, hoc obeunte, lepos.
Hoc Sole extincto, extinguuntur sydera cuncta.
Heu decus omne perit, hoc pereunte, simul.
VITA DI FILIPPO BRUNELLESCHI SCULTORE ET ARCHITETTO
Molti sono creati dalla natura piccoli di persona e di fattezze, che hanno l'animo pieno di tanta grandezza et il cuore di sì smisurata terribilità, che se non cominciano cose difficili e quasi impossibili, e quelle non rendono finite con maraviglia di chi le vede, mai non dànno requie alla vita loro.
E tante cose, quante l'occasione mette nelle mani di questi, per vili e basse che elle si siano, le fanno essi divenire in pregio et altezza.
Laonde mai non si doverebbe torcere il muso, quando s'incontra in persone che in aspetto non hanno quella prima grazia o venustà, che dovrebbe dare la natura nel venire al mondo a chi opera in qualche virtù, perché non è dubbio che sotto le zolle della terra si ascondono le vene dell'oro.
E molte volte nasce in questi che sono di sparutissime forme, tanta generosità d'animo e tanta sincerità di cuore che, sendo mescolata la nobiltà con esse, non può sperarsi da loro se non grandissime maraviglie; perciò che e' si sforzano di abbellire la bruttezza del corpo con la virtù dell'ingegno, come apertamente si vide in Filippo di Ser Brunellesco, sparuto de la persona non meno che Messer Forese da Rabatta e Giotto; ma di ingegno tanto elevato che ben si può dire che e' ci fu donato dal cielo per dar nuova forma alla architettura, già per centinaia d'anni smarrita; nella quale gl'uomini di quel tempo in mala parte molti tesori avevano spesi, facendo fabriche senza ordine, con mal modo, con tristo disegno, con stranissime invenzioni, con disgraziatissima grazia e con peggior ornamento.
E volle il cielo, essendo stata la terra tanti anni senza uno animo egregio et uno spirito divino, che Filippo lasciassi al mondo di sé la maggiore, la più alta fabrica e la più bella di tutte l'altre fatte nel tempo de' moderni et ancora in quello degli antichi, mostrando che il valore negli artefici toscani, ancora che perduto fusse, non perciò era morto.
Adornollo altresì di ottime virtù, fra le quali ebbe quella dell'amicizia, sì che non fu mai alcuno più benigno né più amorevole di lui.
Nel giudicio era netto di passione; e dove e' vedeva il valore degli altrui meriti, deponeva l'util suo e l'interesso degli amici.
Conobbe se stesso, et il grado della sua virtù comunicò a molti, et il prossimo nelle necessità sempre sovvenne; dichiarossi nimico capitale de' vizii et amatore di coloro che si essercitavono nelle virtù.
Non spese mai il tempo invano, che o per sé o per l'opere d'altri, nelle altrui necessità non s'affaticasse e caminando gli amici visitasse e sempre sovvenisse.
Dicesi che in Fiorenza fu uno uomo di bonissima fama e di molti lodevoli costumi e fattivo nelle faccende sue, il cui nome era Ser Brunelesco di Lippo Lapi, il quale aveva auto l'avolo suo chiamato Cambio, che fu litterata persona, e il quale nacque di un fisico in que' tempi molto famoso, nominato Maestro Ventura Bacherini.
Togliendo dunque Ser Brunelesco per donna una giovane costumatissima, della nobil famiglia degli Spini, per parte della dote ebbe in pagamento una casa, dove egli e i suoi figliuoli abitarono fin alla morte, la quale è posta dirimpetto a San Michele Berteldi, per fianco, in un biscanto passato la piazza degli Agli.
Ora, mentre che egli si esercitava così e vivevasi lietamente, gli nacque l'anno 1377 un figliuolo al quale pose nome Filippo, per il padre suo già morto, della quale nascita fece quella allegrezza che maggior poteva.
Laonde con ogni accuratezza gl'insegnò nella sua puerizia i primi principii delle lettere, nelle quali si mostrava tanto ingegnoso e di spirito elevato, che teneva spesso sospeso il cervello, quasi che in quelle non curasse venir molto perfetto.
Anzi pareva che egli andasse col pensiero a cose di maggior utilità, per il che ser Brunelesco, che desiderava che egli facesse il mestier suo del notario o quel del tritavolo, ne prese dispiacere grandissimo.
Pure, veggendolo continuamente esser dietro a cose ingegnose d'arte e di mano, gli fece imparare l'abbaco e scrivere; e dipoi lo pose all'arte dell'orefice, acciò imparasse a disegnare con uno amico suo.
E fu questo con molta satisfazione di Filippo, il quale, cominciato a imparare e mettere in opera le cose di quella arte, non passò molti anni che egli legava le pietre fini meglio che artefice vecchio di quel mestiero.
Esercitò il niello et il lavorare grosserie, come alcune figure d'argento che son dua mezzi profeti posti nella testa dell'altare di S.
Iacopo di Pistoia tenute bellissime, fatte da lui all'Opera di quella città; et opere di bassi rilievi, dove mostrò intendersi tanto di quel mestiero, che era forza che 'l suo ingegno passasse i termini di quella arte.
Laonde, avendo preso pratica con certe persone studiose, cominciò a entrar colla fantasia nelle cose de' tempi e de' moti, de' pesi e delle ruote, come si posson far girare e da che si muovono; e così lavorò di sua mano alcuni oriuoli bonissimi e bellissimi.
Non contento a questo, nell'animo se li destò una voglia della scultura grandissima; e tutto venne poi che, essendo Donatello giovane tenuto valente in quella, et in espettazione grande, cominciò Filippo a praticare seco del continuo et insieme per le virtù l'un dell'altro si posono tanto amore, che l'uno non pareva che sapesse vivere senza l'altro.
Laonde Filippo, che era capacissimo di più cose, dava opera a molte professioni, né molto si esercitò in quelle che egli fu tenuto fra le persone intendenti bonissimo architetto, come mostrò in molte cose che servirono per acconcimi di case; come al canto de' Ciai verso Mercato Vecchio, la casa di Apollonio Lapi suo parente che in quella (mentre egli la faceva murare) si adoprò grandamente.
E il simile fece fuor di Fiorenza nella torre e nella casa della Petraia a Castello.
Nel palazzo dove abitava la Signoria ordinò e spartì dove era l'ufizio delli ufiziali di monte, tutte quelle stanze e vi fece e porte e finestre, nella maniera cavata da lo antico, allora non usatasi molto per essere l'architettura rozzissima in Toscana.
Avendosi poi in Fiorenza a fare per i frati di S.
Spirito una statua di S.
Maria Madalena in penitenzia di legname di tiglio per portar in una cappella, Filippo, che aveva fatto molte cosette piccole di scoltura, desideroso mostrare che ancora nelle cose grandi era per riuscire, prese a far detta figura; la qual finita e messa in opera fu tenuta cosa molto bella; ma nell'incendio poi di quel tempio, l'anno 1471, abruciò insieme con molte altre cose notabili.
Attese molto alla prospettiva, allora molto in male uso per molte falsità che vi si facevano; nella quale perse molto tempo, perfino che egli trovò da sé un modo che ella potesse venir giusta e perfetta, che fu il levarla con la pianta e proffilo e per via della intersegazione, cosa veramente ingegnosissima et utile all'arte del disegno.
Di questa prese tanta vaghezza, che di sua mano ritrasse la piazza di S.
Giovanni, con tutti quegli spartimenti della incrostatura murati di marmi neri e bianchi, che diminuivano con una grazia singulare, e similmente fece la casa della Misericordia, con le botteghe de' cialdonai e la volta de' Pecori e dall'altra banda la colonna di S.
Zanobi.
La qual opera essendoli lodata dalli artefici e da chi aveva giudizio in quell'arte, gli diede tanto animo che non sté molto che egli mise mano a una altra; e ritrasse il palazzo, la piazza e la loggia de' Signori, insieme col tetto de' Pisani e tutto quel che intorno si vede murato.
Le quali opere furon cagione di destare l'animo agli altri artefici, che vi atteseno dipoi con grande studio.
Egli particularmente la insegnò a Masaccio, pittore allor giovane, molto suo amico, il quale gli fece onore in quello che gli mostrò, come appare negli edifizii dell'opere sue; né restò ancora di mostrare a quelli che lavoravono le tarsie - che è un'arte di commettere legni di colori - e tanto gli stimolò, ch'e' fu cagione di buono uso e [di] molte cose utili che si fece di quel magisterio et allora e poi [di] molte cose eccellenti che hanno recato e fama et utile a Fiorenza per molti anni.
Tornando poi da studio Messer Paulo dal Pozzo Toscanelli et una sera trovandosi in uno orto a cena con certi suoi amici, invitò Filippo; il quale, uditolo ragionare de l'arti matematiche, prese tal familiarità con seco, che egli imparò la geometria da lui.
E se bene Filippo non aveva lettere, gli rendeva sì ragione di tutte le cose, con il naturale della pratica e sperienza, che molte volte lo confondeva.
E così seguitando, dava opera alle cose della Scrittura cristiana, non restando di intervenire alle dispute et alle prediche delle persone dotte, delle quali faceva tanto capitale per la mirabil memoria sua, che Messer Paulo predetto, celebrandolo usava dire che nel sentir arguir Filippo gli pareva un nuovo Santo Paulo.
Diede ancora molta opera in questo tempo alle cose di Dante, le quali furon da lui bene intese circa i siti e le misure, e spesso, nelle comparazioni allegandolo, se ne serviva ne' suo' ragionamenti.
Né mai col pensiero faceva altro che machinare et immaginarsi cose ingegnose e difficili.
Né poté trovar mai ingegno che più lo satisfacesse, che Donato, con il quale domesticamente confabulando, pigliavano piacere l'uno dell'altro, e le difficultà del mestiero conferivano insieme.
Ora, avendo Donato in que' giorni finito un Crucifisso di legno, il quale fu posto in S.
Croce di Fiorenza sotto la storia del fanciullo che risuscitò S.
Francesco dipinto da Taddeo Gaddi, volle Donato pigliarne parere con Filippo; ma se ne pentì perché Filippo gli rispose ch'egli aveva messo un contadino in croce, onde ne nacque il detto di: "Togli del legno, e fanne uno tu" come largamente si ragiona nella vita di Donato.
Per il che Filippo, il quale, ancor che fusse provocato a ira, mai si adirava per cosa che li fusse detta, stette cheto molti mesi, tanto che condusse di legno un Crocifisso della medesima grandezza, di tal bontà e sì con arte, disegno e diligenza lavorato, che nel mandar Donato a casa inanzi a lui, quasi ad inganno (perché non sapeva che Filippo avesse fatto tale opera), un grembiule che egli aveva pieno di uova e di cose per desinar insieme, gli cascò mentre lo guardava uscito di sé per la maraviglia e per l'ingegnosa et artifiziosa maniera che aveva usato Filippo nelle gambe, nel torso e nelle braccia di detta figura, disposta et unita talmente insieme, che Donato, oltra il chiamarsi vinto, lo predicava per miracolo.
La qual opera è oggi posta in Santa Maria Novella, fra la cappella degli Strozzi e de' Bardi da Vernia, lodata ancora dai moderni infinitamente.
Laonde, vistosi la virtù di questi maestri veramente eccellenti, fu lor fatto allogazione dall'Arte de' Beccai e dall'Arte de' Linaiuoli, di due figure di marmo, da farsi nelle loro nicchie che sono intorno a Or San Michele, le quali Filippo lasciò fare a Donato da solo, avendo preso altre cure, e Donato le condusse a perfezzione.
Dopo queste cose, l'anno 1401 fu deliberato, vedendo la scultura essere salita in tanta altezza, di rifare le due porte di bronzo del tempio e batistero di S.
Giovanni: perché da la morte d'Andrea Pisano in poi, non avevono avuti maestri che l'avessino sapute condurre.
Onde fatto intendere a quelli scultori che erano allora in Toscana l'animo loro, fu mandato per essi e dato loro provisione et un anno di tempo a fare una storia per ciascuno; fra i quali furono richiesti Filippo e Donato, di dovere ciascuno di essi da per sé fare una storia, a concorrenza di Lorenzo Ghiberti, Iacopo della Fonte, Simone da Colle, Francesco di Valdambrina e Niccolò d'Arezzo.
Le quali storie finite l'anno medesimo e venute a mostra in paragone, furon tutte bellissime et intra sé differenti; chi era ben disegnata e mal lavorata, come quella di Donato, e chi aveva bonissimo disegno e lavorata diligentemente, ma non spartito bene la storia col diminuire le figure, come aveva fatto Iacopo della Quercia; e chi fatto invenzione povera e figure, nel modo che aveva la sua condotto Francesco di Valdambrina; e le peggio di tutte erano quelle di Niccolò d'Arezzo e di Simone da Colle, e la migliore quella di Lorenzo di Cione Ghiberti.
La quale aveva in sé disegno, diligenza, invenzione, arte e le figure molto ben lavorate; né gli era però molto inferiore la storia di Filippo, nella quale aveva figurato un Abraam che sacrifica Isaac; et in quella un servo, che mentre aspetta Abraam, e che l'asino pasce, si cava una spina di un piede, che merita lode assai.
Venute dunque le storie a mostra, non si satisfacendo Filippo e Donato se non di quella di Lorenzo, lo giudicarono più al proposito di quell'opera che non erano essi e gl'altri che avevano fatto le altre storie.
E così a' Consoli con buone ragioni persuasero che a Lorenzo l'opera allogassero, mostrando che il publico et il privato ne sarebbe servito meglio; e fu veramente questo una bontà vera d'amici et una virtù senza invidia, et uno giudizio sano nel conoscere se stessi, onde più lode meritorono, che se l'opera avessino condotta a perfezzione: felici spiriti che mentre giovavano l'uno all'altro, godevano nel lodare le fatiche altrui; quanto infelici sono ora i nostri, che mentre ch'e' nuocono, non sfogati, crepano d'invidia nel mordere altrui.
Fu da' Consoli pregato Filippo che dovesse fare l'opera insieme con Lorenzo, ma egli non volle, avendo animo di volere essere più tosto primo in una sola arte, che pari o secondo in quell'opera.
Per il che la storia, che aveva lavorata di bronzo, donò a Cosimo de' Medici; la qual egli col tempo fece mettere in sagrestia vecchia di San Lorenzo, nel dossal dell'altare, e quivi si truova al presente, e quella di Donato fu messa nell'Arte del Cambio.
Fatta l'allogazione a Lorenzo Ghiberti, furono insieme Filippo e Donato, e risolverono insieme partirsi di Fiorenza et a Roma star qualche anno, per attender Filippo all'architettura e Donato alla scultura.
Il che fece Filippo, per voler esser superiore et a Lorenzo et a Donato, tanto quanto fanno l'architettura più necessaria all'utilità degl'uomini, che la scultura e la pittura.
E venduto un poderetto che egli aveva a Settignano, di Fiorenza partiti, a Roma si condussero: nella quale, vedendo la grandezza degli edifizii e la perfezzione de' corpi de' tempii, stava astratto che pareva fuori di sé.
E così dato ordine a misurare le cornici e levar le piante di quegli edifizii, egli e Donato continuamente seguitando, non perdonarono né a tempo né a spesa, Né lasciarono luogo che eglino et in Roma e fuori in campagna, non vedessino e non misurassino tutto quello che potevano avere che fusse buono.
E perché era Filippo sciolto da le cure familiari, datosi in preda agli studii, non si curava di suo mangiare o dormire, solo l'intento suo era l'architettura, che già era spenta, dico gli ordini antichi buoni, e non la todesca e barbara, la quale molto si usava nel suo tempo.
Et aveva in sé duoi concetti grandissimi: l'uno era il tornare a luce la buona architettura, credendo egli ritrovandola, non lasciare manco memoria di sé, che fatto si aveva Cimabue e Giotto; l'altro di trovar modo, se e' si potesse, a voltare la cupola di Santa Maria del Fiore di Fiorenza: le difficoltà della quale avevano fatto sì che, dopo la morte di Arnolfo Lapi, non ci era stato mai nessuno a cui fusse bastato l'animo, senza grandissima spesa d'armadure di legname, poterla volgere.
Non conferì però mai questa sua invenzione a Donato, né ad anima viva; né restò che in Roma tutte le difficultà che sono nella Ritonda egli non considerasse, sì come si poteva voltare.
Tutte le volte nell'antico aveva notato e disegnato, e sopra ciò del continuo studiava.
E se per avventura eglino avessino trovato sotterrati pezzi di capitelli, colonne, cornici e basamenti di edifizii, eglino mettevano opere e gli facevano cavare, per toccare il fondo.
Per il che si era sparsa una voce per Roma, quando eglino passavano per le strade, che andavano vestiti a caso, gli chiamavano quelli del tesoro, credendo i popoli ch'e' fussino persone che attendessino alla geomanzia per ritrovare tesori; e di ciò fu cagione l'avere eglino trovato un giorno una brocca antica di terra, piena di medaglie.
Vennero manco a Filippo i denari, e si andava riparando con il legare gioie a orefici suoi amici che erano di prezzo; e così si rimase solo in Roma, perché Donato a Fiorenza se ne tornò, et egli con maggiore studio e fatica che prima, dietro alle rovine di quelle fabriche di continuo si esercitava.
Né restò che non fusse disegnata da lui ogni sorte di fabbrica, tempii tondi e quadri, a otto facce, basiliche, aquidotti, bagni, archi, colisei, anfiteatri et ogni tempio di mattoni, da' quali cavò le cignature et incatenature, e così il girarli nelle volte; tolse tutte le collegazioni e di pietre e di impernature e di morse; et investigando a tutte le pietre grosse una buca nel mezzo per ciascuna in sotto squadra, trovò esser quel ferro, che è da noi chiamato la ulivella, con che si tira su le pietre; et egli lo rinovò e messelo in uso di poi.
Fu adunque da lui messo da parte, ordine per ordine, dorico, ionico e corinzio: e fu tale questo studio, che rimase il suo ingegno capacissimo di potere veder nella immaginazione Roma come ella stava quando non era rovinata.
Fece l'aria di quella città un poco di novità l'anno 1407 a Filippo; onde egli, consigliato da' suoi amici a mutar aria, se ne tornò a Fiorenza.
Nella quale, per l'assenza sua, si era patito in molte muraglie, per le quali diede egli a la sua venuta molti disegni e molti consigli.
Fu fatto il medesimo anno una ragunata d'architettori e d'ingegneri del paese, sopra il modo del voltar la cupola, dagli Operai di Santa Maria del Fiore e da' Consoli dell'Arte della Lana, intra' quali intervenne Filippo, e dette consiglio che era necessario cavare l'edifizio fuori del tetto e non fare secondo il disegno d'Arnolfo, ma fare un fregio di braccia XV d'altezza et in mezzo a ogni faccia fare un occhio grande, perché oltra che leverebbe il peso fuor delle spalle delle tribune, verrebbe la cupola a voltarsi più facilmente.
E così se ne fece modelli e si messe in esecuzione.
Filippo, dopo alquanti mesi riavuto, essendo una mattina in su la piazza di S.
Maria del Fiore con Donato et altri artefici, si ragionava delle antichità delle cose della scultura, e raccontando Donato che quando e' tornava da Roma aveva fatto la strada da Orvieto per veder quella facciata del Duomo di marmo, tanto celebrata, lavorata di mano di diversi maestri, tenuta cosa notabile in que' tempi; e che nel passar poi da Cortona entrò in Pieve, e vide un pilo antico bellissimo dove era una storia di marmo, cosa allora rara non essendosi disotterrata quella abbondanza che si è fatta ne' tempi nostri, e così seguendo Donato il modo che aveva usato quel maestro a condurre quell'opera, e la fine che vi era dentro, insieme con la perfezzione e bontà del magisterio, accese sì Filippo di una ardente volontà di vederlo, che così come egli era, in mantello, in cappuccio et in zoccoli, senza dir dove andasse, si partì da loro a piedi e si lasciò portare a Cortona dalla volontà et amore ch'e' portava all'arte.
E veduto e piaciutogli il pilo, lo ritrasse con la penna in disegno; e con quello tornò a Fiorenza, senza che Donato o altra persona si accorgesse che fusse partito, pensando che e' dovesse disegnare o fantasticare qualcosa.
Così tornato in Fiorenza li mostrò il disegno del pilo, da lui con pazienza ritratto; per il che Donato si maravigliò assai, vedendo quanto amore Filippo portava all'arte.
Stette poi molti mesi in Fiorenza, dove egli faceva segretamente modelli et ingegni, tutti per l'opera della cupola, stando tuttavia con gli artefici in su le baie; ché allora fece egli quella burla del Grasso e di Matteo, et andando bene spesso per suo diporto ad aiutare a Lorenzo Ghiberti a rinettar qualcosa in su le porte.
Ma toccoli una mattina la fantasia, sentendo che si ragionava del far provisione di ingegneri che voltassino la cupola, si ritornò a Roma, pensando con più riputazione avere a esser ricerco di fuora che non arebbe fatto stando in Fiorenza.
Laonde, trovandosi in Roma e venuto in considerazione l'opera e l'ingegno suo acutissimo, per aver mostro ne' ragionamenti suoi quella sicurtà e quello animo che non avevasi trovato negli altri maestri, i quali stavono smarriti insieme con i muratori, perdute le forze, e non pensando poter mai trovar modo da voltarla, né legni da fare una travata che fusse sì forte che regesse l'armadura et il peso di sì grande edifizio, deliberati vederne il fine, scrissono a Filippo a Roma, con pregarlo che venisse a Fiorenza.
Et egli, che non aveva altra voglia, molto cortesemente tornò.
E ragunatosi a sua venuta l'ufizio delli Operai di S.
Maria del Fiore et i Consoli dell'Arte della Lana, dissono a Filippo tutte le difficultà, da la maggiore a la minore, che facevano i maestri, i quali erano in sua presenza nella udienza insieme con loro, per il che Filippo disse queste parole: "Signori Operai, e' non è dubbio che le cose grandi hanno sempre nel condursi difficultà, e se niuna n'ebbe mai, questa vostra l'ha maggiore che voi per avventura non avisate.
Perciò che io non so che neanco gl'antichi voltassero mai una volta sì terribile come sarà questa, et io, che ho molte volte pensato all'armadure di dentro e di fuori, e come si sia, per potervi lavorare sicuramente, non mi sono mai saputo risolvere; mi sbigottisce non meno la larghezza, che l'altezza dell'edifizio; perciò che se ella si potesse girar tonda, si potrebbe tenere il modo che tennero i Romani nel voltare il Panteon di Roma, cioè la Ritonda, ma qui bisogna seguitare l'otto facce et entrare in catene et in morse di pietre, che sarà molto difficile.
Ma ricordandomi che questo è tempio sacrato a Dio et alla Vergine, mi confido che, faccendosi in memoria sua, non mancherà di infondere il sapere dove non sia et agiugnere le forze e la sapienza e l'ingegno, a chi sarà autore di tal cosa.
Ma che posso io in questo caso giovarvi, non essendo mia l'opera? Bene vi dico che se ella toccasse a me, risolutissimamente mi basterebbe l'animo di trovare il modo che ella si volterebbe, senza tante difficultà.
Ma io non ci ho pensato su ancor niente, e volte che io vi dica il modo? Ma quando pure le Signorie Vostre delibereranno che ella si volti, sarete forzati non solo a fare esperimento di me che non penso bastare a consigliare sì gran cosa, ma a spendere et ordinare che fra uno anno di tempo, a un dì determinato, venghino in Fiorenza architettori, non solo toscani et italiani, ma todeschi e franzesi e d'ogni nazione, e proporre loro questo lavoro, acciò che disputato e risoluto fra tanti maestri, si cominci e si dia a colui che più dirittamente darà nel segno, o averà miglior modo e giudizio per fare tale opera.
Né vi saperei dare io altro consiglio, né migliore ordine di questo".
Piacque ai Consoli et agli Operai l'ordine et il consiglio di Filippo, ma arebbono voluto che in questo mentre egli avesse fatto un modello, e che ci avesse pensato su.
Ma egli mostrava di non curarsene, anzi, preso licenzia da loro, disse esser sollecitato con lettere a tornare a Roma.
Avvedutosi dunque i Consoli che i prieghi loro e degli Operai non erano bastanti a fermarlo, lo feciono pregare da molti amici suoi, e non si piegando, una mattina che fu a dì 26 di maggio 1417, gli fecero gli Operai uno stanziamento di una mancia di danari, i quali si truovano a uscita a Filippo ne' libri dell'Opera, e tutto era per agevolarlo.
Ma egli, saldo nel suo proposito, partitosi pure di Fiorenza, se ne tornò a Roma, dove sopra tal lavoro di continuo studiò, ordinando e preparandosi per il fine di tale opera, pensando, come era certamente, che altro che egli non potesse condurre tale opera.
Et il consiglio dato, del condurre nuovi architettori, non l'aveva Filippo messo inanzi per altro, se non perché eglino fussino testimoni del grandissimo ingegno suo; più che perché e' pensasse che eglino avessino ad aver ordine di voltar quella tribuna e di pigliare tal carico che era troppo difficile.
E così si consumò molto tempo, inanzi che fussino venuti quegli architetti de' lor paesi, che eglino avevano di lontano fatti chiamare, con ordine dato a' mercanti fiorentini che dimoravano in Francia, nella Magna, in Inghilterra et in Ispagna; i quali avevano commissione di spendere ogni somma di danari, per mandare ed ottenere da que' principi, i più esperimentati e valenti ingegni che fussero in quelle regioni.
Venuto l'anno 1420, furono finalmente ragunati in Fiorenza tutti questi maestri oltramontani, e così quelli della Toscana e tutti gli ingegnosi artefici di disegno fiorentini, e così Filippo tornò da Roma.
Ragunaronsi dunque tutti nella Opera di Santa Maria del Fiore, presenti i Consoli e gli Operai, insieme con una scelta di cittadini i più ingegnosi, acciò che, udito sopra questo caso l'animo di ciascuno, si risolvesse il modo di voltare questa tribuna; chiamati dunque nella udienza, udirono a uno a uno l'animo di tutti, e l'ordine che ciascuno architetto sopra di ciò aveva pensato.
E fu cosa bella il sentir le strane e diverse openioni in tale materia; perciò che chi diceva di far pilastri murati da 'l piano della terra, per volgervi su gli archi, e tenere le travate per reggere il peso; altri che egli era bene voltarla di spugne, acciò fusse più leggieri il peso: e molti si accordavano a fare un pilastro in mezzo, e condurla a padiglione, come quella di S.
Giovanni di Fiorenza.
E non mancò chi dicesse che sarebbe stato bene empierla di terra e mescolare quattrini fra essa, acciò che volta, dessino licenzia che chi voleva di quel terreno potessi andare per esso; e così in un subito il popolo lo portasse via senza spesa.
Solo Filippo disse che si poteva voltarla senza tanti legni e senza pilastri o terra, con assai minore spesa di tanti archi e facilissimamente senza armadura.
Parve a' Consoli, che stavano ad aspettare quel bel modo, et agli Operai et a tutti que' cittadini, che Filippo avesse detto una cosa da sciocchi, e se ne feciono beffe ridendosi di lui; e si volsono, e li dissono ch'e' ragionasse d'altro che quello era un modo da pazzi, come era egli.
Perché, parendo a Filippo di essere offeso, disse: "Signori, considerate che non è possibile volgerla in altra maniera che in questa; e ancora che voi vi ridiate di me, conoscerete (se non volete esser ostinati) non doversi né potersi far in altro modo.
Et è necessario, volendola condurre nel modo ch'io ho pensato, che ella si giri col sesto di quarto acuto, e facciasi doppia, l'una volta di dentro e l'altra di fuori, in modo che fra l'una e l'altra si cammini.
Et in su le cantonate degli angoli delle otto facce con le morse di pietra, s'incateni la fabbrica per la grossezza similmente, con catene di legnami di quercia si giri per le facce di quella.
Et è necessario pensare a' lumi, alle scale et ai condotti, dove l'acque nel piovere possino uscire.
E nessuno di voi ha pensato che bisogna avvertire che si possa fare i ponti di dentro per fare i musaici et una infinità di cose difficili, ma io, che la veggo volta, conosco che non ci è altro modo né altra via da potere volgerla che questa ch'io ragiono".
E riscaldato nel dire, quanto e' cercava facilitare il concetto suo, acciò che eglino lo intendessino e credessino, tanto veniva proponendo più dubbii che gli faceva meno credere e tenerlo una bestia et una cicala.
Laonde, licenziatolo parecchie volte, et alla fine non volendo partire, fu portato di peso dai donzelli loro fuori dell'udienza, tenendolo del tutto pazzo.
Il quale scorno fu cagione che Filippo ebbe a dire poi che non ardiva passare per luogo alcuno della città, temendo non fusse detto: "Vedi colà quel pazzo".
Restati i Consoli nell'udienza confusi, e dai modi de' primi maestri, difficili, e da l'ultimo di Filippo, a loro sciocco, parendo loro come e' confondesse quell'opera con due cose: l'una era il farla doppia, che sarebbe stato pur grandissimo e sconcio peso; l'altra il farla senza armadura.
Da l'altra parte Filippo, che tanti anni aveva speso nelli studii per avere questa opera, non sapeva che si fare e fu tentato partirsi di Fiorenza più volte.
Pure volendo vincere gli bisognava armarsi di pazienza, avendo egli tanto di vedere, che conosceva i cervelli di quella città non stare molto fermi in un proposito.
Averebbe potuto mostrare Filippo un modello piccolo che aveva fatto; ma non volle mostrarlo, avendo conosciuto la poca intelligenza de' Consoli, l'invidia degli artefici e la poca stabilità de' cittadini che favorivano chi l'uno e chi l'altro, secondo che più piaceva a ciascuno; et io non me ne maraviglio, facendo in quella città professione ognuno di sapere in questo quanto i maestri esercitati fanno, come che pochi siano quelli che veramente intendono: e ciò sia detto con pace di coloro che sanno.
Quello, dunque, che Filippo non aveva potuto fare nel magistrato, cominciò a trattar in disparte, favellando or' a questo Consolo ora a quello Operaio, e similmente a molti cittadini, mostrando parte del suo disegno, gli ridusse che si deliberarono a fare allogazione di questa opera o a lui o a uno di que' forestieri.
Per la qual cosa, inanimiti i Consoli e gli Operai e que' cittadini, si ragunarono tutti insieme, e gli architetti disputarono di questa materia; ma furon, con ragioni assai, tutti abbattuti e vinti da Filippo; dove si dice che nacque la disputa dell'uovo in questa forma: eglino arebbono voluto che Filippo avesse detto l'animo suo minutamente e mostro il suo modello, come avevano mostro essi il loro; il che non volle fare, ma propose questo a' maestri e forestieri e terrazzani, che chi fermasse in sur un marmo piano un uovo ritto, quello facesse la cupola, che quivi si vedrebbe l'ingegno loro.
Tolto dunque un uovo, tutti qu' maestri si provarono per farlo star ritto, ma nessuno trovò il modo.
Onde, essendo detto a Filippo ch'e' lo fermasse, egli con grazia lo prese e datoli un colpo del culo in sul piano del marmo, lo fece star ritto.
Rumoreggiando gl'artefici che similmente arebbono saputo fare essi, rispose loro Filippo ridendo che gli arebbono ancora saputo voltare la cupola, vedendo il modello o il disegno.
E così fu risoluto ch'egli avesse carico di condurre questa opera, e dettoli che ne informasse meglio i Consoli e gli Operai.
Andatosene dunque a casa, in sur un foglio scrisse l'animo suo più apertamente che poteva per darlo al magistrato in questa forma: "Considerato le difficultà di questa fabbrica, magnifici Signori Operai, trovo che non si può per nessun modo volgerla tonda perfetta, atteso che sarebbe tanto grande il piano di sopra, dove va la lanterna, che mettendovi peso rovinerebbe presto.
Però mi pare che quegli architetti che non hanno l'occhio all'eternità della fabrica, non abbino amore alle memorie, né sappiano per quel che elle si fanno.
E però mi risolvo girar di dentro questa volta a spicchi come stanno le facce e darle la misura et il sesto del quarto acuto: perciò che questo è un sesto che girato sempre pigne allo in su, e caricatolo con la lanterna, l'uno con l'altro la farà durabile.
E vuole esser grossa, nella mossa da piè braccia tre e tre quarti, et andare piramidalmente strignendosi di fuora per fino dove ella si serra e dove ha a essere la lanterna.
E la volta vuole essere congiunta alla grossezza di braccia uno et un quarto; poi farassi dal lato di fuora un'altra volta, che da piè sia grossa braccia due e mezzo, per conservare quella di dentro da l'acqua.
La quale anco piramidalmente diminuisca a proporzione, in modo che si congiunga al principio della lanterna, come l'altra, tanto che sia in cima la sua grossezza duoi terzi.
Sia per ogni angolo uno sprone, che saranno otto in tutto; et in ogni faccia due, cioè nel mezzo di quella, che vengono a essere sedici; e dalla parte di dentro e di fuori nel mezzo di detti angoli, in ciascheduna faccia, siano due sproni, ciascuno grosso da piè braccia quattro.
E lunghe vadino insieme le dette due volte, piramidalmente murate, insino alla sommità dell'occhio chiuso dalla lanterna, per eguale proporzione.
Facciansi poi ventiquattro sproni con le dette volte murati intorno, e sei archi di macigni forti e lunghi, bene sprangati di ferri, i quali sieno stagnati, e sopra detti macigni, catene di ferro, che cinghino la detta volta con loro sproni.
Hassi a murare di sodo, senza vano, nel principio l'altezza di braccia cinque et un quarto, e di poi seguitar gli sproni, e si dividino le volte.
Il primo e secondo cerchio da piè, sia rinforzato per tutto, con macigni lunghi per il traverso, sì che l'una volta e l'altra della cupola si posi in sui detti macigni.
E nella altezza d'ogni braccia IX delle dette volte, siano volticciuole tra l'uno sprone e l'altro con catene di legno di quercia grosse, che leghino i detti sproni che reggono la volta di dentro: e siano coperte poi dette catene di quercia, con piastre di ferro per l'amor delle salite.
Gli sproni murati tutti di macigni e di pietra forte, e similmente le facce della cupola tutte di pietra forte, legate con gli sproni fino all'altezza di braccia ventiquattro, e da indi in su si muri di mattoni, o vero di spugna, secondo che si delibererà per chi l'averà a fare, più leggieri che egli potrà.
Facciasi di fuori un andito sopra gl'occhi, che sia di sotto ballatoio, con parapetti straforati d'altezza di braccia due, all'avenante di quelli delle tribunette di sotto; o veramente due anditi l'un sopra l'altro in sur una cornice bene ornata, e l'andito di sopra sia scoperto.
L'acque della cupola terminino in su una ratta di marmo larga un terzo, e getti l'acqua dove di pietra forte sarà murato sotto la ratta; facciansi otto coste di marmo agli angoli nella superficie della cupola di fuori, grossi come si richiede et alti un braccio sopra la cupola, scorniciato a tetto, largo braccia due che vi sia del colmo e della gronda da ogni parte; muovansi piramidali dalla mossa loro, per infino alla fine.
Murinsi le cupole nel modo di sopra, senza armadure, per fino a braccia trenta, e da indi in su in quel modo che sarà consigliato, per que' maestri che l'averano a murare; perché la pratica insegna quel che si ha a seguire".
Finito che ebbe Filippo di scrivere quanto di sopra, andò la mattina al magistrato, e dato loro questo foglio, fu considerato da loro il tutto; et ancora che eglino non ne fussino capaci, vedendo la prontezza dell'animo di Filippo e che nessuno degli altri architetti non andava con miglior gambe, per mostrare egli una sicurtà manifesta nel suo dire col replicare sempre il medesimo in sì fatto modo, che pareva certamente che egli ne avessi volte dieci, tiratisi da parte i Consoli, consultorono di dargliene; ma che arebbono voluto vedere un poco di sperienza, come si poteva volger questa volta senza armadura, perché tutte l'altre cose approvavono.
Al quale disiderio fu favorevole la fortuna, perché avendo già voluto Bartolomeo Barbadori far fare una cappella in S.
Filicita e parlatone con Filippo, egli v'aveva messo mano e fatto voltar senza armadura quella capella ch'è nello entrare in chiesa a man ritta, dove è la pila dell'acqua santa, pur di sua mano; e similmente in que' dì ne fece voltare un'altra in S.
Iacopo sopr'Arno per Stiatta Ridolfi, allato alla cappella dell'altar maggiore.
Le quali furon cagione che gli fu dato più credito che alle parole.
E così, assicurati i Consoli e gli Operai per lo scritto e per l'opera che avevano veduta, gli allogorono la cupola, facendolo capo maestro principale per partito di fave.
Ma non gliene obligarono se non braccia dodici d'altezza, dicendoli che volevano vedere come riusciva l'opera; e che riuscendo come egli diceva loro, non mancherebbono fargli allogagione del resto.
Parve cosa strana a Filippo il vedere tanta durezza e diffidenza ne' Consoli et Operai; e se non fusse stato che sapeva che egli era solo per condurla, non ci arebbe messo mano; pur, come disideroso di conseguire quella gloria, la prese e di condurla a fine perfettamente si obligò.
Fu fatto copiare il suo foglio in su un libro dove il proveditore teneva i debitori et i creditori de' legnami e de' marmi, con l'obligo su detto; facendoli la provisione medesima per partito di quelle paghe che avevano fino allora date agli altri capi maestri.
Saputasi la allogazione fatta a Filippo per gli artefici e per i cittadini, a chi pareva bene et a chi male, come sempre fu il parere del popolo e degli spensierati e degli invidiosi.
Mentre che si faceva le provisioni per cominciare a murare, si destò su una setta fra artigiani e cittadini, e fatto testa a' Consoli et agl'Operai, dissono che si era corsa la cosa e che un lavoro simile a questo non doveva esser fatto per consiglio di un solo, e che se eglino fussin privi d'uomini eccellenti, come eglino ne avevono abbondanza, saria da perdonare loro; ma che non passava con onore della città, perché venendo qualche disgrazia, come nelle fabriche suole alcuna volta avvenire, potevano essere biasimati, come persone che troppo gran carico avessino dato a un solo, senza considerare il danno e la vergogna che al publico ne potrebbe risultare: e che però, per affrenare il furore di Filippo era bene aggiugnergli un compagno.
Era Lorenzo Ghiberti venuto in molto credito, per aver già fatto esperienza del suo ingegno nelle porte di Santo Giovanni, e che e' fusse amato da certi che molto potevano nel governo, si dimostrò assai chiaramente perché, nel vedere tanto crescere la gloria di Filippo, sotto spezie di amore e di affezione verso quella fabbrica, operarono di maniera appresso de' Consoli e degli Operai che fu unito compagno di Filippo in questa opera.
In quanta disperazione et amaritudine si trovassi Filippo, sentendo quel che avevano fatto gli Operai, si conosce da questo, che fu per fuggirsi da Fiorenza; e se non fussi stato Donato e Luca della Robbia che lo confortavano, era per uscire fuor di sé.
Veramente empia e crudel rabbia è quella di coloro che, accecati dall'invidia, pongono a pericolo gli onori e le belle opere, per la gara della ambizione.
Da loro certo non restò che Filippo non ispezzasse i modelli, abruciasse i disegni et in men di mezza ora precipitasse tutta quella fatica che aveva condotta in tanti anni.
Gl'Operai, scusatisi prima con Filippo, lo confortarono a andare inanzi, che lo inventore et autore di tal fabrica era egli, e non altri; ma tuttavolta fecero a Lorenzo il medesimo salario che a Filippo.
Fu seguitato l'opera con poca voglia di lui, conoscendo avere a durare le fatiche che ci faceva, e poi avere a dividere l'onore e la fama a mezzo con Lorenzo.
Pure messosi in animo che troverrebbe modo che non durerebbe troppo in questa opera, andava seguitando insieme con Lorenzo nel medesimo modo che stava lo scritto dato agli operai.
Destossi in questo mentre nello animo di Filippo un pensiero di volere fare un modello, che ancora non se ne era fatto nessuno; e così messo mano, lo fece lavorare a un Bartolomeo legnaiuolo, che stava dallo Studio.
Et in quello, come il proprio, misurato appunto in quella grandezza, fece tutte le cose difficili, come scale alluminate e scure e tutte le sorti de' lumi, porte e catene e speroni; e vi fece un pezzo d'ordine del ballatoio.
Il che avendo inteso, Lorenzo cercò di vederlo, ma perché Filippo gliene negò, venutone in collora, diede ordine di fare un modello egli ancora, accio che e' paresse che il salario che tirava non fusse vano e che ci fusse per qual cosa.
De' quali modelli, quel di Filippo fu pagato lire cinquanta e soldi quindici; come si trova in uno stanziamento al libro di Migliore di Tommaso a dì tre d'ottobre nel 1419; et a uscita di Lorenzo Ghiberti lire trecento, per fatica e spesa fatta nel suo modello: causato ciò dalla amicizia e favore che egli aveva, più che da utilità o bisogno che ne avesse la fabbrica.
Durò questo tormento in su gli occhi di Filippo per fino al 1426, chiamando coloro Lorenzo parimente che Filippo, inventori; lo qual disturbo era tanto potente nello animo di Filippo, che egli viveva con grandissima passione.
Fatto adunque varie e nuove immaginazioni, deliberò al tutto de levarselo da torno, conoscendo quanto e' valesse poco in quell'opera.
Aveva Filippo fatto voltare già intorno la cupola fra l'una volta e l'altra dodici braccia e quivi avevano a mettersi su le catene di pietra e di legno: il che per essere cosa difficile, ne volle parlare con Lorenzo per tentare se egli avesse considerato questa difficultà.
E trovollo tanto digiuno circa lo avere pensato a tal cosa, che e' rispose che la rimetteva in lui come inventore.
Piacque a Filippo la risposta di Lorenzo, parendoli che questa fusse la via di farlo allontanare dall'opera e da scoprire che non era di quella intelligenza che lo tenevano gli amici suoi et il favore che lo aveva messo in quel luogo.
Dopo, essendo già fermi tutti i muratori dell'opera, aspettavano di dovere cominciare sopra le dodici braccia e far le volte et incatenarle essendosi cominciato a stringere la cupola da sommo, per lo che fare erano forzati fare i ponti, acciò che i manovali e' muratori potessino lavorare senza pericolo, atteso che l'altezza era tale che solamente guardando allo ingiù faceva paura e sbigotimento a ogni sicuro animo.
Stavasi dunque dai muratori e dagli altri maestri ad aspettare il modo della catena e de' ponti: né resolvendosi niente per Lorenzo né per Filippo, nacque una mormorazione fra i muratori e gli altri maestri, non vedendo sollecitare come prima; e perché essi, che povere persone erano, vivevano sopra le lor braccia, e dubitavano che né all'uno né all'altro bastasse l'animo di andare più su con quella opera, il meglio che sapevano e potevano, andavano trattenendosi per la fabrica, ristoppando e ripulendo tutto quel che era murato fino allora.
Una mattina infra le altre, Filippo non capitò al lavoro, e fasciatosi il capo entrò nel letto, e continuamente gridando si fece scaldare taglieri e panni con una sollecitudine grande, fingendo avere mal di fianco.
Inteso questo, i maestri che stavano aspettando l'ordine di quel che avevano a lavorare dimandarono Lorenzo quel che avevano a seguire: rispose che l'ordine era di Filippo e che bisognava aspettare lui.
Fu chi gli disse: "Oh non sai tu l'animo suo?" "Sì", disse Lorenzo "ma non farei niente senza esso." E questo lo disse in escusazion sua, che non avendo visto il modello di Filippo e non gli avendo mai dimandato che ordine e' volesse tenere, per non parer ignorante, stava sopra di sé nel parlare di questa cosa e rispondeva tutte parole dubbie, massimamente sapendo essere in questa opera contra la voluntà di Filippo.
Al quale durato già più di dua giorni il male, et andato a vederlo il proveditore dell'Opera et assai capomaestri muratori, di continuo li domandavano che dicesse quello che avevono a fare.
Et egli: "Voi avete Lorenzo, faccia un poco egli".
Né altro si poteva cavare.
Laonde, sentendosi questo, nacque parlamenti e giudizi di biasimo grandi sopra questa opera: chi diceva che Filippo si era messo nel letto per il dolore che non gli bastava l'animo di voltarla; e ch'e' si pentiva d'essere entrato in ballo.
Et i suoi amici lo difendevano, dicendo esser, se pure era il dispiacere, la villania dell'avergli dato Lorenzo per compagno; ma che il suo era mal di fianco, causato dal molto faticarsi per l'opera.
Così dunque rumoreggiandosi, era fermo il lavoro, e quasi tutte le opere de' muratori e scarpellini si stavano; e mormorando contro a Lorenzo dicevano: "Basta ch'e' gli è buono a tirare il salario, ma a dare ordine ch'e' si lavori, no.
O se Filippo non ci fusse, o se egli avessi mal lungo, come farebbe egli? Che colpa è la sua, se egli sta male?".
Gli Operai vistosi in vergogna per questa pratica, deliberorono d'andare a trovar Filippo; et arrivati, confortatolo prima del male, gli dicono in quanto disordine si trovava la fabbrica et in quanto travaglio gli avesse messo il mal suo.
Per il che Filippo con parole appassionate, e dalla finzione del male, e dell'amore dell'opera: "O non ci è egli" disse, "Lorenzo? Che non fa egli? Io mi maraviglio pur di voi".
Allora gli risposono gli Operai: "E' non vuol far niente senza di te".
Rispose loro Filippo: "Lo farei ben io senza lui".
La qual risposta argutissima e doppia bastò loro; e partiti, conobbono che egli aveva male di voler far solo.
Mandarono dunque amici suoi a cavarlo del letto, con intenzione di levar Lorenzo dell'opera; e così venuto Filippo in su la fabbrica, vedendo lo sforzo del favore in Lorenzo, e che egli arebbe il salario senza far fatica alcuna, pensò a un altro modo per scornarlo e per publicarlo interamente per poco intendente in quel mestiero; e fece questo ragionamento agli Operai, presente Lorenzo: "Signori Operai, il tempo che ci è prestato di vivere, se egli stesse a posta nostra come il poter morire, non è dubbio alcuno che molte cose che si cominciano, resterebbono finite, dove elleno rimangono imperfette; il mio accidente, del male che ho passato, poteva tormi la vita e fermare questa opera; però, acciò che se mai più io ammalassi o Lorenzo, che Dio ne lo guardi, possa l'uno o l'altro seguitare la sua parte, ho pensato che così come le Signorie Vostre ci hanno diviso il salario, ci dividino ancora l'opera, acciò che spronati dal mostrare ognuno quel che sa, possa sicuramente acquistar onore et utile appresso a questa republica.
Sono adunque due cose le difficili, che al presente si hanno a mettere in opera: l'una è i ponti, perché i muratori possino murare, che hanno a servire dentro e di fuori della fabrica, dove è necessario tener su uomini, pietre e calcina, e che vi si possa tener su la burbera da tirar pesi, e simili altri strumenti; e l'altra è la catena, che si ha a mettere sopra le dodici braccia, che venga legando le otto facce della cupola et incatenando la fabrica, che tutto il peso che di sopra si pone, stringa e serri, di maniera che non sforzi o allarghi il peso, anzi egualmente tutto lo edifizio resti sopra di sé.
Pigli Lorenzo, adunque, una di queste parte, quale egli più facilmente creda esequire, che io l'altra senza dificultà mi proverò di condurre, acciò non si perda più tempo".
Ciò udito fu forzato Lorenzo non ricusare per l'onore suo uno di questi lavori, et ancora che mal volentieri lo facesse, si risolvé a pigliar la catena, come cosa più facile, fidandosi ne' consigli de' muratori et in ricordarsi che nella volta di S.
Giovanni di Fiorenza era una catena di pietra, dalla quale poteva trarre parte, se non tutto l'ordine.
E così l'uno messo mano a' ponti, l'altro alla catena, l'uno e l'altro finì.
Erano i ponti di Filippo fatti con tanto ingegno et industria, che fu tenuto veramente in questo il contrario di quello che per lo adietro molti si erano immaginati, perché così sicuramente vi lavoravano i maestri e tiravono pesi e vi stavano sicuri, come se nella piana terra fussino; e ne rimase i modelli di detti ponti nell'opera.
Fece Lorenzo, in una dell'otto facce, la catena con grandissima difficultà; e finita fu dagli Operai fatta vedere a Filippo, il quale non disse loro niente, ma con certi amici suoi ne ragionò, dicendo che bisognava altra legatura che quella, e metterla per altro verso che non avevano fatto, e che al peso che vi andava sopra non era sufficiente, perché non stringeva tanto che fusse a bastanza, e che la provisione che si dava a Lorenzo era, insieme con la catena che egli aveva fatta murare, gittata via.
Fu inteso l'umore di Filippo e li fu commesso che e' mostrassi come si arebbe a fare che tal catena adoperasse.
Onde, avendo egli già fatto disegni e modelli, subito gli mostrò, e veduti dagli Operai e dagli altri maestri, fu conosciuto in che errore erano cascati per favorire Lorenzo; e volendo mortificare questo errore, e mostrare che conoscevano il buono, feciono Filippo governatore e capo a vita di tutta la fabbrica, e che non si facesse di cosa alcuna in quella opera se non il voler suo; e per mostrare di riconoscerlo li donorono cento fiorini, stanziati per i Consoli et Operai sotto dì 13 d'agosto 1423 per mano di Lorenzo Pauli notaio dell'Opera, a uscita di Gherardo di Messer Filippo Corsini, e li feciono provisione per partito, di fiorini cento l'anno per sua provisione a vita.
Così, dato ordine a far camminare la fabbrica, la seguitava con tanta obedienza e con tanta accuratezza, che non si sarebbe murata una pietra che non l'avesse voluta vedere.
Dall'altra parte Lorenzo, trovandosi vinto e quasi svergognato, fu da' suoi amici favorito et aiutato talmente che tirò il salario, mostrando che non poteva essere casso, per infino a tre anni di poi.
Faceva Filippo di continovo, per ogni minima cosa, disegni e modelli di castelli da murare, et edifizii da tirar pesi.
Ma non per questo restavano alcune persone malotiche, amici di Lorenzo, di farlo disperare, con tutto il dì farli modelli contro, per concorrenza; intanto che ne fece uno maestro Antonio da Verzelli et altri maestri favoriti e messi inanzi ora da questo cittadino et ora da quell'altro, mostrando la volubilità loro, il poco sapere et il manco intendere, avendo in man le cose perfette e mettendo inanzi l'imperfette e disutili.
Erano già le catene finite intorno intorno all'otto facce, et i muratori inanimiti lavoravano gagliardamente; ma sollecitati da Filippo più che 'l solito, per alcuni rabbuffi avuti nel murare, e per le cose che accadevano giornalmente, se lo erono recato a noia.
Onde, mossi da questo e da invidia, si strinseno insieme i capi faccendo setta, e dissono che era faticoso lavoro e di pericolo, e che non volevon volgerla senza gran pagamento (ancora che più del solito loro fusse stato cresciuto) pensano per cotal via di vendicarsi con Filippo e fare a sé utile.
Dispiacque agli Operai questa cosa, et a Filippo similmente: e pensatovi su, prese partito un sabato sera di licenziarli tutti.
Coloro, vistosi licenziare, e non sapendo che fine avesse ad avere questa cosa, stavano di mala voglia, quando il lunedì seguente, messe in opera Filippo dieci lombardi, e con lo star quivi presente, dicendo: "Fa qui così e fa qua", gli istruì in un giorno tanto, che ci lavorarono molte settimane.
Dall'altra parte i muratori, veggendosi licenziati e tolto il lavoro e fattoli quello scorno, non avendo lavori tanto utili quanto quello, messono mezzani a Filippo, che ritornarebbono volentieri, raccomandandosi quanto e' potevano.
Così li tenne molti dì in su la corda del non gli voler pigliare, poi gli rimesse con minor salario, che eglino non avevono in prima; e così, dove pensarono avanzare, persono, e con il vendicarsi contro a Filippo, feciono danno e villania a se stessi.
Erano già fermi i romori e venuto tuttavia considerando, nel veder volger tanto agevolmente quella fabbrica, l'ingegno di Filippo, e si teneva già, per quelli che non avevano passione, lui aver mostrato quell'animo che forse nessuno architetto antico o moderno nell'opere loro aveva mostro; e questo nacque perché egli cavò fuori il suo modello; nel quale furono vedute per ognuno le grandissime considerazioni che egli aveva imaginatosi, nelle scale, nei lumi dentro e fuori, che non si potesse percuotere nei bui per le paure e quanti diversi appoggiatoi di ferri, che per salire dove era la ertezza erano posti, con considerazione ordinati, oltra che egli aveva perfin pensato ai ferri, per fare i ponti di dentro, se mai si avesse a lavorarvi o musaico o pitture; e similmente per aver messo ne' luoghi men pericolosi le distinzioni degli smaltitoi dell'acque, dove elleno andavano coperte e dove scoperte, e, seguitando con ordine, buche e diversi apertoi, acciò che i venti si rompessino, et i vapori, insieme con i tremuoti, non potessino far nocumento, mostrò quanto lo studio nel suo stare a Roma tanti anni gli avesse giovato.
Appresso, considerando quello che egli aveva fatto nelle augnature, incastrature e commettiture e legazioni di pietre, faceva tremare e temere a pensare che un solo ingegno fusse capace di tanto, quanto era diventato quel di Filippo.
Il quale di continovo crebbe talmente, che nessuna cosa fu, quantunque difficile et aspra, la quale egli non rendesse facile e piana; e lo mostrò nel tirare i pesi, per via di contrapesi e ruote che un sol bue tirava quanto arebbono appena tirato sei paia.
Era già cresciuta la fabbrica tanto alto, che era uno sconcio grandissimo, salito che uno vi era, inanzi si venisse in terra; e molto tempo perdevano i maestri nello andare a desinare e bere, e gran disagio per il caldo del giorno pativano.
Fu adunque trovato da Filippo ordine che si aprissero osterie nella cupola con le cucine, e vi si vendesse il vino, e così nessuno si partiva del lavoro se non la sera.
Il che fu a loro commodità, et all'opera utilità grandissima.
Era sì cresciuto l'animo a Filippo, vedendo l'opera camminar forte, e riuscire con felicità, che di continuo si affaticava; et egli stesso andava alle fornaci dove si spianavano i mattoni, e voleva vedere la terra, et impastarla, e cotti che erano, gli voleva scerre di sua mano con somma diligenza.
E nelle pietre a gli scarpellini guardava se vi era peli dentro, se eran dure, e dava loro i modelli delle ugnature e commettiture di legname e di cera, così fatti di rape; e similmente faceva de' ferramenti ai fabbri.
E trovò il modo de' gangheri col capo e degli arpioni, e facilitò molto l'architettura, la quale certamente per lui si ridusse a quella perfezzione che forse ella non fu mai appresso i Toscani.
Era l'anno 1423 Firenze in quella felicità et allegrezza che poteva essere, quando Filippo fu tratto per il quartiere di San Giovanni, per maggio e giugno, de' Signori, essendo tratto per il quartiere di Santa Croce gonfaloniere di giustizia Lapo Niccolini.
E se si truova registrato nel priorista Filippo di Ser Brunellesco Lippi, niuno se ne dee maravigliare, perché fu così chiamato da Lippo suo avolo, e non de' Lapi come si doveva, la qual cosa si vede nel detto priorista che fu usata in infiniti altri, come ben sa chi l'ha veduto o sa l'uso di que' tempi.
Esercitò Filippo quell'uffizio e così altri magistrati ch'ebbe nella nostra città, ne' quali con un giudizio gravissimo sempre si governò.
Restava a Filippo, vedendo già cominciare a chiudere le due volte verso l'occhio dove aveva a cominciare la lanterna (se bene egli aveva fatto a Roma et in Fiorenza più modelli di terra e di legno, dell'uno e dell'altro, che non s'erono veduti) a risolversi finalmente quale e' volesse mettere in opera.
Per il che, deliberatosi a terminare il ballatoio, ne fece diversi disegni, che nell'opera rimasono dopo la morte sua; i quali dalla trascuratagine di que' ministri sono oggi smarriti.
Et a' tempi nostri, perché si finisse, si fece un pezzo dell'una dell'otto facce: ma perché disuniva da quell'ordine, per consiglio di Michelagnolo Bonarroti, fu dismesso e non seguitato.
Fece anco di sua mano Filippo un modello della lanterna, a otto facce, misurato alla proporzione della cupola, che nel vero, per invenzione e varietà et ornato, riuscì molto bello; vi fece la scala da salire alla palla, che era cosa divina, ma perché aveva turato Filippo, con un poco di legno commesso, di sotto dove s'entra, nessuno, se non egli, sapeva la salita.
Et ancora che e' fusse lodato et avesse già abbattuto l'invidia e l'arroganza di molti, non poté però tenere, nella veduta di questo modello, che tutti i maestri che erano in Fiorenza non si mettessero a farne in diversi modi; e fino a una donna di casa Gaddi ardì concorrere in giudizio con quello che aveva fatto Filippo.
Egli nientedimeno tuttavia si rideva della altrui prosunzione, e fugli detto da molti amici suoi che e' non dovesse mostrare il modello suo a nessuno artefice, acciò che eglino da quello non imparassero.
Et esso rispondeva loro che non era se non un solo il vero modello, e gli altri erano vani.
Alcuni altri maestri avevano nel loro modello posto delle parti di quel di Filippo, ai quali, nel vederlo, Filippo diceva: "Questo altro modello che costui farà, sarà il mio proprio".
Era da tutti infinitamente lodato, ma solo non ci vedendo la salita per ire alla palla, apponevano che fusse difettoso.
Conclusero nondimeno gl'Operai di fargli allogazione di detta opera con patto però che mostrasse loro la salita; per il che Filippo, levato nel modello quel poco di legno che era da basso, mostrò in un pilastro la salita che al presente si vede in forma di una cerbotana vota; e da una banda un canale con staffe di bronzo, dove l'un piede e poi l'altro ponendo, s'ascende in alto.
E perché non ebbe tempo di vita, per la vecchiezza, di potere tal lanterna veder finita, lasciò per testamento che tal come stava il modello murata fusse, e come aveva posto in iscritto; altrimenti protestava che la fabbrica ruinerebbe essendo volta in quarto acuto, che aveva bisogno che il peso la caricasse, per farla più forte.
Il quale edifizio non poté egli innanzi la morte sua vedere finito, ma sì bene tiratone su parecchie braccia.
Fece bene lavorare e condurre quasi tutti i marmi che vi andavano, de' quali, nel vederli condotti, i popoli stupivano che fusse possibile che egli volesse che tanto peso andasse sopra quella volta.
Et era opinione di molti ingegnosi che ella non fusse per reggere, e pareva loro una gran ventura che egli l'avesse condotta in sin quivi, e che egli era un tentare Dio a caricarla sì forte.
Filippo sempre se ne rise, e preparate tutte le machine e tutti gli ordigni che avevano a servire a murarla, non perse mai tempo con la mente, di antivedere, preparare e provedere a tutte le minuterie, in fino che non si scantonassino i marmi lavorati nel tirarli su; tanto che e' si murarono tutti gli archi de' tabernacoli co' castelli di legname, e del resto, come si disse, v'erano scritture e modelli.
La quale opera quanto sia bella, ella medesima ne fa fede, per essere d'altezza dal piano di terra a quello della lanterna, braccia 154, e tutto il tempio della lanterna braccia 36, la palla di rame braccia 4, la croce braccia otto, in tutto braccia 202.
E si può dir certo che gli antichi non andorono mai tanto alto con le lor fabbriche, né si messono a un risico tanto grande che eglino volessino combattere col cielo; come par veramente che ella combatta: veggendosi ella estollere in tant'altezza, che i monti intorno a Fiorenza paiono simili a lei.
E, nel vero, pare che il cielo ne abbia invidia, poi che di continuo le saette tutto il giorno la percuotono.
Fece Filippo, mentre che questa opera si lavorava, molte altre fabbriche le quali per ordine qui disotto narreremo.
Fece di sua mano il modello del capitolo in Santa Croce di Fiorenza, per la famiglia de' Pazzi, cosa varia e molto bella; e 'l modello della casa de' Busini per abitazione di due famiglie; e similmente il modello della casa e della loggia degli'Innocenti, la volta della quale senza armadura fu condotta: modo che ancora oggi si osserva per ognuno.
Dicesi che Filippo fu condotto a Milano per fare al duca Filippo Maria il modello d'una fortezza, e che a Francesco della Luna, amicissimo suo, lasciò la cura di questa fabbrica degli Innocenti.
Il quale Francesco fece il ricignimento d'uno architrave che corre a basso, di sopra, il quale secondo l'architettura è falso: onde tornato Filippo e sgridatolo, perché tal cosa avesse fatto, rispose averlo cavato dal tempio di San Giovanni che è antico.
Disse Filippo: "Un error solo è in quello edifizio, e tu l'hai messo in opera".
Stette il modello di questo edifizio, di mano di Filippo, molti anni nell'Arte di Por Santa Maria, tenutone molto conto per un restante della fabbrica che si aveva a finire: oggi è smarritosi.
Fece il modello della Badia de' canonici Regolari di Fiesole, a Cosimo de' Medici, la quale è molto ornata architettura, commoda et allegra et insomma veramente magnifica.
La chiesa, le cui volte sono a botte, è sfogata, e la sagrestia ha i suoi commodi, sì come ha tutto il resto del monasterio.
E quello che importa è da considerare che dovendo egli nella scesa di quel monte mettere quello edifizio in piano, si servì con molto giudizio del basso, facendovi cantine, lavatoi, forni, stalle, cucine, stanze per legne et altre tante commodità che non è possibile veder meglio; e così mise in piano la pianta dell'edifizio.
Onde potette a un pari fare poi le logge, il reffettorio, l'infermeria, il noviziato, il dormentorio, la libreria e l'altre stanze principali d'un monasterio.
Il che tutto fece a sue spese il Magnifico Cosimo de' Medici, sì per la pietà che sempre in tutte le cose ebbe verso la religione cristiana, e sì per l'affezzione che portava a don Timoteo da Verona, eccellentissimo predicator di quell'ordine, la cui conversazione per meglio poter godere, fece anco molte stanze per sé proprio in quel monasterio, e vi abitava a suo commodo.
Spese Cosimo in questo edifizio, come si vede in una inscrizzione, centomila scudi.
Disegnò similmente il modello della fortezza di Vico Pisano: et a Pisa disegnò la cittadella vecchia.
E per lui fu fortificato il ponte a mare, et egli similmente diede il disegno alla cittadella nuova del chiudere il ponte con le due torri.
Fece similmente il modello della fortezza del porto di Pesero.
E ritornato a Milano, disegnò molte cose per il Duca e per il Duomo di detta città a' maestri di quello.
Era in questo tempo principiata la chiesa di S.
Lorenzo di Fiorenza per ordine de' popolani, i quali avevano il priore fatto capo maestro di quella fabbrica, persona che faceva professione d'intendersi e si andava dilettando dell'architettura per passatempo.
E già avevano cominciata la fabbrica di pilastri di mattoni, quando Giovanni di Bicci de' Medici, il quale aveva promesso a' popolani et al priore di far fare a sue spese la sagrestia et una cappella, diede desinare una mattina a Filippo, e doppo molti ragionamenti, li dimandò del principio di S.
Lorenzo e quel che gli pareva.
Fu costretto Filippo da' prieghi di Giovanni a dire il parer suo; e per dirli il vero lo biasimò in molte cose, come ordinato da persona che aveva forse più lettere che sperienza di fabbriche di quella sorte.
Laonde Giovanni dimandò a Filippo se si poteva far cosa migliore, e di più bellezza; a cui Filippo disse: "Senza dubbio, e mi maraviglio di voi, che essendo capo non diate bando a parecchi migliaia di scudi, e facciate un corpo di chiesa con le parti convenienti et al luogo et a tanti nobili sepoltuarii, che vedendovi cominciare, seguiteranno le lor cappelle, con tutto quel che potranno; e massimamente che altro ricordo di noi non resta, salvo le muraglie che rendono testimonio di chi n'è stato autore, centinaia e migliaia d'anni".
Inanimito Giovanni dalle parole di Filippo, deliberò fare la sagrestia e la cappella maggiore, insieme con tutto il corpo della chiesa, se bene non volsono concorrere altri che sette casati, appunto perché gli altri non avevano il modo.
E furono questi: Rondinelli, Ginori, dalla Stufa, Neroni, Ciai, Marignolli, Martelli e Marco di Luca; e queste cappelle si avevono a fare nella croce.
La sagrestia fu la prima cosa a tirarsi inanzi e la chiesa poi di mano in mano.
E per la lunghezza della chiesa, si venne a concedere poi di mano in mano le altre cappelle a' cittadini pur popolani.
Non fu finita di coprire la sagrestia, che Giovanni de' Medici passò a l'altra vita, e rimase Cosimo suo figliuolo.
Il quale avendo maggior animo che il padre, dilettandosi delle memorie, fece seguitar questa la quale fu la prima cosa che egli facesse murare, e gli recò tanta delettazione, che egli, da quivi inanzi, sempre fino alla morte fece murare.
Sollecitava Cosimo questa opera con più caldezza, e mentre si imbastiva una cosa, faceva finire l'altra.
Et avendo preso per ispasso questa opera, ci stava quasi del continuo.
E causò la sua sollecitudine, che Filippo fornì la sagrestia, e Donato fece gli stucchi, e così a quelle porticciuole l'ornamento di pietra e le porte di bronzo.
E fece far la sepoltura di Giovanni suo padre, sotto una gran tavola di marmo retta da quattro balaustri in mezzo della sagrestia, dove si parano i preti: e per quelli di casa sua nel medesimo luogo fece separata la sepoltura delle femmine da quella de' maschi.
Et in una delle due stanzette, che mettono in mezzo l'altare della detta sagrestia, fece in un canto un pozzo et il luogo per un lavamani.
Et insomma in questa fabbrica si vede ogni cosa fatta con molto giudizio.
Avevano Giovanni e quegli altri ordinato fare il coro nel mezzo, sotto la tribuna: Cosimo lo rimutò col voler di Filippo, che fece tanto maggiore la cappella grande, che prima era ordinata una nicchia più piccola, che e' vi si potette fare il coro come sta al presente; e finita, rimase a fare la tribuna del mezzo, et il resto della chiesa.
La qual tribuna et il resto non si voltò se non doppo la morte di Filippo.
Questa chiesa è di lunghezza braccia 144 e vi si veggono molti errori, ma fra gl'altri quello delle colonne messe nel piano, senza mettervi sotto un dado, che fusse tanto alto quanto era il piano delle base de' pilastri posati in su le scale; cosa, che al vedere il pilastro più corto che la colonna, fa parere zoppa tutta quell'opera.
E di tutto furono cagione i consigli di chi rimase doppo lui, che avevono invidia al suo nome, e che in vita gli avevano fatto i modelli contro, de' quali nientedimeno erano stati, con sonetti fatti da Filippo, svergognati; e doppo la morte, con questo se ne vendicorono non solo in questa opera, ma in tutte quelle che rimasono da lavorarsi per loro.
Lasciò il modello, e parte della calonaca de' preti di esso San Lorenzo finita, nella quale fece il chiostro lungo braccia 144.
Mentre che questa fabbrica si lavorava, Cosimo de' Medici voleva far fare il suo palazzo, e così ne disse l'animo suo a Filippo; che posto ogni altra cura da canto, gli fece un bellissimo e gran modello per detto palazzo, il quale situar voleva dirimpetto a S.
Lorenzo su la piazza intorno intorno isolato.
Dove l'artificio di Filippo s'era talmente operato, che, parendo a Cosimo troppo suntuosa e gran fabbrica, più per fuggire l'invidia che la spesa, lasciò di metterla in opera.
E mentre che il modello lavorava, soleva dire Filippo che ringraziava la sorte di tale occasione, avendo a fare una casa, di che aveva avuto desiderio molti anni, et essersi abbattuto a uno che la voleva e poteva fare.
Ma intendendo poi la resoluzione di Cosimo, che non voleva tal cosa mettere in opera, con isdegno in mille pezzi ruppe il disegno.
Ma bene si pentì Cosimo di non avere seguito il disegno di Filippo, poi che egli ebbe fatto quell'altro; il qual Cosimo soleva dire che non aveva mai favellato ad uomo di maggior intelligenza et animo di Filippo.
Fece ancora il modello del bizzarrissimo tempio degl'Angeli per la nobile famiglia degli Scolari; il quale rimase imperfetto e nella maniera che oggi si vede, per avere i Fiorentini spesi i danari, che per ciò erano in sul Monte, in alcuni bisogni della città, o come alcuni dicono, nella guerra che già ebbero co' Lucchesi.
Nel quale spesero ancora i danari che similmente erano stati lasciati per far la Sapienza, da Niccolò da Uzzano, come in altro luogo si è a lungo raccontato.
E nel vero, se questo tempio degli Angeli si finiva secondo il modello del Brunellesco, egli era delle più rare cose d'Italia: perciò che quello che se ne vede non si può lodar a bastanza.
Le carte della pianta e del finimento del quale tempio a otto facce, di mano di Filippo, è nel nostro libro, con altri disegni del medesimo.
Ordinò anco Filippo a Messer Luca Pitti fuor della porta a San Niccolò di Fiorenza in un luogo detto Ruciano, un ricco e magnifico palazzo; ma non già a gran pezza simile a quello che per lo medesimo cominciò in Firenze e condusse al secondo finestrato, con tanta grandezza e magnificenza, che d'opera toscana non si è anco veduto il più raro né il più magnifico.
Sono le porte di questo doppie, la luce braccia sedici, e la larghezza otto; le prime e le seconde finestre simili in tutto alle porte medesime.
Le volte sono doppie, e tutto l'edifizio in tanto artifizioso che non si può imaginar né più bella né più magnifica architettura.
Fu esecutore di questo palazzo Luca Fancelli architetto fiorentino, che fece per Filippo molte fabbriche, e per Leon Battista Alberti la cappella maggiore della Nunziata di Firenze, a Lodovico Gonzaga; il quale lo condusse a Mantova, dove egli vi fece assai opere, e quivi tolse donna e vi visse e morì, lasciando agli eredi che ancora dal suo nome si chiamano i Luchi.
Questo palazzo comperò, non sono molti anni, l'illustrissima signora Leonora di Tolledo, duchessa di Fiorenza, per consiglio dell'illustrissimo signor duca Cosimo, suo consorte.
E vi si allargò tanto intorno, che vi ha fatto un giardino grandissimo, parte in piano e parte in monte e parte in costa; e l'ha ripieno con bellissimo ordine di tutte le sorti arbori domestici e salvatichi, e fattovi amenissimi boschetti d'infinite sorti verzure che verdeggiano d'ogni tempo, per tacere l'acque, le fonti, i condotti, i vivai, le frasconaie e le spalliere, et altre infinite cose veramente da magnanimo principe; le quali tacerò, perché non è possibile che chi non le vede le possa immaginar mai di quella grandezza e bellezza che sono.
E di vero al duca Cosimo non poteva venire alle mani alcuna cosa più degna della potenza e grandezza dell'animo suo di questo palazzo; il quale pare che veramente fusse edificato da Messer Luca Pitti per sua eccellenza illustrissima col disegno del Brunellesco.
Lo lasciò Messer Luca imperfetto per i travagli che egli ebbe per conto dello stato; e gli eredi, perché non avevano modo a finirlo, acciò non andasse in rovina, furono contenti di compiacerne la signora duchessa; la quale, mentre visse, vi andò sempre spendendo, ma non però in modo che potesse sperare di così tosto finirlo.
Ben è vero che se ella viveva, era d'animo, secondo che già intesi, di spendervi in uno anno solo quarantamila ducati per vederlo, se non finito, a bonissimo termine.
E perché il modello di Filippo non si è trovato, n'ha fatto fare sua eccellenza un altro a Bartolomeo Ammannati, scultore et architetto eccellente, e secondo quello si va lavorando; e già è fatto una gran parte del cortile d'opera rustica, simile al difuori.
E nel vero, chi considera la grandezza di quest'opera, stupisce come potesse capire nell'ingegno di Filippo così grande edifizio magnifico veramente, non solo nella facciata di fuori, ma ancora nello spartimento di tutte le stanze.
Lascio stare la veduta ch'è bellissima, et il quasi teatro, che fanno l'amenissime colline che sono intorno al palazzo verso le mura: perché, com'ho detto, sarebbe troppo lungo voler dirne a pieno; né potrebbe mai niuno che nol vedesse imaginarsi quanto sia, a qualsivoglia altro regio edifizio, superiore.
Dicesi ancora che gl'ingegni del Paradiso di S.
Filice in piazza, nella detta città, furono trovati da Filippo, per fare la rappresentazione o vero festa della Nunziata, in quel modo che anticamente a Firenze in quel luogo si costumava di fare.
La qual cosa invero era maravigliosa, e dimostrava l'ingegno e l'industria di chi ne fu inventore: perciò che si vedeva in alto un cielo pieno di figure vive moversi, et una infinità di lumi, quasi in un baleno scoprirsi e ricoprirsi.
Ma non voglio che mi paia fatica raccontare come gl'ingegni di quella machina stavano per a punto: atteso che ogni cosa è andata male e sono gl'uomini spenti che ne sapevano ragionare per esperienza: senza speranza che s'abbiano a rifare, abitando oggi quel luogo non più monaci di Camaldoli, come facevano, ma le monache di S.
Pier martire; e massimamente ancora essendo stato guasto quello del Carmine, perché tirava giù i cavagli che reggono il tetto.
Aveva dunque Filippo per questo effetto, fra due legni di que' che reggevano il tetto della chiesa, accomodata una mezza palla tonda a uso di scodella vota, o vero di bacino da barbiere, rimboccata all'ingiù; la quale mezza palla era di tavole sottili e leggeri, confitte a una stella di ferro che girava il sesto di detta mezza palla, e strignevano verso il centro, che era bilicato in mezzo, dove era un grande anello di ferro intorno al quale girava la stella de' ferri che reggevano la mezza palla di tavole.
E tutta questa machina era retta da un legno d'abeto gagliardo e bene armato di ferri, il quale era a traverso ai cavalli del tetto.
Et in questo legno era confitto l'anello, che teneva sospesa e bilicata la mezza palla, la quale da terra pareva veramente un cielo.
E perché alla aveva da piè nell'orlo di dentro certe base di legno, tanto grandi e non più che uno vi poteva tenere i piedi, et all'altezza d'un braccio, pur di dentro, un altro ferro, si metteva in su ciascuna delle dette basi un fanciullo di circa dodici anni e col ferro alto un braccio e mezzo si cigneva in guisa che non arebbe potuto, quando anco avesse voluto, cascare.
Questi putti, che in tutto erano dodici, essendo accomodati come si è detto, sopra le base e vestiti da Angeli con ali dorate e capegli di mattasse d'oro, si pigliavano, quando era tempo, per mano l'un l'altro; e dimenando le braccia, pareva che ballassino, e massimamente girando sempre e movendosi la mezza palla dentro la quale, sopra il capo degl'Angioli, erano tre giri o ver ghirlande di lumi accomodati con certe piccole lucernine, che non potevano versare; i quali lumi da terra parevano stelle: e le mensole, essendo coperte di bambagia, parevano nuvole.
Del sopra detto anello usciva un ferro grossissimo, il quale aveva a canto un altro anello, dove stava apiccato un canapetto sottile che, come si dirà, veniva in terra.
E perché il detto ferro grosso aveva otto rami che giravano in arco quanto bastava a riempire il vano della mezza palla vota e il fine di ciascun ramo un piano grande quanto un tagliere; posava sopra ogni piano un putto di nove anni in circa, ben legato con un ferro saldato nelle altezza del ramo, ma però in modo lento, che poteva voltarsi per ogni verso.
Questi otto angioli retti del detto ferro mediante un arganetto che si allentava a poco a poco, calavano dal vano della mezza palla fino sotto al piano de' legni piani che reggono il tetto, otto braccia, di maniera che erano essi veduti e non toglievano la veduta degl'angioli, ch'erano intorno al didentro della mezza palla.
Dentro a questo mazzo degl'otto Angeli (che così era propriamente chiamato) era una mandorla di rame, vota dentro, nella quale erano in molti buchi certe lucernine messe in sur un ferro a guisa di cannoni, le quali, quando una molla che si abbassava era tocca, tutte si nascondevano nel voto della mandorla di rame; e come non si aggravava la detta molla, tutti i lumi, per alcuni buchi di quella, si vedevano accesi.
Questa mandorla, la quale era apiccata a quel canapetto, come il mazzo era arivato al luogo suo, allentato il picciol canapo da un altro arganetto, si moveva pian piano e veniva sul palco dove si recitava la festa, sopra il qual palco, dove la mandorla aveva da posarsi a punto, era un luogo alto a uso di residenza, con quattro gradi; nel mezzo del quale era una buca, dove il ferro apuntato di quella mandorla veniva a diritto.
Et essendo sotto la detta residenza un uomo, arivata la mandorla al luogo suo, metteva in quella, senza esser veduto, una chiavarda, et ella restava in piedi e ferma.
Dentro la mandorla era, a uso d'angelo, un giovinetto di quindici anni in circa cinto nel mezzo da un ferro e nella mandorla da piè chiavardato in modo che non poteva cascare, e perché potesse ingenochiarsi, era il detto ferro di tre pezzi, onde ingenochiandosi entrava l'un nell'altro agevolmente.
E così quando era il mazzo venuto giù e la mandorla postata in sulla residenza, chi metteva la chiavarda alla mandorla schiavava anco il ferro che reggeva l'angelo, onde egli uscito caminava per lo palco e giunto dove era la Vergine la salutava et annunziava.
Poi tornato nella mandorla e raccesi i lumi che al suo uscirne s'erano spenti, era di nuovo chiavardato il ferro che lo reggeva, da colui che sotto non era veduto; e poi allentato quello che la teneva, ell'era ritirata su, mentre cantando gl'angeli del mazzo e quelli del cielo che giravano, facevano che quello pareva propriamente un paradiso e massimamente, che oltre al detto coro d'angeli et al mazzo, era a canto al guscio della palla un Dio Padre circondato d'angeli simili a quelli detti di sopra e con ferri accomodati.
Di maniera che il cielo, il mazzo, il Dio Padre, la mandorla con infiniti lumi e dolcissime musiche rappresentavano il Paradiso veramente.
A che si aggiugneva, che per potere quel cielo aprire e serrare, aveva fatto fare Filippo due gran porte, di braccia cinque l'una per ogni verso, le quali per piano avevano in certi canali curri di ferro, o vero di rame, et i canali erano unti talmente, che quando si tirava con un arganetto un sottile canapo che era da ogni banda, s'apriva o riserrava, secondo che altri voleva, ristrignendosi le due parti delle porte insieme, o allargandosi per piano mediante i canali.
E queste così fatte porte facevano duoi effetti: l'uno, che quando erano tirate per esser gravi facevano rumore a guisa di tuono; l'altro, perché servivano, stando chiuse, come palco per aconciare gl'Angeli et accomodar l'altre cose che dentro facevano di bisogno.
Questi dunque così fatti ingegni e molti altri, furono trovati da Filippo; se bene alcuni altri affermano che egli erano stati trovati molto prima.
Comunche sia, è stato ben ragionarne, poiché in tutto se n'è dismesso l'uso.
Ma tornando a esso Filippo, era talmente cresciuta la fama et il nome suo, che di lontano era mandato per lui da chi aveva bisogno di far fabriche per avere disegni e modelli di mano di tanto uomo; e si adoperavano perciò amicizie e mezzi grandissimi.
Onde infra gl'altri disiderando il Marchese di Mantoa d'averlo, ne scrisse alla Signoria di Firenze con grande instanza, e così da quella gli fu mandato là, dove diede disegni di fare argini in sul Po l'anno 1445; et alcune altre cose, secondo la volontà di quel Principe, che lo accarezzò infinitamente, usando dire che Fiorenza era tanto degna d'avere Filippo per suo cittadino, quanto egli d'aver sì nobile e bella città per patria.
Similmente in Pisa il conte Francesco Sforza e Niccolò da Pisa, restando vinti da lui in certe fortificazioni, in sua presenza lo comendarono, dicendo che se ogni stato avesse un uomo simile a Filippo, che si potrebbe tener sicuro senza arme.
In Fiorenza diede similmente Filippo il disegno della casa di Barbadori, allato alla torre de' Rossi in borgo S.
Iacopo, che non fu messa in opera; e così anco fece il disegno della casa de' Giuntini in sulla piazza d'Ogni Santi, sopra Arno.
Dopo, disegnando i capitani di Parte Guelfa di Firenze di fare uno edifizio et in quello una sala et una udienza per quello magistrato, ne diedero cura a Francesco della Luna, il quale, cominciato l'opera, l'aveva già alzata da terra dieci braccia e fattovi molti errori, quando ne fu dato cura a Filippo, il quale ridusse il detto palazzo a quella forma e magnificenza che si vede.
Nel che fare ebbe a competere con il detto Francesco che era da molti favorito sì come sempre fece mentre che visse, or con questo, et or [con] quello, che facendogli guerra lo travagliarono sempre, e bene spesso cercavano di farsi onore con i disegni di lui.
Il quale infine si ridusse a non mostrare alcuna cosa et a non fidarsi di nessuno.
La sala di questo palazzo oggi non serve più ai detti capitani di Parte perché avendo il diluvio dell'anno 1557 fatto gran danno alle scritture del Monte, il signor duca Cosimo, per maggior sicurezza delle dette scritture che sono di grandissima importanza, ha ridotta quella et il magistrato insieme, nella detta sala.
E acciò che la scala vecchia di questo palazzo serva al detto magistrato de' capitani, il quale separatosi dalla detta sala, che serve al Monte, si è in un'altra parte di quel palazzo ritirato, fu fatta da Giorgio Vasari, di commessione di sua eccellenza, la commodissima scala che oggi va in su la detta sala del Monte.
Si è fatto similmente, col disegno del medesimo, un palco a quadri, e fattolo posare, secondo l'ordine di Filippo, sopra alcuni pilastri acanalati di macigno.
Era una quaresima, in S.
Spirito di Fiorenza, stato predicato da maestro Francesco Zoppo, allora molto grato a quel popolo e raccomandato molto il convento, lo studio de' giovani e particularmente la chiesa arsa in que' dì; onde i capi di quel quartiere, Lorenzo Ridolfi, Bartolomeo Corbinelli, Neri di Gino Capponi e Goro di Stagio Dati et altri infiniti cittadini ottennero da la Signoria di ordinar che si rifacesse la chiesa di S.
Spirito, e ne feciono provveditore Stoldo Frescobaldi.
Il quale per lo interesso che egli aveva nella chiesa vecchia, ché la capella e l'altare maggiore era di casa loro, vi durò grandissima fatica.
Anzi da principio, inanzi che si fussino riscossi i danari, secondo che erano tassati i sepultuarii e chi ci aveva cappelle, egli di suo spese molte migliaia di scudi, de' quali fu rimborsato.
Fatto dunque consiglio sopra di ciò, fu mandato per Filippo, il quale facesse un modello con tutte quelle utili et onorevoli parti che si potesse e convenissero a un tempio cristiano; laonde egli si sforzò che la pianta di quello edifizio si rivoltasse capo piedi, perché desiderava sommamente che la piazza arrivasse lungo Arno, acciò che tutti quelli che di Genova e de la Riviera, e di Lunigiana, del Pisano e del Luchese passassero di quivi, vedessino la magnificenza di quella fabbrica; ma perché certi, per non rovinare le case loro, non vollono, il disiderio di Filippo non ebbe effetto.
Egli dunque fece il modello della chiesa et insieme quello dell'abitazione de' frati in quel modo che sta oggi.
La lunghezza della chiesa fu braccia 161 e la larghezza braccia 54, e tanto ben ordinata, che non si può fare opera, per ordine di colonne e per altri ornamenti, né più ricca, né più vaga, né più ariosa di quella.
E nel vero, se non fusse stato dalla maladizione di coloro, che sempre per parere d'intendere più che gl'altri, guastano i principii belli delle cose, sarebbe questo oggi il più perfetto tempio di cristianità, così come per quanto egli è, è il più vago e meglio spartito di qualunque altro, se bene non è secondo il modello stato seguito; come si vede in certi principii di fuori che non hanno seguitato l'ordine del didentro, come pare che il modello volesse che le porte et il ricignimento delle finestre facesse.
Sonvi alcuni errori, che gli tacerò, attribuiti a lui, i quali si crede che egli se l'avesse seguitato di fabbricare non gli arebbe comportati, poiché ogni sua cosa con tanto giudizio, discrezione, ingegno et arte aveva ridotta a perfezzione.
Questa opera lo rendé medesimamente per uno ingegno veramente divino.
Fu Filippo facetissimo nel suo ragionamento e molto arguto nelle risposte, come fu quando egli volle mordere Lorenzo Ghiberti, che aveva còmpero un podere a Monte Morello, chiamato Lepriano, nel quale spendeva due volte più che non ne cavava entrata, che venutoli a fastidio lo vendé.
Domandato Filippo qual fusse la miglior cosa che facesse Lorenzo, pensando forse per la nimicizia che egli dovesse tassarlo, rispose: "Vendere Lepriano".
Finalmente divenuto già molto vecchio, cioè di anni 69, l'anno 1446, addì 16 d'aprile, se n'andò a miglior vita, dopo essersi affaticato molto in far quelle opere che gli fecero meritare in terra nome onorato e conseguire in cielo luogo di quiete.
Dolse infinitamente alla patria sua, che lo conobbe e lo stimò molto più morto, che non fece vivo; e fu sepellito con onoratissime esequie et onore in S.
Maria del Fiore, ancora che la sepoltura sua fusse in S.
Marco, sotto il pergamo verso la porta, dove è un'arme con due foglie di fico e certe onde verdi in campo d'oro per essere discesi i suoi del Ferarese, cioè da Ficaruolo, castello in sul Po, come dimostrano le foglie che denotano il luogo, e l'onde che significano il fiume.
Piansero costui infiniti suoi amici artefici, e massimamente i più poveri, quali di continuo beneficò.
Così dunque cristianamente vivendo, lasciò al mondo odore della bontà sua e delle egregie sue virtù.
Parmi che se gli possa attribuire che dagli antichi Greci e da' Romani in qua, non sia stato il più raro né il più eccellente di lui; e tanto più merita lode, quanto ne' tempi suoi era la maniera todesca in venerazione per tutta Italia, e dagli artefici vecchi esercitata, come in infiniti edifici si vede.
Egli ritrovò le cornici antiche, e l'ordine toscano, corinzio, dorico et ionico alle primiere forme restituì.
Ebbe un discepolo dal Borgo a Buggiano, detto il Buggiano, il quale fece l'acquaio della sagrestia di S.
Reparata con certi fanciulli che gettano acqua, e fece di marmo la testa del suo maestro ritratta di naturale, che fu posta dopo la sua morte in S.
Maria del Fiore alla porta a man destra, entrando in chiesa; dove ancora è il sottoscritto epitaffio, messovi dal publico per onorarlo dopo la morte, così come egli vivo aveva onorato la patria sua.
D.S.
Quantum Philippus, architectus arte daedalea valuerit, cum huius celeberrimi templi mira testudo, tum plures aliae divino ingenio ab eo adinventae machinae documento esse possunt.
Quapropter ob eximias sui animi dotes singularesque virtutes eius B.
M.
corpus.
XV.
Calendas Maias anno MCCCCXLVI, hac humo supposita grata patria sepeliri iussit.
Altri nientedimanco per onorarlo ancora maggiormente, gli hanno aggiunto questi altri due:
Philippo Brunellesco antiquae architecturae instauratori.
S.
P.
Q.
F.
civi suo benemerenti.
Giovan Battista Strozzi fece quest'altro:
Tal sopra sasso, sasso
di giro in giro eternamente io strussi:
che così passo passo
alto girando al ciel mi ricondussi.
Furono ancora suoi discepoli Domenico dal Lago di Lugano, Geremia da Cremona, che lavorò di bronzo benissimo, insieme con uno Schiavone, che fece assai cose in Vinezia; Simone, che doppo aver fatto in Or San Michele per l'Arte degli Speziali quella Madonna, morì a Vicovaro, facendo un gran lavoro al Conte di Tagliacozzo; Antonio e Niccolò fiorentini, che feciono in Ferrara, di metallo, un cavallo di bronzo per il duca Borso, l'anno 1461; et altri molti, de' quali troppo lungo sarebbe fare particolar menzione.
Fu Filippo male avventurato in alcune cose, perché, oltre che ebbe sempre con chi combattere, alcune delle sue fabbriche non ebbono al tempo suo, e non hanno poi avuto il loro fine.
E fra l'altre fu gran danno che i monaci degl'Angeli non potessero, come si è detto, finire quel tempio cominciato da lui, poiché dopo avere eglino speso in quello che si vede più di tremila scudi, avuti parte dall'Arte de' Mercatanti e parte dal Monte in sul quale erano i danari, fu dissipato il capitale, e la fabrica rimase e si sta imperfetta.
Laonde, come si disse nella vita di Niccolò da Uzzano, chi per cotal via disidera lasciare di ciò memorie, faccia da sé mentre che vive, e non si fidi di nessuno.
E quello che si dice di questo, si potrebbe dire di molti altri edifizii ordinati da Filippo Brunelleschi.
FINE DELLA VITA DI FILIPPO BRUNELLESCHI
VITA DI DONATO SCULTORE FIORENTINO
Donato, il quale fu chiamato dai suoi Donatello e così si sottoscrisse in alcune delle sue opere, nacque in Firenze l'anno 1383.
E dando opera all'arte del disegno, fu non pure scultore rarissimo e statuario maraviglioso, ma pratico negli stucchi, valente nella prospettiva, e nell'architettura molto stimato.
Et ebbono l'opere sue tanta grazia, disegno e bontà, ch'oltre furono tenute più simili all'eccellenti opere degl'antichi Greci e Romani, che quelle di qualunche altro fusse già mai; onde a gran ragione se gli dà grado del primo che mettesse in buono uso l'invenzione delle storie ne' bassi rilievi.
I quali da lui furono talmente operati, che alla considerazione che egli ebbe in quelli, alla facilità et al magisterio, si conosce che n'ebbe la vera intelligenza e gli fece con bellezza più che ordinaria; perciò che non che alcuno artefice in questa parte lo vincesse, ma nell'età nostra ancora non è chi l'abbia paragonato.
Fu allevato Donatello da fanciullezza in casa di Ruberto Martelli, e per le buone qualità e per lo studio della virtù sua, non solo meritò d'essere amato da lui, ma ancora da tutta quella nobile famiglia.
Lavorò nella gioventù sua molte cose delle quali, perché furono molte, non si tenne gran conto.
Ma quello che gli diede nome e lo fece, per quello che egli era, conoscere, fu una Nunziata di pietra di macigno, che in Santa Croce di Fiorenza fu posta all'altare e cappella de' Cavalcanti, alla quale fece un ornato di componimento alla grottesca, con basamento vario et attorto e finimento a quarto tondo, aggiugnendovi sei putti che reggono alcuni festoni, i quali pare che per paura dell'altezza, tenendosi abbracciati l'un l'altro, si assicurino.
Ma sopra tutto grande ingegno et arte mostrò nella figura della Vergine, la quale, impaurita dall'improvviso apparire dell'Angelo, muove timidamente con dolcezza la persona a una onestissima reverenza, con bellissima grazia rivolgendosi a chi la saluta.
Di maniera che se le scorge nel viso quella umilità e gratitudine, che del non aspettato dono si deve a chi lo fa, e tanto più quanto il dono è maggiore.
Dimostrò oltra questo Donato ne' panni di essa Madonna e dell'Angelo, lo essere bene rigirati e maestrevolmente piegati; e col cercare l'ignudo delle figure, come e' tentava di scoprire la bellezza degl'antichi, stata nascosa già cotanti anni.
E mostrò tanta facilità et artifizio in questa opera, che insomma più non si può, dal disegno e dal giudizio, dallo scarpello e dalla pratica, disiderare.
Nella chiesa medesima sotto il tramezzo, a lato della storia di Taddeo Gaddi, fece con straordinaria fatica un Crucifisso di legno, il quale quando ebbe finito, parendogli aver fatto una cosa rarissima, lo mostrò a Filippo di ser Brunellesco suo amicissimo, per averne il parere suo; il quale Filippo, che per le parole di Donato aspettava di vedere molto miglior cosa, come lo vide sorrise alquanto.
Il che vedendo Donato, lo pregò, per quanta amicizia era fra loro, che gliene dicesse il parer suo; per che Filippo, che liberalissimo era, rispose che gli pareva che egli avesse messo in croce un contadino e non un corpo simile a Gesù Cristo, il quale fu delicatissimo, et in tutte le parti il più perfetto uomo che nascesse già mai.
Udendosi mordere Donato, e più a dentro che non pensava, dove sperava essere lodato, rispose: "Se così facile fusse fare come giudicare, il mio Cristo ti parrebbe Cristo, e non un contadino: però piglia del legno e pruova a farne uno ancor tu".
Filippo, senza più farne parola, tornato a casa, senza che alcuno lo sapesse, mise mano a fare un Crucifisso, e cercando d'avanzare, per non condannar il proprio giudizio, Donato, lo condusse dopo molti mesi a somma perfezzione.
E ciò fatto, invitò una mattina Donato a desinar seco, e Donato accettò l'invito.
E così, andando a casa di Filippo di compagnia, arivati in Mercato Vecchio, Filippo comperò alcune cose, e datole a Donato, disse: "Aviati con queste cose a casa, e lì aspettami, che io ne vengo or ora".
Entrato dunque Donato in casa, giunto che fu in terreno, vide il Crucifisso di Filippo a un buon lume, e fermatosi a considerarlo, lo trovò così perfettamente finito, che vinto e tutto pieno di stupore, come fuor di sé, aperse le mani che tenevano il grembiule.
Onde cascatogli l'uova, il formaggio e l'altre robe tutte, si versò e fracassò ogni cosa; ma non restando però di far le maraviglie e star come insensato, sopragiunto Filippo, ridendo disse: "Che disegno è il tuo, Donato? Che desinaremo noi avendo tu versato ogni cosa?".
"Io per me", rispose Donato, "ho per istamani avuta la parte mia, se tu vuoi la tua, pigliatela.
Ma non più, a te è conceduto fare i Cristi, et a me i contadini."
Fece Donato, nel tempio di San Giovanni della medesima città, la sepoltura di papa Giovanni Coscia, stato deposto del pontificato dal Concilio Costanziese; la quale gli fu fatta fare da Cosimo de' Medici, amicissimo del detto Coscia; et in essa fece Donato di sua mano il morto di bronzo dorato, e di marmo la Speranza e Carità che vi sono; e Michelozzo creato suo vi fece la Fede.
Vedesi nel medesimo tempio, e dirimpetto a quest'opera, di mano di Donato una Santa Maria Maddalena di legno in penitenza, molto bella e molto ben fatta, essendo consumata dai digiuni e dall'astinenza, intanto che pare in tutte le parti una perfezzione di notomia benissimo intesa per tutto.
In Mercato Vecchio, sopra una colonna di granito, è di mano di Donato una Dovizia di macigno forte, tutta isolata, tanto ben fatta che dagl'artefici e da tutti gl'uomini intendenti è lodata sommamente.
La qual colonna, sopra cui è questa statua collocata, era già in San Giovanni, dove sono l'altre di granito che sostengono l'ordine di dentro, e ne fu levata, et in suo cambio postavi un'altra colonna accanalata, sopra la quale stava già, nel mezzo di quel tempio, la statua di Marte che ne fu levata quando i Fiorentini furono alla fede di Gesù Cristo convertiti.
Fece il medesimo, essendo ancor giovanetto, nella facciata di Santa Maria del Fiore, un Daniello profeta di marmo, e dopo un San Giovanni Evangelista che siede, di braccia quattro e con semplice abito vestito, il quale è molto lodato.
Nel medesimo luogo si vede in sul cantone, per la faccia ch'è rivolta per andare nella via del Cocomero, un vecchio fra due colonne, più simile alla maniera antica che altra cosa che di Donato si possa vedere, conoscendosi nella testa di quello i pensieri che arrecano gl'anni a coloro che sono consumati dal tempo e dalla fatica.
Fece ancora, dentro la detta chiesa, l'ornamento dell'organo che è sopra la porta della sagrestia vecchia, con quelle figure abozzate, come si è detto, che a guardarle pare veramente che siano vive e si muovino.
Onde di costui si può dire che tanto lavorasse col giudizio, quanto con le mani, atteso che molte cose si lavorano e paiono belle nelle stanze dove son fatte, che poi cavate di quivi e messe in un altro luogo et a un altro lume, o più alto, fanno varia veduta, e riescono il contrario di quello che parevano; là dove Donato faceva le sue figure, di maniera che nella stanza dove lavorava non apparivano la metà di quello che elle riuscivano migliori ne' luoghi dove ell'erano poste.
Nella sagrestia nuova, pur di quella chiesa, fece il disegno di que' fanciulli che tengono i festoni che girano intorno al fregio, e così il disegno delle figure, che si feciono nel vetro dell'occhio che è sotto la cupola, cioè quello dove è l'incoronazione di Nostra Donna, il quale disegno è tanto migliore di quelli che sono negl'altri occhi, quanto manifestamente si vede.
A San Michele in Orto di detta città, lavorò di marmo, per l'Arte de' Beccai, la statua del San Piero, che vi si vede figura savissima e mirabile; e per l'Arte de' Linaiuoli il San Marco Evangelista, il quale avendo egli tolto a fare insieme con Filippo Brunelleschi finì poi da sé, essendosi così Filippo contentato.
Questa figura fu da Donatello con tanto giudizio lavorata, che essendo in terra non conosciuta la bontà sua da chi non aveva giudizio, fu per non essere dai Consoli di quell'Arte lasciata porre in opera; per il che disse Donato che gli lasciassero metterla su, che voleva mostrare, lavorandovi attorno, che un'altra figura e non più quella ritornerebbe.
E così fatto, la turò per quindici giorni, senza altrimenti averla tocca, la scoperse, riempiendo di maraviglia ognuno.
All'Arte de' Corazzai fece una figura di S.
Giorgio armato, vivissima; nella testa della quale si conosce la bellezza nella gioventù, l'animo et il valore nelle armi, una vivacità fieramente terribile et un maraviglioso gesto di muoversi dentro a quel sasso.
E certo nelle figure moderne non s'è veduta ancora tanta vivacità, né tanto spirito in marmo, quanto la natura e l'arte operò con la mano di Donato in questa.
E nel basamento che regge il tabernacolo di quella, lavorò di marmo in basso rilievo, quando egli amazza il serpente, ove è un cavallo molto stimato e molto lodato.
Nel frontispizio fece di basso rilievo mezzo un Dio Padre, e dirimpetto alla chiesa di detto oratorio, lavorò di marmo e con l'ordine antico detto corinzio, fuori d'ogni maniera todesca, il tabernacolo per la Mercatanzia per collocare in esso due statue, le quali non volle fare perché non fu d'accordo del prezzo.
Queste figure, dopo la morte sua, fece di bronzo, come si dirà, Andrea del Verrochio.
Lavorò di marmo, nella facciata dinanzi del Campanile di S.
Maria del Fiore, quattro figure di braccia cinque, delle quali due, ritratte dal naturale, sono nel mezzo, l'una è Francesco Soderini giovane, e l'altra Giovanni di Barduccio Cherichini, oggi nominato il Zuccone.
La quale per essere tenuta cosa rarissima e bella quanto nessuna che facesse mai, soleva Donato, quando voleva giurare, sì che si gli credesse, dire: "Alla fe' ch'io porto al mio Zuccone", e mentre che lo lavorava, guardandolo tuttavia gli diceva: "Favella, favella, che ti venga il cacasangue!".
E da la parte di verso la canonica, sopra la porta del campanile, fece uno Abraam che vuole sacrificare Isaac, et un altro profeta, le quali figure furono poste in mezzo a due altre statue.
Fece per la Signoria di quella città un getto di metallo, che fu locato in piazza in un arco della loggia loro, et è Giudit che ad Oloferne taglia la testa, opera di grande eccellenza e magisterio, la quale, a chi considera la semplicità del difuori, nell'abito e nello aspetto di Giudit, manifestamente scuopre nel didentro l'animo grande di quella donna e lo aiuto di Dio, sì come nell'aria di esso Oloferne, il vino et il sonno e la morte nelle sue membra, che per avere perduti gli spiriti si dimostrano fredde e cascanti.
Questa fu da Donato talmente condotta, che il getto venne sottile e bellissimo, et appresso fu rinetta tanto bene, che maraviglia grandisima è a vederla.
Similmente il basamento, ch'e un balaustro di granito con semplice ordine, si dimostra ripieno di grazia et a gli occhi grato in aspetto.
E sì di questa opra si sodisfece, che volle, il che non aveva fatto nell'altre, porvi il nome suo, come si vede in quelle parole: Donatelli opus.
Trovasi di bronzo, nel cortile del palazzo di detti signori, un David ignudo quanto il vivo, ch'a Golia ha troncato la testa, et alzando un piede, sopra esso lo posa, et ha nella destra una spada.
La quale figura è tanto naturale nella vivacità e nella morbidezza che impossibile pare agli artefici che ella non sia formata sopra il vivo.
Stava già questa statua nel cortile di casa Medici, e per lo essilio di Cosimo in detto luogo fu portata.
Oggi il duca Cosimo, avendo fatto dove era questa statua una fonte, la fece levare, e si serba per un altro cortile, che grandissimo disegna fare dalla parte di dietro del palazzo, cioè dove già stavano i leoni.
È posto ancora nella sala dove è l'oriuolo di Lorenzo della Volpaia, da la mano sinistra, un David di marmo bellissimo, che tiene fra le gambe la testa morta di Golia sotto i piedi, e la fromba ha in mano, con la quale l'ha percosso.
In casa Medici, nel primo cortile, sono otto tondi di marmo, dove sono ritratti cammei antichi e rovesci di medaglie et alcune storie fatte da lui molto belle, quali sono murati nel fregio, fra le finestre e l'architrave, sopra gli archi delle logge.
Similmente la restaurazione d'un Marsia di marmo bianco antico, posto all'uscio del giardino, et una infinità di teste antiche poste sopra le porte, restaurate e da lui acconce con ornamenti d'ali e di diamanti, impresa di Cosimo, a stucchi benissimo lavorati.
Fece di granito un bellissimo vaso che gettava acqua; et al giardino de' Pazzi in Fiorenza, un altro simile ne lavorò che medesimamente getta acqua.
Sono in detto palazzo de' Medici Madonne di marmo e di bronzi di basso rilievo, et altre storie di marmi, di figure bellissime e di schiacciato rilievo maravigliose.
E fu tanto l'amore che Cosimo portò alla virtù di Donato, che di continuo lo faceva lavorar; et allo incontro ebbe tanto amore verso Cosimo Donato ch'ad ogni minimo suo cenno indovinava tutto quel che voleva, e di continuo lo ubbidiva.
Dicesi che un mercante genovese fece fare a Donato una testa di bronzo quanto il vivo, bellissima, e per portarla lontano sottilissima, e che per mezzo di Cosimo tale opra gli fu allogata.
Finitala adunque, volendo il mercante sodisfarlo, gli parve che Donato troppo ne chiedesse, per che fu rimesso in Cosimo il mercato, il quale, fattala portare in sul cortile disopra di quel palazzo, la fece porre fra i merli che guardano sopra la strada, perché meglio si vedesse.
Cosimo dunque, volendo accomodare la differenza, trovò il mercante molto lontano da la chiesta di Donato; per che, voltatosi, disse ch'era troppo poco.
Laonde il mercante, parendogli troppo, diceva che in un mese o poco più lavorata l'aveva Donato, e che gli toccava più d'un mezzo fiorino per giorno.
Si volse allora Donato con collera, parendogli d'essere offeso troppo, e disse al mercante che in un centesimo d'ora averebbe saputo guastare la fatica e 'l valore d'uno anno; e dato d'urto alla testa, subito su la strada la fece ruinare, della quale se ne fer molti pezzi, dicendogli che ben mostrava d'essere uso a mercatar fagiuoli e non statue.
Per che egli pentitosi, gli volle dare il doppio più, perché la rifacesse, e Donato non volle per sue promesse, né per prieghi di Cosimo, rifarla già mai.
Sono nelle case de' Martelli di molte storie di marmo e di bronzo, et infra gli altri, un David di braccia tre, e molte altre cose da lui, in fede della servitù e dell'amore ch'a tal famiglia portava, donate liberalissimamente; e particularmente un S.
Giovanni tutto tondo di marmo, finito da lui, di tre braccia d'altezza, cosa rarissima oggi in casa gli eredi di Ruberto Martelli, del quale fu fatto un fideicommisso, che né impegnare né vendere né donare si potesse, senza gran pregiudizio per testimonio e fede delle carezze usate da loro a Donato, e da esso a loro in riconoscimento de la virtù sua, la quale per la protezzione e per il comodo avuto da loro aveva imparata.
Fece ancora, e fu mandata a Napoli, una sepoltura di marmo per uno arcivescovo, che è in S.
Angelo di Seggio di Nido, nella quale son tre figure tonde, che la cassa del morto con la testa sostengono, e nel corpo della cassa è una storia di basso rilievo sì bella, che infinite lode se le convengono.
Et in casa del Conte di Matalone, nella città medesima, è una testa di cavallo di mano di Donato tanto bella che molti la credono antica.
Lavorò nel castello di Prato il pergamo di marmo dove si mostra la cintola, nello spartimento del quale un ballo di fanciulli intagliò sì belli e sì mirabili che si può dire che non meno mostrasse la perfezzione dell'arte in questo che e' si facesse nelle altre cose.
Di più fece, per reggimento di detta opera, due capitelli di bronzo, uno dei quali vi è ancora, e l'altro dagli Spagnuoli, che quella terra misero a sacco, fu portato via.
Avvenne che in quel tempo la Signoria di Vinegia, sentendo la fama sua, mandò per lui acciò che facesse la memoria di Gattamelata nella città di Padova, onde egli vi andò ben volentieri, e fece il cavallo di bronzo che è in sulla piazza di S.
Antonio; nel quale si dimostra lo sbuffamento et il fremito del cavallo et il grande animo e la fierezza vivacissimamente espressa dalla arte nella figura che lo cavalca.
E dimostrossi Donato tanto mirabile nella grandezza del getto in proporzioni et in bontà, che veramente si può aguagliare a ogni antico artefice, in movenza, disegno, arte, proporzione e diligenza.
Perché non solo fece stupire allora que' che lo videro, ma ogni persona che al presente lo vede.
Per la qual cosa cercarono i Padovani con ogni via di farlo lor cittadino, e con ogni sorte di carezze fermarlo.
E per intrattenerlo gli allogarono a la chiesa de' Frati Minori, nella predella dello altar maggiore, le istorie di S.
Antonio da Padova, le quali sono di basso rilievo e talmente con giudicio condotte, che gli uomini eccellenti di quell'arte ne restano maravigliati e stupiti; considerando in esse i belli e variati componimenti, con tanta copia di stravaganti figure e prospettive diminuiti.
Similmente nel dossale dello altare, fece bellissime le Marie che piangono il Cristo morto.
Et in casa d'un de' conti Capo di Lista, lavorò una ossatura d'un cavallo di legname che senza collo ancora oggi si vede, nella quale le commettiture sono con tanto ordine fabbricate che chi considera il modo di tale opera giudica il capriccio del suo cervello e la grandezza dello animo di quello.
In un monastero di monache fece un S.
Sebastiano di legno, a' preghi d'un capellano loro amico e domestico suo, che era fiorentino; il quale gliene portò uno che elle avevano vecchio e goffo, pregandolo che e' lo dovesse fare come quello.
Per la qual cosa, sforzandosi Donato di imitarlo per contentare il capellano e le monache, non poté far sì che, ancora che quello che goffo era, imitato avesse, non facesse nel suo la bontà e l'artificio usato.
In compagnia di questo, molte altre figure di terra e di stucco fece; e di un cantone d'un pezzo di marmo vecchio, che le dette monache in un loro orto avevano, ricavò una molto bella Nostra Donna.
E similmente per tutta quella città sono opre di lui infinitissime.
Onde, essendo per miracolo quivi tenuto e da ogni intelligente lodato, si deliberò di voler tornare a Fiorenza, dicendo che se più stato vi fosse, tutto quello che sapeva dimenticato s'averebbe, essendovi tanto lodato da ognuno; e che volentieri nella sua patria tornava, per esser poi colà di continuo biasimato; il quale biasmo gli dava cagione di studio, e consequentemente di gloria maggiore.
Per il che, di Padova partitosi, nel suo ritorno a Vinegia, per memoria della bontà sua, lasciò in dono alla nazione fiorentina per la loro cappella ne' Frati Minori, un S.
Giovan Batista di legno, lavorato da lui con diligenza e studio grandissimo.
Nella città di Faenza lavorò di legname un S.
Giovanni et un S.
Girolamo, non punto meno stimati che l'altre cose sue.
Appresso, ritornatosene in Toscana, fece nella Pieve di Monte Pulciano una sepoltura di marmo con una bellissima storia, et in Fiorenza, nella sagrestia di S.
Lorenzo, un lavamani di marmo, nel quale lavorò parimente Andrea Verrocchio.
Et in casa di Lorenzo della Stuffa fece teste e figure molto pronte e vivaci.
Partitosi poi da Fiorenza, a Roma si trasferì, per cercar d'imitare le cose degli antichi più che poté, e quelle studiando, lavorò di pietra in quel tempo un tabernacolo del Sacramento che oggidì si truova in S.
Pietro.
Ritornando a Fiorenza, e da Siena passando, tolse a fare una porta di bronzo per il batistero di S.
Giovanni, et avendo fatto il modello di legno e le forme di cera quasi tutte finite, et a buon termine con la cappa condottele per gittarle, vi capitò Bernardetto di Mona Papera orafo fiorentino, amico e domestico suo, il quale, tornando da Roma, seppe tanto fare e dire che, o per sue bisogne, o per altra cagione, ricondusse Donato a Firenze, onde quell'opera rimase imperfetta, anzi non cominciata.
Solo restò, nell'opera del Duomo di quella città, di sua mano, un S.
Giovanni Battista di metallo, al quale manca il braccio destro dal gomito in su, e ciò si dice avere fatto Donato per non essere stato sodisfatto dell'intero pagamento.
Tornato dunque a Firenze, lavorò a Cosimo de' Medici, in S.Lorenzo, la sagrestia di stucco, cioè ne' peducci della volta quattro tondi co' campi di prospettiva, parte dipinti e parte di bassi rilievi di storie degl'Evangelisti.
Et in detto luogo fece due porticelle di bronzo di basso rilievo bellissime, con gli Apostoli, co' martiri e' confessori; e sopra quelle alcune nicchie piane, dentrovi nell'una un San Lorenzo et un S.
Stefano; e nell'altra S.
Cosimo e Damiano.
Nella crociera della chiesa lavorò di stucco quattro santi di braccia cinque l'uno, i quali praticamente sono lavorati.
Ordinò ancora i pergami di bronzo dentrovi la passion di Cristo; cosa che ha in sé disegno, forza, invenzione et abbondanza di figure e casamenti, quali non potendo egli per vecchiezza lavorare, finì Bertoldo suo creato et a ultima perfezzione li ridusse.
A Santa Maria del Fiore fece due colossi di mattoni e di stucco, i quali sono fuora della chiesa, posti in sui canti delle cappelle per ornamento.
Sopra la porta di Santa Croce si vede ancor oggi, finito di suo, un San Lodovico di bronzo di cinque braccia, del quale, essendo incolpato che fosse goffo e forse la manco buona cosa che avesse fatto mai, rispose che a bello studio tale l'aveva fatto, essendo egli stato un goffo a lasciare il reame per farsi frate.
Fece il medesimo la testa della moglie del detto Cosimo de' Medici, di bronzo, la quale si serba nella guardaroba del signor duca Cosimo, dove sono molte altre cose di bronzo e di marmo, di mano di Donato; e fra l'altre, una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, dentro nel marmo di schiacciato rilievo de la quale non è possibile vedere cosa più bella: e massimamente avendo un fornimento intorno, di storie fatte di minio da fra' Bartolomeo che sono mirabili, come si dirà al suo luogo.
Di bronzo ha il detto signor duca, di mano di Donato, un bellissimo, anzi miracoloso Crucifisso, nel suo studio dove sono infinite anticaglie rare e medaglie bellissime.
Nella medesima guardaroba è in un quadro di bronzo di basso rilievo, la Passione di Nostro Signore con gran numero di figure; et in un altro quadro pur di metallo, un'altra Crucifissione.
Similmente in casa degli eredi di Iacopo Caponi, che fu ottimo cittadino e vero gentiluomo, è un quadro di Nostra Donna di mezzo rilievo nel marmo, che è tenuto cosa rarissima.
Messer Antonio de' Nobili ancora, il quale fu depositario di sua eccellenza, aveva in casa un quadro di marmo, di mano di Donato, nel quale è di basso rilievo una mezza Nostra Donna tanto bella, che detto Messer Antonio la stimava quanto tutto l'aver suo.
Né meno fa Giulio suo figliuolo, giovane di singolar bontà e giudizio et amator de' virtuosi e di tutti gl'uomini eccellenti.
In casa ancora di Giovambatista d'Agnol Doni, gentiluomo fiorentino, è un Mercurio di metallo, di mano di Donato, alto un braccio e mezzo, tutto tondo, e vestito in un certo modo bizzarro, il quale è veramente bellissimo e non men raro che l'altre cose che adornano la sua bellissima casa.
Ha Bartolomeo Gondi, del quale si è ragionato nella vita di Giotto, una Nostra Donna di mezzo rilievo fatta da Donato con tanto amore e diligenza, che non è possibile veder meglio, né imaginarsi come Donato scherzasse nell'acconciatura del capo e nella leggiadria dell'abito, ch'ell'ha indosso.
Parimente Messer Lelio Torelli, primo auditore e segretario del signor duca, e non meno amator di tutte le scienze, virtù e professioni onorate, che eccellentissimo iurisconsulto, ha un quadro di Nostra Donna di marmo, di mano dello stesso Donatello.
Del quale chi volesse pienamente raccontare la vita, l'opere che fece, sarebbe troppo più lunga storia che non è di nostra intenzione nello scrivere le Vite de' nostri artefici; perciò che, non che nelle cose grandi delle quali si è detto a bastanza, ma ancora a menomissime cose dell'arte pose la mano, facendo arme di casate ne' camini e nelle facciate delle case de' cittadini, come si può vederne una bellissima, nella casa [de' Sommai] che è dirimpetto al fornaio della Vacca.
Fece anco, per la famiglia de' Martelli, una cassa a uso di zana fatta di vimini, perché servisse per sepoltura; ma è sotto la chiesa di San Lorenzo, perché di sopra non appariscono sepolture di nessuna sorte, se non l'epitaffio di quella di Cosimo de' Medici, che nondimeno ha la sua apritura di sotto come l'altre.
Dicesi che Simone, fratello di Donato, avendo lavorato il modello della sepoltura di papa Martino Quinto, mandò per Donato, che la vedesse inanzi che la gettasse.
Onde, andando Donato a Roma, vi si trovò appunto quando vi era Gismondo imperatore per ricevere la corona da papa Eugenio Quarto; per che fu forzato, in compagnia di Simone, adoperarsi in fare l'onoratissimo apparato di quella festa, nel che si acquistò fama et onore grandissimo.
Nella guardaroba ancora del signor Guidobaldo, duca d'Urbino, è di mano del medesimo una testa di marmo bellissima, e si stima che fusse data agli antecessori di detto duca dal Magnifico Giuliano de' Medici, quando si tratteneva in quella corte piena di virtuosissimi signori.
Insomma Donato fu tale e tanto mirabile in ogni azzione, che e' si può dire che in pratica, in giudizio et in sapere, sia stato de' primi a illustrare l'arte della scultura e del buon disegno ne' moderni; e tanto più merita commendazione, quanto nel tempo suo le antichità non erano scoperte sopra la terra, dalle colonne, i pili e gli archi trionfali in fuora.
Et egli fu potissima cagione che a Cosimo de' Medici si destasse la volontà dell'introdurre a Fiorenza le antichità, che sono et erano in casa Medici, le quali tutte di sua mano acconciò.
Era liberalissimo, amorevole e cortese, e per gl'amici migliore che per sé medesimo; né mai stimò danari, tenendo quegli in una sporta con una fune al palco appiccati, onde ogni suo lavorante et amico pigliava il suo bisogno, senza dirgli nulla.
Passò la vecchiezza allegrissimamente, e venuto in decrepità, ebbe ad essere soccorso da Cosimo e da altri amici suoi, non potendo più lavorare.
Dicesi che venendo Cosimo a morte lo lasciò raccomandato a Piero suo figliuolo, il quale, come diligentissimo esecutore della volontà di suo padre, gli donò un podere in Cafaggiuolo, di tanta rendita che e' ne poteva vivere comodamente.
Di che fece Donato festa grandissima, parendoli essere con questo più che sicuro di non avere a morir di fame.
Ma non lo tenne però un anno, che ritornato a Piero, glielo rinunziò per contratto publico, affermando che non voleva perdere la sua quiete per pensare alla cura famigliare et alla molestia del contadino, il quale ogni terzo dì gli era intorno, quando perché il vento gli aveva scoperta la colombaia, quando perché gli erano tolte le bestie dal Commune per le gravezze, e quando per la tempesta che gli aveva tolto il vino e le frutte.
Delle quali cose era tanto sazio et infastidito, che e' voleva innanzi morir di fame che avere a pensare a tante cose.
Rise Piero della semplicità di Donato, e per liberarlo di questo affanno, accettato il podere, che così volle al tutto Donato, gli assegnò in sul banco suo una provisione della medesima rendita, o più, ma in danari contanti, che ogni settimana gli erano pagati per la rata che gli toccava; del che egli sommamente si contentò.
E servitore et amico della casa de' Medici, visse lieto e senza pensieri tutto il restante della sua vita, ancora che conduttosi ad 83 anni, si trovasse tanto parletico che e' non potesse più lavorare in maniera alcuna, e si conducesse a starsi nel letto continovamente, in una povera casetta che aveva nella via del Cocomero, vicino alle monache di San Niccolò.
Dove peggiorando di giorno in giorno, e consumandosi a poco a poco, si morì il dì 13 di dicembre 1466.
E fu sotterrato nella chiesa di San Lorenzo, vicino alla sepoltura di Cosimo, come egli stesso aveva ordinato, a cagione che così gli fusse vicino il corpo già morto, come vivo sempre gli era stato presso con l'animo.
Dolse infinitamente la morte sua a' cittadini, agli artefici et a chi lo conobbe vivo.
Laonde, per onorarlo più nella morte che e' non avevano fatto nella vita, gli fecero essequie onoratissime nella predetta chiesa; accompagnandolo tutti i pittori, gli architetti, gli scultori, gli orefici e quasi tutto il popolo di quella città.
La quale non cessò per lungo tempo di componere in sua lode varie maniere di versi in diverse lingue, de' quali a noi basta por questi soli che disotto si leggono.
Ma prima che io venga agl'epitaffii, non sarà se non bene ch'io racconti di lui ancor questo.
Essendo egli amalato, poco inanzi che si morisse, l'andarono a trovare alcuni suoi parenti, e poi che l'ebbono, come s'usa, salutato e confortato, gli dissero che suo debito era lasciar loro un podere che egli aveva in quel di Prato, ancor che piccolo fusse e di pochissima rendita, e che di ciò lo pregavano strettamente.
Ciò udito Donato, che in tutte le sue cose aveva del buono, disse loro: "Io non posso compiacervi, parenti miei, perché io voglio, e così mi pare ragionevole, lasciarlo al contadino che l'ha sempre lavorato e vi ha durato fatica; e non a voi, che senza avergli mai fatto utile nessuno, né altro che pensar d'averlo, vorreste con questa vostra visita che io ve lo lasciassi; andate, che siate benedetti".
E in verità così fatti parenti, che non hanno amore se non quanto è l'utile o la speranza di quello, si deono in questa guisa trattare.
Fatto dunque venire il notaio, lasciò il detto podere al lavoratore che sempre l'aveva lavorato, e che forse nelle bisogne sue si era meglio, che que' parenti fatto non avevano, verso di sé portato.
Le cose dell'arte lasciò ai suoi discepoli, i quali furono: Bertoldo scultore fiorentino, che l'imitò assai, come si può vedere in una battaglia in bronzo d'uomini a cavallo, molto bella, la quale è oggi in guardaroba del signor duca Cosimo, Nanni d'Anton di Banco, che morì inanzi a lui, il Rossellino, Disiderio e Vellano da Padoa.
Et insomma dopo la morte di lui si può dire che suo discepolo sia stato chiunche ha voluto far bene di rilievo.
Nel disegnar fu risoluto, e fece i suoi disegni con sì fatta pratica e fierezza, che non hanno pari, come si può vedere nel nostro libro, dove ho di sua mano disegnate figure vestite e nude, animali, che fanno stupire chi gli vede et altre così fatte cose bellissime.
Il ritratto suo fu fatto da Paulo Ucelli, come si è detto nella sua vita.
Gl'epitaffii son questi:
Sculptura H.
M.
a Florentinis fieri voluit Donatello, utpote homini, qui ei, quod jam diu optimis artificibus multisque saeculis, tum nobilitatis tum nominis acquisitum fuerat, iniuriave tempor.
perdiderat ipsa, ipse unus una vita infinitisque operibus cumulatiss.
restituerit, et patriae benemerenti huius restitutae virtutis palmam reportarit.
Excudit nemo spirantia mollius aera:
vera cano: cernes marmora viva loqui.
Graecorum sileat prisca admirabilis aetas
compendibus statuas continuisse Rhodon.
Nectere namque magis fuerant haec vincula digna
istius egregias artificis statuas.
Quanto con dotta mano alla scultura
già fecer molti, or sol Donato ha fatto:
renduto ha vita a' marmi, affetto et atto:
che più, se non parlar, può dar natura?
Delle opere di costui restò così pieno il mondo, che bene si può affermare con verità nessuno artefice aver mai lavorato più di lui.
Imperò che, dilettandosi d'ogni cosa, a tutte le cose mise le mani, senza guardare che elle fossero o vili o di pregio.
E fu nientedimanco necessarissimo alla scultura il tanto operare di Donato in qualunque spezie di figure tonde, mezze, basse e bassissime; per che sì come ne' tempi buoni degli antichi Greci e Romani, i molti la fecero venir perfetta, così egli solo con la moltitudine delle opere, la fece ritornare perfetta e maravigliosa nel secol nostro.
Laonde gli artefici debbono riconoscere la grandezza della arte, più da costui che da qualunche altro che sia nato modernamente, avendo egli oltra il facilitare le difficultà della arte, con la copia delle opre sue congiunto insieme la invenzione, il disegno, la pratica, il giudizio et ogni altra parte, che da un ingegno divino si possa o debbia mai aspettare.
Fu Donato resolutissimo e presto, e con somma facilità condusse tutte le cose sue, et operò sempremai assai più di quello che e' promise.
Rimase a Bertoldo, suo creato, ogni suo lavoro; e massimamente i pergami di bronzo di S.
Lorenzo che da lui furono poi rinetti la maggior parte, e condotti a quel termine che e' si veggono in detta chiesa.
Non tacerò che avendo il dottissimo e molto reverendo don Vincenzio Borghini, del quale si è di sopra ad altro proposito ragionato, messo insieme in un gran libro infiniti disegni d'eccellenti pittori e scultori, così antichi come moderni, egli in due carte, dirimpetto l'una all'altra, dove sono disegni di mano di Donato e di Michelagnolo Bonarroti, ha fatto nell'ornamento, con molto giudizio, questi due motti greci: a Donato: "e Donatos Bonarreraotizei" et a Michelagnolo, "e Bonarreraeotos Donatizei" in latino suonano: Aut Donatus Bonarrotum exprimit et refert, aut Bonarrotus Donatum.
E nella nostra lingua: O lo spirito di Donato opera nel Buonarroto, o quello di Buonarroto antecipò di operare in Donato.
FINE DELLA VITA DI DONATO SCULTORE FIORENTINO
VITA DI MICHELOZZO MICHELOZZI PITTORE SCULTORE ET ARCHITETTO FIORENTINO
Se chiunche in questo mondo vive, credesse d'avere a vivere quando non si può più operare, non si condurrebbono molti a mendicare nella loro vecchiezza quello che senza risparmio alcuno consumarono in gioventù, quando i copiosi e larghi guadagni, acecando il vero discorso, gli facevano spendere oltre il bisogno, e molto più che non conveniva.
Imperò che, atteso quanto mal volentieri è veduto chi da molto è venuto al poco, deve ognuno ingegnarsi onestamente però e con la via del mezzo di non avere in vecchiezza a mendicare.
E chi farà come Michelozzo, il quale in questo non imitò Donato suo maestro, ma sì bene nelle virtù, viverà onoratamente tutto il tempo di sua vita e non averà bisogno negl'ultimi anni d'andarsi procacciando miseramente il vivere.
Attese dunque Michelozzo nella sua giovinezza con Donatello alla scultura et ancora al disegno; e quantunque gli si dimostrasse difficile, s'andò sempre nondimeno aiutando con la terra, con la cera e col marmo, di maniera che nell'opre che egli fece poi, mostrò sempre ingegno e gran virtù.
Ma in una avanzò molti e se stesso, cioè che dopo il Brunellesco fu tenuto il più ordinato architettore de' tempi suoi, e quello che più agiatamente dispensasse et accomodasse l'abitazioni de' palazzi, conventi e case, e quello che con più giudizio le ordinasse meglio, come a suo luogo diremo.
Di costui si valse Donatello molti anni, perché aveva gran pratica nel lavorare di marmo e nelle cose de' getti di bronzo; come ne fa fede in S.
Giovanni di Fiorenza nella sepoltura che fu fatta, come si disse, da Donatello per papa Giovanni Coscia, perché la maggior parte fu condotta da lui, e vi si vede ancora di sua mano una statua di braccia due e mezzo, d'una Fede che v'è di marmo molto bella, in compagnia d'una Speranza e Carità fatta da Donatello della medesima grandezza, che non perde da quelle.
Fece ancora Michelozzo sopra alla porta della sagrestia et Opera dirimpetto a S.
Giovanni, un San Giovannino di tondo rilievo lavorato con diligenza; il qual fu lodato assai.
Fu Michelozzo tanto familiare di Cosimo de' Medici, che conosciuto l'ingegno suo, gli fece fare il modello della casa e palazzo che è sul canto di via Larga, di costa a S.
Giovannino, parendogli che quello che aveva fatto (come si disse) Filippo di ser Brunellesco fusse troppo sontuoso e magnifico e da recargli fra i suoi cittadini piuttosto invidia che grandezza o ornamento alla città o comodo a sé; per il che piaciutoli quello che Michelozzo aveva fatto, con suo ordine lo fece condurre a perfezzione in quel modo che si vede al presente, con tante utili e belle commodità e graziosi ornamenti, quanto si vede; i quali hanno maestà e grandezza nella simplicità loro; e tanto più merita lode Michelozzo, quanto questo fu il primo che in quella città fusse stato fatto con ordine moderno, e che avesse in sé uno spartimento di stanze utili e bellissime.
Le cantine sono cavate mezze sotto terra, cioè 4 braccia e tre sopra per amore de' lumi, et accompagnate da canove e dispense.
Nel primo piano terreno sono due cortili con logge magnifiche, nelle quali rispondono salotti, camere, anticamere, scrittoi, destri, stufe, cucine, pozzi, scale segrete e publiche agiatissime.
E sopra ciascun piano sono abitazioni e appartamenti per una famiglia, con tutte quelle commodità che possono bastare, nonché a un cittadino privato com'era allora Cosimo, ma a qual si voglia splendidissimo et onoratissimo re, onde a' tempi nostri vi sono allogiati comodamente re, imperatori, papi e quanti illustrissimi principi sono in Europa, con infinita lode, così della magnificenza di Cosimo come della eccellente virtù di Michelozzo nella architettura.
Essendo l'anno 1433 Cosimo mandato in esilio, Michelozzo, che lo amava infinitamente e gli era fidelissimo, spontaneamente lo accompagnò a Vinezia e seco volle sempre, mentre vi stette, dimorare; là, dove, oltre a molti disegni e modelli che vi fece di abitazioni private e publiche, ornamenti per gl'amici di Cosimo e per molti gentiluomini, fece, per ordine e a spese di Cosimo, la libreria del monasterio di San Giorgio Maggiore, luogo de' monaci Neri di Santa Iustina, che fu finita non solo di muraglia, di banchi, di legnami et altri ornamenti, ma ripiena di molti libri.
E questo fu il trattenimento e lo spasso di Cosimo in quell'esilio, dal quale essendo l'anno 1434 richiamato alla patria, tornò quasi trionfante, e Michelozzo con esso lui.
Standosi dunque Michelozzo in Fiorenza, il palazzo publico della Signoria cominciò a minacciare rovina, perché alcune colonne del cortile pativano, o fusse ciò perché il troppo peso di sopra le caricasse, o pure il fondamento debole e bieco, e forse ancora perché erano di pezzi mal commessi e mal murati.
Ma qualunque di ciò fusse la cagione, ne fu dato cura a Michelozzo, il quale volentieri accettò l'impresa, perché in Vinezia presso a S.
Barnaba aveva proveduto a un pericolo simile in questo modo: un gentiluomo, il quale aveva una casa che stava in pericolo di rovinare, ne diede la cura a Michelozzo, onde egli (secondo che già mi disse Michelagnolo Bonarroti) fatto fare segretamente una colonna e messi a ordine puntegli assai, cacciò il tutto in una barca et in quella entrato con alcuni maestri, in una notte ebbe puntellata la casa e rimessa la colonna.
Michelozzo dunque, da questa sperienza fatto animoso, riparò al pericolo del palazzo e fece onor a sé et a chi l'aveva favorito in fargli dare cotal carico; e rifondò e rifece le colonne in quel modo che oggi stanno; avendo fatto prima una travata spessa di puntelli e di legni grossi per lo ritto, che reggevano le centine degli archi fatti di pancone di noce, per le vòlte che venivano del pari a reggere unitamente il peso che prima sostenevano le colonne; et a poco a poco cavate quelle che erano in pezzi mal commessi, rimesse di nuovo l'altre di pezzi, lavorate con diligenza; in modo che non patì la fabbrica cosa alcuna né mai ha mosso un pelo; e perché si riconoscessino le sue colonne dall'altre, ne fece alcune a otto facce, in su' canti con capitelli che hanno intagliato le foglie alla foggia moderna, et altre tonde, le quali molto bene si riconoscano dalle vecchie che già vi fece Arnolfo.
Dopo, per consiglio di Michelozzo, da chi governava allora la città fu ordinato che si dovesse ancora, sopra gl'archi di quelle colonne, scaricare et alleggerire il peso di quelle mura che vi erano, e rifar di nuovo tutto il cortile dagli archi in su, con ordine di finestre alla moderna, simili a quelle che per Cosimo aveva fatto nel cortile del palazzo de' Medici; e che si sgraffisse a bozzi per le mura, per mettervi que' gigli d'oro che ancora vi si veggono al presente, il che tutto fece far Michelozzo con prestezza, facendo al dritto delle finestre di detto cortile nel secondo ordine, alcuni tondi che variassino dalle finestre su dette, per dar lume alle stanze di mezzo, che son sopra alle prime, dov'è oggi la sala de' Dugento.
Il terzo piano poi, dove abitavano i signori e il gonfaloniere, fece più ornato, spartendo in fila dalla parte di verso S.
Piero Scaraggio, alcune camere per i signori che prima dormivano tutti insieme in una medesima stanza, le quali camere furono otto per i signori et una maggiore per il gonfaloniere, che tutte rispondevano in un andito che aveva le finestre sopra il cortile.
E di sopra fece un altro ordine di stanze commode per la famiglia del palazzo, in una delle quali, dove è oggi la depositeria, è ritratto ginocchioni dinanzi a una Nostra Donna, Carlo, figliuolo del re Ruberto, duca di Calavria, di mano di Giotto.
Vi fece similmente le camere de' donzelli, tavolaccini, trombetti, musici, pifferi, mazzieri, comandatori et araldi, e tutte l'altre stanze che a un così fatto palazzo si richieggono.
Ordinò anco in cima del ballatoio una cornice di pietre, che girava intorno al cortile; et appresso a quella una conserva d'acqua che si ragunava quando pioveva, per far gittar fonti posticce a certi tempi.
Fece far ancora Michelozzo l'acconcime della cappella dove s'ode la messa, et appresso a quella molte stanze e palchi ricchissimi, dipinti a gigli d'oro in campo azzurro.
Et alle stanze di sopra e di sotto di quel palazzo fece fare altri palchi e ricoprire tutti i vecchi che vi erano stati fatti inanzi all'antica.
Et insomma gli diede tutta quella perfezzione che a tanta fabrica si conveniva; e l'acque de' pozzi fece, che si conducevano insino sopra l'ultimo piano e che con una ruota si attignevano più agevolmente che non si fa per l'ordinario.
A una cosa sola non potette l'ingegno di Michelozzo rimediare, cioè alla scala publica, perché da principio fu male intesa, posta in mal luogo e fatta malagevole, erta e senza lumi, con gli scaglioni di legno dal primo piano in su; s'affaticò nondimeno di maniera che all'entrata del cortile fece una salita di scaglioni tondi et una porta con pilastri di pietra forte e con bellissimi capitelli intagliati di sua mano, et una cornice architravata doppia, con buon disegno, nel fregio della quale accomodò tutte l'arme del comune.
E, che è più, fece tutte le scale di pietra forte insino al piano dove stava la Signoria; e le fortificò in cima et a mezzo con due saracinesche, per i casi de' tumulti; et a sommo della scala fece una porta che si chiamava la catena, dove stava del continuo un tavolaccino che apriva e chiudeva, secondo che gli era commesso da chi governava.
Riarmò la torre del campanile, che era crepata per il peso di quella parte che posa in falso, cioè sopra i beccatelli di verso la piazza, con cigne grandissime di ferro.
E finalmente bonificò e restaurò di maniera questo palazzo, che ne fu da tutta la città comendato, e fatto, oltre agl'altri premii, di Collegio; il quale magistrato è in Firenze onorevole molto.
E se a qualcuno paresse che io mi fussi in questo forse più disteso che bisogno non era, ne merito scusa, perché dopo aver mostrato nella vita d'Arnolfo la sua prima edificazione, che fu l'anno 1298, fatta fuor di squadra e d'ogni ragionevole misura, con colonne dispari nel cortile, archi grandi e piccoli, scale mal commode e stanze bieche e sproporzionate, faceva bisogno che io dimostrasse ancora a qual termine lo riducesse l'ingegno e giudizio di Michelozzo, se bene anch'egli non l'accommodò in modo che si potesse agiatamente abitarvi, né altrimenti che con disagio e scommodo grandissimo.
Essendovi finalmente venuto ad abitar, l'anno 1538, il signor duca Cosimo, cominciò sua eccellenza a ridurlo a miglior forma, ma perché non fu mai inteso né saputo essequire il concetto del Duca da quegli architetti che in quell'opera molti anni lo servirono, egli si diliberò di vedere se si poteva, senza guastare il vecchio nel quale era pur qualcosa di buono, racconciare, facendo, secondo che egli aveva nello animo, le scale e le stanze scommode e disagiose, con miglior ordine, commodità e proporzione.
Fatto dunque venire da Roma Giorgio Vasari pittore et architetto aretino, il quale serviva papa Giulio Terzo, gli diede commessione che non solo accommodasse le stanze che aveva fatto cominciare nell'apartato di sopra, dirimpetto alla piazza del grano (come che rispetto alla pianta di sotto fussero bieche), ma che ancora andasse pensando se quel palazzo si potesse, senza guastare quel che era fatto, ridurre di dentro in modo che per tutto si caminasse da una parte all'altra, e dall'un luogo all'altro, per via di scale segrete e publiche, e più piane che si potesse.
Giorgio adunque, mentre che le dette stanze cominciate si adornavano di palchi messi d'oro e di storie di pittura a olio, e le facciate di pitture a fresco, et in alcune altre si lavorava di stucchi, levò la pianta di tutto quel palazzo, e nuovo e vecchio, che lo gira intorno.
E dopo, dato ordine con non piccola fatica e studio a quanto voleva fare, cominciò a ridurlo a poco a poco in buona forma et a riunire, senza guastare quasi punto di quello che era fatto, le stanze disunite, che prima erano quale alta e quale bassa ne' piani.
Ma perché il signor Duca vedesse il disegno del tutto, in spazio di sei mesi ebbe condotto un modello di legname ben misurato, di tutta quella machina che più tosto ha forma e grandezza di castello che di palazzo.
Il quale modello essendo piacciuto al Duca, si è secondo quello unito e fatto molte commode stanze e scale agiate publiche e segrete, che rispondono in su tutti i piani; e per cotal modo rendute libere le sale che erano come una publica strada, non si potendo prima salire di sopra senza passar per mezzo di quelle; et il tutto si è di varie e diverse pitture magnificamente adornato.
Et in ultimo si è alzato il tetto della sala grande più di quello che egli era dodici braccia, di maniera che se Arnolfo, Michelozzo e gli altri, che dalla prima pianta in poi vi lavorarono, ritornasseno in vita, non lo riconoscerebbono, anzi crederebbono che fusse, non la loro, ma una nuova muraglia, et un altro edifizio.
Ma tornando oggimai a Michelozzo, dico che essendo dato ai frati di S.
Domenico da Fiesole la chiesa di S.
Giorgio, non vi stettono se non da mezzo luglio in circa insino a tutto gennaio; per che avendo ottenuto per loro Cosimo de' Medici e Lorenzo suo fratello, da papa Eugenio, la chiesa e convento di S.
Marco, dove prima stavano monaci Salvestrini e dato loro in quel cambio San Giorgio detto, ordinarono, come inclinati molto alla religione e al servigio e culto divino, che secondo il disegno e modello di Michelozzo si facesse il detto convento di S.
Marco tutto di muovo et amplissimo e magnifico, e con tutte quelle commodità che i detti frati sapessono migliori disiderare.
A che dato principio l'anno 1437, la prima cosa si fece quella parte che risponde sopra il reffettorio vecchio, dirimpetto alle spalle del Duca, le quali fece già murare il duca Lorenzo de' Medici; nel qual luogo furono fatte venti celle, messo il tetto et al reffettorio fatti i fornimenti di legname e finito nella maniera che si sta ancor oggi.
E per allora non si seguitò più oltre, per stare a vedere che fine dovesse avere una lite che sopra il detto convento aveva mosso contra i frati di S.
Marco, un maestro Stefano, generale di detti Salvestrini.
La quale finita in favore de' detti frati di S.
Marco, si ricominciò a seguitare la muraglia; ma perché la cappella maggiore, stata edificata da ser Pino Bonacorsi, era dopo venuta in una donna de' Caponsacchi, e da lei a Mariotto Banchi, sbrigata che fu sopra ciò non so che lite, Mariotto donò la detta capella a Cosimo de' Medici, avendola difesa e tolta ad Agnolo della Casa, al quale l'avevano o data o venduta i detti Salvestrini; e Cosimo all'incontro diede a Mariotto per ciò cinquecento scudi.
Dopo, avendo similmente comperato Cosimo dalla Compagnia dello Spirito Santo il sito dove è oggi il coro, fu fatto la cappella, la tribuna et il coro con ordine di Michelozzo, e fornito di tutto punto l'anno 1439.
Dopo fu fatta la libreria, lunga braccia 80 e larga 18, tutta in volta di sopra e di sotto, e con 64 banchi di legno di cipresso, pieni di bellissimi libri.
Appresso si diede fine al dormentorio, riducendolo in forma quadra, et insomma al chiostro et a tutte le commodissime stanze di quel convento; il quale si crede che sia il meglio inteso e più bello e più commodo, per tanto che sia in Italia, mercé della virtù et industria di Michelozzo, che lo diede finito del tutto l'anno 1452.
Dicesi che Cosimo spese in questa fabrica 36 mila ducati, e che mentre si murò, diede ogni anno ai frati 366 ducati per il vitto loro.
Della edificazione e sagrazione del qual tempio si leggono in un epitaffio di marmo sopra la porta che va in sagrestia queste parole:
Cum hoc templum Marco Evangelistae dicatum magnificis sumptibus Cl.
V.
Cosmi Medicis tandem absolutum esset, Eugenius Quartus Romanus Pontifex maxima Cardinalium, Archiepiscoporum, Episcoporum, aliorumque sacerdotum frequentia comitatus, id celeberrimo Epiphaniae die, solemni more servato, consecravit.
Tum etiam quotannis omnibus, qui eodem die festo annuas statasque consecrationis ceremonias caste pieque celebraverint, viserintve, temporis luendis peccatis suis debiti, septem annos, totidemque quadragesimas, apostolica remisit auctoritate.
A.
M.CCCC.XLII.
Similmente fece far Cosimo col disegno di Michelozzo il noviziato di S.
Croce di Firenze, la capella del medesimo e l'entrata che va di chiesa alla sagrestia, al detto noviziato et alle scale del dormentorio.
La bellezza, comodità et ornamento delle quali cose non è inferiore a niuna delle muraglie, per quanto ell'è, che facesse fare il veramente magnifico Cosimo de' Medici, o che mettesse in opera Michelozzo; et oltre all'altre cose, la porta che fece di macigno, la quale va di chiesa ai detti luoghi, fu in que' tempi molto lodata per la novità sua e per il frontespizio molto ben fatto, non essendo allora se non pochissimo in uso l'imitare, come quella fa, le cose antiche di buona maniera.
Fece ancora Cosimo de' Medici col consiglio e disegno di Michelozzo, il palazzo di Cafaggiuolo in Mugello, riducendolo a guisa di fortezza coi fossi intorno; et ordinò i poderi, le strade, i giardini e le fontane con boschi attorno, ragnaie e altre cose da ville molto onorate; e lontano due miglia al detto palazzo, in un luogo detto il Bosco a' Frati fece, col parere del medesimo, finire la fabbrica d'un convento per i frati de' Zoccoli di S.
Francesco, che è cosa bellissima.
Al Trebbio medesimamente fece, come si vede, molti altri acconcimi.
E similmente, lontano da Firenze due miglia, il palazzo della villa di Careggi, che fu cosa magnifica e ricca; dove Michelozzo condusse l'acqua per la fonte che al presente vi si vede.
E per Giovanni, figliuolo di Cosimo de' Medici, fece a Fiesole, il medesimo, un altro magnifico et onorato palazzo, fondato dalla parte di sotto nella scoscesa del poggio con grandissima spesa ma non senza grande utile, avendo in quella parte da basso fatto volte, cantine, stalle, tinaie et altre belle e commode abitazioni; di sopra poi, oltre le camere, sale et altre stanze ordinarie, ve ne fece alcune per libri e alcune altre per la musica.
Insomma mostrò in questa fabrica Michelozzo quanto valesse nell'architettura; perché oltre quello che si è detto fu murata di sorte, che ancor che sia in su quel monte non ha mai gettato un pelo.
Finito questo palazzo, vi fece sopra, a spese del medesimo, la chiesa e convento de' frati di S.
Girolamo, quasi nella cima di quel monte.
Fece il medesimo Michelozzo il disegno e modello che mandò Cosimo in Ierusalem per l'ospizio che là fece edificare ai pelegrini che vanno al sepolcro di Cristo.
Per la facciata ancora di S.
Piero di Roma mandò il disegno per sei finestre, che vi si feciono poi con l'arme di Cosimo de' Medici, delle quali ne furono levate tre a' dì nostri e fatto rifare da papa Paulo III con l'arme di casa Farnese.
Dopo, intendendo Cosimo che in Ascesi a Santa Maria degl'Angeli si pativa d'acque con grandissimo incommodo de' popoli che vi vanno ogni anno, il primo dì d'agosto al Perdono, vi mandò Michelozzo, il quale condusse un'acqua che nasceva a mezzo la costa del monte alla fonte, la quale ricoperse con una molto vaga e ricca loggia posta sopra alcune colonne di pezzi, con l'arme di Cosimo, e drento nel convento fece a' frati, pur di commessione di Cosimo, molti acconcimi utili, i quali poi il Magnifico Lorenzo de' Medici rifece con maggior ornamento e più spesa, facendo porre a quella Madonna la sua immagine di cera, che ancor vi si vede.
Fece anco mattonare Cosimo la strada che va dalla detta Madonna degli Angeli alla città.
Né si partì Michelozzo di quelle parti, che fece il disegno della cittadella vecchia di Perugia.
Tornato finalmente a Firenze, fece al canto de' Tornaquinci la casa di Giovanni Tornabuoni, quasi in tutto simile al palazzo che aveva fatto a Cosimo, eccetto che la facciata non è di bozzi, né di cornici sopra, ma ordinaria.
Morto Cosimo, il quale aveva amato Michelozzo quanto si può un caro amico amare, Piero suo figliuolo gli fece fare di marmo, in S.
Miniato in sul monte, la capella dov'è il Crucifisso, e nel mezzo tondo dell'arco dietro alla detta cappella, intagliò Michelozzo un falcone di basso rilievo col diamante, impresa di Cosimo suo padre, che fu opera veramente bellissima.
Disegnando dopo queste cose il medesimo Piero de' Medici far la cappella della Nunziata tutta di marmo nella chiesa de' Servi, volle che Michelozzo, già vecchio, intorno a ciò gli dicesse il parer suo, sì perché molto amava la virtù di quell'uomo, sì perché sapeva quanto fedel amico e servitor fusse stato a Cosimo suo padre.
Il che avendo fatto Michelozzo, fu dato cura di lavorarla a Pagno di Lapo Portigiani scultore da Fiesole, il quale in ciò fare, come quello che in poco spazio volle molte cose racchiudere, ebbe molte considerazioni.
Reggano questa cappella quattro colonne di marmo alte braccia 9 in circa, fatte con canali doppii di lavoro corinto e con le base e capitegli variamente intagliati e doppii di membra; sopra le colonne posano architrave, fregio e cornicione, doppii similmente di membri e d'intagli, e pieni di varie fantasie, e particolarmente d'imprese e d'arme de' Medici, e di fogliami; fra queste et altre cornici fatte per un altro ordine di lumi, è un epitaffio grande intagliato in marmo, bellissimo.
Di sotto, per il cielo di detta cappella, fra le quattro colonne è uno spartimento di marmo tutto intagliato e pieno di smalti lavorati a fuoco e di musaico in varie fantasie di color d'oro e pietre fini; il piano del pavimento è pieno di porfidi, serpentini, mischi e d'altre pietre rarissime con bell'ordine commesse e compartite.
La detta cappella si chiude con un ingraticolato intorno di cordoni di bronzo con candelieri di sopra, fermati in un ornamento di marmo che fa bellissimo finimento al bronzo et ai candellieri, e dalla parte dinanzi, l'uscio che chiude la cappella è similmente di bronzo e molto bene accommodato.
Lasciò Piero che fusse fatto un lampanaio intorno alla cappella, di trenta lampade d'argento, e così fu fatto; ma perché furono guaste per l'assedio, il signor Duca già molti anni sono diede ordine che si rifacessero, e già n'è fatta la maggior parte e tuttavia si va seguitando; ma non perciò si è restato mai, secondo che lasciò Piero, di avervi tutto quel numero di lampade accese, se bene non sono state d'argento da che furono distrutte in poi.
A questi ornamenti aggiunse Pagno un grandissimo giglio di rame, che esce d'un vaso, il quale posa in sull'angolo della cornice di legno dipinta e messa d'oro, che tiene le lampade; ma non però regge questa cornice sola così gran peso, perciò che il tutto vien sostenuto da' due rami del giglio che sono di ferro e dipinti di verde, i quali sono impiombati nell'angolo della cornice di marmo, tenendo gl'altri, che sono di rame, sospesi in aria.
La qual opera fu fatta veramente con giudizio et invenzione, onde è degna di essere, come bella e capricciosa, molto lodata.
A canto a questa capella ne fece un'altra verso il chiostro, la quale serve per coro ai frati, con finestre che pigliano il lume dal cortile e lo dànno non solo alla detta capella, ma ancora, ribattendo dirimpetto in due finestre simili, alla stanza de l'organetto, che è a canto alla capella di marmo.
Nella faccia del qual coro è un armario grande, nel quale si serbano l'argenterie della Nunziata; et in tutti questi ornamenti e per tutto, è l'arme e l'impresa de' Medici.
Fuor della capella della Nunziata e dirimpetto a quella, fece il medesimo un luminario grande di bronzo alto braccia cinque, et all'entrar di chiesa la pila dell'acqua benedetta, di marmo, e nel mezzo un San Giovanni, che è cosa bellissima.
Fece anco sopra il banco, dove i frati vendono le candele, una mezza Nostra Donna di marmo di mezzo rilievo, col Figliuolo in braccio e grande quanto il naturale, molto divota.
Et un'altra simile nell'Opera di Santa Maria del Fiore, dove stanno gl'Operai.
Lavorò anco Pagno a San Miniato al Todesco alcune figure in compagnia di Donato suo maestro, essendo giovane; et in Lucca nella chiesa di S.
Martino fece una sepoltura di marmo, dirimpetto alla capella del Sagramento, per Messer Piero Nocera che v'è ritratto di naturale.
Scrive nel vigesimoquinto libro della sua opera il Filareto, che Francesco Sforza, duca quarto di Milano, donò al Magnifico Cosimo de' Medici un bellissimo palazzo in Milano e che egli per mostrare a quel Duca quanto gli fusse grato sì fatto dono, non solo l'adornò riccamente di marmi e di legnami intagliati, ma lo fece maggiore, con ordine di Michelozzo, che non era, braccia ottantasette e mezzo; dove prima era braccia 84 solamente.
Et oltre ciò vi fece dipignere molte cose; e particolarmente in una loggia, le storie della vita di Traiano imperatore, nelle quali fece fare in alcuni ornamenti il ritratto d'esso Francesco Sforza, la signora Bianca sua consorte e duchessa, et i figliuoli loro parimente, con molti altri signori e grandi uomini.
E similmente il ritratto d'otto imperatori, a' quali ritratti aggiunse Michelozzo quello di Cosimo, fatto di sua mano.
E per tutte le stanze accomodò in diversi modi l'arme di Cosimo, e la sua impresa del falcone e diamante.
E le dette pitture furono tutte di mano di Vincenzio di Zoppa pittore in quel tempo, et in quel paese di non piccola stima.
Si trova che i danari che spese Cosimo nella restaurazione di questo palazzo, furono pagati da Pigello Portinari cittadin fiorentino, il qual allora in Milano governava il banco e la ragione di Cosimo, et abitava in detto palazzo.
Sono in Genova di mano di Michelozzo alcune opere di marmo e di bronzo, et in altri luoghi molte altre che si conoscon alla maniera, ma basti aver detto insin qui di lui, il quale si morì d'anni sessantaotto e fu nella sua sepoltura sotterrato in San Marco di Firenze.
Il suo ritratto è di mano di fra' Giovanni nella sagrestia di Santa Trinità, nella figura d'un Nicodemo vecchio con un capuccio in capo, che scende Cristo di croce.
FINE DELLA VITA DI MICHELOZZO SCULTORE ET ARCHITETTO
VITA D'ANTONIO FILARETE E DI SIMONE SCULTORE FIORENTINI
Se papa Eugenio Quarto, quando deliberò far di bronzo la porta di S.
Piero di Roma, avesse fatto diligenza in cercare d'avere uomini eccellenti per quel lavoro, sì come ne' tempi suoi arebbe agevolmente potuto fare, essendo vivi Filippo di ser Brunellesco, Donatello et altri artefici rari, non sarebbe stata condotta quell'opera in così sciaurata maniera, come ella si vede ne' tempi nostri; ma forse intervenne a lui, come molte volte suole avvenire a una buona parte de' principi, che o non s'intendono dell'opere, o ne prendono pochissimo diletto.
Ma se considerassono di quanta importanza sia il fare stima delle persone eccellenti nelle cose publiche, per la fama che se ne lascia, non sarebbono certo così trascurati né essi né i loro ministri; perciò che chi s'impaccia con artefici vili et inetti, dà poca vita all'opere et alla fama, senzaché si fa ingiuria al publico et al secolo in che si è nato; credendosi risolutamente da chi vien poi, che se in quella età si fossero trovati migliori maestri, quel principe si sarebbe più tosto di quelli servito, che degl'inetti e plebei.
Essendo dunque creato pontefice l'anno 1431 papa Eugenio Quarto, poi che intese che i Fiorentini facevano fare le porte di S.
Giovanni a Lorenzo Ghiberti, venne in pensiero di voler fare similmente di bronzo una di quelle di S.
Piero; ma perché non s'intendeva di così fatte cose, ne diede cura a' suoi ministri; appresso ai quali ebbono tanto favore Antonio Filareto allora giovane, e Simone fratello di Donato, ambi scultori fiorentini, che quell'opera fu allogata loro.
Laonde, messovi mano, penarono dodici anni a finirla; e se bene papa Eugenio si fuggì di Roma e fu molto travagliato per rispetto de' Concilii, coloro nondimeno che avevano la cura di S.
Piero, fecero di maniera che non fu quell'opera tralasciata.
Fece dunque il Filarete in questa opera uno spartimento semplice e di basso rilievo, cioè in ciascuna parte due figure ritte: di sopra il Salvatore e la Madonna, e disotto San Piero e San Paulo.
Et a piè del San Piero, in ginocchioni quel papa, ritratto di naturale; parimente sotto ciascuna figura è una storietta del santo che è di sopra.
Sotto San Piero è la sua crucifissione, e sotto San Paulo la decollazione; e così sotto il Salvatore e la Madonna alcune azzioni della vita loro.
E dalla banda di dentro, a' piè di detta porta, fece Antonio, per suo capriccio, una storietta di bronzo nella quale ritrasse sé e Simone et i discepoli suoi, che con un asino carico di cose da godere, vanno a spasso a una vigna.
Ma perché nel detto spazio di dodici anni non lavorarono sempre in sulla detta porta, fecero ancora in San Piero alcune sepolture di marmo di papi e cardinali che sono andate, nel fare la chiesa nuova, per terra.
Dopo queste opere fu condotto Antonio a Milano dal duca Francesco Sforza, gonfallonier allora di Santa Chiesa, per aver egli vedute l'opere sue in Roma, per fare, come fece, col disegno suo, l'albergo de' poveri di Dio, che è uno spedale che serve per uomini e donne infermi e per i putti innocenti, nati non legitimamente.
L'appartato degli uomini in questo luogo è per ogni verso, essendo in croce braccia centosessanta, et altre tanto quello delle donne; la larghezza è braccia sedici; e nelle quattro quadrature, che circondano le croci di ciascuno di questi appartati, sono quattro cortili, circondati di portici, logge e stanze per uso dello spedalingo, uffiziali serventi e ministri dello spedale, molto commodi ed utili.
E da una banda è un canale, dove corrono continuamente acque per servigi dello spedale e per macinare, con non piccolo utile e commodo di quel luogo, come si può ciascuno imaginare.
Fra uno spedale e l'altro è un chiostro, largo per un verso braccia ottanta e per l'altro centosessanta, nel mezzo del quale è la chiesa, in modo accomodata, che serve all'uno e a l'altro apartato.
E per dirlo brevemente, è questo luogo tanto ben fatto et ordinato, che per simile non credo ne sia un altro in tutta Europa.
Fu, secondo che scrive esso Filarete, messa la prima pietra di questa fabrica solenne processione di tutto il clero di Milano, presente il duca Francesco Sforza, la signora Biancamaria e tutti i loro figliuoli, il marchese di Mantova e l'ambasciador del re Alfonso d'Aragona, con molti altri signori.
E nella prima pietra che fu messa ne' fondamenti e così nelle medaglie, erano queste parole:
Franciscus Sfortiae Dux IIII, qui amissum per praecessorum obitum urbis imperium recuperavit, hoc munus Christi pauperibus dedit, fundavitque 1457, die 12 aprilis.
Furono poi dipinte nel portico queste storie da maestro Vincenzio di Zoppa lombardo, per non essersi trovato in que' paesi miglior maestro.
Fu opera ancora del medesimo Antonio la chiesa maggior di Bergamo fatta da lui con non manco diligenza e giudizio, che il sopra detto spedale.
E perché si dilettò anco di scrivere, mentre che queste sue opere si facevano, scrisse un libro diviso in tre parti: nella prima tratta delle misure di tutti gl'edifizii e di tutto quello fa bisogno a voler edificare; nella seconda del modo dell'edificare et in che modo si potesse far una bellissima e commodissima città; nella terza fa nuove forme d'edifizii, mescolandovi così degl'antichi come de' moderni; tutta la quale opera è divisa in ventiquattro libri e tutta storiata di figure di sua mano.
E come che alcuna cosa buona in essa si ritruovi, è nondimeno per lo più ridicola e tanto sciocca, che per avventura è nulla più.
Fu dedicata da lui l'anno 1464 al Magnifico Piero di Cosimo de' Medici, et oggi è fra le cose dell'illustrissimo signor duca Cosimo.
E nel vero se, poi che si mise a tanta fatica, avesse almeno fatto memoria de' maestri de' tempi suoi e dell'opere loro, si potrebbe in qualche parte comendare; ma non vi se ne trovano se non poche, e quelle sparse senza ordine per tutta l'opera; e dove meno bisognava ha durato fatica, come si dice, per impoverire e per esser tenuto di poco giudizio in mettersi a far quello che non sapeva.
Ma avendo detto pur assai del Filarete, è tempo oggimai che io torni a Simone fratello di Donato, il quale, dopo l'opera della porta, fece di bronzo la sepoltura di papa Martino.
Similmente fece alcuni getti che andarono in Francia e molti che non si sa dove siano.
Nella chiesa degl'Ermini al Canto alla Macine di Firenze fece un Crucifisso da portare a processione grande quanto il vivo; e perché fusse più leggero lo fece di sughero.
In S.
Felicita fece una Santa Maria Maddalena in penitenza, di terra, alta braccia tre e mezzo con bella proporzione e con scoprire i muscoli di sorte, che mostrò d'intender molto bene la notomia.
Lavorò ne' Servi ancora per la Compagnia della Nunziata, una lapida di marmo da sepoltura, commettendovi dentro una figura di marmo bigio e bianco a guisa di pittura, sì come di sopra si disse aver fatto nel Duomo di Siena Duccio Sanese, che fu molto lodata; a Prato il graticolato di bronzo della cappella della Cintola.
A Furlì fece sopra la porta della calonaca, di basso rilievo, una Nostra Donna con due Angeli; e per Messer Giovanni da Riolo fece in San Francesco la capella della Trinità di mezzo rilievo.
Et a Rimini fece, per Sigismondo Malatesti, nella chiesa di S.
Francesco, la capella di S.
Sigismondo, nella quale sono intagliati di marmo molti elefanti, impresa di quel signore.
A Messer Bartolomeo Scamisci, canonico della Pieve d'Arezzo, mandò una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, di terra cotta, e certi Angeli di mezzo rilievo, molto ben condotti; la quale è oggi in detta pieve apoggiata a una colonna.
Per lo battesimo similmente al Vescovado d'Arezzo, lavorò, in alcune storie di basso rilievo, un Cristo battezzato da S.
Giovanni.
In Fiorenza fece di marmo la sepoltura di Messer Orlando de' Medici nella chiesa della Nunziata.
Finalmente, d'anni 55, rendé l'anima al Signore, che gliela aveva data.
Né molto dopo il Filarete, essendo tornato a Roma, si morì d'anni sessantanove, e fu sepolto nella Minerva, dove a Giovanni Foccota, assai lodato pittore, aveva fatto ritrarre papa Eugenio, mentre al suo servizio in Roma dimorava.
Il ritratto d'Antonio è di sua mano nel principio del suo libro dove insegna a edificare.
Furono suoi discepoli Varrone e Niccolò fiorentini, che feciono vicino a ponte Molle la statua di marmo per papa Pio Secondo, quando egli condusse in Roma la testa di S.
Andrea.
E per ordine del medesimo restaurarono Tigoli quasi dai fondamenti; et in S.
Piero feciono l'ornamento di marmo che è sopra le colonne della capella dove si serba la detta testa di S.
Andrea; vicino alla qual capella è la sepoltura del detto papa Pio di mano di Pasquino da Monte Pulciano, discepolo del Filareto, e di Bernardo Ciuffagni, che lavorò a Rimini in S.
Francesco una sepoltura di marmo per Gismondo Malatesti e vi fece il suo ritratto di naturale; et alcune cose ancora, secondo che si dice, in Lucca et in Mantova.
FINE DELLA VITA D'ANTONIO FILARETE
VITA DI GIULIANO DA MAIANO SCULTORE ET ARCHITETTO
Non piccolo errore fanno que' padri di famiglia che non lasciano fare nella fanciullezza il corso della natura agl'ingegni de' figliuoli e che non lasciano esercitargli in quelle facultà che più sono secondo il gusto loro, però che il volere volgergli a quello che non va loro per l'animo, è un cercar manifestamente che non siano mai eccellenti in cosa nessuna; essendo che si vede quasi sempre che coloro che non operano secondo la voglia loro, non fanno molto profitto in qual si voglia essercizio.
Per l'opposito, quegli che seguitano lo instinto della natura vengono il più delle volte eccellenti e famosi nell'arti che fanno, come si conobbe chiaramente in Giuliano da Maiano; il padre del quale, essendo lungamente vivuto nel poggio di Fiesole, dove si dice Maiano, con lo essercizio di squadratore di pietre, si condusse finalmente in Fiorenza, dove fece una bottega di pietre lavorate, tenendola fornita di que' lavori che sogliono improvisamente, il più delle volte, venire a bisogno a chi fabrica qualche cosa.
Standosi dunque in Firenze gli nacque Giuliano, il quale, perché parve col tempo al padre di buono ingegno, disegnò di farlo notaio, parendogli che lo scarpellare come aveva fatto egli fusse troppo faticoso essercizio e di non molto utile; ma non gli venne ciò fatto, perché, se bene andò un pezzo Giuliano alla scola di grammatica non vi ebbe mai il capo, e per conseguenza non vi fece frutto nessuno; anzi fuggendosene più volte, mostrò d'aver tutto l'animo volto alla scultura, se bene da principio si mise all'arte del legnaiuolo e diede opera al disegno.
Dicesi che con Giusto e Minore, maestri di tarsie, lavorò i banchi della sagrestia della Nunziata e similmente quelli del coro che è allato alla cappella, e molte cose nella Badia di Fiesole et in S.
Marco; e che per ciò acquistatosi nome, fu chiamato a Pisa, dove lavorò in Duomo la sedia che è a canto all'altar maggiore, dove stanno a sedere il sacerdote e diacono e sodiacono, quando si canta la messa; nella spalliera della quale fece di tarsia, con legni tinti et ombrati, i tre profeti che vi si veggiono.
Nel che fare, servendosi di Guido del Servellino e di maestro Domenico di Mariotto, legnaiuoli pisani, insegnò loro di maniera l'arte, che poi feciono così d'intaglio come di tarsie la maggior parte di quel coro, il quale a' nostri dì è stato finito, ma con assai miglior maniera, da Batista del Cervelliera pisano, uomo veramente ingegnoso e soffistico.
Ma tornando a Giuliano, egli fece gl'armarii della sagrestia di Santa Maria del Fiore, che per cosa di tarsia e di rimessi furono tenuti in quel tempo mirabili; e così, seguitando Giuliano d'attender alla tarsia et alla scultura et architettura, morì Filippo di ser Brunellesco; onde, messo dagl'Operai in luogo suo, incrostò di marmo, sotto la volta della cupola, le fregiature di marmi bianchi e neri, che sono intorno agl'occhi.
Et in sulle cantonate fece i pilastri di marmo sopra i quali furono messi poi da Baccio d'Agnolo l'architrave, fregio e cornice, come di sotto si dirà.
Vero è che costui, per quanto si vede in alcuni disegni di sua mano che sono nel nostro libro, voleva fare altro ordine di fregio cornice e ballatoio, con alcuni frontespizii a ogni faccia dell'otto della cupola, ma non ebbe tempo di metter ciò in opera, perché traportato dal lavoro d'oggi in domani, si morì.
Ma innanzi che ciò fusse, andato a Napoli, fece a Poggio Reale, per lo re Alfonso, l'architettura di quel magnifico palazzo, con le belle fonti e condotti che sono nel cortile.
E nella città similmente, e per le case de' gentiluomini e per le piazze, fece disegni di molte fontane con belle e capricciose invenzioni.
Et il detto palazzo di Poggio Reale fece tutto dipignere da Piero del Donzello e Polito suo fratello.
Di scultura parimente fece al detto re Alfonso, allora Duca di Calavria, nella sala grande del castello di Napoli, sopra una porta di dentro e di fuori, storie di basso rilievo, e la porta del castello di marmo, d'ordine corinzio con infinito numero di figure.
E diede a quell'opera forma d'arco trionfale, dove le storie et alcune vittorie di quel re sono sculpite di marmo.
Fece similmente Giuliano l'ornamento della porta Capovana, et in quella molti trofei variati e belli; onde meritò che quel re gli portasse grand'amore, e rimunerandolo altamente delle fatiche, adagiasse i suoi discendenti.
E perché aveva Giuliano insegnato a Benedetto suo nipote l'arte delle tarsie, l'architettura et a lavorar qualche cosa di marmo, Benedetto si stava in Fiorenza, attendendo a lavorar di tarsia, perché gl'apportava maggior guadagno che l'altre arti non facevano, quando Giuliano, da Messer Antonio Rosello aretino, segretario di papa Paulo II, fu chiamato a Roma al servizio di quel Pontefice, dove andato, gl'ordinò nel primo cortile del palazzo di S.
Piero le logge di trevertino con tre ordini di colonne: la prima del piano da basso, dove sta oggi il Piombo et altri uffizii; la seconda di sopra dove sta il datario et altri prelati; e la terza e ultima, dove sono le stanze che rispondono in sul cortile di S.
Piero, le quali adornò di palchi dorati e d'altri ornamenti.
Furono fatte similmente col suo disegno le logge di marmo dove il Papa dà la benedizzione, il che fu lavoro grandissimo, come ancor oggi si vede.
Ma quello che egli fece di stupenda maraviglia più che altra cosa, fu il palazzo che fece per quel Papa, insieme con la chiesa di S.
Marco di Roma; dove andò una infinità di trevertini, che furono cavati, secondo che si dice, di certe vigne vicine all'arco di Gostantino, che venivano a esser contraforti de' fondamenti di quella parte del Colosseo ch'è oggi rovinata, forse per aver allentato quell'edifizio.
Fu dal medesimo Papa mandato Giuliano alla Madonna di Loreto, dove rifondò e fece molto maggior il corpo di quella chiesa, che prima era piccola e sopra pilastri alla selvatica; ma non andò più alto che il cordone che vi era; nel qual luogo condusse Benedetto suo nipote, il quale, come si dirà, voltò poi la cupola.
Dopo, essendo forzato Giuliano a tornare a Napoli per finire l'opere incominciate gli fu allogata dal re Alfonso una porta vicina al castello, dove andavano più d'ottanta figure, le quali aveva Benedetto a lavorar in Fiorenza; ma il tutto, per la morte di quel re, rimase imperfetto e ne sono ancora alcune reliquie in Fiorenza nella Misericordia, et alcune altre n'erano al canto alla Macine a' tempi nostri, le quali non so dove oggi si ritrovino.
Ma inanzi che morisse il re, morì in Napoli Giuliano di età di 70 anni, e fu con ricche essequie molto onorato, avendo il re fatto vestire a bruno 50 uomini che l'accompagnarono alla sepoltura, e poi dato ordine che gli fusse fatto un sepolcro di marmo.
Rimase Polito nell'avviamento suo, il quale diede fine a' canali per l'acque di Poggio Reale.
E Benedetto attendendo poi alla scultura passò in eccellenza, come si dirà, Giuliano suo zio; e fu concorrente nella giovanezza sua d'uno scultore, che faceva di terra, chiamato Modanino da Modena, il quale lavorò al detto Alfonso, una pietà con infinite figure tonde di terra cotta colorite, le quali con grandissima vivacità furono condotte, e dal re fatte porre nella chiesa di Monte Oliveto di Napoli, monasterio in quel luogo onoratissimo; nella quale opera è ritratto il detto re inginocchioni, il quale pare veramente più che vivo.
Onde Modanino fu da lui con grandissimi premii rimunerato, ma morto che fu, come si è detto, il re, Polito e Benedetto se ne ritornarono a Fiorenza, dove non molto tempo dopo se n'andò Polito dietro a Giuliano per sempre.
Furono le sculture e pitture di costoro circa gl'anni di nostra salute 1447.
FINE DELLA VITA DI GIULIANO DA MAIANO
VITA DI PIERO DELLA FRANCESCA PITTORE DAL BORGO A SAN SEPOLCRO
Infelici sono veramente coloro, che affaticandosi negli studii per giovare altrui e per lasciare di sé fama, non sono lasciati o dall'infirmità o dalla morte alcuna volta condurre a perfezzione l'opere che hanno cominciato; e bene spesso avviene che lasciandole o poco meno che finite o a buon termine, sono usurpate dalla presonzione di coloro che cercano di ricoprire la loro pelle d'asino con le onorate spoglie del leone.
E se bene il tempo, il quale si dice padre della verità o tardi o per tempo manifesta il vero, non è però che per qualche spazio di tempo non sia defraudato dell'onor che si deve alle sue fatiche colui che ha operato; come avvenne a Piero della Francesca dal Borgo a S.
Sepolcro.
Il quale, essendo stato tenuto maestro raro nelle difficoltà de' corpi regolari e nell'aritmetica e geometria, non potette, sopragiunto nella vecchiezza dalla cecità corporale e dalla fine della vita, mandare in luce le virtuose fatiche sue et i molti libri scritti da lui, i quali nel Borgo, sua patria, ancora si conservano.
Se bene colui che doveva con tutte le forze ingegnarsi di accrescergli gloria e nome, per aver appreso da lui tutto quello che sapeva, come empio e maligno cercò d'annullare il nome di Piero suo precettore, et usurpar quello onore, che a colui solo si doveva, per sé stesso, publicando sotto suo nome proprio, cioè di fra' Luca dal Borgo, tutte le fatiche di quel buon vecchio, il quale, oltre le scienze dette di sopra, fu eccellente nella pittura.
Nacque costui nel Borgo a San Sepolcro, che oggi è città, ma non già allora, e chiamossi dal nome della madre, Della Francesca, per essere ella restata gravida di lui quando il padre e suo marito morì; e per essere da lei stato allevato et aiutato a pervenire al grado che la sua buona sorte gli dava.
Attese Pietro nella sua giovenezza alle matematiche; et ancora che d'anni quindici fusse indiritto a essere pittore, non si ritrasse però mai da quelle; anzi facendo maraviglioso frutto et in quelle e nella pittura, fu adoperato da Guidobaldo Feltro, duca vecchio d'Urbino, al quale fece molti quadri di figure piccole, bellissimi, che sono andati in gran parte male, in più volte che quello stato è stato travagliato dalle guerre.
Vi si conservarono nondimeno alcuni suoi scritti di cose di geometria e di prospettive, nelle quali non fu inferiore a niuno de' tempi suoi, né forse che sia stato in altri tempi già mai, come ne dimostrano tutte l'opere sue piene di prospettive, e particularmente un vaso in modo tirato a quadri e faccie, che si vede dinanzi, di dietro e dagli lati, il fondo e la bocca; il che è certo cosa stupenda, avendo in quello sottilmente tirato ogni minuzia, e fatto scortare il girare di tutti que' circoli con molta grazia.
Laonde, acquistato che si ebbe in quella corte credito e nome, volle farsi conoscere in altri luoghi; onde, andato a Pesero et Ancona, in sul più bello del lavorare fu dal duca Borso chiamato a Ferrara, dove nel palazzo dipinse molte camere, che poi furono rovinate dal duca Ercole vecchio, per ridurre il palazzo alla moderna.
Di maniera che in quella città non è rimaso di man di Piero se non una capella in S.
Agostino, lavorata in fresco; et anco quella è dalla umidità mal condotta.
Dopo, essendo condotto a Roma, per papa Nicola Quinto lavorò in palazzo due storie, nelle camere di sopra, a concorrenza di Bramante da Milano, le quali forono similmente gettate per terra da papa Giulio Secondo, perché Raffaello da Urbino vi dipignesse la prigionia di S.
Piero et il miracolo del corporale di Bolsena, insieme con alcune altre che aveva dipinto Bramantino, pittore eccellente de' tempi suoi; e perché di costui non posso scrivere la vita né l'opere particulari per essere andate male, non mi parrà fatica, poi che viene a proposito, far memoria di costui, il quale nelle dette opere che furono gettate per terra, aveva fatto, secondo che ho sentito ragionare, alcune teste di naturale sì belle e sì ben condotte, che la sola parola mancava a dar loro la vita.
Delle quali teste ne sono assai venute in luce, perché Raffaello da Urbino le fece ritrare, per avere l'effigie di coloro che tutti furono gran personaggi, perché fra essi era Niccolò Fortebraccio, Carlo Settimo re di Francia, Antonio Colonna principe di Salerno, Francesco Carmignuola, Giovanni Vitellesco, Bessarione cardinale, Francesco Spinola, Battista da Canneto; i quali tutti ritratti furono dati al Giovio da Giulio Romano discepolo et erede di Raffaello da Urbino, e dal Giovio posti nel suo museo a Como.
In Milano, sopra la porta di S.
Sepolcro, ho veduto un Cristo morto di mano del medesimo, fatto in iscorto; nel quale, ancora che tutta la pittura non sia più che un braccio d'altezza, si dimostra tutta la lunghezza dell'impossibile, fatta con facilità e con giudizio.
Sono ancora di sua mano in detta città, in casa del marchesino Ostanesia, camere e loggie con molte cose lavorate da lui con pratica e grandissima forza negli scorti delle figure.
E fuori di porta Versellina, vicino al castello, dipinse a certe stalle oggi rovinate e guaste, alcuni servidori che stregghiavano cavalli, fra i quali n'era uno tanto vivo e tanto ben fatto, che un altro cavallo tenendolo per vero, gli tirò molte coppie di calci.
Ma tornando a Piero della Francesca, finita in Roma l'opera sua, se ne tornò al Borgo, essendo morta la madre; e nella Pieve fece a fresco dentro alla porta del mezzo, due Santi, che sono tenuti cosa bellissima.
Nel convento de' frati di S.
Agostino dipinse la tavola dell'altar maggiore, che fu cosa molto lodata, et in fresco lavorò una Nostra Donna della Misericordia in una Compagnia, o vero, come essi dicono, Confraternita; e nel Palazzo de' Conservadori una Resurezzione di Cristo, la quale è tenuta dell'opere che sono in detta città e di tutte le sue, la migliore.
Dipinse a S.
Maria di Loreto, in compagnia di Domenico da Vinegia il principio d'un'opera nella volta della sagrestia; ma perché temendo di peste, la lasciarono imperfetta, ella fu poi finita da Luca da Cortona, discepolo di Piero, come si dirà al suo luogo.
Da Loreto venuto Piero in Arezzo, dipinse per Luigi Bacci cittadino aretino in S.
Francesco la loro capella dell'altar maggiore, la volta della quale era già stata cominciata da Lorenzo di Bicci, nella quale opera sono storie della croce, da che i figliuoli d'Adamo, sotterrandolo, gli pongono sotto la lingua il seme dell'albero, di che poi nacque il detto legno; insino alla esaltazione di essa croce, fatta da Eraclio imperadore, il quale portandola in su la spalla a piedi e scalzo, entra con essa in Ierusalem; dove sono molto belle considerazioni e attitudini degne d'esser lodate, come, verbigrazia, gl'abiti delle donne della reina Saba, condotti con maniera dolce e nuova; molti ritratti di naturale antichi e vivissimi; un ordine di colonne corinzie divinamente misurate; un villano che, appoggiato con le mani in su la vanga, sta con tanta prontezza a udire parlare Santa Lena, mentre le tre croci si disotterrano, che non è possibile migliorarlo; il morto ancora è benissimo fatto, che al toccar della croce resuscita; e la letizia similmente di Santa Lena, con la maraviglia de' circostanti che si inginocchiano ad adorare.
Ma sopra ogni altra considerazione e d'ingegno e d'arte, è lo avere dipinto la notte et un Angelo in iscorto che, venendo a capo all'ingiù a portare il segno della vittoria a Gostantino che dorme in un padiglione guardato da un cameriere e da alcuni armati oscurati dalle tenebre della notte, con la stessa luce sua illumina il padiglione, gl'armati e tutti i dintorni, con grandissima discrezione: per che Pietro fa conoscere in questa oscurità quanto importi imitare le cose vere, e lo andarle togliendo dal proprio.
Il che avendo egli fatto benissimo, ha dato cagione ai moderni di seguitarlo e di venire a quel grado sommo, dove si veggiono ne' tempi nostri le cose.
In questa medesima storia espresse efficacemente in una battaglia la paura, l'animosità, la destrezza, la forza e tutti gli altri affetti che in coloro si possono considerare che combattono, e gl'accidenti parimente, con una strage quasi incredibile di feriti, di cascati e di morti.
Ne' quali, per avere Pietro contrafatto in fresco l'armi che lustrano, merita lode grandissima, non meno che per aver fatto nell'altra faccia, dove è la fuga e la sommersione di Massenzio, un gruppo di cavagli in iscorcio, così maravigliosamente condotti, che rispetto a que' tempi si possono chiamare troppo begli e troppo eccellenti.
Fece in questa medesima storia uno mezzo ignudo e mezzo vestito alla saracina, sopra un cavallo secco molto ben ritrovato di notomia, poco nota nell'età sua.
Onde meritò per questa opera da Luigi Bacci, il quale insieme con Carlo et altri suoi fratelli e molti Aretini che fiorivano allora nelle lettere quivi intorno alla decolazione d'un re ritrasse, essere largamente premiato e di essere, sì come fu poi, sempre amato e reverito in quella città, la quale aveva l'opere sue tanto illustrata.
Fece anco nel Vescovado di detta città una S.
Maria Madalena a fresco, allato alla porta della sagrestia; e nella Compagnia della Nunziata fece il segno da portare a processione; a S.
Maria delle Grazie fuor della terra, in testa d'un chiostro, in una sedia tirata in prospettiva, un S.
Donato in pontificale con certi putti; et in S.
Bernardo, ai monaci di Monte Oliveto, un S.
Vincenzio in una nicchia alta nel muro, che è molto dagl'artefici stimato.
A Sargiano, luogo de' frati Zoccolanti di S.
Francesco, fuor d'Arezzo, dipinse in una cappella un Cristo che di notte òra nell'orto, bellissimo.
Lavorò ancora in Perugia molte cose che in quella città si veggiono: come nella chiesa delle donne di S.
Antonio da Padoa, in una tavola a tempera, una Nostra Donna col Figliuolo in grembo, San Francesco, S.
Lisabetta, S.
Giovanbattista e S.
Antonio da Padoa; e di sopra una Nunziata bellissima, con un Angelo che par proprio che venga dal cielo, e, che è più, una prospettiva di colonne che diminuiscono, bella affatto.
Nella predella, in istorie di figure piccole, è S.
Antonio che risuscita un putto; S.
Lisabetta che salva un fanciullo cascato in un pozzo e S.
Francesco che riceve le stìmate.
In S.
Ciriaco d'Ancona, all'altare di S.
Giuseppo, dipinse in una storia bellissima lo sposalizio di Nostra Donna.
Fu Piero, come si è detto, studiosissimo dell'arte e si esercitò assai nella prospettiva, et ebbe bonissima cognizione d'Euclide in tanto che tutti i miglior giri tirati ne' corpi regolari, egli meglio che altro geometra intese, et i maggior lumi che di tal cosa ci siano, sono di sua mano; per che Maestro Luca dal Borgo, frate di S.
Francesco che scrisse de' corpi regolari di geometria, fu suo discepolo.
E venuto Piero in vecchiezza et a morte doppo aver scritto molti libri, maestro Luca detto, usurpandogli per se stesso, gli fece stampare come suoi, essendogli pervenuti quelli alle mani, dopo la morte del maestro.
Usò assai Piero di far modelli di terra et a quelli metter sopra panni molli con infinità di pieghe, per ritrarli e servirsene.
Fu discepolo di Piero, Lorentino d'Angelo aretino, il quale, imitando la sua maniera, fece in Arezzo molte pitture e diede fine a quelle che Piero lasciò, sopravenendoli la morte, imperfette.
Fece Lorentino in fresco, vicino al S.
Donato che Piero lavorò nella Madonna delle Grazie, alcune storie di S.
Donato, et in molti altri luoghi di quella città e similmente del contado, moltissime cose e perché non si stava mai, e per aiutare la sua famiglia che in que' tempi era molto povera.
Dipinse il medesimo nella detta chiesa delle Grazie una storia, dove papa Sisto Quarto, in mezzo al cardinal di Mantoa et al cardinal Piccolomini, che fu poi papa Pio Terzo, concede a quel luogo un perdono.
Nella quale storia ritrasse Lorentino, di naturale e ginocchioni, Tommaso Marzi, Piero Traditi, Donato Rosselli e Giuliano Nardi, tutti cittadini aretini et Operai di quel luogo.
Fece ancora nella sala del palazzo de' Priori, ritratto di naturale, Galeotto cardinale da Pietra Mala, il vescovo Guglielmino degl'Ubertini, Messer Angelo Albergotti dottor di legge, e molte altre opere che sono sparse per quella città.
Dicesi che, essendo vicino a carnovale, i figliuoli di Laurentino lo pregavano che amazzasse il porco, sì come si costuma in quel paese; e che non avendo egli il modo di comprarlo, gli dicevano: "Non avendo danari, come farete babbo, a comperare il porco?".
A che rispondeva Lorentino: "Qualche Santo ci aiuterà".
Ma avendo ciò detto più volte e non comparendo il porco, n'avevano, passando la stagione, perduta la speranza quando finalmente gli capitò alle mani un contadino dalla Pieve a Quarto, che per sodisfare un voto voleva far dipignere un S.
Martino, ma non aveva altro assegnamento per pagare la pittura che un porco che valeva cinque lire.
Trovando costui Lorentino gli disse che voleva fare il S.
Martino, ma che non aveva altro assegnamento che il porco.
Convenutisi dunque, Lorentino gli fece il santo, et il contadino a lui menò il porco.
E così il Santo provide il porco ai poveri figlioli di questo pittore.
Fu suo discepolo ancora, Pietro da Castel della Pieve, che fece un arco sopra Santo Agostino; et alle monache di S.
Caterina d'Arezzo un S.
Urbano oggi ito per terra per rifare la chiesa.
Similmente fu suo creato Luca Signorelli da Cortona, il quale gli fece, più che tutti gl'altri, onore; Piero Borghese, le cui pitture furono intorno agl'anni 1458, d'anni sessanta per un cattarro accecò, e così visse insino all'anno 86 della sua vita.
Lasciò nel Borgo bonissime facultà et alcune case che egli stesso si aveva edificate, le quali per le parti furono arse e rovinate l'anno 1536.
Fu sepolto nella chiesa maggiore, che già fu dell'Ordine di Camaldoli et oggi è Vescovado, onoratamente da' suoi cittadini.
I libri di Pietro sono, per la maggior parte, nella libreria del Secondo Federigo duca d'Urbino, e sono tali che meritamente gli hanno acquistato nome del miglior geometra che fusse ne' tempi suoi.
FINE DELLA VITA DI PIERO DELLA FRANCESCA
VITA DI FRA' GIOVANNI DA FIESOLE DELL'ORDINE DE' FRATI PREDICATORI PITTORE
Frate Giovanni Angelico da Fiesole, il quale fu al secolo chiamato Guido, essendo non meno stato eccellente pittore e miniatore che ottimo religioso, merita per l'una e per l'altra cagione che di lui sia fatta onoratissima memoria.
Costui, se bene arebbe potuto commodissimamente stare al secolo, et oltre quello che aveva, guadagnarsi ciò che avesse voluto con quell'arti che ancor giovinetto benissimo fare sapeva, volle nondimeno, per sua sodisfazione e quiete, essendo di natura posato e buono, e per salvare l'anima sua principalmente, farsi relligioso dell'Ordine de' frati predicatori; perciò che se bene in tutti gli stati si può servire a Dio, ad alcuni nondimeno pare di poter meglio salvarsi ne' monasterii che al secolo.
La qual cosa quanto ai buoni succede felicemente, tanto per lo contrario riesce, a chi si fa relligioso per altro fine, misera veramente et infelice.
Sono di mano di fra' Giovanni, nel suo convento di S.
Marco di Firenze, alcuni libri da coro miniati, tanto belli che non si può dir più; et a questi simili sono alcuni altri, che lasciò in S.
Domenico da Fiesole, con incredibile diligenza lavorati.
Ben è vero che a far questi fu aiutato da un suo maggior fratello che era similmente miniatore et assai esercitato nella pittura.
Una delle prime opere che facesse questo buon padre di pittura, fu nella Certosa di Fiorenza una tavola che fu posta nella maggior cappella del cardinale degl'Acciaiuoli, dentro la quale è una Nostra Donna col Figliuolo in braccio e con alcuni Angeli a' piedi, che suonano e cantano, molto belli, e dagli lati sono S.
Lorenzo, S.
Maria Madalena, S.
Zanobi e S.
Benedetto.
E nella predella sono di figure piccole, storiette di que' Santi fatte con infinita diligenza.
Nella crociera di detta cappella, sono due altre tavole di mano del medesimo: in una è la incoronazione di Nostra Donna, e nell'altra una Madonna con due Santi, fatta con azzurri oltramarini bellissimi.
Dipinse dopo, nel tramezzo di S.
Maria Novella, in fresco a canto alla porta dirimpetto al coro, S.
Domenico, S.
Caterina da Siena e S.
Piero martire et alcune storiette piccole nella capella dell'incoronazione di Nostra Donna, nel detto tramezzo.
In tela fece nei portegli che chiudevano l'organo vecchio, una Nunziata che è oggi in convento, dirimpetto alla porta del dormentorio da basso, fra l'un chiostro e l'altro.
Fu questo padre, per i meriti suoi, in modo amato da Cosimo de' Medici, che avendo egli fatto murare la chiesa e convento di S.
Marco, gli fece dipignere in una faccia del capitolo tutta la Passione di Gesù Cristo, e dall'uno de' lati tutti i Santi che sono stati capi e fondatori di religioni, mesti e piangenti a' piè della croce, e dall'altro un S.
Marco Evangelista intorno alla Madre del Figliuol di Dio, venutasi meno nel vedere il Salvatore del mondo crucifisso, intorno alla quale sono le Marie, che tutte dolenti la sostengono, e S.
Cosimo e Damiano.
Dicesi che nella figura del S.
Cosimo fra' Giovanni ritrasse di naturale Nanni d'Antonio di Banco, scultore et amico suo.
Di sotto a questa opera fece in un fregio, sopra la spalliera, un albero che ha San Domenico a' piedi; et in certi tondi, che circondano i rami, tutti i papi, cardinali, vescovi, Santi e maestri di teologia, che aveva avuto insino allora la religione sua de' frati predicatori.
Nella quale opera, aiutandolo i frati, con mandare per essi in diversi luoghi, fece molti ritratti di naturale, che furono questi: S.
Domenico in mezzo, che tiene i rami dell'albero, papa Innocenzio Quinto franzese, il beato Ugone, primo cardinale di quell'Ordine, il beato Paulo Fiorentino patriarca, S.
Antonino arcivescovo fiorentino, il beato Giordano tedesco, secondo Generale di quell'Ordine, il beato Niccolò, il beato Remigio fiorentino, Boninsegno fiorentino martire; e tutti questi sono a man destra; a sinistra poi: Benedetto II trivisano, Giandomenico cardinale fiorentino, Pietro da Palude, patriarca ierosolimitano, Alberto Magno todesco, il beato Raimondo di Catelogna, terzo Generale dell'Ordine, il beato Chiaro Fiorentino provinciale romano, S.
Vincenzio di Valenza, et il beato Bernardo Fiorentino; le quali tutte teste sono veramente graziose e molto belle.
Fece poi nel primo chiostro, sopra certi mezzi tondi, molte figure a fresco bellissime, et un Crucifisso con S.
Domenico a' piedi, molto lodato; e nel dormentorio, oltre molte altre cose per le celle e nella facciata de' muri, una storia del Testamento Nuovo, bella quanto più non si può dire.
Ma particolarmente è bella a maraviglia la tavola dell'altar maggiore di quella chiesa, perché oltre che la Madonna muove a divozione chi la guarda, per la semplicità sua, e che i Santi che le sono intorno sono simili a lei, la predella nella quale sono storie del martirio di S.
Cosimo e Damiano e degl'altri, è tanto ben fatta che non è possibile imaginarsi di poter veder mai cosa fatta con più diligenza, né le più delicate o meglio intese figurine di quelle.
Dipinse similmente a S.
Domenico di Fiesole, la tavola dell'altar maggiore, la quale, perché forse pareva che si guastasse, è stata ritocca da altri maestri e peggiorata.
Ma la predella et il ciborio del Sacramento sonosi meglio mantenuti; et infinite figurine, che in una gloria celeste vi si veggiono, sono tanto belle che paiono veramente di paradiso, né può, chi vi si accosta, saziarsi di vederle.
In una capella della medesima chiesa, è di sua mano, in una tavola, la Nostra Dama anunziata dall'angelo Gabriello, con un profilo di viso tanto devoto, delicato e ben fatto, che par veramente non da un uomo, ma fatto in Paradiso; e nel campo del paese è Adamo et Eva, che furono cagione che della Vergine incarnasse il Redentore; nella predella ancora sono alcune storiette bellissime.
Ma sopra tutte le cose che fece, fra' Giovanni avanzò se stesso e mostrò la somma virtù sua e l'intelligenza dell'arte, in una tavola, che è nella medesima chiesa allato alla porta, entrando a man manca, nella quale Gesù Cristo incorona Nostra Donna in mezzo a un coro d'angeli, et in fra una multitudine infinita di Santi e Sante, tanti in numero, tanto ben fatti e con sì varie attitudini e diverse arie di teste, che incredibile piacere e dolcezza si sente in guardarle, anzi pare che que' spiriti beati non possino essere in cielo altrimente, o per meglio dire, se avessero corpo, non potrebbono; perciò che tutti i Santi e le Sante che vi sono, non solo sono vivi e con arie delicate e dolci, ma tutto il colorito di quell'opera par che sia di mano d'un Santo o d'un Angelo, come sono; onde a gran ragione fu sempre chiamato questo da ben religioso, frate Giovanni Angelico.
Nella predella poi, le storie che vi sono della Nostra Donna e di S.
Domenico, sono in quel genere divine; et io per me posso con verità affermare che non veggio mai questa opera che non mi paia cosa nuova, né me ne parto mai sazio.
Nella capella similmente della Nunziata di Firenze, che fece fare Piero di Cosimo de' Medici, dipinse i sportelli dell'armario dove stanno l'argenterie, di figure piccole, condotte con molta diligenza.
Lavorò tante cose questo padre, che sono per le case de' cittadini di Firenze, che io resto qualche volta maravigliato, come tanto e tanto bene potesse, eziandio in molti anni, condurre perfettamente un uomo solo.
Il molto reverendo don Vincenzio Borghini, spedalingo degl'Innocenti, ha di mano di questo padre una Nostra Donna piccola, bellissima; e Bartolomeo Gondi amatore di queste arti al pari di qual si voglia altro gentiluomo, ha un quadro grande, un piccolo et una croce di mano del medesimo.
Le pitture ancora, che sono nell'arco sopra la porta di S.
Domenico, sono del medesimo.
Et in S.
Trinita una tavola della sagrestia, dove è un Deposto di croce, nel quale mise tanta diligenza che si può, fra le migliori cose che mai facesse, annoverare.
In S.
Francesco, fuor della porta di S.
Miniato, è una Nunziata; et in S.
Maria Novella, oltre alle cose dette, dipinse di storie piccole il cero pasquale et alcuni reliquiari, che nelle maggiori solennità si pongono in sull'altare.
Nella Badia della medesima città, fece sopra una porta del chiostro un S.
Benedetto che accenna silenzio.
Fece a' Linaiuoli una tavola, che è nell'uffizio dell'Arte loro; et in Cortona un archetto sopra la porta della chiesa dell'Ordine suo, e similmente la tavola dell'altar maggiore.
In Orvieto cominciò in una volta della capella della Madonna, in Duomo, certi profeti, che poi furono finiti da Luca da Cortona.
Per la Compagnia del Tempio di Firenze fece in una tavola un Cristo morto.
E nella chiesa de' monaci degl'Angeli un Paradiso et un Inferno di figure piccole, nel quale con bella osservanza fece i beati bellissimi e pieni di giubilo e di celeste letizia; et i dannati apparecchiati alle pene dell'Inferno in varie guise mestissimi e portanti nel volto impresso il peccato e demerito loro; i beati si veggiono entrare celestemente ballando per la porta del Paradiso, et i dannati dai demonii all'Inferno nell'eterne pene strascinati.
Questa opera è in detta chiesa, andando verso l'altar maggiore a man ritta, dove sta il sacerdote, quando si cantano le messe, a sedere.
Alle monache di San Piero martire, che oggi stanno nel monasterio di San Felice in piazza, il quale era dell'ordine di Camaldoli, fece in una tavola la Nostra Donna, S.
Giovanni Battista, San Domenico, San Tommaso e San Piero martire, con figure piccole assai.
Si vede anco nel tramezzo di Santa Maria Nuova una tavola di sua mano.
Per questi tanti lavori, essendo chiara per tutta Italia la fama di fra' Giovanni, papa Nicola Quinto mandò per lui, et in Roma gli fece fare la cappella del palazzo, dove il papa ode la messa, con un Deposto di croce et alcune storie di S.
Lorenzo bellissime, e miniar alcuni libri che sono bellissimi.
Nella Minerva fece la tavola dell'altar maggiore, et una Nunziata che ora è a canto alla cappella grande, appoggiata a un muro.
Fece anco per il detto Papa la cappella del Sagramento in palazzo, che fu poi rovinata da Paulo Terzo per dirizzarvi le scale, nella quale opera, che era eccellente in quella maniera sua, aveva lavorato in fresco alcune storie della vita di Gesù Cristo, e fattovi molti ritratti di naturale, di persone segnalate di que' tempi, i quali per avventura sarebbono oggi perduti, se il Giovio non avesse fattone ricavar questi per il suo museo: papa Nicola Quinto, Federigo imperatore, che in quel tempo venne in Italia, frate Antonino, che poi fu arcivescovo di Firenze, il Biondo da Furlì e Ferrante d'Aragona.
E perché al Papa parve fra' Giovanni, sì come era veramente, persona di santissima vita, quieta e modesta, vacando l'arcivescovado in quel tempo di Firenze, l'aveva giudicato degno di quel grado; quando intendendo ciò il detto frate, supplicò a Sua Santità che provedesse d'un altro, perciò che non si sentiva atto a governar popoli, ma che avendo la sua Religione un frate amorevole de' poveri, dottissimo di governo e timorato di Dio, sarebbe in lui molto meglio quella dignità collocata, che in sé.
Il Papa sentendo ciò, e ricordandosi che quello che diceva era vero, gli fece la grazia liberamente; e così fu fatto arcivescovo di Fiorenza frate Antonino dell'Ordine de' predicatori, uomo veramente, per santità e dottrina, chiarissimo, et insomma tale che meritò che Adriano Sesto lo canonizzasse a' tempi nostri.
Fu gran bontà quella di fra' Giovanni, e nel vero cosa rarissima concedere una dignità et uno onore e carico così grande, a sé offerto da un sommo pontefice, a colui che egli, con buon occhio e sincerità di cuore, ne giudicò molto più di sé degno.
Apparino da questo Santo uomo i religiosi de' tempi nostri, a non tirarsi addosso quei carichi che degnamente non possono sostenere et a cedergli a coloro che dignissimi ne sono.
E volesse Dio, per tornare a fra' Giovanni, sia detto con pace de' buoni, che così spendessero tutti i religiosi uomini il tempo, come fece questo padre veramente angelico, poi che spese tutto il tempo della sua vita in servigio di Dio e benefizio del mondo e del prossimo.
E che più si può o deve disiderare, che acquistarsi vivendo santamente il regno celeste, e virtuosamente operando eterna fama nel mondo? E nel vero non poteva e non doveva discendere una somma e straordinaria virtù, come fu quella di fra' Giovanni, se non in uomo di santissima vita; perciò che devono coloro che in cose ecclesiastiche e sante s'adoperano, essere ecclesiastici e santi uomini, essendo che si vede, quando cotali cose sono operate da persone che poco credino e poco stimano la religione, che spesso fanno cadere in mente appetiti disonesti e voglie lascive; onde nasce il biasimo dell'opere del disonesto, e la lode ne l'artificio e nella virtù.
Ma io non vorrei già che alcuno s'ingannasse, interpretando il goffo et inetto, devoto, et il bello e buono, lascivo; come fanno alcuni, i quali vedendo figure, o di femina o di giovane un poco più vaghe e più belle et adorne che l'ordinario, le pigliano subito e giudicano per lascive non si avedendo che a gran torto dannano il buon giudizio del pittore, il quale tiene i Santi e Sante, che sono celesti, tanto più belli della natura mortale, quanto avanza il cielo la terrena bellezza e l'opere nostre; e, che è peggio, scuoprono l'animo loro infetto e corrotto, cavando male e voglie disoneste di quelle cose, delle quali, se e' fussino amatori dell'onesto, come in quel loro zelo sciocco vogliono dimostare, verrebbe loro disiderio del cielo e di farsi accetti al Creatore di tutte le cose, dal quale perfettissimo e bellissimo nasce ogni perfezzione e bellezza.
Che farebbono, o è da credere che facciano questi cotali, se dove fussero o sono bellezze vive accompagnate da lascivi costumi, da parole dolcissime, da movimenti pieni di grazia, e da occhi che rapiscono i non ben saldi cuori, si ritrovassero, o si ritruovano, poiché la sola immagine e quasi ombra del bello, cotanto gli commove? Ma non perciò vorrei che alcuni credessero che da me fussero approvate quelle figure, che nelle chiese sono dipinte, poco meno che nude del tutto, perché in cotali si vede che il pittore non ha avuto quella considerazione che doveva al luogo; perché, quando pure si ha da mostrare quanto altri sappia, si deve fare con le debite circostanze, et aver rispetto alle persone, a' tempi et ai luoghi.
Fu fra' Giovanni semplice uomo e santissimo ne' suoi costumi; e questo faccia segno della bontà sua, che, volendo una mattina papa Nicola Quinto dargli desinare, si fece coscienza di mangiar della carne senza licenza del suo priore, non pensando all'autorità del Pontefice.
Schivò tutte le azzioni del mondo; e puro e santamente vivendo, fu de' poveri tanto amico, quanto penso che sia ora l'anima sua del cielo.
Si esercitò continuamente nella pittura, né mai volle lavorare altre cose che di Santi.
Potette esser ricco e non se ne curò, anzi usava dire che la vera ricchezza non è altro che contentarsi del poco.
Potette comandare a molti e non volle, dicendo esser men fatica e manco errore ubidire altrui.
Fu in suo arbitrio avere dignità ne' frati e fuori, e non le stimò, affermando non cercare altra dignità che cercare di fuggire l'Inferno et accostarsi al Paradiso.
E di vero qual dignità si può a quella paragonare, la qual deverebbono i religiosi, anzi pur tutti gl'uomini, cercare? E che in solo Dio e nel vivere virtuosamente si ritruova? Fu umanissimo e sobrio; e castamente vivendo, dai lacci del mondo si sciolse, usando spesse fiate di dire, che chi faceva questa arte aveva bisogno di quiete e di vivere senza pensieri, e che chi fa cose di Cristo, con Cristo deve star sempre.
Non fu mai veduto in collera tra i frati; il che grandissima cosa e quasi impossibile mi pare a credere; e soghignando semplicemente aveva in costume d'amonire gl'amici.
Con amorevolezza incredibile, a chiunche ricercava opere da lui, diceva che ne facesse esser contento il priore, e che poi non mancherebbe.
Insomma fu questo non mai a bastanza lodato padre in tutte l'opere e ragionamenti suoi umilissimo e modesto, e nelle sue pitture facile e devoto; et i Santi che egli dipinse, hanno più aria e somiglianza di Santi, che quegli di qualunche altro.
Aveva per costume non ritoccare, né racconciar mai alcuna sua dipintura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute la prima volta, per creder (secondo ch'egli diceva) che così fusse la volontà di Dio.
Dicono alcuni che fra' Giovanni non arebbe messo mano ai penelli, se prima non avesse fatto orazione.
Non fece mai Crucifisso che non si bagnasse le gote di lagrime; onde si conosce nei volti e nell'attitudini delle sue figure la bontà del sincero e grande animo suo nella religione cristiana.
Morì d'anni sessantotto nel 1455, e lasciò suoi discepoli Benozzo fiorentino, che imitò sempre la sua maniera; Zanobi Strozzi, che fece quadri e tavole per tutta Fiorenza, per le case de' cittadini, e particolarmente una tavola, posta oggi nel tramezzo di S.
Maria Novella, allato a quella di fra' Giovanni, et una in S.
Benedetto, monasterio de' Monaci di Camaldoli, fuor della porta a Pinti, oggi rovinato; la quale è al presente nel monasterio degl'Angeli, nella chiesetta di S.
Michele, inanzi che si entri nella principale, a man ritta andando verso l'altare, apoggiata al muro; e similmente una tavola in S.
Lucia, alla capella de' Nasi; et un'altra in S.
Romeo et in guardaroba del Duca è il ritratto di Giovanni di Bicci de' Medici, e quello di Bartolomeo Valori in uno stesso quadro, di mano del medesimo.
Fu anco discepolo di fra' Giovanni Gentile da Fabbriano e Domenico di Michelino, il quale in S.
Apolinare di Firenze fece la tavola all'altare di S.
Zanobi et altre molte dipinture.
Fu sepolto fra' Giovanni dai suoi frati nella Minerva di Roma, lungo l'entrata del fianco, appresso la sagrestia in un sepolcro di marmo tondo, e sopra esso egli, ritratto di naturale; nel marmo si legge intagliato questo epitaffio.
Non mihi sit laudi, quod eram velut alter Apelles;
sed quod lucra tuis omnia, Christe, dabam:
altera nam terris opera extant, altera coelo.
Urbs me Ioannem flos tulit Etrurie.
Sono di mano di fra' Giovanni in S.
Maria del Fiore due grandissimi libri miniati divinamente, i quali sono tenuti con molta venerazione e riccamente adornati, né si veggiono se non ne' giorni solennissimi.
Fu ne' medesimi tempi di fra' Giovanni, celebre e famoso miniatore, un Attavante fiorentino, del quale non so altro cognome; il quale fra molte altre cose miniò un Silio Italico che è oggi in S.
Giovanni e Polo di Vinezia; della quale opera non tacerò alcuni particolari, sì perché sono degni d'essere in cognizione degl'artefici, sì perché non si truova, ch'io sappia, altra opera di costui; né anco di questa averei notizia, se l'affizione che a queste nobili arti porta il molto reverendo Messer Cosimo Bartoli, gentiluomo fiorentino, non mi avesse di ciò dato notizia, acciò non stia come sepolta la virtù dell'Attavante.
In detto libro dunque, la figura di Silio ha in testa una celata cristata d'oro et una corona di lauro; indosso una corazza azzurra tocca d'oro all'antica; nella man destra un libro, e la sinistra tiene sopra una spada corta.
Sopra la corazza ha una clamide rossa affibbiata con un gruppo dinanzi, e gli pende dalle spalle, fregiata d'oro; il rovescio della quale clamide apparisce cangiante e ricamato a rosette d'oro.
Ha i calzaretti gialli e posa in sul piè ritto in una nicchia.
La figura, che dopo in questa opera rappresenta Scipione Africano, ha indosso una corazza gialla, i cui pendagli e maniche di colore azzurro, sono tutti ricamati d'oro; ha in capo una celata con due aliette et un pesce per cresta.
L'effigie del giovane è bellissima e bionda; et alzando il braccio destro fieramente, ha in mano una spada nuda; e nella stanca tiene la guaina, che è rossa e ricamata d'oro.
Le calze sono di color verde e semplici e la clamide, che è azzurra, ha il didentro rosso con un fregio attorno d'oro; et agruppata avanti alla fontanella, lascia il dinanzi tutto aperto, cadendo dietro con bella grazia.
Questo giovane, che è in una nicchia di mischi verdi e bertini con calzari azzurri ricamati d'oro, guarda con ferocità inestimabile Annibale, che gli è all'incontro nell'altra faccia del libro.
E la figura di questo Annibale, d'età di anni 36 in circa, fa due crespe sopra il naso a guisa di adirato e stizzoso, e guarda ancor essa fiso Scipione.
Ha in testa una celata gialla, per cimiero un drago verde e giallo; e per ghirlanda un serpe; posa in sul piè stanco, et alzato il braccio destro, tiene con esso un'asta d'un pilo antico, o vero partigianetta; ha la corazza azzurra et i pendagli parte azzurri e parte gialli, con le maniche cangianti d'azzurro e rosso, et i calzaretti gialli.
La clamide è cangiante di rosso e giallo, aggruppata in sulla spalla destra e foderata di verde; e tenendo la mano stanca in sulla spada, posa in una nicchia di mischi gialli, bianchi e cangianti.
Nell'altra faccia è papa Nicola Quinto, ritratto di naturale, con un manto cangiante pagonazzo e rosso, e tutto ricamato d'oro; è senza barba in profilo affatto e guarda verso il principio dell'opera, che è dirincontro; e con la man destra accenna verso quella, quasi maravigliandosi; la nicchia è verde, bianca e rossa.
Nel fregio poi sono certe mezze figurine in un componimento fatto d'ovati e tondi, et altre cose simili con una infinità d'ucelletti e puttini tanto ben fatti, che non si può più disiderare.
Vi sono appresso in simile maniera Annone cartaginese, Asdrubale, Lelio, Massinissa, C.
Salinatore, Nerone, Sempronio, M.
Marcello, Q.
Fabio, l'altro Scipione e Vibio.
Nella fine del libro si vede un Marte sopra una carretta antica, tirata da due cavalli rossi.
Ha in testa una celata rossa e d'oro, con due aliette nel braccio sinistro, uno scudo antico che lo sporge inanzi, e nella destra una spada nuda.
Posa sopra il piè manco solo, tenendo l'altro in aria.
Ha una corazza all'antica tutta rossa e d'oro, e simili sono le calze et i calzaretti.
La clamide è azzurra di sopra, e di sotto tutta verde ricamata d'oro.
La carretta è coperta di drappo rosso ricamato d'oro, con una banda d'ermellini attorno et è posta in una campagna fiorita e verde, ma fra scogli e sassi.
E da lontano vede paesi e città in un aere d'azzurro eccellentissimo.
Nell'altra faccia un Nettuno giovane ha il vestito a guisa d'una camicia lunga, ma ricamata a torno del colore che è la terretta verde; la carnagione è pallidissima; nella destra tiene un tridente piccoletto e con la sinistra s'alza la vesta; posa con amendue i piedi sopra la carretta, che è coperta di rosso, ricamato d'oro, e fregiato intorno di zibellini.
Questa carretta ha quattro ruote, come quella del Marte, ma è tirata da quattro delfini, sonvi tre ninfe marine, due putti et infiniti pesci, fatti tutti d'un acquerello simile alla terretta et in aere bellissime.
Vi si vede dopo Cartagine disperata, la quale è una donna ritta e scapigliata, e di sopra vestita di verde e dal fianco in giù aperta la veste, foderata di drappo rosso ricamata d'oro, per la quale apritura si viene a vedere altra veste, ma sottile e cangiante di paonazzo e bianco.
Le maniche sono rosse e d'oro, con certi sgonfi e svolazi, che fa la vesta di sopra; porge la mano stanca verso Roma che l'è all'incontro, quasi dicendo: "Che vuoi tu? Io ti risponderò"; e nella destra ha una spada nuda, come infuriata.
I calzari sono azzurri, e posa sopra uno scoglio in mezzo del mare circondato da un'aria bellissima.
Roma è una giovane tanto bella quanto può uomo imaginarsi, scompigliata, con certe trecce fatte con infinita grazia e vestita di rosso puramente, con un solo ricamo da piede.
Il rovescio della veste è giallo, e la veste di sotto, che per l'aperto si vede, è di cangiante paonazzo e bianco; i calzari sono verdi, nella man destra ha uno scettro, nella sinistra un mondo, e posa ancora essa sopra uno scoglio, in mezzo d'un aere, che non può essere più bello.
Ma sì bene io mi sono ingegnato come ho saputo il meglio, di mostrare con quanto artifizio fussero queste figure da Attavante lavorate, niuno creda però che io abbia detto pure una parte di quello che si può dire della bellezza loro, essendo che per cose di que' tempi, non si può di minio veder meglio, né lavoro fatto con più invenzione, giudizio e disegno; e sopra tutto i colori non possono essere più belli, né più delicatamente ai luoghi loro posti, con graziosissima grazia.
FINE DELLA VITA DI FRA' GIOVANNI DA FIESOLE
VITA DI LEON BATISTA ALBERTI ARCHITETTO FIORENTINO
Grandissima commodità arrecano le lettere, universalmente a tutti quelli artefici che di quelle si dilettano, ma particolarmente agli scultori, pittori et architetti, aprendo la via all'invenzioni di tutte l'opere che si fanno; senzaché non può essere il giudizio perfetto in una persona (abbia pur naturale a suo modo) la quale sia privata dell'accidentale, cioè della compagnia delle buone lettere; perché chi non sa che nel situare gl'edifizii bisogna filosoficamente schifare la gravezza de' venti pestiferi, la insalubrità dell'aria, i puzzi e vapori dell'acque crude e non salutifere? Chi non conosce che bisogna con matura considerazione sapere o fuggire o apprendere per sé solo, ciò che si cerca mettere in opera, senza avere a raccomandarsi alla mercé dell'altrui teorica, la quale separata dalla pratica il più delle volte giova assai poco? Ma quando elle si abbattono per avventura a esser insieme, non è cosa che più si convenga alla vita nostra, sì perché l'arte col mezzo della scienza diventa molto più perfetta e più ricca; sì perché i consigli e gli scritti de' dotti artefici hanno in sé maggior efficacia e maggior credito che le parole o l'opere di coloro che non fanno altro che un semplice esercizio, o bene o male che se lo facciano.
E che tutte queste cose siano vere, si vede manifestamente in Leon Batista Alberti, il quale, per avere atteso alla lingua latina, e dato opera all'architettura, alla prospettiva et alla pittura, lasciò i suoi libri scritti di maniera che, per non essere stato fra gl'artefici moderni chi le abbia saputo distendere con la scrittura, ancor che infiniti ne siano stati più eccellenti di lui nella patria, e' si crede comunemente (tanta forza hanno gli scritti suoi nelle penne e nelle lingue de' dotti) che egli abbia avanzato tutti coloro che hanno avanzato lui con l'operare.
Onde si vede per esperienza, quanto alla fama et al nome, che fra tutte le cose gli scritti sono di maggior forza e di maggior vita, atteso che i libri agevolmente vanno per tutto, e per tutto si acquistano fede, pure che siano veritieri e senza menzogne.
Non è maraviglia dunque, se più che per l'opere manuali è conosciuto per le scritture il famoso Leon Batista, il quale nato a Fiorenza della nobilissima famiglia degl'Alberti, della quale si è in altro luogo ragionato, attese non solo a cercare il mondo e misurare le antichità, ma ancora, essendo a ciò assai inclinato, molto più allo scrivere che all'operare.
Fu bonissimo aritmetico e geometrico, e scrisse dell'architettura dieci libri in lingua latina, publicati da lui nel 1481, et oggi si leggono tradotti in lingua fiorentina dal reverendo Messer Cosimo Bartoli, preposto di San Giovanni di Firenze.
Scrisse della pittura tre libri, oggi tradotti in lingua toscana da Messer Lodovido Domenichi; fece un trattato de' tirari et ordini di misurar altezze; i libri della vita civile et alcune cose amorose in prosa et in versi; e fu il primo che tentasse di ridurre i versi volgari alla misura de' latini, come si vede in quella sua epistola:
Questa per estrema miserabile pistola mando
a te, che spregi miseramente noi.
Capitando Leon Batista a Roma, al tempo di Nicola Quinto, che aveva col suo modo di fabricare messo tutta Roma sottosopra, divenne, per mezzo del Biondo da Furlì suo amicissimo, familiare del Papa, che prima si consigliava nelle cose d'architettura con Bernardo Rossellino scultore et architetto fiorentino, come si dirà nella vita d'Antonio suo fratello.
Costui, avendo messo mano a rassettare il palazzo del papa et a fare alcune cose in Santa Maria Maggiore, come volle il Papa, da indi inanzi si consigliò sempre con Leon Batista.
Onde il Pontefice col parere dell'uno di questi duoi e coll'esseguire dell'altro, fece molte cose utili e degne di esser lodate; come furono il condotto dell'acqua vergine, il quale essendo guasto si racconciò; e si fece la fonte in sulla piazza de' Trievi con quelli ornamenti di marmo che vi si veggiono, ne' quali sono l'arme di quel Pontefice e del popolo romano.
Dopo, andato al signor Sigismondo Malatesti d'Arimini, gli fece il modello della chiesa di S.
Francesco, e quello della facciata particolarmente che fu fatta di marmi, e così la rivolta della banda di verso mezzogiorno, con archi grandissimi e sepolture per uomini illustri di quella città.
Insomma ridusse quella fabrica in modo che per cosa soda ell'è de' più famosi tempii d'Italia.
Dentro ha sei cappelle bellissime, una delle quali, dedicata a San Ieronimo, è molto ornata, serbandosi in essa molte reliquie venute di Gierusalem.
Nella medesima è la sepoltura del detto signor Sigismondo, e quella della moglie, fatte di marmi molto riccamente l'anno 1450, e sopra una è il ritratto di esso signore, et in altra parte di quell'opera quello di Leon Batista.
L'anno poi 1457 che fu trovato l'utilissimo modo di stampare i libri da Giovanni Guittembergh germano, trovò Leon Batista, a quella similitudine per via d'uno strumento, il modo di lucidare le prospettive naturali e diminuire le figure, et il modo parimente da potere ridurre le cose piccole in maggior forma e ringrandirle; tutte cose capricciose, utili all'arte e belle affatto.
Volendo ne' tempi di Leon Batista, Giovanni di Paulo Rucellai fare a sue spese la facciata principale di Santa Maria Novella tutta di marmo, ne parlò con Leon Battista, suo amicissimo; e da lui avuto non solamente consiglio ma il disegno, si risolvette di volere ad ogni modo far quell'opera per lasciar di sé quella memoria; e così, fattovi metter mano fu finita l'anno 1477 con molta sodisfazione dell'universale a cui piacque tutta l'opera, ma particolarmente la porta, nella quale si vede che durò Leonbattista più che mediocre fatica.
A Cosimo Rucellai fece similmente il disegno del palazzo che egli fece nella strada che si chiama la Vigna, e quello della loggia che gl'è dirimpetto, nella quale, avendo girati gl'archi sopra le colonne strette nella faccia dinanzi e nelle teste, perché volle seguitare i medesimi e non fare un arco solo, gl'avanzò da ogni banda spazio, onde fu forzato fare alcuni risalti ne' canti di dentro; quando poi volle girare l'arco della volta di dentro, veduto non potere dargli il sesto del mezzo tondo, che veniva stiacciato e goffo, si risolvette a girare in sui canti, da un risalto all'altro, certi archetti piccoli, mancandogli quel giudizio e disegno che fa apertamente conoscere che oltre alla scienza bisogna la pratica, perché il giudizio non si può mai far perfetto, se la scienza, operando, non si mette in pratica.
Dicesi che il medesimo fece il disegno della casa et orto de' medesimi Rucellai, nella via della Scala, la quale è fatta con molto giudizio e commodissima, avendo oltre agl'altri molti agi, due logge, una volta a mezzogiorno e l'altra a ponente, amendue bellissime e fatte senza archi sopra le colonne, il qual modo è il vero e proprio che tennero gl'antichi, perciò che gl'architravi, che son posti sopra i capitegli delle colonne spianano, là dove non può una cosa quadra, come sono gl'archi che girano, posare sopra una colonna tonda, che non posino i canti in falso.
Adunque il buon modo di fare vuole che sopra le colonne si posino gl'architravi, e che quando si vuol girare archi, si facciano pilastri e non colonne.
Per i medesimi Rucellai in questa stessa maniera fece Leon Batista in San Brancazio una cappella che si regge sopra gl'architravi grandi, posati sopra due colonne e due pilastri, forando sotto il muro della chiesa, che è cosa difficile ma sicura.
Onde questa opera è delle migliori che facesse questo architetto.
Nel mezzo di questa cappella, è un sepolcro di marmo molto ben fatto, in forma ovale e bislungo, simile, come in esso si legge, al sepolcro di Gesù Cristo in Gierusalem.
Ne' medesimi tempi, volendo Lodovico Gonzaga marchese di Mantoa, fare nella Nunziata de' Servi di Firenze la tribuna e cappella maggiore col disegno e modello di Leon Battista, fatto rovinar a sommo di detta chiesa una cappella quadra, che vi era vecchia e non molto grande, dipinta all'antica, fece la detta tribuna capricciosa e difficile, a guisa d'un tempio tondo, circondato da nove cappelle, che tutte girano in arco tondo e dentro sono a uso di nicchia: per lo che, reggendosi gl'archi di dette cappelle in sui pilastri dinanzi, vengono gl'ornamenti dell'arco di pietra, accostandosi al muro, a tirarsi sempre in dietro per appoggiarsi al detto muro, che secondo l'andare della tribuna gira in contrario; onde quando i detti archi delle cappelle si guardano dagli lati par che caschino indietro e che abbiano, come hanno invero, disgrazia, se bene la misura è retta et il modo di fare difficile.
E invero se Leonbattista avesse fuggito questo modo, sarebbe stato meglio; perché, se bene è malagevole a condursi, ha disgrazia nelle cose piccole e grandi e non può riuscir bene.
E che ciò sia vero nelle cose grandi, l'arco grandissimo dinanzi che dà l'entrata alla detta tribuna, dalla parte di fuori è bellissimo, e di dentro, perché bisogna che giri secondo la cappella che è tonda, pare che caschi all'indietro e che abbia estrema disgrazia.
Il che forse non arebbe fatto Leonbattista, se con la scienza e teorica, avesse avuto la pratica e la sperienza nell'operare; perché un altro arebbe fuggito quella difficultà e cercato più tosto la grazia e maggior bellezza dell'edifizio.
Tutta questa opera in sé, per altro, è bellissima, capricciosa e difficile, e non ebbe Leonbattista se non grande animo a voltare in quei tempi quella tribuna nella maniera che fece.
Dal medesimo Lodovico marchese condotto poi Leonbattista a Mantoa, fece per lui il modello della chiesa di S.
Andrea, e d'alcune altre cose; e per la via d'andare da Mantoa a Padoa, si veggiono alcuni tempii fatti secondo la maniera di costui.
Fu esecutore de' disegni e modelli di Leonbattista, Salvestro Fancelli fiorentino, architetto e scultore ragionevole, il quale condusse secondo il volere di detto Leonbattista tutte l'opere che fece fare in Firenze, con giudizio e diligenza straordinaria.
E in quelli di Mantoa un Luca fiorentino, che abitando poi sempre in quella città e morendovi lasciò il nome, secondo il Filareto, alla famiglia de' Luchi, che vi è ancor oggi.
Onde fu non piccola ventura la sua aver amici che intendesseno, sapessino e volessino servire; perciò che non potendo gl'architetti star sempre in sul lavoro, è loro di grandissimo aiuto un fedele et amorevole essecutore, e se niuno mai lo seppe, lo so io benissimo per lunga pruova.
Nella pittura non fece Leonbattista opere grandi né molto belle, conciò sia che quelle che si veggiono di sua mano, che sono pochissime, non hanno molta perfezzione; né è gran fatto, perché egli attese più agli studi che al disegno; pur mostrava assai bene, disegnando, il suo concetto, come si può vedere in alcune carte di sua mano che sono nel nostro libro; nelle quali è disegnato il ponte Sant'Agnolo et il coperto che col disegno suo vi fu fatto a uso di loggia, per difesa del sole ne' tempi di stati, e delle piogge e de' venti l'inverno; la quale opera gli fece far papa Nicola Quinto, che aveva disegnato farne molte altre simili per tutta Roma, ma la morte vi s'interpose.
Fu opera di Leonbattista quella che è in Fiorenza su la coscia del ponte alla Carraia in una piccola cappelletta di Nostra Donna, cioè uno scabello d'altare, dentrovi tre storiette con alcune prospettive, che da lui furono assai meglio descritte con la penna che dipinte col pennello.
In Fiorenza medesimamente è in casa di Palla Rucellai un ritratto di se medesimo fatto alla spera, et una tavola di figure assai grandi di chiaro e scuro.
Figurò ancora una Vinegia in prospettiva, e San Marco; ma le figure che vi sono furono condotte da altri maestri; et è questa una delle migliori cose che si veggia di sua pittura.
Fu Leonbattista persona di civilissimi e lodevoli costumi, amico de' virtuosi, e liberale e cortese affatto con ognuno, e visse onoratamente, e da gentiluomo com'era, tutto il tempo di sua vita.
E finalmente essendo condotto in età assai ben matura, se ne passò contento e tranquillo a vita migliore, lasciando di sé onoratissimo nome.
FINE DELLA VITA DI LEONBATTISTA ALBERTI
VITA DI LAZZARO VASARI ARETINO PITTORE
Grande è veramente il piacere di coloro che truovano qualcuno de' suoi maggiori e della propria famiglia esser stato, in una qualche professione o d'arme o di lettere o di pittura o qualsivoglia altro nobile esercizio, singolare e famoso.
E quegl'uomini, che nell'istorie trovano esser fatta onorata menzione d'alcuno de' suoi passati, hanno pure, se non altro, uno stimolo alla virtù et un freno che gli ratiene dal non fare cosa indegna di quella famiglia che ha avuto uomini illustri e chiarissimi.
Ma quanto sia il piacere, come dissi da principio, lo pruovo in me stesso, avendo trovato fra i miei passati Lazzaro Vasari essere stato pittore famoso ne' tempi suoi, non solamente nella sua patria, ma in tutta Toscana ancora.
E ciò non certo senza cagione, come potrei mostrar chiaramente, se, come ho fatto degl'altri, mi fusse lecito parlare liberamente di lui.
Ma perché, essendo io nato del sangue suo, si potrebbe agevolmente credere che io in lodandolo passassi i termini, lasciando da parte i meriti suoi e della famiglia, dirò semplicemente quello che io non posso e non debbo in niun modo tacere, non volendo mancare al vero, donde tutta pende l'istoria.
Fu dunque Lazzaro Vasari pittor aretino amicissimo di Piero della Francesca dal Borgo a San Sepolcro, e sempre praticò con esso lui, mentre egli lavorò, come si è detto, in Arezzo; né gli fu cotale amicizia, come spesso adiviene, se non di giovamento cagione; perciò che, dove prima Lazzaro attendeva solamente a far figure piccole per alcune cose, secondo che allora si costumava, si diede a far cose maggiori, mediante Piero della Francesca.
E la prima opera in fresco fu in San Domenico d'Arezzo, nella seconda cappella a man manca, entrando in chiesa, un San Vincenzio, a' piè del quale dipinse inginocchioni sé e Giorgio suo figliuolo giovanetto, in abiti onorati di que' tempi, che si raccomandano a quel Santo, essendosi il giovane con un coltello inavertentemente percosso il viso; nella quale opera, se bene non è alcuna inscrizione, alcuni ricordi nondimeno de' vecchi di casa nostra, e l'arme che vi è de' Vasari, fanno che così si crede fermamente.
Di ciò sarebbe senza dubbio stato in quel convento memoria, ma perché molte volte per i soldati sono andate male le scritture et ogni altra cosa, non me ne maraviglio.
Fu la maniera di Lazzaro tanto simile a quella di Pietro borghese, che pochissima differenza fra l'una e l'altra si conosceva.
E perché nel suo tempo si costumava assai dipignere nelle barde de' cavalli varii lavori e partimenti d'imprese, secondo che coloro erano che le portavano, fu in ciò Lazzero bonissimo maestro, e massimamente essendo suo proprio far figurine piccole con molta grazia, le quali in cotali arnesi molto bene si accomodavano.
Lavorò Lazzaro per Niccolò Piccino e per i suoi soldati e capitani, molte cose piene di storie e d'imprese, che furono tenute in pregio e con tanto suo utile, che furono cagione, mediante il guadagno che ne traeva, che egli ritirò in Arezzo una gran parte de' suoi fratelli; i quali, attendendo alle misture de' vasi di terra, abitavano in Cortona.
Tirossi parimente in casa Luca Signorelli da Cortona, suo nipote, nato d'una sua sorella, il quale, essendo di buono ingegno, acconciò con Pietro borghese acciò imparasse l'arte della pittura, il che benissimo gli riuscì, come al suo luogo si dirà.
Lazzaro dunque attendendo a studiare continuamente le cose dell'arte, si fece ogni giorno più eccellente, come ne dimostrano alcuni disegni di sua mano, molto buoni, che sono nel nostro libro.
E perché molto si compiaceva in certe cose naturali e piene d'affetti, nelle quali esprimeva benissimo il piagnere, il ridere, il gridare, la paura, il tremito e certe simili cose, per lo più le sue pitture son piene d'invenzioni così fatte; come si può vedere in una cappellina dipinta a fresco di sua mano in San Gimignano d'Arezzo, nella qual è un Crucifisso, la Nostra Donna, San Giovanni e la Maddalena a' piè della croce, che in varie attitudini piangono così vivamente, che gl'acquistarono credito e nome fra i suoi cittadini.
Dipinse in sul drappo, per la Compagnia di Santo Antonio della medesima città, un gonfalone che si porta a processione, nel quale fece Gesù Cristo alla colonna, nudo e legato, con tanta vivacità che par che tremi, e che tutto ristretto nelle spalle sofferisca con incredibile umilità e pazienza le percosse che due giudei gli dànno; de' quali uno, recatosi in piedi, gira con ambe le mani, voltando le spalle verso Gesù Cristo in atto crudelissimo; l'altro in profilo et in punta di piè s'alza, e strignendo con le mani la sferza e digrignando i denti, mena con tanta rabbia, che più non si può dire.
A questi due dipinse Lazzaro le vestimenta stracciate, per meglio dimostrare l'ignudo, bastandogli in un certo modo ricoprire le vergogne loro e le meno oneste parti.
Questa opera, essendo durata in sul drappo (di che certo mi maraviglio) tanti anni et insino a oggi, fu, per la sua bellezza e bontà, fatta ritrarre dagl'uomini di quella Compagnia dal Priore franzese, come al suo luogo ragioneremo.
Lavorò ancor Lazzaro a Perugia nella chiesa de' Servi in una capella a canto alla sagrestia, alcune storie della Nostra Donna et un Crucifisso; e nella Pieve di Monte Pulciano una predella di figure piccole.
In Castiglione Aretino una tavola a tempera in S.
Francesco et altre molte cose, che per non esser lungo non accade raccontare; e particolarmente di figure piccole molti cassoni, che sono per le case de' cittadini.
E nella Parte Guelfa di Fiorenza si vede fra gl'armamenti vecchi alcune barde fatte da lui, molto ben lavorate.
Fece ancora per la Compagnia di S.
Bastiano, in un gonfalone, il detto Santo alla colonna, e certi Angeli che lo coronano, ma oggi è guasto e tutto consumato dal tempo.
Lavorava in Arezzo, ne' tempi di Lazzaro, finestre di vetro Fabiano Sassoli aretino, giovane in quello esercizio di molta intelligenza, come ne fanno fede l'opere che sono di suo nel Vescovado, Badia, Pieve et altri luoghi di quella città; ma non aveva molto disegno e non aggiugneva a gran pezzo a quelle che Parri Spinelli faceva; perché deliberando, sì come ben sapeva cuocere i vetri, commettergli et armargli, così voler fare qualche opera che fusse anco di ragionevole pittura, si fece fare a Lazzaro due cartoni a sua fantasia, per fare due finestre alla Madonna delle Grazie.
E ciò avendo ottenuto da Lazzaro, che amico suo e cortese artefice era, fece le dette finestre e le condusse di maniera belle e ben fatte, che non hanno da vergognarsi da molte.
In una è una Nostra Donna molto bella, e nell'altra (la quale è di gran lunga migliore) è una Resurrezione di Cristo, che ha dinanzi al sepolcro un armato in iscorto, che per essere la finestra piccola, e per conseguente la pittura, è maraviglia come in sì poco spazio possono apparire quelle figure così grandi.
Molte altre cose potrei dire di Lazzaro, il quale disegnò benissimo, come si può vedere in alcune carte del nostro libro, ma perché così mi par ben fatto, le tacerò.
Fu Lazzaro persona piacevole et argutissimo nel parlare; et ancora che fusse molto dedito ai piaceri, non però si partì mai dalla vita onesta.
Visse ancora 72, e lasciò Giorgio suo figliuolo, il quale attese continuamente all'antiquità de' vasi di terra aretini; e nel tempo che in Arezzo dimorava Messer Gentile urbinate, vescovo di quella città, ritrovò i modi del colore rosso e nero de' vasi di terra che insino al tempo del re Porsena i vecchi aretini lavorarono.
Et egli, che industriosa persona era, fece vasi grandi al torno d'altezza d'un braccio e mezzo, i quali in casa sua si veggiono ancora.
Dicono che, cercando egli di vasi in un luogo, dove pensava che gl'antichi avessero lavorato, trovò in un campo di terra al Ponte alla Calciarella, luogo così chiamato, sotto terra tre braccia, tre archi delle fornaci antiche, et intorno a essi di quella mistura e molti vasi rotti; degl'interi quattro, i quali, andando in Arezzo il Magnifico Lorenzo de' Medici, da Giorgio per introduzzione del vescovo gl'ebbe in dono; onde furono cagione e principio della servitù che con quella felicissima casa poi sempre tenne.
Lavorò Giorgio benissimo di rilievo, come si può vedere in casa sua in alcune teste di sua mano.
Ebbe cinque figliuoli maschi, i quali tutti fecero l'esercizio medesimo, e tra loro furono buoni artefici Lazzaro e Bernardo, che giovinetto morì a Roma; e certo se la morte non lo rapiva così tosto alla casa sua, per l'ingegno che destro e pronto si vide in lui, egli avrebbe accresciuto onore alla patria sua.
Morì Lazzaro vecchio nel 1452 e Giorgio suo figliuolo, essendo di 68 anni, nel 1484, e furono sepolti amendue nella Pieve d'Arezzo, appiè della cappella loro di S.
Giorgio, dove in lode di Lazzaro furono col tempo appiccati questi versi:
Aretii exultet tellus clarissima: namque est
rebus in angustis in tenuique labor.
Vix operum istius partes cognoscere possis,
Myrmecides taceat: Callicrates sileat.
Finalmente Giorgio Vasari ultimo, scrittore della presente storia, come grato de' benefizii che riconosce in gran parte dalla virtù de' suoi maggiori, avendo, come si disse nella vita di Piero Laurati, dai suoi cittadini e dagl'Operai e canonici, ricevuto in dono la cappella maggiore di detta Pieve, e quella ridotta nel termine che si è detto, ha fatto nel mezzo del coro, che è dietro all'altare, una nuova sepoltura; et in quella, trattole donde prima erano, fatto riporre l'ossa di detti Lazzaro e Giorgio vecchi, e quelle parimente di tutti gl'altri che sono stati di detta famiglia, così femine come maschi, e così fatto nuovo sepolcro a tutti i discendenti della casa de' Vasari; il corpo similmente della madre, che morì in Firenze l'anno 1557, stato in deposito alcuni anni in S.
Croce, ha fatto porre nella detta sepoltura, sì come ella disiderava, con Antonio suo marito e padre di lui, che morì insin l'anno 1527 di pestilenza; e nella predella, che è sotto la tavola di detto altare, sono ritratti di naturale dal detto Giorgio, Lazzaro e Giorgio vecchio suo avolo, Antonio suo padre e Maria Madalena de' Tacci, sua madre.
E questo sia il fine della vita di Lazzaro Vasari, pittore aretino, etc.
FINE DELLA VITA DI LAZZARO VASARI PITTORE ARETINO
VITA D'ANTONELLO DA MESSINA PITTORE
Quando io considero meco medesimo le diverse qualità de' benefizii et utili, che hanno fatto all'arte della pittura molti maestri che hanno seguitato questa seconda maniera, non posso, mediante le loro operazioni, se non chiamarli veramente industriosi et eccellenti, avendo eglino massimamente cercato di ridurre in miglior grado la pittura, senza pensare a disagio o spesa o ad alcun loro interesso particolare.
Seguitandosi adunque di adoperare in su le tavole et in sulle tele non altro colorito che a tempera, il qual modo fu cominciato da Cimabue l'anno 1250 nello stare egli con que' Greci e seguitato poi da Giotto e dagl'altri de' quali si è insino a qui ragionato, si andava continuando il medesimo modo di fare, se ben conoscevano gl'artefici che nelle pitture a tempera mancavano l'opere d'una certa morbidezza e vivacità, che arebbe potuto arrecare, trovandola, più grazia al disegno, vaghezza al colorito e maggior facilità nell'unire i colori insieme, avendo eglino sempre usato di tratteggiare l'opere loro per punta solamente di pennello.
Ma se bene molti avevano sofisticando cercato di tal cosa, non però aveva niuno trovato modo che buono fusse; né usando vernice liquida o altra sorte di colori mescolati nelle tempere.
E fra molti, che cotali cose o altre simili provarono, ma invano, furono Alesso Baldovinetti, Pissello e molti altri, a niuno de' quali non riuscirono l'opere di quella bellezza e bontà, che si erano imaginato.
E quando anco avessino quello che cercavano trovato, mancava loro il modo di fare che le figure in tavola posassino come quelle che si fanno in muro, et il modo ancora di poterle lavare, senza che se n'andasse il colore, e che elle reggessino nell'essere maneggiate, ad ogni percossa.
Delle quali cose, ragunandosi buon numero d'artefici avevano senza frutto molte volte disputato.
Questo medesimo disiderio avevano molti elevati ingegni, che attendevano alla pittura fuor d'Italia, cioè i pittori tutti di Francia, Spagna, Alemagna e d'altre privincie.
Avvenne dunque, stando le cose in questi termini, che lavorando in Fiandra Giovanni da Bruggia, pittore in quelle parti molto stimato per la buona pratica che si aveva nel mestiero acquistato, che si mise a provare diverse sorti di colori, e come quello che si dilettava dell'archimia, a far di molti olii per far vernici et altre cose, secondo i cervelli degl'uomini sofistichi come egli era.
Ora, avendo una volta fra l'altre durato grandissima fatica in dipignere una tavola, poi che l'ebbe con molta diligenza condotta a fine, le diede la vernice e la mise a seccarsi al sole, come si costuma: ma, o perché il caldo fusse violento, o forse mal commesso il legname o male stagionato, la detta tavola si aperse in sulle commettiture di mala sorte.
Laonde, veduto Giovanni il nocumento che le aveva fatto il caldo del sole, deliberò di far sì che mai più gli farebbe il sole così gran danno nelle sue opere.
E così recatosi non meno a noia la vernice che il lavorare a tempera, cominciò a pensare di trovar modo di fare una sorte di vernice che seccasse all'ombra, senza mettere al sole le sue pitture.
Onde, poi che ebbe molte cose sperimentate, e pure e mescolate insieme, alla fine trovò che l'olio di seme di lino e quello delle noci, fra tanti che n'aveva provati, erano più seccativi di tutti gl'altri.
Questi dunque, bolliti con altre sue misture, gli fecero la vernice che egli, anzi tutti i pittori del mondo avevano lungamente disiderato.
Dopo fatto sperienza di molte altre cose, vide che il mescolare i colori con queste sorti d'olii dava loro una tempera molto forte, e che, secca, non solo non temeva l'acqua altrimenti, ma accendeva il colore tanto forte che gli dava lustro da per sé senza vernice, e quello che più gli parve mirabile fu che si univa meglio che la tempera infinitamente.
Per cotale invenzione rallegrandosi molto Giovanni, sì come era ben ragionevole, diede principio a molti lavori, e n'empié tutte quelle parti con incredibile piacere de' popoli e utile suo grandissimo, il quale aiutato di giorno in giorno dalla sperienza andò facendo sempre cose maggiori e migliori.
Sparsa non molto dopo la fama dell'invenzione di Giovanni, non solo per la Fiandra, ma per l'Italia e molte altre parti del mondo, mise in disiderio grandissimo gl'artefici di sapere in che modo egli desse all'opere sua tanta perfezzione.
I quali artefici, perché vedevano l'opere e non sapevano quello che egli si adoperasse, erano costretti a celebrarlo e dargli lode immortali, et in un medesimo tempo virtuosamente invidiarlo; e massimamente che egli per un tempo non volle da niuno esser veduto lavorare né insegnare a nessuno il segreto.
Ma divenuto vecchio, ne fece grazia finalmente a Ruggieri da Bruggia suo creato, e Ruggieri ad Ausse suo discepolo, et agl'altri de' quali si parlò dove si ragiona del colorire a olio nelle cose di pittura; ma con tutto ciò, se bene i mercanti ne facevano incetta e ne mandavano per tutto il mondo a prìncipi e gran personaggi con loro molto utile, la cosa non usciva di Fiandra; et ancora che cotali pitture avessino in sé quell'odore acuto che loro davano i colori e gli olii mescolati insieme, e particularmente quando erano nuove, onde pareva che fusse possibile conoscergli, non però si trovò mai nello spazio di molti anni.
Ma essendo da alcuni Fiorentini che negoziavano in Fiandra et in Napoli, mandata a re Alfonso Primo di Napoli una tavola con molte figure, lavorata a olio da Giovanni, la quale per la bellezza delle figure e per la nuova invenzione del colorito, fu a quel re carissima, concorsero quanti pittori erano in quel regno per vederla, e da tutti fu sommamente lodata.
Ora, avendo un Antonello da Messina, persona di buono e desto ingegno et accorto molto e pratico nel suo mestiero, atteso molti anni al disegno in Roma, si era prima ritirato in Palermo e quivi lavorato molti anni, et in ultimo a Messina sua patria, dove aveva con l'opere confirmata la buona openione che aveva il paese suo della virtù che aveva di benissimo dipignere.
Costui dunque, andando una volta per sue bisogne di Sicilia a Napoli, intese che al detto re Alfonso era venuta di Fiandra la sopra detta tavola di mano di Giovanni da Bruggia, dipinta a olio, per sì fatta maniera che si poteva lavare, reggeva ad ogni percossa et aveva in sé tutta perfezzione; per che, fatta opera di vederla, ebbono tanta forza in lui la vivacità de' colori e la bellezza et unione di quel dipinto, che, messo da parte ogni altro negozio e pensiero, se n'andò in Fiandra.
Et in Bruggia pervenuto prese dimestichezza grandissima col detto Giovanni, facendogli presente di molti disegni alla maniera italiana e d'altre cose; talmente che per questo, per l'osservanza d'Antonello e per trovarsi esso Giovanni già vecchio, si contentò che Antonello vedesse l'ordine del suo colorire a olio; onde egli non si partì di quel luogo che ebbe benissimo appreso quel modo di colorire, che tanto disiderava.
Né dopo molto, essendo Giovanni morto, Antonello se ne tornò di Fiandra per riveder la sua patria, e per far l'Italia partecipe di così utile, bello e commodo segreto.
E stato pochi mesi a Messina, se n'andò a Vinezia dove, per essere persona molto dedita a' piaceri e tutta venerea, si risolvé abitar sempre, e quivi finire la sua vita dove aveva trovato un modo di vivere a punto secondo il suo gusto.
Per che messo mano a lavorare, vi fece molti quadri a olio, secondo che in Fiandra aveva imparato, che sono sparsi per le case de' gentiluomini di quella città, i quali per la novità di quel lavoro vi furono stimati assai.
Molti ancora ne fece, che furono mandati in diversi luoghi; alla fine, avendosi egli quivi acquistato fama e gran nome, gli fu fatta allogazione d'una tavola che andava in S.
Cassano, parrocchia di quella città, la qual tavola fu da Antonello con ogni suo saper e senza risparmio di tempo, lavorata.
E finita, per la novità di quel colorire e per la bellezza delle figure, avendole fatte con buon disegno, fu comendata molto e tenuta in pregio grandissimo; et inteso poi il nuovo segreto, che egli aveva in quella città, di Fiandra portato, fu sempre amato e carezzato da que' magnifici gentiluomini, quanto durò la sua vita.
Fra i pittori che allora erano in credito in Vinezia era tenuto molto eccellente un maestro Domenico.
Costui, arrivato Antonello in Venezia, gli fece tutte quelle carezze e cortesie che maggiori si possono fare a un carissimo e dolce amico, per lo che Antonello, che non volle esser vinto di cortesia da maestro Domenico, dopo non molti mesi gl'insegnò il secreto e modo di colorire a olio.
Della qual cortesia et amorevolezza straordinaria, niun'altra gli sarebbe potuta esser più cara, e certo a ragione, poiché per quella, sì come imaginato si era, fu poi sempre nella patria molto onorato.
E certo coloro sono ingannati in digrosso che pensano, essendo avarissimi anco di quelle cose che loro non costano, dovere essere da ognuno per i loro begli occhi, come si dice, serviti.
Le cortesie di maestro Domenico Viniziano cavarono di mano d'Antonello quello che aveva con sue tante fatiche e sudori procacciatosi, e quello che forse per grossa somma di danari non averebbe a niuno altro conceduto.
Ma perché di maestro Domenico si dirà quanto fia tempo, quello che lavorasse in Firenze et a cui fusse liberale di quello che aveva da altri cortesemente ricevuto, dico che Antonello, dopo la tavola di S.
Cassano, fece molti quadri e ritratti a molti gentiluomini viniziani; e Messer Bernardo Vecchietti fiorentino ha di sua mano in uno stesso quadro S.
Francesco e S.
Domenico, molto belli.
Quando poi gl'erano state allogate dalla Signoria alcune storie in palazzo, le quali non avevano voluto concedere a Francesco di Monsignore veronese, ancora che molto fusse stato favorito dal duca di Mantoa, egli si ammalò di mal di punta, e si morì d'anni 49 senza avere pur messo mano all'opera.
Fu dagl'artefici nell'essequie molto onorato, per il dono fatto all'arte della nuova maniera di colorire, come testifica questo epitaffio:
D.
O.
M.
Antonius pictor, praecipuum Messanae suae, et Siciliae totius ornamentum, hac humo contegitur.
Non solum suis picturis, in quibus singulare Artificium et Venustas fuit, sed et quod coloribus oleo miscendis splendorem et perpetuitatem primus Italicae picturae contulit, summo semper artificum studio celebratus.
Rincrebbe la morte d'Antonello a molti suoi amici, e particolarmente ad Andrea Riccio scultore, che in Vinezia nella corte del palazzo della Signoria lavorò di marmo le due statue che si veggiono ignude di Adamo e Eva, che sono tenute belle.
Tale fu la fine d'Antonello, al quale deono certamente gl'artefici nostri avere non meno obligazione dell'avere portato in Italia il modo di colorire a olio, che a Giovanni da Bruggia d'averlo trovato in Fiandra, avendo l'uno e l'altro beneficato et arricchito quest'arte; perché, mediante questa invenzione sono venuti di poi sì eccellenti gl'artefici, che hanno potuto far quasi vive le loro figure.
La qual cosa tanto più debbe essere in pregio, quanto manco si trova scrittore alcuno che questa maniera di colorire assegni agl'antichi.
E se si potesse sapere che ella non fusse stata veramente appresso di loro, avanzarebbe pure questo secolo l'eccellenze dell'antico in questa perfezzione; ma perché, sì come non si dice cosa che non sia stata altra volta detta, così forse non si fa cosa che forse non sia stata fatta, me la passerò senza dir altro.
E lodando sommamente coloro che oltre al disegno aggiungono sempre all'arte qualche cosa, attenderò a scrivere degl'altri.
FINE DELLA VITA D'ANTONELLO DA MESSINA
VITA DI ALESSO BALDOVINETTI PITTORE FIORENTINO
Ha tanta forza la nobiltà dell'arte della pittura, che molti nobili uomini si sono partiti dall'arti nelle quali sarebbero potuti ricchissimi divenire, e dalla inclinazione tirati, contra il volere de' padri hanno seguito l'appetito loro naturale e datisi alla pittura o alla scultura o altro somigliante esercizio.
E per vero dire, che stimando le ricchezze quanto si deve e non più, ha per fine delle sue azzioni la virtù, si acquista altri tesori che l'argento e l'oro non sono, senzaché non temono mai niuna di quelle cose che in breve ora ne spogliano di queste ricchezze terrene, che più del dover scioccamente sono dagli uomini stimate.
Ciò conoscendo, Alesso Baldovinetti da propria volontà tirato, abbandonò la mercanzia a che sempre avevano atteso i suoi, e nella quale esercitandosi onorevolmente si avevano acquistato ricchezze e vivuti da nobili cittadini, e si diede alla pittura, nella quale ebbe questa proprietà di benissimo contrafare le cose della natura, come si può vedere nelle pitture di sua mano.
Costui, essendo ancora fanciulletto, quasi contra la volontà del padre che arebbe voluto che egli avesse atteso alla mercatura si diede a disegnare, et in poco tempo vi fece tanto profitto che il padre si contentò di lasciarlo seguire la inclinazione della natura.
La prima opera che lavorasse a fresco Alesso fu in S.
Maria Nuova la cappella di San Gilio, cioè la facciata dinanzi, la quale fu in quel tempo molto lodata, perché fra l'altre cose vi era un Santo Egidio, tenuto bellissima figura.
Fece similmente a tempera la tavola maggiore e la cappella a fresco di Santa Trinita, per Messer Gherardo e Messer Bongianni Gianfigliazzi onoratissimi e ricchi gentiluomini fiorentini, dipignendo in quella alcune storie del Testamento Vecchio, le quali Alesso abozzò a fresco e poi finì a secco, temperando i colori con rosso d'uovo mescolato con vernice liquida fatta a fuoco.
La qual tempera pensò che dovesse le pitture diffendere dall'acqua; ma ella fu di maniera forte che, dove ella fu data troppo gagliarda, si è in molti luoghi l'opera scrostata; e così dove egli si pensò aver trovato un raro e bellissimo segreto, rimase della sua openione ingannato.
Ritrasse costui assai di naturale, e dove nella detta cappella fece la storia della reina Sabba, che va a udire la sapienza di Salamone, ritrasse il Magnifico Lorenzo de' Medici, che fu padre di papa Leone Decimo, Lorenzo della Volpaia eccellentissimo maestro d'oriuoli e ottimo astrologo, il quale fu quello che fece per il detto Lorenzo de' Medici il bellissimo oriuolo che ha oggi il signor duca Cosimo in palazzo; nel quale oriuolo tutte le ruote de' pianeti caminano di continuo, il che è cosa rara e la prima che fusse mai fatta di questa maniera.
Nell'altra storia, che è dirimpetto a questa, ritrasse Alesso Luigi Guicciardini il vecchio, Luca Pitti, Diotisalvi Neroni, Giuliano de' Medici, padre di papa Clemente Settimo et a canto al pilastro di pietra, Gherardo Gianfigliazzi vecchio e Messer Bongianni cavaliere, con una vesta azzurra in dosso et una collana al collo, e Iacopo e Giovanni della medesima famiglia.
A canto a questi è Filippo Strozzi vecchio, Messer Paulo astrologo dal Pozzo Toscanelli.
Nella volta sono quattro patriarchi e nella tavola una Trinità e S.
Giovanni Gualberto inginocchioni con un altro Santo.
I quali tutti ritratti si riconoscono benissimo, per essere simili a quelli che si veggiono in altre opere, e particolarmente nelle case dei discendenti loro, o di gesso o di pittura.
Mise in questa opera Alesso molto tempo, perché era pazientissimo e voleva condurre l'opere con suo agio e commodo.
Disegnò molto bene, come nel nostro libro si vede un mulo ritratto di naturale, dov'è fatto il girare de' peli per tutta la persona, con molta pazienza e con bella grazia.
Fu Alesso diligentissimo nelle cose sue, e di tutte le minuzie che la madre natura sa fare, si sforzò d'essere imitatore.
Ebbe la maniera alquanto secca e crudetta, massimamente ne' panni.
Dilettossi molto di far paesi, ritraendoli dal vivo e naturale, come stanno a punto.
Onde si veggiono nelle sue pitture fiumi, ponti, sassi, erbe, frutti, vie, campi, città, castella, arena et altre infinite simili cose.
Fece nella Nunziata di Firenze, nel cortile dietro a punto al muro dove è dipinta la stessa Nunziata, una storia a fresco, e ritocca a secco, nel quale è una Natività di Cristo, fatta con tanta fatica e diligenza, che in una capanna che vi è, si potrebbono annoverar le fila et i nodi della paglia.
Vi contrafece ancora in una rovina d'una casa, le pietre muffate, e dalla pioggia e dal ghiaccio logore e consumate; con una radice d'ellera grossa, si ricuopre una parte di quel muro, nella quale è da considerare che con lunga pazienza fece d'un color verde il ritto delle foglie e d'un altro il rovescio, come fa la natura né più né meno, e oltra ai pastori vi fece una serpe, o vero biscia, che camina su per un muro, naturalissima.
Dicesi che Alesso s'affaticò molto per trovare il vero modo del musaico, e che non gl'essendo mai riuscito cosa che volesse, gli capitò finalmente alle mani un tedesco che andava a Roma alle perdonanze, e che alloggiandolo imparò da lui interamente il modo e la regola di condurlo.
Di maniera che essendosi messo poi arditamente a lavorare in San Giovanni, sopra le porte di bronzo, fece dalla banda di dentro negl'archi alcuni Angeli che tengono la testa di Cristo.
Per la quale opera, conosciuto il suo buon modo di fare, gli fu ordinato dai consoli dell'Arte de' Mercatanti che rinettasse e pulisse tutta la volta di quel tempio, stata lavorata, come si disse, da Andrea Tafi, perché essendo in molti luoghi guasta, aveva bisogno d'esser rassettata e racconcia.
Il che fece Alesso con amore e diligenza, servendosi in ciò d'un edifizio di legname, che gli fece il Cecca, il quale fu il migliore architetto di quell'età.
Insegnò Alesso il magisterio de' musaici a Domenico Ghirlandaio, il quale a canto sé poi lo ritrasse nella cappella de' Tornabuoni in Santa Maria Novella, nella storia dove Giovacchino è cacciato del tempio, nella figura d'un vecchio raso con un cappuccio rosso in testa.
Visse Alesso anni ottanta.
E quando cominciò ad avicinarsi alla vecchiezza, come quello che voleva poter con animo quieto attender agli studi della sua professione, sì come fanno spesso molti uomini, si commise nello spedale di S.
Paulo.
Et a cagione forse d'esservi ricevuto più volentieri e meglio trattato (potette anco essere a caso), fece portare nelle sue stanze del detto spedale un gran cassone, sembiante facendo che dentro vi fusse buona somma di danari, perché così credendo che fusse, lo spedalingo e gl'altri ministri, i quali sapevano che egli aveva fatto allo spedale donazione di qualunque cosa si trovasse alla morte sua, gli facevano le maggior carezze del mondo.
Ma venuto a morte Alesso, vi si trovò dentro solamente disegni, ritratti in carta et un libretto che insegnava a far le pietre del musaico, lo stucco, et il modo di lavorare.
Né fu gran fatto, secondo che si disse, che non si trovassero danari, perché fu tanto cortese che niuna cosa aveva, che così non fusse degl'amici come sua.
Fu suo discepolo il Graffione fiorentino, che sopra la porta degl'Innocenti fece a fresco il Dio Padre, con quegli Angeli che vi sono ancora.
Dicono che il Magnifico Lorenzo de' Medici ragionando un dì col Graffione che era un stravagante cervello, gli disse: "Io voglio far fare di musaico e di stucchi tutti gli spigoli della cupola di dentro".
E che il Graffione rispose: "Voi non ci avete maestri".
A che replicò Lorenzo: "Noi abbiam tanti danari, che ne faremo!".
Il Graffione subitamente soggiunse: "Eh, Lorenzo, i danari non fanno maestri, ma i maestri fanno i danari".
Fu costui bizzarra e fantastica persona.
Non mangiò mai in casa sua a tavola che fusse apparecchiata d'altro che di suoi cartoni, e non dormì in altro letto che in un cassone pien di paglia, senza lenzuola.
Ma tornando ad Alesso, egli finì l'arte e la vita nel 1448, e fu dai suoi parenti e cittadini sotterrato onorevolmente.
IL FINE DELLA VITA DI ALESSO BALDOVINETTI PITTORE FIORENTINO
VITA DI VELLANO DA PADOVA SCULTORE
Tanto grande è la forza del contraffare con amore e studio alcuna cosa, che il più delle volte essendo bene imitata la maniera d'una di queste nostre arti da coloro che nell'opere di qualcuno si compiacciono, sì fattamente somiglia la cosa che imita quella che è imitata, che non si discerne, se non da chi ha più che buon occhio, alcuna differenza.
E rade volte avviene che un discepolo amorevole non apprenda almeno in gran parte la maniera del suo maestro.
Vellano da Padova s'ingegnò con tanto studio di contrafare la maniera et il fare di Donato nella scultura, e massimamente ne' bronzi, che rimase in Padova sua patria, erede della virtù di Donatello fiorentino, come ne dimostrano l'opere sue nel Santo dalle quali pensando quasi ognuno, che non ha di ciò cognizione intera, ch'elle siano di Donato, se non sono avvertiti restano tutto giorno ingannati.
Costui dunque, infiammato dalle molte lodi che sentiva dare a Donato scultore fiorentino che allora lavorava in Padova, e dal disiderio dell'utile che mediante l'eccellenza dell'opere viene in mano de' buoni artefici, si acconciò con esso Donato per imparar la scultura, e vi attese di maniera che con l'aiuto di tanto maestro conseguì finalmente l'intento suo; onde prima che Donatello partisse di Padova finite l'opere sue, aveva tanto acquisto fatto nell'arte che già era in buona aspettazione, e di tanta speranza appresso al maestro che meritò che da lui gli fussero lasciate tutte le masserizie, i disegni e i modelli delle storie, che si avevano a fare di bronzo intorno al coro del Santo in quella città.
La qual cosa fu cagione che partito Donato, come si è detto, fu tutta quell'opera publicamente allogata al Vellano nella patria, con suo molto onore.
Egli dunque fece tutte le storie di bronzo che sono nel coro del Santo dalla banda di fuori; dove fra l'altre è la storia quando Sansone, abbracciata la colonna, rovina il tempio de' Filistei, dove si vede con ordine venir giù i pezzi delle rovine, e la morte di tanto popolo, et inoltre la diversità di molte attitudini in coloro che muoiono, chi per la rovina e chi per la paura; il che maravigliosamente espresse Vellano.
Nel medesimo luogo sono alcune cere et i modelli di queste cose, e così alcuni candelieri di bronzo lavorati dal medesimo con molto giudizio et invenzione.
E per quanto si vede, ebbe questo artefice estremo disiderio d'arivare al segno di Donatello; ma non vi arrivò, perché si pose colui troppo alto in un'arte difficilissima.
E perché Vellano si dilettò anco dell'architettura e fu più che ragionevole in quella professione, andato a Roma al tempo di papa Paulo viniziano l'anno 1464, per il quale Pontefice era architettore nelle fabriche del Vaticano Giuliano da Maiano, fu anch'egli adoperato a molte cose; e fra l'altre opere che vi fece sono di sua mano l'arme che vi si veggiono di quel Pontefice, col nome appresso.
Lavorò ancora al palazzo di S.
Marco molti degl'ornamenti di quella fabrica per lo medesimo Papa, la testa del quale è di mano di Vellano a sommo le scale.
Disegnò il medesimo per quel luogo un cortile stupendo, con una salita di scale commode e piacevoli, ma ogni cosa, sopravenendo la morte del Pontefice, rimase imperfetta.
Nel qual tempo che stette in Roma, il Vellano fece per il detto Papa e per altri, molte cose piccole di marmo e di bronzo, ma non l'ho potute rinvenire.
Fece il medesimo in Perugia una statua di bronzo maggior che il vivo, nella quale figurò di naturale il detto Papa a sedere in pontificale, e da piè vi mise il nome suo e l'anno ch'ella fu fatta.
La qual figura posa in una nicchia di più sorte pietre, lavorate con molta diligenza fuor della porta di S.
Lorenzo, che è il Duomo di quella città.
Fece il medesimo molte medaglie, delle quali ancora si veggiono alcune e particolarmente quella di quel Papa e quelle d'Antonio Rosello aretino e di Battista Platina, ambi di quello segretarii.
Tornato dopo queste cose Vellano a Padoa con bonissimo nome, era in pregio non solo nella propria patria, ma in tutta la Lombardia e Marca Trivisana; sì perché non erano insino allora stati in quelle parti artefici eccellenti, sì perché aveva bonissima pratica nel fondere i metalli.
Dopo, essendo già vecchio Vellano, deliberando la Signoria di Vinegia che si facesse di bronzo la statua di Bartolomeo da Bergamo a cavallo, allogò il cavallo ad Andrea del Verrocchio fiorentino e la figura a Vellano.
La qual cosa udendo, Andrea, che pensava che a lui toccasse tutta l'opera, venne in tanta collera, conoscendosi, come era in vero, altro maestro che Vellano non era, che, fracassato e rotto tutto il modello che già aveva finito del cavallo, se ne venne a Firenze.
Ma poi, essendo richiamato dalla Signoria che gli diede a fare tutta l'opera, di nuovo tornò a finirla.
Della qual cosa prese Vellano tanto dispiacere, che partito di Vinegia senza far motto o risentirsi di ciò in niuna maniera, se ne tornò a Padoa, dove poi visse il rimanente della sua vita onoratamente, contentandosi dell'opere che aveva fatto, e di essere, come fu sempre, nella sua patria amato et onorato.
Morì d'età d'anni 92, e fu sotterrato nel Santo con quell'onore che la sua virtù, avendo sé e la patria onorato, meritava.
Il suo ritratto mi fu mandato da Padoa da alcuni amici miei che l'ebbono, per quanto mi avisarono, dal dottissimo e reverendissimo cardinal Bembo, che fu tanto amatore delle nostre arti, quanto in tutte le più rare virtù e doti d'animo e di corpo, fu sopra tutti gl'altri uomini dell'età nostra eccellentissimo.
FINE DELLA VITA DI VELLANO DA PADOA SCULTORE
VITA DI FRA' FILIPPO LIPPI PITTORE FIORENTINO
Fra' Filippo di Tommaso Lippi, carmelitano, il quale nacque in Fiorenza, in una contrada detta Ardiglione, sotto il canto alla Cuculia, dietro al convento de' frati Carmelitani, per la morte di Tommaso suo padre restò povero fanciullino d'anni due, senza alcuna custodia, essendosi ancora morta la madre non molto dopo averlo partorito.
Rimaso dunque costui in governo d'una Mona Lapaccia sua zia, sorella di Tommaso suo padre, poi che l'ebbe allevato con suo disagio grandissimo, quando non potette più sostentarlo, essendo egli già di 8 anni lo fece frate nel sopra detto convento del Carmine, dove standosi, quanto era destro et ingenioso nelle azzioni di mano, tanto era nella erudizione delle lettere grosso e male atto ad imparare, onde non volle applicarvi lo ingegno mai, né averle per amiche.
Questo putto, il quale fu chiamato col nome del secolo Filippo, essendo tenuto con gl'altri in noviziato e sotto la disciplina del maestro della gramatica, pur per vedere quello che sapesse fare, in cambio di studiare non faceva mai altro che imbrattare con fantocci i libri suoi e degl'altri.
Onde il priore si risolvette a dargli ogni commodità et agio d'imparare a dipignere.
Era allora nel Carmine la cappella da Masaccio nuovamente stata dipinta, la quale, perciò che bellissima era, piaceva molto a fra' Filippo; laonde ogni giorno per suo diporto la frequentava e quivi esercitandosi del continovo in compagnia di molti giovani che sempre vi disegnavano, di gran lunga gl'altri avanzava di destrezza e di sapere, di maniera che e' si teneva per fermo che e' dovesse fare col tempo qualche maravigliosa cosa.
Ma negl'anni acerbi, nonché ne' maturi, tante lodevoli opere fece che fu un miracolo.
Perché di lì a poco tempo lavorò di verde terra nel chiostro vicino alla sagra di Masaccio, un papa che conferma la Regola de' Carmelitani, et in molti luoghi in chiesa in più pareti, in fresco dipinse, e particolarmente un San Giovanni Batista et alcune storie della sua vita; e così ogni giorno facendo meglio, aveva preso la mano di Masaccio, sì che le cose sue in modo simili a quelle faceva che molti dicevano lo spirito di Masaccio era entrato nel corpo di fra' Filippo.
Fece in un pilastro in chiesa la figura di San Marziale presso all'organo, la quale gli arrecò infinita fama, potendo stare a paragone con le cose che Masaccio aveva dipinte.
Per il che sentitosi lodar tanto per il grido d'ognuno, animosamente si cavò l'abito, d'età d'anni XVII.
E trovandosi nella Marca d'Ancona, diportandosi un giorno con certi amici suoi in una barchetta per mare, furono tutti insieme dalle fuste de' Mori, che per quei luoghi scorrevano, presi e menati in Barberia, e messo ciascuno di loro alla catena e tenuto schiavo, dove stette con molto disagio per XVIII mesi.
Ma perché un giorno, avendo egli molto in pratica il padrone, gli venne commodità e capriccio di ritrarlo, preso un carbone spento del fuoco, con quello tutto intero lo ritrasse co' suoi abiti indosso alla moresca, in un muro bianco; onde, essendo dagli altri schiavi detto questo al padrone, perché a tutti un miracolo pareva, non s'usando il disegno né la pittura in quelle parti, ciò fu causa della sua liberazione dalla catena dove per tanto tempo era stato tenuto.
Veramente è gloria di questa virtù grandissima, che uno a cui è conceduto per legge di poter condennare e punire, faccia tutto il contrario, anzi in cambio di supplicio e di morte, s'induca a far carezze e dare libertà.
Avendo poi lavorato alcune cose di colore al detto suo padrone, fu condotto sicuramente a Napoli, dove egli dipinse al re Alfonso, allora Duca di Calavria, una tavola a tempera nella cappella del castello dove oggi sta la guardia.
Appresso gli venne volontà di ritornare a Fiorenza dove dimorò alcuni mesi; e lavorò alle donne di S.
Ambruogio all'altare maggiore una bellissima tavola, la quale molto grato lo fece a Cosimo de' Medici, che per questa cagione divenne suo amicissimo.
Fece anco nel capitolo di Santa Croce una tavola, et un'altra che fu posta nella cappella in casa Medici, e dentro vi fece la Natività di Cristo; lavorò ancora per la moglie di Cosimo detto, una tavola con la medesima Natività di Cristo e San Giovanni Batista, per mettere all'ermo di Camaldoli, in una delle celle de' romiti che ella aveva fatta fare per sua divozione, intitolata a S.
Giovanni Batista; et alcune storiette che si mandarono a donare da Cosimo a Papa Eugenio IIII viniziano, laonde fra' Filippo molta grazia di quest'opera acquistò appresso il Papa.
Dicesi ch'era tanto venereo, che vedendo donne che gli piacessero, se le poteva avere, ogni sua facultà donato le arebbe; e non potendo, per via di mezzi, ritraendole in pittura, con ragionamenti la fiamma del suo amore intiepidiva.
Et era tanto perduto dietro a questo appetito, che all'opere prese da lui quando era di questo umore, poco o nulla attendeva.
Onde una volta fra l'altre, Cosimo de' Medici, faccendoli fare una opera in casa sua, lo rinchiuse perché fuori a perder tempo non andasse, ma egli statoci già due giorni, spinto da furore amoroso, anzi bestiale, una sera con un paio di forbici fece alcune liste de' lenzuoli del letto, e da una finestra calatosi, attese per molti giorni a' suoi piaceri.
Onde, non lo trovando e facendone Cosimo cercare, alfine pur lo ritornò al lavoro; e da allora in poi gli diede libertà che a suo piacere andasse, pentito assai d'averlo per lo passato rinchiuso, pensando alla pazzia sua et al pericolo che poteva incorrere; per il che sempre con carezze s'ingegnò di tenerlo per l'avvenire, e così da lui fu servito con più prestezza, dicendo egli che l'eccellenze degli ingegni rari sono forme celesti e non asini vetturini.
Lavorò una tavola nella chiesa di S.
Maria Primerana in su la piazza di Fiesole, dentrovi una Nostra Donna annunziata dall'Angelo, nella quale è una diligenza grandissima, e nella figura dell'Angelo tanta bellezza che e' pare veramente cosa celeste.
Fece alle monache delle Murate due tavole, una della Annunziata, posta allo altar maggiore, l'altra nella medesima chiesa a un altare, dentrovi storie di San Benedetto e di San Bernardo, e nel palazzo della Signoria dipinse in tavola un'Annunziata sopra una porta, e similmente fece in detto palazzo un San Bernardo sopra un'altra porta, e nella sagrestia di San Spirito di Fiorenza una tavola con una Nostra Donna et Angeli d'attorno e Santi da lato, opera rara e da questi nostri maestri stata sempre tenuta in grandissima venerazione.
In S.
Lorenzo, alla cappella degli Operai, lavorò una tavola con un'altra Annunziata; et a quella della Stufa, una che non è finita.
In S.
Apostolo di detta città, in una cappella, dipinse in tavola alcune figure intorno a una nostra Donna; et in Arezzo, a Messer Carlo Marsupini, la tavola della cappella di S.
Bernardo ne' monaci di Monte Oliveto, con la incoronazione di Nostra Donna e molti santi attorno, mantenutasi così fresca che pare fatta dalle mani di fra' Filippo al presente.
Dove dal sopra detto Messer Carlo gli fu detto che egli avvertisse alle mani che dipigneva, perché molto le sue cose erano biasimate.
Per il che fra' Filippo nel dipignere da indi innanzi, la maggior parte, o con panni o con altra invenzione, ricoperse per fuggire il predetto biasimo.
Nella quale opera ritrasse di naturale detto Messer Carlo.
Lavorò in Fiorenza alle monache di Analena una tavola d'un presepio, et in Padova si veggono ancora alcune pitture.
Mandò di sua mano a Roma due storiette di figure picciole al cardinal Barbo, le quali erano molto eccellentemente lavorate e condotte con diligenzia.
E certamente egli con maravigliosa grazia lavorò, e finitissimamente unì le cose sue, per le quali sempre dagli artefici in pregio e da' moderni maestri è stato con somma lode celebrato; et ancora mentre che l'eccellenza di tante sue fatiche la voracità del tempo terrà vive, sarà da ogni secolo avuto in venerazione.
In Prato ancora vicino a Fiorenza dove aveva alcuni parenti, in compagnia di fra' Diamante del Carmine, stato suo compagno e novizio insieme, dimorò molti mesi lavorando per tutta la terra assai cose.
Essendogli poi, dalle monache di Santa Margherita, data a fare la tavola dell'altar maggiore, mentre vi lavorava gli venne un giorno veduta una figliuola di Francesco Buti cittadin fiorentino, la quale o in serbanza o per monaca era quivi.
Fra' Filippo dato l'occhio alla Lucrezia, che così era il nome della fanciulla, la quale aveva bellissima grazia et aria, tanto operò con le monache che ottenne di farne un ritratto, per metterlo in una figura di Nostra Donna per l'opra loro; e con questa occasione innamoratosi maggiormente, fece poi tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia da le monache e la menò via il giorno appunto ch'ella andava a vedere mostrar la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello.
Di che le monache molto per tal caso furono svergognate, e Francesco suo padre non fu mai più allegro e fece ogni opera per riaverla, ma ella o per paura o per altra cagione, non volle mai ritornare, anzi starsi con Filippo il quale n'ebbe un figliuol maschio, che fu chiamato Filippo egli ancora, e fu poi, come il padre, molto eccellente e famoso pittore.
In S.
Domenico di detto Prato sono due tavole, et una Nostra Donna nella chiesa di S.
Francesco nel tramezzo, il quale levandosi di dove prima era, per non guastarla, tagliarono il muro dove era dipinto, et allacciatolo con legni attorno lo trasportarono in una parete della chiesa dove si vede ancora oggi.
E nel Ceppo di Francesco di Marco, sopra un pozzo in un cortile, è una tavoletta di man del medesimo col ritratto di detto Francesco di Marco, autore e fondatore di quella casa pia.
E nella pieve di detto castello fece in una tavolina sopra la porta del fianco, salendo le scale, la morte di S.
Bernardo, che rende la sanità, toccando la bara, a molti storpiati; dove sono frati che piangono il loro morto maestro, ch'è cosa mirabile a vedere le belle arie di teste, nella mestizia del pianto con arteficio e naturale similitudine contrafatte.
Sonvi alcuni panni di cocolle di frati che hanno bellissime pieghe e meritano infinite lodi, per lo buon disegno, colorito, componimento e per la grazia e proporzione, che in detta opra si vede, condotta dalla delicatissima mano di fra' Filippo.
Gli fu allogato dagli Operai della detta pieve per avere memoria di lui, la cappella dello altar maggiore di detto luogo, dove mostrò tanto del valor suo in questa opera ch'oltra la bontà e l'arteficio di essa, vi sono panni e teste mirabilissime.
Fece in questo lavoro le figure maggiori del vivo, dove introdusse poi negli altri artefici moderni il modo di dar grandezza, alla maniera d'oggi.
Sonvi alcune figure con abbigliamenti in quel tempo poco usati, dove cominciò a destare gli animi delle genti a uscire di quella semplicità che più tosto vecchia che antica si può nominare.
In questo lavoro sono le storie di S.
Stefano, titolo di detta pieve, partite nella faccia della banda destra, cioè la disputazione, lapidazione e morte di detto protomartire; nella faccia del quale disputante contra i Giudei dimostrò tanto zelo e tanto fervore, che egli è cosa difficile ad imaginarlo nonché ad esprimerlo, e nei volti e nelle varie attitudini di essi Giudei l'odio, lo sdegno e la collera del vedersi vinto da lui; sì come più apertamente ancora fece apparire la bestialità e la rabbia in coloro che l'uccidono con le pietre, avendole afferrate chi grandi e chi piccole, con uno strignere di denti orribile, e con gesti tutti crudeli e rabbiosi.
E nientedimeno, infra sì terribile assalto, S.
Stefano sicurissimo e col viso levato al cielo, si dimostra con grandissima carità e fervore supplicare a l'Eterno Padre, per quegli stessi che lo uccidono.
Considerazioni certo bellissime e da far conoscere altrui quanto vaglia la invenzione et il saper esprimer gl'affetti nelle pitture.
Il che sì bene osservò costui, che in coloro che sotterrano S.
Stefano fece attitudini sì dolenti et alcune teste sì afflitte e dirotte nel pianto, che non è a pena possibile di guardarle senza commuoversi.
Da l'altra banda fece la natività, la predica, il battesimo, la cena d'Erode, e la decollazione di S.
Giovanni Batista, dove nella faccia di lui predicante, si conosce il divino spirito, e nelle turbe che ascoltano, i diversi movimenti e l'allegrezza e l'afflizione, così nelle donne come negli uomini, astratti e sospesi tutti negli ammaestramenti di S.
Giovanni.
Nel battesimo si riconosce la bellezza e la bontà; e nella cena di Erode, la maestà del convito, la destrezza di Erodiana, lo stupore de' convitati e lo attristamento fuori di maniera nel presentarsi la testa tagliata dentro al bacino.
Veggonsi intorno al convito infinite figure con molto belle attitudini e ben condotte, e di panni e di arie di visi, tra i quali ritrasse allo specchio se stesso vestito di nero in abito da prelato, et il suo discepolo fra' Diamante dove si piange S.
Stefano.
Et invero questa opera fu la più eccellente di tutte le cose sue, sì per le considerazioni dette di sopra, e sì per aver fatto le figure alquanto maggiori che il vivo; il che dette animo a chi venne dopo lui di ringrandire la maniera.
Fu tanto per le sue buone qualità stimato, che molte cose che di biasimo erano alla vita sua, furono ricoperte mediante il grado di tanta virtù.
Ritrasse in questa opera Messer Carlo figlio naturale di Cosimo de' Medici, il quale era allora proposto di quella chiesa, la quale fu da lui e dalla sua casa molto beneficata.
Finita che ebbe quest'opera l'anno 1463, dipinse a tempera una tavola per la chiesa di S.
Iacopo di Pistoia, dentrovi una Nunziata molto bella per Messer Iacopo Bellucci, il qual vi ritrasse di naturale molto vivamente.
In casa di Pulidoro Bracciolini è in un quadro una Natività di Nostra Donna di sua mano; e nel magistrato degl'Otto di Firenze è, in un mezzo tondo dipinto a tempera, una Nostra Donna col Figliuolo in braccio.
In casa Lodovico Caponi in un altro quadro una Nostra Donna bellissima; et appresso di Bernardo Vecchietto gentiluomo fiorentino, e tanto virtuoso e da bene quanto più non saperei dire, è di mano del medesimo in un quadretto piccolo un S.
Agostino che studia, bellissimo.
Ma molto meglio è un S.
Ieronimo in penitenzia, della medesima grandezza in guardaroba del duca Cosimo.
E se fra' Filippo fu raro in tutte le sue pitture, nelle piccole superò se stesso, perché le fece tanto graziose e belle, che non si può far meglio, come si può vedere nelle predelle di tutte le tavole che fece.
Insomma fu egli tale che ne' tempi suoi niuno lo trapassò, e ne' nostri, pochi; e Michelagnolo l'ha non pur celebrato sempre, ma imitato in molte cose.
Fece ancora per la chiesa di S.
Domenico vecchio di Perugia, che poi è stata posta all'altar maggiore, una tavola, dentrovi la Nostra Donna, S.
Piero, S.
Paulo, S.
Lodovico e S.
Antonio abbate.
Messer Alessandro degl'Alessandri, allora cavaliere et amico suo, gli fece fare per la sua chiesa di Villa a Vincigliata nel poggio di Fiesole, in una tavola, un S.
Lorenzo et altri Santi, ritraendovi lui e dua suoi figliuoli.
Fu fra' Filippo molto amico delle persone allegre e sempre lietamente visse.
A fra' Diamante fece imparare l'arte della pittura, il quale nel Carmino di Prato lavorò molte pitture, e della maniera sua imitandola, assai si fece onore, perché e' venne a ottima perfezzione.
Stette con fra' Filippo in sua gioventù Sandro Boticello, Pisello, Iacopo del Sellaio fiorentino, che in S.
Friano fece due tavole et una nel Carmino lavorata a tempera, et infiniti altri maestri ai quali sempre con amorevolezza insegnò l'arte.
De le fatiche sue visse onoratamente, e straordinariamente spese nelle cose d'amore; delle quali del continuo, mentre che visse, fino a la morte si dilettò.
Fu richiesto, per via di Cosimo de' Medici, dalla comunità di Spoleti di fare la cappella nella chiesa principale della Nostra Donna, la quale lavorando insieme con fra' Diamante condusse a bonissimo termine, ma sopravenuto dalla morte non la potette finire.
Perciò che dicono che essendo egli tanto inclinato a questi suoi beati amori, alcuni parenti della donna da lui amata lo fecero avvelenare.
Finì il corso della vita sua fra' Filippo di età d'anni 57 nel 1438, et a fra' Diamante lasciò in governo per testamento Filippo suo figliuolo, il quale, fanciullo di dieci anni, imparando l'arte da fra' Diamante, seco se ne tornò a Fiorenza, portandosene fra' Diamante 300 ducati che per l'opera fatta si restavano ad avere da le comunità, de' quali comperati alcuni beni per sé proprio, poca parte fece al fanciullo.
Fu acconcio Filippo con Sandro Botticello, tenuto allora maestro bonissimo; et il vecchio fu sotterrato in un sepolcro di marmo rosso e bianco, fatto porre dagli Spoletini nella chiesa che e' dipigneva.
Dolse la morte sua a molti amici et a Cosimo de' Medici particolarmente et a papa Eugenio, il quale in vita sua volle dispensarlo, che potesse avere per sua donna legitima la Lucrezia di Francesco Buti, la quale per potere far di sé e dell'appetito suo come gli paresse, non si volse curare d'avere.
Mentre che Sisto IIII viveva, Lorenzo de' Medici, fatto ambasciator da' Fiorentini, fece la via di Spoleti, per chiedere a quella comunità il corpo di fra' Filippo per metterlo in S.
Maria del Fiore in Fiorenza; ma gli fu risposto da loro che essi avevano carestia d'ornamento, e massimamente d'uomini eccellenti, per che per onorarsi gliel domandarono in grazia, aggiugnendo che avendo in Fiorenza infiniti uomini famosi, e quasi di superchio, che e' volesse fare senza questo, e così non l'ebbe altrimenti.
Bene è vero che deliberatosi poi di onorarlo in quel miglior modo ch'e' poteva, mandò Filippino suo figliuolo a Roma al cardinale di Napoli, per fargli una cappella.
Il quale passando da Spoleti, per commessione di Lorenzo, fece fargli una sepoltura di marmo sotto l'organo e sopra la sagrestia, dove spese cento ducati d'oro, i quali pagò Nofri Tornaboni maestro del banco de' Medici, e da Messer Agnolo Poliziano gli fece fare il presente epigramma, intagliato in detta sepoltura di lettere antiche:
Conditus hic ego sum picturae fama Philippus;
nulli ignota meae est gratia mira manus.
Artifices potui digitis animare colores;
sperataque animos fallere voce diu.
Ipsa meis stupuit natura expressa figuris;
meque suis fassa est artibus esse parem.
Marmoreo tumulo Medices Laurentius hic me
condidit; ante humili pulvere tectus eram.
Disegnò fra' Filippo benissimo, come si può vedere nel nostro libro di disegni de' più famosi dipintori, e particolarmente in alcune carte, dove è disegnata la tavola di S.
Spirito et in altre dove è la cappella di Prato.
FINE DELLA VITA DI FRA' FILIPPO PITTORE FIORENTINO
VITA DI PAULO ROMANO E DI MAESTRO MINO SCULTORI E DI CHIMENTI CAMICIA ARCHITETTO
Segue ora che noi parliamo di Paolo Romano e di Mino del Regno, coetanei e della medesima professione, ma molto differenti nelle qualità de' costumi e dell'arte, perché Pagolo fu modesto et assai valente, Mino di molto minor valore ma tanto prosuntuoso et arrogante, che oltra il far suo pien di superbia con le parole, ancora alzava fuor di modo le proprie fatiche.
Nel farsi allogazione da Pio Secondo pontefice a Paulo scultor romano d'una figura, egli tanto per invidia lo stimolò et infestollo, che Paolo, il quale era buona et umilissima persona, fu sforzato a risentirsi.
Laonde Mino, sbuffando, con Paulo voleva giucare mille ducati a fare una figura con esso lui, e questo con grandissima prosunzione et audacia diceva, conoscendo egli la natura di Paulo, che non voleva fastidi, non credendo egli che tal partito accettasse.
Ma Paulo accettò l'invito; e Mino mezzo pentito, solo per onore suo cento ducati giuocò.
Fatta la figura fu dato a Paulo il vanto, come raro et eccellente ch'egli era; e Mino fu scorto per quella persona nell'arte, che più con le parole che con l'opre valeva.
Sono di mano di Mino a Monte Cassino, luogo de' Monaci neri del regno di Napoli, una sepoltura, et in Napoli alcune cose di marmo.
In Roma il San Piero e San Paolo, che sono a' piè delle scale di San Pietro et in San Pietro la sepoltura di papa Paolo Secondo.
E la figura che fece Paulo a concorrenza di Mino fu il San Paulo, ch'all'entrata del ponte Sant'Angelo, su un basamento di marmo si vede; il quale molto tempo stette inanzi alla cappella di Sisto Quarto, non conosciuto.
Avvenne poi che Clemente Settimo pontefice un giorno diede d'occhio a questa figura, e per essere egli di tali essercizii intendente e giudicioso, gli piacque molto.
Per il che egli deliberò di far fare un San Pietro della grandezza medesima, et insieme, alla entrata di Ponte Sant'Angelo, dove erano dedicate a questi apostoli due cappellette di marmo, levar quelle che impedivano la vista al castello e mettervi queste due statue.
Si legge nell'opera d'Antonio Filareto che Paulo fu non pure scultore ma valente orefice e che lavorò in parte i dodici Apostoli d'argento che inanzi al sacco di Roma si tenevano sopra l'altar della capella papale, nei quali lavorò ancora Niccolò della Guardia e Pietropaulo da Todi, che furono discepoli di Paulo e poi ragionevoli maestri nella scultura: come si vede nelle sepolture di papa Pio II e del Terzo, nelle quali sono i detti duoi pontefici ritratti di naturale; e di mano dei medesimi si veggiono in medaglia tre imperadori et altri personaggi grandi, et il detto Paulo fece una statua d'un uomo armato a cavallo che oggi è per terra in San Piero, vicino alla cappella di Santo Andrea.
Fu creato di Paulo Iancristoforo romano, che fu valente scultore, e sono alcune opere di sua mano in Santa Maria [in] Trastevere et altrove.
Chimenti Camicia, del quale non si sa altro quanto all'origine sua, se non che fu fiorentino, stando al servigio del re d'Ungheria, gli fece palazzi, giardini, fontane, tempii, fortezze et altre molte muraglie d'importanza, con ornamenti, intagli, palchi lavorati et altre simili cose, che furono con molta diligenza condotti da Baccio Cellini.
Dopo le quali opere, Chimenti, come amorevole della patria, se ne tornò a Firenze, et a Baccio che là si rimase, mandò, perché le desse al re, alcune pitture di mano di Berto linaiuolo, le quali furono in Ungheria tenute bellissime e da quel re molto lodate.
Il qual Berto (non tacerò anco questo di lui) dopo aver molti quadri con bella maniera lavorati, che sono nelle case di molti cittadini, si morì appunto in sul fiorire, troncando la buona speranza che si aveva di lui.
Ma tornando a Chimenti, egli, stato non molto tempo in Firenze, se ne tornò in Ungheria dove, continuando nel servizio del re, prese, andando su per il Danubio a dar disegni di molina, per la stracchezza un'infermità, che in pochi giorni lo condusse all'altra vita.
L'opere di questi maestri furono nel 1470 in circa.
Visse ne' medesimi tempi et abitò Roma al tempo di papa Sisto Quarto, Baccio Pintelli fiorentino, il qual per la buona pratica che ebbe nelle cose d'architettura, meritò che il detto Papa in ogni sua impresa di fabriche se ne servisse.
Fu fatta dunque col disegno di costui la chiesa e convento di S.
Maria del Popolo, et in quella alcune cappelle con molti ornamenti, e particolarmente quella di Domenico della Rovere cardinale di San Clemente e nipote di quel Papa.
Il medesimo fece fare col disegno di Baccio un palazzo in Borgo vecchio, che fu allora tenuto molto bello e ben considerato edifizio.
Fece il medesimo sotto le stanze di Nicola la libreria maggiore, et in palazzo la cappella detta di Sisto, la quale è ornata di belle pitture.
Rifece similmente la fabrica del nuovo spedale di Santo Spirito in Sassi, la quale era l'anno 1471 arsa quasi tutta da' fondamenti; aggiugnendovi una lunghissima loggia e tutte quelle utili commodità che si possono disiderare.
E dentro nella lunghezza dello spedale fece dipignere storie della vita di papa Sisto dalla nascita insino alla fine di quella fabrica, anzi insino al fine della sua vita.
Fece anco il ponte, che dal nome di quel pontefice è detto ponte Sisto, che fu tenuto opera eccellente per averlo fatto Baccio sì gagliardo di spalle e così ben carico di peso, che egli è fortissimo e benissimo fondato.
Parimente l'anno del Giubileo del 1475 fece molte nuove chiesette per Roma, che si conoscono all'arme di papa Sisto, et in particolare Santo Apostolo, San Pietro in Vincula e San Sisto.
Et al cardinal Guglielmo, vescovo d'Ostia, fece il modello della sua chiesa e della facciata e delle scale, in quel modo che oggi si veggiono.
Affermano molti che il disegno della chiesa a San Piero a Montorio in Roma fu di mano di Baccio, ma io non posso dire con verità d'avere trovato che così sia.
La qual chiesa fu fabricata a spese del re di Portogallo, quasi nel medesimo tempo che la nazione spagnuola fece far in Roma la chiesa di San Iacopo.
Fu la virtù di Baccio tanto da quel Pontefice stimata, che non averebbe fatto cosa alcuna di muraglia senza il parere di lui; onde l'anno 1480, intendendo che minacciava rovina la chiesa e convento di S.
Francesco d'Ascesi, vi mandò Baccio, il quale facendo di verso il piano un puntone gagliardissimo, assicurò del tutto quella maravigliosa fabrica.
Et in uno sprone fece porre la statua di quel Pontefice, il quale non molti anni inanzi aveva fatto fare in quel convento medesimo molti apartamenti di camere e sale, che si riconoscono, oltre all'esser magnifiche, all'arme che vi si vede del detto Papa; e nel cortile n'è una molto maggior che l'altre, con alcuni versi latini in lode d'esso papa Sisto IIII, il qual dimostrò a' molti segni aver quel santo luogo in molta venerazione.
VITA D'ANDREA DAL CASTAGNO DI MUGELLO E DI DOMENICO VINIZIANO PITTORI
Quanto sia biasimevole in una persona eccellente il vizio della invidia, che in nessuno doverebbe ritrovarsi, e quanto scelerata et orribil cosa il cercare sotto spezie d'una simulata amicizia, spegnere in altri, non solamente la fama e la gloria, ma la vita stessa, non credo io certamente che ben sia possibile esprimersi con parole, vincendo la sceleratezza del fatto ogni virtù e forza di lingua, ancora che eloquente.
Per il che, senza altrimenti distendermi in questo discorso, dirò solo che ne' sì fatti alberga spirito, non dirò inumano e fero, ma crudele in tutto e diabolico, tanto lontano da ogni virtù, che non solamente non sono più uomini, ma né animali ancora, né degni di vivere.
Conciò sia che quanto la emulazione e la concorrenza, che virtuosamente operando cerca vincere e soverchiare i da più di sé per acquistarsi gloria et onore, è cosa lodevole e da essere tenuta in pregio come necessaria ed utile al mondo, tanto per l'opposito, e molto più, merita biasimo e vituperio la sceleratissima invidia, che non sopportando onore o pregio in altrui si dispone a privar di vita chi ella non può spogliare de la gloria, come fece lo sciaurato Andrea dal Castagno, la pittura e disegno del quale fu per il vero eccellente e grande, ma molto maggiore il rancore e la invidia che e' portava agli altri pittori, di maniera che con le tenebre del peccato sotterrò e nascose lo splendor della sua virtù.
Costui per esser nato in una piccola villetta detta il Castagno, nel Mugello, contado di Firenze, se la prese per suo cognome quando venne a stare in Fiorenza; il che successe in questa maniera; essendo egli nella prima sua fanciullezza rimaso senza padre, fu raccolto da un suo zio che lo tenne molti anni a guardare gli armenti, per vederlo pronto e svegliato e tanto terribile, che sapeva far riguardare non solamente le sue bestiuole, ma le pasture et ogni altra cosa che attenesse al suo interesse.
Continuando, adunque, in tale esercizio, avvenne che fuggendo un giorno la pioggia, si abbatté a caso in un luogo, dove uno di questi dipintori di contado che lavorano a poco pregio dipigneva un tabernacolo d'un contadino, onde Andrea, che mai più non aveva veduta simil cosa, assalito da una sùbita maraviglia, cominciò attentissimamente a guardare e considerare la maniera di tale lavoro.
E gli venne subito un desiderio grandissimo et una voglia sì spasimata di quell'arte, che senza mettere tempo in mezzo, cominciò per le mure e su per le pietre co' carboni o con la punta del coltello, a sgraffiare et a disegnare animali e figure, sì fattamente che e' moveva non piccola maraviglia in chi le vedeva.
Cominciò dunque a correr la fama tra' contadini, di questo nuovo studio di Andrea onde, pervenendo (come volle la sua ventura) questa cosa agli orecchi d'un gentiluomo fiorentino, chiamato Bernardetto de' Medici, che quivi aveva sue possessioni, volle conoscere questo fanciullo; e vedutolo finalmente et uditolo ragionare con molta prontezza, lo dimandò se egli farebbe volentieri l'arte del dipintore; e rispondendoli Andrea che e' non potrebbe avvenirli cosa più grata, né che quanto questa mai gli piacesse, a cagione che e' venisse perfetto in quella, ne lo menò con seco a Fiorenza, e con uno di que' maestri che erano allora tenuti migliori, lo acconciò a lavorare.
Per il che seguendo Andrea l'arte della pittura, et agli studii di quella datosi tutto, mostrò grandissima intelligenza nelle difficultà dell'arte, e massimamente nel disegno.
Non fece già così poi nel colorire le sue opere, le quali facendo alquanto crudette et aspre, diminuì gran parte della bontà e grazia di quelle, e massimamente una certa vaghezza che nel suo colorito non si ritruova.
Era gagliardissimo nelle movenze delle figure e terribile nelle teste de' maschi e delle femmine, faccendo gravi gli aspetti loro e con buon disegno.
Le opere di man sua furono da lui dipinte, nel principio della sua giovanezza, nel chiostro di San Miniato al Monte, quando si scende di chiesa per andare in convento, di colori a fresco, una storia di San Miniato e San Cresci, quando dal padre e dalla madre si partono.
Erano in San Benedetto, bellissimo monasterio fuor della porta a Pinti, molte pitture di mano d'Andrea in un chiostro et in chiesa, delle quali non accade far menzione, essendo andate in terra per l'assedio di Firenze.
Dentro alla città, nel monasterio de' monaci degl'Angeli, nel primo chiostro dirimpetto alla porta principale, dipinse il Crucifisso che vi è ancor oggi, la Nostra Donna, San Giovanni, e San Benedetto e San Romualdo.
E nella testa del chiostro che è sopra l'orto, ne fece un altro simile, variando solamente le teste e poche altre cose.
In Santa Trinita, allato alla cappella di maestro Luca, fece un Santo Andrea.
A Legnaia dipinse a Pandolfo Pandolfini in una sala molti uomini illustri.
E per la Compagnia del Vangelista un segno da portare a processione, tenuto bellissimo.
Ne' Servi di detta città lavorò in fresco tre nicchie piane, in certe cappelle; l'una è quella di San Giuliano, dove sono storie della vita d'esso Santo con buon numero di figure et un cane in iscorto che fu molto lodato; sopra questa, nella cappella intitolata a S.
Girolamo, dipinse quel Santo secco e raso, con buon disegno e molta fatica, e sopra vi fece una Trinità, con un Crucifisso che scorta, tanto ben fatto, che Andrea merita per ciò esser molto lodato, avendo condotto gli scorti con molto miglior e più moderna maniera, che gl'altri inanzi a lui fatto non avevano.
Ma questa pittura, essendovi stato posto sopra dalla famiglia de' Montaguti una tavola, non si può più vedere.
Nella terza, che è a lato a quella che è sotto l'organo, la quale fece fare Messer Orlando de' Medici, dipinse Lazzaro, Marta e Maddalena.
Alle monache di San Giuliano fece un Crucifisso a fresco sopra la porta, una Nostra Donna, un San Domenico, un San Giuliano et uno San Giovanni, la quale pittura, che è delle migliori che facesse Andrea, è da tutti gl'artefici universalmente lodata.
Lavorò in Santa Croce alla cappella de' Cavalcanti un San Giovanni Battista et un San Francesco, che sono tenute bonissime figure; ma quello che fece stupire gl'artefici, fu che nel chiostro nuovo del detto convento, cioè in testa dirimpetto alla porta, dipinse a fresco un Cristo battuto alla colonna, bellissimo, facendovi una loggia con colonne in prospettiva, con crociere di volte a liste diminuite, e le pareti commesse a mandorle, con tanta arte e con tanto studio, che mostrò di non meno intendere le difficultà della prospettiva, che si facesse il disegno nella pittura.
Nella medesima storia sono belle e sforzatissime l'attitudini di coloro che flagellano Cristo, dimostrando così essi nei volti l'odio e la rabbia, sì come pazienza et umiltà Gesù Cristo, nel corpo del quale, arrandellato e stretto con funi alla colonna, pare che Andrea tentasse di mostrare il patir della carne, e che la divinità nascosa in quel corpo serbasse in sé un certo splendore di nobiltà; dal quale mosso, Pilato che siede tra' suoi consiglieri, pare che cerchi di trovar modo per liberarlo.
Et insomma è così fatta questa pittura che s'ella non fusse stata graffiata e guasta, per la poca cura che l'è stata avuta, da' fanciulli et altre persone semplici che hanno sgraffiate le teste tutte e le braccia e quasi il resto della persona de' Giudei, come se così avessino vendicato l'ingiuria del Nostro Signore contro di loro, ella sarebbe certo bellissima tra tutte le cose d'Andrea.
Al quale, se la natura avesse dato gentilezza nel colorire, come ella gli diede invenzione e disegno, egli sarebbe veramente stato tenuto maraviglioso.
Dipinse in Santa Maria del Fiore l'imagine di Niccolò da Tolentino a cavallo, e perché lavorandola un fanciullo che passava dimenò la scala, egli venne in tanta còlera, come bestiale uomo che egli era, che sceso gli corse dietro insino al canto de' Pazzi.
Fece ancora nel cimitero di S.
Maria Nuova in fra l'Ossa un Santo Andrea che piacque tanto, che gli fu fatto poi dipignere nel reffettorio dove i servigiali et altri ministri mangiano, la cena di Cristo con gl'Apostoli, per lo che acquistato grazia con la casa de' Portinari e con lo spedalingo, fu datogli a dipignere una parte della cappella maggiore, essendo stata allogata l'altra ad Alesso Baldovinetti, e la terza al molto allora celebrato pittore Domenico da Vinezia, il quale era stato condotto a Firenze per lo nuovo modo che egli aveva di colorire a olio.
Attendendo dunque ciascuno di costoro all'opera sua, aveva Andrea grandissima invidia a Domenico, perché se bene si conosceva più eccellente di lui nel disegno, aveva nondimeno per male che, essendo forestiero, egli fusse da' cittadini carezzato e trattenuto; e tanta ebbe forza in lui perciò la còlera e lo sdegno, che cominciò andar pensando, o per una o per altra via di levarselo dinanzi.
E perché era Andrea non meno sagace simulatore che egregio pittore, allegro quando voleva nel volto, della lingua spedito e d'animo fiero et in ogni azzione del corpo, così come era della mente, risoluto, ebbe così fatto animo con altri come con Domenico, usando nell'opere degl'artefici di segnare nascosamente col graffiare dell'ugna, se errore vi conosceva.
E quando nella sua giovanezza furono in qualche cosa biasimate l'opere sue, fece a cotali biasimatori con percosse et altre ingiurie conoscere che sapeva e voleva sempre, in qualunche modo, vendicarsi delle ingiurie.
Ma per dire alcuna cosa di Domenico, prima che venghiamo all'opera della cappella, avanti che venisse a Firenze, egli aveva nella sagrestia di S.
Maria di Loreto, in compagnia di Piero della Francesca, dipinto alcune cose con molta grazia, che l'avevano fatto per fama, oltre quello che aveva fatto in altri luoghi, come in Perugia una camera in casa de' Baglioni, che oggi è rovinata, conoscere in Fiorenza.
Dove essendo poi chiamato, prima che altro facesse, dipinse in sul canto de' Carnesecchi, nell'angolo delle due vie che vanno l'una alla nuova, l'altra alla vecchia piazza di S.
Maria Novella, in un tabernacolo a fresco una Nostra Donna in mezzo d'alcuni santi.
La qual cosa, perché piacque e molto fu lodata dai cittadini e dagl'artefici di que' tempi, fu cagione che s'accendesse maggiore sdegno et invidia nel maladetto animo d'Andrea contra il povero Domenico: per che, deliberato di far con inganno e tradimento quello che senza suo manifesto pericolo non poteva fare alla scoperta, si finse amicissimo d'esso Domenico; il quale, perché buona persona era et amorevole, cantava di musica e si dilettava di sonare il liuto, lo ricevette volentieri in amicizia, parendogli Andrea persona d'ingegno e sollazzevole.
E così continuando questa, da un lato vera e dall'altro finta, amicizia, ogni notte si trovavano insieme a far buon tempo e serenate a loro inamorate; di che molto si dilettava Domenico; il qual amando Andrea da dovero, gli insegnò il modo di colorire a olio che ancora in Toscana non si sapeva.
Fece dunque Andrea, per procedere ordinatamente, nella sua facciata della cappella di S.
Maria Nuova, una Nunziata che è tenuta bellissima per avere egli in quell'opera dipinto l'Angelo in aria, il che non si era insino allora usato.
Ma molto più bell'opera è tenuta dove fece la Nostra Donna che sale i gradi del tempio, sopra i quali figurò molti poveri, e fra gl'altri uno che con un boccale dà in su la testa ad un altro; e non solo questa figura ma tutte l'altre sono belle affatto, avendole egli lavorate con molto studio et amore, per la concorrenza di Domenico.
Vi si vede anco tirato in prospettiva, in mezzo d'una piazza, un tempio a otto facce isolato e pieno di pilastri e nicchie, e nella facciata dinanzi benissimo adornato di figure finte di marmo; et intorno alla piazza è una varietà di bellissimi casamenti, i quali da un lato ribatte l'ombra del tempio, mediante il lume del sole, con molto bella, difficile et artifiziosa considerazione.
Dall'altra parte fece maestro Domenico, a olio, Gioachino che visita S.
Anna sua consorte, e di sotto il nascere di Nostra Donna, fingendovi una camera molto ornata et un putto che batte col martello l'uscio di detta camera con molta buona grazia.
Di sotto fece lo sposalizio d'essa Vergine con buon numero di ritratti di naturale, fra i quali è Messer Bernardetto de' Medici, conestabile de' Fiorentini, con un berettone rosso, Bernardo Guadagni, che era gonfaloniere, Folco Portinari et altri di quella famiglia.
Vi fece anco un nano che rompe una mazza, molto vivace, et alcune femine con abiti indosso vaghi e graziosi fuor di modo, secondo che si usavano in que' tempi.
Ma questa opera rimase imperfetta, per le cagioni che di sotto si diranno.
Intanto aveva Andrea nella sua facciata fatta a olio la morte di Nostra Donna, nella quale, per la detta concorrenza di Domenico e per essere tenuto quello che egli era veramente, si vede fatto con incredibile diligenza in iscorto un cataletto dentrovi la Vergine morta, il quale, ancora che non sia più che un braccio e mezzo di lunghezza, pare tre.
Intorno le sono gl'Apostoli fatti in una maniera che, se bene si conosce ne' visi loro l'allegrezza di veder esser portata la loro Madonna in cielo da Gesù Cristo, vi si conosce ancora l'amaritudine del rimanere in terra senz'essa.
Tra essi apostoli sono alcuni Angeli che tengono lumi accesi, con bell'aria di teste e sì ben condotti, che si conosce che egli così bene seppe maneggiare i colori a olio, come Domenico suo concorrente.
Ritrasse Andrea in queste pitture, di naturale, Messer Rinaldo degl'Albizi, Puccio Pucci, il Falgavaccio che fu cagione della liberazione di Cosimo de' Medici, insieme con Federigo Malevolti, che teneva le chiavi dell'Alberghetto; parimente vi ritrasse Messer Bernardo di Domenico della Volta, spedalingo di quel luogo, inginocchioni, che par vivo; et in un tondo nel principio dell'opere se stesso, con viso di Giuda Scariotto, come egl'era nella presenza e ne' fatti.
Avendo dunque Andrea condotta questa opera a bonissimo termine, accecato dall'invidia per le lodi che alla virtù di Domenico udiva dare, si deliberò levarselo d'attorno, e dopo aver pensato molte vie, una ne mise in essecuzione in questo modo; una sera di state, sì come era solito, tolto Domenico il liuto, uscì di S.
Maria Nuova, lasciando Andrea nella sua camera a disegnare, non avendo egli voluto accettar l'invito d'andar seco a spasso, con mostrare d'avere a fare certi disegni d'importanza.
Andato dunque Domenico da sé solo a' suoi piaceri, Andrea, sconosciuto, si mise ad aspettarlo dopo un canto, et arrivando a lui Domenico nel tornarsene a casa, gli sfondò con certi piombi il liuto e lo stomaco in un medesimo tempo; ma non parendogli d'averlo anco acconcio a suo modo, con i medesimi lo percosse in su la testa malamente, poi lasciatolo in terra se ne tornò in S.
Maria Nuova alla sua stanza e, socchiuso l'uscio, si rimase a disegnare in quel modo che da Domenico era stato lasciato.
Intanto essendo stato sentito il rumore, erano corsi i servigiali, intesa la cosa, a chiamare e dar la mala nuova allo stesso Andrea micidiale e traditore; il qual, corso dove erano gl'altri intorno a Domenico non si poteva consolare, né restar di dir: "Oimè fratel mio, oimè fratel mio".
Finalmente Domenico gli spirò nelle braccia, né si seppe, per diligenza che fusse fatta, chi morto l'avesse; e se Andrea, venendo a morte, non l'avesse nella confessione manifestato, non si saprebbe anco.
Dipinse Andrea in S.
Miniato fra le torri di Fiorenza una tavola, nella quale è una Assunzione di Nostra Donna con due figure, et alla Nave a l'Anchetta, fuor della porta alla Croce, in un tabernacolo, una Nostra Donna.
Lavorò il medesimo in casa de' Carducci, oggi de' Pandolfini, alcuni uomini famosi, parte imaginati e parte ritratti di naturale; fra questi è Filippo Spano degli Scolari, Dante, Petrarca, il Boccaccio et altri.
Alla Scarperia in Mugello dipinse sopra la porta del palazzo del vicario una Carità ignuda molto bella, che poi è stata guasta.
L'anno 1478, quando dalla famiglia de' Pazzi et altri loro aderenti e congiurati, fu morto in S.
Maria del Fiore Giuliano de' Medici e Lorenzo suo fratello ferito, fu deliberato dalla Signoria che tutti quelli della congiura fussino come traditori dipinti nella facciata del palagio del Podestà; onde essendo questa opera offerta ad Andrea, egli come servitore et obligato alla casa de' Medici, l'accettò molto ben volentieri; e messovisi la fece tanto bella che fu uno stupore, né si potrebbe dire quanta arte e giudizio si conosceva in que' personaggi ritratti per lo più di naturale, et impiccati per i piedi in strane attitudini e tutte varie e bellissime.
La qual opera perché piacque a tutta la città e particolarmente agl'intendenti delle cose di pittura, fu cagione che da quella in poi, non più Andrea dal Castagno, ma Andrea degl'Impiccati fusse chiamato.
Visse Andrea onoratamente, e perché spendava assai e particolarmente in vestire et in stare onorevolmente in casa, lasciò poche facultà quando d'anni 71 passò ad altra vita.
Ma perché si riseppe, poco dopo la morte sua, l'impietà adoperata verso Domenico che tanto l'amava, fu con odiose essequie sepolto in S.
Maria Nuova, dove similmente era stato sotterrato l'infelice Domenico d'anni cinquantasei.
E l'opera sua cominciata in S.
Maria Nuova rimase imperfetta e non finita del tutto; come aveva fatto la tavola dell'altar maggiore di S.
Lucia de' Bardi, nella quale è condotta con molta diligenza una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, S.
Giovanni Battista, S.
Nicolò, S.
Francesco e S.
Lucia; la qual tavola aveva poco inanzi che fusse morto, all'ultimo fine perfettamente condotta, etc.
Furono discepoli d'Andrea, Iacopo del Corso, che fu ragionevole maestro, Pisanello, il Marchino, Piero del Pollaiuolo e Giovanni da Rovezzano, etc.
FINE DELLA VITA D'ANDREA DAL CASTAGNO E DI DOMENICO VINIZIANO
VITA DI GENTILE DA FABRIANO E DI VITTORE PISANELLO VERONESE PITTORI
Grandissimo vantaggio ha chi resta in un avviamento dopo la morte d'uno che si abbia con qualche rara virtù onore procacciato e fama, perciò che senza molta fatica, solo che seguiti in qualche parte le vestigie del maestro, perviene quasi sempre ad onorato fine, dove, se per sé solo avesse a pervenire, bisognarebbe più lungo tempo e fatiche maggiori assai.
Il che, oltre molti altri, si potette vedere e toccare, come si dice, con mano in Pisano o vero Pisanello, pittore veronese; il quale, essendo stato molti anni in Fiorenza con Andrea dal Castagno, et avendo l'opere di lui finito, dopo che fu morto, s'acquistò tanto credito col nome d'Andrea, che venendo in Fiorenza papa Martino Quinto, ne lo menò seco a Roma, dove in S.
Ianni Laterano gli fece fare in fresco alcune storie, che sono vaghissime e belle al possibile; perché egli in quelle abondantissimamente mise una sorte d'azzurro oltramarino datogli dal detto Papa, sì bello e sì colorito che non ha avuto ancora paragone.
Et a concorrenza di costui dipinse Gentile da Fabriano alcune altre storie, sotto alle sopra dette; di che fa menzione il Platina nella vita di quel Pontefice, il quale narra che avendo fatto rifare il pavimento di San Giovanni Laterano, et il palco et il tetto, Gentile dipinse molte cose, et in fra l'altre figure, di terretta tra le finestre, in chiaro e scuro, alcuni profeti, che sono tenuti le migliori pitture di tutta quell'opera.
Fece il medesimo Gentile infiniti lavori nella Marca, e particolarmente in Agobbio, dove ancora se ne veggiono alcuni, e similmente per tutto lo stato d'Urbino.
Lavorò in S.
Giovanni di Siena, et in Fiorenza, nella sagrestia di Santa Trinita, fece in una tavola la storia de' Magi, nella quale ritrasse se stesso di naturale.
Et in San Niccolò alla porta a S.
Miniato, per la famiglia de' Quaratesi, fece la tavola dell'altar maggiore, che di quante cose ho veduto di mano di costui a me senza dubbio pare la migliore, perché oltre alla Nostra Donna e molti Santi che le sono intorno tutti ben fatti, la predella di detta tavola, piena di storie della vita di San Niccolò, di figure piccole non può essere più bella né meglio fatta di quello che ell'è.
Dipinse in Roma in S.
Maria Nuova sopra la sepoltura del cardinale Adimari fiorentino et arcivescovo di Pisa, la quale è allato a quella di papa Gregorio Nono in un archetto, la Nostra Donna col Figliuolo in collo, in mezzo a San Benedetto e San Giuseppo; la qual opera era tenuta in pregio dal divino Michelagnolo, il quale parlando di Gentile usava dire che nel dipignere aveva avuto la mano simile al nome.
In Perugia fece il medesimo una tavola in San Domenico, molto bella; et in S.
Agostino di Bari un Crucifisso dintornato nel legno, con tre mezze figure bellissime che sono sopra la porta del coro.
Ma tornando a Vittore Pisano, le cose che di lui si sono di sopra raccontate furono scritte da noi senza più, quando la prima volta fu stampato questo nostro libro, perché io non aveva ancora dell'opere di questo eccellente artefice quella cognizione e quel ragguaglio avuto, che ho avuto poi.
Per avisi dunque del molto reverendo e dottissimo padre fra' Marco de' Medici veronese, dell'ordine de' frati predicatori, sì come ancora racconta il Biondo da Furlì, dove nella sua Italia illustrata parla di Verona, fu costui in eccellenza pari a tutti i pittori dell'età sua, come oltre l'opere raccontate di sopra possono di ciò fare amplissima fede molte altre, che in Verona sua nobilissima patria si veggiono, se bene in parte quasi consumate dal tempo.
E perché si dilettò particolarmente di fare animali, nella chiesa di S.
Nastasia di Verona, nella cappella della famiglia de' Pellegrini, dipinse un Santo Eustachio, che fa carezze a un cane pezzato di tané e bianco, il quale co' piedi alzati et appoggiati alla gamba di detto Santo si rivolta col capo indietro, quasi che abbia sentito rumore, e fa questo atto con tanta vivezza che non lo farebbe meglio il naturale.
Sotto la qual figura si vede dipinto il nome d'esso Pisano, il quale usò di chiamarsi quando Pisano e quando Pisanello, come si vede e nelle pitture e nelle medaglie di sua mano.
Dopo la detta figura di S.
Eustachio, la quale è delle migliori che questo artefice lavorasse e veramente bellissima, dipinse tutta la facciata di fuori di detta cappella: dall'altra parte un S.
Giorgio armato d'armi bianche fatte d'argento, come in quell'età non pur egli, ma tutti gl'altri pittori costumavano; il quale S.
Giorgio, dopo aver morto il dragone, volendo rimettere la spada nel fodero alza la mano diritta che tien la spada già con la punta nel fodero, et abbassando la sinistra acciò che la maggior distanza gli faccia agevolezza a infoderar la spada che è lunga, fa ciò con tanta grazia e con sì bella maniera, che non si può veder meglio; e Michele Sanmichele veronese, architetto della illustrissima Signoria di Vinezia e persona intendentissima di queste belle arti, fu più volte, vivendo, veduto contemplare queste opere di Vittore con maraviglia, e poi dire che poco meglio si poteva vedere del Santo Eustachio, del cane e del San Giorgio sopra detto.
Sopra l'arco poi di detta cappella è dipinto quando San Giorgio, ucciso il dragone, libera la figliuola di quel re, la quale si vede vicina al Santo con una veste lunga secondo l'uso di que' tempi; nella qual parte è maravigliosa ancora la figura del medesimo San Giorgio, il quale, armato come di sopra, mentre è per rimontar a cavallo, sta volto con la persona e con la faccia verso il popolo, e messo un piè nella staffa e la man manca alla sella, si vede quasi in moto di salire sopra il cavallo che ha volto la groppa verso il popolo, e si vede tutto, essendo in iscorcio in piccolo spazio, benissimo.
E, per dirlo in una parola, non si può senza infinita maraviglia, anzi stupore, contemplare questa opera fatta con disegno, con grazia e con giudizio straordinario.
Dipinse il medesimo Pisano in San Fermo Maggiore di Verona, chiesa de' frati di San Francesco conventuali, nella cappella de' Brenzoni a man manca quando s'entra per la porta principale di detta chiesa, sopra la sepoltura della Resurrezzione del Signore, fatta di scultura e secondo que' tempi molto bella, dipinse dico, per ornamento di quell'opera, la Vergine annunziata dall'Angelo; le quali due figure, che sono tocche d'oro secondo l'uso di que' tempi, sono bellissime, sì come sono ancora certi casamenti molto ben tirati et alcuni piccioli animali et uccelli, sparsi per l'opera, tanto proprii e vivi quanto è possibile imaginarsi.
Il medesimo Vittore fece in medaglioni di getto infiniti ritratti di prìncipi de' suoi tempi e d'altri, dai quali poi sono stati fatti molti quadri di ritratti in pittura.
E monsignor Giovio in una lettera volgare, che egli scrive al signor duca Cosimo, la quale si legge stampata con molte altre, dice parlando di Vittore Pisano queste parole:
Costui fu ancora prestantissimo nell'opera de' bassi rilievi, stimati difficilissimi dagl'artefici, perché sono il mezzo tra il piano delle pitture e 'l tondo delle statue.
E perciò si veggiono di sua mano molte lodate medaglie di gran principi, fatte in forma maiuscola della misura propria di quel riverso che il Guidi mi ha mandato del cavallo armato.
Fra le quali io ho quella del gran re Alfonso in Zazzera, con un riverso d'una celata capitanale; quella di papa Martino, con l'arme di casa Colonna per riverso; quella di sultan Maomete che prese Costantinupoli, con lui medesimo a cavallo in abito turchesco, con una sferza in mano; Sigismondo Malatesta, con un riverso di madonna Isotta d'Arimino, e Niccolò Piccinino con un berettone bislungo in testa, col detto riverso del Guidi, il quale rimando.
Oltra questo ho ancora una bellissima medaglia di Giovanni Paleologo imperatore de Costantinopoli, con quel bizzarro cappello alla grecanica, che solevano portare gl'imperatori; e fu fatta da esso Pisano in Fiorenza, al tempo del Concilio d'Eugenio, ove si trovò il prefato imperadore, ch'ha per riverso la croce di Cristo, sostentata da due mani, verbigrazia dalla latina e dalla greca.
In sin qui il Giovio, con quello che seguita.
Ritrasse anco in medaglia Filippo de' Medici, arcivescovo di Pisa, Braccio da Montone, Giovan Galeazzo Visconti, Carlo Malatesta signor d'Arimino, Giovan Caracciolo gran siniscalco di Napoli, Borso et Ercole da Este e molti altri signori et uomini segnalati per arme e per lettere.
Costui meritò per la fama e riputazione sua in questa arte, essere celebrato da grandissimi uomini e rari scrittori, perché oltre quello che ne scrisse il Biondo, come si è detto, fu molto lodato in un poema latino da Guerino Vecchio suo compatriota e grandissimo litterato e scrittore di que' tempi; del qual poema, che dal cognome di costui fu intitolato il Pisano del Guerino, fa onorata menzione esso Biondo.
Fu anco celebrato dallo Strozzi vecchio, cioè da Tito Vespasiano padre dell'altro Strozzi, ambiduoi poeti rarissimi nella lingua latina.
Il padre dunque onorò con un bellissimo epigramma, il qual è in stampa con gl'altri, la memoria di Vittore Pisano; e questi sono i frutti che dal viver virtuosamente si traggono.
Dicono alcuni che quando costui imparava l'arte, essendo giovanetto, in Fiorenza, che dipinse nella vecchia chiesa del tempio, che era dove è oggi la cittadella vecchia, le storie di quel pellegrino a cui andando a San Iacopo di Galizia, mise la figliuola d'un oste una tazza d'argento nella tasca, perché fusse come ladro punito, ma fu da S.
Iacopo aiutato e ricondotto a casa salvo; nella qual opera mostrò Pisano dover riuscire, come fece, eccellente pittore.
Finalmente assai ben vecchio passò a miglior vita.
E Gentile avendo lavorato molte cose in Città di Castello, si condusse a tale, essendo fatto parletico, che non operava più cosa buona.
In ultimo consumato dalla vecchiezza, trovandosi d'ottanta anni si morì.
Il ritratto di Pisano, non ho potuto aver di luogo nessuno.
Dissegnarono ambiduoi questi pittori molto bene, come si può vedere nel nostro libro, etc.
FINE DELLA VITA DI GENTILE DA FABRIANO E DI VITTORE PISANO VERONESE
VITA DI PESELLO E FRANCESCO PESELLI PITTORI FIORENTINI
Rare volte suole avvenire che i discepoli de' maestri rari, se osservano i documenti di quegli, non divenghino molto eccellenti, e che se pure non se gli lasciano dopo le spalle, non gli pareggino almeno, e si agguaglino a loro in tutto.
Perché il sollecito fervore della imitazione, con la assiduità dello studio, ha forza di pareggiare la virtù di chi gli dimostra il vero modo dell'operare.
Laonde vengono i discepoli a farsi tali che e' concorrono poi co' maestri e gli avanzano agevolmente, per essere sempre poca fatica lo aggiugnere a quello che è stato da altri trovato.
E che questo sia il vero, Francesco di Pesello imitò talmente la maniera di fra' Filippo, che se la morte non ce lo toglieva così acerbo di gran lunga lo superava.
Conoscesi ancora che Pesello imitò la maniera d'Andrea dal Castagno e tanto prese piacer del contrafare animali e di tenerne sempre in casa vivi d'ogni specie, che e' fece quegli sì pronti e vivaci, che in quella professione non ebbe alcuno nel suo tempo che gli facesse paragone.
Stette fino all'età di trent'anni sotto la disciplina d'Andrea, imparando da lui, e divenne bonissimo maestro.
Onde, avendo dato buon saggio del saper suo, gli fu dalla Signoria di Fiorenza fatto dipignere una tavola a tempera, quando i Magi offeriscono a Cristo, che fu collocata a mezza scala del loro palazzo, per la quale Pesello acquistò gran fama, e massimamente avendo in essa fatto alcuni ritratti, e fra gl'altri quello di Donato Acciaiuoli.
Fece ancora alla cappella de' Cavalcanti in Santa Croce, sotto la Nunziata di Donato, una predella con figurine piccole, dentrovi storie di San Niccolò, e lavorò in casa de' Medici una spalliera d'animali molto bella, et alcuni corpi di cassoni, con storiette piccole di giostre di cavalli.
E veggonsi in detta casa sino al dì d'oggi di mano sua alcune tele di leoni, i quali s'affacciano a una grata, che paiono vivissimi; et altri ne fece fuori, e similmente uno che con un serpente combatte; e colorì in un'altra tela un bue et una volpe con altri animali molto pronti e vivaci.
Et in San Pier Maggiore, nella cappella degl'Alessandri, fece quattro storiette di figure piccole, di San Piero, di San Paulo, di San Zanobi quando resuscita il figliuolo della vedova, e di San Benedetto.
Et in Santa Maria Maggiore della medesima città di Firenze, fece nella cappella degl'Orlandini una Nostra Donna, e due altre figure bellissime.
Ai fanciulli della Compagnia di S.
Giorgio un Crucifisso, San Girolamo e San Francesco; e nella chiesa di San Giorgio in una tavola, una Nunziata.
In Pistoia, nella chiesa di San Iacopo, una Trinità, San Zeno e San Iacopo, e per Firenze in casa de' cittadini sono molti tondi e quadri di mano del medesimo.
Fu persona, Pesello, moderata e gentile, e sempre che poteva giovare agli amici con amorevolezza e volentieri lo faceva.
Tolse moglie giovane et èbbene Francesco detto Pesellino suo figliuolo, che attese alla pittura imitando gl'andari di fra' Filippo infinitamente.
Costui se più tempo viveva, per quello che si conosce, arebbe fatto molto più che egli non fece; perché era studioso nell'arte, né mai restava né dì né notte di disegnare.
Per che si vede ancora nella cappella del noviziato di Santa Croce, sotto la tavola di fra' Filippo, una maravigliosissima predella di figure piccole, le quali paiono di mano di fra' Filippo.
Egli fece molti quadretti di figure piccole per Fiorenza, et in quella acquistato nome se ne morì d'anni XXXI, per che Pesello ne rimase dolente; né molto stette che lo seguì d'anni LXXVII.
FINE DELLA VITA DI PESELLO E FRANCESCO PESELLI PITTORI FIORENTINI
VITA DI BENOZZO PITTORE FIORENTINO
Chi camina con le fatiche per la strada della virtù, ancora che ella sia (come dicono) e sassosa e piena di spine, alla fine della salita si ritrova pur finalmente in un largo piano, con tutte le bramate felicità.
E nel riguardare a basso, veggendo i cattivi passi con periglio fatti da lui, ringrazia Dio, che a salvamento ve l'ha condotto, e con grandissimo contento suo benedice quelle fatiche che già tanto gli rincrescevano.
E così ristorando i passati affanni con la letizia del bene presente, senza fatica si affatica per far conoscere a chi lo guarda come i caldi, i geli, i sudori, la fame, la sete e gli incomodi che si patiscono per acquistare la virtù, liberano altrui da la povertà e lo conducono a quel sicuro e tranquillo stato, dove con tanto contento suo lo affaticato Benozzo Gozzoli si riposò.
Costui fu discepolo dello Angelico fra' Giovanni, e a ragione amato da lui, e da chi lo conobbe tenuto pratico di grandissima invenzione, e molto copioso negli animali, nelle prospettive, ne' paesi e negli ornamenti.
Fece tanto lavoro nella età sua, che e' mostrò non essersi molto curato d'altri diletti; et ancora che e' non fusse molto eccellente a comparazione di molti che lo avanzarono di disegno, superò nientedimeno col tanto fare tutti gli altri della età sua, perché in tanta moltitudine di opere gli vennero fatte pure delle buone.
Dipinse in Fiorenza nella sua giovanezza alla Compagnia di S.
Marco la tavola dello altare; et in S.
Friano un transito di S.
Ieronimo, che è stato guasto per acconciare la facciata della chiesa lungo la strada.
Nel palazzo de' Medici fece in fresco la cappella con la storia de' Magi, et a Roma in Araceli, nella cappella de' Cesarini, le storie di S.
Antonio da Padova, dove ritrasse di naturale Giuliano Cesarini cardinale et Antonio Colonna.
Similmente nella Torre de' Conti, cioè sopra una porta sotto cui si passa, fece in fresco una Nostra Donna con molti Santi; et in Santa Maria Maggiore, all'entrar di chiesa per la porta principale, fece a man ritta in una cappella, a fresco, molte figure che sono ragionevoli.
Da Roma tornato Benozzo a Firenze, se n'andò a Pisa, dove lavorò nel cimiterio che è allato al Duomo, detto Camposanto, una facciata di muro lunga quanto tutto l'edifizio, facendovi storie del Testamento Vecchio con grandissima invenzione.
E si può dire che questa sia veramente un'opera terribilissima, veggendosi in essa tutte le storie della creazione del mondo distinte a giorno per giorno.
Dopo l'Arca di Noè, l'innondazione del diluvio espressa con bellissimi componimenti e copiosità di figure, appresso la superba edificazione della torre di Nebrot, l'incendio di Soddoma e dell'altre città vicine, l'istorie d'Abramo, nelle quali sono da considerare affetti bellissimi; perciò che se bene non aveva Benozzo molto singular disegno nelle figure, dimostrò nondimeno l'arte efficacemente nel sacrificio d'Isaac, per avere situato in iscorto un asino per tal maniera che si volta per ogni banda, il che è tenuto cosa bellissima.
Segue appresso il nascere di Moisè, che que' tanti segni e prodigii insino a che trasse il popolo suo d'Egitto e lo cibò tanti anni nel deserto.
Aggiunse a queste tutte le storie ebree insino a Davit e Salomone suo figliuolo, e dimostrò veramente Benozzo in questo lavoro un animo più che grande, perché dove sì grande impresa arebbe giustamente fatto paura a una legione di pittori, egli solo la fece tutta e la condusse a perfezione.
Di manier che, avendone acquistato fama grandissima, meritò che nel mezzo dell'opera gli fusse posto questo epigramma:
Quid spectas volucres, pisces, et monstra ferarum
et virides silvas, aethereasque domos?
Et pueros, iuvenes, matres, canosque parentes
queis semper vivum spirat in ore decus?
Non haec tam variis finxit simulacra figuris
natura; ingenio foetibus apta suo:
est opus artificis; pinxit viva ora Benoxus.
O superi vivos fundite in ora sonos.
Sono in tutta questa opera sparsi infiniti ritratti di naturale, ma perché di tutti non si ha cognizione, dirò quelli solamente che io vi ho conosciuti di importanza, e quelli di che ho per qualche ricordo cognizione.
Nella storia dunque dove la reina Saba va a Salamone è ritratto Marsilio Ficino fra certi prelati, l'Argiropolo dottissimo greco e Battista Platina, il quale aveva prima ritratto in Roma, et egli stesso sopra un cavallo, nella figura d'un vecchiotto raso con una beretta nera, che ha nella piega una carta bianca, forse per segno o perché ebbe volontà di scrivervi dentro il nome suo.
Nella medesima città di Pisa, alle monache di San Benedetto a ripa d'Arno, dipinse tutte le storie della vita di quel santo; e nella Compagnia de' Fiorentini, che allora era dove è oggi il monasterio di San Vito, similmente la tavola e molte altre pitture, nel Duomo dietro alla sedia dell'arcivescovo in una tavoletta a tempera dipinse un San Tommaso d'Aquino, con infinito numero di dotti, che disputano sopra l'opere sue, e fra gl'altri vi è ritratto papa Sisto IIII con un numero di cardinali, e molti capi e generali di diversi Ordini.
E questa è la più finita e meglio opera che facesse mai Benozzo.
In Santa Caterina de' frati predicatori, nella medesima città, fece due tavole a tempera, che benissimo si conoscono alla maniera; e nella chiesa di San Nicola ne fece similmente un'altra, e due in Santa Croce fuor di Pisa.
Lavorò anco quando era giovanetto, nella Pieve di San Gimignano l'altare di San Bastiano nel mezzo della chiesa riscontro alla cappella maggiore, e nella sala del consiglio sono alcune figure, parte di sua mano e parte da lui, essendo vecchie, restaurate.
Ai monaci di Monte Oliveto nella medesima terra, fece un Crucifisso et altre pitture, ma la migliore opera che in quel luogo facesse, fu in San Agostino nella cappella maggiore a fresco storie di Sant'Agostino, cioè dalla conversione insino alla morte; la quale opera ho tutta disegnata di sua mano nel nostro libro, insieme con molte carte delle storie sopra dette di Camposanto di Pisa.
In Volterra ancora fece alcune opere, delle quali non accade far menzione.
E perché quando Benozzo lavorò in Roma vi era un altro dipintore, chiamato Melozzo, il quale fu da Furlì, molti che non sanno più che tanto, avendo trovato scritto Melozzo, e riscontrato i tempi, hanno creduto che quel Melozzo voglia dir Benozzo; ma sono in errore, perché il detto pittore fu ne' medesimi tempi e fu molto studioso delle cose dell'arte, e particolarmente mise molto studio e diligenza in fare gli scorti, come si può vedere in S.
Apostolo di Roma nella tribuna dell'altar maggiore, dove in un fregio tirato in prospettiva, per ornamento di quell'opera sono alcune figure che colgono uve et una botte, che hanno molto del buono.
Ma ciò si vede più apertamente nell'Ascensione di Gesù Cristo in un coro d'Angeli che lo conducono in cielo, dove la figura di Cristo scorta tanto bene, che pare che buchi quella volta; et il simile fanno gl'Angeli, che con diversi movimenti girano per lo campo di quell'aria.
Parimente gl'Apostoli che sono in terra scortano in diverse attitudini tanto bene, che ne fu allora et ancora è lodato dagl'artefici che molto hanno imparato dalle fatiche di costui, il quale fu grandissimo prospettivo, come ne dimostrano i casamenti dipinti in questa opera, la quale gli fu fatta fare dal cardinale Riario, nipote di papa Sisto Quarto, dal quale fu molto rimunerato.
Ma tornando a Benozzo, consumato finalmente dagl'anni e dalle fatiche, d'anni 78 se n'andò al vero riposo nella città di Pisa, abitando in una casetta che in sì lunga dimora vi si aveva comperata in carraia di S.
Francesco; la qual casa lasciò morendo alla sua figliuola, e con dispiacere di tutta quella città fu onoratamente sepellito in Camposanto con questo epitaffio, che ancora si legge:
HIC TUMULUS EST BENOTII FLORENTINI QUI PROXIME HAS PINXIT
HISTORIAS - HUNC SIBI PISANORUM DONAVIT HUMANITAS
MCCCCLXXVIII.
Visse Benozzo costumatissimamente sempre e da vero cristiano, consumando tutta la vita sua in esercizio onorato; per il che e per la buona maniera e qualità sue lungamente fu ben veduto in quella città.
Lasciò dopo sé, discepoli suoi, Zanobi Machiavelli fiorentino, et altri, de' quali non accade far altra memoria.
FINE DELLA VITA DI BENOZZO PITTOR FIORENTINO
VITA DI FRANCESCO DI GIORGIO SCULTORE ET ARCHITETTO E DI LORENZO VECCHIETTO SCULTORE E PITTORE, SANESI
Francesco di Giorgio sanese, il quale fu scultore et architetto eccellente, fece i due Angeli di bronzo che sono in sull'altar maggiore del Duomo di quella città, i quali furono veramente un bellissimo getto, e furon poi rinetti da lui medesimo con quanta diligenza sia possibile imaginarsi.
E ciò potette egli fare comodamente, essendo persona non meno dotata di buone facultà che di raro ingegno, onde non per avarizia, ma per suo piacere lavorava quando bene gli veniva, e per lasciar dopo sé qualche onorata memoria.
Diede anco opera alla pittura e fece alcune cose, ma non simili alle sculture.
Nell'architettura ebbe grandissimo giudizio e mostrò di molto bene intender quella professione, e ne può far ampia fede il palazzo che egli fece in Urbino al duca Federigo Feltro, i cui spartimenti sono fatti con belle e commode considerazioni, e la stravaganza delle scale sono bene intese e piacevoli più che altre che fussino state fatte insino al suo tempo.
Le sale sono grande e magnifiche, e gl'appartamenti delle camere utili et onorati fuor di modo; e per dirlo in poche parole è così bello e ben fatto tutto quel palazzo, quanto altro che insin a ora sia stato fatto già mai.
Fu Francesco grandissimo ingegnere, e massimamente di machine da guerra, come mostrò in un fregio che dipinse di sua mano nel detto palazzo d'Urbino, il qual è tutto pieno di simili cose rare, apartenenti alla guerra.
Disegnò anco alcuni libri tutti pieni di così fatti instrumenti; il miglior de' quali ha il signor duca Cosimo de' Medici fra le sue cose più care.
Fu il medesimo tanto curioso in cercar d'intender le machine et instrumenti bellici degl'antichi, e tanto andò investigando il modo degl'antichi anfiteatri e d'altre cose somiglianti, ch'elleno furono cagione che mise manco studio nella scultura; ma non però gli furono, né sono state di manco onore che le sculture gli potessino esser state.
Per le quali tutte cose fu di maniera grato al detto duca Federigo, del qual fece il ritratto et in medaglia e di pittura, che quando se ne tornò a Siena sua patria, si trovò non meno essere stato onorato che beneficato.
Fece per papa Pio Secondo tutti i disegni e modelli del palazzo e Vescovado di Pienza, patria del detto papa, e da lui fatta città e dal suo nome chiamata Pienza, che prima era detta Corfignano, che furon per quel luogo, magnifici et onorati quanto potessino essere, e così la forma e fortificazione di detta città, et insieme il palazzo e loggia pel medesimo Pontefice.
Onde poi sempre visse onoratamente e fu, nella sua città, del supremo magistrato de' Signori onorato.
Ma pervenuto finalmente all'età d'anni 47, si morì.
Furono le sue opere intorno al 1480.
Lasciò costui suo compagno e carissimo amico, Iacopo Cozzerello, il quale attese alla scultura et all'architettura, e fece alcune figure di legno in Siena; e d'architettura S.
Maria Maddalena fuor della porta a' Tufi, la quale rimase imperfetta per la sua morte.
E noi gl'avemo pur questo obligo, che da lui si ebbe il ritratto di Francesco sopra detto, il quale fece di sua mano.
Il quale Francesco merita che gli sia avuto grande obligo, per avere facilitato le cose d'architettura, e recatole più giovamento che alcun altro avesse fatto, da Filippo di ser Brunellesco insino al tempo suo.
Fu sanese e scultore similmente molto lodato, Lorenzo di Piero Vecchietti, il qual essendo prima stato orefice molto stimato, si diede finalmente alla scultura et a gettar di bronzo, nelle quali arti mise tanto studio che divenuto eccellente gli fu dato a fare, di bronzo, il tabernacolo dell'altar maggiore del Duomo di Siena sua patria, con quegli ornamenti di marmo che ancor vi si veggiono.
Il qual getto, che fu mirabile, gl'acquistò nome e riputazione grandissima per la proporzione e grazia che egli ha in tutte le parti; e chi bene considera questa opera, vede in essa buon disegno e che l'artefice suo fu giudizioso e pratico valent'uomo.
Fece il medesimo in un bel getto di metallo, per la cappella de' pittori sanesi nello spedale grande della Scala, un Cristo nudo che tiene la croce in mano, d'altezza quanto il vivo; la qual opera, come venne benissimo nel getto così fu rinetta con amore e diligenza.
Nella medesima casa, nel peregrinario, è una storia dipinta da Lorenzo di colori.
E sopra la porta di San Giovanni un arco con figure lavorate a fresco.
Similmente, perché il battesimo non era finito, vi lavorò alcune figure di bronzo e vi finì pur di bronzo una storia cominciata già da Donatello.
Nel qual luogo aveva ancora lavorato due storie di bronzo Iacopo della Fonte, la maniera del quale imitò sempre Lorenzo quanto potette maggiormente.
Il qual Lorenzo condusse il detto battesimo all'ultima perfezione, ponendovi ancora alcune figure di bronzo gettate già da Donato, ma da sé finite del tutto, che sono tenute cosa bellissima.
Alla loggia degl'ufficiali in banchi fece Lorenzo, di marmo, all'altezza del naturale, un San Piero et un San Paulo, lavorati con somma grazia e condotti con buona pratica.
Accommodò costui talmente le cose, che fece che ne merita molte lode così morto come fece vivo.
Fu persona malinconica e soletaria, e che sempre stette in considerazione; il che forse gli fu cagione di non più oltre vivere, conciò sia che di cinquantaotto anni passò all'altra vita.
Furono le sue opere circa l'anno 1482.
FINE DELLA VITA DI FRANCESCO DI GIORGIO
E DI LORENZO VECCHIETTI
VITA DI GALASSO GALASSI PITTORE
Quando in una città dove non sono eccellenti artefici vengono forestieri a fare opere, sempre si desta l'ingegno a qualch'uno, che si sforza di poi con l'apprendere quella medesima arte far sì che nella sua città non abbino più a venire gli strani, per abbellirla, da quivi inanzi e portarne le facultà; le quali si ingegna di meritare egli con la virtù e di acquistarsi quelle ricchezze che troppo gli parsono belle ne' forestieri.
Il che chiaramente fu manifesto in Galasso ferrarese, il quale, veggendo Pietro dal Borgo a San Sepolcro rimunerato da quel Duca dell'opre e delle cose che lavorò, et oltra ciò onoratamente tratenuto in Ferrara, fu per tale esempio incitato, dopo la partita di quello, di darsi alla pittura, talmente che in Ferrara acquistò fama di buono et eccellente maestro.
La qual cosa lo fece tanto più grato in quel luogo, quanto nello andare a Vinegia imparò il colorire a olio e lo portò a Ferrara, per che fece poi infinite figure in tal maniera, che sono per Ferrara sparte in molte chiese.
Appresso, venutosene a Bologna, condottovi da alcuni frati di San Domenico, fece ad olio una cappella in San Domenico; e così il grido di lui crebbe insieme col credito.
Per che appresso questo lavorò a Santa Maria del Monte fuor di Bologna, luogo de' Monaci Neri, e fuor della porta di San Mammolo, molte pitture in fresco; e così alla Casa di Mezzo per questa medesima strada fu la chiesa tutta dipinta di man sua et a fresco lavorata nella quale egli fece le storie del Testamento Vecchio.
Visse sempre costumatissimamente e si dimostrò molto cortese e piacevole, nascendo ciò per lo essere più uso fuor della patria sua a vivere et a abitare che in quella.
Vero è che per non essere egli molto regolato nel viver suo, non durò molto tempo in vita, andandosene di anni cinquanta, o circa, a quella vita che non ha fine; onorato dopo la morte da uno amico, di questo epitaffio:
GALASSUS FERRARIENSIS
Sum tanto studio naturam imitatus et arte
dum pingo, rerum quae creat illa parens,
haec ut saepe quidem, non picta putaverit a me,
a se crediderit sed generata magis.
In questi tempi medesimi fu Cosmè da Ferrara pure.
Del quale si veggono, in San Domenico di detta città, una cappella, e nel Duomo duoi sportelli che serrano lo organo di quello.
Costui fu migliore disegnatore che pittore; e per quanto io ne abbia possuto ritrarre, non dovette dipigner molto.
VITA D'ANTONIO ROSSELLINO SCULTORE E DI BERNARDO SUO FRATELLO
Fu veramente sempre cosa lodevole e virtuosa la modestia e l'essere ornato di gentilezza e di quelle rare virtù che agevolmente si riconoscono nell'onorate azioni d'Antonio Rossellino scultore; il quale fece la sua arte con tanta grazia, che da ogni suo conoscente fu stimato assai più che uomo et adorato quasi per santo, per quelle ottime qualità che erano unite alla virtù sua.
Fu chiamato Antonio il Rossellino dal Proconsolo, perché e' tenne sempre la sua bottega in un luogo che così si chiama in Fiorenza.
Fu costui sì dolce e sì delicato ne' suoi lavori, e di finezza e pulitezza tanto perfetta, che la maniera sua giustamente si può dir vera, e veramente chiamare moderna.
Fece nel palazzo de' Medici la fontana di marmo che è nel secondo cortile, nella quale sono alcuni fanciulli, che sbarrano delfini che gettano acqua, et è finita con somma grazia e con maniera diligentissima.
Nella chiesa di Santa Croce a la pila dell'acqua santa, fece la sepoltura di Francesco Nori, e sopra quella una Nostra Donna di basso rilievo et una altra Nostra Donna in casa de' Tornabuoni, e molte altre cose mandate fuori in diverse parti, sì come a Lione di Francia una sepoltura di marmo.
A San Miniato a Monte, monasterio de' monaci bianchi fuor delle mura di Fiorenza, gli fu fatto fare la sepoltura del cardinale di Portogallo, la quale sì maravigliosamente fu condotta da lui, e con diligenza et artifizio così grande, che non si imagini artefice alcuno di poter mai vedere cosa alcuna che di pulitezza o di grazia passare la possa in maniera alcuna.
E certamente a chi la considera pare impossibile, non che difficile, che ella sia condotta così, vedendosi in alcuni Angeli che vi sono tanta grazia e bellezza d'arie, di panni e d'artifizio, che e' non paiono più di marmo, ma vivissimi: di questi, l'uno tiene la corona della verginità di quel cardinale, il quale si dice che morì vergine, l'altro la palma della vittoria che egli acquistò contra il mondo.
E fra le molte cose artifiziosissime che vi sono, vi si vede un arco di macigno che regge una cortina di marmo aggruppata, tanto netta, che fra il bianco del marmo et il bigio del macigno, ella pare molto più simile al vero panno, che al marmo.
In su la cassa del corpo sono alcuni fanciulli veramente bellissimi et il morto stesso, con una Nostra Donna in un tondo, lavorata molto bene.
La cassa tiene il garbo di quella di porfido, che è in Roma su la piazza della Ritonda.
Questa sepoltura del cardinale fu posta su nel 1459 e tanto piacque la forma sua e l'architettura della cappella al Duca di Malfi nipote di papa Pio Secondo, che dalle mani del maestro medesimo ne fece fare in Napoli un'altra per la donna sua, simile a questa in tutte le cose, fuori che nel morto.
Di più vi fece una tavola di una Natività di Cristo nel presepio con un ballo d'Angeli in su la capanna, che cantano a bocca aperta, in una maniera che ben pare che dal fiato in fuori Antonio desse loro ogn'altra movenza et affetto, con tanta grazia e con tanta pulitezza, che più operare non possono nel marmo il ferro e l'ingegno.
Per il che sono state molto stimate le cose sue da Michelagnolo e da tutto il restante degl'artefici più che eccellenti.
Nella Pieve d'Empoli fece di marmo un San Bastiano che è tenuto cosa bellissima; e di questo avemo un disegno di sua mano nel nostro libro, con tutta l'architettura e figure della cappella detta di San Miniato in Monte, et insieme il ritratto di lui stesso.
Antonio finalmente si morì in Fiorenza d'età d'anni 46, lasciando un suo fratello architettore e scultore, chiamato Bernardo, il quale in Santa Croce fece di marmo la sepoltura di Messer Lionardo Bruni aretino, che scrisse la storia fiorentina e fu quel gran dotto che sa tutto il mondo.
Questo Bernardo fu nelle cose d'architettura molto stimato da papa Nicola Quinto, il quale l'amò assai, e di lui si servì in moltissime opere che fece nel suo pontificato; e più averebbe fatto, se a quell'opere che aveva in animo di far quel Pontefice, non si fusse interposta la morte.
Gli fece dunque rifare, secondo che racconta Giannozzo Manetti, la piazza di Fabriano, l'anno che per la peste vi stette alcuni mesi; e dove era stretta e malfatta, la riallargò e ridusse in buona forma, facendovi intorno intorno un ordine di botteghe utili e molto commode e belle.
Ristaurò appresso e rifondò la chiesa di S.
Francesco della detta terra, che andava in rovina; a Gualdo rifece si può dir di nuovo, con l'aggiunta di belle e buone fabriche, la chiesa di San Benedetto; in Ascesi, la chiesa di S.
Francesco, che in certi luoghi era rovinata et in certi altri minacciava rovina, rifondò gagliardamente e ricoperse; a Civitavecchia fece molti belli e magnifici edifizii; a Civita Castellana rifece meglio che la terza parte delle mura, con buon garbo; a Narni rifece et ampliò di belle e buone muraglie, la fortezza; a Orvieto fece una gran fortezza con un bellissimo palazzo, opera di grande spesa e non minore magnificenza; a Spoleti similmente accrebbe e fortificò la fortezza, facendovi dentro abitazioni tanto belle e tanto commode e bene intese, che non si poteva veder meglio.
Rassettò i Bagni di Viterbo con gran spesa e con animo regio, facendovi abitazioni, che non solo per gl'amalati che giornalmente andavano a bagnarsi sarebbono state recipienti, ma ad ogni gran prencipe.
Tutte queste opere fece il detto Pontefice col disegno di Bernardo, fuori della città.
In Roma ristaurò et in molti luoghi rinovò le mura della città, che per la maggior parte erano rovinate, aggiugnendo loro alcune torri e comprendendo in queste una nuova fortificazione, che fece a Castel S.
Angelo di fuora, e molte stanze et ornamenti che fece dentro.
Parimente aveva il detto Pontefice in animo, e la maggior parte condusse a buon termine, di restaurare e riedificare, secondo che più avevano di bisogno, le quaranta chiese delle stazioni già institute da San Gregorio Primo, che fu chiamato per sopranome Grande.
Così restaurò S.
Maria Trastevere, S.
Prasedia, S.
Teodoro, S.
Piero in Vincula, e molte altre delle minori.
Ma con maggiore animo ornamento e diligenza fece questo in sei delle sette maggiori e principali, cioè: S.
Giovanni Laterano, S.
Maria Maggiore, S.
Stefano in Celio Monte, S.
Apostolo, S.
Paolo e S.
Lorenzo extra muros; non dico di S.
Piero, perché ne fece impresa a parte.
Il medesimo ebbe animo di ridurre in fortezza e fare come una città appartata il Vaticano tutto; nella quale disegnava tre vie che si dirizzavano a S.
Piero, credo dove è ora Borgo Vecchio e Nuovo, le quali copriva di loggie di qua e di là con botteghe commodissime, separando l'arti più nobili e più ricche dalle minori, e mettendo insieme ciascuna in una via da per sé; e già aveva fatto il torrione tondo che si chiama ancora il Torrione di Nicola.
E sopra quelle botteghe e loggie venivano case magnifiche e commode, e fatte con bellissima architettura et utilissima, essendo disegnate in modo che erano difese e coperte da tutti que' venti, che sono pestiferi in Roma, e levati via tutti gl'impedimenti o d'acque o di fastidii che sogliono generar mal'aria.
E tutto averebbe finito, ogni poco più che gli fusse stato conceduto di vita il detto Pontefice, il quale era d'animo grande e risoluto, et indendeva tanto, che non meno guidava e reggeva gl'artefici, che eglino lui.
La qual cosa fa che le imprese grandi si conducono facilmente a fine, quando il padrone intende da per sé, e come capace può risolvere subito; dove uno irresoluto et incapace nello star fra il sì e il no, fra varii disegni et openioni, lascia passar molte volte inutilmente il tempo senz'operare.
Ma di questo disegno di Nicola non accade dire altro che non ebbe effetto.
Voleva oltre ciò, edificare il palazzo papale con tanta magnificenza e grandezza, e con tante commodità e vaghezza, che e' fusse per l'uno e per l'altro conto il più bello e maggior edifizio di cristianità, volendo che servisse non solo alla persona del sommo Pontefice, capo de' Cristiani, e non solo al sacro collegio de' cardinali, che essendo il suo consiglio et aiuto, gl'arebbono a esser sempre intorno, ma che ancora vi stessino commodamente tutti i negozii spedizioni e giudizi della corte, dove ridotti insieme tutti gl'uffizii e le corti arebbono fatto una magnificenza e grandezza, e, se questa voce si potesse usare in simili cose, una pompa incredibile.
E, che è più infinitamente, aveva a ricevere imperadori, re, duchi et altri principi cristiani che o per faccende loro, o per divozione visitassero quella santissima apostolica sede.
E chi crederà che egli volesse farvi un teatro per le coronazioni de' pontefici? et i giardini, loggie, acquidotti, fontane, cappelle, librerie et un conclave appartato bellissimo? Insomma, questo (non so se palazzo, castello o città, debbo nominarlo) sarebbe stata la più superba cosa che mai fusse stata fatta dalla creazione del mondo, per quello che si sa, insino a oggi.
Che grandezza sarebbe stata quella della Santa Chiesa romana, veder il sommo pontefice e capo di quella, avere, come in un famosissimo e santissimo monasterio, raccolti tutti i ministri di Dio che abitano la città di Roma, et in quello, quasi un nuovo paradiso terrestre, vivere vita celeste, angelica e santissima con dare essempio a tutto il cristianesimo et accender gl'animi degl'infedeli al vero culto di Dio e di Gesù Cristo benedetto.
Ma tanta opera rimase imperfetta, anzi quasi non cominciata, per la morte di quel Pontefice; e quel poco che n'è fatto, si conosce all'arme sua o che egli usava per arme, che erano due chiavi intraversate in campo rosso.
La quinta delle cinque cose che il medesimo aveva in animo di fare, era la chiesa di San Piero, la quale aveva disegnata di fare tanto grande, tanto ricca e tanto ornata, che meglio è tacere che metter mano per non poter mai dirne anco una minima parte, e massimamente essendo poi andato male il modello e statone fatti altri da altri architettori.
E chi pure volesse in ciò sapere interamente il grand'animo di papa Nicola V, legga quello che Giannozzo Manetti, nobile e dotto cittadin fiorentino, scrisse minutissimamente nella vita di detto pontefice; il quale oltre gl'altri in tutti i sopra detti disegni si servì, come si è detto, dell'ingegno e molta industria di Bernardo Rossellini; Antonio, fratel del quale, per tornare oggi mai donde mi partii con sì bella occasione, lavorò le sue sculture circa l'anno 1490.
E perché quanto l'opere si veggiono piene di diligenza e di difficultà gl'uomini restano più ammirati, conoscendosi massimamente queste due cose ne' suoi lavori, merita egli e fama et onore, come esempio certissimo donde i moderni scultori hanno potuto imparare come si deono far le statue, che mediante le difficultà, arrechino lode e fama grandissima.
Conciò sia che dopo Donatello aggiunse egli all'arte della scultura una certa pulitezza e fine, cercando bucare e ritondare in maniera le sue figure, ch'elle appariscono per tutto e tonde e finite.
La qual cosa nella scultura infino allora non si era veduta sì perfetta; e perché egli primo l'introdusse, dopo lui nell'età seguenti e nella nostra appare maravigliosa.
VITA DI DESIDERIO DA SETTIGNANO SCULTORE
Grandissimo obligo hanno al cielo et alla natura coloro che senza fatiche partoriscono le cose loro, con una certa grazia che non si può dare alle opere che altri fa, né per istudio né per imitazione; ma è dono veramente celeste che piove in maniera su quelle cose, che elle portano sempre seco tanta leggiadria e tanta gentilezza, che elle tirano a sé non solamente quegli ch'intendono il mestiero, ma molti altri ancora che non sono di quella professione; e nasce ciò dalla facilità del buono che non si rende aspro e duro agl'occhi, come le cose stentate e fatte con difficultà, molte volte si rendono; la qual grazia e simplicità, che piace universalmente e da ognuno è conosciuta, hanno tutte l'opere che fece Desiderio, il quale dicono alcuni che fu da Settignano, luogo vicino a Fiorenza due miglia, alcuni altri lo tengono fiorentino; ma questo rilieva nulla, per essere sì poca distanza da l'un luogo all'altro.
Fu costui imitatore della maniera di Donato, quantunque da la natura avesse egli grazia grandissima e leggiadria nelle teste.
E veggonsi l'arie sue di femmine e di fanciulli, con delicata, dolce e vezzosa maniera aiutate tanto dalla natura che inclinato a questo lo aveva, quanto era ancora da lui esercitato l'ingegno dall'arte.
Fece nella sua giovanezza il basamento del David di Donato, ch'è nel palazzo del duca di Fiorenza, nel quale Desiderio fece di marmo alcune arpie bellissime et alcuni viticci di bronzo molto graziosi e bene intesi, e nella facciata della casa de' Gianfigliazzi un'arme grande con un lione, bellissima, et altre cose di pietra, le quali sono in detta città.
Fece nel Carmine alla cappella de' Brancacci uno Agnolo di legno; et in S.
Lorenzo finì di marmo la cappella del Sacramento, la quale egli con molta diligenza condusse a perfezzione.
Eravi un fanciullo di marmo tondo, il qual fu levato, et oggi si mette in sull'altar per le feste della Natività di Cristo, per cosa mirabile; in cambio del quale ne fece un altro Baccio da Montelupo, di marmo pure, che sta continuamente sopra il tabernacolo del Sacramento.
In S.
Maria Novella fece di marmo la sepoltura della Beata Villana, con certi Angioletti graziosi, e lei vi ritrasse di naturale che non par morta, ma che dorma, e nelle monache delle Murate, sopra una colonna in un tabernacolo, una Nostra Donna piccola di leggiadra e graziata maniera, onde l'una e l'altra cosa è in grandissima stima et in bonissimo pregio.
Fece ancora, a S.
Piero Maggiore, il tabernacolo del Sacramento, di marmo con la solita diligenza.
Et ancora che in quello non siano figure e' vi si vede però una bella maniera et una grazia infinita, come nell'altre cose sue.
Egli similmente di marmo ritrasse di naturale la testa della Marietta degli Strozzi, la quale essendo bellissima gli riuscì molto eccellente.
Fece la sepoltura di Messer Carlo Marsupini aretino in S.
Croce, la quale non solo in quel tempo fece stupire gl'artefici e le persone intelligenti che la guardarono, ma quegli ancora che al presente la veggono se ne maravigliano; dove egli avendo lavorato in una cassa fogliami, benché un poco spinosi e secchi, per non essere allora scoperte molte antichità, furono tenuti cosa bellissima.
Ma fra l'altre parti che in detta opera sono, vi si veggono alcune ali che a una nicchia fanno ornamento a' piè della cassa, che non di marmo, ma piumose si mostrano; cosa difficile a potere imitare nel marmo, atteso ch'ai peli et alle piume non può lo scarpello aggiugnere; èvvi di marmo una nicchia grande, più viva che se d'osso proprio fosse; sonvi ancora alcuni fanciulli et alcuni Angeli condotti con maniera bella e vivace; similmente è di somma bontà e d'artifizio il morto su la cassa, ritratto di naturale; et in un tondo una Nostra Donna di basso rilievo, lavorato secondo la maniera di Donato, con giudizio e con grazia mirabilissima; sì come sono ancora molti altri bassi rilievi di marmo ch'egli fece, delli quali alcuni sono nella guardaroba del signor Duca Cosimo; e particolarmente, in un tondo, la testa del nostro Signore Gesù Cristo e di San Giovanni Battista quando era fanciulletto.
A' piè della sepoltura del detto Messer Carlo fece una lapida grande per Messer Giorgio dottore famoso e segretario della Signoria di Fiorenza, con un basso rilievo molto bello, nel quale è ritratto esso Messer Giorgio con abito da dottore secondo l'usanza di que' tempi.
Ma se la morte sì tosto non toglieva al mondo quello spirito che tanto egregiamente operò, arebbe sì per l'avvenire con la esperienza e con lo studio operato, che vinto avrebbe d'arte tutti coloro che di grazia aveva superati.
Troncogli la morte il filo della vita nella età di 28 anni; per che molto ne dolse a tutti quegli che stimavano dover vedere la perfezzione di tanto ingegno nella vecchiezza di lui: e ne rimasero più che storditi, per tanta perdita.
Fu da' parenti e da molti amici accompagnato nella chiesa de' Servi, continuandosi per molto tempo alla sepoltura sua di mettersi infiniti epigrammi e sonetti; del numero de' quali mi è bastato mettere solamente questo:
Come vide natura
dar Desiderio ai freddi marmi vita,
e poter la scultura
agguagliar sua bellezza alma e infinita,
si fermò sbigottita,
e disse: "omai sarà mia gloria oscura".
E piena d'alto sdegno
troncò la vita a così bell'ingegno.
Ma in van: ché se costui
diè vita eterna ai marmi, e i marmi a lui.
Furono le sculture di Desiderio fatte nel 1485, lasciò abbozzata una S.
Maria Maddalena in penitenza, la quale fu poi finita da Benedetto da Maiano et è oggi in Santa Trinita di Firenze, entrando in chiesa a man destra, la quale figura è bella quanto più dir si possa.
Nel nostro libro sono alcune carte disegnate di penna da Desiderio, bellissime, et il suo ritratto si è avuto da alcuni suoi da Settignano.
FINE DELLA VITA DI DESIDERIO DA SETTIGNANO, SCULTORE
VITA DI MINO SCULTORE DA FIESOLE
Quando gli artefici nostri non cercano altro, nell'opere che fanno, che imitare la maniera del loro maestro o d'altro eccellente, del quale piaccia loro il modo dell'operare, o nell'attitudini delle figure, o nell'arie delle teste, o nel piegheggiare de' panni, e studiano quelle solamente, se bene col tempo e con lo studio le fanno simili, non arrivano però mai con questo solo a la perfezione dell'arte; avvenga che manifestissimamente si vede che rare volte passa inanzi chi camina sempre dietro; perché la imitazione della natura è ferma nella maniera di quello artefice che ha fatto la lunga pratica diventare maniera.
Conciò sia che l'imitazione è una ferma arte di fare apunto quel che tu fai, come sta il più bello delle cose della natura, pigliandola schietta senza la maniera del tuo maestro o d'altri; i quali ancora eglino ridussono in maniera le cose che tolsono da la natura.
E se ben pare che le cose degl'artefici eccellenti siano cose naturali o verisimili, non è che mai si possa usar tanta diligenza che si facci tanto simile che elle sieno com'essa natura; né ancora, scegliendo le migliori, si possa fare composizion di corpo tanto perfetto che l'arte la trapassi; e se questo è, ne segue che le cose tolte da lei, fa le pitture e le sculture perfette, e chi studia strettamente le maniere degli artefici solamente e non i corpi o le cose naturali, è necessario che facci l'opere sue e men buone della natura e di quelle di colui da chi si toglie la maniera; laonde s'è visto molti de' nostri artefici non avere voluto studiare altro che l'opere de' loro maestri e lasciato da parte la natura; de' quali n'è avenuto che non le hanno apprese del tutto e non passato il maestro loro, ma hanno fatto ingiuria grandissima all'ingegno ch'egli hanno avuto, ché s'eglino avessino studiato la maniera e le cose naturali insieme, arebbon fatto maggior frutto nell'opere loro che e' non feciono.
Come si vede nell'opere di Mino scultore da Fiesole, il quale avendo l'ingegno atto a far quel che e' voleva, invaghito della maniera di Desiderio da Settignano suo maestro, per la bella grazia che dava alle teste delle femmine e de' putti e d'ogni sua figura, parendoli al suo giudizio meglio della natura, esercitò et andò dietro a quella, abandonando e tenendo cosa inutile le naturali; onde fu più graziato che fondato nell'arte.
Nel monte dunque di Fiesole, già città antichissima vicino a Fiorenza, nacque Mino di Giovanni scultore, il quale posto a l'arte dello squadrar le pietre con Desiderio da Settignano, giovane eccellente nella scultura, come inclinato a quel mestiero, imparò, mentre lavorava le pietre squadrate, a far di terra dalle cose che aveva fatte di marmo Desiderio sì simili, che egli vedendolo volto a far profitto in quell'arte lo tirò innanzi, e lo messe a lavorare di marmo sopra le cose sue, nelle quali con una osservanza grandissima cercava di mantenere la bozza di sotto; né molto tempo andò seguitando che egli si fece assai pratico in quel mestiero, del che se ne sodisfaceva Desiderio infinitamente, ma più Mino dell'amorevolezza di lui, vedendo che continuamente gli insegnava a guardarsi dagl'errori che si possono fare in quell'arte; mentre che egli era per venire in quella professione eccellente, la disgrazia sua volse che Desiderio passasse a miglior vita; la qual perdita fu di grandissimo danno a Mino il quale come disperato si partì da Fiorenza e se ne andò a Roma, et aiutando a' maestri che lavoravano allora opere di marmo e sepolture di cardinali, che andorono in San Pietro di Roma, le quali sono oggi ite per terra per la nuova fabbrica, fu conosciuto per maestro molto prattico e sufficiente, e gli fu fatto fare dal cardinale Guglielmo Destovilla, che li piaceva la sua maniera, l'altare di marmo dove è il corpo di S.
Girolamo nella chiesa di S.
Maria Maggiore, con istorie di basso rilievo della vita sua, le quali egli condusse a perfezione e vi ritrasse quel cardinale.
Facendo poi papa Paulo II veneziano fare il suo palazzo a S.
Marco, vi si adoperò Mino in fare cert'arme.
Dopo morto quel papa, a Mino fu fatto alogazione della sua sepoltura, la quale egli dopo due anni diede finita e murata in S.
Pietro, che fu allora tenuta la più ricca sepoltura che fusse stata fatta d'ornamenti e di figure, a pontefice nessuno, la quale da Bramante fu messa in terra nella rovina di S.
Piero, e quivi stette sotterrata fra i calcinacci parecchi anni, e nel MDXLVII fu fatta rimurare d'alcuni veneziani in S.
Piero nel vecchio, in una pariete vicino alla cappella di papa Innocenzio.
E se bene alcuni credono che tal sepoltura sia di mano di Mino del Reame, ancor che fussino quasi a un tempo, ella è senza dubio di mano di Mino di Fiesole; ben è vero che il detto Mino del Reame vi fece alcune figurette nel basamento che si conoscono, se però ebbe nome Mino, e non più tosto, come alcuni affermano, Dino.
Ma per tornare al nostro, acquistato che egli si ebbe nome in Roma per la detta sepoltura e per la cassa che fece nella Minerva, e sopra essa di marmo la statua di Francesco Tornabuoni di naturale che è tenuta assai bella, e per altre opere, non isté molto ch'egli, con buon numero di danari avanzati, a Fiesole se ne ritornò e tolse donna.
Né molto tempo andò ch'egli per servigio delle donne delle murate fece un tabernacolo di marmo di mezzo rilievo, per tenervi il Sacramento, il quale fu da lui con tutta quella diligenza ch'e' sapeva, condotto a perfezzione.
Il qual non aveva ancora murato, quando inteso le monache di S.
Ambruogio - le quali erano desiderose di far fare un ornamento simile nell'invenzione, ma più ricco d'ornamento, per tenervi dentro la santissima reliquia del miracolo del Sacramento - la sufficienza di Mino, gli diedero a fare quell'opera, la quale egli finì con tanta diligenza, che satisfatte da lui quelle donne gli diedono tutto quello ch'e' dimandò per prezzo di quell'opera; e così poco di poi prese a fare una tavoletta con figure d'una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, messa in mezzo da San Lorenzo e da San Lionardo, di mezzo rilievo, che doveva servire per i preti o capitolo di San Lorenzo, ad instanza di Messer Dietisalvi Neroni; ma è rimasta nella sagrestia della Badia di Firenze.
Et a que' monaci fece un tondo di marmo, drentovi una Nostra Donna di rilievo col suo Figliuolo in collo, qual posono sopra la porta principale che entra in chiesa; il quale piacendo molto all'universale, fu fattogli allogazione di una sepoltura per il Magnifico Messer Bernardo cavaliere di Giugni, il quale per essere stato persona onorevole e molto stimata meritò questa memoria da' suoi fratelli.
Condusse Mino in questa sepoltura oltre alla cassa et il morto, ritrattovi di naturale sopra, una giustizia la quale imita la maniera di Desiderio molto, se non avesse i panni di quella un poco tritati dall'intaglio.
La quale opera fu cagione che l'abate e' monaci della Badia di Firenze, nel qual luogo fu collocata la detta sepoltura, gli dessero a far quella del conte Ugo figliuolo del marchese Uberto di Madeborgo, il quale lasciò a quella badia molte facultà e privilegii; e così, desiderosi d'onorarlo il più ch'e' potevano, feciono fare a Mino, di marmo di Carrara, una sepoltura che fu la più bella opera che Mino facesse mai; perché vi sono alcuni putti che tengono l'arme di quel conte, che stanno molto arditamente e con una fanciullesca grazia; et oltre alla figura del conte morto, con l'effigie di lui ch'egli fece in su la cassa, è in mezzo sopra la bara, nella faccia, una figura d'una Carità con certi putti, lavorata molto diligentemente et accordata insieme molto bene; il simile si vede in una Nostra Donna, in un mezzo tondo col Putto in collo, la quale fece Mino più simile alla maniera di Desiderio che potette, e se egli avesse aiutato il far suo con le cose vive et avesse studiato, non è dubbio che egli arebbe fatto grandissimo profitto nell'arte.
Costò questa sepoltura a tutte sue spese lire 1600 e la finì nel 1481; della quale acquistò molto onore, e per questo gli fu allogato a fare nel Vescovado di Fiesole, a una cappella vicina alla maggiore a man dritta salendo, un'altra sepoltura per il vescovo Lionardo Salutati, vescovo di detto luogo; nella quale egli lo ritrasse in pontificale, simile al vivo quanto sia possibile.
Fece per lo medesimo vescovo una testa d'un Cristo di marmo grande quanto il vivo e molto ben lavorata, la quale fra l'altre cose dell'eredità rimase allo spedale degl'Innocenti; et oggi l'ha il molto reverendo don Vincenzio Borghini, priore di quello spedale, fra le sue più care cose di quest'arti delle quali si diletta quanto più non saprei dire.
Fece Mino nella pieve di Prato un pergamo tutto di marmo, nel quale sono storie di Nostra Donna condotte con molta diligenza e tanto ben commesse, che quell'opera par tutta d'un pezzo.
È questo pergamo in sur un canto del coro, quasi nel mezzo della chiesa, sopra certi ornamenti fatti d'ordine dello stesso Mino; il quale fece il ritratto di Piero di Lorenzo de' Medici e quello della moglie, naturali e simili affatto.
Queste due teste stettono molti anni sopra due porte in camera di Piero, in casa Medici, sotto un mezzo tondo; dopo, sono state ridotte con molti altri ritratti d'uomini illustri di detta casa nella guardaroba del signor duca Cosimo.
Fece anco una Nostra Donna di marmo, ch'è oggi nell'udienza dell'Arte de' Fabricanti; et a Perugia mandò una tavola di marmo a Messer Baglione Ribi, che fu posta in San Piero alla cappella del Sagramento, la qual opera è un tabernacolo in mezzo d'un San Giovanni e d'un San Girolamo, che sono due buone figure di mezzo rilievo.
Nel Duomo di Volterra parimente è di sua mano il tabernacolo del Sagramento, e due Angeli che lo mettono in mezzo, tanto ben condotti e con diligenza, che è questa opera meritamente lodata da tutti gl'artefici.
Finalmente volendo un giorno Mino muovere certe pietre si affaticò, non avendo quegli aiuti che gli bisognavano, di maniera che, presa una calda, se ne morì; e fu nella calonaca di Fiesole dagl'amici e parenti suoi onorevolmente sepellito l'anno 1486.
Il ritratto di Mino è nel nostro libro de' disegni non so di cui mano; perché a me fu dato con alcuni disegni fatti col piombo dallo stesso Mino, che sono assai belli.
FINE DELLA VITA DI MINO, SCULTORE DA FIESOLE
VITA DI LORENZO COSTA FERRARESE PITTORE
Se bene in Toscana più che in tutte l'altre provincie d'Italia e forse d'Europa, si sono sempre esercitati gl'uomini nelle cose del disegno, non è per questo che nell'altre provincie non si sia d'ogni tempo risvegliato qualche ingegno, che nelle medesime professioni sia stato raro et eccellente, come si è in fin qui in molte vite dimostrato, e più si mostrerà per l'avvenire.
Ben è vero che dove non sono gli studi e gl'uomini, per usanza inclinati ad imparare, non se ne può né così tosto, né così eccellente divenire, come in que' luoghi si fa, dove a concorrenza si esercitano e studiano gl'artefici di continuo.
Ma tosto che uno o due cominciano, pare che sempre avenga che molti altri (tanta forza ha la virtù) s'ingegnino di seguitargli con onore di se stessi e delle patrie loro.
Lorenzo Costa ferrarese, essendo da natura inclinato alle cose della pittura e sentendo esser celebre e molto reputato in Toscana fra' Filippo, Benozzo et altri, se ne venne in Firenze per vedere l'opere loro; e qua arrivato, perché molto gli piacque la maniera loro, ci si fermò per molti mesi, ingegnandosi quanto potette il più d'imitargli e particolarmente nel ritrarre di naturale; il che così felicemente gli riuscì, che tornato alla patria (se bene ebbe la maniera un poco secca e tagliente) vi fece molto opere lodevoli, come si può vedere nel coro della chiesa di S.
Domenico in Ferrara, che è tutto di sua mano dove si conosce la diligenza che egli usò nell'arte, e che egli mise molto studio nelle sue opere.
E nella guardaroba del signor Duca di Ferrara si veggiono di mano di costui, in molti quadri, ritratti di naturale che sono benissimo fatti e molto simili al vivo.
Similmente per le case de' gentiluomini sono opere di sua mano tenute in molta venerazione.
A Ravenna, nella chiesa di S.
Domenico, alla cappella di S.
Bastiano, dipinse a olio la tavola, et a fresco alcune storie, che furono molto lodate.
Di poi condotto a Bologna dipinse in S.
Petronio nella cappella de' Mariscotti, in una tavola, un S.
Bastiano saettato alla colonna, con molte altre figure, la qual opera per cosa lavorata a tempera fu la migliore che insino allora fusse stata fatta in quella città.
Fu anco opera sua la tavola di San Ieronimo nella cappella de' Castelli e parimente quella di San Vincenzio, che è similmente lavorata a tempera, nella cappella de' Griffoni, la predella della quale fece dipignere a un suo creato, che si portò molto meglio che non fece egli nella tavola, come a suo luogo si dirà.
Nella medesima città fece Lorenzo, e nella chiesa medesima alla cappella de' Rossi, in una tavola, la Nostra Donna, San Iacopo, San Giorgio, San Bastiano e San Girolamo, la quale opera è la migliore e di più dolce maniera di qual si voglia altra che costui facesse già mai.
Andato poi Lorenzo al servigio del signor Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, gli dipinse nel palazzo di San Sebastiano, in una camera lavorata parte a guazzo e parte a olio, molte storie.
In una è la marchesa Isabella ritratta di naturale, che ha seco molte signore, che con varii suoni cantando fanno dolce armonia; in un'altra è la dea Latona, che converte, secondo la favola, certi villani in ranocchi; nella terza è il marchese Francesco, condotto da Ercole per la via della virtù sopra la cima d'un monte consecrato all'eternità; in un altro quadro si vede il medesimo Marchese sopra un piedistallo, trionfante con un bastone in mano, et intorno gli sono molti signori e servitori suoi con stendardi in mano, tutti lietissimi e pieni di giubilo per la grandezza di lui, fra i quali tutti è un infinito numero di ritratti di naturale.
Dipinse ancora nella sala grande, dove oggi sono i trionfi di mano del Mantegna, due quadri, cioè in ciascuna testa uno.
Nel primo, che è a guazzo, sono molti nudi che fanno fuochi e sacrifizii a Ercole, et in questo è ritratto di naturale il Marchese, con tre suoi figliuoli, Federigo, Ercole e Ferrante, che poi sono stati grandissimi et illustrissimi signori; vi sono similmente alcuni ritratti di gran donne.
Nell'altra, che fu fatto a olio molti anni dopo il primo, e che fu quasi dell'ultime cose che dipignesse Lorenzo, è il marchese Federigo fatto uomo, con un bastone in mano, come generale di Santa Chiesa sotto Leone Decimo; et intorno gli sono molti signori ritratti dal Costa di naturale.
In Bologna, nel palazzo di Messer Giovanni Bentivogli, dipinse il medesimo, a concorrenza di molti altri maestri, alcune stanze, delle quali per essere andate per terra con la rovina di quel palazzo, non si farà altra menzione.
Non lascerò già di dire che dell'opere che fece per i Bentivogli rimase solo in piedi la cappella, che egli fece a Messer Giovanni in San Iacopo, dove in due storie dipinse due trionfi tenuti bellissimi, con molti ritratti.
Fece anco in San Giovanni in Monte l'anno 1497 a Iacopo Chedini, in una cappella, nella quale volle dopo morte essere sepolto, una tavola, dentrovi la Nostra Donna, San Giovanni Evangelista, Sant'Agostino et altri Santi.
In San Francesco dipinse, in una tavola, una Natività, San Iacopo e Santo Antonio da Padova.
Fece in S.
Piero per Domenico Garganelli, gentiluomo bolognese, il principio d'una cappella bellissima; ma qualunche si fusse la cagione, fatto che ebbe nel cielo di quella alcune figure la lasciò imperfetta et a fatica cominciata.
In Mantoa, oltre l'opere che vi fece per il Marchese, delle quali si è favellato di sopra, dipinse in S.
Salvestro in una tavola la Nostra Donna, e da una banda San Salvestro che le raccomanda il popolo di quella città, dall'altra San Bastiano, San Paulo, Santa Lisabetta e San Ieronimo, e per quello che s'intende, fu collocata la detta tavola in quella chiesa dopo la morte del Costa, il quale avendo finita la sua vita in Mantoa, nella quale città sono poi stati sempre i suoi descendenti, volle in questa chiesa aver per sé e per i suoi successori la sepoltura.
Fece il medesimo molte altre pitture delle quali non si dirà altro, essendo a bastanza aver fatto memoria delle migliori.
Il suo ritratto ho avuto in Mantoa da Fermo Ghisoni pittor eccellente, che mi affermò quello esser di propria mano del Costa, il quale disegnò ragionevolmente, come si può vedere nel nostro libro in una carta di penna in carta pecora, dove è il giudizio di Salamone et un San Girolamo di chiaro scuro, che sono molto ben fatti.
Furono discepoli di Lorenzo, Ercole da Ferrara suo compatriota, del quale si scriverà di sotto la vita, e Lodovico Malino similmente ferrarese, del quale sono molte opere nella sua patria et in altri luoghi, ma la migliore che vi facesse fu una tavola, la quale è nella chiesa di San Francesco di Bologna, in una cappella vicina alla porta principale; nella quale è quando Gesù Cristo, di dodici anni, disputa co' Dottori nel tempio.
Imparò anco i primi principii dal Costa il Dosso vecchio da Ferrara, dell'opere del quale si farà menzione al luogo suo.
E questo è quanto si è potuto ritrarre della vita et opere di Lorenzo Costa ferrarese.
VITA DI ERCOLE FERRARESE PITTORE
Se bene molto inanzi che Lorenzo Costa morisse, Ercole Ferrarese suo discepolo era in bonissimo credito, e fu chiamato in molti luoghi a lavorare, non però (il che di rado suole avvenire) volle abandonar mai il suo maestro; e più tosto si contentò di star con esso lui con mediocre guadagno e lode, che da per sé con utile o credito maggiore.
La quale gratitudine, quanto meno oggi negl'uomini si ritruova, tanto più merita d'esser perciò Ercole lodato; il quale conoscendosi obligato a Lorenzo pospose ogni suo commodo al volere di lui, e gli fu come fratello e figliuolo insino all'estremo della vita.
Costui dunque, avendo miglior disegno che il Costa, dipinse sotto la tavola da lui fatta in San Petronio, nella cappella di San Vincenzio, alcune storie di figure piccole a tempera, tanto bene e con sì bella e buona maniera, che non è quasi possibile veder meglio, né imaginarsi la fatica e diligenza che Ercole vi pose; là dove è molto miglior opera la predella che la tavola, le quali amendue furono fatte in un medesimo tempo, vivente il Costa.
Dopo la morte del quale fu messo Ercole da Domenico Garganelli a finire la cappella in San Petronio, che, come si disse di sopra, aveva Lorenzo cominciato e fattone picciola parte.
Ercole dunque, al quale dava per ciò il detto Domenico quattro ducati il mese, e le spese a lui et a un garzone, e tutti i colori che nell'opera avevano a porsi, messosi a lavorar, finì quell'opera per sì fatta maniera che passò il maestro suo di gran lunga, così nel disegno e colorito come nella invenzione.
Nella prima parte, o vero faccia, è la crucifissione di Cristo fatta con molto giudizio, perciò che oltre il Cristo che vi si vede già morto, vi è benissimo espresso il tumulto de' Giudei venuti a vedere il Messia in croce; e tra essi è una diversità di teste maravigliosa, nel che si vede che Ercole con grandissimo studio cercò di farle tanto differenti l'una dall'altra, che non si somigliassino in cosa alcuna; sonovi anche alcune figure che scoppiando di dolore nel pianto, assai chiaramente dimostrano quanto egli cercasse di imitare il vero; evvi lo svenimento della Madonna ch'è pietosissimo, ma molto più sono le Marie verso di lei, perché si veggiono tutte compassionevoli, e nell'aspetto tanto piene di dolore quanto appena è possibile imaginarsi nel vedersi morte inanzi le più care cose che altri abbia, e stare in perdita delle seconde.
Tra l'altre cose notabili ancora che vi sono, vi è un Longino a cavallo sopra una bestia secca in iscorto, che ha rilievo grandissimo, et in lui si conosce la impietà nell'avere aperto il costato di Cristo, e la penitenza e conversione nel trovarsi ralluminato.
Similmente in strana attitudine figurò alcuni soldati che si giuocano la veste di Cristo, con modi bizzarri di volti et abbigliamenti di vestiti.
Sono anco ben fatti e con belle invenzioni, i ladroni che sono in croce; e perché si dilettò Ercole assai di fare scorti, i quali quando sono bene intesi sono bellissimi, egli fece in quell'opera un soldato a cavallo che levate le gambe dinanzi in alto, viene in fuori di maniera che pare di rilievo; e perché il vento fa piegare una bandiera che egli tiene in mano, per sostenerla fa una forza bellissima.
Fecevi anco un S.
Giovanni che rinvolto in un lenzuolo si fugge.
I soldati parimente, che sono in questa opera, sono benissimo fatti e con le più naturali e proprie movenze, che altre figure che insino allora fussono state vedute, le quali tutte attitudini e forze che quasi non si possono far meglio, mostrano che Ercole aveva grandissima intelligenza e si affaticava nelle cose dell'arte.
Fece il medesimo, nella facciata che è dirimpetto a questa, il transito di Nostra Donna, la quale è dagl'apostoli circondata con attitudini bellissime, e fra essi sono sei persone ritratte di naturale tanto bene, che quegli che le conobbero affermano che elle sono vivissime.
Ritrasse anco nella medesima opera se medesimo e Domenico Garganelli padrone della cappella, il quale per l'amore che portò a Ercole e per le lodi che sentì dare a quell'opera, finita ch'ella fu, gli donò mille lire di bolognini.
Dicono che Ercole mise nel lavoro di questa opera dodici anni: sette per condurla a fresco e cinque in ritoccarla a secco.
Ben è vero che in quel mentre fece alcune altre cose e particolarmente, che si sa, la predella dell'altar maggiore di San Giovanni in Monte, nella quale fece tre storie della Passion di Cristo.
E perché Ercole fu di natura fantastico, e massimamente quando lavorava, avendo per costume che né pittori né altri lo vedessino, fu molto odiato in Bologna dai pittori di quella città, i quali per invidia hanno sempre portato odio ai forestieri che vi sono stati condotti a lavorare; et il medesimo fanno anco alcuna volta fra loro stessi, nelle concorrenze; benché questo è quasi particolar vizio de' professori di queste nostre arti in tutti i luoghi.
S'accordarono dunque una volta alcuni pittori bolognesi con un legnaiuolo, e per mezzo suo si rinchiusero in chiesa vicino alla cappella che Ercole lavorava; e la notte seguente, entrati in quella per forza, non pure non si contentarono di veder l'opera, il che doveva bastar loro, ma gli rubarono tutti i cartoni, gli schizzi, i disegni et ogni altra cosa che vi era di buono.
Per la qual cosa si sdegnò in maniera Ercole, che finita l'opera si partì di Bologna senza punto dimorarvi; e seco ne menò il duca Tagliapietra, scultore molto nominato, il quale in detta opera che Ercole dipinse intagliò di marmo que' bellissimi fogliami che sono nel parapetto, dinanzi a essa cappella, et il quale fece poi in Ferrara tutte le finestre di pietra del palazzo del Duca, che sono bellissime.
Ercole dunque, infastidito finalmente dallo star fuori di casa, se ne stette poi sempre in Ferrara in compagnia di colui e fece in quella città molte opere.
Piaceva a Ercole il vino straordinariamente, perché spesso inebriandosi fu cagione di accortarsi la vita, la quale avendo condotta senza alcun male insino agl'anni quaranta, gli cadde un giorno la gocciola, di maniera che in poco tempo gli tolse la vita.
Lasciò Guido bolognese pittore, suo creato, il quale l'anno 1491, come si vede dove pose il nome suo sotto il portico di S.
Piero a Bologna, fece a fresco un Crucifisso, con le Marie, i ladroni, i cavalli et altre figure ragionevoli.
E perché egli disiderava sommamente di venire stimato in quella città come era stato il suo maestro, studiò tanto e si sottomise a tanti disagi, che si morì di trentacinque anni.
E se si fusse messo Guido a imparare l'arte da fanciullezza, come vi si mise d'anni diciotto, arebbe non pur pareggiato il suo maestro senza fatica, ma passatolo ancora di gran lunga.
E nel nostro libro sono disegni di mano di Ercole e di Guido, molto ben fatti e tirati con grazia e buona maniera, etc.
FINE DELLA VITA D'ERCOLE DA FERRARA, PITTORE
VITA DI IACOPO, GIOVANNI E GENTILE BELLINI PITTORI VINIZIANI
Le cose che sono fondate nella virtù, ancor che il principio paia molte volte basso e vile, vanno sempre in alto di mano in mano, et insino a ch'elle non son arrivate al sommo della gloria, non si arrestano, né posano già mai, sì come chiaramente potette vedersi nel debile e basso principio della casa de' Bellini, e nel grado in che venne poi, mediante la pittura.
Adunque Iacopo Bellini, pittore viniziano, essendo stato discepolo di Gentile da Fabriano nella concorrenza che egli ebbe con quel Domenico, che insegnò il colorire a olio ad Andrea dal Castagno, ancor che molto si affaticasse per venire eccellente nell'arte, non acquistò però nome in quella, se non dopo la partita di Vinezia di esso Domenico.
Ma poi ritrovandosi in quella città senza aver concorrente che lo pareggiasse, accrescendo sempre in credito e fama, sì fece in modo eccellente che egli era nella sua professione il maggiore e più reputato; et acciò che non pure si conservasse, ma si facesse maggiore nella casa sua e ne' sucessori il nome acquistatosi nella pittura, ebbe due figliuoli inclinatissimi all'arte, e di bello e buono ingegno: l'uno fu Giovanni e l'altro Gentile, al quale pose così nome per la dolce memoria che teneva di Gentile da Fabriano, stato suo maestro e come padre amorevole.
Quando dunque furono alquanto cresciuti i detti due figliuoli, Iacopo stesso insegnò loro con ogni diligenza i principii del disegno, ma non passò molto, che l'uno e l'altro avanzò il padre di gran lunga; il quale, di ciò rallegrandosi molto, sempre gli inanimiva, mostrando loro che disiderava che eglino, come i toscani fra loro medesimi portavano il vanto di far forza per vincersi l'un l'altro, secondo che venivono all'arte di mano in mano, così Giovanni vincesse lui, e poi Gentile l'uno e l'altro, e così successivamente.
Le prime cose che diedero fama a Iacopo, furono il ritratto di Giorgio Cornaro e di Caterina reina di Cipri, una tavola che egli mandò a Verona, dentrovi la passione di Cristo con molte figure, fra le quali ritrasse se stesso di naturale et una storia della croce, la quale si dice essere nella scuola di S.
Giovanni Evangelista, le quali tutte e molte altre furono dipinte da Iacopo con l'aiuto de' figliuoli; e questa ultima storia fu fatta in tela, sì come si è quasi sempre in quella città costumato di fare, usandovisi poco dipignere, come si fa altrove, in tavole di legname d'albero, da molti chiamato oppio e d'alcuni gàtticce; il quale legname, che fa per lo più lungo i fiumi o altre acque, è dolce affatto e mirabile per dipignervi sopra, perché tiene molto il fermo quando si commette con la mastrice.
Ma in Venezia non si fanno tavole, e facendose alcuna volta, non si adopera altro legname che d'abeto, di che è quella città abondantissima, per rispetto del fiume Adice che ne conduce grandissima quantità di terra tedesca, senza che anco ne viene pure assai di Schiavonia.
Si costuma dunque assai in Vinezia dipignere in tela, o sia perché non si fende e non intarla, o perché si possono fare le pitture di che grandezza altri vuole, o pure per la commodità, come si disse altrove, di mandarle commodamente dove altri vuole, con pochissima spesa e fatica.
Ma sia di ciò la cagione qualsivoglia, Iacopo e Gentile feciono, come di sopra si è detto, le prime loro opere in tela; e poi Gentile da per sé, alla detta ultima storia della croce, n'aggiunse altri sette o vero otto quadri, ne' quali dipinse il miracolo della croce di Cristo, che tiene per reliquia la detta scuola; il quale miracolo fu questo: essendo gettata per non so che caso la detta croce dal ponte della Paglia in Canale, per la reverenza che molti avevano al legno che vi è, della croce di Gesù Cristo, si gettarono in acqua per ripigliarla, ma come fu volontà di Dio niuno fu degno di poterla pigliare, eccetto che il guardiano di quella scuola.
Gentile adunque, figurando questa storia, tirò in prospettiva in sul Canale grande molte case, il ponte alla Paglia, la piazza di S.
Marco et una lunga processione d'uomini e donne, che sono dietro al clero.
Similmente molti gettati in acqua, altri in atto di gettarsi, molti mezzo sotto et altri in altre maniere et attitudini bellissime; e finalmente vi fece il guardiano detto, che la ripiglia.
Nella qual opera invero fu grandissima la fatica e diligenza di Gentile, considerandosi l'infinità delle figure, i molti ritratti di naturale, il diminuire delle figure che sono lontane et i ritratti particolarmente di quasi tutti gl'uomini che allora erano di quella scuola o vero Compagnia; et in ultimo vi è fatto, con molte belle considerazioni, quando si ripone la detta croce.
Le quali tutte storie, dipinte nei sopra detti quadri di tela, arecarono a Gentile grandissimo nome.
Ritiratosi poi affatto Iacopo da sé, e così ciascuno de' figliuoli, attendeva ciascuno di loro agli studi dell'arte.
Ma di Iacopo non farò altra menzione, perché non essendo state l'opere sue rispetto a quelle de' figliuoli straordinarie et essendosi non molto dopo che da lui si ritirarono i figliuoli, morto, giudico esser molto meglio ragionare a lungo di Giovanni e Gentile solamente.
Non tacerò già che se bene si ritirarono questi fratelli a vivere ciascuno da per sé, che nondimeno si ebbero in tanta reverenza l'un l'altro, et ambidue il padre, che sempre ciascuno di loro celebrando l'altro, si faceva inferiore di meriti; e così modestamente cercavano di sopravanzare l'un l'altro, non meno in bontà e cortesia, che nell'eccellenza dell'arte.
Le prime opere di Giovanni furono alcuni ritratti di naturale che piacquero molto, e particolarmente quello del doge Loredano, se bene altri dicono essere stato Giovanni Mozzenigo, fratello di quel Piero che fu doge molto inanzi a esso Loredano.
Fece dopo Giovanni una tavola nella chiesa di S.
Giovanni, all'altare di S.
Caterina da Siena, nella quale, che è assai grande, dipinse la Nostra Donna a sedere col Putto in collo, S.
Domenico, S.
Ieronimo, S.
Caterina, S.
Orsola e due altre vergini; et a' piedi della Nostra Donna fece tre putti ritti, che cantano a un libro, bellissimo.
Di sopra fece lo sfondato d'una volta in un casamento che è molto bello; la qual opera fu delle migliori che fusse stata fatta insino allora in Venezia.
Nella chiesa di S.
Iobbe dipinse il medesimo all'altar di esso Santo, una tavola con molto disegno e bellissimo colorito, nella quale fece in mezzo, a sedere un poco alta, la Nostra Donna col Putto in collo, e S.
Iobbe e S.
Bastiano nudi; et appresso S.
Domenico, S.
Francesco, S.
Giovanni e S.
Agostino, e da basso tre putti che suonano con molta grazia, e questa pittura fu non solo lodata allora che fu vista di nuovo, ma è stata similmente sempre dopo, come cosa bellissima.
Da queste lodatissime opere mossi, alcuni gentiluomini cominciarono a ragionare che sarebbe ben fatto, con l'occasione di così rari maestri, fare un ornamento di storie nella sala del gran consiglio, nelle quali si dipignessero le onorate magnificenze della loro maravigliosa città, le grandezze, le cose fatte in guerra, l'imprese et altre cose somiglianti, degne di essere rappresentate in pittura alla memoria di coloro che venisseno; acciò che all'utile e piacere che si trae dalle storie che si leggono, si aggiugnesse trattenimento all'occhio et all'intelletto parimente, nel vedere da dottissima mano fatte l'imagini di tanti illustri signori, e l'opere egregie di tanti gentiluomini, dignissimi d'eterna fama e memoria.
A Giovanni dunque e Gentile, che ogni giorno andavano acquistando maggiormente, fu ordinato da chi reggeva che si allogasse quest'opera, e commesso che quanto prima se le desse principio.
Ma è da sapere che Antonio Viniziano, come si disse nella vita sua, molto innanzi aveva dato principio a dipignere la medesima sala, e vi aveva fatto una grande storia, quando dall'invidia d'alcuni maligni fu forzato a partirsi e non seguitare altramente quella onoratissima impresa.
Ora Gentile, o per avere miglior modo e più pratica nel dipignere in tela che a fresco, o qualunche altra si fusse la cagione, adoperò di maniera che con facilità ottenne di fare quell'opera non in fresco, ma in tela.
E così messovi mano, nella prima fece il papa che presenta al doge un cero, perché lo portasse nella solennità di processioni che s'avevano a fare.
Nella quale opera ritrasse Gentile tutto il difuori di S.
Marco et il detto papa fece ritto in pontificale con molti prelati dietro, e similmente il doge diritto, accompagnato da molti senatori.
In un'altra parte fece prima quando l'imperatore Barbarossa riceve benignamente i legati viniziani, e di poi quando tutto sdegnato si prepara alla guerra, dove sono bellissime prospettive et infiniti ritratti di naturale, condotti con bonissima grazia et in gran numero di figure.
Nell'altra che seguita, dipinse il papa che conforta il doge et i signori veneziani ad armare a comune spesa trenta galee, per andare a combattere con Federigo Barbarossa.
Stassi questo papa in una sedia pontificale in roccetto et ha il doge accanto, e molti senatori abbasso.
Et anco in questa parte ritrasse Gentile, ma in altra maniera, la piazza e la facciata di S.
Marco, et il mare con tanta moltitudine d'uomini, che è proprio una maraviglia.
Si vede poi in un'altra parte il medesimo papa ritto, et in pontificale dare la benedizione al doge che armato e con molti soldati dietro, pare che vada all'impresa.
Dietro a esso doge si vede in lunga processione infiniti gentiluomini, e nella medesima parte tirato in prospettiva il palazzo e S.
Marco; e questa è delle buone opere che si veggiano di mano di Gentile, se bene pare che in quell'altra, dove si rappresenta una battaglia navale, sia più invenzione, per esservi un numero infinito di galee che combattono et una quantità d'uomini incredibile, et insomma per vedervisi che mostrò di non intendere meno le guerre marittime, che le cose della pittura.
E certo l'aver fatto Gentile in questa opera numero di galee nella battaglia intrigate, soldati che combattono, barche in prospettiva diminuite con ragione, bella ordinanza nel combatterete, il furore, la forza, la difesa, il ferire de' soldati, diverse maniere di morire, il fendere dell'acqua che fanno le galee, la confusione dell'onde, e tutte le sorti d'armamenti marittimi; e certo dico non mostra l'aver fatto tanta diversità di cose, se non il grande animo di Gentile, l'artifizio, l'invenzione et il giudizio, essendo ciascuna cosa da per sé benissimo fatta, e parimente tutto il composto insieme.
In un'altra storia fece il papa che riceve, accarezzandolo, il doge che torna con la desiderata vittoria, donandogli un anello d'oro per isposare il mare, sì come hanno fatto e fanno ancora ogn'anno i sucessori suoi, in segno del vero e perpetuo dominio che di esso hanno meritamente; et in questa parte Ottone, figliuolo di Federigo Barbarossa, ritratto di naturale in ginocchioni inanzi al papa, e come dietro al doge sono molti soldati armati, così dietro al papa sono molti cardinali e gentiluomini.
Appariscono in questa storia solamente le poppe delle galee, e sopra la capitana è una vettoria finta d'oro a sedere, con una corona in testa et uno scettro in mano.
Dell'altre parti della sala furono allogate le storie che vi andavano, a Giovanni fratello di Gentile, ma perché l'ordine delle cose che vi fece depende da quelle fatte in gran parte ma non finite dal Vivarino, è bisogno che di costui alquanto si ragioni.
La parte dunque della sala che non fece Gentile fu data a far parte a Giovanni e parte al detto Vivarino, acciò che la concorrenza fusse cagione a tutti di meglio operare.
Onde il Vivarino, messo mano alla parte che gli toccava, fece a canto all'ultima storia di Gentile, Ottone sopra detto, che si offerisce al papa et a' viniziani d'andare a procurare la pace fra loro e Federigo suo padre, e che ottenutola si parte, licenziato in sulla fede.
In questa prima parte, oltre all'altre cose, che tutte sono degne di considerazione, dipinse il Vivarino con bella prospettiva un tempio aperto con scalee e molti personaggi; e dinanzi al papa, che è in sedia circondato da molti senatori, è il detto Ottone in ginocchioni, che giurando obliga la sua fede.
Acanto a questa fece Ottone arrivato dinanzi al padre che lo riceve lietamente, et una prospettiva di casamenti bellissima, Barbarossa in sedia et il figliuolo ginocchioni che gli tocca la mano, accompagnato da molti gentiluomini viniziani ritratti di naturale, tanto bene che si vede che egli imitava molto bene la natura.
Averebbe il povero Vivarino con suo molto onore seguitato il rimanente della sua parte; ma essendosi, come piacque a Dio, per la fatica e per essere di mala complessione, morto, non andò più oltre.
Anzi, perché neanco questo che aveva fatto aveva la sua perfezzione, bisognò che Giovan Bellini in alcuni luoghi lo ritoccasse.
Aveva in tanto egli ancora dato principio a quattro istorie, che ordinatamente seguitano le sopra dette.
Nella prima fece il detto papa in S.
Marco, ritraendo la detta chiesa come stava apunto, il quale porge a Federigo Barbarossa a basciare il piede.
Ma quale si fusse la cagione, questa prima storia di Giovanni fu ridotta molto più vivace e senza comparazione migliore, dall'eccellentissimo Tiziano.
Ma seguitando Giovanni le sue storie, fece nell'altra il papa che dice messa in S.
Marco, e che poi in mezzo del detto imperatore e del doge concede plenaria e perpetua indulgenzia a chi visita in certi tempi la detta chiesa di S.
Marco, e particolarmente per l'Ascensione del Signore.
Vi ritrasse il didentro di detta chiesa et il detto papa in sulle scalee, che escono di coro, in pontificale e circondato da molti cardinali e gentiluomini; i quali tutti fanno questa una copiosa, ricca e bella storia.
Nell'altra, che è disotto a questa, si vede il papa in roccetto, che al doge dona un'ombrella dopo averne data un'altra all'imperatore e serbatone due per sé.
Nell'ultima che vi dipinse Giovanni, si vede papa Alessandro, l'imperatore et il doge giugnere a Roma, dove fuor della porta gli è presentato dal clero e dal popolo romano otto stendardi di varii colori et otto trombe d'argento, le quali egli dona al doge; acciò l'abbia per insegna egli et i sucessori suoi.
Qui ritrasse Giovanni Roma in prospettiva alquanto lontana, gran numero di cavalli, infiniti pedoni, molte bandiere et altri segni d'allegrezza sopra Castel Sant'Agnolo.
E perché piacquero infinitamente queste opere di Giovanni, che sono veramente bellissime, si dava a punto ordine di fargli fare tutto il restante di quella sala, quando si morì, essendo già vecchio.
Ma perché insin qui non si è d'altro che della sala ragionato, per non interrompere le storie di quella, ora tornando alquanto a dietro, diciamo che di mano del medesimo si veggiono molte opere; ciò sono una tavola, che è oggi in Pesero in S.
Domenico all'altar maggiore; nella chiesa di S.
Zacheria di Vinezia, alla cappella di S.
Girolamo, è in una tavola una Nostra Donna con molti Santi, condotta con gran diligenza, et un casamento fatto con molto giudizio; e nella medesima città, nella sagrestia de' frati minori, detta la Ca' grande, n'è un'altra di mano del medesimo fatta con bel disegno e buona maniera.
Una similmente n'è in S.
Michele di Murano, monasterio de' monaci camaldolensi; et in S.
Francesco della Vigna, dove stanno frati del Zoccolo, nella chiesa vecchia, era in un quadro un Cristo morto, tanto bello che que' signori, essendo quello molto celebrato a Lodovico Undecimo re di Francia, furono quasi forzati, domandandolo egli con istanza, se ben mal volentieri, a compiacernelo.
In luogo del quale ne fu messo un altro col nome del medesimo Giovanni, ma non così bello, né così ben condotto come il primo.
E credono alcuni che questo ultimo per lo più fusse lavorato da Girolamo Mocetto, creato di Giovanni.
Nella Confraternita parimente di S.
Girolamo è un'opera del medesimo Bellino di figure piccole, molto lodate, et in casa Messer Giorgio Cornaro è un quadro similmente bellissimo, dentrovi Cristo, Cleofas e Luca.
Nella sopra detta sala dipinse ancora, ma non già in quel tempo medesimo, una storia, quando i viniziani cavano del monasterio della Carità non so che papa, il quale, fuggitosi in Vinegia, aveva nascosamente servito per cuoco molto tempo ai monaci di quel monasterio; nella quale storia sono molte figure ritratte di naturale et altre figure bellissime.
Non molto dopo, essendo in Turchia portati da un ambasciadore alcuni ritratti al Gran Turco, recarono tanto stupore e maraviglia a quello imperatore che, se bene sono fra loro per la legge maumettana proibite le pitture, l'accettò nondimeno di bonissima voglia, lodando senza fine il magisterio e l'artefice; e, che è più, chiese che gli fusse il maestro di quello mandato, onde considerando il senato che per essere Giovanni in età che male poteva sopportare disagi, senza che non volevano privare di tant'uomo la loro città, avendo egli massimamente allora le mani nella già detta sala del gran consiglio, si risolverono di mandarvi Gentile suo fratello, considerato che farebbe il medesimo che Giovanni.
Fatto dunque mettere a ordine Gentile, sopra le loro galee lo condussono a salvamento in Gostantinopoli, dove essendo presentato dal balio della Signoria a Maumetto, fu veduto volentieri e come cosa nuova molto accarezzato; e massimamente avendo egli presentato a quel prencipe una vaghissima pittura che fu da lui ammirata, il quale quasi non poteva credere che un uomo mortale avesse in sé tanta quasi divinità che potesse esprimere sì vivamente le cose della natura.
Non vi dimorò molto Gentile che ritrasse esso imperator Maumetto di naturale tanto bene, che era tenuto un miracolo.
Il quale imperatore, dopo aver veduto molte sperienze di quell'arte, dimandò Gentile se gli dava il cuor di dipignere se medesimo; et avendo Gentile risposto che sì, non passò molti giorni che si ritrasse a una spera tanto proprio che pareva vivo; e portatolo al signore, fu tanta la maraviglia che di ciò si fece, che non poteva se non imaginarsi che egli avesse qualche divino spirito addosso.
E se non fusse stato che, come si è detto, è per legge vietato fra' turchi quell'esercizio, non averebbe quello imperator mai licenziato Gentile.
Ma, o per dubbio che non si mormorasse, o per altro, fattolo venir un giorno a sé, lo fece primieramente ringraziar delle cortesie usate et appresso lo lodò maravigliosamente per uomo eccellentissimo, poi dettogli che domandasse che grazia volesse, che gli sarebbe senza fallo conceduta, Gentile, come modesto e da bene, niente altro chiese, salvo che una lettera di favore, per la quale lo raccomandasse al serenissimo senato et illustrissima signoria di Vinezia sua patria.
Il che fu fatto quanto più caldamente si potesse, e poi con onorati doni e dignità di cavaliere, fu licenziato.
E fra l'altre cose che in quella partita gli diede quel signore, oltre a molti privilegii, gli fu posta al collo una catena lavorata alla turchesca, di peso di scudi dugentocinquanta d'oro, la quale ancora si truova appresso agli eredi suoi, in Vinezia.
Partito Gentile di Gostantinopoli, con felicissimo viaggio tornò a Vinezia, dove fu da Giovanni suo fratello e quasi da tutta quella città, con letizia ricevuto, rallegrandosi ognuno degl'onori che alla sua virtù aveva fatto Maumetto.
Andando poi a fare reverenza al doge et alla Signoria, fu veduto molto volentieri e commendato, per aver egli, secondo il disiderio loro, molto sodisfatto a quell'imperatore.
E perché vedesse quanto conto tenevano delle lettere di quel prencipe che l'aveva raccomandato, gl'ordinarono una provisione di dugento scudi l'anno, che gli fu pagata tutto il tempo di sua vita.
Fece Gentile dopo il suo ritorno poche opere; finalmente, essendo già vicino all'età d'ottant'anni, dopo aver fatte queste e molte altre opere, passò all'altra vita, e da Giovanni suo fratello gli fu dato onorato sepolcro in S.
Giovanni e Paulo, l'anno MDI.
Rimaso Giovanni vedovo di Gentile, il quale aveva sempre amato tenerissimamente, andò, ancor che fusse vecchio, lavorando qualche cosa, e passandosi tempo.
E perché si era dato a far ritratti di naturale, introdusse usanza in quella città, che chi era in qualche grado si faceva o da lui o da altri ritrarre, onde in tutte le case di Vinezia sono molti ritratti et in molte de' gentiluomini si veggiono gl'avi e' padri loro insino in quarta generazione, et in alcune più nobili molte più oltre; usanza certo che è stata sempre lodevolissima eziandio appresso gl'antichi.
E chi non sente infinito piacere e contento, oltre l'orrevolezza et ornamento che fanno, in vedere l'imagini de' suoi maggiori? E massimamente se per i governi delle republiche, per opere egregi fatte in guerra et in pace, se per lettere o per altra notabile e segnalata virtù, sono stati chiari et illustri? Et a che altro fine, come si è detto in altro luogo, ponevano gl'antichi le imagini degl'uomini grandi ne' luoghi publici, con onorate inscrizzioni, che per accendere gl'animi di coloro che venivano alla virtù et alla gloria? Giovanni dunque ritrasse a Messer Pietro Bembo prima che andasse a star con papa Leone Decimo, una sua inamorata, così vivamente che meritò esser da lui, sì come fu Simon Sanese dal primo Petrarca fiorentino, da questo secondo viniziano, celebrato nelle sue rime, come in quel sonetto:
O imagine mia celeste e pura,
dove nel principio del secondo quadernario dice:
Credo che 'l mio Bellin con la figura,
e quello che seguita; e che maggior premio possono gl'artefici nostri disiderare delle lor fatiche, che essere dalle penne de' poeti illustri celebrati? Sì com'è anco stato l'eccellentissimo Tiziano dal dottissimo Messer Giovanni della Casa, in quel sonetto che comincia:
Ben veggio, Tiziano, in forme nuove,
et in quell'altro
Son queste, Amor, le vaghe treccie bionde.
Non fu il medesimo Bellino dal famosissimo Ariosto nel principio del XXXIII canto d'Orlando Furioso, fra i migliori pittori della sua età annoverato?
Ma per tornare all'opere di Giovanni, cioè alle principali, perché troppo sarei lungo s'io volessi far menzione de' quadri e de' ritratti che sono per le case de' gentiluomini di Vinezia et in altri luoghi di quello stato, dico che fece in Arimino al signor Sigismondo Malatesti, in un quadro grande, una Pietà con due puttini che la reggono, la quale è oggi in S.
Francesco di quella città; fece anco fra gl'altri il ritratto di Bartolomeo da Liviano capitano de' viniziani.
Ebbe Giovanni molti discepoli, perché a tutti con amorevolezza insegnava, fra i quali fu già, sessanta anni sono, Iacopo da Montagna, che imitò molto la sua maniera, per quanto mostrano l'opere sue che si veggiono in Padova et in Vinezia.
Ma più di tutti l'imitò e gli fece onore Rondinello da Ravenna, del quale si servì molto Giovanni in tutte le sue opere.
Costui fece in S.
Domenico di Ravenna una tavola, e nel Duomo un'altra che è tenuta molto bella di quella maniera.
Ma quella che passò tutte l'altre opere sue, fu quella che fece nella chiesa di S.
Giovanni Battista nella medesima città, dove stanno frati carmelitani, nella quale oltre la Nostra Donna, fece nella figura d'un S.
Alberto, loro frate, una testa bellissima e tutta la figura lodata molto.
Stette con esso lui ancora, se ben non fece molto frutto, Benedetto Coda da Ferrara, che abitò in Arimini dove fece molte pitture; lasciando dopo sé Bartolomeo suo figliuolo che fece il medesimo.
Dicesi che anco Giorgione da Castel Franco attese all'arte con Giovanni ne' suoi primi principii; e così molti altri e del Trevisano e Lombardi, de' quali non accade far memoria.
Finalmente Giovanni essendo pervenuto all'età di novanta anni, passò di male di vecchiaia di questa vita, lasciando per l'opere fatte in Vinezia sua patria e fuori, eterna memoria del nome suo.
E nella medesima chiesa e nello stesso deposito fu egli onoratamente sepolto dove egli aveva Gentile suo fratello collocato.
Né mancò in Vinezia chi con sonetti et epigrammi cercasse di onorare lui morto, sì come aveva egli vivendo, sé e la sua patria onorato.
Ne' medesimi tempi che questi Bellini vissono, o poco inanzi, dipinse molte cose in Vinezia Giacomo Marzone, il quale fra l'altre fece in S.
Lena alla cappella dell'Assunzione, la Vergine con una palma, S.
Benedetto, S.
Lena e S.
Giovanni, ma colla maniera vecchia e con le figure in punta di piedi, come usavano i pittori che furo al tempo di Bartolomeo da Bergamo, etc.
VITA DI COSIMO ROSSELLI PITTOR FIORENTINO
Molte persone sbeffando e schernendo altrui, si pascono d'uno ingiusto diletto che il più delle volte torna loro in danno; quasi in quella stessa maniera che fece Cosimo Rosselli tornare in capo lo scherno a chi cercò di avvilire le sue fatiche; il qual Cosimo, se bene non fu nel suo tempo molto raro et eccellente pittore, furono nondimeno l'opere sue ragionevoli.
Costui nella sua giovanezza fece in Fiorenza nella chiesa di S.
Ambruogio una tavola, che è a man ritta entrando in chiesa, e sopra l'arco delle monache di S.
Iacopo dalle Murate, tre figure.
Lavorò anco nella chiesa de' Servi pur di Firenze, la tavola della cappella di S.
Barbara, e nel primo cortile, inanzi che s'entri in chiesa, lavorò in fresco la storia quando il beato Filippo piglia l'abito della Nostra Donna.
A' monaci di Cestello fece la tavola dell'altar maggiore et in una cappella della medesima chiesa un'altra; e similmente quella che è in una chiesetta sopra il Bernardino accanto all'entrata di Cestello.
Dipinse il segno ai fanciulli della Compagnia del detto Bernardino, e parimente quello della Compagnia di S.
Giorgio, nel quale è una Annunziata.
Alle sopra dette monache di S.
Ambruogio fece la cappella del miracolo del Sagramento, la quale opera è assai buona e delle sue che sono in Fiorenza è tenuta la migliore; nella quale fece una processione finta in sulla piazza di detta chiesa, dove il vescovo porta il tabernacolo del detto miracolo, accompagnato dal clero e da una infinità di cittadini e donne con abiti di que' tempi.
Di naturale, oltre a molti altri, vi è ritratto il Pico della Mirandola, tanto eccellentemente che pare non ritratto, ma vivo.
In Lucca fece nella chiesa di S.
Martino, entrando in quella per la porta minore della facciata principale a man ritta, quando Nicodemo fabrica la statua di S.
Croce, e poi quando in una barca è per terra condotta per mare verso Lucca.
Nella qual opera sono molti ritratti e specialmente quello di Paulo Guinigi, il quale cavò da uno di terra fatto da Iacopo della Fonte, quando fece la sepoltura della moglie.
In San Marco di Firenze alla cappella de' tessitori di drappo fece, in una tavola, nel mezzo S.
Croce, e dagli lati S.
Marco, S.
Giovanni Evangelista, S.
Antonino arcivescovo di Firenze et altre figure.
Chiamato poi con gl'altri pittori all'opera che fece Sisto Quarto pontefice, nella cappella del palazzo, in compagnia di Sandro Botticello, di Domenico Ghirlandaio, dell'abbate di S.
Clemente, di Luca da Cortona e di Piero Perugino, vi dipinse di sua mano tre storie, nelle quali fece la sommersione di faraone nel mar Rosso, la predica di Cristo ai popoli lungo il mare di Tiberiade e l'ultima cena degl'Apostoli col Salvatore, nella quale fece una tavola a otto facce tirate in prospettiva, e sopra quella, in otto facce simili, il palco che gira in otto angoli, dove molto bene scortando, mostrò d'intendere quanto gl'altri quest'arte.
Dicesi che il papa aveva ordinato un premio, il quale si aveva a dar a chi meglio in quelle pitture avesse, a giudizio d'esso pontefice, operato.
Finite dunque le storie, andò Sua Santità a vederle quando ciascuno de' pittori si era ingegnato di far sì che meritasse il detto premio e l'onore.
Aveva Cosimo, sentendosi debole d'invenzione e di disegno, cercato di occultare il suo deffetto con far coperta all'opera di finissimi azzurri oltramarini e d'altri vivaci colori, e con molto oro illuminata la storia, onde né albero, né erba, né panno, né nuvolo vi era che lumeggiato non fusse, facendosi a credere che il papa, come poco di quell'arte intendente, dovesse perciò dare a lui il premio della vittoria.
Venuto il giorno che si dovevano l'opere di tutti scoprire, fu veduta anco la sua, e con molte risa e motti di tutti gl'altri artefici schernita e beffata, uccellandolo tutti in cambio d'avergli compassione.
Ma gli scherniti finalmente furono essi, perciò che que' colori, sì come si era Cosimo imaginato, a un tratto così abbagliarono gl'occhi del papa che non molto s'intendeva di simili cose, ancora che se ne dilettasse assai, che giudicò Cosimo avere molto meglio di tutti gl'altri operato; e così fattogli dare il premio, comandò agl'altri che tutti coprissero le loro pitture dei migliori azzurri che si trovassero e le toccassino d'oro; acciò che fussero simili a quelle di Cosimo nel colorito e nell'essere ricche.
Laonde i poveri pittori disperati d'avere a sodisfare alla poca intelligenza del Padre Santo, si diedero a guastare quanto avevano fatto di buono.
Onde Cosimo si rise di coloro che poco inanzi si erano riso del fatto suo.
Dopo, tornatosene a Firenze con qualche soldo, attese vivendo assai agiatamente a lavorare al solito, avendo in sua compagnia quel Piero che fu sempre chiamato Piero di Cosimo, suo discepolo; il quale gli aiutò lavorare a Roma nella cappella di Sisto, e vi fece oltre all'altre cose un paese, dove è dipinta la predica di Cristo, che è tenuto la miglior cosa che vi sia.
Stette ancor seco Andrea di Cosimo et attese assai alle grottesche.
Essendo finalmente Cosimo vivuto anni 68, consumato da una lunga infirmità si morì l'anno 1484 e dalla Compagnia del Bernardino fu seppellito in S.
Croce.
Dilettossi costui in modo dell'alchimia, che vi spese vanamente, come fanno tutti coloro che v'attendono, ciò che egli aveva.
Intanto che vivo lo consumò et allo stremo l'aveva condotto, d'agiato che egli era, poverissimo.
Disegnò Cosimo benissimo, come si può vedere nel nostro libro, non pure nella carta dove è disegnata la storia della predicazione sopra detta che fece nella cappella di Sisto, ma ancora in molte altre fatte di stile e di chiaro scuro.
Et il suo ritratto avemo nel detto libro di mano d'Agnolo di Donnino pittore e suo amicissimo.
Il quale Agnolo fu molto diligente nelle cose sue, come, oltre ai disegni, si può vedere nella loggia dello spedale di Bonifazio dove, nel peduccio d'una volta, è una Trinità di sua mano a fresco, et accanto alla porta del detto spedale, dove oggi stanno gli abandonati, sono dipinti dal medesimo certi poveri e lo spedaliere che gli raccetta, molto ben fatti, e similmente alcune donne.
Visse costui stentando e perdendo tutto il tempo dietro ai disegni, senza mettere in opera; et in ultimo si morì essendo povero quanto più non si può essere.
Di Cosimo, per tornare a lui, non rimase altri che un figliuolo, il quale fu muratore et architetto ragionevole.
VITA DEL CECCA INGEGNERE FIORENTINO
Se la necessità non avesse sforzati gl'uomini ad essere ingegnosi per la utilità e comodo proprio, non sarebbe l'architettura divenuta sì eccellente e maravigliosa nelle menti e nelle opere di coloro che per acquistarsi et utile e fama, si sono esercitati in quella con tanto onore, quanto giornalmente si rende loro da chi conosce il buono.
Questa necessità primeramente indusse le fabbriche, questa gli ornamenti di quella, questa gli ordini, le statue, i giardini, i bagni e tutte quelle altre comodità suntuose, che ciascuno brama e pochi posseggono; questa nelle menti degl'uomini ha eccitato la gara e le concorrenzie non solamente degli edifizii, ma delle comodità di quegli; per il che sono stati forzati gl'artefici a divenire industriosi negli ordini de' tirari, nelle machine da guerra, negli edifizii da acque et in tutte quelle avvertenzie et accorgimenti, che sotto nome di ingegni e di architetture, disordinando gli adversarii et accomodando gli amici, fanno e bello comodo il mondo.
E qualunche sopra gli altri ha saputo fare queste cose, oltra lo essere uscito d'ogni sua noia, sommamente è stato lodato e pregiato da tutti gl'altri; come al tempo de' padri nostri fu il Cecca fiorentino al quale ne' dì suoi vennero in mano molte cose e molto onorate; et in quelle si portò egli tanto bene nel servigio della patria sua, operando con risparmio e sodisfazzione e grazia de' suoi cittadini, che le ingegnose et industriose fatiche sue lo hanno fatto famoso e chiaro fra gl'altri egregi e lodati artefici.
Dicesi che il Cecca fu nella sua giovinezza legnaiuolo bonissimo; e perché egli aveva applicato tutto lo intento suo a cercare di sapere le difficultà degli ingegni: come si può condurre ne' campi de' soldati machine da muraglie, scale da salire nelle città, arieti da rompere le mura, difese da riparare i soldati per combattere, et ogni cosa che nuocere potesse agli inimici, e quelle che a' suoi amici potessero giovar, essendo egli persona di grandissima utilità alla patria sua, meritò che la Signoria di Fiorenza gli desse provisione continua.
Per il che, quando non si combatteva, andava per il dominio rivedendo le fortezze e le mura delle città e castelli ch'erano debili, et a quelli dava il modo de' ripari e d'ogni altra cosa che bisognava.
Dicesi che le nuvole che andavano in Fiorenza, per la festa di S.
Giovanni a processione, cosa certo ingegnosissima e bella, furono invenzione del Cecca, il quale, allora che la città usava di fare assai feste, era molto in simili cose adoperato.
E nel vero, come che oggi si siano cotali feste e rappresentazioni quasi del tutto dismesse, erano spettacoli molto belli, e se ne faceva non pure nelle Compagnie o vero Fraternite, ma ancora nelle case private de' gentiluomini, i quali usavano di far certe brigate e compagnie, et a certi tempi trovarsi allegramente insieme; e fra essi sempre erano molti artefici galantuomini che servivano, oltre all'essere capricciosi e piacevoli, a far gl'apparati di cotali feste.
Ma fra l'altre, quattro solennissime e publiche si facevano quasi ogni anno, cioè una per ciascun quartiere, eccetto S.
Giovanni per la festa del quale si faceva una solennissima processione, come si dirà: Santa Maria Novella quella di Santo Ignazio, Santa Croce quella di S.
Bartolomeo detto S.
Baccio, S.
Spirito quella dello Spirito Santo et il Carmine quella dell'Ascensione del Signore e quella dell'Assunzione di Nostra Donna.
La quale festa dell'Ascensione, perché dell'altre d'importanza si è ragionato o si ragionerà, era bellissima; conciò fusse che Cristo era levato di sopra un monte benissimo fatto di legname, da una nuvola piena d'Angeli e portato in un cielo, lasciando gl'Apostoli in sul monte, tanto ben fatto che era una maraviglia, e massimamente essendo alquanto maggiore il detto cielo che quello di S.
Felice in Piazza, ma quasi con i medesimi ingegni.
E perché la detta chiesa del Carmine, dove questa rappresentazione si faceva, è più larga assai e più alta che quella di S.
Felice, oltre quella parte che riceveva il Cristo, si accommodava alcuna volta, secondo che pareva, un altro cielo sopra la tribuna maggiore, nel quale alcune ruote grandi fatte a guisa d'arcolai, che dal centro alla superficie movevano con bellissimo ordine dieci giri per i dieci cieli, erano tutti pieni di lumicini rapresentanti le stelle, accommodati in lucernine di rame, con una schiodatura che sempre che la ruota girava, restavano in piombo, nella maniera che certe lanterne fanno, che oggi si usano comunemente da ognuno.
Di questo cielo, che era veramente cosa bellissima, uscivano due canapi grossi tirati dal ponte o vero tramezzo che è in detta chiesa, sopra il quale si faceva la festa; ai quali erano infunate per ciascun capo d'una braca, come si dice, due piccole taglie di bronzo, che reggevano un ferro ritto nella base d'un piano, sopra il quale stavano due angeli legati nella cintola, che, ritti, venivano contrapesati da un piombo che avevano sotto i piedi et un altro che era nella basa del piano di sotto dove posavano, il quale anco gli faceva venire parimente uniti.
Et il tutto era coperto da molta e ben acconcia bambagia che faceva nuvola, piena di cherubini, serafini et altri angeli così fatti di diversi colori e molto bene accomodati.
Questi, allentandosi un canapetto di sopra nel cielo, venivano giù per i due maggiori in sul detto tramezzo dove si recitava la festa, et annunziato a Cristo il suo dover salir in cielo, o fatto altro uffizio, perché il ferro dov'erano legati in cintola era fermo nel piano dove posavan i piedi, e' si giravan intorno intorno; quando erano usciti e quando ritornavano, potevan far reverenza e voltarsi secondo che bisognava, onde nel tornar in su si voltava verso il cielo, e dopo erano per simile modo ritirati in alto.
Questi ingegni dunque e queste invenzioni, si dice che furono del Cecca; perché se bene molto prima Filippo Bruneleschi n'aveva fatto de' così fatti, vi furono nondimeno con molto giudizio molte cose aggiunte dal Cecca.
E da queste poi venne in pensiero al medesimo di fare le nuvole che andavano per la città a processione ogni anno alla vigilia di S.
Giovanni; e l'altre cose che bellissime si facevano.
E ciò era cura di costui per essere, come si è detto, persona che serviva il publico.
Ora dunque non sarà se non bene con questa occasione dire alcune cose che in detta festa e processione si facevano, acciò ne passi ai posteri memoria, essendosi oggi per la maggior parte dismesse.
Primieramente adunque la piazza di S.
Giovanni si copriva tutta di tele azzurre, piene di gigli grandi fatti di tela gialla e cucitivi sopra; e nel mezzo erano, in altuni tondi pur di tela e grandi braccia dieci, l'arme del popolo e Comune di Firenze, quella de' capitani di Parte Guelfa et altre; et intorno intorno negl'estremi del detto cielo, che tutta la piazza come grandissima sia ricopriva, pendevano drappelloni pur di tela, dipinti di varie imprese, d'armi di magistrati e d'arti, e di molti leoni, che sono una dell'insegne della città; questo cielo, o vero coperta così fatta, era alto da terra circa venti braccia, posava sopra gagliardissimi canapi attaccati a molti ferri che ancor si veggiono intorno al tempio di S.
Giovanni, nella facciata di S.
Maria del Fiore e nelle case che sono per tutto intorno alla detta piazza, e fra l'un canapo e l'altro erano funi che similmente sostenevano quel cielo, che per tutto era in modo armato, e particolarmente in sugl'estremi, di canapi, di funi e di soppanni e fortezze di tele doppie e canevacci, che non è possibile imaginarsi meglio; e, che è più, era in modo e con tanta diligenza accomodata ogni cosa che, ancora che molto fussero dal vento che in quel luogo può assai d'ogni tempo come sa ognuno gonfiate e mosse le vele, non però potevano essere sollevate né sconce in modo nessuno.
Erano queste tende di cinque pezzi, perché meglio si potessino maneggiare, ma poste su, tutte si univano isieme e legavano e cuscivano di maniera che pareva un pezzo solo.
Tre pezzi coprivano la piazza e lo spazio che è fra S.
Giovanni e S.
Maria del Fiore; e quello del mezzo aveva, a dirittura delle porte principali, detti tondi con l'arme del comune.
E gl'altri due pezzi coprivano dalle bande, uno di verso la Misericordia e l'altro di verso la canonica et Opera di S.
Giovanni.
Le nuvole poi, che di varie sorti si facevano dalle Compagnie con diverse invenzioni, si facevano generalmente a questo modo: si faceva un telaio quadro di tavole, alto braccia due in circa, che in su le teste aveva quattro gagliardi piedi fatti a uso di trespoli da tavola et incatenati a guisa di travaglio; sopra questo telaio erano in croce due tavole larghe braccia uno, che in mezzo avevano una buca di mezzo braccio, nella quale era uno stile alto sopra cui si accomodava una mandorla, dentro la quale, che era tutta coperta di bambagia, di cherubini e di lumi et altri ornamenti, era in un ferro al traverso, posta a sedere o ritta, secondo che altri voleva, una persona che rappresentava quel Santo, il quale principalmente da quella compagnia, come proprio avvocato e protettore si onorava; o vero un Cristo, una Madonna, un S.
Giovanni o altro; i panni della quale figura coprivano il ferro in modo che non si vedeva.
A questo medesimo stile erano accommodati ferri, che girando più bassi e sotto la mandorla, facevano quattro o più o meno rami, simili a quelli d'un albero, che negl'estremi con simili ferri aveva per ciascuno un piccolo fanciullo vestito da Angiolo.
E questi, secondo che volevano, giravano in sul ferro dove posavano i piedi, che era gangherato.
E di così fatti rami si facevano talvolta due o tre ordini d'Angeli o di Santi; secondo che quello era che si aveva a rappresentare.
E tutta questa machina e lo stile et i ferri che tallora faceva un giglio, tallora un albero e spesso una nuvola o altra cosa simile, si copriva di bambagia e, come si è detto, di cherubini, serafini, stelle d'oro et altri cotali ornamenti.
E dentro erano facchini o villani, che la portavano sopra le spalle, i quali si mettevano intorno intorno a quella tavola, che noi abbiam chiamato telaio, nella quale erano confitti, sotto dove il peso posava sopra le spalle loro, guanciali di cuoio, pieni o di piuma o di bambagia o d'altra cosa simile, che acconsentisse e fusse morbida.
E tutti gl'ingegni e le salite et altre cose erano coperte come si è detto di sopra con bambagia, che faceva bel vedere, e si chiamavano tutte queste machine, nuvole; dietro venivano loro cavalcate d'uomini e di sergenti a piedi in varie sorti, secondo la storia che si rappresentava, nella maniera che oggi vanno dietro a' carri o altro che si faccia, in cambio delle dette nuvole; della maniera delle quali ne ho, nel nostro libro de' disegni, alcune di mano del Cecca molto ben fatte et ingegnose veramente e piene di belle considerazioni.
Con l'invenzione del medesimo si facevano alcuni Santi, che andavano o erano portati a processione, o morti o in varii modi tormentati: alcuni parevano passati da una lancia o da una spada; altri aveva un pugnale nella gola et altri altre cose simili per la persona.
Del qual modo di fare, perché oggi è notissimo, che si fa con spada, lancia o pugnale rotto, che con un cerchietto di ferro sia da ciascuna parte tenuto stretto e di riscontro, levatone a misura quella parte che ha da parere fitta nella persona del ferito, non ne dirò altro.
Basta che per lo più si truova che furono invenzione del Cecca.
I giganti similmente, che in detta festa andavano attorno, si facevano a questo modo: alcuni molto pratichi nell'andar in sui trampoli, o come si dice altrove in sulle zanche, ne facevano fare di quelli che erano alti cinque e sei braccia da terra, e fasciategli et acconcigli in modo, con maschere grandi et altri abbigliamenti di panni o d'arme finte che avevano membra e capo di gigante vi montavano sopra, e destramente caminando, parevano veramente giganti; avendo nondimeno inanzi uno che sosteneva una picca, sopra la quale con una mano si appoggiava esso gigante; ma per sì fatta guisa però che pareva che quella picca fusse una sua arme, cioè o mazza o lancia o un gran battaglio, come quello che Morgante usava, secondo i poeti romanzi, di portare.
E sì come i giganti, così si facevano anche delle gigantesse, che certamente facevano un bello e maraviglioso vedere.
I spiritelli poi da questi erano differenti, perché senza avere altra che la propria forma, andavano in sui detti trampoli alti cinque e sei braccia, in modo che parevano proprio spiriti.
E questi anco avevano inanzi uno che con una picca gl'aiutava.
Si racconta nondimeno che alcuni eziandio senza punto appoggiarsi a cosa veruna, in tanta altezza caminavano benissimo; e chi ha pratica de' cervelli fiorentini, so che di questo non si farà alcuna maraviglia; perché, lasciamo stare quello da Montughi di Firenze, che ha trapassati nel salir e giocolare sul canapo quanti insino a ora ne sono stati; chi ha conosciuto uno che si chiamava Ruvidino, il quale morì non sono anco dieci anni, sa che il salire ogni altezza sopra un canapo o fune, il saltar dalle mura di Firenze in terra et andare in su' trampoli molto più alti che quelli detti di sopra, gli era così agevole come a ciascuno caminare per lo piano.
Laonde non è maraviglia se gl'uomini di que' tempi, che in cotali cose o per prezo o per altro si esercitavano, facevano quelle che si sono dette di sopra, o maggiori cose.
Non parlerò d'alcuni ceri che si dipignevano in varie fantasie, ma goffi tanto che hanno dato il nome ai dipintori plebei, onde si dice alle cattive pitture "fantocci da ceri", perché non mette conto; dirò bene che al tempo del Cecca questi furono in gran parte dismessi et in vece loro fatti i carri che simili ai triomfali sono oggi in uso.
Il primo de' quali fu il carro della moneta, il quale fu condotto a quella perfezzione che oggi si vede, quando ogni anno per detta festa è mandato fuori dai maestri e signori di Zecca, con un S.
Giovanni in cima e molti altri Santi et Angeli da basso et intorno, rappresentati da persone vive.
Fu deliberato non è molto che se ne facesse, per ciascun castello che offerisce cero, uno, e ne furono fatti insino in dieci per onorare detta festa magnificamente, ma non si seguitò per gl'accidenti che poco poi sopravennero.
Quel primo dunque della Zecca fu, per ordine del Cecca, fatto da Domenico, Marco e Giuliano del Tasso, che allora erano de' primi maestri di legname che in Fiorenza lavorassero di quadro e d'intaglio; et in esso sono da esser lodate assai, oltre all'altre cose, le ruote da basso, che si schiodano per potere alle svolte de' canti girare quello edifizio et accommodarlo di maniera che scrolli meno che sia possibile, e massimamente per rispetto di coloro che di sopra vi stanno legati.
Fece il medesimo un edifizio per nettare e racconciare il musaico della tribuna di S.
Giovanni, che si girava, alzava, abbassava et accostava, secondo che altri voleva, e con tanta agevolezza che due persone lo potevano maneggiare; la qual cosa diede al Cecca reputazione grandissima.
Costui quando i Fiorentini avevano l'essercito intorno a Piancaldoli, con l'ingegno suo fece sì che i soldati vi entrarono dentro per via di mine, senza colpo di spada.
Dopo seguitando più oltre il medesimo esercito a certe altre castella, come volle la mala sorte, volendo egli misurare alcune altezze in un luogo difficile, fu occiso; perciò che avendo messo il capo fuor del muro per mandar un filo abbasso, un prete, che era fra gl'avversarii, i quali più temevano l'ingegno del Cecca che le forze di tutto il campo, scaricatoli una balestra a panca, gli conficcò di sorte un verettone nella testa che il poverello di subito se ne morì.
Dolse molto a tutto l'essercito et ai suoi cittadini il danno e la perdita del Cecca.
Ma non vi essendo rimedio alcuno, ne lo rimandarono in cassa a Fiorenza, dove dalle sorelle gli fu data onorata sepoltura in S.
Piero Scheraggio, e sotto il suo ritratto di marmo fu posto lo infrascritto epitaffio:
Fabrum Magister Cicca, natus oppidis vel obsidendis vel
tuendis hic iacet.
Vixit annos XXXXI.
Menses IV.
Dies XIIII.
Obiit pro patria telo ictus.
Piae sorores
monumentum fecerunt MCCCCLXXXXVIIII.
VITA DI DON BARTOLOMEO ABBATE DI S.
CLEMENTE MINIATORE E PITTORE
Rade volte suole avvenire che chi è d'animo buono e di vita esemplare, non sia dal cielo proveduto d'amici ottimi e di abitazioni onorate, e che per i buoni costumi suoi non sia vivendo in venerazione, e morto in grandissimo disiderio di chiunche l'ha conosciuto; come fa Don Bartolomeo della Gatta, abbate di S.
Clemente d'Arezzo, il quale fu in diverse cose eccellente, e costumatissimo in tutte le sue azzioni.
Costui, il quale fu monaco degl'Agnoli di Firenze, dell'Ordine di Camaldoli, fu nella sua giovanezza, forse per le cagioni che di sopra si dissono nella vita di Don Lorenzo, miniatore singularissimo e molto pratico nelle cose del disegno, come di ciò possono far fede le miniature lavorate da lui per i monaci di S.
Fiore e Lucilla nella Badia d'Arezzo, et in particolare un messale che fu donato a papa Sisto, nel quale era nella prima carta delle segrete una Passione di Cristo bellissima.
E quelle parimente sono di sua mano, che sono in S.
Martino, Duomo di Lucca.
Poco dopo le quali opere fu questo padre da Mariotto Maldoli aretino, Generale di Camaldoli, e della stessa famiglia che fu quel Maldolo il quale donò a S.
Romualdo institutore di quell'ordine il luogo e sito di Camaldoli, che si chiamava allora Campo di Maldolo.
La detta Badia di S.
Clemente d'Arezzo, ed egli come grato del benefizio lavorò poi molte cose per lo detto Generale e per la sua Religione.
Venendo poi la peste del 1468, per la quale senza molto praticare si stava l'abbate, sì come facevano anco molti altri, in casa si diede a dipignere figure grandi, e vedendo che la cosa secondo il disiderio suo gli riusciva, cominciò a lavorare alcune cose, e la prima fu un S.
Rocco, che fece in tavola ai rettori della Fraternita d'Arezzo, che è oggi nell'udienza dove si ragunano; la quale figura raccomanda alla Nostra Donna il popolo aretino; et in questo quadro ritrasse la piazza di detta città e la casa pia di quella Fraternita con alcuni becchini che tornano da sotterrare morti.
Fece anco un altro S.
Rocco, similmente in tavola, nella chiesa di S.
Piero, dove ritrasse la città d'Arezzo nella forma propria che aveva in quel tempo, molto diversa da quella che è oggi; et un altro il quale fu molto migliore che li due sopra detti, in una tavola ch'è nella chiesa della Pieve d'Arezzo alla cappella de' Lippi; il quale S.
Rocco è una bella e rara figura, e quasi la meglio che mai facesse, e la testa e le mani non possono essere più belle né più naturali.
Nella medesima città d'Arezzo fece in una tavola in San Piero, dove stanno frati de' Servi, un agnolo Raffaello, e nel medesimo luogo fece il ritratto del beato Iacopo Filippo da Piacenza.
Dopo, condotto a Roma, lavorò una storia nella cappella di papa Sisto, in compagnia di Luca da Cortona e di Pietro Perugino.
E tornato in Arezzo fece nella cappella de' Gozzari in Vescovado un San Girolamo in penitenza, il quale essendo magro e raso e con gl'occhi fermi attentissimamente nel crucifisso e percotendosi il petto, fa benissimo conoscere quanto l'ardor d'amore in quelle consumatissime carni possa travagliare la virginità.
E per quell'opera fece un sasso grandissimo con alcune altre grotte di sassi, fra le rotture delle quali fece di figure piccole, molto graziose, alcune storie di quel Santo.
Dopo in Santo Agostino lavorò per le monache, come si dice, del Terzo Ordine, in una capella a fresco una coronazione di Nostra Donna molto lodata e molto ben fatta; e sotto a questa, in un'altra cappella, una Assunta con alcuni Angeli in una gran tavola molto bene abbigliati di panni sottili; e questa tavola, per cosa lavorata a tempera, è molto lodata et invero fu fatta con buon disegno e condotta con diligenza straordinaria.
Dipinse il medesimo a fresco, nel mezzo tondo che è sopra la porta della chiesa di San Donato nella fortezza d'Arezzo, la Nostra Donna col Figlio in collo, San Donato e San Giovanni Gualberto, che tutte sono molto belle figure.
Nella badia di Santa Fiore, in detta città, è di sua mano una cappella all'entrar della chiesa per la porta principale, dentro la quale è un San Benedetto et altri Santi fatti con molta grazia e con buona pratica e dolcezza.
Dipinse similmente a Gentile Urbinate, vescovo aretino molto suo amico e col quale viveva quasi sempre, nel palazzo del Vescovado in una cappella, un Cristo morto, et in una loggia ritrasse esso vescovo, il suo vicario e ser Matteo Francini suo notaio di banco che gli legge una bolla; vi ritrasse parimente se stesso et alcuni canonici di quella città.
Disegnò per lo medesimo vescovo una loggia che esce di palazzo e va in Vescovado, a piano con la chiesa e palazzo; et a mezzo di questa aveva disegnato quel vescovo fare, a guisa di cappella, la sua sepoltura, et in quella esser dopo la morte sotterrato, e così la condusse a buon termine, ma sopravenuto dalla morte, rimase imperfetta, perché se bene lasciò che dal successor suo fusse finita, non se ne fece altro, come il più delle volte avviene dell'opere che altri lascia che siano fatte in simili cose dopo la morte.
Per lo detto vescovo fece l'abbate nel Duomo vecchio una bella e gran cappella, ma perché ebbe poca vita, non accade altro ragionarne.
Lavorò oltre questo per tutta la città in diversi luoghi, come nel Carmine tre figure, e la cappella delle monache di S.
Orsina; et a Castiglione aretino nella Pieve di S.
Giuliano una tavola a tempera alla cappella dell'altar maggiore, dove è una Nostra Donna bellissima e San Giuliano e San Michelagnolo, figure molto ben lavorate e condotte, e massimamente il San Giuliano; perché avendo affisati gl'occhi al Cristo che è in collo alla Nostra Donna, pare che molto s'affligga d'aver ucciso il padre e la madre.
Similmente in una cappella poco di sotto, è di sua mano un portello che soleva stare a un organo vecchio, nel quale è dipinto un San Michele, tenuto cosa meravigliosa et in braccio d'una donna un putto fasciato che par vivo.
Fece in Arezzo alle monache delle Murate la cappella dell'altar maggiore, pittura certo molto lodata; et al monte San Savino un tabernacolo, dirimpetto al palazzo del cardinale di Monte, che fu tenuto bellissimo.
Et al Borgo Sansepolcro, dove è oggi il Vescovado, fece una cappella che gli arrecò lode et utile grandissimo.
Fu don Bartolomeo persona che ebbe l'ingegno atto a tutte le cose, et oltre all'essere gran musico fece organi di piombo di sua mano; et in San Domenico ne fece uno di cartone, che si è sempre mantenuto dolce e buono; et in San Clemente n'era un altro pur di sua mano, il quale era in alto et aveva la tastatura da basso al pian del coro, e certo con bella considerazione, perché avendo, secondo la qualità del luogo, pochi monaci, voleva che l'organista cantasse e sonasse, e perché questo abbate amava la sua Religione come vero ministro e non dissipatore delle cose di Dio, bonificò molto quel luogo di muraglie e di pitture, e particolarmente rifece la capella maggiore della sua chiesa e quella tutta dipinse.
Et in due nicchie che la mettevano in mezzo dipinse in una un S.
Rocco e nell'altra un S.
Bartolomeo, le quali insieme con la chiesa sono rovinate.
Ma tornando all'abbate, il quale fu buono e costumato religioso, egli lasciò suo discepolo nella pittura maestro Lappoli aretino, che fu valente e pratico dipintore, come ne dimostrano l'opere che sono di sua mano in S.
Agostino, nella cappella di San Bastiano, dove in una nicchia è esso Santo, fatto di rilievo dal medesimo; et intorno gli sono di pittura San Biagio, San Rocco, Sant'Antonio da Padova, San Bernardino, e nell'arco della cappella è una Nunziata, e nella volta i quattro Evangelisti lavorati a fresco pulitamente.
Di mano di costui è in un'altra cappella a fresco, a man manca entrando per la porta del fianco in detta chiesa, la Natività e la Nostra Donna annunziata dall'Angelo, nella figura del quale Angelo ritrasse Giulian Bacci, allora giovane, di bellissima aria.
E sopra la detta porta di fuori, fece una Nunziata in mezzo a S.
Piero e S.
Paulo, ritraendo nel volto della Madonna la madre di Messer Pietro Aretino, famosissimo poeta.
In S.
Francesco, alla cappella di S.
Bernardino, fece in una tavola esso Santo che par vivo, e tanto è bello che egli è la miglior figura che costui facesse mai.
In Vescovado fece nella cappella de' Pietramaleschi, in un quadro a tempera, un santo Ignazio bellissimo; et in Pieve, all'entrata della porta di sopra che risponde in piazza, un Santo Andrea et un S.
Bastiano.
E nella Compagnia della Trinità con bella invenzione fece per Buoninsegna Buoninsegni aretino un'opera che si può fra le migliori che mai facesse annoverare, e ciò fu un Crucifisso sopra un altare in mezzo di uno S.
Martino e S.
Rocco, et a' piè ginocchioni due figure: una figurata per un povero, secco e macilente e malissimo vestito, dal quale uscivano certi razzi che dirittamente andavano alle piaghe del Salvatore, mentre esso Santo lo guardava attentissimamente; e l'altra per un ricco vestito di porpora e bisso e tutto rubicondo e lieto nel volto, i cui raggi nell'adorar Cristo parea, se bene gli uscivano del cuore come al povero, che non andasseno dirittamente alle piaghe del crucifisso, ma vagando et allargandosi per alcuni paesi e campagne piene di grani, biade, bestiami, giardini et altre cose simili, e che altri si distendessino in mare verso alcune barche cariche di mercanzie, et altri finalmente verso certi banchi dove si cambiavano danari.
Le quali tutte cose furono da Matteo fatte con giudizio, buona pratica e molta diligenza; ma furono, per fare una cappella, non molto dopo mandate per terra.
In Pieve sotto il pergamo fece il medesimo un Cristo con la croce, per messer Lionardo Albergotti.
Fu discepolo similmente dell'abbate di S.
Clemente un frate de' Servi aretino, che dipinse di colori la facciata della casa de' Belichini d'Arezzo et in S.
Piero due cappelle a fresco, l'una allato all'altra.
Fu anche discepolo di don Bartolomeo, Domenico Pecori aretino, il quale fece a Sargiano in una tavola a tempera tre figure, et a olio, per la Compagnia di S.
Maria Madalena, un gonfalone da portare a processione, molto bello.
E per Messer Presentino Bisdomini in Pieve, alla cappella di S.
Andrea, un quadro d'una S.
Apollonia simile al di sopra, e finì molte cose lasciate imperfette dal suo maestro, come in S.
Piero la tavola di S.
Bastiano e Fabiano con la Madonna per la famiglia de' Benucci; e dipinse nella chiesa di S.
Antonio la tavola de l'altar maggiore, dove è una Nostra Donna molto devota con certi Santi; e perché detta Nostra Donna adora il Figliuolo che tiene in grembo, ha finto che uno Angioletto inginocchiato dirieto, sostiene Nostro Signore con un guanciale, non lo potendo reggiere la Madonna, che sta in atto d'orazione a man giunte.
Nella chiesa di S.
Giustino dipinse a Messer Antonio Rotelli una cappella de' Magi, in fresco.
Et alla Compagnia della Madonna in Pieve una tavola grandissima, dove fece una Nostra Donna in aria, col popolo aretino sotto, dove ritrasse molti di naturale; nella quale opera gli aiutò un pittore spagnuolo che coloriva bene a olio et aiutava in questo a Domenico, che nel colorire a olio non aveva tanta pratica, quanto nella tempera, e con l'aiuto del medesimo condusse una tavola per la Compagnia della Trinità, dentrovi la Circuncisione di Nostro Signore, tenuta cosa molto buona, e nell'orto di S.
Fiore in fresco, un Noli me tangere.
Ultimamente dipinse nel Vescovado per Messer Donato Marinelli Primicerio, una tavola con molte figure con buon'invenzione e buon disegno e gran rilievo, che gli fece allora e sempre onore grandissimo, nella quale opera essendo assai vecchio chiamò in aiuto il Capanna, pittor sanese ragionevol maestro, che a Siena fece tante facciate di chiaro scuro e tante tavole, e se fusse ito per vita, si faceva molto onore nell'arte, secondo che da quel poco che aveva fatto si può giudicare.
Avea Domenico fatto alla Fraternità d'Arezzo uno baldacchino dipinto a olio, cosa ricca e di grande spesa, il quale non ha molti anni che prestato per fare in S.
Francesco una rappresentazione di S.
Giovanni e Paulo, per adornarne un paradiso vicino al tetto della chiesa, essendosi dalla gran copia de' lumi acceso il fuoco, arse insieme con quel che rapresentava Dio Padre, che per esser legato non potette fuggire come feciono gli Angioli, e con molti paramenti e con gran danno degli spettatori, i quali spaventati dall'incendio, volendo con furia uscire di chiesa mentre ognuno vuole essere il primo, nella calca ne scoppiò intorno a LXXX, che fu cosa molto compassionevole.
E questo baldacchino fu poi rifatto con maggior ricchezza e dipinto da Giorgio Vasari.
Diedesi poi Domenico a fare finestre di vetro, e di sua mano n'erano tre in Vescovado, che per le guerre furon rovinate dall'artiglieria.
Fu anche creato dal medesimo, Angelo di Lorentino pittore, il quale ebbe assai buono ingegno; lavorò l'arco sopra la porta di S.
Domenico; se fusse stato aiutato sarebbe fattosi bonissimo maestro.
Morì l'abbate d'anni LXXXIII e lasciò imperfetto il tempio della Nostra Donna delle Lacrime, del quale aveva fatto il modello, et il quale è poi da diversi stato finito.
Merita dunque costui di essere lodato, per miniatore, architetto, pittore e musico.
Gli fu data dai suoi monaci sepoltura in S.
Clemente, sua badia, e tanto sono state stimate sempre l'opere sue in detta città, e sopra il sepolcro suo si leggono questi versi:
Pignebat docte Zeusis; condebat et aedes
Nicon; Pan capripes, fistula prima tua est.
Non tamen ex vobis mecum certaverit ullus:
quae tres fecistis unicus haec facio.
Morì nel 1461 avendo aggiunto all'arte della pittura nel miniare quella bellezza che si vede in tutte le sue cose, come possono far fede alcune carte di sua mano che sono nel nostro libro; il cui modo di far ha imitato poi Girolamo Padoano, nei minii che sono in alcuni libri di S.
Maria Nuova di Firenze, Gherardo, miniatore fiorentino, e Attavante che fu anco chiamato Vante, del quale si è in altro luogo ragionato, e dell'opere sue che sono in Venezia particolarmente, avendo puntualmente posta una nota mandataci da certi gentiluomini di Venezia; per sodisfazione de' quali, poi che avevano durata tanta fatica in ritrovar quel tutto che quivi si legge, ci contentammo che fusse tutto narrato secondo che aveano scritto, poiché di vista non ne potevo dar giudizio proprio.
VITA DI GHERARDO MINIATORE FIORENTINO
Veramente che di tutte le cose perpetue che si fanno con colori nessuna più resta alle percosse de' venti e dell'acque, che il musaico; e ben lo conobbe in Fiorenza ne' tempi suoi Lorenzo Vecchio de' Medici, il quale come persona di spirito e speculatore delle memorie antiche, cercò di rimettere in uso quello che molti anni era stato nascoso; e perché grandemente si dilettava delle pitture e delle sculture, non potette anco non dilettarsi del musaico.
Laonde, veggendo che Gherardo allora miniatore e cervello soffistico cercava le difficultà di tal magistero, come persona che sempre aiutò quelle persone in chi vedeva qualche seme e principio di spirito e d'ingegno, lo favorì grandemente; onde, messolo in compagnia di Domenico del Ghirlandaio, gli fece fare dagl'Operai di S.
Maria del Fiore, allogazione delle cappelle delle crociere, e per la prima di quella del Sagramento, dove è il corpo di S.
Zanobi.
Per lo ché Gherardo assottigliando l'ingegno arebbe fatto con Domenico mirabilissime cose se la morte non vi si fusse interposta, come si può giudicare dal principio della detta cappella che rimase imperfetta.
Fu Gherardo oltre al musaico gentilissimo miniatore e fece anco figure grandi in muro: e fuor della porta alla Croce è in fresco un tabernacolo di sua mano, et un altro n'è in Fiorenza a sommo della via Larga molto lodato, e nella facciata della chiesa di S.
Gilio a S.
Maria Nuova dipinse sotto le storie di Lorenzo di Bicci, dove è la consegrazione di quella chiesa fatta da papa Martino Quinto, quando il medesimo Papa dà l'abito allo spedalingo e molti privilegii; nella quale storia erano molto meno figure di quello che pareva ch'ella richiedesse, per essere tramezzate da un tabernacolo dentro al quale era una Nostra Donna che ultimamente è stata levata da don Isidoro Montaguto, moderno spedalingo di quel luogo, per rifarvi una porta principale della casa, e statovi fatto ridipignere da Francesco Brini, pittore fiorentino giovane, il restante di quella storia.
Ma per tornare a Gherardo, non sarebbe quasi stato possibile che un maestro ben pratico avesse fatto, se non con molta fatica e diligenza, quello che egli fece in quell'opera, benissimo lavorata in fresco.
Nel medesimo spedale miniò Gherardo, per la chiesa, una infinità di libri, et alcuni per S.
Maria del Fiore di Fiorenza; et alcuni altri per Matia Corvino, re di Ungheria; i quali, sopravvenuta la morte del detto re, insieme con altri di mano di Vante e di altri maestri che per il detto re lavoravono in Fiorenza, furono pagati e presi dal Magnifico Lorenzo de' Medici e posti nel numero di quelli tanto nominati che preparavano per far la libraria, e poi da papa Clemente VII fu fabricata et ora dal duca Cosimo si dà ordine di publicare.
Ma di maestro di minio divenuto, come si è detto, pittore, oltre l'opere dette, fece in un gran cartone alcune figure grande per i Vangelisti, che di musaico aveva a fare nella cappella di S.
Zanobi.
E prima che gli fusse fatta fare dal Magnifico Lorenzo de' Medici l'allogazione di detta cappella, per mostrare che intendeva la cosa del musaico e che sapeva fare senza compagno, fece una testa grande di S.
Zanobi, quanto il vivo, la quale rimase in S.
Maria del Fiore, e si mette ne' giorni più solenni in sull'altare di detto Santo o in altro luogo, come cosa rara.
Mentre che Gherardo andava queste cose lavorando, furono recate in Fiorenza alcune stampe di maniera tedesca fatte da Martino e da Alberto Duro; per che, piacendogli molto quella sorte d'intaglio, si mise col bulino a intagliare, e ritrasse alcune di quelle carte benissimo, come si può veder in certi pezzi che ne sono nel nostro libro insieme con alcuni disegni di mano del medesimo.
Dipinse Gherardo molti quadri che furono mandati di fuori, de' quali uno n'è in Bologna nella chiesa di S.
Domenico, alla cappella di S.
Caterina da Siena dentrovi essa Santa benissimo dipinta.
Et in S.
Marco di Firenze fece sopra la tavola del perdono un mezzo tondo pieno di figure molto graziose.
Ma quanto sodisfaceva costui agl'altri, tanto meno sodisfaceva a sé in tutte le cose, eccetto nel musaico; nella qual sorte di pittura fu più tosto concorrente che compagno a Domenico Ghirlandaio.
E se fusse più lungamente vivuto sarebbe in quello divenuto eccellentissimo, perché vi durava fatica volentieri et aveva trovato in gran parte i segreti buoni di quell'arte.
Vogliono alcuni che Attavante, altrimenti Vante, miniator fiorentino, del quale si è ragionato di sopra in più d'un luogo, fusse, sì come fu Stefano, similmente miniatore fiorentino, discepolo di Gherardo, ma io tengo per fermo, rispetto all'essere stato l'uno e l'altro in un medesimo tempo, che Attavante fusse più tosto amico, compagno e coetaneo di Gherardo, che discepolo.
Morì Gherardo essendo assai ben oltre con gl'anni, lassando a Stefano suo discepolo tutte le cose sue dell'arte; il quale Stefano non molto tempo dopo datosi all'architettura, lasciò il miniare e tutte le cose sue appartenenti a quel mestiero al Boccardino vecchio, il quale miniò la maggior parte de' libri che sono nella Badia di Firenze.
Morì Gherardo d'anni 63, e furono l'opere sue intorno a gl'anni di nostra salute 1470.
VITA DI DOMENICO GHIRLANDAIO PITTORE FIORENTINO
Domenico di Tommaso del Ghirlandaio, il quale per la virtù e per la grandezza e per la moltitudine dell'opere si può dire uno de' principali e più eccellenti maestri dell'età sua, fu dalla natura fatto per esser pittore; e per questo non obstante la disposizione in contrario di chi l'avea in custodia (che molte volte impedisce i grandissimi frutti degli ingegni nostri occupandoli in cose dove non sono atti, deviandoli da quelle in che sono naturati), sequendo l'instinto naturale fece a sé grandissimo onore et utile all'arte et a' suoi, e fu diletto grande della età sua.
Questi posto dal padre all'arte sua dell'orafo, nella quale egli era più che ragionevole maestro, e di sua mano erono la maggior parte de' voti di argento, che già si conservavano nell'armario della Nunziata, e le lampade d'argento della cappella, tutte disfatte nell'assedio della città l'anno 1529.
Fu Tommaso il primo che trovassi e mettessi in opera quell'ornamento del capo delle fanciulle fiorentine, che si chiamano ghirlande, donde ne acquistò il nome del Ghirlandaio, non solo per esserne lui il primo inventore, ma per averne anco fatto un numero infinito e di rara bellezza, tal che non parea piacessin se non quelle che della sua bottega fussero uscite.
Posto, dunque, all'arte dell'orefice, non piacendoli quella, non restò di continuo di disegnare.
Per che, essendo egli dotato dalla natura d'uno spirito perfetto e d'un gusto mirabile e giudicioso nella pittura, quantunque orafo nella sua fanciullezza fosse, sempre al disegno attendendo, venne sì pronto e presto e facile, che molti dicono che mentre che all'orefice dimorava, ritraendo ogni persona che da bottega passava, li faceva subito somigliare: come ne fanno fede ancora nell'opere sue infiniti ritratti, che sono di similitudini vivissime.
Furono le sue prime pitture in Ogni Santi la cappella de' Vespucci, dov'è un Cristo morto et alcuni Santi, e sopra uno arco una Misericordia, nella quale è il ritratto di Amerigo Vespucci che fece le navigazioni dell'Indie: e nel refettorio di detto luogo fece un cenacolo a fresco.
Dipinse in S.
Croce all'entrata della chiesa a man destra, la storia di S.
Paulino; onde, acquistando fama grandissima et in credito venuto, a Francesco Sassetti lavorò in S.
Trinita una cappella con istorie di S.
Francesco, la quale opera è mirabilmente condotta, e da lui con grazia, con pulitezza e con amor lavorata; in questa contrafece egli e ritrasse il ponte a S.
Trinita, col palazzo degli Spini, fingendo nella prima faccia la storia di S.
Francesco quando apparisce in aria e resuscita quel fanciullo; dove si vede in quelle donne che lo veggono resuscitare, il dolore della morte nel portarlo alla sepoltura e la allegrezza e la maraviglia nella sua resurressione; contrafecevi i frati che escon di chiesa co' bechini dietro alla croce per sotterrallo, fatti molto naturalmente, e così altre figure che si maravigliano di quello effetto, che non dànno altrui poco piacere: dove sono ritratti Maso degli Albizzi, Messer Agnolo Acciaiuoli, Messer Palla Strozzi, notabili cittadini e nelle istorie di quella città assai nominati.
In un'altra fece quando S.
Francesco, presente il vicario, rifiuta la eredità a Pietro Bernardone suo padre, e piglia l'abito di sacco cignendosi con la corda.
E nella faccia del mezzo quando egli va a Roma a papa Onorio e fa confermar la Regola sua, presentando di gennaio le rose a quel pontefice; nella quale storia finse la sala del Concistoro co' cardinali che sedevano intorno, e certe scalee che salivano in quella; accennando certe mezze figure ritratte di naturale et accomodandovi ordini d'appoggiatoi per la salita.
E fra quegli ritrasse il Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici.
Dipinsevi medesimamente quando San Francesco riceve le stimite; e nella ultima fece quando egli è morto e che i frati lo piangono; dove si vede un frate che gli bacia le mani; il quale effetto non si può esprimer meglio nella pittura, senza che e' v'è un vescovo parato con gli occhiali al naso che gli canta la vigilia, che il non sentirlo solamente lo dimostra dipinto.
Ritrasse in due quadri che mettono in mezzo la tavola, Francesco Sassetti ginocchioni, in uno, e ne l'altro Madonna Nera sua donna et i suoi figliuoli, ma questi nell'istoria di sopra, dove si risuscita il fanciullo, con certe belle giovani della medesima famiglia che non ho potuto ritrovar i nomi, tutte con gl'abiti e portature di quella età, cosa che non è di poco piacere.
Oltra ch'e' fece nella volta quattro Sibille, e fuori della cappella un ornamento sopra l'arco nella faccia dinanzi, con una storia dentrovi, quando la Sibilla tiburtina fece adorar Cristo a Ottaviano imperatore, che per opera in fresco è molto praticamente condotta e con una allegrezza di colori molto vaghi.
Et insieme accompagnò questo lavoro con una tavola pur di sua mano, lavorata a tempera; quale ha dentro una natività di Cristo da far maravigliare ogni persona intelligente, dove ritrasse se medesimo e fece alcune teste di pastori che sono tenute cosa divina.
Della quale Sibilla e d'altre cose di quell'opera, sono nel nostro libro disegni bellissimi fatti di chiaro scuro, e particolarmente la prospettiva del ponte a S.
Trinita.
Dipinse a' frati Ingesuati una tavola per l'altar maggiore con alcuni Santi ginocchioni, cioè S.
Giusto vescovo di Volterra, che era titolo di quella chiesa, S.
Zanobi vescovo di Firenze, un angelo Raffaello et un San Michele armato di bellissime armadure et altri Santi.
E nel vero merita in questo lode Domenico, perché fu il primo che cominciasse a contrafar con i colori alcune guernizioni et ornamenti d'oro, che insino allora non si erano usate; e levò via in gran parte quelle fregiature che si facevano d'oro a mordente o a bolo, le quali erano più da drappelloni che da maestri buoni.
Ma più che l'altre figure è bella la Nostra Donna che ha il Figliuolo in collo e quattro Angioletti a torno; questa tavola, che per cosa a tempera non potrebbe meglio esser lavorata, fu posta allora fuor della porta a Pinti nella chiesa di que' frati; ma perché ella fu poi, come si dirà altrove, rovinata, ell'è oggi nella chiesa di S.
Giovannino dentro alla porta a S.
Pier Gattolini, dove è il convento di detti Ingiesuati.
E nella chiesa di Cestello fece una tavola finita da David e Benedetto suoi fratelli, dentrovi la visitazione di Nostra Donna, con alcune teste di femmine vaghissime e bellissime.
Nella chiesa degl'Innocenti fece a tempera una tavola de' Magi, molto lodata, nella quale sono teste bellissime d'aria e di fisonomia varie, così di giovani come di vecchi; e particularmente nella testa della Nostra Donna si conosce quella onesta bellezza e grazia, che nella madre del Figliuol di Dio può esser fatta dall'arte.
Et in S.
Marco al tramezzo della chiesa, un'altra tavola, e nella forestieria un cenacolo con diligenza l'uno e l'altro condotto: et in casa di Giovanni Tornabuoni un tondo con la storia de' Magi, fatto con diligenza.
Allo spedaletto per Lorenzo Vecchio de' Medici, la storia di Vulcano, dove lavorano molti ignudi fabricando con le martella saette a Giove.
Et in Fiorenza nella chiesa d'Ogni Santi, a concorrenza di Sandro di Botticello, dipinse a fresco un San Girolamo che oggi è allato alla porta che va in coro, intorno al quale fece una infinità di instrumenti di libri da persone studiose.
Questa pittura insieme con quella di Sandro di Botticello, essendo occorso a' frati levare il coro del luogo dove era, è stata allacciata con ferri e trapportata nel mezzo della chiesa senza lesione, in questi proprii giorni che queste vite la seconda volta si stampano.
Dipinse ancora l'arco sopra la porta di S.
Maria Ughi et un tabernacolino all'Arte de' Linaiuoli, similmente un S.
Giorgio molto bello, che ammazza il serpente, nella medesima chiesa d'Ogni Santi.
E per il vero egli intese molto bene il modo del dipignere in muro e facilissimamente lo lavorò; essendo nientedimanco nel comporre le sue cose molto leccato.
Essendo poi chiamato a Roma da papa Sisto IIII a dipignere con altri maestri la sua cappella, vi dipinse quando Cristo chiama a sé dalle reti Pietro et Andrea, e la Resurressione di esso Gesù Cristo, della quale oggi è guasta la maggior parte per essere ella sopra la porta respetto a lo avervisi avuto a rimetter uno architrave che rovinò.
Era in questi tempi medesimi in Roma, Francesco Tornabuoni onorato e ricco mercante et amicissimo di Domenico, al quale essendo morta la donna sopra parto, come s'è detto in Andrea Verrochio, et avendo, per onorarla come si convenia alla nobiltà loro, fattole fare una sepoltura nella Minerva, volle anco che Domenico dipignesse tutta la faccia dove ell'era sepolta, et oltre a questo vi facesse una piccola tavoletta a tempera, laonde in quella pariete fece quattro storie: dua di S.
Giovanni Batista e due della Nostra Donna; le quali veramente gli furono allora molto lodate.
E provò Francesco tanta dolcezza nella pratica di Domenico, che tornandosene quello a Fiorenza con onore e con danari, lo raccomandò per lettere a Giovanni suo parente, scrivendoli quanto e' lo avesse servito bene in quell'opera e quanto il papa fusse satisfatto de le sue pitture.
Le quali cose udendo Giovanni, cominciò a disegnare di metterlo in qualche lavoro magnifico da onorare la memoria di se medesimo e da arrecare a Domenico fama e guadagno.
Era per avventura in S.
Maria Novella, convento de' frati predicatori, la cappella maggiore dipinta già da Andrea Orgagna; la quale, per essere stato mal coperto il tetto della volta, era in più parti guasta da l'acqua, per il che già molti cittadini l'avevano voluta rassettare, o vero dipignierla di nuovo; ma i padroni, che erano quelli della famiglia de' Ricci, non se n'erano mai contentati, non potendo essi far tanta spesa, né volendosi risolvere a concederla ad altri che la facesse, per non perdere la iuridizione del padronato et il segno dell'arme loro lasciatagli dai loro antichi.
Giovanni adunque, desideroso che Domenico gli facesse questa memoria, si misse intorno a questa pratica tentando diverse vie.
Et in ultimo promisse a' Ricci far tutta quella spesa egli e che gli ricompenserebbe in qualcosa, e farebbe metter l'arme loro nel più evidente et onorato luogo che fusse in quella cappella; e così rimasi d'accordo e fattene contratto et instrumento molto stretto del tenore ragionato di sopra, logò Giovanni a Domenico questa opera, con le storie medesime che erano dipinte prima; e feciono che il prezzo fusse ducati milledugento d'oro larghi; et in caso che l'opera gli piacesse fussino dugento più.
Per il che Domenico mise man all'opera; né restò che egli in quattro anni l'ebbe finita; il che fu nel MCCCCLXXXV, con grandissima satisfazione e contento di esso Giovanni.
Il quale chiamandosi servito, e confessando ingenuamente che Domenico aveva guadagnati i dugento ducati del più, disse che arebbe piacere che e' si contentasse del primo pregio; e Domenico, che molto più stimava la gloria e l'onore che le ricchezze, gli largì subito tutto il restante, affermando che aveva molto più caro lo avergli satisfatto che lo essere contento del pagamento.
Appresso Giovanni fece fare due armi grandi di pietra, l'una de' Tornaquinci, l'altra de' Tornabuoni, e metterle ne' pilastri fuori d'essa cappella, e nell'arco altre arme di detta famiglia, divisa in più nomi e più arme, cioè, oltre alle due dette, Giachinotti, Popoleschi, Marabotini e Cardinali.
E quando poi Domenico fece la tavola dello altare, nello ornamento dorato, sotto un arco ch'è per fine di quella tavola fece mettere il tabernacolo del Sacramento, bellissimo; e nel frontispizio di quello fece uno scudicciuolo d'un quarto di braccio, dentrovi l'arme de' padron detti, cioè de' Ricci.
Et il bello fu allo scoprire della cappella, perché questi cercarono con gran romore de l'arme loro; e finalmente, non ve la vedendo, se n'andarono al magistrato degli otto portando il contratto.
Per il che mostrarono i Tornabuoni esservi posta nel più evidente et onorato luogo di quell'opera, e benché quelli esclamassino che ella non si vedeva, fu lor detto che eglino avevano il torto, e che avendola fatta metter in così onorato luogo quanto era quello, essendo vicina al Santissimo Sagramento, se ne dovevano contentare.
E così fu deciso che dovesse stare, per quel magistrato, come al presente si vede.
Ma se questo paresse ad alcuno fuor delle cose della vita che si ha da scrivere, non gli dia noia: perché tutto era nel fine del tratto della mia penna e serve se non ad altro a mostrare quanto la povertà è preda delle ricchezze; e che le ricchezze acompagnate dalla prudenzia, conducono a fine e senza biasimo ciò che altri vuole.
Ma per tornare alle belle opere di Domenico, sono in questa cappella, primieramente nella volta i quattro Evangelisti maggiori del naturale, e nella pariete della finestra storie di S.
Domenico e S.
Pietro martire e S.
Giovanni quando va al deserto e la Nostra Donna annunziata dall'Angelo e molti Santi avvocati di Fiorenza ginocchioni, sopra le finestre, e dappiè v'è ritratto di naturale Giovanni Tornaboni da man ritta e la donna sua da man sinistra, che dicono esser molto naturali.
Nella facciata destra sono sette storie, scompartite sei di sotto, in quadri grandi quanto tien la facciata; et una ultima di sopra, larga quanto son due istorie e quanto serra l'arco della volta, e nella sinistra altrettante di S.
Giovanni Batista.
La prima della facciata destra è quando Giovacchino fu cacciato dal tempio, dove si vede nel volto di lui espressa la pacienzia come in quel di coloro il dispregio e l'odio che i Giudei avevano a quelli che senza avere figliuoli venivano al tempio; e sono in questa storia, da la parte verso la finestra, quattro uomini ritratti di naturale, l'un de' quali, cioè quello che è vecchio e raso et in cappuccio rosso, è Alesso Baldovinetti, maestro di Domenico nella pittura e nel musaico; l'altro che è in capegli e che si tiene una mano al fianco et ha un mantello rosso e sotto una vesticciuola azzurra, è Domenico stesso, maestro dell'opera, ritrattosi in uno specchio da se medesimo; quello che ha una zazzera nera con certe labbra grosse, è Bastiano da S.
Gimignano suo discepolo e cognato, e l'altro che volta le spalle et ha un berrettino in capo, è Davitte Ghirlandaio pittore suo fratello; i quali tutti per chi gli ha conosciuti si dicono esser veramente vivi e naturali.
Nella seconda storia è la Natività della Nostra Donna fatta con una diligenzia grande; e tra le altre cose notabili che egli vi fece, nel casamento o prospettiva è una finestra che dà 'l lume a quella camera la quale inganna chi la guarda; oltra questo, S.
Anna è nel letto e certe donne la visitano, pose alcune femmine che lavano la Madonna con gran cura: chi mette acqua, chi fa le fasce, chi fa un servizio, chi fa un altro, e mentre ognuna attende al suo, vi è una femmina che ha in collo quella puttina, e ghignando la fa ridere, con una grazia donnesca, degna veramente di un'opera simile a questa, oltre a molti altri affetti che sono in ciascuna figura.
Nella terza, che è la prima sopra, è quando la Nostra Donna saglie i gradi del tempio, dove è un casamento che si allontana assai ragionevolmente dall'occhio; oltra che v'è uno ignudo che gli fu allora lodato per non se ne usar molti, ancor che e' non vi fusse quella intera perfezzione come a quegli che si son fatti ne' tempi nostri, per non essere eglino tanto eccellenti.
Accanto a questa è lo sposalizio di Nostra Donna; dove dimostrò la collera di coloro che si sfogano nel rompere le verghe che non fiorirono come quella di Giuseppo; la quale istoria è copiosa di figure in uno accomodato casamento.
Nella quinta si veggono arrivare i Magi di Bettelem con gran numero di uomini, cavalli e dromedarii et altre cose varie; storia certamente accomodata.
Et accanto a questa è la sesta, la quale è la crudele impietà fatta da Erode agli innocenti; dove di vede una baruffa bellissima di femmine e di soldati e cavalli, che le percuotono et urtano: e nel vero, di quante storie vi si vede di suo, questa è la migliore; perché ella è condotta con giudizio, con ingegno et arte grande.
Conoscevisi l'impia volontà di coloro che comandati da Erode, senza riguardare le madri, uccidono que' poveri fanciullini; fra i quali si vede uno che ancora appiccato alla poppa muore per le ferite ricevute nella gola; onde sugge, per non dir beve, dal petto non meno sangue che latte; cosa veramente di sua natura e per esser fatta nella maniera ch'ella è, da tornar viva la pietà dove ella fusse ben morta; èvvi ancora un soldato che ha tolto per forza un putto, e mentre correndo con quello se lo stringe in sul petto per amazzarlo, se li vede appiccata a' capegli la madre di quello con grandissima rabbia; e facendoli fare arco della schiena, fa che si conosce in loro tre effetti bellissimi: uno è la morte del putto che si vede crepare, l'altro l'impietà del soldato che per sentirsi tirare sì stranamente, mostra l'affetto del vendicarsi in esso putto, il terzo è che la madre nel veder la morte del figliuolo, con furia e dolore e sdegno cerca che quel traditore non parta senza pena; cosa veramente più da filosofo mirabile di giudizio, che da pittore.
Sonvi espressi molti altri affetti, che chi li guarda conoscerà senza dubbio questo maestro esser stato in quel tempo eccellente.
Sopra questa, nella settima che piglia le due storie e cigne l'arco della volta, è il transito di Nostra Donna e la sua assunzione con infinito numero d'Angeli et infinite figure e paesi et altri ornamenti, di che egli soleva abbondare, in quella sua maniera facile e pratica.
Dall'altra faccia, dove sono le storie di S.
Giovanni, nella prima è quando Zacheria sacrificando nel tempio, l'Angelo gli appare e per non credergli amutolisce; nella quale storia, mostrando che a' sacrifizii de tempii concorrono sempre le persone più notabili, per farla più onorata ritrasse un buon numero di cittadini fiorentini, che governavono allora quello stato; e particularmente tutti quelli di casa Tornabuoni, i giovani et i vecchi.
Oltre a questo, per mostrare che quella età fioriva in ogni sorte di virtù e massimamente nelle lettere, fece in cerchio quattro mezze figure, che ragionano insieme appiè della istoria; i quali erano i più scienziati uomini che in que' tempi si trovassero in Fiorenza, e sono questi: il primo è Messer Marsilio Ficino, che ha una veste da canonico, il secondo con un mantello rosso et una becca nera al collo, è Cristofano Landino, e Demetrio Greco che se li volta et in mezzo a questi quello che alza alquanto una mano è Messer Angelo Poliziano, i quali son vivissimi e pronti.
Séguita nella seconda, allato a questa, la visitazione di Nostra Donna e S.
Elisabetta; nella quale sono molte donne che l'accompagnano con portature di que' tempi, e fra loro fu ritratta la Ginevra de' Benci, allora bellissima fanciulla.
Nella terza storia sopra alla prima è la nascita di S.
Giovanni, nella quale è una avvertenza bellissima: che mentre S.
Elisabetta è in letto, e che certe vicine la vengono a vedere e la balia stando a sedere allatta il bambino, una femmina con allegrezza gnene chiede, per mostrare a quelle donne la novità che in sua vechiezza aveva fatto la padrona di casa; e finalmente vi è una femmina che porta a l'usanza fiorentina frutte e fiaschi da la villa, la quale è molto bella.
Nella quarta allato a questa è Zacheria che ancor mutolo stupisce con intrepido animo che sia nato di lui quel putto; e mentre gli è dimandato del nome, scrive in su 'l ginocchio, affisando gli occhi al figliuolo quale è tenuto incollo da una femmina con reverenza postasi ginocchione innanzi a lui, e segna con la penna in sul foglio: "Giovanni sarà il tuo nome", non senza ammirazione di molte altre figure, che pare che stiano in forse se egli è vero o no.
Séguita la quinta, quando e' predica alle turbe; nella quale storia si conosce quella attenzione che dànno i popoli nello udir cose nuove; e massimamente nelle teste degli scribi che ascoltano Giovanni, i quali pare che con un certo modo del viso sbeffino quella legge, anzi l'abbiano in odio; dove sono ritti et a sedere maschi e femmine in diverse fogge.
Nella sesta si vede S.
Giovanni battezzare Cristo; nella reverenza del quale mostrò interamente la fede che si debbe avere a sacramento tale; e perché questo non fu senza grandissimo frutto, vi figurò molti già ignudi e scalzi, che aspettando d'essere battezzati, mostrano la fede e la voglia scolpita nel viso; et in fra gl'altri uno che si cava una scarpetta, rappresenta la prontitudine istessa.
Nella ultima, cioè nell'arco accanto alla volta, è la suntuosissima cena di Erode et il ballo di Erodiana, con infinità di servi che fanno diversi aiuti in quella storia, oltra la grandezza d'uno edifizio tirato in prospettiva, che mostra apertamente la virtù di Domenico insieme con le dette pitture.
Condusse a tempera la tavola isolata tutta, e le altre figure che sono ne' sei quadri: che oltre alla Nostra Donna che siede in aria col Figliuolo in collo e gl'altri Santi che gli sono intorno, oltra il S.
Lorenzo et il S.
Stefano che sono interamente vive, al S.
Vincenzio e S.
Pietro Martire non manca se non la parola.
Vero è che di questa tavola ne rimase imperfetta una parte, mediante la morte sua, per che, avendo egli già tiratola tanto innazi, che e' non le mancava altro che il finire certe figure dalla banda di dietro dove è la Resurressione di Cristo, e tre figure che sono in que' quadri, finirono poi il tutto Benedetto e Davitte Ghirlandai suoi frategli.
Questa cappella fu tenuta cosa bellissima, grande, garbata e vaga, per la vivacità de' colori, per la pratica e pulitezza del maneggiargli nel muro e per il poco essere stati ritocchi a secco, oltre la invenzione e collocazione delle cose.
E certamente ne merita Domenico lode grandissima per ogni conto, e massimamente per la vivezza delle teste, le quali per essere ritratte di naturale rappresentano a chi verrà le vivissime effigie di molte persone segnalate.
E pel medesimo Giovanni Tornabuoni dipinse al Casso Maccherelli, sua villa poco lontana dalla città, una cappella, in sul fiume di Terzolle, oggi mezza rovinata per la vicinità del fiume; la quale ancor che stata molti anni scoperta e continuamente bagnata dalle piogge et arsa da' soli, si è difesa in modo che pare stata al coperto: tanto vale il lavorare in fresco quando è lavorato bene e con giudizio, e non a ritocco a secco.
Fece ancora nel palazzo della Signoria, nella sala dove è il maraviglioso orologio di Lorenzo della Volpaia, molte figure di Santi fiorentini con bellissimi adornamenti.
E tanto fu amico del lavorare e di satisfare ad ognuno che egli aveva commesso a' garzoni che e' si accettasse qualunche lavoro che capitasse a bottega se bene fussero cerchi da paniere di donne, perché non gli volendo fare essi, gli dipignerebbe da sé a ciò che nessuno si partisse scontento da la sua bottega.
Dolevasi bene quando aveva cure familiari, e per questo dette a David suo fratello ogni peso di spendere dicendogli: "Lascia lavorare a me e tu provedi, che ora che io ho cominciato a conoscere il modo di quest'arte, mi duole che non mi sia allogato a dipignere a storie il circuito di tutte le mura della città di Fiorenza", mostrando così animo invitissimo e risoluto in ogni azzione.
Lavorò a Lucca in S.
Martino una tavola di S.
Pietro e S.
Paulo.
Alla Badia di Settimo, fuor di Fiorenza, lavorò la facciata della maggior cappella a fresco, e nel tramezzo della chiesa due tavole a tempera.
In Fiorenza lavorò ancora molti tondi, quadri e pitture diverse che non si riveggono altrimenti per essere nelle case de' particulari.
In Pisa fece la nicchia del Duomo allo altar maggiore e lavorò in molti luoghi di quella città, come alla facciata dell'opera quando il re Carlo ritratto di naturale raccomanda Pisa; et in San Girolamo a' frati Gesuati due tavole a tempera, quella dell'altar maggiore et un'altra.
Nel qual luogo ancora è di mano del medesimo in un quadro, S.
Rocco e S.
Bastiano, il quale fu donato a que' padri da non so chi de' Medici, onde essi vi hanno perciò aggiunte l'arme di papa Leone Decimo.
Dicono che ritraendo anticaglie di Roma, archi, terme, colonne, colisei, aguglie, amfiteatri et acquidotti, era sì giusto nel disegno che le faceva a occhio, senza regolo o seste e misure; e misurandole da poi fatte che l'aveva, erano giustissime come se e' le avesse misurate.
E ritraendo a occhio il Coliseo, vi fece una figura ritta appiè, che misurando quella tutto l'edificio si misurava; e fattone esperienza da' maestri dopo la morte sua, si ritrovò giustissimo.
Fece a S.
Maria Nuova nel Cimiterio, sopra una porta un S.
Michele in fresco armato, bellissimo con riverberazione d'armature poco usate inanzi a lui; et alla Badia di Passignano, luogo de' monaci di Vall'Ombrosa, lavorò in compagnia di David suo fratello e di Bastiano da S.
Gimignano, alcune cose; dove, trattandoli i monaci male del vivere, inanzi la venuta di Domenico si richiamarono all'abate, pregandolo che meglio servire li facesse, non essendo onesto che come manovali fussero trattati.
Promise loro l'abate di farlo e scusossi che questo più avveniva per ignoranza de' foresterai che per malizia.
Venne Domenico e tuttavia si continuò nel medesimo modo, per il che David trovando un'altra volta lo abate, si scusò dicendo che non faceva questo per conto suo, ma per li meriti e per la virtù del suo fratello; ma lo abate, come ignorante ch'egli era, altra risposta non fece.
La sera dunque postisi a cena, venne il forestario con una asse piena di scodelle e tortacce da manigoldi, pur nel solito modo che l'altre volte si faceva, onde David salito in collera rivoltò le minestre addosso al frate, e preso il pane ch'era su la tavola et aventandoglielo, lo percosse di modo che mal vivo a la cella ne fu portato.
Lo abate che già era a letto, levatosi e corso al rumor, credette che 'l monistero rovinasse; e trovando il frate mal concio cominciò a contendere con David; per il che infuriato, David gli rispose che si gli togliesse dinanzi che valeva più la virtù di Domenico che quanti abati porci suoi pari furon mai in quel monistero; laonde lo abate riconosciutosi, da quell'ora inanzi s'ingegnò di trattargli da valenti uomini come egl'erano.
Finita l'opera tornò a Fiorenza, et al signor di Carpi dipinse una tavola; un'altra ne mandò a Rimino al signor Carlo Malatesta, che la fece porre nella sua cappella in S.
Domenico.
Questa tavola fu a tempera, con tre figure bellissime e con istoriette di sotto; e dietro figure di bronzo, finte con disegno et arte grandissima.
Due altre tavole fece nella Badia di S.
Giusto fuor di Volterra dell'Ordine di Camaldoli; le quali tavole che sono belle affatto, gli fece fare il Magnifico Lorenzo de' Medici; perciò che allora aveva quella Badia in comenda Giovanni cardinale de' Medici, suo figliuolo, che fu poi Papa Leone.
La qual Badia pochi anni sono, ha restituita il molto reverendo Messere Giovanbattista Bava da Volterra, che similmente l'aveva in comenda, alla detta Congregazione di Camaldoli.
Condotto poi Domenico a Siena per mezzo del Magnifico Lorenzo de' Medici che gli entrò mallevadore a questa opera di ducati ventimila, tolse a fare di musaico la facciata del Duomo; e cominciò a lavorare con buono animo e miglior maniera, ma prevenuto da la morte, lasciò l'opera imperfetta.
Come per la morte del predetto Magnifico Lorenzo rimase imperfetta in Fiorenza la capella di S.
Zanobi cominciata a lavorare di musaico da Domenico in compagnia di Gherardo miniatore.
Vedesi di mano di Domenico sopra quella porta del fianco di S.
Maria del Fiore, che va a' Servi, una Nunziata di musaico bellissima, della quale fra' maestri moderni di musaico non s'è veduto ancor meglio.
Usava dire Domenico la pittura essere il disegno, e la vera pittura per la eternità essere il musaico.
Stette seco in compagnia a imparare Bastiano Mainardi da S.
Gimignano, il quale in fresco era divenuto molto pratico maestro di quella maniera; per il che andando con Domenico a S.
Gimignano dipinsero a compagnia la cappella di S.
Fina, la quale è cosa bella.
Onde per la servitù e gentilezza di Bastiano, sendosi così bene portato, giudicò Domenico che e' fosse degno d'avere una sua sorella per moglie, e così l'amicizia loro fu cambiata in parentado: liberalità di amorevole maestro rimuneratore delle virtù del discepolo acquistate con le fatiche dell'arte.
Fece Domenico dipignere al detto Bastiano, facendo nondimeno esso il cartone, in S.
Croce nella cappella de' Baroncegli e Bandini, una Nostra Donna che va in cielo, et abasso S.
Tommaso che riceve la cintola il quale è bel lavoro a fresco; e Domenico e Bastiano insieme dipinsono in Siena nel palazzo degli Spannocchi, in una camera molte storie di figure piccole a tempera; et in Pisa, oltre alla nicchia già detta del Duomo, tutto l'arco di quella cappella piena d'Angeli; e parimente i portegli che chiuggono l'organo, e cominciarono a mettere d'oro il palco.
Quando poi in Pisa et in Siena s'aveva a metter mano a grandissime opere, Domenico ammalò di gravissima febbre, la pestilenza della quale in cinque giorni gli tolse la vita.
Essendo infermo, gli mandarono que' de' Tornabuoni a donare cento ducati d'oro, mostrando l'amicizia e la familiarità sua e la servitù che Domenico a Giovanni et a quella casa avea sempre portata.
Visse Domenico 44 anni e fu con molte lagrime e con pietosi sospiri da David e da Benedetto suoi fratelli e da Ridolfo suo figliuolo, con belle esequie sepellito in S.
Maria Novella, e fu tal perdita di molto dolore agl'amici suoi; perché intesa la morte di lui, molti eccellenti pittori forestieri scrissero a' suoi parenti dolendosi della sua acerbissima morte.
Restarono suoi discepoli David e Benedetto Ghirlandai, Bastiano Mainardi da S.
Gimignano e Michel Agnolo Buonarotti fiorentino, Francesco Granaccio, Niccolò Cieco, Iacopo del Tedesco, Iacopo dell'Indaco, Baldino Baldinelli et altri maestri, tutti fiorentini.
Morì nel 1493.
Arricchì Domenico l'arte della pittura del musaico più modernamente lavorato che non fece nessun Toscano, d'infiniti che si provorono, come lo mostrano le cose fatte da lui per poche ch'elle siano.
Onde per tal ricchezza e memoria, nell'arte merita grado et onore, et essere celebrato con lode straordinarie dopo la morte.
VITA D'ANTONIO E PIERO POLLAIUOLI PITTORI E SCULTORI FIORENTINI
Molti di animo vile cominciano cose basse, a' quali crescendo poi l'animo con la virtù, cresce ancora la forza et il valore; di maniera che, salendo a maggiori imprese, aggiungono vicino al cielo co' bellissimi pensier loro; et inalzati dalla fortuna, si abbattono bene spesso in un principe buono, che trovandosene ben servito, è forzato remunerare in modo le loro fatiche che i posteri di quegli ne sentino largamente et utile e comodo.
Laonde questi tali caminano in questa vita con tanta gloria a la fine loro, che di sé lasciano segni al mondo di maraviglia, come fecero Antonio e Piero del Pollaiuolo, molto stimati ne' tempi loro, per quelle rare virtù che si avevano con la loro industria e fatica guadagnate.
Nacquero costoro nella città di Fiorenza, pochi anni l'uno dopo l'altro, di padre assai basso e non molto agiato, il quale conoscendo per molti segni il buono et acuto ingegno de' suoi figliuoli, né avendo il modo a indirizzargli a le lettere, pose Antonio all'arte dello orefice con Bartoluccio Ghiberti, maestro allora molto eccellente in tale esercizio, e Piero mise al pittore con Andrea del Castagno, che era il meglio allora di Fiorenza.
Antonio, dunque, tirato innanzi da Bartoluccio, oltre il legare le gioie e lavorare a fuoco smalti d'argento, era tenuto il più valente che maneggiasse ferri in quell'arte.
Laonde Lorenzo Ghiberti, che allora lavorava le porte di S.
Giovanni, dato d'occhio alla maniera d'Antonio, lo tirò al lavoro suo in compagnia di molti altri giovani.
E postolo intorno ad uno di que' festoni che allora aveva tra mano, Antonio vi fece su una quaglia che dura ancora, tanto bella e tanto perfetta, che non le manca se non il volo.
Non consumò, dunque, Antonio molte settimane in questo esercizio, che e' fu conosciuto per il meglio di tutti que' che vi lavoravano, di disegno e di pazienzia, e per il più ingegnoso e più diligente che vi fusse.
Laonde crescendo la virtù e la fama sua, si partì da Bartoluccio e da Lorenzo, et in Mercato Nuovo, in quella città, aperse da sé una bottega di orefice magnifica et onorata.
E molti anni seguitò l'arte, disegnando continuamente, e faccendo di rilievo cere et altre fantasie, che in brieve tempo lo fecero tenere (come egli era) il principale di quello esercizio.
Era in questo tempo medesimo un altro orefice chiamato Maso Finiguerra, il quale ebbe nome straordinario e meritamente, ché per lavorare il bulino e fare di niello, non si era veduto mai chi in piccoli o grandi spazii facesse tanto numero di figure quante ne faceva egli; sì come lo dimostrano ancora certe paci, lavorate da lui in S.
Giovanni di Fiorenza, con istorie minutissime de la Passione di Cristo.
Costui disegnò benissimo et assai, e nel libro nostro v'è dimolte carte di vestiti, ignudi e di storie disegnate d'acquerello.
A concorrenza di costui fece Antonio alcune istorie, dove lo paragonò nella diligenzia e superollo nel disegno.
Per la qual cosa i consoli dell'Arte de' Mercatanti, vedendo la eccellenzia di Antonio, deliberarono tra loro che avendosi a fare di argento alcune istorie nello altare di S.
Giovanni, sì come da varii maestri in diversi tempi sempre era stato usanza di fare, che Antonio ancora ne lavorasse.
E così fu fatto.
E riuscirono queste sue cose tanto eccellenti, che elle si conoscono fra tutte l'altre per le migliori; e furono la cena d'Erode et il ballo d'Erodiana; ma sopra tutto fu bellissimo il S.
Giovanni, che è nel mezzo dell'altare, tutto di cesello et opera molto lodata.
Per il che gli allogarono i detti consoli, i candellieri de l'argento, di braccia tre l'uno, e la croce a proporzione, dove egli lavorò tanta roba d'intaglio e la condusse a tanta perfezzione, che e da' forestieri e da' terrazzani sempre è stata tenuta cosa maravigliosa.
Durò in questo mestiero infinite fatiche, sì ne' lavori che e' fece d'oro, come in quelli di smalto e di argento; in fra le quali sono alcune paci in S.
Giovanni, bellissime, che di colorito a fuoco sono di sorte, che col penello si potrebbono poco migliorare.
Et in altre chiese di Fiorenza e di Roma, et altri luoghi d'Italia si veggono di suo smalti miracolosi.
Insegnò quest'arte a Mazzingo fiorentino et a Giuliano del Facchino, maestri ragionevoli, et a Giovanni Turini sanese, che avanzò questi suoi compagni assai in questo mestiero, del quale da Antonio di Salvi in qua, (che fece di molte cose e buone, come una croce grande d'argento nella Badia di Firenze, et altri lavori) non s'è veduto gran fatto, cose che se ne possa far conto staordinario.
Ma, e di queste e di quelle de' Pollaiuoli, molte per i bisogni della città nel tempo della guerra, sono state dal fuoco destrutte e guaste.
Laonde, conoscendo egli che quell'arte non dava molta vita alle fatiche de' suoi artefici, si risolvé per desiderio di più lunga memoria, non attendere più ad essa.
E così avendo egli Piero suo fratello che attendeva alla pittura, si accostò a quello per imparare i modi del maneggiare et adoperare i colori, parendoli un'arte tanto differente da l'orefice, che se egli non avesse così prestamente resoluto d'abandonare quella prima in tutto, e' sarebbe forse stata ora che e' non arebbe voluto esservisi voltato.
Per la qual cosa spronato dalla vergogna più che dall'utile, appresa in non molti mesi la pratica del colorire, diventò maestro eccellente.
Et unitosi in tutto con Piero lavorarono in compagnia dimolte pitture.
Fra le quali per dilettarsi molto del colorito, fecero al cardinale di Portogallo una tavola a olio in San Miniato al Monte, fuori di Fiorenza, la quale fu posta sull'altar della sua cappella, e vi dipinsero dentro S.
Iacopo Apostolo, S.
Eustachio e San Vincenzio, che sono stati molto lodati.
E Piero particolarmente vi fece in sul muro a olio, il che aveva imparato da Andrea del Castagno, nelle quadrature degl'angoli sotto l'architrave, dove girano i mezzi tondi degl'archi, alcuni Profeti; et in un mezzo tondo una Nunziata con tre figure.
Et a' capitani di parte dipinse, in un mezzo tondo, una Nostra Donna col Figliuolo in collo et un fregio di Serafini intorno, pur lavorato a olio.
Dipinsero ancora in S.
Michele in Orto, in un pilastro in tela a olio, un Angelo Raffaello con Tobia; e fecero nella Mercatanzia di Fiorenza alcune virtù, in quello stesso luogo dove siede, pro tribunali, il magistrato di quella.
Ritrasse di naturale Messer Poggio, segretario della Signoria di Fiorenza, che scrisse l'istoria fiorentina dopo Messer Lionardo d'Arezzo, e Messer Giannozzo Manetti, persona dotta e stimata assai, nel medesimo luogo dove da altri maestri assai prima erano ritratti Zanobi da Strada, poeta fiorentino, Donato Acciaiuoli et altri.
Nel Proconsolo e nella cappella de' Pucci a S.
Sebastiano de' Servi, fece la tavola dell'altare che è cosa eccellente e rara, dove sono cavalli mirabili, ignudi e figure bellissime in iscorto, et il S.
Sebastiano stesso ritratto dal vivo, cioè da Gino di Lodovico Capponi e fu quest'opera la più lodata che Antonio facesse già mai.
Conciò sia che per andare egli imitando la natura il più che e' poteva, fece in uno di que' saettatori, che appoggiatasi la balestra al petto si china a terra per caricarla, tutta quella forza che può porre un forte di braccia in caricare quell'instrumento; imperò che e' si conosce in lui il gonfiare delle vene e de' muscoli et il ritenere del fiato, per fare più forza.
E non è questo solo ad essere condotto con avvertenza, ma tutti gl'altri ancora, con diverse attitudini, assai chiaramente dimostrano l'ingegno e la considerazione, che egli aveva posto in questa opera, la qual fu certamente conosciuta da Antonio Pucci, che gli donò per questo trecento scudi, affermando che non gli pagava appena i colori, e fu finita l'anno 1475.
Crebbeli dunque da questo l'animo et a San Miniato, fra le torri, fuor della porta, dipinse un S.
Cristofano di dieci braccia, cosa molto bella e modernamente lavorata, e di quella grandezza fu la più proporzionata figura che fusse stata fatta fino a quel tempo.
Poi fece in tela un Crucifisso con S.
Antonino, il quale è posto alla sua cappella in S.
Marco.
In palazzo della Signoria di Fiorenza lavorò alla porta della catena un S.
Giovanni Battista; et in casa Medici dipinse a Lorenzo Vecchio tre Ercoli in tre quadri, che sono di cinque braccia, l'uno de' quali scoppia Anteo, figura bellissima, nella quale propriamente si vede la forza d'Ercole nello strignere, che i muscoli della figura et i nervi di quella sono tutti raccolti per far crepare Anteo: e nella testa di esso Ercole si conosce il digrignare de' denti, accordato in maniera con l'altre parti, che fino a le dita de' piedi s'alzano per la forza; né usò punto minore avvertenza in Anteo, che stretto dalle braccia d'Ercole, si vede mancare e perdere ogni vigore, et a bocca aperta rendere lo spirito.
L'altro ammazzando il leone, gli appunta il ginocchio sinistro al petto et afferrata la bocca del leone con ammendue le sue mani, serrando i denti e stendendo le braccia, lo apre e sbarra per viva forza, ancora che la fiera per sua difesa, con gli unghioni malamente gli graffi le braccia.
Il terzo, che ammazza l'Idra, è veramente cosa maravigliosa, e massimamente il serpente, il colorito del quale così vivo fece e sì propriamente, che più vivo far non si può.
Quivi si vede il veleno, il fuoco, la ferocità, l'ira, con tanta prontezza che merita esser celebrato e da' buoni artefici in ciò grandemente imitato.
Alla Compagnia di S.
Angelo in Arezzo fece da un lato un Crucifisso e dall'altro in sul drappo a olio un S.
Michele che combatte col serpe, tanto bello, quanto cosa che di sua mano si possa vedere; perché v'è la figura del S.
Michele che con una bravura affronta il serpente, stringendo i denti et increspando le ciglia, che veramente pare disceso dal cielo per far la vendetta di Dio contra la superbia di Lucifero, et è certo cosa maravigliosa.
Egli s'intese degli ignudi più modernamente che fatto non avevano gl'altri maestri inanzi a lui, e scorticò molti uomini, per vedere la notomia lor sotto.
E fu primo a mostrare il modo di cercar i muscoli che avessero forma et ordine nelle figure; e di quegli tutti, cinti d'una catena, intagliò in rame una battaglia, e dopo quella fece altre stampe con molto migliore intaglio che non avevano fatto gl'altri maestri ch'erano stati inanzi a lui.
Per queste cagioni, adunque, venuto famoso in fra gl'artefici, morto papa Sisto IV fu da Innocenzio suo successore condotto a Roma, dove fece di metallo la sepoltura di detto Innocenzio, nella quale lo ritrasse di naturale a sedere, nella maniera che stava quando dava la benedizzione, che fu posta in San Pietro.
E quella di papa Sisto detto, la quale finita con grandissima spesa, fu collocata questa nella cappella che si chiama dal nome di detto pontefice, con ricco ornamento e tutta isolata; e sopra essa è a giacere esso Papa molto ben fatto e quella [di] Innocenzio in S.
Pietro, accanto alla capella dov'è la lancia di Cristo.
Dicesi che disegnò il medesimo la fabbrica del palazzo di Belvedere, per detto Papa Innocenzio, se bene fu condotta da altri, per non aver egli molta pratica di murare.
Finalmente, essendo fatti ricchi morirono poco l'uno dopo l'altro, amendue questi fratelli, nel 1498, e da' parenti ebbero sepoltura in S.
Piero in Vincula.
Et in memoria loro, allato alla porta di mezzo, a man sinistra entrando in chiesa, furono ritratti ambidue in due tondi di marmo con questo epitaffio:
Antonius Pullarius, patria Florentinus, pictor insignis,
qui duorum Pontificum Xisti et Innocentii
aerea monimenta miro opificio
expressit.
Re familiari composita ex
testamento.
Hic secum Petro fratre condi voluit.
Vixit annos LXXII.
Obiit anno Salvatoris MIID.
Il medesimo fece di basso rilievo in metallo una battaglia di nudi che andò in Ispagna, molto bella, della quale n'è una impronta di gesso in Firenze appresso tutti gl'artefici.
E si trovò dopo la morte sua il disegno e modello che a Lodovico Sforza egli aveva fatto per la statua a cavallo di Francesco Sforza duca di Milano, il quale disegno è nel nostro libro in due modi: in uno egli ha sotto Verona, nell'altro egli, tutto armato e sopra un basamento pieno di battaglie, fa saltare il cavallo addosso a un armato.
Ma la cagione perché non mettesse questi disegni in opera, non ho già potuto sapere.
Fece il medesimo alcune medaglie bellissime, e fra l'altre in una la congiura de' Pazzi, nella quale sono le teste di Lorenzo e Giuliano de' Medici, e nel riverso il coro di S.
Maria del Fiore e tutto il caso come passò appunto.
Similmente fece le medaglie d'alcuni pontefici et altre molte cose che sono dagli artefici conosciute.
Aveva Antonio quando morì anni LXXII e Pietro anni LXV.
Lasciò molti discepoli, e fra gli altri Andrea Sansovino.
Ebbe nel tempo suo felicissima vita, trovando pontefici ricchi e la sua città in colmo, che si dilettava di virtù; per che molto fu stimato, dove se forse avesse avuto contrari i tempi non avrebbe fatto que' frutti che e' fece, essendo inimici molto i travagli alle scienze, delle quali gli uomini fanno professione e prendono diletto.
Col disegno di costui furono fatte per S.
Giovanni di Fiorenza due tonicelle et una pianeta e piviale di broccato, riccio sopra riccio, tessuti tutti d'un pezzo, senza alcuna cucitura; e per fregi et ornamenti di quelle, furono ricamate le storie della vita di S.
Giovanni, con sottilissimo magisterio et arte da Paulo da Verona, divino in quella professione e sopra ogni altro ingegno rarissimo; dal quale non furono condotte manco bene le figure con l'ago, che se le avesse dipinte Antonio col penello: di che si debbe avere obligo non mediocre alla virtù dell'uno nel disegno, et alla pazienza dell'altro nel ricamare.
Durò a condursi questa opera anni XXVI, e di questi ricami fatti col punto serrato, che oltre all'esser più durabili appare una propria pittura di penello, n'è quasi smarito il buon modo, usandosi oggi il punteggiare più largo, che è manco durabile e men vago a vedere.
VITA DI SANDRO BOTTICELLO PITTOR FIORENTINO
Ne' medesimi tempi del Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici, che fu veramente per le persone d'ingegno un secol d'oro, fiorì ancora Alessandro, chiamato a l'uso nostro Sandro e detto di Botticello per la cagione che appresso vedremo.
Costui fu figliuolo di Mariano Filipepi, cittadino fiorentino dal quale diligentemente allevato e fatto instruire in tutte quelle cose che usanza è di insegnarsi a' fanciulli in quella età, prima che e' si ponghino a le botteghe, ancora che agevolmente apprendesse tutto quello che e' voleva, era nientedimanco inquieto sempre; né si contentava di scuola alcuna, di leggere, di scrivere o di abbaco; di maniera che il padre infastidito di questo cervello sì stravagante, per disperato lo pose a lo orefice con un suo compare chiamato Botticello, assai competente maestro allora in quell'arte.
Era in quella età una dimestichezza grandissima e quasi che una continova pratica, tra gli orefici et i pittori; per la quale Sandro, che era destra persona e si era volto tutto al disegno, invaghitosi della pittura, si dispose volgersi a quella.
Per il che aprendo liberamente l'animo suo al padre, da lui che conobbe la inchinazione di quel cervello, fu condotto a fra' Filippo del Carmine, eccellentissimo pittore allora et acconcio seco a imparare, come Sandro stesso desiderava.
Datosi dunque tutto a quell'arte, seguitò et imitò sì fattamente il maestro suo, che fra' Filippo gli pose amore; et insegnolli di maniera che e' pervenne tosto ad un grado che nessuno lo arebbe stimato.
Dipinse, essendo giovanetto, nella mercatanzia di Fiorenza, una Fortezza fra le tavole delle virtù che Antonio e Piero del Pollaiuolo lavorarono.
In S.
Spirito di Fiorenza fece una tavola alla cappella de' Bardi, la quale è con diligenza lavorata et a buon fin condotta, dove sono alcune olive e palme lavorate con sommo amore.
Lavorò nelle Convertite una tavola a quelle monache, et a quelle di S.
Barnabà similmente un'altra.
In Ogni Santi dipinse a fresco nel tramezzo alla porta che va in coro, per i Vespucci, un S.
Agostino, nel quale cercando egli allora di passare tutti coloro ch'al suo tempo dipinsero, ma particolarmente Domenico Ghirlandaio che aveva fatto dall'altra banda un S.
Girolamo, molto s'affaticò; la qual opera riuscì lodatissima per avere egli dimostrato nella testa di quel Santo, quella profonda cogitazione et acutissima sottigliezza, che suole essere nelle persone sensate et astratte continuamente nella investigazione di cose altissime e molto difficili.
Questa pittura, come si è detto nella vita del Ghirlandaio, questo anno 1564 è stata mutata dal luogo suo, salva et intera.
Per il che venuto in credito et in riputazione, dall'Arte di Porta Santa Maria gli fu fatto fare in S.
Marco una incoronazione di Nostra Donna, in una tavola, et un coro d'Angeli, la quale fu molto ben disegnata e condotta da lui.
In casa Medici, a Lorenzo Vecchio lavorò molte cose, e massimamente una Pallade su una impresa di bronconi che buttavano fuoco, la quale dipinse grande quanto il vivo, et ancora un S.
Sebastiano.
In S.
Maria Maggior di Fiorenza è una Pietà con figure piccole, allato alla cappella di Panciatichi, molto bella.
Per la città in diverse case fece tondi di sua mano e femmine ignude assai, delle quali oggi ancora a Castello, villa del duca Cosimo, sono due quadri figurati: l'uno Venere che nasce, e quelle aure e venti, che la fanno venire in terra con gli amori, e così un'altra Venere che le grazie la fioriscono, dinotando la Primavera; le quali da lui con grazia si veggono espresse.
Nella via de' Servi in casa Giovanni Vespucci, oggi di Piero Salviati, fece intorno a una camera molti quadri, chiusi da ornamenti di noce, per ricignimento e spalliera, con molte figure e vivissime e belle.
Similmente in casa Pucci fece di figure piccole la novella del Boccaccio di Nastagio degl'Onesti, in quattro quadri, di pittura molto vaga e bella et in un tondo l'Epifania.
Ne' monaci di Cestello a una cappella fece una tavola d'una Annunziata.
In S.
Pietro Maggiore alla porta del fianco, fece una tavola per Matteo Palmieri con infinito numero di figure, cioè la assunzione di Nostra Donna con le zone de' cieli come son figurate, i Patriarchi, i Profeti, gl'Apostoli, gli Evangelisti, i Martiri, i Confessori, i Dottori, le Vergini e le Gerarchie, e tutto col disegno datogli da Matteo, ch'era litterato e valent'uomo.
La quale opera egli con maestria e finitissima diligenza dipinse; èvvi ritratto appiè Matteo in ginocchioni e la sua moglie ancora.
Ma con tutto che questa opera sia bellissima e ch'ella dovesse vincere la invidia, furono però alcuni malivoli e dettratori, che non potendo dannarla in altro dissero che e Matteo e Sandro gravemente vi avevano peccato in eresia; il che se è vero o non vero, non se ne aspetta il giudizio a me, basta che le figure che Sandro vi fece veramente sono da lodare, per la fatica che e' durò nel girare i cerchi de' cieli e tramezzare tra figure e figure d'Angeli e scorci e vedute in diversi modi diversamente, e tutto condotto con buono disegno.
Fu allogato a Sandro in questo tempo una tavoletta piccola, di figure di tre quarti di braccio l'una, la quale fu posta in S.
Maria Novella fra le due porte, nella facciata principale della chiesa, nell'entrare per la porta del mezzo, a sinistra: et èvvi dentro la adorazione de' Magi; dove si vede tanto affetto nel primo vecchio, che baciando il piede al Nostro Signore e struggendosi di tenerezza, benissimo dimostra avere conseguita la fine del lunghissimo suo viaggio.
E la figura di questo re è il proprio ritratto di Cosimo Vecchio de' Medici, di quanti a' dì nostri se ne ritruovano, il più vivo e più naturale.
Il secondo, che è Giuliano de' Medici, padre di papa Clemente VII, si vede che intensissimo con l'animo, divotamente rende riverenza a quel Putto e gli assegna il presente suo; il terzo, inginocchiato egli ancora, pare che adorandolo gli renda grazie e lo confessi il vero Messia, è Giovanni figliuolo di Cosimo.
Né si può descrivere la bellezza che Sandro mostrò nelle teste che vi si veggono; le quali con diverse attitudini son girate, quale in faccia, quale in proffilo, quale in mezzo occhio, e qual chinata, et in più altre maniere e diversità d'arie di giovani, di vecchi, con tutte quelle stravaganzie che possono far conoscere la perfezzione del suo magisterio; avendo egli distinto le corti di tre re, di maniera che e' si comprende quali siano i servidori dell'uno e quali dell'altro: opera certo mirabilissima; e per colorito, per disegno e per componimento ridotta sì bella, che ogni artefice ne resta oggi maravigliato.
Et allora gli arrecò in Fiorenza e fuori tanta fama che papa Sisto IIII avendo fatto fabricare la cappella in palazzo di Roma e volendola dipignere, ordinò ch'egli ne divenisse capo; onde in quella fece di sua mano le infrascritte storie, cioè quando Cristo è tentato dal diavolo, quando Mosè amazza lo Egizzio, e che riceve bere da le figlie di Ietro Madianite; similmente quando sacrificando i figliuoli di Aron, venne fuoco dal cielo; et acuni santi papi nelle nicchie di sopra alle storie.
Laonde, acquistato fra molti concorrenti che seco lavorarono e Fiorentini e di altre città, fama e nome maggiore, ebbe da 'l Papa buona somma di danari; i quali ad un tempo destrutti e consumati tutti nella stanza di Roma, per vivere a caso come era il solito suo, e finita insieme quella parte che egli era stata allogata e scopertala, se ne tornò subitamente a Fiorenza.
Dove, per essere persona sofistica, comentò una parte di Dante; e figurò lo Inferno e lo mise in stampa, dietro al quale consumò di molto tempo, per il che non lavorando fu cagione di infiniti disordini alla vita sua.
Mise in stampa ancora molte cose sue di disegni che egli aveva fatti, ma in cattiva maniera, perché l'intaglio era mal fatto, onde il meglio che si vegga di sua mano è il trionfo della fede di fra' Girolamo Savonarola da Ferrara: della setta del quale fu in guisa partigiano, che ciò fu causa che egli abbandonando il dipignere e non avendo entrate da vivere, precipitò in disordine grandissimo.
Perciò che, essendo ostinato a quella parte e facendo (come si chiamavano allora) il piagnone, si diviò dal lavorare: onde in ultimo si trovò vecchio e povero, di sorte che se Lorenzo de' Medici mentre che visse, per lo quale, oltre a molte altre cose, aveva assai lavorato allo spedaletto in quel di Volterra, non l'avesse sovvenuto, e poi gl'amici e molti uomini da bene stati affezionati alla sua virtù, si sarebbe quasi morto di fame.
È di mano di Sandro in S.
Francesco, fuor della porta a S.
Miniato, in un tondo una Madonna con alcuni Angeli grandi quanto il vivo, il quale fu tenuto cosa bellissima.
Fu Sandro persona molto piacevole e fece molte burle ai suoi discepoli et amici, onde si racconta che avendo un suo creato, che aveva nome Biagio, fatto un tondo simile al sopradetto appunto, per venderlo, che Sandro lo vendé sei fiorini d'oro a un cittadino, e che trovato Biagio gli disse: "Io ho pur finalmente venduto questa tua pittura, però si vuole stassera appicarla in alto, perché averà miglior veduta e dimattina andare a casa il detto cittadino e condurlo qua, acciò la veggia a buon'aria al luogo suo; poi ti annoveri i contanti".
"O, quanto avete ben fatto maestro mio!", disse Biagio.
E poi, andato a bottega, mise il tondo in luogo assai ben alto e partissi.
In tanto Sandro et Iacopo, che era un altro suo discepolo, fecero di carta otto cappucci a uso di cittadini e con la cera bianca gl'accommodarono sopra le otto teste degl'Angeli, che in detto tondo erano intorno alla Madonna.
Onde venuta la mattina, eccoti Biagio, che ha seco il cittadino che aveva compera la pittura e sapeva la burla, et entrati in bottega alzando Biagio gl'occhi vide la sua Madonna non in mezzo agl'Angeli ma in mezzo alla Signoria di Firenze starsi a sedere fra que' cappucci.
Onde volle cominciare a gridare e scusarsi con colui che l'aveva mercatata, ma vedendo che taceva, anzi lodava la pittura, se ne stette anch'esso.
Finalmente, andato Biagio col cittadino a casa, ebbe il pagamento de' sei fiorini, secondo che dal maestro era stata mercatata la pittura, e poi tornato a bottega, quando a punto Sandro et Iacopo avevano levati i cappucci di carta, vide i suoi Angeli essere Angeli, e non cittadini in cappuccio.
Perché tutto stupefatto non sapeva che si dire, pur finalmente rivolto a Sandro disse: "Maestro mio, io non so se io mi sogno o se gli è vero; questi Angeli quando io venni qua avevano i cappucci rossi in capo et ora non gli hanno, che vuol dir questo?".
"Tu sei
...
[Pagina successiva]