LE VITE DE' PIU' ECCELLENTI PITTORI, SCULTORI, E ARCHITETTORI, di Giorgio Vasari - pagina 361
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Feci oltre ciò nel medesimo tempo molti altri quadri, come a Messer Bernardetto de' Medici, a Messer Bartolomeo Strada fisico eccellente, et a altri miei amici, che non accade ragionarne.
Di que' giorni, essendo morto Gismondo Martelli in Fiorenza, et avendo lasciato per testamento che in S.
Lorenzo alla cappella di quella nobile famiglia si facesse una tavola con la Nostra Donna et alcuni Santi, Luigi e Pandolfo Martelli, insieme con Messer Cosimo Bartoli, miei amicissimi, mi ricercarono che io facessi la detta tavola.
Et avutone licenza dal signor duca Cosimo patrone e primo Operaio di quella chiesa, fui contento di farla, ma con facultà di potervi fare a mio capriccio alcuna cosa di S.
Gismondo, alludendo al nome di detto testatore.
La quale convenzione fatta, mi ricordai avere inteso che Filippo di ser Brunellesco architetto di quella chiesa avea data quella forma a tutte le cappelle, acciò in ciascuna fusse fatta, non una piccola tavola, ma alcuna storia o pittura grande, che empiesse tutto quel vano.
Per che, disposto a volere in questa parte seguire la volontà et ordine del Brunellesco, più guardando all'onore che al picciol guadagno che di quell'opera destinata a far una tavola piccola e con poche figure potea trarre, feci in una tavola larga braccia dieci et alta tredici la storia, o vero martirio di San Gismondo re, cioè quando egli, la moglie e due figliuoli furono gettati in un pozzo da un altro re, o vero tiranno, e feci che l'ornamento di quella cappella, il quale è mezzo tondo, mi servisse per vano della porta d'un gran palazzo, rustica, per la quale si avesse la veduta del cortile quadro, sostenuto da pilastri e colonne doriche, e finsi che per lo straforo di quella si vedesse nel mezzo un pozzo a otto facce, con salita intorno di gradi, per i quali salendo i ministri, portassono a gettare detti due figliuoli nudi nel pozzo; et intorno nelle logge dipinsi popoli che stanno da una parte a vedere quell'orrendo spettacolo, e nell'altra, che è la sinistra, feci alcuni masnadieri, i quali avendo presa con fierezza la moglie del re, la portano verso il pozzo per farla morire.
Et in sulla porta principale feci un gruppo di soldati che legano San Gismondo, il quale con attitudine relassata e paziente mostra patir ben volentieri quella morte e martirio, e sta mirando in aria quattro Angeli che gli mostrano le palme e corone del martirio, sue, della moglie e de' figliuoli, la qual cosa pare che tutto il riconforti e consoli.
Mi sforzai similmente di mostrare la crudeltà e fierezza dell'empio tiranno, che sta in sul pian del cortile di sopra a vedere quella sua vendetta e la morte di San Gismondo.
Insomma, quanto in me fu, feci ogni opera che in tutte le figure fussero più che si può i proprii affetti e convenienti attitudini e fierezze, e tutto quello si richiedeva; il che quanto mi riuscisse, lascerò ad altri farne giudizio.
Dirò bene che io vi misi quanto potei e seppi di studio, fatica e diligenza.
Intanto disiderando il signor duca Cosimo che il libro delle vite, già condotto quasi al fine, con quella maggior diligenza che a me era stato possibile e con l'aiuto d'alcuni miei amici, si desse fuori et alle stampe, lo diedi a Lorenzo Torrentino impressor ducale, e così fu cominciato a stamparsi.
Ma non erano anche finite le teoriche, quando, essendo morto papa Paulo Terzo, cominciai a dubitare d'avermi a partire di Fiorenza, prima che detto libro fusse finito di stampare.
Perciò che andando io fuor di Fiorenza ad incontrare il cardinal di Monte, che passava per andare al Conclavi, non gli ebbi sì tosto fatto riverenza et alquanto ragionato, che mi disse: "Io vo a Roma, et al sicuro sarò papa.
Spedisciti, se hai che fare, e subito, avuto la nuova, vientene a Roma sanza aspettare altri avvisi o d'essere chiamato".
Né fu vano cotal pronostico, però che essendo quel carnovale in Arezzo, e dandosi ordine a certe feste e mascherate, venne nuova che il detto cardinale era diventato Giulio Terzo, per che montato subito a cavallo venni a Fiorenza, donde, sollecitato dal Duca, andai a Roma per esservi alla coronazione di detto nuovo Pontefice et al fare dell'apparato.
E così giunto in Roma e scavalcato a casa Messer Bindo, andai a far reverenza e baciare il piè a Sua Santità il che fatto, le prime parole che mi disse furono il ricordarmi che quello che mi aveva di sé pronosticato non era stato vano.
Poi dunque che fu coronato e quietato alquanto, la prima cosa che volle si facesse si fu sodisfare a un obligo, che aveva alla memoria di Messer Antonio vecchio e primo cardinal di Monte, d'una sepoltura da farsi a S.
Piero a Montorio.
Della quale fatti i modelli e disegni, fu condotta di marmo, come in altro luogo s'è detto pienamente, et in tanto io feci la tavola di quella cappella, dove dipinsi la conversione di S.
Paulo: ma per variare da quello che avea fatto il Buonarruoto nella Paulina, feci S.
Paulo, come egli scrive, giovane che già cascato da cavallo è condotto dai soldati ad Anania cieco, dal quale per imposizione delle mani riceve il lume degl'occhi perduto et è battezzato.
Nella quale opera, o per la strettezza del luogo, o altro che ne fusse cagione, non sodisfeci interamente a me stesso, se bene forse ad altri non dispiacque, et in particolare a Michelagnolo.
Feci similmente a quel Pontefice un'altra tavola per una cappella del palazzo, ma questa, per le cagioni dette altra volta, fu poi da me condotta in Arezzo e posta in Pieve all'altar maggiore.
Ma quando né in questa, né in quella già detta di S.
Piero a Montorio, io non avessi pienamente sodisfatto né a me, né ad altri, non sarebbe gran fatto, imperò che, bisognandomi essere continuamente alla voglia di quel Pontefice, era sempre in moto, o vero occupato in far disegni d'architettura, e massimamente essendo io stato il primo che disegnasse e facesse tutta l'invenzione della vigna Iulia, che egli fece fare con spesa incredibile, la quale se bene fu poi da altri essequita, io fui nondimeno quegli che misi sempre in disegno i capricci del Papa, che poi si diedero a rivedere e correggere a Michelagnolo; et Iacopo Barozzi da Vignuola finì con molti suoi disegni le stanze, sale et altri molti ornamenti di quel luogo.
Ma la fonte bassa fu d'ordine mio e dell'Amannato, che poi vi restò e fece la loggia che è sopra la fonte.
Ma in quell'opera non si poteva mostrare quello che altri sapesse, né far alcuna cosa pel verso, perciò che venivano di mano in mano a quel Papa nuovi capricci, i quali bisognava metter in essecuzione, secondo che ordinava giornalmente Messer Piergiovanni Aliotti, vescovo di Forlì.
In quel mentre, bisognandomi l'anno 1550 venire per altro a Fiorenza ben due volte, la prima finii la tavola di San Gismondo, la quale venne il Duca a vedere in casa Messer Ottaviano de' Medici dove la lavorai, e gli piacque di sorte, che mi disse, finite le cose di Roma, me ne venissi a Fiorenza al suo servizio, dove mi sarebbe ordinato quello avessi da fare.
Tornato dunque a Roma e dato fine alle dette opere cominciate, e fatta una tavola all'altar maggiore della Compagnia della Misericordia di un San Giovanni decollato, assai diverso dagl'altri che si fanno comunemente, la quale posi su l'anno 1553, me ne volea tornare, ma fui forzato, non potendogli mancare, a fare a Messer Bindo Altoviti due logge grandissime di stucchi et a fresco.
Una delle quali dipinsi alla sua vigna con nuova architettura, perché essendo la loggia tanto grande che non si poteva senza pericolo girarvi le volte, le feci fare con armadure di legname, di stuoie, di canne, sopra le quali si lavorò di stucco, e dipinse a fresco come se fussero di muraglia, e per tale appariscono e son credute da chiunque le vede, e son rette da molti ornamenti di colonne di mischio, antiche e rare; e l'altra nel terreno della sua casa in ponte, piena di storie a fresco.
E dopo per lo palco d'una anticamera quattro quadri grandi a olio delle quattro stagioni dell'anno, e questi finiti fui forzato ritrarre per Andrea della Fonte mio amicissimo una sua donna di naturale, e con esso gli diedi un quadro grande d'un Cristo che porta la croce, con figure naturali, il quale aveva fatto per un parente del Papa, al quale non mi tornò poi bene di donarlo.
Al vescovo di Vasona feci un Cristo morto tenuto da Niccodemo e da due Angeli, et a Pierantonio Bandini una Natività di Cristo col lume della notte e con varia invenzione.
Mentre io faceva quest'opere e stava pure a vedere quello che il Papa disegnasse di fare, vidi finalmente che poco si poteva da lui sperare, e che in vano si faticava in servirlo.
Per che, non ostante che io avessi già fatto i cartoni per dipignere a fresco la loggia che è sopra la fonte di detta vigna, mi risolvei a volere per ogni modo venire a servire il duca di Fiorenza; massimamente, essendo a ciò fare sollecitato da Messer Averardo Serristori e dal vescovo de' Ricasoli, ambasciatori in Roma di sua eccellenza, e con lettere da Messer Sforza Almeni suo coppiere e primo cameriere.
Essendo dunque trasferitomi in Arezzo, per di lì venirmene a Fiorenza, fui forzato fare a monsignor Minerbetti vescovo di quella città, come a mio signore et amicissimo, in un quadro, grande quanto il vivo, la Pacienza, in quel modo che poi se n'è servito per impresa e riverso della sua medaglia il signor Ercole duca di Ferrara.
La quale opera finita, venni a baciar la mano al signor duca Cosimo, dal quale fui per sua benignità veduto ben volentieri; et in tanto che s'andò pensando a che primamente io dovessi por mano, feci fare a Cristofano Gherardi dal Borgo con miei disegni la facciata di Messer Sforza Almeni di chiaro scuro, in quel modo e con quelle invenzioni che si son dette in altro luogo distesamente.
E perché in quel tempo mi trovavo essere de' signori priori della città di Arezzo, ofizio che governa la città, fui con lettere del signor Duca chiamato al suo servizio et assoluto da quello obligo; e venuto a Fiorenza trovai che sua eccellenza aveva cominciato quell'anno a murare quell'appartamento del suo palazzo che è verso la piazza del Grano con ordine del Tasso intagliatore et allora architetto del palazzo; ma era stato posto il tetto tanto basso, che tutte quelle stanze avevano poco sfogo et erano nane affatto, ma perché l'alzare i cavagli et il tetto era cosa lunga, consigliai che si facesse uno spartimento e ricinto di travi con sfondati grandi di braccia due e mezzo fra i cavagli del tetto, e con ordine di mensole per lo ritto che facessono fregiatura circa a due braccia sopra le travi; la qual cosa piacendo molto a sua eccellenza, diede ordine subito che così si facesse, e che il Tasso lavorasse i legnami et i quadri, dentro ai quali si aveva a dipignere la geneologia degli dei, per poi seguitare l'altre stanze.
Mentre dunque che si lavoravano i legnami di detti palchi, avuto licenza dal Duca, andai a starmi due mesi fra Arezzo e Cortona, parte per dar fine ad alcuni miei bisogni e parte per fornire un lavoro in fresco cominciato in Cortona nelle facciate e volta della Compagnia del Gesù.
Nel qual luogo feci tre istorie della vita di Gesù Cristo, e tutti i sacrificii stati fatti a Dio nel Vecchio Testamento da Caino et Abel infino a Nemia profeta, dove anche in quel mentre accomodai di modelli e disegni la fabrica della Madonna Nuova fuor della città.
La quale opera del Gesù finita, tornai a Fiorenza con tutta la famiglia l'anno 1555, al servizio del duca Cosimo; dove cominciai e finii i quadri e le facciate et il palco di detta sala di sopra chiamata degli Elementi, facendo nei quadri, che sono undici, la castrazione di Cielo per l'Aria, et in un terrazzo a canto a detta sala feci nel palco i fatti di Saturno e di Opi, e poi nel palco d'un'altra camera grande tutte le cose di Cerere e Proserpina; in una camera maggiore, che è allato a questa, similmente nel palco, che è ricchissimo, istorie della dea Berecinzia e di Cibele col suo trionfo e le 4 stagioni, e nelle facce tutti e dodici mesi.
Nel palco d'un'altra, non così ricca, il nascimento di Giove, il suo essere nutrito dalla capra Alfea, col rimanente dell'altre cose di lui più segnalate.
In un altro terrazzo a canto alla medesima stanza, molto ornato di pietre e di stucchi, altre cose di Giove e Giunone.
E finalmente nella camera che segue il nascere d'Ercole con tutte le sue fatiche, e quello che non si poté mettere nel palco si mise nelle fregiature di ciascuna stanza, o si è messo ne' panni d'arazzo che il signor Duca ha fatto tessere con mia cartoni a ciascuna stanza, corrispondenti alle pitture delle facciate in alto.
Non dirò delle grottesche, ornamenti e pitture di scale, né altre molte minuzie fatte di mia mano in quello apparato di stanze, perché oltre che spero se n'abbia a fare altra volta più lungo ragionamento, le può vedere ciascuno a sua voglia e darne giudizio.
Mentre di sopra si dipignevano queste stanze, si murarono l'altre che sono in sul piano della sala maggiore e rispondono a queste per dirittura a piombo, con gran comodi di scale publiche e secrete che vanno dalle più alte alle più basse abitazioni del palazzo.
Morto intanto il Tasso, il Duca, che aveva grandissima voglia che quel palazzo, stato murato a caso et in più volte in diversi tempi e più a comodo degl'ufiziali che con alcuno buon ordine, si correggesse, si risolvé a volere che per ogni modo, secondo che possibile era, si rassettasse, e la sala grande col tempo si dipignesse, et il Bandinello seguitasse la cominciata udienza.
Per dunque accordare tutto il palazzo insieme, cioè il fatto con quello che s'aveva da fare, mi ordinò che io facessi più piante e disegni, e finalmente, secondo che alcune gl'erano piaciute, un modello di legname, per meglio potere a suo senno andare accomodando tutti gl'appartamenti, e dirizzare e mutar le scale vecchie che gli parevano erte, mal considerate e cattive.
Alla qual cosa, ancor che impresa difficile e sopra le forze mi paresse, misi mano, e condussi, come seppi il meglio, un grandissimo modello, che è oggi appresso sua eccellenza, più per ubbidirla che con speranza mi avesse da riuscire.
Il quale modello, finito che fu, o fusse sua o mia ventura, o il disiderio grandissimo che io aveva di sodisfare, gli piacque molto; per che, dato mano a murare, a poco a poco si è condotto, facendo ora una cosa e quando un'altra, al termine che si vede.
Et in tanto che si fece il rimanente, condussi con ricchissimo lavoro di stucchi in varii spartimenti le prime otto stanze nuove, che sono in sul piano della gran sala, fra salotti, camere et una cappella, con varie pitture et infiniti ritratti di naturale che vengono nelle istorie, cominciando da Cosimo Vecchio, e chiamando ciascuna stanza dal nome d'alcuno disceso da lui grande e famoso.
In una adunque sono l'azzioni del detto Cosimo più notabili, e quelle virtù che più furono sue proprie, et i suoi maggiori amici e servitori, col ritratto de' figliuoli, tutti di naturale; e così sono insomma quella di Lorenzo Vecchio, quella di papa Leone suo figliuolo, quella di papa Clemente, quella del signor Giovanni padre di sì gran Duca, quella di esso signor duca Cosimo.
Nella cappella è un bellissimo e gran quadro di mano di Raffaello da Urbino, in mezzo a S.
Cosimo e Damiano mie pitture, nei quali è detta cappella intitolata; così delle stanze poi di sopra dipinte alla signora duchessa Leonora, che sono quattro, sono azzioni di donne illustri, greche, ebree, latine e toscane, a ciascuna camera una di queste; perché oltre che altrove n'ho ragionato, se ne dirà pienamente nel Dialogo che tosto daremo in luce, come s'è detto, che il tutto qui raccontare sarebbe stato troppo lungo.
Delle quali mie fatiche ancora che continue, difficili e grandi, ne fui dalla magnanima liberalità di sì gran Duca, oltre alle provisioni, grandemente e largamente rimunerato con donativi, e di case onorate e comode in Fiorenza et in villa, perché io potessi più agiatamente servirlo; oltre che nella patria mia d'Arezzo mi ha onorato del supremo magistrato del Gonfalonieri et altri ufizii con facultà che io possa sostituire in quegli un de' cittadini di quel luogo, senza che a ser Piero mio fratello ha dato in Fiorenza ufizi d'utile, e parimente a' mia parenti d'Arezzo favori eccessivi, là dove io non sarò mai per le tante amorevolezze sazio di confessar l'obligo che io tengo con questo signore.
E tornando all'opere mie dico che pensò questo eccellentissimo signore di mettere ad esecuzione un pensiero avuto già gran tempo, di dipignere la sala grande, concetto degno della altezza e profondità dell'ingegno suo, né so se, come dicea, credo burlando meco, perché pensava certo che io ne caverei le mani, et a' dì suoi la vederebbe finita, o pur fusse qualche altro suo segreto, e, come sono stati tutti e' suoi, prudentissimo giudizio.
L'effetto insomma fu che mi commesse che si alzassi i cavalli et il tetto più di quel che gl'era braccia tredici, e si facessi il palco di legname, e si mettessi d'oro, e dipignessi pien di storie a olio: impresa grandissima, importantissima e se non sopra l'animo forse sopra le forze mie; ma o che la fede di quel gran signore, e la buona fortuna che gl'ha in tutte le cose, mi facessi da più di quel che io sono, o che la speranza e l'occasione di sì bel suggetto mi agevolassi molto di facultà, o che (e questo dovevo preporre a ogn'altra cosa) la grazia di Dio mi somministrassi le forze, io la presi.
E come si è veduto la condussi contra l'openione di molti in molto manco tempo, non solo che io avevo promesso e che meritava l'opera, ma neanche io, o pensassi mai sua eccellenza illustrissima.
Ben mi penso che ne venissi maravigliata e sodisfattissima, perché venne fatta al maggior bisogno et alla più bella occasione che gli potessi occorrere, e questa fu, acciò si sappia la cagione di tanta sollecitudine, che avendo prescritto il maritaggio che si trattava dello illustrissimo Principe nostro con la figliuola del passato Imperatore, e sorella del presente, mi parve debito mio far ogni sforzo che in tempo et occasione di tanta festa, questa che era la principale stanza del palazzo, e dove si avevano a far gli atti più importanti, si potessi godere.
E qui lascerò pensare non solo a chi è dell'arte, ma a chi è fuora ancora pur che abbi veduto la grandezza e varietà di quell'opera, la quale occasione terribilissima e grande, doverrà scusarmi se io non avessi per cotal fretta satisfatto pienamente in una varietà così grande di guerre in terra et in mare, espugnazioni di città, batterie, assalti, scaramuccie, edificazioni di città, consigli publici, cerimonie antiche e moderne, trionfi, e tante altre cose che non che altro gli schizzi, disegni e cartoni di tanta opera richiedevano lunghissimo tempo, per non dir nulla de' corpi ignudi, nei quali consiste la perfezzione delle nostre arti, né de' paesi dove furono fatte le dette cose dipinte, i quali ho tutti avuto a ritrarre di naturale in sul luogo e sito proprio, sì come ancora ho fatto molti capitani generali, soldati et altri capi che furono in quelle imprese che ho dipinto.
Et insomma ardirò dire che ho avuto occasione di fare in detto palco quasi tutto quello che può credere pensiero e concetto d'uomo, varietà di corpi, visi, vestimenti, abigliamenti, celate, elmi, corazze, acconciature di capi diverse, cavalli, fornimenti, barde, artiglierie d'ogni sorte, navigazioni, tempeste, pioggie, nevate, e tante altre cose che io non basto a ricordarmene, ma chi vede quest'opera può agevolmente immaginarsi quante fatiche e quante vigilie abbia sopportato in fare con quanto studio ho potuto maggiore, circa quaranta storie grandi, et alcune di loro in quadri di braccia dieci per ogni verso, con figure grandissime, et in tutte le maniere.
E se bene mi hanno alcuni de' giovani miei creati aiutato, mi hanno alcuna volta fatto commodo et alcuna no.
Perciò che ho avuto tallora, come sanno essi, a rifare ogni cosa di mia mano, e tutta ricoprire la tavola, perché sia d'una medesima maniera.
Le quali storie dico trattano delle cose di Fiorenza, dalla sua edificazione insino a oggi, la divisione in quartieri, le città sottoposte, nemici superati, città soggiogate, et in ultimo il principio e fine della guerra di Pisa, da uno de' lati, e dall'altro il principio similmente e fine di quella di Siena; una dal governo popolare condotta et ottenuta nello spazio di quattordici anni, e l'altra dal Duca in quattordici mesi, come si vedrà; oltre quello che è nel palco, e sarà nelle facciate, che sono ottanta braccia lunghe ciascuna et alte venti, che tuttavia vo dipignendo a fresco, per poi anco di ciò poter ragionare in detto Dialogo.
Il che tutto ho voluto dire in fin qui non per altro che per mostrare con quanta fatica mi sono adoperato et adopero tuttavia nelle cose dell'arte, e con quante giuste cagioni potrei scusarmi, dove in alcuna avessi (che credo avere in molte) mancato.
Aggiugnerò anco, che quasi nel medesimo tempo, ebbi carico di disegnare tutti gl'archi da mostrarsi a sua eccellenza per determinare l'ordine tutto, e poi mettere gran parte in opera, e far finire il già detto grandissimo apparato, fatto in Fiorenza per le nozze del signor principe illustrissimo: di far fare con miei disegni in dieci quadri, alti braccia quattordici l'uno et undici larghi, tutte le piazze delle città principali del dominio, tirate in prospettiva, con i loro primi edificatori et insegne, oltre di far finire la testa di detta sala, cominciata dal Bandinello; di far fare nell'altra una scena, la maggiore e più ricca che fusse da altri fatta mai, e finalmente di condurre le scale principali di quel palazzo, i loro ricetti, et il cortile, e colonne in quel modo che sa ognuno e che si è detto di sopra, con quindici città dell'imperio e del Tiruolo, ritratte di naturale in tanti quadri.
Non è anche stato poco il tempo che ne' medesimi tempi ho messo in tirare innanzi, da che prima la cominciai, la loggia e grandissima fabrica de' magistrati, che volta sul fiume d'Arno, della quale non ho mai fatto murare altra cosa più difficile, né più pericolosa, per essere fondata in sul fiume e quasi in aria.
Ma era necessaria, oltre all'altre cagioni, per appiccarvi, come si è fatto, il gran corridore, che attraversando il fiume, va dal palazzo ducale al palazzo e giardino de' Pitti.
Il quale corridore fu condotto in cinque mesi con mio ordine e disegno ancor che sia opera da pensare che non potesse condursi in meno di cinque anni.
Oltre che anco fu mia cura il far rifare, per le medesime nozze, et accrescere nella tribuna maggiore di Santo Spirito i nuovi ingegni della festa che già si faceva in San Felice in Piazza, il che tutto fu ridotto a quella perfezzione che si poteva maggiore, onde non si corrono più di que' pericoli che già si facevano in detta festa.
È stata similmente mia cura l'opera del palazzo e chiesa de' cavalieri di Santo Stefano in Pisa, e la tribuna, o vero cupola della Madonna dell'Umiltà in Pistoia, che è opera importantissima.
Di che tutto, senza scusare la mia imperfezzione, la quale conosco da vantaggio se cosa ho fatto di buono, rendo infinite grazie a Dio, dal quale spero avere anco tanto d'aiuto che io vedrò quando che sia finita la terribile impresa delle dette facciate della sala, con piena sodisfazione de' miei signori, che già, per ispazio di tredici anni, mi hanno dato occasione di grandissime cose, con mio onore et utile operare, per poi, come stracco, logoro et invecchiato riposarmi.
E se le cose dette, per la più parte, ho fatto con qualche fretta e prestezza, per diverse cagioni, questa spero io di fare con mio commodo, poi che il signor Duca si contenta che io non la corra, ma la faccia con agio, dandomi tutti quei riposi e quelle ricreazioni che io medesimo so disiderare.
Onde l'anno passato, essendo stracco per le molte opere sopra dette, mi diede licenza che io potessi alcuni mesi andare a spasso, per che messomi in viaggio cercai poco meno che tutta Italia, rivedendo infiniti amici, e miei signori, e l'opere di diversi eccellenti artefici, come ho detto di sopra ad altro proposito.
In ultimo essendo in Roma per tornarmene a Fiorenza, nel baciare i piedi al santissimo e beatissimo papa Pio Quinto, mi comise che io gli facessi in Fiorenza una tavola per mandarla al suo convento e chiesa del Bosco, ch'egli faceva tuttavia edificare nella sua patria, vicino ad Alessandria della Paglia.
Tornato dunque a Fiorenza, e per averlomi Sua Santità comandato, e per le molte amorevolezze fattemi, gli feci, sì come avea commessomi, in una tavola l'Adorazione de' Magi, la quale come seppe essere stata da me condotta a fine, mi fece intendere che per sua contentezza e per conferirmi alcuni suoi pensieri, io andassi con la detta tavola a Roma, ma sopra tutto per discorrere sopra la fabrica di San Piero, la quale mostra di avere a cuore sommamente.
Messomi dunque a ordine con cento scudi, che per ciò mi mandò, e mandata innanzi la tavola, andai a Roma.
Dove, poi che fui dimorato un mese, et avuti molti ragionamenti con Sua Santità, e consigliatolo a non permettere che s'alterasse l'ordine del Buonarruoto nella fabrica di San Piero, e fatti alcuni disegni, mi ordinò che io facessi per l'altar maggiore della detta sua chiesa del Bosco, e non una tavola, come s'usa comunemente, ma una machina grandissima quasi a guisa d'arco trionfale, con due tavole grandi, una dinanzi et una di dietro, et in pezzi minori circa trenta storie piene di molte figure che tutte sono a bonissimo termine condotte.
Nel qual tempo ottenni graziosamente da Sua Santità (mandandomi con infinita amorevolezza e favore le bolle espedite gratis) la erezione d'una cappella e decanato nella Pieve d'Arezzo, che è la cappella maggiore di detta Pieve, con mio padronato e della casa mia, dotata da me e di mia mano dipinta, et offerta alla bontà divina per una ricognizione (ancor che minima sia) del grande obligo c'ho con sua maiestà per infinite grazie e benefizii che s'è degnato farmi.
La tavola della quale, nella forma, è molto simile alla detta di sopra; il che è stato anche cagione in parte di ridurlami a memoria, perché è isolata et ha similmente due tavole, una già tocca di sopra nella parte dinanzi, et una della istoria di S.
Giorgio di dietro, messe in mezzo da quadri con certi Santi, e sotto in quadretti minori l'istorie loro che di quanto è sotto l'altare in una bellissima tomba i corpi loro con altre reliquie principali della città.
Nel mezzo viene un tabernacolo assai bene accomodato per il Sacramento, perché corrisponde a l'uno e l'altro altare, abellito di istorie del Vecchio e Nuovo Testamento, tutte approposito di quel misterio, come in parte s'è ragionato altrove.
Mi era anche scordato di dire che l'anno innanzi, quando andai la prima volta a baciargli i piedi, feci la via di Perugia, per mettere a suo luogo tre gran tavole fatte ai monaci neri di San Piero in quella città, per un loro refettorio.
In una cioè quella del mezzo sono le nozze di Cana Galilea, nelle quali Cristo fece il miracolo di convertire l'acqua in vino.
Nella seconda da man destra è Eliseo profeta, che fa diventar dolce con la farina l'amarissima olla, i cibi della quale guasti dalle coloquinte i suoi Profeti non potevano mangiare; e nella terza è S.
Benedetto, al quale annunziando un converso, in tempo di grandissima carestia e quando a punto mancava da vivere ai suoi monaci, che sono arrivati alcuni camelli carichi di farina alla porta, e' vede che gl'Angeli di Dio gli conducevano miracolosamente grandissima quantità di farina.
Alla signora Gentilina, madre del signor Chiappino e signor Paulo Vitelli, dipinsi in Fiorenza, e di lì le mandai a Città di Castello, una gran tavola, in cui è la coronazione di Nostra Donna, in alto un ballo d'Angeli, et a basso molte figure maggiori del vivo, la qual tavola fu posta in San Francesco di detta città.
Per la chiesa del Poggio a Caiano, villa del signor Duca, feci in una tavola Cristo morto in grembo alla madre, San Cosimo e San Damiano che lo contemplano, et un Angelo in aria, che piangendo mostra i misterii della Passione di esso Nostro Salvatore.
E nella chiesa del Carmine di Fiorenza fu posta, quasi ne' medesimi giorni, una tavola di mia mano nella cappella di Matteo e Simon Botti, miei amicissimi, nella quale è Cristo crucifisso, la Nostra Donna, San Giovanni e la Madalena, che piangono.
Dopo a Iacopo Capponi feci, per mandare in Francia, due gran quadri: in uno è la Primavera e nell'altro l'Autunno, con figure grandi e nuove invenzioni; et in un altro quadro maggiore un Cristo morto sostenuto da due Angeli e Dio Padre in alto.
Alle monache di Santa Maria Novella d'Arezzo mandai, pur di que' giorni, o poco avanti, una tavola, dentro la quale è la Vergine annunziata dall'Angelo, e dagli lati due Santi; et alle monache di Luco di Mugello, dell'Ordine di Camaldoli, un'altra tavola, che è nel loro coro di dentro, dove è Cristo crucifisso, la Nostra Donna, San Giovanni e Maria Madalena.
A Luca Torrigiani molto mio amorevolissimo e domestico, il quale desiderando, fra molte cose che ha dell'arte nostra, avere una pittura di mia mano propria, per tenerla appresso di sé, gli feci in un gran quadro Venere ignuda, con le tre Grazie attorno, che una gli acconcia il capo, l'altra gli tiene lo specchio e l'altra versa acqua in un vaso per lavarla; la qual pittura m'ingegnai condurla col maggiore studio e diligenza che io potei, sì per contentare non meno l'animo mio, che quello di sì caro e dolce amico.
Feci ancora a Antonio de' Nobili generale depositario di sua eccellenza e molto mio affezionato, oltre a un suo ritratto, sforzato contro alla natura mia di farne, una testa di Gesù Cristo, cavata dalle parole che Lentulo scrive della effigie sua, che l'una e l'altra fu fatta con diligenzia; e parimente un'altra alquanto maggiore, ma simile alla detta al signor Mondragone, primo oggi appresso a don Francesco de' Medici principe di Fiorenza e Siena, quale donai a sua signoria per esser egli molto affezionato alle virtù e nostre arti, a cagione che e' possa ricordarsi quando la vede che io lo amo e gli sono amico.
Ho ancora fra mano che spero finirlo presto un gran quadro cosa capricciosissima che deve servire per il signore Antonio Montalvo signore della Sassetta, degnamente primo cameriere e più intrinseco al Duca nostro e tanto a me amicissimo e dolce domestico amico per non dir superiore, che se la mano mi servirà alla voglia ch'io tengo di lasciargli di mia mano un pegno della affezione che io le porto, si conoscerà quanto io lo onori et abbia caro che la memoria di sì onorato e fedel signore amato da me, viva ne' posteri, poiché egli volentieri si affatica e favorisce tutti e' begli ingegni di questo mestiero o che si dilettino del disegno.
Al signor principe don Francesco ho fatto ultimamente due quadri, che ha mandati a Tolledo in Ispagna a una sorella della signora duchessa Leonora sua madre, e per sé un quadretto piccolo a uso di minio, con quaranta figure fra grandi e piccole, secondo una sua bellissima invenzione.
A Filippo Salviati ho finita, non ha molto, una tavola che va a Prato nelle suore di San Vincenzio, dove in alto è la Nostra Donna coronata, come allora giunta in cielo, et a basso gl'Apostoli intorno al sepolcro.
Ai monaci neri della Badia di Fiorenza dipingo similmente una tavola, che è vicina al fine, d'una Assunzione di Nostra Donna, e gl'Apostoli in figure maggiori del vivo, con altre figure dalle bande, e storie et ornamenti intorno, in nuovo modo accomodati.
E perché il signor Duca, veramente in tutte le cose eccellentissimo, si compiace non solo nell'edificazioni de' palazzi, città, fortezze, porti, logge, piazze, giardini, fontane, villaggi, et altre cose somiglianti, belle, magnifiche et utilissime, e comodo de' suoi popoli, ma anco sommamente in far di nuovo e ridurre a miglior forma e più bellezza, come catolico prencipe, i tempii e le sante chiese di Dio, a imitazione del gran re Salamone, ultimamente ha fattomi levare il tramezzo della chiesa di Santa Maria Novella, che gli toglieva tutta la sua bellezza, e fatto un nuovo coro e ricchissimo dietro l'altare maggiore, per levar quello che occupava nel mezzo gran parte di quella chiesa; il che fa parere quella una nuova chiesa bellissima, come è veramente.
E perché le cose, che non hanno fra loro ordine e proporzione, non possono eziandio essere belle interamente, ha ordinato che nelle navate minori si facciano, in guisa che corrispondano al mezzo degl'archi, e fra colonna e colonna, ricchi ornamenti di pietre con nuova foggia, che servino con i loro altari in mezzo per cappelle e sieno tutte d'una o due maniere.
E che poi nelle tavole che vanno dentro a' detti ornamenti, alte braccia sette e larghe cinque, si facciano le pitture a volontà e piacimento de' padroni di esse cappelle.
In uno dunque di detti ornamenti di pietra, fatti con mio disegno, ho fatto per monsignor reverendissimo Alessandro Strozzi vescovo di Volterra, mio vecchio et amorevolissimo padrone, un Cristo crucifisso, secondo la visione di Santo Anselmo, cioè con sette virtù, senza le quali non possiamo salire per sette gradi a Gesù Cristo, et altre considerazioni fatte dal medesimo maestro Andrea Pasquali, medico del signor Duca, ho fatto in uno di detti ornamenti la Ressurrezione di Gesù Cristo in quel modo che Dio mi ha inspirato, per compiacere esso maestro Andrea mio amicissimo.
Il medesimo ha voluto che si faccia questo gran Duca nella chiesa grandissima di Santa Croce di Firenze: cioè che si lievi il tramezzo, si faccia il coro dietro l'altar maggiore, tirando esso altare alquanto innanzi e ponendovi sopra un nuovo ricco tabernacolo per lo Santissimo Sacramento, tutto ornato d'oro, di storie e di figure; et oltre ciò, che nel medesimo modo che si è detto di Santa Maria Novella, vi si faccino quattordici cappelle a canto al muro, con maggior spesa et ornamento che le su dette, per essere questa chiesa molto maggiore che quella.
Nelle quali tavole, accompagnando le due del Salviati e Bronzino, ha da essere tutti i principali misterii del Salvatore dal principio della sua Passione insino a che manda lo Spirito Santo sopra gl'Apostoli.
La quale tavola della missione dello Spirito Santo, avendo fatto il disegno delle cappelle et ornamenti di pietre, ho io fra mano per Messer Agnolo Biffoli generale tesauriere di questi signori e mio singolare amico.
Ho finito non è molto due quadri grandi, che sono nel magistrato de' nove conservadori a canto a San Piero Scheraggio, in uno è la testa di Cristo e nell'altro una Madonna.
Ma perché troppo sarei lungo a volere minutamente raccontare molte altre pitture, disegni che non hanno numero, modelli e mascherate che ho fatto, e perché questo è a bastanza e da vantaggio, non dirò di me altro, se non che per grandi e d'importanza che sieno state le cose che ho messo sempre innanzi al duca Cosimo, non ho mai potuto aggiugnere, non che superare la grandezza dell'animo suo, come chiaramente vedrassi in una terza sagrestia, che vuol fare a canto a San Lorenzo, grande e simile a quella che già vi fece Michelagnolo, ma tutta di varii marmi mischi e musaico, per dentro chiudervi, in sepolcri onoratissimi e degni della sua potenza e grandezza, l'ossa de' suoi morti figliuoli, del padre, madre, della magnanima duchessa Leonora sua consorte e di sé.
Di che ho io già fatto un modello a suo gusto, e secondo che da lui mi è stato ordinato, il quale mettendosi in opera farà questa essere un nuovo mausoleo magnificentissimo e veramente reale.
E fin qui basti aver parlato di me, condotto con tante fatiche nella età d'anni cinquantacinque, e per vivere quanto piacerà a Dio con suo onore et in servizio sempre delli amici e quanto le mie forze potranno in uno commodo et augumento di queste nobilissime arti.
FINE DELLA VITA DI G.
V., PITTORE ET ARCHITETTO ARETINO
L'AUTORE AGL'ARTEFICI DEL DISEGNO
Onorati e nobili artefici, a pro e comodo de' quali principalmente io a così lunga fatica, la seconda volta messo mi sono, io mi veggio, col favore et aiuto della divina grazia, avere quello compiutamente fornito che io nel principio della presente mia fatica promisi di fare.
Per la qual cosa Iddio primieramente et appresso i miei signori ringraziando, che mi hanno onde io abbia ciò potuto fare comodamente conceduto, è da dare alla penna et alla mente faticata riposo, il che farò tosto che arò detto alcune cose brievemente.
Se adunque paresse ad alcuno che, talvolta, in scrivendo fussi stato anzi lunghetto et alquanto prolisso, l'avere io voluto più che mi sia stato possibile essere chiaro, e davanti altrui mettere le cose in guisa, che quello che non s'è inteso, o io non ho saputo dire così alla prima, sia per ogni modo manifesto.
E se quello che una volta si è detto è talora stato in altro luogo replicato, di ciò due sono state le cagioni: l'avere così richiesto la materia di cui si tratta, e l'avere io nel tempo che ho rifatta e si è l'opera ristampata, interrotto più d'una fiata per ispazio non dico di giorni, ma di mesi, lo scrivere, o per viaggi, o per soprabondanti fatiche, opere di pitture, disegni e fabriche; sanzaché a un par mio (il confesso liberamente) è quasi impossibile guardarsi da tutti gl'errori.
A coloro ai quali paresse che io avessi alcuni o vecchi o moderni troppo lodato, e che facendo comparazione da essi vecchi a quelli di questa età, se ne ridessero, non so che altro mi rispondere se non che intendo avere sempre lodato non semplicemente, ma, come s'usa dire, secondo che et avuto rispetto ai luoghi, tempi et altre somiglianti circonstanze; e nel vero, come che Giotto fusse, poniam caso, ne' suoi tempi lodatissimo, non so quello che di lui e d'altri antichi si fusse detto, se fussi stato al tempo del Buonarruoto; oltre che gl'uomini di questo secolo, il quale è nel colmo della perfezzione, non sarebbono nel grado che sono, se quelli non fussero prima stati tali e quel che furono innanzi a noi, et insomma credasi che quello che ho fatto in lodare, o biasimare, non l'ho fatto malagevolmente, ma solo per dire il vero, o quello che ho creduto che vero sia.
Ma non si può sempre aver in mano la bilancia dell'orefice, e chi ha provato che cosa è lo scrivere, e massimamente dove si hanno a fare comparazioni, che sono di loro natura odiose, o dar giudizio, mi averà per iscusato.
E ben so io quante sieno le fatiche, i disagi et i danari che ho speso in molti anni dietro a quest'opera.
E sono state tali e tante le difficultà che ci ho trovate, che più volte me ne sarei giù tolto per disperazione, se il soccorso di molti buoni e veri amici, ai quali sarò sempre obbligatissimo, non mi avessero fatto buon animo e confortatomi a seguitare, con tutti quegl'amorevoli aiuti che per loro si sono potuti, di notizie, e d'avisi, e riscontri di varie cose, delle quali, come che vedute l'avessi, io stava assai perplesso e dubbioso.
I quali aiuti sono veramente stati sì fatti, che io ho potuto puramente scoprire il vero e dare in luce quest'opera, per ravvivare la memoria di tanti rari e pellegrini ingegni, quasi del tutto sepolta et a benefizio di que' che dopo noi verranno.
Nel che fare mi sono stati, come altrove si è detto, di non piccolo aiuto gli scritti di Lorenzo Ghiberti, di Domenico Grillandai e di Raffaello da Urbino; ai quali se bene ho prestato fede, ho nondimeno sempre voluto riscontrare il lor dire con la veduta dell'opere, essendo che insegna la lunga pratica i solleciti dipintori a conoscere, come sapete, non altramente le varie maniere degl'artefici, che si faccia un dotto e pratico cancelliere i diversi e variati scritti de' suoi eguali, e ciascuno i caratteri de' suoi più stretti famigliari amici e congiunti.
Ora, se io averò conseguito il fine che io ho desiderato, che è stato di giovare et insiememente dilettare, mi sarà sommamente grato, e quando sia altrimenti mi sarà di contento, o almeno alleggiamento di noia, aver durato fatica in cosa onorevole, che dee farmi degno appo i virtuosi di pietà, non che perdono.
Ma per venire al fine oggimai di sì lungo ragionamento, io ho scritto come pittore, e con quell'ordine e modo che ho saputo migliore; e quanto alla lingua in quella ch'io parlo, o fiorentina, o toscana ch'ella sia, et in quel modo che ho saputo più facile et agevole, lasciando gl'ornati e lunghi periodi, la scelta delle voci e gli altri ornamenti del parlare e scrivere dottamente a chi non ha come ho io più le mani ai pennelli che alla penna, e più il capo ai disegni che allo scrivere.
E se ho seminati per l'opera molti vocaboli proprii delle nostre arti, dei quali non occorse per aventura servirsi ai più chiari e maggiori lumi della lingua nostra, ciò ho fatto per non poter far di manco, e per essere inteso da voi artefici, per i quali come ho detto mi sono messo principalmente a questa fatica.
Nel rimanente, avendo fatto quello che ho saputo, accettatelo volentieri, e da me non vogliate quel ch'io non so e non posso, appagandovi del buono animo mio, che è e sarà sempre di giovare e piacere altrui.
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