LE VITE DE' PIU' ECCELLENTI PITTORI, SCULTORI, E ARCHITETTORI, di Giorgio Vasari - pagina 281
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Piero.
In un altro salotto a canto a questo, dove stavano i cubicularii, fece Raffaello da Urbino in certi tabernacoli alcuni Apostoli di chiaro scuro grandi quanto il vivo e bellissimi, e Giovanni sopra le cornici di quell'opera ritrasse di naturale molti papagalli di diversi colori, i quali allora aveva Sua Santità, e così anco babuini, gatti mamoni, zibetti et altri bizzarri animali.
Ma quest'opera ebbe poca vita, perciò che papa Paulo IV per fare certi suoi stanzini e busigattoli da ritirarsi, guastò quella stanza e privò quel palazzo d'un'opera singolare; il che non arebbe fatto quel sant'uomo, s'egli avesse avuto gusto nell'arti del disegno.
Dipinse Giovanni i cartoni di quelle spalliere e panni da camere che poi furono tessuti di seta e d'oro in Fiandra, nei quali sono certi putti che scherzano intorno varii festoni adorni dell'imprese di papa Leone e di diversi animali ritratti dal naturale, i quali panni, che sono cosa rarissima, sono ancora oggi in palazzo; fece similmente i cartoni di certi arazzi pieni di grottesche, che stanno nelle prime stanze del concistoro.
Mentre che Giovanni s'affaticava in quest'opere, essendo stato fabricato in testa di Borgo Nuovo, vicino alla piazza di S.
Piero, il palazzo di Messer Giovambattista dall'Aquila, fu lavorata di stucchi la maggior parte della facciata, per mano di Giovanni, che fu tenuta cosa singolare.
Dipinse il medesimo e lavorò tutti gli stucchi che sono alla loggia della vigna, che fece fare Giulio cardinale de' Medici, sotto Monte Mario, dove sono animali, grottesche, festoni e fregiature tanto belle, che pare in questa Giovanni aver voluto vincere e superare se medesimo.
Onde meritò da quel cardinale, che molto amò la virtù sua, oltre molti benefizii avuti per suoi parenti, d'aver per sé un canonicato di Civitale nel Friuli, che da Giovanni fu poi dato a un suo fratello.
Avendo poi a fare al medesimo cardinale, pur in quella vigna, una fonte dove getta in una testa di liofante di marmo per il niffolo, imitò in tutto e per tutto il tempio di Nettunno (stanza poco avanti stata trovata fra l'antiche ruine di palazzo maggiore, adorna tutta di cose naturali marine, fatti ottimamente poi varii ornamenti di stucco) anzi superò di gran lunga l'artifizio di quella stanza antica col fare sì belli e bene accommodati quegl'animali, conchiglie et altre infinite cose somiglianti.
E dopo questa fece un'altra fonte, ma selvatica, nella concavità d'un fossato circondato da un bosco, facendo cascare con bello artifizio da tartari e pietre di colature d'acqua, gocciole e zampilli che parevano veramente cosa naturale; e nel più alto di quelle caverne e di que' sassi spugnosi, avendo composta una gran testa di leone a cui facevano ghirlanda intorno fila di capelvenere et altre erbe artifiziosamente quivi accommodate, non si potria credere quanta grazia dessono a quel salvatico in tutte le parti bellissimo et oltre ad ogni credenza piacevole.
Finita quest'opera, poi che ebbe donato il cardinale a Giovanni un cavalierato di S.
Piero, lo mandò a Fiorenza, acciò che, fatta nel palazzo de' Medici una camera, cioè in sul canto dove già Cosimo vecchio edificator di quello avea fatta una loggia per commodo e ragunanza de' cittadini, secondo che allora costumavano le famiglie più nobili, la dipignesse tutta di grottesche e di stucchi.
Essendo stata adunque chiusa questa loggia con disegno di Michelagnolo Buonarroti e datole forma di camera, con due finestre inginocchiate, che furono le prime di quella maniera fuora de' palazzi ferrate, Giovanni lavorò di stucchi e pitture tutta la volta, facendo in un tondo le sei palle, arme di casa Medici, sostenute da tre putti di rilievo con bellissima grazia et attitudine.
Oltra di questo vi fece molti bellissimi animali e molte bell'imprese degl'uomini e signori di quella casa illustrissima, con alcune storie di mezzo rilievo fatte di stucco; e nel campo fece il resto di pitture, fingendole di bianco e nero a uso di camei, tanto bene, che non si può meglio imaginare.
Rimase sotto la volta quattro archi di braccia dodici l'uno et alti sei, che non furono per allora dipinti, ma molti anni poi da Giorgio Vasari, giovinetto di diciotto anni, quando serviva il duca Alessandro de' Medici suo primo signore l'anno 1535; il qual Giorgio vi fece storie de' fatti di Giulio Cesare, alludendo a Giulio cardinale sopra detto, che l'aveva fatta fare.
Dopo fece Giovanni a canto a questa camera in una volta piccola a mezza botte alcune cose di stucco, basse basse, e similmente alcune pitture che sono rarissime.
Le quali ancor che piacessero a que' pittori che allora erano a Fiorenza, come fatte con fierezza e pratica maravigliosa e piene d'invenzioni terribili e capricciose, però che erano avezzi a una loro maniera stentata et a fare ogni cosa che mettevano in opera con ritratti tolti dal vivo, come non risoluti non le lodavano interamente, né si mettevano, non ne bastando per aventura loro l'animo, ad imitarle.
Essendo poi tornato Giovanni a Roma, fece nella loggia d'Agostino Chigii, la quale avea dipinta Raffaello e l'andava tuttavia conducendo a fine, un ricinto di festoni grossi a torno a torno agli spigoli e quadrature di quella volta, facendovi stagione per istagione di tutte le sorti frutte, fiori e foglie con tanto artifizio lavorate, che ogni cosa vi si vede viva e staccata dal muro e naturalissima.
E sono tante le varie maniere di frutte e biade che in quell'opera si veggiono, che per non raccontarle a una a una, dirò solo che vi sono tutte quelle che in queste nostre parti ha mai prodotto la natura.
Sopra la figura d'un Mercurio che vola ha finto per Priapo una zucca, attraversata da vilucchi, che ha per testicoli due petronciani, e vicino al fiore di quella ha finto una ciocca di fichi brugiotti grossi dentro a uno de' quali, aperto e troppo fatto, entra la punta della zucca col fiore; il quale capriccio è espresso con tanta grazia, che più non si può alcuno imaginare.
Ma che più? per finirla, ardisco d'affermare che Giovanni in questo genere di pitture ha passato tutti coloro che in simili cose hanno meglio imitata la natura, perciò che oltre all'altre cose, insino i fiori del sambuco, del finocchio e dell'altre cose minori vi sono veramente stupendissimi.
Vi si vede similmente gran copia d'animali fatti nelle lunette che sono circondate da questi festoni, et alcuni putti che tengono in mano i segni degli dèi, ma fra gl'altri un leone et un cavallo marino, per essere bellissimi scorti, sono tenuti cosa divina.
Finita quest'opera veramente singolare fece Giovanni in Castel Sant'Agnolo una stufa bellissima, e nel palazzo del papa, oltre alle già dette, molte altre minuzie che per brevità si lasciano.
Morto poi Raffaello, la cui perdita dolse molto a Giovanni, e così anco mancato papa Leone, per non avere più luogo in Roma l'arti del disegno, né altra virtù, si trattenne esso Giovanni molti mesi alla vigna del detto cardinale de' Medici in alcune cose di poco valore, e nella venuta a Roma di papa Adriano non fece altro che le bandiere minori del castello, le quali egli al tempo di papa Leone avea due volte rinovate, insieme con lo stendardo grande che sta in cima dell'ultimo torrione.
Fece anco quattro bandiere quadre quando dal detto papa Adriano fu canonizzato santo il beato Antonino arcivescovo di Fiorenza e Sant'Uberto stato vescovo di non so quale città di Fiandra; de' quali stendardi, uno, nel quale è la figura di detto Santo Antonino, fu dato alla chiesa di San Marco di Firenze, dove riposa il corpo di quel Santo; un altro, dentro al quale è il detto Sant'Uberto, fu posto in Santa Maria de Anima, chiesa de' tedeschi in Roma, e gl'altri due furono mandati in Fiandra.
Essendo poi creato sommo pontefice Clemente Settimo, col quale aveva Giovanni molta servitù, egli, che se n'era andato a Udine per fuggire la peste, tornò subito a Roma, dove giunto gli fu fatto fare nella coronazione di quel Papa un ricco e bell'ornamento sopra le scale di San Piero; e dopo fu ordinato che egli e Perino del Vaga facessero nella volta della sala vecchia, dinanzi alle stanze da basso che vanno dalle logge che già egli dipinse alle stanze di torre Borgia, alcune pitture.
Onde Giovanni vi fece un bellissimo partimento di stucchi con molte grottesche e diversi animali, e Perino i carri de' sette pianeti.
Avevano anco a dipignere le facciate della medesima sala, nelle quali già dipinse Giotto, secondo che scrive il Platina nelle vite de' pontefici, alcuni papi che erano stati uccisi per la fede di Cristo, onde fu detta un tempo quella stanza la sala de' Martiri; ma non fu a pena finita la volta, che succedendo l'infelicissimo Sacco di Roma, non si poté più oltre seguitare, per che Giovanni, avendo assai patito nella persona e nella roba, tornò di nuovo a Udine con animo di starvi lungamente, ma non gli venne fatto, perciò che tornato papa Clemente da Bologna, dove avea coronato Carlo Quinto, a Roma, fatto quivi tornare Giovanni, dopo avergli fatto di nuovo fare i stendardi di Castel Sant'Agnolo, gli fece dipignere il palco della capella maggiore e principale di San Piero, dove è l'altare di quel Santo.
Intanto, essendo morto fra' Mariano, che aveva l'uffizio del Piombo, fu dato il suo luogo a Bastiano viniziano, pittore di gran nome, et a Giovanni sopra quello una pensione di ducati ottanta di camera.
Dopo, essendo cessati in gran parte i travagli del Pontefice e quietate le cose di Roma, fu da Sua Santità mandato Giovanni con molte promesse a Firenze a fare nella sagrestia nuova di San Lorenzo, stata adorna d'eccellentissime sculture da Michelagnolo, gl'ornamenti della tribuna piena di quadri sfondati che diminuiscono a poco a poco verso il punto del mezzo.
Messovi dunque mano Giovanni, la condusse, con l'aiuto di molti suoi uomini, ottimamente a fine con bellissimi fogliami, rosoni et altri ornamenti di stucco e d'oro.
Ma in una cosa mancò di giudizio: conciò sia che nelle fregiature piane che fanno le costole della volta et in quelle che vanno a traverso rigirando i quadri, fece alcuni fogliami, ucelli, maschere e figure che non si scorgono punto dal piano per la distanza del luogo, tuttoché siano bellissime, e perché sono tramezzate di colori; là dove, se l'avesse fatte colorite senz'altro, si sarebbono vedute e tutta l'opera stata più allegra e più ricca.
Non restava a farsi di quest'opera se non quanto arebbe potuto finire in quindici giorni, riandandola in certi luoghi, quando venuta la nuova della morte di papa Clemente, venne manco a Giovanni ogni speranza, e di quello in particolare che da quel Pontefice aspettava per guiderdone di quest'opera.
Onde accortosi, benché tardi, quanto siano le più volte fallaci le speranze delle corti e come restino ingannati coloro che si fidano nelle vite di certi prìncipi, se ne tornò a Roma, dove, se bene arebbe potuto vivere d'uffici e d'entrate e servire il cardinale Ippolito de' Medici et il nuovo pontefice Paulo Terzo, si risolvé a rimpatriarsi e tornare a Udine.
Il quale pensiero avendo messo ad effetto, si tornò a stare nella patria con quel suo fratello a cui avea dato il canonicato, con proposito di più non voler adoperare pennelli.
Ma neanche questo gli venne fatto, però che, avendo preso donna et avuto figliuoli, fu quasi forzato dall'istinto che si ha naturalmente d'allevare e lasciare benestanti i figliuoli, a rimettersi a lavorare.
Dipinse dunque a' prieghi del padre del cavalier Giovan Francesco di Spilimbergo un fregio d'una sala pieno di festoni, di putti, di frutte et altre fantasie, e dopo adornò di vaghi stucchi e pitture la capella di Santa Maria di Civitale, et ai canonici del Duomo di quel luogo fece due bellissimi stendardi, et alla Fraternita di Santa Maria di Castello in Udine dipinse in un ricco gonfalone la Nostra Donna col Figliuolo in braccio et un Angelo graziosissimo che gli porge il castello, che è sopra un monte nel mezzo della città.
In Vinezia fece nel palazzo del patriarca d'Aquileia, Grimani, una bellissima camera di stucchi e pitture, dove sono alcune storiette bellissime di mano di Francesco Salviati.
Finalmente l'anno millecinquecento e cinquanta, andato Giovanni a Roma a pigliare il Santissimo Giubileo a piedi e vestito da pellegrino poveramente et in compagnia di gente bassa, vi stette molti giorni senz'essere conosciuto da niuno.
Ma un giorno andando a San Paulo, fu riconosciuto da Giorgio Vasari, che in cocchio andava al medesimo perdono in compagnia di Messer Bindo Altoviti suo amicissimo.
Negò a principio Giovanni di esser desso, ma finalmente fu forzato a scoprirsi et a dirgli che avea gran bisogno del suo aiuto appresso al Papa per conto della sua pensione che aveva in sul Piombo, la quale gli veniva negata da un fra' Guglielmo scultore genovese, che aveva quell'ufficio avuto dopo la morte di fra' Bastiano.
Della qual cosa parlando Giorgio al Papa, fu cagione che l'obligo si rinovò e poi si trattò di farne permuta in un canonicato d'Udine per un figliuolo di Giovanni; ma essendo poi di nuovo aggirato da quel fra' Guglielmo, se ne venne Giovanni da Udine a Firenze, creato che fu papa Pio, per essere da sua eccellenza appresso quel Pontefice, col mezzo del Vasari, aiutato e favorito.
Arrivato dunque a Firenze fu da Giorgio fatto conoscere a sua eccellenza illustrissima, con la quale andando a Siena e poi di lì a Roma, dove andò anco la signora duchessa Leonora, fu in guisa dalla benignità del Duca aiutato, che non solo fu di tutto quello disiderava consolato, ma dal Pontefice messo in opera con buona provisione a dar perfezione e fine all'ultima loggia, la quale è sopra quella che gli avea già fatta fare papa Leone.
E quella finita, gli fece il medesimo Papa ritoccare tutta la detta loggia prima, il che fu errore e cosa poco considerata, perciò che il ritoccarla a secco le fece perdere tutti que' colpi maestrevoli che erano stati tirati dal pennello di Giovanni nell'eccellenza della sua migliore età a perdere quella freschezza e fierezza che la facea nel suo primo essere cosa rarissima.
Finita quest'opera, essendo Giovanni di settanta anni, finì anco il corso della sua vita l'anno 1564, rendendo lo spirito a Dio in quella nobilissima città che l'avea molti anni fatto vivere con tanta eccellenza e sì gran nome.
Fu Giovanni sempre, ma molto più negl'ultimi suoi anni, timorato di Dio e buon cristiano, e nella sua giovanezza si prese pochi altri piaceri che di cacciare et uccellare, et il suo ordinario era, quando era giovane, andarsene il giorno delle feste con un suo fante a caccia, allontanandosi tal volta da Roma dieci miglia per quelle campagne; e perché tirava benissimo lo scoppio e la balestra, rade volte tornava a casa che non fusse il suo fante carico d'oche selvatiche, colombacci, germani e di quell'altre bestiacce che si trovano in que' paduli.
E fu Giovanni inventore, secondo che molti affermano, del bue di tela dipinto che si fa per addopparsi a quello e tirar senza essere dalle fiere veduto lo scoppio; e per questi esercizii d'ucellare e cacciare si dilettò di tener sempre cani et allevarne da se stesso.
Volle Giovanni, il quale merita di esser lodato fra i maggiori della sua professione, essere sepolto nella Ritonda, vicino al suo maestro Raffaello da Urbino, per non star, morto, diviso da colui dal quale vivendo non si separò il suo animo già mai.
E perché l'uno e l'altro, come si è detto, fu ottimo cristiano, si può credere che anco insieme siano nell'eterna beatitudine.
IL FINE DELLA VITA DI GIOVANNI DA UDINE
VITA DI BATTISTA FRANCO PITTORE VINIZIANO
Battista Franco viniziano, avendo nella sua prima fanciullezza atteso al disegno come colui che tendeva alla perfezione di quell'arte, se n'andò di venti anni a Roma dove, poiché per alcun tempo con molto studio ebbe atteso al disegno e vedute le maniere di diversi, si risolvé non volere altre cose studiare, né cercare d'imitare, che i disegni, pitture e sculture di Michelagnolo; per che, datosi a cercare, non rimase schizzo, bozza o cosa non che altro stata ritratta da Michelagnolo, che egli non disegnasse.
Onde non passò molto che fu de' primi disegnatori che frequentassino la capella di Michelagnolo, e, che fu più, stette un tempo senza volere dipignere o fare altra cosa che disegnare.
Ma venuto l'anno 1536, mettendosi a ordine un grandissimo e sontuoso apparato da Antonio da San Gallo per la venuta di Carlo Quinto imperatore, nel quale furono adoperati tutti gl'artefici buoni e cattivi, come in altro luogo s'è detto, Raffaello da Monte Lupo, che avea a fare l'ornamento di ponte Sant'Agnolo e le dieci statue che sopra vi furono poste, disegnò di far sì che Battista fusse adoperato anch'egli, avendolo visto fino disegnatore e giovane di bell'ingegno e di fargli dare da lavorare ad ogni modo; e così parlatone col San Gallo, fece tanto, che a Battista furono date a fare quattro storie grandi a fresco di chiaro scuro nella facciata della porta Capena, oggi detta di San Bastiano, per la quale aveva ad entrare l'imperatore; nelle quali Battista, senz'avere mai più tocco colori, fece sopra la porta l'arme di papa Paulo Terzo e quella di esso Carlo imperatore et un Romulo che metteva sopra quella del Pontefice un regno papale e sopra quella di Cesare una corona imperiale; il quale Romulo, che era una figura di cinque braccia, vestita all'antica e con la corona in testa, aveva dalla destra Numa Pompilio e dalla sinistra Tullo Ostilio, e sopra queste parole: "Quirinus Pater".
In una delle storie, che erano nelle facciate de' torrioni che mettono in mezzo la porta, era il maggior Scipione che trionfava di Cartagine, la quale avea fatta tributaria del popolo romano, e nell'altra a man ritta era il trionfo di Scipione minore, che la medesima avea rovinata e disfatta.
In uno di due quadri che erano fuori de' torrioni nella faccia dinanzi, si vedeva Annibale sotto le mura di Roma essere ributtato dalla tempesta, e nell'altro a sinistra Flacco entrare per quella porta al soccorso di Roma contra il detto Annibale.
Le quali tutte storie e pitture, essendo le prime di Battista, e rispetto a quelle degl'altri furono assai buone e molto lodate; e se Battista avesse prima cominciato a dipignere et andare praticando tal volta i colori e maneggiare i pennegli, non ha dubbio che averebbe passato molti; ma lo stare ostinato in una certa openione che hanno molti, i quali si fanno a credere che il disegno basti a chi vuol dipignere, gli fece non piccolo danno.
Ma con tutto ciò egli si portò molto meglio che non fecero alcuni di coloro che fecero le storie dell'arco di San Marco, nel quale furono otto storie, cioè quattro per banda, che le migliori di tutte furono parte fatte da Francesco Salviati e parte da un Martino et altri giovani tedeschi, che pur allora erano venuti a Roma per imparare; né lascerò di dire a questo proposito che il detto Martino, il quale molto valse nelle cose di chiaro scuro, fece alcune battaglie con tanta fierezza e sì belle invenzioni in certi affronti e fatti d'arme fra cristiani e turchi, che non si può far meglio.
E, quello che fu cosa maravigliosa, fece il detto Martino e' suoi uomini quelle tele con tanta sollecitudine e prestezza, perché l'opera fusse finita a tempo, che non si partivano mai dal lavoro, e perché era portato loro continuamente da bere e di buon greco, fra lo stare sempre ubriachi e riscaldati dal furor del vino e la pratica del fare, feciono cose stupende.
Quando dunque videro l'opera di costoro il Salviati e Battista et il Calavrese, confessarono esser necessario che chi vuole esser pittore cominci ad adoperare i pennegli a buon'ora; la qual cosa avendo poi meglio discorsa da sé, Battista cominciò a non mettere tanto studio in finire i disegni, ma a colorire alcuna volta.
Venendo poi il Monte Lupo a Fiorenza, dove si faceva similmente grandissimo apparato per ricevere il detto imperatore, Battista venne seco, et arrivati trovarono il detto apparato condotto a buon termine.
Pure, essendo Battista messo in opera, fece un basamento tutto pieno di figure e trofei, sotto la statua che al canto de' Carnesecchi avea fatta fra' Giovann'Agnolo Montorsoli.
Per che, conosciuto fra gl'artefici per giovane ingegnoso e valente, fu poi molto adoperato nella venuta di madama Margherita d'Austria, moglie del duca Alessandro, e particolarmente nell'apparato che fece Giorgio Vasari nel palazzo di Messer Ottaviano de' Medici, dove avea la detta signora ad abitare.
Finite queste feste, si mise Battista a disegnare con grandissimo studio le statue di Michelagnolo che sono nella sagrestia nuova di San Lorenzo; dove allora essendo volti a disegnare e fare di rilievo tutti i scultori e pittori di Firenze, fra essi acquistò assai Battista, ma fu nondimeno conosciuto l'error suo, di non aver mai voluto ritrarre dal vivo o colorire, né altro fare che imitare statue e poche altre cose, che gli avevano fatto in tal modo indurare et insecchire la maniera, che non se la potea levar da dosso, né fare che le sue cose non avessono del duro e del tagliente, come si vide in una tela dove fece con molta fatica e diligenza Lucrezia romana violata da Tarquinio.
Dimorando dunque Battista in fra gli altri e frequentando la detta sagrestia, fece amicizia con Bartolomeo Amannati scultore, che in compagnia di molti altri là studiavano le cose del Buonarroto; e fu sì fatta l'amicizia, che il detto Amanati si tirò in casa Battista et il Genga da Urbino, e di compagnia vissero alcun tempo insieme et attesero con molto frutto agli studii dell'arte.
Essendo poi stato morto l'anno 1536 il duca Alessandro e creato in suo luogo il signor Cosimo de' Medici, molti de' servitori del Duca morto rimasero a' servigii del nuovo et altri no, e fra quelli che si partirono fu il detto Giorgio Vasari, il quale tornandosi ad Arezzo con animo di non più seguitare le corti, essendogli mancato il cardinale Ippolito de' Medici, suo primo signore, e poi il duca Alessandro, fu cagione che Battista fu messo al servizio del duca Cosimo et a lavorare in guardaroba, dove dipinse in un quadro grande, ritraendogli da uno di fra' Bastiano e da uno di Tiziano, papa Clemente et il cardinale Ippolito, e da un del Puntormo il duca Alessandro.
Et ancor che questo quadro non fusse di quella perfezione che si aspettava, avendo nella medesima guardaroba veduto il cartone di Michelagnolo del Noli me tangere che aveva già colorito il Puntormo, si mise a far un cartone simile, ma di figure maggiori, e ciò fatto ne dipinse un quadro nel quale si portò molto meglio quanto al colorito; et il cartone che ritrasse, come stava apunto quel del Buonarroto, fu bellissimo e fatto con molta pacienza.
Essendo poi seguita la cosa di Monte Murlo, dove furono rotti e presi i fuorusciti e rebelli del Duca, con bella invenzione fece Battista una storia della battaglia seguita, mescolata di poesia a suo capriccio, che fu molto lodata, ancor che in essa si riconoscessino nel fatto d'arme e far de' prigioni molte cose state tolte di peso dall'opere e disegni del Buonarroto; perciò che essendo nel lontano il fatto d'arme, nel dinanzi erano i cacciatori di Ganimede che stavano a mirar l'uccello di Giove che se ne portava il giovinetto in cielo; la quale parte tolse Battista dal disegno di Michelagnolo, per servirsene e mostrare che il Duca giovinetto, nel mezzo de' suoi amici, era per virtù di Dio salito in cielo, o altra cosa somigliante.
Questa storia dico, fu prima fatta da Battista in cartone e poi dipinta in un quadro con estrema diligenza, et oggi è con l'altre dette opere sue nelle sale di sopra del palazzo de' Pitti, che ha fatto ora finire del tutto sua eccellenza illustrissima.
Essendosi dunque Battista con queste et alcun'altre opere trattenuto al servizio del Duca, insino a che egli ebbe presa per donna la signora donna Leonora di Tolledo, fu poi nell'apparato di quelle nozze adoperato all'arco trionfale della porta al Prato, dove gli fece fare Ridolfo Ghirlandaio alcune storie de' fatti del signor Giovanni padre del duca Cosimo.
In una delle quali si vedeva quel signore passare i fiumi del Po e dell'Adda, presente il cardinale Giulio de' Medici che fu papa Clemente Settimo, il signor Prospero Colonna et altri signori, e nell'altro la storia del riscatto di San Secondo.
Dall'altra banda fece Battista in un'altra storia la città di Milano et intorno a quella il campo della lega, che partendosi vi lascia il detto signor Giovanni; nel destro fianco dell'arco fece in un'altra da un lato l'Occasione, che avendo i capegli sciolti, con una mano gli porge al signor Giovanni, e dall'altro Marte che similmente gli porgeva la spada.
In un'altra storia sotto l'arco era di mano di Battista il signor Giovanni che combatteva fra il Tesino e Biegrassa, sopra ponte Rozzo, difendendolo, quasi un altro Orazio, con incredibile bravura.
Dirimpetto a questa era la presa di Caravaggio et in mezzo alla battaglia il signor Giovanni che passava fra ferro e fuoco per mezzo l'esercito nimico senza timore; fra le colonne a man ritta era in un ovato Garlasso preso dal medesimo con una sola compagnia di soldati, et a man manca fra l'altre due colonne il bastione di Milano tolto a' nemici.
Nel frontone che rimaneva alle spalle di chi entrava era il detto signore Giovanni a cavallo sotto le mura di Milano, che giostrando a singolar battaglia con un cavaliere, lo passava da banda a banda con la lancia; sopra la cornice maggiore, che va a trovare il fine dell'altra cornice, dove posa il frontespizio, in un'altra storia grande fatta da Battista con molta diligenza, era nel mezzo Carlo Quinto imperadore, che coronato di lauro sedeva sopra uno scoglio con lo scetro in mano, et a' piedi gli giaceva il fiume Betis con un vaso che versava da due bocche, et a canto a questo era il fiume Danubio che con sette bocche versava le sue acque nel mare.
Io non farò qui menzione d'un infinito numero di statue che in questo arco accompagnavano le dette et altre pitture, perciò che bastandovi dire al presente quello che appartiene a Battista Franco, non è mio ufficio quello raccontare che da altri nell'apparato di quelle nozze fu scritto lungamente senza che, essendosi parlato dove facea bisogno de' maestri delle dette statue, superfluo sarebbe qualunche cosa qui se ne dicessi, e massimamente non essendo le dette statue in piedi, onde possano esser vedute e considerate.
Ma tornando a Battista, la migliore cosa che facesse in quelle nozze fu uno dei dieci sopra detti quadri che erano nell'apparato del maggior cortile del palazzo de' Medici, nel quale fece di chiaro scuro il duca Cosimo investito di tutte le ducali insegne.
Ma con tutto che vi usasse diligenza, fu superato, dal Bronzino e da altri che avevano manco disegno di lui, nell'invenzione, nella fierezza e nel maneggiare il chiaro scuro, atteso (come s'è detto altra volta) che le pitture vogliono essere condotte facili e poste le cose a' luoghi loro con giudizio e senza uno certo stento e fatica che fa le cose parere dure e crude; oltra che il troppo ricercarle le fa molte volte venir tinte e le guasta.
Perciò che lo star loro tanto a torno toglie tutto quel buono che suole fare la facilità e la grazia e la fierezza; le quali cose, ancor che in gran parte vengano e s'abbiano da natura, si possono anco in parte acquistare dallo studio e dall'arte.
Essendo poi Battista condotto da Ridolfo Ghirlandaio alla Madonna di Vertigli in Valdichiana, il qual luogo era già membro del monasterio degl'Angeli di Firenze dell'Ordine di Camaldoli et oggi è capo da sé in cambio del monasterio di San Benedetto, che fu per l'assedio di Firenze rovinato fuor della porta a Pinti, vi fece le già dette storie del chiostro, mentre Ridolfo faceva la tavola e gl'ornamenti dell'altar maggiore.
E quelle finite, come s'è detto nella vita di Ridolfo, adornarno d'altre pitture quel santo luogo, che è molto celebre e nominato per i molti miracoli che vi fa la Vergine madre del Figliuol di Dio.
Dopo, tornato Battista a Roma, quando a punto s'era scoperto il Giudizio di Michelagnolo, come quelli che era studioso della maniera e delle cose di quell'uomo, il vide volentieri e con infinita maraviglia il disegnò tutto; e poi risolutosi a stare in Roma, a Francesco cardinale Cornaro, il quale aveva rifatto a canto a San Piero il palazzo che abitava e risponde nel portico verso Camposanto, dipinse sopra gli stucchi una loggia che guarda verso la piazza, facendovi una sorte di grottesche tutte piene di storiette e di figure; la qual opera, che fu fatta con molta fatica e diligenza, fu tenuta molto bella.
Quasi ne' medesimi giorni, che fu l'anno 1538, avendo fatto Francesco Salviati una storia in fresco nella Compagnia della Misericordia, e dovendo dargli l'ultimo fine e mettere mano ad altre, ché molti particolari disegnavano farvi, per la concorrenza che fu fra lui et Iacopo del Conte, non si fece altro; la qual cosa intendendo Battista, andò cercando, con questo mezzo, occasione di mostrarsi da più di Francesco et il migliore maestro di Roma; perciò che adoperando amici e mezzi fece tanto, che monsignor della Casa, veduto un suo disegno, gliene allogò.
Per che, messovi mano, vi fece a fresco San Giovanni Battista fatto pigliare da Erode e mettere in prigione.
Ma con tutto che questa pittura fusse condotta con molta fatica, non fu a gran pezzo tenuta pari a quella del Salviati, per essere fatta con stento grandissimo e d'una maniera cruda e malinconica, che non aveva ordine nel componimento, né in parte alcuna punto di quella grazia e vaghezza di colorito che aveva quella di Francesco.
E da questo si può fare giudizio, che coloro i quali seguitando quest'arte si fondano in far bene un torso, un braccio et una gamba o altro membro ben ricerco di muscoli, e che l'intendere bene quella parte sia il tutto, sono ingannati; perciò che una parte non è il tutto dell'opera, e quegli la conduce interamente perfetta e con bella e buona maniera, che fatte bene le parti sa farle proporzionatamente corrispondere al tutto, e che oltre ciò fa che la composizione delle figure esprime e fa bene quell'effetto che dee fare senza confusione.
E sopra tutto si vuole avvertire che le teste siano vivaci, pronte, graziose e con bell'arte, e che la maniera non sia cruda, ma sia negl'ignudi tinta talmente di nero, ch'ell'abbiano rilievo, sfugghino e si allontanino secondo che fa bisogno, per non dir nulla delle prospettive de' paesi e dell'altre parti che le buone pitture richieggiono; né che nel servirsi delle cose d'altri si dee fare per sì fatta maniera, che non si conosca così agevolmente.
Si accorse dunque tardi Battista d'aver perduto tempo fuor di bisogno dietro alle minuzie di muscoli et al disegnare con troppa diligenza, non tenendo conto dell'altre parti dell'arte.
Finita quest'opera, che gli fu poco lodata, si condusse Battista, per mezzo di Bartolomeo Genga, a' servigi del duca d'Urbino, per dipignere nella chiesa e capella, che è unita col palazzo d'Urbino, una grandissima volta.
E là giunto, si diede subito senza pensare altro a fare i disegni secondo l'invenzione di quell'opera e senza fare altro spartimento.
E così a imitazione del Giudizio del Buonarroto, figurò in un cielo la gloria de' Santi, sparsi per quella volta sopra certe nuvole, e con tutti i cori degl'angeli intorno a una Nostra Donna, la quale, essendo assunta in cielo, è aspettata da Cristo in atto di coronarla, mentre stanno partiti in diversi mucchi i patriarchi, i profeti, le sibille, gl'apostoli, i martiri, i confessori e le vergini, le quali figure in diverse attitudini mostrano rallegrarsi della venuta di essa Vergine gloriosa.
La quale invenzione sarebbe stata certamente grande occasione a Battista di mostrarsi valentuomo, se egli avesse preso miglior via, non solo di farsi pratico ne' colori a fresco, ma di governarsi con miglior ordine e giudizio in tutte le cose, che egli non fece.
Ma egli usò in quest'opera il medesimo modo di fare che nell'altre sue, perciò che fece sempre le medesime figure, le medesime effigie, i medesimi panni e le medesime membra; oltreché il colorito fu senza vaghezza alcuna et ogni cosa fatta con difficultà e stentata.
Laonde, finita del tutto, rimasero poco sodisfatti il duca Guidobaldo, il Genga e tutti gl'altri che da costui aspettavano gran cose e simili al bel disegno che egli mostrò loro da principio.
E nel vero per fare un bel disegno Battista non avea pari e si potea dir valente uomo.
La qual cosa conoscendo quel Duca e pensando che i suoi disegni, messi in opera da coloro che lavoravano eccellentemente vasi di terra a Castel Durante, i quali si erano molto serviti delle stampe di Raffaello da Urbino e di quelle d'altri valentuomini, riuscirebbono benissimo, fece fare a Battista infiniti disegni, che messi in opera in quella sorte di terra gentilissima sopra tutte l'altre d'Italia, riuscirono cosa rara.
Onde ne furono fatti tanti e di tante sorte vasi, quanti sarebbono bastati e stati orrevoli in una credenza reale, e le pitture che in essi furono fatte non sarebbono state migliori, quando fussero state fatte a olio da eccellentissimi maestri.
Di questi vasi adunque, che molto rassomigliano, quanto alla qualità della terra, quell'antica che in Arezzo si lavorava anticamente al tempo di Porsena re di Toscana, mandò il detto duca Guidobaldo una credenza doppia a Carlo Quinto imperadore et una al cardinal Farnese, fratello della signora Vettoria sua consorte.
E devemo sapere che di questa sorte pitture in vasi non ebbono, per quanto si può giudicare, i romani; perciò che i vasi che si sono trovati di que' tempi pieni delle ceneri de' loro morti o in altro modo sono pieni di figure graffiate e campite d'un colore solo in qualche parte, o nero, o rosso, o bianco e non mai con lustro d'invetriato, né con quella vaghezza e varietà di pitture che si sono vedute e veggiono a' tempi nostri; né si può dire che se forse l'avevano, sono state consumate le pitture dal tempo e dallo stare sotterrate, però che veggiamo queste nostre diffendersi da tutte le malignità del tempo e da ogni cosa; onde starebbono per modo di dire quattromil'anni sotto terra, che non si guasterebbono le pitture.
Ma ancora che di sì fatti vasi e pitture si lavori per tutta Italia, le migliori terre e più belle nondimeno sono quelle che si fanno, come ho detto, a Castel Durante, terra dello stato d'Urbino, e quelle di Faenza, che per lo più che migliori, sono bianchissime e con poche pitture e quelle nel mezzo o intorno, ma vaghe e gentili affatto.
Ma tornando a Battista, nelle nozze che poi si fecero in Urbino del detto signor Duca e signora Vettoria Farnese, egli, aiutato da' suoi giovani, fece negl'archi ordinati dal Genga, il quale fu capo di quell'apparato, tutte le storie di pitture che vi andarono, ma perché il Duca dubitava che Battista non avesse finito a tempo, essendo l'impresa grande, mandò per Giorgio Vasari, che allora faceva in Arimini ai monaci bianchi di Scolca olivetani una capella grande a fresco e la tavola dell'altare maggiore a olio, acciò che andasse ad aiutare in quell'apparato il Genga e Battista.
Ma sentendosi il Vasari indisposto, fece sua scusa con sua eccellenza e le scrisse che non dubitasse, perciò che era la virtù e sapere di Battista tale, che arebbe, come poi fu vero, a tempo finito ogni cosa.
Et andando poi, finite l'opere d'Arimini, in persona a fare scusa et a visitare quel Duca, sua eccellenza gli fece vedere, perché la stimasse, la detta capella stata dipinta da Battista, la quale molto lodò il Vasari e raccomandò la virtù di colui che fu largamente sodisfatto dalla molta benignità di quel signore.
Ma è ben vero che Battista allora non era in Urbino, ma in Roma, dove attendeva a disegnare non solo le statue, ma tutte le cose antiche di quella città per farne, come fece, un gran libro che fu opera lodevole.
Mentre adunque che attendeva Battista a disegnare in Roma, Messer Giovann'Andrea dall'Anguillara, uomo in alcuna sorte di poesie veramente raro, avea fatto una compagnia di diversi begl'ingegni e facea fare nella maggior sala di Santo Apostolo una ricchissima scena et apparato per recitare comedie di diversi autori a gentiluomini, signori e gran personaggi, et aveva fatti fare gradi per diverse sorti di spettatori, e per i cardinali et altri gran prelati, accommodate alcune stanze donde per gelosie potevano senza esser veduti, vedere et udire.
E perché nella detta compagnia erano pittori, architetti, scultori et uomini che avevano a recitare e fare altri ufficii, a Battista et all'Amannato fu dato cura, essendo fatti di quella brigata, di far la scena et alcune storie et ornamenti di pitture, le quali condusse Battista, con alcune statue che fece l'Amannato, tanto bene, che ne fu sommamente lodato.
Ma perché la molta spesa in quel luogo superava l'entrata, furono forzati Messer Giovann'Andrea e gl'altri levare la prospettiva e gl'altri ornamenti di Santo Apostolo e condurgli in strada Giulia nel tempio nuovo di S.
Biagio, dove avendo Battista di nuovo accommodato ogni cosa, si recitarono molte comedie con incredibile sodisfazione del popolo e cortigiani di Roma, e di qui poi ebbono origine i comedianti che vanno attorno chiamati i Zanni.
Dopo queste cose venuto l'anno 1550, fece Battista insieme con Girolamo Seciolante da Sermoneta, al cardinale di Cesis nella facciata del suo palazzo, un'arme di papa Giulio III stato creato allora nuovo pontefice, con tre figure et alcuni putti che furono molto lodate.
E quella finita, dipinse nella Minerva, in una capella stata fabricata da un canonico di S.
Piero e tutta ornata di stucchi, alcune storie della Nostra Donna e di Gesù Cristo in uno spartimento della volta, che furono la miglior cosa che insino allora avesse mai fatto.
In una delle due facciate dipinse la Natività di Gesù Cristo con alcuni pastori et Angeli che cantano sopra la capanna, e nell'altra la Resurrezione di Cristo con molti soldati in diverse attitudini d'intorno al sepolcro, e sopra ciascuna delle dette storie in certi mezzi tondi fece alcuni profeti grandi e finalmente, nella facciata dell'altare, Cristo crucifisso, la Nostra Donna, S.
Giovanni, S.
Domenico et alcun'altri Santi nelle nicchie, ne' quali tutti si portò molto bene e da maestro eccellente.
Ma perché i suoi guadagni erano scarsi e le spese di Roma sono grandissime, dopo aver fatto alcune cose in tela, che non ebbono molto spaccio, se ne tornò, pensando nel mutar paese anco fortuna, a Vinezia sua patria, dove mediante quel suo bel mo' di disegnare fu giudicato valentuomo; e pochi giorni dopo datogli a fare per la chiesa di S.
Francesco della Vigna, nella capella di Monsignor Barbaro, eletto patriarca d'Aquileia, una tavola a olio, nella quale dipinse S.
Giovanni che battezza Cristo nel Giordano, in aria Dio Padre, a basso due putti che tengono le vestimenta di esso Cristo, e negli angoli la Nunziata, et a' piè di queste figure finse una tela sopraposta con buon numero di figure piccole et ignude, cioè d'angeli, demonii et anime in purgatorio, e con un motto che dice: "In nomine Iesu omne genuflectatur".
La qual opera, che certo fu tenuta molto buona, gl'acquistò gran nome e credito, anzi fu cagione che i frati de' zoccoli, i quali stanno in quel luogo et hanno cura della chiesa di S.
Iobbe in Canareio, gli facessero fare in detto S.
Iobbe, alla capella di Ca' Foscari, una Nostra Donna che siede col Figliuolo in collo, un S.
Marco da un lato, una Santa dall'altro et in aria alcuni Angeli che spargono fiori.
In S.
Bartolomeo alla sepoltura di Cristofano Fuccheri mercatante todesco fece in un quadro l'Abondanza, Mercurio et una Fama; a Messer Antonio della Vecchia viniziano dipinse in un quadro di figure grandi quanto il vivo e bellissime Cristo coronato di spine et alcuni farisei intorno che lo scherniscono.
Intanto essendo stata col disegno di Iacopo Sansovino condotta nel palazzo di S.
Marco (come a suo luogo si dirà) di muraglia la scala che va dal terzo piano in su et adorna con varii partimenti di stucchi da Alessandro scultore e creato del Sansovino, dipinse Battista per tutto grotteschine minute et in certi vani maggiori buon numero di figure a fresco, che assai sono state lodate dagli artefici; e dopo fece il palco del ricetto di detta scala.
Non molto di poi quando furono dati, come s'è detto di sopra, a fare tre quadri per uno ai migliori e più reputati pittori di Vinezia, per la libreria di San Marco, con patto che chi meglio si portasse a giudizio di que' magnifici senatori guadagnasse, oltre al premio ordinario, una collana d'oro, Battista fece in detto luogo tre storie con due filosofi fra le finestre e si portò benissimo, ancor che non guadagnasse il premio dell'onore, come dicemmo di sopra.
Dopo le quali opere, essendogli allogato dal patriarca Grimani una capella in San Francesco dalla Vigna, che è la prima a man manca entrando in chiesa, Battista vi mise mano e cominciò a fare per tutta la volta ricchissimi spartimenti di stucchi e di storie in figure a fresco, lavorandovi con diligenza incredibile.
Ma o fusse la trascuraggine sua, o l'aver lavorato alcune cose a fresco per le ville d'alcuni gentiluomini e forse sopra mura freschissime, come intesi, prima che avesse la detta capella finita, si morì; et ella, rimasa imperfetta, fu poi finita da Federigo Zucchero da Sant'Agnolo in Vado, giovane e pittore eccellente tenuto in Roma de' migliori, il quale fece a fresco nelle faccie dalle bande Maria Madalena che si converte alla predicazione di Cristo e la ressurezione di Lazzero suo fratello, che sono molto graziose pitture.
E finite le facciate, fece il medesimo nella tavola dell'altare l'adorazione de' Magi, che fu molto lodata.
Hanno dato nome e credito grandissimo a Battista, il quale morì l'anno 1561, molti suoi disegni stampati, che sono veramente da essere lodati.
Nella medesima città di Vinezia e quasi ne' medesimi tempi è stato, ed è vivo ancora, un pittore chiamato Iacopo Tintoretto, il quale si è dilettato di tutte le virtù e particolarmente di sonare di musica e diversi strumenti, et oltre ciò piacevole in tutte le sue azzioni, ma nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto et il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne' componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell'uso degl'altri pittori; anzi ha superata la stravaganza, con le nuove e capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del suo intelletto che ha lavorato a caso e senza disegno, quasi mostrando che quest'arte è una baia.
Ha costui alcuna volta lasciato le bozze per finire, tanto a fatica sgrossate, che si veggiono i colpi de' pennegli fatti dal caso e dalla fierezza, più tosto che dal disegno e dal giudizio.
Ha dipinto quasi di tutte le sorti pitture a fresco, a olio, ritratti di naturale et ad ogni pregio, di maniera, che con questi suoi modi ha fatto e fa la maggior parte delle pitture che si fanno in Vinezia.
E perché nella sua giovanezza si mostrò in molte bell'opere di gran giudizio, se egli avesse conosciuto il gran principio che aveva dalla natura et aiutatolo con lo studio e col giudizio, come hanno fatto coloro che hanno seguitato le belle maniere de' suoi maggiori e non avesse come ha fatto tirato via di pratica, sarebbe stato uno de' maggiori pittori che avesse avuto mai Vinezia.
Non che per questo si toglia che non sia fiero e buon pittore e di spirito svegliato, capriccioso e gentile.
Essendo dunque stato ordinato dal senato che Iacopo Tintoretto e Paulo Veronese, allora giovani di grande speranza, facessero una storia per uno nella sala del gran consiglio, et una Orazio figliuolo di Tiziano, il Tintoretto dipinse nella sua Federigo Barbarossa coronato dal Papa, figurandovi un bellissimo casamento et intorno al Pontefice gran numero di cardinali e di gentiluomini viniziani, tutti ritratti di naturale, e da basso la musica del Papa, nel che tutto si portò di maniera, che questa pittura può stare a canto a quella di tutti e d'Orazio detto, nella quale è una battaglia fatta a Roma fra i todeschi del detto Federigo et i romani, vicina a Castel Sant'Agnolo et al Tevere; et in questa è fra l'altre cose un cavallo in iscorto che salta sopra un soldato armato, che è bellissimo; ma vogliono alcuni che in quest'opera Orazio fusse aiutato da Tiziano suo padre.
Appresso a queste Paulo Veronese, del quale si è parlato nella vita di Michele San Michele, fece nella sua il detto Federigo Barbarossa che apprestatosi alla corte bacia la mano a papa Ottaviano in pregiudizio di papa Alessandro Terzo, et oltre a questa storia, che fu bellissima, dipinse Paulo sopra una finestra quattro gran figure: il Tempo, l'Unione con un fascio di bacchette, la Pacienza e la Fede, nelle quali si portò bene quanto più non saprei dire.
Non molto dopo, mancando un'altra storia in detta sala, fece tanto il Tintoretto con mezzi e con amici, ch'ella gli fu data a fare, onde la condusse di maniera, che fu una maraviglia e che ella merita di essere fra le migliori cose, che mai facesse, annoverata: tanto poté in lui il disporsi di voler paragonare, se non vincere e superare, i suoi concorrenti che avevano lavorato in quel luogo.
E la storia che egli vi dipinse, acciò anco da quei che non sono dell'arte sia conosciuta, fu papa Alessandro che scomunica et interdice Barbarossa, et il detto Federigo che per ciò fa che i suoi non rendono più ubidienza al Pontefice.
E fra l'altre cose capricciose che sono in questa storia, quella è bellissima dove il Papa et i cardinali, gettando da un luogo alto le torce e candele, come si fa quando si scomunica alcuno, è da basso una baruffa d'ignudi che s'azzuffano per quelle torce e candele, la più bella e più vaga del mondo.
Oltre ciò, alcuni basamenti, anticaglie e ritratti di gentiluomini, che sono sparsi per questa storia, sono molto ben fatti e gl'acquistarono grazia e nome appresso d'ognuno, onde in S.
Rocco, nella capella maggiore, sotto l'opera del Pordenone, fece duoi quadri a olio grandi quanto è larga tutta la capella, cioè circa braccia dodici l'uno.
In uno finse una prospettiva come d'uno spedale pieno di letta e d'infermi in varie attitudini, i quali sono molto medicati da Santo Rocco, e fra questi sono alcuni ignudi molto bene intesi et un morto in iscorto che è bellissimo; nell'altro è una storia parimente di Santo Rocco piena di molto belle e graziose figure et insomma tale ch'ell'è tenuta delle migliori opere che abbia fatto questo pittore; a mezza la chiesa in una storia della medesima grandezza fece Gesù Cristo che alla probatica piscina sana l'infermo, che è opera similmente tenuta ragionevole.
Nella chiesa di Santa Maria dell'Orto, dove si è detto di sopra che dipinsero il palco Cristofano et il fratello, pittori bresciani, ha dipinto il Tintoretto le due facciate, cioè a olio sopra tele, della capella maggiore, alte dalla volta insino alla cornice del sedere braccia ventidue.
In quella che è a man destra ha fatto Moisè, il quale tornando dal monte dove da Dio aveva avuta la legge, truova il popolo che adora il vitel d'oro, e dirimpetto a questa, nell'altra, è il Giudizio Universale del novissimo giorno, con una stravagante invenzione che ha veramente dello spaventevole e del terribile per la diversità delle figure che vi sono di ogni età e d'ogni sesso, con strafori e lontani d'anime beate e dannate.
Vi si vede anco la barca di Caronte, ma d'una maniera tanto diversa dall'altre, che è cosa bella e strana, e se quella capricciosa invenzione fusse stata condotta con disegno corretto e regolato et avesse il pittore atteso con diligenza alle parti et ai particolari, come ha fatto al tutto, esprimendo la confusione, il garbuglio e lo spavento di quel dì, ella sarebbe pittura stupendissima.
E chi la mira così a un tratto resta maravigliato, ma considerandola poi minutamente ella pare dipinta da burla.
Ha fatto il medesimo in questa chiesa, cioè nei portegli dell'organo a olio la Nostra Donna che saglie i gradi del tempio, che è un'opera finita e la meglio condotta e più lieta pittura che sia in quel luogo.
Similmente nei portegli dell'organo di Santa Maria Zebenigo fece la conversione di San Paulo, ma con non molto studio; nella Carità una tavola con Cristo deposto di croce, e nella sagrestia di San Sebastiano, a concorrenza di Paulo da Verona, che in quel luogo lavorò molte pitture nel palco e nelle facciate, fece sopra gl'armarii Moisè nel deserto et altre storie che furono poi seguitate da Natalino pittore viniziano e da altri.
Fece poi il medesimo Tintoretto in San Iobbe all'altare della Pietà tre Marie, San Francesco, San Bastiano, San Giovanni et un pezzo di paese, e nei portegli dell'organo della chiesa de' Servi, Santo Agostino e San Filippo, e di sotto Caino ch'uccide Abel suo fratello.
In San Felice all'altare del Sacramento, cioè nel cielo della tribuna, dipinse i quattro Evangelisti e nella lunetta sopra l'altare una Nunziata, nell'altra Cristo che ora in sul Monte Oliveto, e nella facciata l'ultima cena che fece con gl'Apostoli.
In San Francesco della Vigna è di mano del medesimo, all'altare del Deposto di croce, la Nostra Donna svenuta con altre Marie et alcuni Profeti, e nella scuola di San Marco da San Giovanni e Polo sono quattro storie grandi, in una delle quali è San Marco, che aparendo in aria, libera un suo divoto da molti tormenti, che se gli veggiono apparecchiati con diversi ferri da tormentare, i quali rompendosi, non gli poté mai adoperare il manigoldo contra quel devoto, et in questa è gran copia di figure, di scorti, d'armature, casamenti, ritratti et altre cose simili, che rendono molto ornata quell'opera.
In un'altra è una tempesta di mare e San Marco similmente in aria che libera un altro suo divoto; ma non è già questa fatta con quella diligenza che la già detta.
Nella terza è una pioggia et il corpo morto d'un altro divoto di San Marco e l'anima che se ne va in cielo; et in questa ancora è un componimento d'assai ragionevoli figure.
Nella quarta, dove uno spiritato si scongiura, ha finto in prospettiva una gran loggia et in fine di quella un fuoco che la illumina con molti rinverberi; et oltre alle dette storie è all'altare un San Marco di mano del medesimo, che è ragionevole pittura.
Queste opere adunque, e molte altre che si lasciano, bastando avere fatto menzione delle migliori, sono state fatte dal Tintoretto con tanta prestezza, che quando altri non ha pensato a pena che egli abbia cominciato, egli ha finito, et è gran cosa che con i più stravaganti tratti del mondo ha sempre da lavorare.
Perciò che quando non bastano i mezzi e l'amicizie a fargli avere alcun lavoro, se dovesse farlo non che per piccolo prezzo, in dono e per forza, vuol farlo ad ogni modo.
E non ha molto che avendo egli fatto nella scuola di San Rocco a olio in un gran quadro di tela la Passione di Cristo, si risolverono gl'uomini di quella Compagnia di fare di sopra dipignere nel palco qualche cosa magnifica et onorata, e perciò di allogare quell'opera a quello de' pittori che erano in Vinezia il quale facesse migliore e più bel disegno.
Chiamati adunque Iosef Salviati, Federico Zucchero, che allora era in Vinezia, Paulo da Verona et Iacopo Tintoretto, ordinarono che ciascuno di loro facesse un disegno, promettendo a colui l'opera, che in quello meglio si portasse.
Mentre adunque gl'altri attendevano a fare con ogni diligenza i loro disegni, il Tintoretto tolta la misura della grandezza che aveva ad essere l'opera e tirata una gran tela, la dipinse senza che altro se ne sapesse con la solita sua prestezza e la pose dove aveva da stare.
Onde ragunatasi una mattina la compagnia per vedere i detti disegni e risolversi, trovando il Tintoretto avere finita l'opera del tutto e postala al luogo suo.
Per che adirandosi con esso lui e dicendo che avevano chiesto disegni e non datogli a far l'opera, rispose loro che quello era il suo modo di disegnare, che non sapeva far altrimenti e che i disegni e modelli dell'opere avevano a essere a quel modo per non ingannare nessuno; e finalmente, che se non volevano pagargli l'opera e le sue fatiche, che le donava loro.
E così dicendo, ancor che avesse molte contrarietà, fece tanto, che l'opera è ancora nel medesimo luogo.
In questa tela adunque è dipinto in un cielo Dio Padre che scende con molti Angeli ad abracciare San Rocco, e nel più basso sono molte figure che significano o vero rappresentano l'altre scuole maggiori di Vinezia, come la Carità, S.
Giovanni Evangelista, la Misericordia, S.
Marco e S.
Teodoro, fatte tutte secondo la sua solita maniera.
Ma perciò che troppo sarebbe lunga opera raccontare tutte le pitture del Tintoretto, basti avere queste cose ragionato di lui, che è veramente valente uomo e pittore da essere lodato.
Essendo ne' medesimi tempi in Vinezia un pittore chiamato Brazacco, creato di casa Grimani, il quale era stato in Roma molti anni, gli fu per favori dato a dipignere il palco della sala maggiore de' Cavi de' dieci.
Ma conoscendo costui non poter far da sé et avere bisogno d'aiuto, prese per compagni Paulo da Verona e Battista Farinato, compartendo fra sé e loro nove quadri di pitture a olio che andavano in quel luogo: cioè quattro ovati ne' canti, quattro quadri bislunghi et un ovato maggiore nel mezzo, e questo con tre de' quadri dato a Paulo Veronese, il quale vi fece un Giove che fulmina i vizii et altre figure.
Prese per sé due degl'altri ovati minori con un quadro, e due ne diede a Battista.
In uno è Nettunno dio del mare e, ne gl'altri, due figure per ciascuno, dimostranti la grandezza e stato pacifico e quieto di Vinezia; et ancora che tutti e tre costoro si portassono bene, meglio di tutti si portò Paulo Veronese, onde meritò che da que' signori gli fusse poi allogato l'altro palco ch'è a canto a detta sala, dove fece a olio, insieme con Battista Farinato, un S.
Marco in aria sostenuto da certi Angeli, e da basso una Vinezia in mezzo alla Fede, Speranza e Carità, la quale opera ancor che fusse bella, non fu in bontà pari alla prima.
Fece poi Paulo solo nella Umiltà, in un ovato grande d'un palco, un'assunzione di Nostra Donna con altre figure, che fu una lieta, bella e ben intesa pittura.
È stato similmente a' dì nostri buon pittore in quella città Andrea Schiavone, dico buono perché ha pur fatto tal volta per disgrazia alcuna buon'opera e perché ha imitato sempre, come ha saputo il meglio, le maniere de' buoni.
Ma perché la maggior parte delle sue cose sono stati quadri, che sono per le case de' gentiluomini, dirò solo d'alcune che sono publiche: nella chiesa di San Sebastiano in Vinezia, alla capella di quegli da Ca' Pellegrini, ha fatto un San Iacopo con due pellegrini; nella chiesa del Carmine, nel cielo d'un coro ha fatto un'Assunta con molti Angeli e Santi, e nella medesima chiesa, alla capella della Presentazione, ha dipinto Cristo puttino, dalla Madre presentato al tempio, con molti ritratti di naturale; ma la migliore figura che vi sia è una donna che allatta un putto et ha addosso un panno giallo, la quale è fatta con una certa pratica che s'usa a Vinezia, di macchie o vero bozze, senza esser finita punto.
A costui fece fare Giorgio Vasari l'anno millecinquecento e quaranta in una gran tela a olio, la battaglia che poco innanzi era stata fra Carlo Quinto e Barbarossa, la quale opera, che fu delle migliori che Andrea Schiavone facesse mai e veramente bellissima, è oggi in Fiorenza in casa gl'eredi del Magnifico Messer Ottaviano de' Medici, al quale fu mandata a donare dal Vasari.
FINE DELLA VITA DI BATTISTA FRANCO, PITTORE VINIZIANO
VITA DI GIOVANFRANCESCO RUSTICHI SCULTORE ET ARCHITETTO FIORENTINO
È gran cosa ad ogni modo che tutti coloro i quali furono della scuola del giardino di Medici, e favoriti del Magnifico Lorenzo Vecchio, furono tutti eccellentissimi.
La qual cosa d'altronde non può essere avenuta se non dal molto anzi infinito giudizio di quel nobilissimo signore, vero mecenate degl'uomini virtuosi, il quale come sapeva conoscere gl'ingegni e spiriti elevati, così poteva ancora e sapeva riconoscergli e premiargli.
Portandosi dunque benissimo Giovanfrancesco Rustici, cittadin fiorentino, nel disegnare e fare di terra mentre era giovinetto, fu da esso Magnifico Lorenzo, il quale lo conobbe spiritoso e di bello e buono ingegno, messo a stare, perché imparasse, con Andrea del Verocchio, appresso al quale stava similmente Lionardo da Vinci, giovane raro e dotato d'infinite virtù; per che piacendo al Rustico la bella maniera et i modi di Lionardo, e parendogli che l'aria delle sue teste e le movenze delle figure fussono più graziose e fiere che quelle d'altri le quali avesse vedute già mai, si accostò a lui, imparato che ebbe a gettare di bronzo, tirare di prospettiva e lavorare di marmo, e dopo che Andrea fu andato a lavorare a Vinezia.
Stando adunque il Rustico con Lionardo e servendolo con ogni amorevole sommessione, gli pose tanto amore esso Lionardo, conoscendo quel giovane di buono e sincero animo e liberale e diligente e paziente nelle fatiche dell'arte, che non faceva né più qua né più là di quello voleva Giovanfrancesco.
Il quale, perciò che oltre all'essere di famiglia nobile, aveva da vivere onestamente, faceva l'arte più per suo diletto e disiderio d'onore, che per guadagnare.
E per dirne il vero quegl'artefici che hanno per ultimo e principale fine il guadagno e l'utile e non la gloria e l'onore, rade volte, ancor che siano di bello e buono ingegno, riescono eccellentissimi; senzaché il lavorare per vivere, come fanno infiniti aggravati di povertà e di famiglia et il fare non a capricci e quando a ciò sono volti gli animi e la volontà, ma per bisogno dalla mattina alla sera, è cosa non da uomini che abbiano per fine la gloria e l'onore, ma da opere, come si dice, e da manovali, perciò che l'opere buone non vengono fatte senza essere prima state lungamente considerate.
E per questo usava di dire il Rustico, nell'età sua più matura, che si deve prima pensare, poi fare gli schizzi et appresso i disegni, e quelli fatti, lasciargli stare settimane e mesi senza vedergli e poi, scelti i migliori, mettergli in opera; la qual cosa non può fare ognuno, né coloro l'usano che lavorano per guadagno solamente.
Diceva ancora che l'opere non si deono così mostrare a ognuno prima che sieno finite, per poter mutarle quante volte et in quanti modi altri vuole, senza rispetto niuno.
Imparò Giovanfrancesco da Lionardo molte cose, ma particolarmente a fare cavalli, de' quali si dilettò tanto, che ne fece di terra, di cera e di tondo e basso rilievo in quante maniere possono imaginarsi, et alcuni se ne veggiono nel nostro libro tanto bene disegnati, che fanno fede della virtù e sapere di Giovanfrancesco, il quale seppe anco maneggiare i colori e fece alcune pitture ragionevoli, ancor che la sua principale professione fusse la scultura.
E perché abitò un tempo nella via de' Martegli, fu amicissimo di tutti gl'uomini di quella famiglia, che ha sempre avuto uomini virtuosissimi e di valore, e particolarmente di Piero, al quale fece (come a suo più intrinseco) alcune figurette di tondo rilievo, e fra l'altre una Nostra Donna col Figlio in collo a sedere sopra certe nuvole piene di Cherubini, simile alla quale ne dipinse poi col tempo un'altra in un gran quadro a olio, con una ghirlanda di Cherubini che intorno alla testa le fa diadema.
Essendo poi tornata in Fiorenza la famiglia de' Medici, il Rustico si fece conoscere al cardinale Giovanni per creatura di Lorenzo suo padre e fu ricevuto con molte carezze, ma perché i modi della corte non gli piacevano et erano contrarii alla sua natura tutta sincera e quieta e non piena d'invidia et ambizione, si volle star sempre da sé e far vita quasi da filosofo, godendosi una tranquilla pace e riposo.
E quando pure alcuna volta volea ricrearsi o si trovava con suoi amici dell'arte, o con alcuni cittadini suoi dimestici, non restando per questo di lavorare quando voglia gliene veniva o glien'era porta occasione.
Onde nella venuta l'anno millecinquecento e quindici di papa Leone a Fiorenza, a richiesta d'Andrea del Sarto, suo amicissimo, fece alcune statue che furono tenute bellissime, le quali, perché piacquero a Giulio cardinale de' Medici, furono cagione che gli fece fare, sopra il finimento della fontana che è nel cortile grande del palazzo de' Medici, il Mercurio di bronzo alto circa un braccio, che è nudo sopra una palla, in atto di volare, al quale mise fra le mani un instrumento che è fatto, dall'acqua che egli versa in alto, girare; imperò che, essendo bucata una gamba, passa la canna per quella e per il torso onde, giunta l'acqua alla bocca della figura, percuote in quello strumento bilicato con quattro piastre sottili saldate a uso di farfalla e lo fa girare.
Questa figura dico, per cosa piccola, fu molto lodata.
Non molto dopo fece Giovanfrancesco per lo medesimo cardinale il modello per fare un Davit di bronzo simile a quello di Donato fatto al Magnifico Cosimo Vecchio, come s'è detto, per metterlo nel primo cortile, onde era stato levato quello.
Il quale modello piacque assai, ma per una certa lunghezza di Giovanfrancesco non si gettò mai di bronzo, onde vi fu messo l'Orfeo di marmo del Bandinello; et il Davit di terra fatto dal Rustico, che era cosa rarissima, andò male, che fu grandissimo danno.
Fece Giovanfrancesco in un gran tondo di mezzo rilievo una Nunziata, con una prospettiva bellissima, nella quale gli aiutò Raffaello Bello pittore e Niccolò Soggi, che gettata di bronzo riuscì di sì rara bellezza, che non si poteva vedere più bell'opera di quella, la quale fu mandata al re di Spagna.
Condusse poi di marmo in un altro tondo simile una Nostra Donna col Figliuolo in collo e San Giovanni Battista fanciulletto, che fu messo nella prima sala del magistrato de' Consoli dell'arte di Por Santa Maria.
Per quest'opere essendo venuto in molto credito Giovanfrancesco, i consoli dell'arte de' Mercatanti avendo fatto levare certe figuracce di marmo che erano sopra le tre porte del tempio di San Giovanni, già state fatte, come s'è detto, nel milledugento e quaranta, et allogate al Contucci Sansovino quelle che si avevano in luogo delle vecchie a mettere sopra la porta che è verso la Misericordia, allogarono al Rustico quelle che si avevano a porre sopra la porta che è volta verso la canonica di quel tempio, acciò facesse tre figure di bronzo di braccia quattro l'una e quelle stesse che vi erano vecchie, cioè un San Giovanni che predicasse e fusse in mezzo a un fariseo et a un levite.
La quale opera fu molto conforme al gusto di Giovanfrancesco, avendo a essere posta in luogo sì celebre e di tanta importanza, et oltre ciò per la concorrenza d'Andrea Contucci.
Messovi dunque subitamente mano e fatto un modelletto piccolo, il quale superò con l'eccellenza dell'opera, ebbe tutte quelle considerazioni e diligenza che una sì fatta opera richiedeva.
La quale finita, fu tenuta in tutte le parti la più composta e meglio intesa che per simile fusse stata fatta insino allora, essendo quelle figure d'intera perfezione e fatte nell'aspetto con grazia e bravura terribile.
Similmente le bracce ignude e le gambe sono benissimo intese et appiccate alle congiunture tanto bene, che non è possibile far più.
E, per non dir nulla delle mani e de' piedi, che graziose attitudini e che gravità eroica hanno quelle teste? Non volle Giovanfrancesco mentre conduceva di terra quest'opera altri a torno che Lionardo da Vinci, il quale nel fare le forme, armarle di ferri et insomma sempre insino a che non furono gettate le statue, non l'abbandonò mai, onde credono alcuni, ma però non ne sanno altro, che Lionardo vi lavorasse di sua mano, o almeno aiutasse Giovanfrancesco col consiglio e buon giudizio suo.
Queste statue, le quali sono le più perfette e meglio intese che siano state mai fatte di bronzo da maestro moderno, furono gettate in tre volte e rinette nella detta casa dove abitava Giovanfrancesco nella via de' Martelli, e così gl'ornamenti di marmo che sono intorno al San Giovanni, con le due colonne, cornici et insegna dell'arte de' Mercatanti.
Oltre al San Giovanni, che è una figura pronta e vivace, vi è un zuccone grassotto, che è bellissimo; il quale, posato il braccio destro sopra un fianco, con un pezzo di spalla nuda, e tenendo con la sinistra mano una carta dinanzi agl'occhi, ha sopraposta la gamba sinistra alla destra, e sta in atto consideratissimo per rispondere a San Giovanni, con due sorti di panni vestito: uno sottile, che scherza intorno alle parti ignude della figura, et un manto di sopra più grosso, condotto con un andar di pieghe che è molto facile et artifizioso.
Simile a questo è il fariseo perciò che, postasi la man destra alla barba, con atto grave, si tira alquanto a dietro, mostrando stupirsi delle parole di Giovanni.
Mentre che il Rustici faceva quest'opera, essendogli venuto a noia l'avere a chiedere ogni dì danari ai detti consoli o loro ministri, che non erano sempre que' medesimi e sono le più volte persone che poco stimano virtù o alcun'opera di pregio, vendé (per finire l'opera) un podere di suo patrimonio che avea poco fuor di Firenze a San Marco vecchio.
E non ostanti tante fatiche, spese e diligenze, ne fu male dai consoli e dai suoi cittadini remunerato; perciò che uno de' Ridolfi, capo di quell'uffizio, per alcun sdegno particolare e perché forse non l'aveva il Rustico così onorato, né lasciatogli vedere a suo commodo le figure, gli fu sempre in ogni cosa contrario.
E quello che a Giovanfrancesco dovea risultare in onore, faceva il contrario e storto, però che dove meritava d'essere stimato non solo come nobile e cittadino, ma anco come virtuoso, l'essere eccellentissimo artefice gli toglieva appresso gl'ignoranti et idioti di quello che per nobiltà se gli doveva.
Avendosi dunque a stimar l'opera di Giovanfrancesco, et avendo egli chiamato per la parte sua Michelagnolo Buonarroti, il magistrato, a persuasione del Ridolfi, chiamò Baccio d'Agnolo, di che dolendosi il Rustico e dicendo agl'uomini del magistrato, nell'udienza, che era pur cosa troppo strana che un artefice legnaiuolo avesse a stimare le fatiche d'uno statuario, e quasi che egli erano un monte di buoi, il Ridolfi rispondeva che anzi ciò era ben fatto e che Giovanfrancesco era un superbaccio et un arrogante.
Ma quello che fu peggio, quell'opera che non meritava meno di duemila scudi, gli fu stimata dal magistrato cinquecento, che anco non gli furono mai pagati interamente, ma solamente quattrocento per mezzo di Giulio cardinale de' Medici.
Veggendo dunque Giovanfrancesco tanta malignità, quasi disperato si ritirò con proposito di mai più non volere far opere per magistrati, né dove avesse a dependere più che da un cittadino o altr'uomo solo.
E così standosi da sé e menando vita soletaria nelle stanze della Sapienza a canto ai frati de' Servi, andava lavorando alcune cose per non istare in ozio e passarsi tempo.
Consumandosi oltre ciò la vita et i danari dietro a cercare di congelare mercurio in compagnia d'un altro cervello così fatto chiamato Raffaello Baglioni, dipinse Giovanfrancesco in un quadro lungo tre braccia et alto due una conversione di San Paulo a olio piena di diverse sorti cavalli sotto i soldati di esso Santo, in varie e belle attitudini e scorti.
La quale pittura insieme con molte altre cose di mano del medesimo è appresso gli eredi del già detto Piero Martelli, a cui la diede.
In un quadretto dipinse una caccia piena di diversi animali, che è molto bizzarra e vaga pittura, la quale ha oggi Lorenzo Borghini, che la tien cara come quegli che molto si diletta delle cose delle nostre arti.
Lavorò di mezzo rilievo di terra per le monache di San Luca in via di San Gallo un Cristo nell'orto che appare a Maria Madalena, il quale fu poi invetriato da Giovanni della Robbia e posto a un altare nella chiesa delle dette suore dentro a un ornamento di macigno.
A Iacopo Salviati il vecchio, del quale fu amicissimo, fece in un suo palazzo sopra al ponte alla badia un tondo di marmo bellissimo per la cappella, dentrovi una Nostra Donna, et intorno al cortile molti tondi pieni di figure di terra cotta, con altri ornamenti bellissimi, che furono la maggior parte, anzi quasi tutti, rovinati dai soldati l'anno dell'assedio e messo fuoco nel palazzo dalla parte contraria a' Medici.
E perché aveva Giovanfrancesco grande affezzione a questo luogo, si partiva per andarvi alcuna volta a Firenze così in lucco, et uscito dalla città se lo metteva in ispalla e pian piano, fantasticando, se n'andava tutto solo insin lassù; et una volta fra l'altre, essendo per questa gita e facendogli caldo, nascose il lucco in una macchia fra certi pruni e condottosi al palazzo vi stette due giorni prima che se ne ricordasse; finalmente mandando un suo uomo a cercarlo, quando vide colui averlo trovato, disse: "Il mondo è troppo buono, durerà poco".
Era uomo Giovanfrancesco di somma bontà et amorevolissimo de' poveri, onde non lasciava mai partire da sé niuno sconsolato, anzi tenendo i danari in un paniere, o pochi o assai che n'avesse, ne dava secondo il poter suo a chiunche gliene chiedeva; per che, veggendolo un povero, che spesso andava a lui per la limosina, andar sempre a quel paniere, disse, pensando non essere udito: "O Dio, se io avessi in camera quello che è dentro a quel paniere, acconcerei pure i fatti miei".
Giovanfrancesco, udendolo, poi che l'ebbe alquanto guardato fiso, disse: "Vien qua, i' vo' contentarti".
E così, votatogli in un lembo della cappa il paniere, disse: "Va, che sii benedetto".
E poco appresso mandò a Niccolò Buoni suo amicissimo, il quale faceva tutti i fatti suoi, per danari; il quale Niccolò, che teneva conto di sue ricolte de' danari di monte e vendeva le robe a' tempi, aveva per costume, secondo che esso Rustico voleva, dargli ogni settimana tanti danari, i quali tenendo poi Giovanfrancesco nella cassetta del calamaio senza chiave, ne toglieva di mano in mano chi voleva, per spendergli ne' bisogni di casa secondo che occorreva.
Ma tornando alle sue opere, fece Giovanfrancesco un bellissimo Crucifisso di legno grande quanto il vivo per mandarlo in Francia, ma rimase a Niccolò Buoni insieme con altre cose di bassi rilievi e disegni che son oggi appresso di lui, quando disegnò partirsi di Firenze, parendogli che la stanza non facesse per lui e pensando di mutare, insieme col paese, fortuna.
Al duca Giuliano, dal quale fu sempre molto favorito, fece la testa di lui in profilo di mezzo rilievo e la gettò di bronzo, che fu tenuta cosa singolare, la quale è oggi in casa Messer Alessandro di Messer Ottaviano de' Medici.
A Ruberto di Filippo Lippi pittore, il quale fu suo discepolo, diede Giovanfrancesco molte opere di sua mano di bassi rilievi, e modelli e disegni, e fra l'altre in più quadri una Leda, un'Europa, un Nettunno et un bellissimo Vulcano, et un altro quadretto di basso rilievo dove è un uomo nudo a cavallo, che è bellissimo, il quale quadro è oggi nello scrittoio di don Silvano Razzi negl'Angeli.
Fece il medesimo una bellissima femina di bronzo alta due braccia finta per una Grazia, che si premeva una poppa, ma questa non si sa dove capitasse, né in mano di cui si truovi.
De' suoi cavalli di terra con uomini sopra e sotto, simili ai già detti, ne sono molti per le case de' cittadini, i quali furono da lui, che era cortesissimo e non come il più di simili uomini avaro e scortese, a diversi suoi amici donati.
E Dionigi da Diaceto, gentiluomo onorato e da bene, che tenne ancor egli, sì come Niccolò Buoni, i conti di Giovanfrancesco e gli fu amico, ebbe da lui molti bassi rilievi.
Non fu mai il più piacevole e capriccioso uomo di Giovanfrancesco, né chi più si dilettasse d'animali: si aveva fatto così domestico un istrice, che stava sotto la tavola com'un cane et urtava alcuna volta nelle gambe in modo, che ben presto altri le tirava a sé; aveva un'aquila et un corbo che dicea infinite cose sì schiettamente, che pareva una persona.
Attese anco alle cose di negromanzia, e mediante quella, intendo che fece di strane paure ai suoi garzoni e familiari, e così viveva senza pensieri.
Avendo murata una stanza quasi a uso di vivaio et in quella tenendo molte serpi o vero biscie che non potevano uscire, si prendeva grandissimo piacere di stare a vedere, e massimamente di state, i pazzi giuochi ch'elle facevano e la fierezza loro.
Si ragunava nelle sue stanze della Sapienza una brigata di galantuomini, che si chiamavano la Compagnia del Paiuolo, e non potevano essere più che dodici: e questi erano esso Giovanfrancesco, Andrea del Sarto, Spillo pittore, Domenico Puligo, il Robetta orafo, Aristotile da San Gallo, Francesco di Pellegrino, Niccolò Boni, Domenico Baccelli, che sonava e cantava ottimamente, il Solosmeo scultore, Lorenzo detto Guazzetto e Ruberto di Filippo Lippi pittore, il quale era loro proveditore.
Ciascuno de' quali dodici a certe loro cene e passatempi poteva menare quattro e non più.
E l'ordine delle cene era questo (il che racconto volentieri perché è quasi del tutto dismesso l'uso di queste Compagnie) che ciascuno si portasse alcuna cosa da cena, fatta con qualche bella invenzione, la quale, giunto al luogo, presentava al signore, che sempre era un di loro, il quale la dava a chi più gli piaceva, scambiando la cena d'uno con quella dell'altro.
Quando erano poi a tavola, presentandosi l'un l'altro, ciascuno avea d'ogni cosa, e chi si fusse riscontrato nell'invenzione della sua cena con un altro, e fatto una cosa medesima, era condennato.
Una sera dunque che Giovanfrancesco diede da cena a questa sua Compagnia del Paiuolo, ordinò che servisse per tavola un grandissimo paiuolo fatto d'un tino, dentro al quale stavano tutti, e parea che fussino nell'acqua della caldaia: di mezzo alla quale venivono le vivande intorno intorno, et il manico del paiuolo, che era alla volta, faceva bellissima lumiera nel mezzo, onde si vedevano tutti in viso guardando intorno.
Quando furono adunque posti a tavola dentro al paiuolo benissimo accomodato, uscì del mezzo un albero con molti rami, che mettevono innanzi la cena, cioè le vivande a due per piatto; e ciò fatto, tornando a basso, dove erano persone che sonavano, di lì a poco risurgeva di sopra e porgeva le seconde vivande e dopo le terze e così di mano in mano, mentre attorno erano serventi che mescevano preziosissimi vini.
La quale invenzione del paiuolo, che con tele e pitture era accomodato benissimo, fu molto lodata da quegl'uomini della Compagnia.
In questa tornata il presente del Rustico fu una caldaia fatta di pasticcio, dentro alla quale Ulisse tuffava il padre per farlo ringiovanire, le quali due figure erano capponi lessi che avevano forma d'uomini, sì bene erano acconci le membra et il tutto con diverse cose tutte buone a mangiare; Andrea del Sarto presentò un tempio a otto faccie, simile a quello di San Giovanni, ma posto sopra colonne; il pavimento era un grandissimo piatto di gelatina con spartimenti di varii colori di musaico; le colonne, che parevano di porfido, erano grandi e grossi salsicciotti, le base et i capitegli erano di cacio parmigiano, i cornicioni di paste di zuccheri e la tribuna era di quarti di marzapane, nel mezzo era posto un leggio da coro fatto di vitella fredda con un libro di lasagne che aveva le lettere e le note da cantare di granella di pepe e quelli che cantavano al leggio erano tordi cotti col becco aperto e ritti con certe camiciuole a uso di cotte, fatte di rete di porco sottile, e dietro a questi per contrabasso erano due pippioni grossi, con sei ortolani che facevano il sovrano; Spillo presentò per la sua cena un magnano, il quale avea fatto d'una grande oca, o altro uccello simile, con tutti gl'instrumenti da potere racconciare, bisognando, il paiuolo; Domenico Puligo d'una porchetta cotta fece una fante con la rocca da filare allato, la quale guardava una covata di pulcini et aveva a servire per rigovernare il paiuolo; il Robetta per conservare il paiuolo fece d'una testa di vitella, con acconcime d'altri untumi, un'incudine, che fu molto bello e buono, come anche furono gl'altri presenti, per non dire di tutti a uno a uno di quella cena e di molte altre che ne feciono.
La Compagnia poi della Cazzuola, che fu simile a questa e della quale fu Giovanfrancesco, ebbe principio in questo modo: essendo l'anno 1512 una sera a cena, nell'orto che aveva nel campaccio Feo d'Agnolo gobbo, sonatore di pifferi e persona molto piacevole, esso Feo, ser Bastiano Sagginati, ser Raffaello del Beccaio, ser Cecchino de' Profumi, Girolamo del Giocondo et il Baia, venne veduto, mentre che si mangiavano le ricotte, al Baia in un canto dell'orto appresso alla tavola un monticello di calcina, dentrovi la cazzuola, secondo che il giorno innanzi l'aveva quivi lasciata un muratore; per che prese con quella mestola o vero cazzuola alquanto di quella calcina, la cacciò tutta in bocca a Feo, che da un altro aspettava a bocca aperta un gran boccone di ricotta, il che vedendo la brigata, si cominciò a gridare: "Cazzuola, cazzuola!".
Creandosi dunque per questo accidente la detta Compagnia, fu ordinato che in tutto gl'uomini di quella fussero ventiquattro, dodici di quelli che andavano, come in que' tempi si diceva, per la maggiore, e dodici per la minore, e che l'insegna di quella fusse una cazzuola, alla quale aggiunsero poi quelle botticine nere che hanno il capo grosso e la coda, le quali si chiamano in Toscana cazzuole.
Il loro avvocato era Santo Andrea, il giorno della cui festa celebravano solennemente, facendo una cena e convito, secondo i loro capitoli, bellissimo.
I primi di questa Compagnia, che andavano per la maggiore, furono Iacopo Bottegai, Francesco Rucellai, Domenico suo fratello, Giovambatista Ginori, Girolamo del Giocondo, Giovanni Miniati, Niccolò del Barbigia, Mezzabotte suo fratello, Cosimo da Panzano, Matteo suo fratello, Marco Iacopi, Pieraccino Bartoli; e per la minore, ser Bastiano Sagginotti, ser Raffaello del Beccaio, ser Cecchino de' Profumi, Giuliano Bugiardini pittore, Francesco Granacci pittore, Giovanfrancesco Rustici, Feo gobbo, il Talina sonatore suo compagno, Pierino Piffero, Giovanni Trombone et il Baia bombardiere.
Gl'aderenti furono Bernardino di Giordano, il Talano, il Caiano, maestro Iacopo del Bientina e Messer Giovambatista di Cristofano ottonaio, araldi ambedue della signoria, Buon Pocci e Domenico Barlacchi.
E non passarono molti anni (tanto andò crescendo in nome) facendo feste e buon tempi, che furono fatti di essa Compagnia della Cazzuola il signor Giuliano de' Medici, Ottangolo Benvenuti, Giovanni Canigiani, Giovanni Serristori, Giovanni Gaddi, Giovanni Bandini, Luigi Martelli, Paulo da Romena e Filippo Pandolfini gobbo.
E con questi in una medesima mano, come aderenti, Andrea del Sarto dipintore, Bartolomeo Trombone musico, ser Bernardo Pisanello, Piero cimatore, il Gemma merciaio et ultimamente maestro Manente da San Giovanni medico.
Le feste che costoro feciono in diversi tempi furono infinite, ma ne dirò solo alcune poche per chi non sa l'uso di queste Compagnie che oggi sono, come si è detto, quasi del tutto dismesse.
La prima della Cazzuola, la quale fu ordinata da Giuliano Bugiardini, si fece in un luogo detto l'Aia, da Santa Maria Nuova, dove dicemo disopra, che furono gettate di bronzo le porte di San Giovanni.
Quivi dico, avendo il signor della Compagnia comandato che ognuno dovesse trovarsi vestito in che abito gli piaceva, con questo che coloro che si scontrassero nella maniera del vestire et avessero una medesima foggia fussero condennati, comparsero all'ora deputata le più belle e più bizzarre stravaganze d'abiti che si possano imaginare; venuta poi l'ora di cena, furon posti a tavola secondo le qualità de' vestimenti.
Chi aveva abiti da principi ne' primi luoghi, i ricchi e gentiluomini appresso, et i vestiti da poveri negl'ultimi e più bassi gradi, ma se dopo cena si fecero delle feste e de' giuochi, meglio è lasciare che altri se lo pensi, che dirne alcuna cosa.
A un altro pasto che fu ordinato dal detto Bugiardino e da Giovanfrancesco Rustici, comparsero gl'uomini della Compagnia, sì come avea il signor ordinato, tutti in abito di muratori e manovali: cioè quelli che andavano per la maggiore con la cazzuola che tagliasse et il martello a cintola, e quegli che per la minore vestiti da manovali col vassoio e manovelle da far lieva e la cazzuola sola a cintola.
Et arrivati tutti nella prima stanza, avendo loro mostrato il signore la pianta d'uno edifizio che si aveva da murare per la Compagnia, e dintorno a quello messo a tavola i maestri, i manovali cominciarono a portare le materie per fare il fondamento: cioè vassoi pieni di lasagne cotte per calcina e ricotte acconce col zucchero, rena fatta di cacio, spezie e pepe mescolati, e per ghiaia confetti grossi e spicchi di berlingozzi, i quadrucci, mezzane e pianelle che erano portate ne' corbelli e con le barelle, erano pane e stiacciate.
Venuto poi uno imbasamento, perché non pareva dagli scarpellini stato così ben condotto e lavorato, fu giudicato che fusse ben fatto spezzarlo e romperlo, per che, datovi dentro e trovatolo tutto composto di torte, fegategli et altre cose simili, se le goderono essendo loro poste innanzi dai manovali.
Dopo, venuti i medesimi in campo con una gran colonna fasciata di trippe di vitella cotte e quella disfatta e dato il lesso di vitella e caponi et altro di che era composta, si mangiarono la basa di cacio parmigiano et il capitello acconcio maravigliosamente con intagli di caponi arrosto, fette di vitella e con la cimasa di lingue.
Ma perché sto io a contare tutti i particolari? Dopo la colonna fu portato sopra un carro un pezzo di molto artifizioso architrave con fregio e cornicione, in simile maniera tanto bene e di tante diverse vivande composto, che troppo lunga storia sarebbe voler dirne l'intero; basta che quando fu tempo di svegliare, venendo una pioggia fitta dopo molti tuoni, tutti lasciarono il lavoro e si sfuggirono et andò ciascuno a casa sua.
Un'altra volta essendo nella medesima Compagnia signore Matteo da Panzano, il convito fu ordinato in questa maniera: Cerere cercando Proserpina sua figliuola, la quale avea rapita Plutone, entrata dove erano ragunati gli uomini della Cazzuola dinanzi al loro signore, gli pregò che volessino accompagnarla all'inferno, alla quale dimanda dopo molte dispute essi acconsentendo, le andarono dietro.
E così entrati in una stanza alquanto oscura, videro in cambio d'una porta una grandissima bocca di serpente, la cui testa teneva tutta la facciata; alla quale porta d'intorno accostandosi tutti, mentre Cerbero abaiava, dimandò Cerere se là entro fusse la perduta figliuola, et essendole risposto di sì, ella soggiunse che disiderava di riaverla.
Ma avendo risposto Plutone non voler renderla et invitatale con tutta la Compagnia alla nozze che s'apparecchiavano, fu accettato l'invito; per che, entrati tutti per quella bocca piena di denti, che essendo gangherata s'apriva a ciascuna coppia d'uomini che entrava e poi si chiudeva, si trovarono in ultimo in una gran stanza di forma tonda, la quale non aveva altro che un assai piccolo lumicino nel mezzo, il quale sì poco risplendeva, che a fatica si scorgevano.
Quivi essendo da un bruttissimo diavolo, che era nel mezzo con un forcone, messi a sedere dove erano le tavole apparecchiate di nero, comandò Plutone che per onore di quelle sue nozze cessassero, per insino a che quivi dimoravano, le pene dell'inferno; e così fu fatto.
E perché erano in quella stanza tutte dipinte le bolgie del regno de' dannati e le loro pene e tormenti, dato fuoco a uno stopino in un baleno fu acceso a ciascuna bolgia un lume che mostrava nella sua pittura in che modo e con quali pene fussero quelli che erano in essa tormentati.
Le vivande di quella infernal cena furono tutti animali schifi e bruttissimi in apparenza, ma però dentro, sotto la forma del pasticcio e coperta abominevole, erano cibi delicatissimi e di più sorti.
La scorza dico, et il difuori mostrava che fussero serpenti, biscie, ramarri, lucertole, tarantole, botte, ranocchi, scorpioni, pipistrelli et altri simili animali, et il didentro era composizione d'ottime vivande.
E queste furono poste in tavola con una pala, e dinanzi a ciascuno e con ordine, dal diavolo che era nel mezzo, un compagno del quale mesceva con un corno di vetro, ma di fuori brutto e spiacevole, preziosi vini in coreggiuoli da fondere invetriati, che servivano per bicchieri.
Finite queste prime vivande, che furono quasi un antipasto, furono messe per frutte, fingendo che la cena (affatica non cominciata) fusse finita, in cambio di frutte e confezzioni, ossa di morti giù giù per tutta la tavola, le quali frutte e reliquie erano di zucchero.
Ciò fatto, comandando Plutone, che disse voler andare a riposarsi con Proserpina sua, che le pene tornassero a tormentare i dannati, furono da certi venti in un attimo spenti tutti i già detti lumi et uditi infiniti romori, grida e voci orribili e spaventose e fu veduta nel mezzo di quelle tenebre, con un lumicino, l'imagine del Baia bombardiere, che era uno de' circostanti, come s'è detto, condannato da Plutone all'inferno, per avere nelle sue girandole e machine di fuoco avuto sempre per suggetto et invenzione i sette peccati mortali e cose d'inferno.
Mentre che a vedere ciò et a udire diverse lamentevoli voci s'attendeva, fu levato via il doloroso e funesto apparato, e venendo i lumi, veduto in cambio di quello un apparecchio reale e ricchissimo e con orrevoli serventi che portarono il rimanente della cena, che fu magnifica et onorata; al fine della quale venendo una nave piena di varie confezioni, i padroni di quella, mostrando di levar mercanzie, condussero a poco a poco gl'uomini della Compagnia nelle stanze di sopra, dove essendo una scena et apparato ricchissimo, fu recitata una comedia intitolata Filogenia, che fu molto lodata; e quella finita all'alba ognuno si tornò lietissimo a casa.
In capo a due anni, toccando dopo molte feste e comedie al medesimo a essere un'altra volta signore, per tassare alcuni della Compagnia che troppo avevano speso in certe feste e conviti (per essere mangiati, come si dice, vivi) fece ordinare il convito suo in questa maniera.
All'Aia, dove erano soliti ragunarsi, furono primieramente fuori della porta nella facciata, dipinte alcune figure di quelle che ordinariamente si fanno nelle facciate e ne' portici degli spedali, cioè lo spedalingo che in atti tutti pieni di carità invita e riceve i poveri e peregrini; la quale pittura scopertasi la sera della festa al tardi, cominciarono a comparire gl'uomini della Compagnia, i quali bussando, poi che all'entrare erano dallo spedalingo stati ricevuti, pervenivano a una gran stanza acconcia a uso di spedale con le sue letta dagli lati et altre cose simiglianti; nel mezzo della quale dintorno a un gran fuoco erano vestiti a uso di poltronieri, furfanti e poveracci, il Bientina, Battista dell'Ottonaio, il Barlacchi, il Baia et altri così fatti uomini piacevoli, i quali fingendo di non esser veduti da coloro che di mano in mano entravano e facevano cerchio e discorrendo sopra gl'uomini della Compagnia e sopra loro stessi, dicevano le più ladre cose del mondo di coloro che avevano gettato via il loro e speso in cene et in feste troppo più che non conviene.
Il quale discorso finito, poi che si videro esser giunti tutti quelli che vi avevono a essere, venne santo Andrea loro avvocato, il quale, cavandogli dello spedale, gli condusse in un'altra stanza magnificamente apparecchiata, dove messi a tavola, cenarono allegramente, e dopo il santo comandò loro piacevolmente che per non soprabondare in spese superflue et avere a stare lontano dagli spedali, si contentassero d'una festa l'anno, principale e solenne, e si partì.
Et essi l'ubidirono facendo per ispazio di molti anni ogni anno una bellissima cena e comedia, onde recitarono in diversi tempi, come si disse nella vita d'Aristotile da San Gallo, la Calandra di Messer Bernardo cardinale di Bibbiena, i Suppositi e la Cassaria dell'Ariosto, e la Clizia e Mandragola del Machiavello, con altre molte.
Francesco e Domenico Rucellai nella festa che toccò a far loro quando furono signori, fecero una volta l'Arpie di Fineo e l'altra, dopo una disputa di filosofi sopra la Trinità, fecero mostrare da santo Andrea un cielo aperto con tutti i cori degl'angeli, che fu cosa veramente rarissima; e Giovanni Gaddi con l'aiuto di Iacopo Sansovino, d'Andrea del Sarto e di Giovanfrancesco Rustici, rappresentò un Tantalo nell'inferno che diede mangiare a tutti gl'uomini della Compagnia, vestiti in abiti di diversi dii, con tutto il rimanente della favola e con molte capricciose invenzioni di giardini, paradisi, fuochi lavorati et altre cose che troppo, raccontandole, farebbono lunga la nostra storia.
Fu anche bellissima invenzione quella di Luigi Martelli, quando essendo signor della Compagnia, le diede cena in casa di Giuliano Scali alla porta Pinti; perciò che rappresentò Marte per la crudeltà tutto di sangue imbrattato, in una stanza piena di membra umane sanguinose, in un'altra stanza mostrò Marte e Venere nudi in un letto, e poco appresso Vulcano, che avendogli coperti sotto la rete, chiama tutti gli dii a vedere l'oltraggio fattogli da Marte e dalla trista moglie.
Ma è tempo oggimai dopo questa, che parrà forse ad alcuno troppo lunga digressione, che non del tutto a me pare fuor di proposito per molte cagioni stata raccontata, che io torni alla vita del Rustico.
Giovanfrancesco adunque, non molto sodisfacendogli, dopo la cacciata de' Medici l'anno 1528, il vivere di Firenze, lasciato d'ogni sua cosa cura a Niccolò Boni, con Lorenzo Naldini cognominato Guazzetto, suo giovane, se n'andò in Francia; dove, essendo fatto conoscere al re Francesco da Giovambatista della Palla, che allora là si trovava, e da Francesco di Pellegrino suo amicissimo che v'era andato poco innanzi, fu veduto ben volentieri et ordinatogli una provisione di cinquecento scudi l'anno.
Dal qual Re, a cui fece Giovanfrancesco alcune cose, delle quali non si ha particolarmente notizia, gli fu dato a fare ultimamente un cavallo di bronzo due volte grande quanto il naturale, sopra il quale doveva esser posto esso Re.
Laonde, avendo messo mano all'opera, dopo alcuni modelli, che molto erano al Re piaciuti, andò continuando di lavorare il modello grande et il cavo per gettarlo, in un gran palazzo statogli dato a godere dal Re.
Ma che che se ne fusse cagione, il Re si morì prima che l'opera fusse finita; ma perché nel principio del regno d'Enrico, furono levate le provisioni a molti e ristrette le spese della corte, si dice che Giovanfrancesco, trovandosi vecchio e non molto agiato, si viveva, non avendo altro, del frutto che traeva del fitto di quel gran palagio e casamento che aveva avuto a godersi dalla liberalità del re Francesco; ma la fortuna, non contenta di quanto aveva insino allora quell'uomo sopportato, gli diede, oltre all'altre, un'altra grandissima percossa; perché avendo donato il re Enrico quel palagio al signor Piero Strozzi, si sarebbe trovato Giovanfrancesco a pessimo termine; ma la pietà di quel signore, al quale increbbe molto della fortuna del Rustico che se gli diede a conoscere, gli venne nel maggior bisogno a tempo, imperò che il signor Piero mandandolo a una badia, o altro luogo che si fusse, del fratello, non solamente sovvenne la povera vecchiezza di Giovanfrancesco, ma lo fece servire e governare, secondo che la sua molta virtù meritava, insino all'ultimo della vita.
Morì Giovanfrancesco d'anni ottanta, e le sue cose rimasero per la maggior parte al detto signore Piero Strozzi.
Non tacerò essermi venuto a notizia che mentre Antonio Mini, discepolo del Buonarroti, dimorò in Francia e fu da Giovanfrancesco trattenuto et accarezzato in Parigi, che vennero in mano di esso Rustichi alcuni cartoni, disegni e modelli di mano di Michelagnolo, de' quali una parte ebbe Benvenuto Cellini scultore mentre stette in Francia, il quale gli ha condotti a Fiorenza.
Fu Giovanfrancesco, come si è detto, non pure senza pari nelle cose di getto, ma costumatissimo, di somma bontà e molto amatore de' poveri, onde non è maraviglia se fu con molta liberalità sovvenuto nel suo maggior bisogno di danari e d'ogni altra cosa dal detto signor Piero; però che è sopra ogni verità verissimo che in mille doppi, eziandio in questa vita, sono ristorate le cose che al prossimo ci fanno per Dio.
Disegnò il Rustico benissimo come, oltre al nostro libro, si può vedere in quello de' disegni del molto reverendo don Vincenzio Borghini.
Il sopra detto Lorenzo Naldini, cognominato Guazzetto, discepolo del Rustico, ha in Francia molte cose lavorato ottimamente di scultura, ma non ho potuto sapere i particolari, come né anco dal suo maestro, il quale si può credere che non stesse tanti anni in Francia quasi ozioso, né sempre intorno a quel suo cavallo.
Aveva il detto Lorenzo alcune case fuor della porta a San Gallo ne' borghi, che furono per l'assedio di Firenze rovinati, che gli furono insieme con l'altre dal popolo gettate per terra, la qual cosa gli dolse tanto, che tornando egli a rivedere la patria l'anno 1540, quando fu vicino a Fiorenza un quarto di miglio si mise la capperuccia d'una sua cappa in capo e si coprì gl'occhi per non vedere disfatto quel borgo e la sua casa nell'entrare per la detta porta; onde, veggendolo così incarruffato le guardie della porta e dimandando che ciò volesse dire, intesero da lui perché si fusse così coperto e se ne risero.
Costui essendo stato pochi mesi in Firenze, se ne tornò in Francia e vi menò la madre, dove ancora vive e lavora.
IL FINE DELLA VITA DI GIOVANFRANCESCO RUSTICHI FIORENTINO
VITA DI FRA' GIOVANN'AGNOLO MONTORSOLI SCULTORE
Nascendo a un Michele d'Agnolo da Poggibonzi, nella villa chiamata Montorsoli, lontana da Firenze tre miglia in sulla strada di Bologna, dove aveva un suo podere assai grande e buono, un figliuolo maschio, gli pose il nome di suo padre cioè Angelo.
Il quale fanciullo crescendo et avendo, per quello che si vedeva, inclinazione al disegno, fu posto dal padre, essendo a così fare consigliato dagl'amici, allo scarpellino con alcuni maestri che stavano nelle cave di Fiesole, quasi dirimpetto a Montorsoli, appresso ai quali continuando Angelo di scarpellare in compagnia di Francesco del Tadda, allora giovinetto, e d'altri, non passarono molti mesi che seppe benissimo maneggiare i ferri e lavorare molte cose di quello esercizio.
Avendo poi per mezzo del Tadda fatto amicizia con maestro Andrea scultore da Fiesole, piacque a quello uomo in modo l'ingegno del fanciullo, che postogli affezione, gli cominciò a insegnare, e così lo tenne appresso di sé tre anni.
Dopo il quale tempo, essendo morto Michele suo padre, se n'andò Angelo in compagnia di altri giovani scarpellini alla volta di Roma, dove essendosi messo a lavorare nella fabrica di San Piero, intagliò alcuni di que' rosoni che sono nella maggior cornice che gira dentro a quel tempio, con suo molto utile e buona provisione.
Partitosi poi di Roma, non so perché, si acconciò in Perugia con un maestro di scarpello, che in capo a un anno gli lasciò tutto il carico de' suoi lavori.
Ma conoscendo Agnolo che lo stare a Perugia non faceva per lui e che non imparava, portasegli occasione di partire se n'andò a lavorare a Volterra nella sepoltura di Messer Raffaello Maffei detto il Volaterranno, nella quale, che si faceva di marmo, intagliò alcune cose, che mostrarono quell'ingegno dovere fare un giorno qualche buona riuscita.
La quale opera finita, intendendo che Michelagnolo Buonarroti metteva allora in opera i migliori intagliatori e scarpellini che si trovassero, nelle fabriche della sagrestia e libreria di San Lorenzo, se n'andò a Firenze dove messo a lavorare, nelle prime cose che fece conobbe Michelagnolo in alcuni ornamenti che quel giovinetto era di bellissimo ingegno e risoluto e che più conduceva egli solo in un giorno che in due non facevono i maestri più pratichi e vecchi.
Onde fece dare a lui fanciullo il medesimo salario che essi attempati tiravano.
Fermandosi poi quelle fabriche l'anno 1527 per la peste e per altre ragioni, Agnolo non sapendo che altro farsi, se n'andò a Poggibonzi, là onde avevano avuto origine i suoi, padre et avolo, e quivi con Messer Giovanni Norchiati suo zio, persona religiosa e di buone lettere, si trattenne un pezzo, non facendo altro che disegnare e studiare.
Ma venutagli poi volontà, veggendo il mondo sotto sopra, d'essere religioso e d'attendere alla quiete e salute dell'anima sua, se n'andò a l'eremo di Camaldoli, dove provando quella vita e non patendo que' disagi e digiuni et astinenze di vita, non si fermò altrimenti.
Ma tuttavia nel tempo che vi dimorò, fu molto grato a que' padri perché era di buona condizione, et in detto tempo il suo trattenimento fu intagliare in capo d'alcune mazze, o vero bastoni, che que' santi padri portano quando vanno da Camaldoli all'ermo, o altrimenti a diporto per la selva quando si dispensa il silenzio, teste d'uomini e di diversi animali, con belle e capricciose fantasie.
Partito dall'eremo con licenzia e buona grazia del maggiore et andatosene alla Vernia, come quelli che ad ogni modo era tirato a essere religioso, vi stette un pezzo, seguitando il coro e conversando con que' padri.
Ma né anco quella vita piacendogli, dopo avere avuto informazioni del vivere di molte religioni in Fiorenza et in Arezzo, dove andò partendosi dalla Vernia, et in niun'altra potendosi accomodare in modo, che gli fusse comodo attendere al disegno et alla salute dell'anima, si fece finalmente frate negl'Ingesuati di Firenze, fuor della porta Pinti, e fu da loro molto volentieri ricevuto con speranza, attendendo essi alle finestre di vetro, che egli dovesse in ciò essere loro di molto aiuto e comodo.
Ma non dicendo que' padri messa secondo l'uso del vivere e Regola loro, e tenendo per ciò un prete che la dica ogni mattina, avevano allora per capellano un fra' Martino dell'Ordine de' Servi, persona d'assai buon giudizio e costumi.
Costui dunque, avendo conosciuto l'ingegno del giovane e considerato che poco poteva esercitarlo fra que' padri che non fanno altro che dire paternostri, fare finestre di vetro, stillare acqua, acconciare orti et altri somiglianti esercizii, e non istudiano, né attendono alle lettere, seppe tanto fare e dire, che il giovane, uscito degl'Ingesuati, si vestì ne' frati de' Servi della Nunziata di Firenze a' dì sette d'ottobre l'anno 1530 e fu chiamato fra' Giovann'Agnolo.
L'anno poi 1531, avendo in quel mentre apparato le cerimonie et ufficii di quell'Ordine e studiato l'opere d'Andrea del Sarto che sono in quel luogo, fece, come dicono essi, professione; e l'anno seguente, con piena sodisfazione di quei padri e contentezza de' suoi parenti, cantò la sua prima messa, con molta pompa et onore.
Dopo essendo state da giovani più tosto pazzi che valorosi nella cacciata de' Medici guaste l'imagini di cera di Leone, Clemente e d'altri di quella famiglia nobilissima, che vi erano posti per voto, deliberando i frati che si rifacessero, fra' Giovann'Agnolo con l'aiuto d'alcuni di loro, che attendevano a sì fatte opere d'imagini, rinovò alcune che v'erano vecchie e consumate dal tempo e di nuovo fece il papa Leone e Clemente, che ancor vi si veggiono; e poco dopo il re di Bossina et il signor Vecchio di Piombino; nelle quali opere acquistò fra' Giovann'Agnolo assai.
Intanto essendo Michelagnolo a Roma appresso papa Clemente, il qual voleva che l'opera di San Lorenzo si seguitasse e perciò l'avea fatto chiamare, gli chiese Sua Santità un giovane che restaurasse alcune statue antiche di Belvedere, che erano rotte.
Per che ricordatosi il Buonarroto di fra' Giovann'Agnolo, lo propose al Papa e Sua Santità per un suo breve lo chiese al generale dell'Ordine de' Servi, che gliel concedette, per non poter far altro e mal volentieri.
Giunto dunque il frate a Roma, nelle stanze di Belvedere, che dal Papa gli furono date per suo abitare e lavorare, rifece il braccio sinistro che mancava all'Apollo et il destro del Laoconte che sono in quel luogo, e diede ordine di racconciare l'Ercole similmente.
E perché il Papa quasi ogni mattina andava in Belvedere per suo spasso e dicendo l'ufficio, il frate il ritrasse di marmo tanto bene, che gli fu l'opera molto lodata e gli pose il Papa grandissima affezione, e massimamente veggendolo studiosissimo nelle cose dell'arte e che tutta la notte disegnava per avere ogni mattina nuove cose da mostrare al Papa, che molto se ne dilettava.
In questo mentre essendo vacato un canonicato di San Lorenzo di Fiorenza, chiesa stata edificata e dotata dalla casa de' Medici, fra' Giovann'Agnolo, che già avea posto giù l'abito di frate, l'ottenne per Messer Giovanni Norchiati suo zio, che era in detta chiesa cappellano.
Finalmente avendo deliberato Clemente che il Buonarroto tornasse a Firenze a finire l'opere della sagrestia e libreria di San Lorenzo, gli diede ordine, perché vi mancavano molte statue, come si dirà nella vita di esso Michelagnolo, che si servisse dei più valentuomini che si potessero avere, e particolarmente del frate, tenendo il medesimo modo che aveva tenuto il San Gallo per finire l'opere della Madonna di Loreto.
Condottosi dunque Michelagnolo et il frate a Firenze, Michelagnolo nel condurre le statue del duca Lorenzo e Giuliano si servì molto del frate nel rinettarle e fare certe difficultà di lavori traforati in sotto squadra, con la quale occasione imparò molte cose il frate da quello uomo veramente divino, standolo con attenzione a vedere lavorare et osservando ogni minima cosa.
Ora perché fra l'altre statue, che mancavano al finimento di quell'opera, mancavano un San Cosimo e Damiano che dovevano mettere in mezzo la Nostra Donna, diede a fare Michelagnolo a Raffaello Monte Lupo il San Damiano et al frate San Cosimo, ordinandogli che lavorasse nelle medesime stanze dove egli stesso avea lavorato e lavorava.
Messovi dunque il frate con grandissimo studio intorno all'opera, fece un modello grande di quella figura che fu ritocco dal Buonarroto in molte parti, anzi fece di sua mano Michelagnolo la testa e le braccia di terra, che sono oggi in Arezzo tenute dal Vasari, fra le sue più care cose, per memoria di tanto uomo.
Ma non mancarono molti invidiosi che biasimarono in ciò Michelagnolo, dicendo che in allogare quella statua avea avuto poco iudizio e fatto mala elezzione, ma gl'effetti mostrarono poi, come si dirà, che Michelagnolo avea avuto ottimo giudicio e che il frate era valentuomo.
Avendo Michelagnolo finiti con l'aiuto del frate e posti su le statue del duca Lorenzo e Giuliano, essendo chiamato dal Papa, che volea si desse ordine di fare di marmo la facciata di San Lorenzo, andò a Roma; ma non vi ebbe fatto molta dimora che, morto papa Clemente, si rimase ogni cosa imperfetta; onde scopertasi a Firenze con l'altre opere la statua del frate, così imperfetta come era, ella fu sommamente lodata, e nel vero, o fusse lo studio e diligenza di lui, o l'aiuto di Michelagnolo, ella riuscì poi ottima figura e la migliore che mai facesse il frate di quante ne lavorò in vita sua; onde fu veramente degna di essere, dove fu, collocata.
Rimaso libero il Buonarroto per la morte del Papa dall'obligo di San Lorenzo, voltò l'animo a uscir di quello che aveva per la sepoltura di papa Giulio Secondo, ma perché aveva in ciò bisogno d'aiuto, mandò per lo frate, il quale non andò a Roma altrimenti prima che avesse finita del tutto l'imagine del duca Alessandro nella Nunziata, la quale condusse fuor dell'uso dell'altre e bellissima, in quel modo che esso signore si vede armato e ginocchioni sopra un elmo alla borgognona e con una mano al petto in atto di raccomandarsi a quella Madonna.
Fornita adunque questa imagine et andato a Roma, fu di grande aiuto a Michelagnolo nell'opera della già detta sepoltura di Giulio Secondo.
In tanto intendendo il cardinale Ipolito de' Medici che il cardinale Turnone aveva da menare in Francia per servizio del Re uno scultore, gli mise innanzi fra' Giovann'Agnolo, il quale essendo a ciò molto persuaso con buone ragioni da Michelagnolo, se n'andò col detto cardinale Turnone a Parigi; dove giunti fu introdotto al Re, che il vide molto volentieri e gl'assegnò poco appresso una buona provisione, con ordine che facesse quattro statue grandi, delle quali non aveva anco il frate finiti i modelli, quando essendo il Re lontano et occupato in alcune guerre ne' confini del regno con gl'inglesi, cominciò a essere bistrattato dai tesorieri et a non tirare le sue provisioni, né avere cosa che volesse secondo che dal Re era stato ordinato.
Per che sdegnatosi e parendogli che quanto stimava quel magnanimo Re le virtù e gli uomini virtuosi, altretanto fussero dai ministri disprezzate e vilipese, si partì, non ostante che dai tesorieri, i quali pur s'avidero del suo mal animo, gli fussero le sue decorse provisioni pagate infino a un quattrino.
Ma è ben vero che prima che si movesse, per sue lettere fece asapere così al Re come al cardinale volersi partire.
Da Parigi dunque andato a Lione, e di lì per la Provenza a Genova, non vi fé molta stanza ché in compagnia d'alcuni amici andò a Vinezia, Padova, Verona e Mantoa, veggendo con molto suo piacere, e talora disegnando, fabriche, sculture e pitture, ma sopra tutte molto gli piacquero in Mantoa le pitture di Giulio Romano, alcuna delle quali disegnò con diligenza.
Avendo poi inteso in Ferrara et in Bologna che i suoi frati de' Servi facevano capitolo generale a Budrione, vi andò per visitare molti amici suoi e particolarmente maestro Zacheria fiorentino, suo amicissimo, ai preghi del quale fece in un dì et una notte due figure di terra grandi quanto il naturale, cioè la Fede e la Carità, le quali finte di marmo bianco, servirono per una fonte posticcia, da lui fatta con un gran vaso di rame, che durò a gettar acqua tutto il giorno che fu fatto il generale, con molta sua lode et onore.
Da Budrione tornatosene con detto maestro Zacheria a Firenze nel suo convento de' Servi, fece similmente di terra, e le pose in due nicchie del capitolo, due figure maggiori del naturale, cioè Moisè e San Paulo, che gli furono molto lodate.
Essendo poi mandato in Arezzo da maestro Dionisio, allora generale de' Servi, il quale fu poi fatto cardinale da papa Paulo III et il quale si sentiva molto obligato al generale Angelo d'Arezzo che l'avea allevato et insegnatogli le buone lettere, fece fra' Giovann'Agnolo al detto generale aretino una bella sepoltura di macigno in S.
Piero di quella città, con molti intagli et alcune statue, e di naturale sopra una cassa il detto generale Angelo e due putti nudi di tondo rilievo, che piagnendo spengono le faci della vita umana, con altri ornamenti che rendono molto bella quest'opera; la quale non era anco finita del tutto quando, essendo chiamato a Firenze dai proveditori sopra l'apparato che allora faceva fare il duca Alessandro, per la venuta in quella città di Carlo V imperadore che tornava vittorioso da Tunis, fu forzato partirsi.
Giunto dunque a Firenze, fece al ponte a Santa Trinita sopra una basa grande una figura d'otto braccia che rappresentava il fiume Arno a giacere, il quale in atto mostrava di rallegrarsi col Reno, Danubio, Biagrada et Ibero fatti da altri, della venuta di sua maestà, il quale Arno dico fu una molto bella e buona figura.
In sul canto de' Carnesecchi fece il medesimo in una figura di dodici braccia Iason duca degl'Argonauti, ma questa per esser di smisurata grandezza et il tempo corto, non riuscì della perfezzione che la prima; come né anco una Ilarità augusta che fece al canto alla Cuculia.
Ma considerata la brevità del tempo nel quale egli condusse quest'opere, elle gl'acquistarono grand'onore e nome così appresso gl'artefici come l'universale.
Finita poi l'opera d'Arezzo, intendendo che Girolamo Genga avea da fare un'opera di marmo in Urbino, l'andò il frate a trovare, ma non si essendo venuto a conchiudere niuna, prese la volta di Roma, e quivi badato poco, se n'andò a Napoli con speranza d'avere a fare la sepoltura di Iacopo Sanazaro gentiluomo napoletano e poeta veramente singolare e rarissimo.
Avendo edificato il Sanazaro a Margoglino, luogo di bellissima vista et amenissimo nel fine di Chiaia sopra la marina, una magnifica e molto commoda abitazione, la quale si godé mentre visse, lasciò venendo a morte quel luogo, che ha forma di convento, et una bella chiesetta all'Ordine de' frati de' Servi, ordinando al signor Cesare Mormerio et al signor conte di Lif, esecutori del suo testamento, che nella detta chiesa da lui edificata, e la quale doveva essere ufficiata dai detti padri, gli facessero la sua sepoltura.
Ragionandosi dunque di farla, fu proposto dai frati ai detti essecutori fra' Giovann'Agnolo, al quale, andato egli come s'è detto a Napoli, finalmente fu la detta sepoltura allogata, essendo stati giudicati i suoi modelli assai migliori di molti altri che n'erano stati fatti da diversi scultori, per mille scudi.
De' quali avendo avuto buona partita, mandò a cavare i marmi Francesco del Tadda da Fiesole, intagliatore eccellente, al quale aveva dato a fare tutti i lavori di quadro e d'intaglio che avevano a farsi in quell'opera per condurla più presto.
Mentre che il frate si metteva a ordine per fare la detta sepoltura, essendo in Puglia venuta l'armata turchesca e perciò standosi in Napoli con non poco timore, fu dato ordine di fortificare la città e fatti sopra ciò quattro grand'uomini e di migliore giudizio; i quali per servirsi d'architettori intendenti, andarono pensando al frate, il quale avendo di ciò alcuno sentore avuto e non parendogli che ad uomo religioso come egli era istesse bene adoperarsi in cose di guerra, fece intendere a detti essecutori che farebbe quell'opera o in Carrara, o in Fiorenza, e ch'ella sarebbe al promesso tempo condotta e murata al luogo suo.
Così dunque condottosi da Napoli a Fiorenza, gli fu subito fatto intendere dalla signora donna Maria, madre del duca Cosimo, che egli finisse il S.
Cosimo, che già aveva cominciato con ordine del Buonarroto, per la sepoltura del Magnifico Lorenzo Vecchio.
Onde rimessovi mano, lo finì; e ciò fatto, avendo il Duca fatto fare gran parte de' condotti per la fontana grande di Castello sua villa et avendo quella ad avere per finimento un Ercole in cima che facesse scoppiare Anteo, a cui uscisse in cambio del fiato acqua di bocca che andasse in alto, fu fattone fare al frate un modello assai grandetto, il quale piacendo a sua eccellenza, fu comessogli che lo facesse et andasse a Carrara a cavare il marmo; la dove andò il frate molto volentieri per tirare innanzi con quella occasione la detta sepoltura del Sanazzaro e particolarmente una storia di figure di mezzo rilievo.
Standosi dunque il frate a Carrara, il cardinale Doria scrisse di Genova al cardinal Cibo, che si trovava a Carrara, che non avendo mai finita il Bandinello la statua del principe Doria e non avendola a finire altrimenti, che procacciasse di fargli avere qualche valentuomo scultore che la facesse, perciò che avea cura di sollecitare quell'opera.
La quale lettera avendo ricevuta Cibo, che molto innanzi avea cognizione del frate, fece ogni opera di mandarlo a Genova, ma egli disse sempre non potere e non volere in niun modo servire sua signoria reverendissima, se prima non sodisfaceva all'obligo e promessa che aveva col duca Cosimo.
Avendo mentre che queste cose si trattavano tirata molto innanzi la sepoltura del Sanazzaro et abbozzato il marmo dell'Ercole, se ne venne con esso a Firenze, dove con molta prestezza e studio lo condusse a tal termine, che poco arebbe penato a fornirlo del tutto, se avesse seguitato di lavorarvi; ma essendo uscita una voce che il marmo a gran pezza non riusciva opera perfetta come il modello e che il frate era per averne difficultà a rimettere insieme le gambe dell'Ercole che non riscontravano col torso, Messer Pierfrancesco Riccio maiordomo, che pagava la provisione al frate, cominciò, lasciandosi troppo più volgere di quello che doverebbe un uomo grave, ad andare molto ratenuto a pagargliela, credendo troppo al Bandinello che con ogni sforzo pontava contro a colui, per vendicarsi dell'ingiuria che parea che gl'avesse fatto di aver promesso voler fare la statua del Doria, disobligato che fusse dal Duca.
Fu anco openione che il favore del Tribolo, il quale faceva gl'ornamenti di Castello, non fusse d'alcun giovamento al frate, il quale, comunche si fusse, vedendosi essere bistrattato dal Riccio, come collerico e sdegnoso, se n'andò a Genova, dove dal cardinale Doria e dal principe gli fu allogata la statua di esso principe che dovea porsi in sulla piazza Doria; alla quale avendo messo mano senza però intralasciare del tutto l'opera del Sanazzaro, mentre il Tadda lavorava a Carrara il resto degl'intagli e del quadro, la finì con molta sodisfazione del principe e de' genovesi.
E se bene la detta statua era stata fatta per dovere essere posta in sulla piazza Doria, fecero nondimeno tanto i genovesi, che a dispetto del frate ella fu posta in sulla piazza della Signoria, non ostante che esso frate dicesse che avendola lavorata perché stesse isolata sopra un basamento, ella non poteva star bene, né avere la sua veduta a canto a un muro.
E per dire il vero non si può far peggio che mettere un'opera fatta per un luogo in un altro; essendo che l'artefice nell'operare si va quanto ai lumi e le vedute accomodando al luogo dove dee essere la sua o scultura o pittura collocata.
Dopo ciò vedendo i genovesi e piacendo molto loro le storie et altre figure fatte per la sepoltura del Sanazzaro, vollono che il frate facesse per la loro chiesa catedrale un San Giovanni Evangelista, che finito, piacque loro tanto, che ne restarono stupefatti.
Da Genova partito finalmente fra' Giovann'Agnolo andò a Napoli dove nel luogo già detto mise su la sepoltura detta del Sanazzaro, la quale è così fatta: in sui canti da basso sono due piedistalli, in ciascuno de' quali è intagliata l'arme di esso Sanazzaro, e nel mezzo di questi è una lapide di braccia uno e mezzo, nella quale è intagliato l'epitaffio che Iacopo stesso si fece, sostenuto da due puttini; di poi sopra ciascuno dei piedistalli è una statua di marmo tonda a sedere, alta quattro braccia, cioè Minerva et Apollo, et in mezzo a queste fra l'ornamento di due mensole, che sono dai lati, è una storia di braccia due e mezzo per ogni verso, dentro la quale sono intagliati di basso rilievo fauni, satiri, ninfe et altre figure, che suonano e cantano nella maniera che ha scritto nella sua dottissima Arcadia di versi pastorali quell'uomo eccellentissimo.
Sopra questa storia è posta una cassa tonda di bellissimo garbo e tutta intagliata et adorna molto, nella quale sono l'ossa di quel poeta, e sopra essa in sul mezzo è in una basa la testa di lui ritratta dal vivo con queste parole a piè: "Actius Sincerus", accompagnata da due putti con l'ale a uso d'amori, che intorno hanno alcuni libri.
In due nicchie poi, che sono dalle bande nell'altre due facce della cappella, sono sopra due base due figure tonde di marmo ritte e di tre braccia l'una o poco più: cioè San Iacopo apostolo e San Nazzaro.
Murata dunque nella guisa che s'è detta quest'opera, ne rimasero sodisfattissimi i detti signori esecutori e tutto Napoli.
Dopo ricordandosi il frate d'avere promesso al principe Doria di tornare a Genova, per fargli in San Matteo la sua sepoltura et ornare tutta quella chiesa, si partì subito da Napoli et andossene a Genova, dove arrivato e fatti i modelli dell'opera che dovea fare a quel signore, i quali gli piacquero infinitamente, vi mise mano con buona provisione di danari e buon numero di maestri.
E così dimorando il frate in Genova fece molte amicizie di signori et uomini virtuosi e particolarmente con alcuni medici, che gli furono di molto aiuto, perciò che giovandosi l'un l'altro e facendo molte notomie di corpi umani et attendendo all'architettura e prospettiva, si fece fra' Giovann'Agnolo eccellentissimo.
Oltre ciò, andando spesse volte il principe dove egli lavorava e piacendogli i suoi ragionamenti, gli pose grandissima affezione.
Similmente in detto tempo di due suoi nipoti che aveva lasciati in custodia a maestro Zacheria gliene fu mandato uno chiamato Angelo, giovane di bell'ingegno e costumato, e poco appresso dal medesimo un altro giovanetto chiamato Martino, figliuolo d'un Bartolomeo sarto, de' quali ambi due giovani insegnando loro, come gli fussero figliuoli, si servì il frate in quell'opera che avea fra mano.
Della quale ultimamente venuto a fine, messe su la cappella, sepoltura e gl'altri ornamenti fatti per quella chiesa; la quale facendo a sommo la prima navata del mezzo una croce e giù per lo manico tre, ha l'altar maggiore nel mezzo et in testa isolato.
La cappella dunque è retta ne' cantoni da quattro gran pilastri, i quali sostengono parimente il cornicione che gira intorno e sopra cui girano in mezzo tondo quattro archi, che posano alla dirittura de' pilastri; de' quali archi tre ne sono nel vano di mezzo, ornati di finestre non molto grandi, e sopra questi archi gira una cornice tonda, che fa quattro angoli fra arco et arco ne' canti, e di sopra fa una tribuna a uso di catino.
Avendo dunque il frate fatto molti ornamenti di marmo, dintorno all'altare da tutte quattro le bande, sopra quello pose un bellissimo e molto ricco vaso di marmo per lo Santissimo Sacramento, in mezzo a due Angeli pur di marmo, grandi quanto il naturale; intorno poi gira un partimento di pietre commesse nel marmo con bello e variato andare di mischi e pietre rare, come sono serpentini, porfidi e diaspri.
E nella testa e faccia principale della cappella, fece un altro partimento dal piano del pavimento insino all'altezza di simili mischi e marmi, il quale fa basamento a quattro pilastri di marmo che fanno tre vani, in quello del mezzo, che è maggior degl'altri, è in una sepoltura il corpo di non so che Santo, et in quelli dalle bande sono due statue di marmo fatte per due Evangelisti.
Sopra questo ordine è una cornice, e sopra la cornice altri quattro pilastri minori che reggono un'altra cornice, che fa spartimento per tre quadretti che ubbidiscono ai vani di sotto; in quel di mezzo, che posa in sulla maggior cornice, è un Cristo di marmo che risuscita, di tutto rilievo e maggiore del naturale.
Nelle facce dalle bande ribatte il medesimo ordine, e sopra la detta sepoltura nel vano di mezzo è una Nostra Donna di mezzo rilievo con Cristo morto, la quale Madonna mettono in mezzo Davit re e San Giovanni Battista, e nell'altra è Santo Andrea e Geremia profeta.
I mezzi tondi degl'archi sopra la maggior cornice, dove sono due finestre, sono di stucchi con putti intorno, che mostrano ornare la finestra.
Negl'angoli sotto la tribuna sono quattro sibille similmente di stucco, sì come è anco lavorata tutta la volta a grottesche di varie maniere; sotto questa cappella è fabricata una stanza sotterranea, la quale, scendendo per scale di marmo, si vede in testa una cassa di marmo con due putti sopra, nella quale doveva essere posto, come credo sia stato fatto dopo la sua morte, il corpo di esso signore Andrea Doria.
E dirimpetto alla cassa, sopra un altare, dentro a un bellissimo vaso di bronzo, che fu fatto e rinetto, da chi si fusse che lo gettasse, divinamente, è alquanto del legno della Santissima Croce sopra cui fu crucifisso Gesù Cristo benedetto, il qual legno fu donato a esso principe Doria dal duca di Savoia.
Sono le pariete di detta tomba tutte incrostate di marmo e la volta lavorata di stucchi e d'oro con molte storie de' fatti egregii del Doria, et il pavimento è tutto spartito di varie pietre mischie a corrispondenza della volta; sono poi nelle facciate della crociera della navata, da sommo, due sepolture di marmo con due tavole di mezzo rilievo; in una è sepolto il conte Filippino Doria e nell'altra il signor Giannettino della medesima famiglia.
Ne' pilastri dove comincia la navata del mezzo, sono due bellissimi pergami di marmo; e dalle bande delle navate minori sono spartite nelle facciate con bell'ordine d'architettura alcune cappelle con colonne et altri molti ornamenti, che fanno quella chiesa essere un'opera veramente magnifica e ricchissima.
Finita la detta chiesa, il medesimo principe Doria fece mettere mano al suo palazzo e fargli nuove aggiunte di fabriche e giardini bellissimi, che furono fatti con ordine del frate, il quale avendo in ultimo fatto, dalla parte dinanzi di detto palazzo, un vivaio, fece di marmo un mostro marino, di tondo rilievo, che versa in gran copia acqua nella detta peschiera; simile al quale mostro ne fece un altro a que' signori, che fu mandato in Ispagna al Granvela.
Fece un gran Nettunno di stucco, che sopra un piedistallo fu posto nel giardino del Principe; fece di marmo due ritratti del medesimo Principe e due di Carlo Quinto, che furono portati da Coves in Ispagna.
Furono molto amici del frate, mentre stette in Genova, Messer Cipriano Palavigino, il quale per essere di molto giudizio nelle cose delle nostre arti ha praticato sempre volentieri con gl'artefici più eccellenti e quelli in ogni cosa favoriti, il signore abbate Negro, Messer Giovanni da Monte Pulvano et il signor Priore di San Matteo, et insomma tutti i primi gentiluomini e signori di quella città, nella quale acquistò il frate fama e ricchezza.
Finite dunque le sopra dette opere, si partì fra' Giovann'Agnolo di Genova e se n'andò a Roma per rivedere il Buonarroto, che già molti anni non aveva veduto, e vedere se per qualche mezzo avesse potuto rapiccare il filo col duca di Fiorenza e tornare a fornire l'Ercole che aveva lasciato imperfetto.
Ma arrivato a Roma, dove si comperò un cavalierato di San Piero, inteso per lettere avute da Fiorenza che il Bandinello, mostrando aver bisogno di marmo e facendo a credere che il detto Ercole era un marmo storpiato, l'aveva spezzato con licenzia del maiorduomo Riccio e servitosene a far cornici per la sepoltura del signor Giovanni, la quale egli allora lavorava, se ne prese tanto sdegno, che per allora non volle altrimenti tornare a rivedere Fiorenza, parendogli che troppo fusse sopportata la prosonzione, arroganza et insolenza di quell'uomo.
Mentre che il frate si andava trattenendo in Roma avendo i messinesi deliberato di fare sopra la piazza del lor Duomo una fonte con un ornamento grandissimo di statue, avevano mandati uomini a Roma a cercare d'avere uno eccellente scultore; i quali uomini, se bene avevano fermo Raffaello da Monte Lupo, perché s'infermò quando apunto volea partire con esso loro per Messina, fecero altra resoluzione e condussero il frate, che con ogni instanza e qualche mezzo cercò d'avere quel lavoro.
Avendo dunque posto in Roma al legnaiuolo Angelo suo nipote che gli riuscì di più grosso ingegno che non aveva pensato, con Martino si partì il frate e giunsono in Messina del mese di settembre 1547, dove, accomodati di stanze e messo mano a fare il condotto dell'acque che vengono di lontano et a fare venire marmi da Carrara, condusse con l'aiuto di molti scarpellini et intagliatori con molta prestezza quella fonte, che è così fatta: ha, dico, questa fonte otto facce, cioè quattro grandi e principali e quattro minori, due delle quali maggiori venendo in fuori fanno in sul mezzo un angolo, e due, andando in dentro, s'accompagnano con un'altra faccia piana che fa l'altra parte dell'altre quattro facce, che in tutto sono otto.
Le quattro facce angolari, che vengono in fuori facendo risalto, danno luogo alle quattro piane, che vanno in dentro; e nel vano è un pilo assai grande, che riceve acque in gran copia da quattro fiumi di marmo che accompagnano il corpo del vaso di tutta la fonte intorno alle dette otto facce; la qual fonte posa sopra un ordine di quattro scalee che fanno dodici facce: otto maggiori che fanno la forma dell'angolo, e quattro minori dove sono i pili.
E sotto i quattro fiumi sono le sponde alte palmi cinque, et in ciascun angolo (che tutti fanno venti facce) fa ornamento un termine; la circonferenza del primo vaso dall'otto facce è centodue palmi et il diametro è trentaquattro, et in ciascuna delle dette venti facce è intagliata una storietta di marmo in basso rilievo, con poesie di cose convenienti a fonti et acque, come dire il cavallo Pegaso che fa il fonte Castalio, Europa che passa il mare, Icaro che volando cade nel medesimo, Aretusa conversa in fonte, Iason che passa il mare col montone d'oro, Narciso converso in fonte, Diana nel fonte che converte Ateon in cervio, con altre simili.
Negl'otto angoli che dividono i risalti delle scale della fonte che saglie due gradi andando ai pili et ai fiumi e quattro alle sponde angolari sono otto mostri marini in diverse forme a giacere sopra certi dadi, con le zampe dinanzi che posano sopra alcune maschere, le quali gettano acqua in certi vasi.
I fiumi che sono in sulla sponda et i quali posano di dentro sopra un dado tanto alto, che pare che seggano nell'acqua, sono il Nilo con sette putti, il Tevere circondato da una infinità di palme e trofei, l'Ibero con molte vittorie di Carlo Quinto et il fiume Cumano vicino a Messina, dal quale si prendono l'acque di questa fonte, con alcune storie e ninfe fatte con belle considerazioni.
Et insino a questo piano di dieci palmi sono sedici getti d'acqua grossissimi: otto ne fanno le maschere dette, quattro i fiumi e quattro alcuni pesci alti sette palmi, i quali stando nel vaso ritti e con la testa fuora gettano acqua dalla parte della maggior faccia.
Nel mezzo dell'otto facce, sopra un dado alto quattro palmi, sono sopra ogni canto una serena con l'ale e senza braccia, e sopra queste, le quali si annodano nel mezzo, sono quattro tritoni alti otto palmi, i quali anch'essi con le code annodate e con le braccia reggono una gran tazza, nella quale gettano acqua quattro maschere intagliate superbamente; di mezzo alla quale tazza surgendo un piede tondo sostiene due maschere bruttissime, fatte per Scilla e Cariddi, le quali sono conculcate da tre ninfe ignude grandi sei palmi l'una, sopra le quali è posta l'ultima tazza, che da loro è con le braccia sostenuta.
Nella quale tazza, facendo basamento quattro delfini col capo basso e con le code alte, reggono una palla, di mezzo alla quale per quattro teste esce acqua che va in alto e così dai delfini sopra i quali sono a cavallo quattro putti nudi.
Finalmente nell'ultima cima è una figura armata rappresentante Orione, stella celeste, che ha nello scudo l'arme della città di Messina, della quale si dice, o più tosto si favoleggia essere stata edificatrice.
Così fatta dunque è la detta fonte di Messina, ancor che non si possa così ben con le parole come si farebbe col disegno dimostrarla.
E perché ella piacque molto a' messinesi, gliene feciono fare un'altra in sulla marina dove è la dogana, la quale riuscì anch'essa bella e ricchissima; et ancor che quella similmente sia a otto facce, è nondimeno diversa dalla sopra detta, perciò che questa ha quattro facce di scale che sagliono tre gradi, e quattro altre minori mezze tonde, sopra le quali dico è la fonte in otto facce; e le sponde della fontana grande di sotto hanno al pari di loro in ogni angolo un piedistallo intagliato, e nelle facce della parte dinanzi un altro in mezzo a quattro di esse.
Dalle parte poi dove sono le scale tonde è un pilo di marmo aovato, nel quale per due maschere, che sono nel parapetto sotto le sponde intagliate, si getta acqua in molta copia; e nel mezzo del bagno di questa fontana è un basamento alto a proporzione, sopra il quale è l'arme di Carlo Quinto et in ciascun angolo di detto basamento è un cavallo marino che fra le zampe schizza acqua in alto.
E nel fregio del medesimo, sotto la cornice di sopra, sono otto mascheroni che gettano all'ingiù otto polle d'acqua, et in cima è un Nettunno di braccia cinque il quale avendo il tridente in mano posa la gamba ritta a canto a un delfino; sono poi dalle bande sopra due altri basamenti Scilla e Cariddi in forma di due mostri, molto ben fatti, con teste di cane e di furie intorno.
La quale opera finita similmente piacque molto a' messinesi i quali avendo trovato un uomo secondo il gusto loro diedero, finite le fonti, principio alla facciata del Duomo, tirandola alquanto inanzi, e dopo ordinarono di far dentro dodici cappelle d'opera corinzia, cioè sei per banda con i dodici Apostoli di marmo di braccia cinque l'uno, delle quali tutte ne furono solamente finite quattro dal frate, che vi fece di sua mano un San Pietro et un San Paulo, che furono due grandi e molto buone figure.
Doveva anco fare in testa della cappella maggiore un Cristo di marmo, con ricchissimo ornamento intorno, e sotto ciascuna delle statue degl'Apostoli una storia di basso rilievo, ma per allora non fece altro.
In sulla piazza del medesimo Duomo ordinò con bella architettura il tempio di San Lorenzo, che gli fu molto lodato.
In sulla marina fu fatta di suo ordine la torre del fanale, e mentre che queste cose si tiravano innanzi, fece condurre in San Domenico per il capitan Cicala una cappella, nella quale fece di marmo una Nostra Donna grande quanto il naturale, e nel chiostro della medesima chiesa, alla cappella del signor Agnolo Borsa, fece in marmo di basso rilievo una storia, che fu tenuta bella e condotta con molta diligenza; fece anco condurre, per lo muro di Santo Agnolo, acqua per una fontana e vi fece di sua mano un putto di marmo grande che versa in un vaso molto adorno e benissimo accomodato, che fu tenuta bell'opera, et al muro della Vergine fece un'altra fontana, con una Vergine di sua mano che versa acqua in un pilo; e per quella che è posta al palazzo del signor don Filippo Laroca, fece un putto maggiore del naturale d'una certa pietra che s'usa in Messina, il qual putto, che è in mezzo a certi mostri et altre cose marittime, getta acqua in un vaso.
Fece di marmo una statua di quattro braccia, cioè una Santa Caterina martire molto bella, la quale fu mandata a Tarumezia, luogo lontano da Messina 24 miglia.
Furono amici di fra' Giovann'Agnolo, mentre stette in Messina, il detto signor don Filippo Laroca e don Francesco della medesima famiglia, Messer Bardo Corsi, Giovanfrancesco Scali e Messer Lorenzo Borghini, tutti tre gentiluomini fiorentini allora in Messina, Serafino da Fermo et il signor gran mastro di Rodi che più volte fece opera di tirarlo a Malta e farlo cavalieri, ma egli rispose non volere confinarsi in quell'isola, senza che pur alcuna volta, conoscendo che faceva male a stare senza l'abito della sua Religione, pensava di tornare.
E nel vero so io che quando bene non fusse stato in un certo modo forzato, era risoluto ripigliarlo e tornare a vivere da buono religioso.
Quando adunque al tempo di papa Paulo Quarto, l'anno 1557 furono tutti gl'apostati o vero sfratati astretti a tornare alle loro Religioni sotto gravissime pene, fra' Giovann'Agnolo lasciò l'opere che avea fra mano et in suo luogo Martino suo creato, e da Messina del mese di maggio, se ne venne a Napoli per tornare alla sua Religione de' Servi in Fiorenza.
Ma prima che altro facesse, per darsi a Dio interamente, andò pensando come dovesse i suoi molti guadagni dispensare convenevolmente; e così dopo avere maritate alcune sue nipote fanciulle povere et altre della sua patria e da Montorsoli, ordinò che ad Angelo suo nipote, del quale si è già fatto menzione, fussero dati in Roma mille scudi e comperatogli un cavaliere del giglio; a due spedali di Napoli diede per limosina buona somma di danari per ciascuno; al suo convento de' Servi lasciò mille scudi per comperare un podere, e quello di Montorsoli stato de' suoi antecessori: con questo, che a due suoi nipoti frati del medesimo Ordine fussino pagati ogni anno, durante la vita loro, venticinque scudi per ciascuno, e con alcuni altri carichi che di sotto si diranno; le quali cose, come ebbe accomodato, si scoperse in Roma e riprese l'abito con molta sua contentezza e de' suoi frati, e particolarmente di maestro Zaccheria.
Dopo venuto a Fiorenza fu ricevuto e veduto dagl'amici e parenti con incredibile piacere e letizia.
Ma ancor che avesse deliberato il frate di volere il rimanente della vita spendere in servigio di Nostro Signore Dio e dell'anima sua e starsi quietamente in pace, godendosi un cavalierato che s'era serbato, non gli venne ciò fatto così presto, perciò che, essendo con istanzia chiamato a Bologna da maestro Giulio Bovio, zio del vascone Bovio, perché facesse nella chiesa de' Servi l'altar maggiore tutto di marmo et isolato, et oltre ciò una sepoltura con figure e ricco ornamento di pietre mischie et incostrature di marmo, non poté mancargli, e massimamente avendosi a fare quell'opera in una chiesa del suo Ordine.
Andato dunque a Bologna e messo mano all'opera, la condusse in ventotto mesi, facendo il detto altare, il quale da un pilastro all'altro chiude il coro de' frati tutto di marmo dentro e fuori con un Cristo nudo nel mezzo di braccia due e mezzo e con alcun'altre statue dagli lati.
È l'architettura di quest'opera bella veramente, e ben partita et ordinata, e commessa tanto bene, che non si può far meglio; il pavimento ancora, dove in terra è la sepoltura del Bovio, è spartito con bell'ordine, e certi candellieri di marmo et alcune storiette e figurine sono assai bene accomodate, et ogni cosa è ricca d'intaglio; ma le figure, oltre che son piccole per la difficultà che si ha di condurre pezzi grandi di marmo a Bologna, non sono pari all'architettura, né molto da essere lodate.
Mentre che fra' Giovann'Agnolo lavorava in Bologna quest'opera, come quello che in ciò non era anco ben risoluto, andava pensando in che luogo potesse più comodamente di quelli della sua Religione consumare i suoi ultimi anni, quando maestro Zaccheria suo amicissimo, che allora era priore della Nunziata di Firenze, disiderando di tirarlo e fermarlo in quel luogo, parlò di lui col duca Cosimo, riducendogli a memoria la virtù del frate e pregando che volesse servirsene; a che, avendo risposto il Duca benignamente e che si servirebbe del frate tornato che fusse da Bologna, maestro Zaccaria gli scrisse del tutto, mandatogli appresso una lettera del cardinale Giovanni de' Medici, nella quale il confortava quel signore a tornare a fare nella patria qualche opera segnalata di sua mano.
Le quali lettere avendo il frate ricevuto, ricordandosi che Messer Pierfrancesco Ricci, dopo essere vivuto pazzo molti anni era morto, e che similmente il Bandinello era mancato, i quali parea che poco gli fussero stati amici, riscrisse che non mancherebbe di tornare quanto prima potesse a servire sua eccellenza illustrissima, per fare in servigio di quella non cose profane, ma alcun'opera sacra, avendo tutto volto l'animo al servigio di Dio e de' suoi Santi.
Finalmente dunque, essendo tornato a Fiorenza l'anno 1561, se n'andò con maestro Zaccheria a Pisa, dove erano il signor Duca et il Cardinale, per fare a loro illustrissime signorie reverenza.
Da' quali signori essendo stato benignamente ricevuto e carezzato, e dettogli dal Duca che nel suo ritorno a Fiorenza gli sarebbe dato a fare un'opera d'importanza, se ne tornò.
Avendo poi ottenuto col mezzo di maestro Zaccheria licenza dai suoi frati della Nunziata di potere ciò fare, fece nel capitolo di quel convento, dove molti anni innanzi aveva fatto il Moisè e San Paulo di stucchi, come s'è detto di sopra, una molto bella sepoltura in mezzo per sé e per tutti gl'uomini dell'arte del disegno, pittori, scultori et architettori che non avessono proprio luogo dove essere sotterrati, con animo di lasciare come fece per contratto che que' frati, per i beni che lascerebbe loro, fussero obligati dire messa alcuni giorni di festa e feriali in detto capitolo, e che ciascun anno, il giorno della Santissima Trinità, si facesse festa solennissima et il giorno seguente un ufficio di morti per l'anime di coloro che in quel luogo fussero stati sotterrati.
Questo suo disegno adunque, avendo esso fra' Giovann'Agnolo e maestro Zacheria scoperto a Giorgio Vasari, che era loro amicissimo, et insieme avendo discorso sopra le cose della Compagnia del disegno che al tempo di Giotto era stata creata et aveva le sue stanze avute in Santa Maria Nuova di Fiorenza, come ne appare memoria ancor oggi all'altar maggiore dello spedale, dal detto tempo insino a' nostri, pensarono con questa occasione di raviarla e rimetterla su.
E perché era la detta Compagnia dall'altar maggiore sopra detto stata traportata (come si dirà nella vita di Iacopo di Casentino) sotto le volte del medesimo spedale in sul canto della via della Pergola, e di lì poi era stata ultimamente levata e tolta loro da don Isidoro Montaguti spedalingo di quel luogo, ella si era quasi del tutto dismessa e più non si ragunava.
Avendo, dico, il frate, maestro Zacheria e Giorgio discorso sopra lo stato di detta Compagnia lungamente, poi che il frate ebbe parlato di ciò col Bronzino, Francesco San Gallo, Amannato, Vincenzio de' Rossi, Michel di Ridolfo et altri molti scultori e pittori de' primi, e manifestato loro l'animo suo, venuta la mattina della Santissima Trinità, furono tutti i più nobili et eccellenti artefici dell'arte del disegno in numero di quarantotto ragunati nel detto capitolo, dove si era ordinato una bellissima festa e dove già era finita la detta sepoltura e l'altare tirato tanto innanzi, che non mancavano se non alcune figure che v'andavano di marmo.
Quivi, detta una solennissima messa, fu fatta da un di que' padri una bell'orazione in lode di fra' Giovann'Agnolo e della magnifica liberalità che egli faceva alla Compagnia detta, donando loro quel capitolo, quella sepoltura e quella cappella.
Della quale, acciò pigliassero il possesso, conchiuse essersi già ordinato che il corpo del Puntormo, il quale era stato posto in un deposito nel primo chiostretto della Nunziata, fusse primo di tutti messo in detta sepoltura.
Finita dunque la messa e l'orazione, andati tutti in chiesa dove in una bara erano l'ossa del detto Puntormo, postolo sopra le spalle de' più giovani, con una falcola per uno et alcune torce, girando intorno la piazza il portarono nel detto capitolo, il quale dove prima era parato di panni d'oro, trovarono tutto nero, e pieno di morti dipinti et altre cose simili.
E così fu il detto Puntormo collocato nella nuova sepoltura.
Licenziandosi poi la Compagnia, fu ordinata la prima tornata per la prossima domenica, per dar principio, oltre al corpo della Compagnia, a una scelta de' migliori e creato un'accademia, con l'aiuto della quale chi non sapeva imparasse, e chi sapeva, mosso da onorata e lodevole concorrenza, andasse maggiormente acquistando.
Giorgio intanto, avendo di queste cose parlato col Duca e pregatolo a volere così favorire lo studio di queste nobili arti, come avea fatto quello delle lettere, avendo riaperto lo studio di Pisa, creato un collegio di scolari e dato principio all'Accademia fiorentina, lo trovò tanto disposto ad aiutare e favorire questa impresa quanto più non arebbe saputo disiderare.
Dopo queste cose avendo i frati de' Servi meglio pensato al fatto, si risolverono, e lo fecero intendere alla Compagnia, di non volere che il detto capitolo servisse loro se non per farvi feste, uffici e seppellire, e che in niun altro modo volevano avere, mediante le loro tornate e ragunarsi, quella servitù nel loro convento.
Di che avendo parlato Giorgio col Duca e chiestogli un luogo, sua eccellenza disse avere pensato di accomodarne loro uno, dove non solamente potrebbono edificare una Compagnia, ma avere largo campo di mostrare, lavorando, la virtù loro.
E poco dopo scrisse e fece intendere per Messer Lelio Torelli al priore e monaci degl'Angeli che accomodassono la detta Compagnia del tempio stato cominciato nel loro monasterio da Filippo Scolari detto lo Spano.
Ubbidirono i frati e la Compagnia fu accomodata d'alcune stanze, nelle quali si ragunò più volte, con buona grazia di que' padri che anco nel loro capitolo proprio gl'accettarono alcune volte molto cortesemente.
Ma essendo poi detto al signor Duca che alcuni di detti monaci non erano del tutto contenti che là entro si edificasse la Compagnia, perché il monasterio arebbe quella servitù et il detto tempio, il quale dicevano volere con l'opere loro fornire, si starebbe quanto a loro a quel modo, sua eccellenza fece sapere agl'uomini dell'Accademia, che già aveva avuto principio et avea fatta la festa di San Luca nel detto tempio, che poiché i monaci, per quanto intendeva, non molto di buonavoglia gli volevano in casa, che non mancherebbe di proveder loro un altro luogo.
Disse oltre ciò il detto signor Duca, come principe veramente magnanimo che è, non solo voler favorire sempre la detta Accademia, ma egli stesso esser capo, guida e protettore e che per ciò crearebbe, anno per anno, un luogotenente che in sua vece intervenisse a tutte le tornate.
E così facendo per lo primo elesse il reverendo don Vincenzio Borghini, spedalingo degl'Innocenti, delle quali grazie et amorevolezze mostrate dal signor Duca a questa sua nuova Accademia fu ringraziato da dieci de' più vecchi et eccellenti di quella; ma perché della riforma della Compagnia e degl'ordini dell'Accademia si tratta largamente ne' capitoli che furono fatti dagl'uomini a ciò deputati et eletti da tutto il corpo per riformatori, fra' Giovann'Agnolo, Francesco da San Gallo, Agnolo Bronzino, Giorgio Vasari, Michele di Ridolfo e Pierfrancesco di Iacopo di Sandro, coll'intervento del detto luogotenente e confermazione di sua eccellenza, non ne dirò altro in questo luogo.
Dirò bene, che non piacendo a molti il vecchio sugello et arme o vero insegna della Compagnia, il quale era un bue con l'ali a giacere, animale dell'Evangelista San Luca, e che ordinatosi perciò che ciascuno dicesse o mostrasse con un disegno il parer suo, si videro i più bei capricci e le più stravaganti e belle fantasie che si possano imaginare.
Ma non perciò è anco risoluto interamente quale debba essere accettato.
Martino intanto, discepolo del frate, essendo da Messina venuto a Fiorenza, in pochi giorni morendosi, fu sotterrato nella sepoltura detta, stata fatta dal suo maestro, e non molto poi, nel 1564, fu nella medesima con onoratissime essequie sotterrato esso padre fra' Giovann'Agnolo, stato scultore eccellente e dal molto reverendo e dottissimo maestro Michelagnolo publicamente nel tempio della Nunziata lodato con una molto bella orazione.
E nel vero hanno le nostre arti, per molte cagioni, grand'obligo con fra' Giovann'Agnolo, per avere loro portato infinito amore et agl'artefici di quella parimente.
E di quanto giovamento sia stata e sia l'Accademia, che quasi da lui, nel modo che si è detto, ha avuto principio, e la quale è oggi in protezione del signor duca Cosimo e di suo ordine si raguna in San Lorenzo nella sagrestia nuova, dove sono tant'opere di scultura di Michelagnolo, si può da questo conoscere che non pure nell'essequie di esso Buonarroto, che furono, per opera de' nostri artefici e con l'aiuto del Principe, non dico magnifiche, ma poco meno che reali, delle quali si ragionerà nella vita sua, ma in molte altre cose, hanno per la concorrenza i medesimi, e per non essere indegni accademici, cose maravigliose operato.
Ma particolarmente nelle nozze dell'illustrissimo signor principe di Fiorenza e di Siena, il signor don Francesco Medici, e della serenissima reina Giovanna d'Austria, come da altri interamente è stato con ordine raccontato e da noi sarà a luogo più comodo largamente replicato.
E perciò che non solo in questo buon padre, ma in altri ancora de' quali si è ragionato disopra, si è veduto e vede continuamente che i buoni religiosi (non meno che nelle lettere, nei publici studii e nei sacri concilii) sono di giovamento al mondo e d'utile nell'arti e negl'esercizii più nobili e che non hanno a vergognarsi in ciò dagl'altri, si può dire non essere per aventura del tutto vero quello che alcuni, più da ira e da qualche particolare sdegno che da ragione mossi e da verità, affermarono troppo largamente di loro: cioè che essi a cotal vita si danno, come quegli che per viltà d'animo non hanno argomento, come gl'altri uomini, di civanzarsi; ma Dio gliel perdoni.
Visse fra' Giovann'Agnolo anni 56, e morì all'ultimo d'agosto 1563.
FINE DELLA VITA DI FRA' GIOVANN'AGNOLO MONTORSOLI, SCULTORE
VITA DI FRANCESCO DETTO DE' SALVIATI PITTORE FIORENTINO
Fu padre di Francesco Salviati, del quale al presente scriviamo la vita et il quale nacque l'anno 1510, un buon uomo chiamato Michelagnolo de' Rossi, tessitore di velluti, il quale, avendo non questo solo, ma molti altri figliuoli maschi e femine, e per ciò bisogno d'essere aiutato, aveva seco medesimo deliberato di volere per ogni modo che Francesco attendesse al suo mestiero di tessere velluti.
Ma il giovinetto, che ad altro avea volto l'animo et a cui dispiaceva il mestiero di quell'arte, come che anticamente ella fusse esercitata da persone non dico nobili, ma assai agiate e ricche, malvolentieri in questo seguitava il volere del padre.
Anzi praticando nella via de' Servi, dove aveva una sua casa, con i figliuoli di Domenico Naldini suo vicino e cittadino orrevole, si vedea tutto volto a costumi gentili et onorati e molto inclinato al disegno.
Nella qual cosa gli fu un pezzo di non piccolo aiuto un suo cugino chiamato il Diaceto, orefice e giovane che aveva assai buon disegno; imperò che non pure gl'insegnava costui quel poco che sapeva; ma l'accomodava di molti disegni di diversi valentuomini, sopra i quali giorno e notte nascosamente dal padre, con incredibile studio si esercitava Francesco.
Ma essendosi di ciò accorto Domenico Naldini, dopo aver bene esaminato il putto, fece tanto con Michelagnolo suo padre, che lo pose in bottega del zio a imparare l'arte dell'orefice; mediante la quale comodità di disegnare fece in pochi mesi Francesco tanto profitto, che ognuno si stupiva.
E perché usava in quel tempo una Compagnia di giovani orefici e pittori trovarsi alcuna volta insieme et andare il dì delle feste a disegnare per Fiorenza l'opere più lodate, niuno di loro più si affaticava né con più amore di quello che faceva Francesco; i giovani della qual Compagnia erano Nanni di Prospero delle Corniuole, Francesco di Girolamo dal Prato orefice, Nannoccio da San Giorgio, e molti altri fanciulli che poi riuscirono valentuomini nelle loro professioni.
In questo tempo, essendo anco ambidue fanciulli, divennero amicissimi Francesco e Giorgio Vasari in questo modo: l'anno 1523 passando per Arezzo Silvio Passerini cardinale di Cortona, come legato di papa Clemente Settimo, Antonio Vasari suo parente menò Giorgio suo figliuol maggiore a fare reverenza al Cardinale, il quale veggendo quel putto, che allora non aveva più di nove anni, per la diligenza di Messer Antonio da Saccone e di Messer Giovanni Polastra eccellente poeta aretino, essere nelle prime lettere di maniera introdotto, che sapeva a mente una gran parte dell'Eneide di Vergilio, che gliela volle sentire recitare, e che da Guglielmo da Marzilla pittor franzese aveva imparato a disegnare, ordinò che Antonio stesso gli conducesse quel putto a Fiorenza; dove postolo in casa di Messer Niccolò Vespucci cavaliere di Rodi, che stava in sulla coscia del Ponte Vecchio, sopra la chiesa del Sepolcro, et acconciolo con Michelagnolo Buonarruoti, venne la cosa a notizia di Francesco, che allora stava nel chiasso di Messer Bivigliano, dove suo padre teneva una gran casa a pigione, che riusciva il dinanzi in Vachereccia, e molti lavoranti.
Onde perché ogni simile ama il suo simile, fece tanto, che divenne amico di esso Giorgio per mezzo di Messer Marco da Lodi gentiluomo del detto cardinale di Cortona, il quale mostrò a Giorgio, a cui piacque molto, un ritratto di mano di esso Francesco, il quale poco innanzi s'era messo al dipintore con Giuliano Bugiardini.
Il Vasari intanto, non lasciando gli studii delle lettere, d'ordine del Cardinale si tratteneva ogni giorno due ore con Ipolito et Alessandro de' Medici, sotto il Pierio lor maestro e valentuomo.
Questa amicizia dunque contratta come di sopra fra il Vasari e Francesco, fu tale, che durò sempre fra loro, ancor che per la concorrenza e per un suo modo di parlare un poco altiero, che avea detto Francesco, fusse da alcuni creduto altrimenti.
Il Vasari dopo essere stato alcuni mesi con Michelagnolo, essendo quell'eccellente uomo chiamato a Roma da papa Clemente per dargli ordine che si cominciasse la libreria di San Lorenzo, fu da lui, avanti che partisse, acconcio con Andrea del Sarto, sotto el quale attendendo Giorgio a disegnare, accomodava continuamente di nascoso dei disegni del suo maestro a Francesco, che non aveva maggior desiderio che d'averne e studiargli come faceva giorno e notte.
Dopo essendo dal Magnifico Ipolito acconcio Giorgio con Baccio Bandinelli, che ebbe caro avere quel putto appresso di sé et insegnargli, fece tanto, che vi tirò anco Francesco, con molta utilità dell'uno e dell'altro, perciò che impararono e fecero stando insieme più frutto in un mese, che non avevano fatto disegnando da loro in due anni; sì come anco fece un altro giovinetto che similmente stava allora col Bandinello, chiamato Nannoccio dalla costa San Giorgio, del quale si parlò poco fa.
Essendo poi l'anno 1527 cacciati i Medici di Firenze, nel combattersi il palazzo della Signoria, fu gettata d'alto una purliza per dare addosso a coloro che combattevano la porta; ma quella, come volle la sorte, percosse un braccio del Davit di marmo del Buonarroto, che è sopra la ringhiera a canto alla porta e lo roppe in tre pezzi; per che essendo stati i detti pezzi per terra tre giorni senza esser da niuno stati raccolti, andò Francesco a trovare al Ponte Vecchio Giorgio e dettogli l'animo suo, così fanciulli come erano, andarono in piazza e di mezzo ai soldati della guardia, senza pensare a pericolo niuno, tolsono i pezzi di quel braccio e nel chiasso di Messer Bivigliano gli portarono in casa di Michelagnolo, padre di Francesco; donde avutigli poi il duca Cosimo gli fece col tempo rimettere al loro luogo con perni di rame.
Standosi dopo i Medici fuori e con essi il detto cardinale di Cortona, Antonio Vasari ricondusse il figliuolo in Arezzo con non poco dispiacere di lui e di Francesco, che s'amavano come fratelli; ma non stettono molto l'uno dall'altro separati perciò che essendo per la peste, che venne l'agosto seguente, morto a Giorgio il padre et i migliori di casa sua, fu tanto con lettere stimolato da Francesco, il quale fu per morirsi anch'egli di peste, che tornò a Fiorenza, dove con incredibile studio, per ispazio di due anni cacciati dal bisogno e dal disiderio d'imparare, fecero acquisto maraviglioso, riparandosi insieme col detto Nannoccio da San Giorgio tutti e tre in bottega di Raffaello del Brescia pittore, appresso al quale fece Francesco molti quadretti come quegli che avea più bisogno per procacciarsi da poter vivere.
Venuto l'anno 1529, non parendo a Francesco che lo stare in bottega del Brescia facesse molto per lui, andò egli e Nannoccio a stare con Andrea del Sarto, e vi stettono quanto durò l'assedio, ma con tanto incommodo, che si pentirono non aver seguitato Giorgio, il quale con Manno orefice si stette quell'anno in Pisa, attendendo per trattenersi quattro mesi all'orefice.
Essendo poi andato il Vasari a Bologna, quando vi fu da Clemente Settimo incoronato Carlo Quinto imperadore, Francesco, che era rimaso in Fiorenza, fece in una tavoletta un boto d'un soldato che per l'assedio fu assaltato nel letto da certi soldati per amazzarlo, et ancora che fussi cosa bassa, lo studiò e lo condusse perfettamente; il qual boto capitò nelle mani a Giorgio Vasari non è molti anni che lo donò al reverendo don Vincenzio Borghini spedalingo degli Innocenti, che lo tien caro.
Fece ai monaci neri di Badia tre piccole storie in un tabernacolo del Sagramento stato fatto dal Tasso intagliatore, a uso d'arco trionfale; in una delle quali è il sacrifizio d'Abramo, nella seconda la manna e nella terza gl'ebrei, che nel partire d'Egitto mangiano l'agnel pasquale.
La quale opera fu sì fatta, che diede saggio della riuscita che ha poi fatto.
Dopo fece a Francesco Sertini, che lo mandò in Francia, in un quadro una Dalida che tagliava i capegli a Sansone, e nel lontano quando egli abbracciando le colonne del tempio, lo rovina addosso ai Filistei, il quale quadro fece conoscere Francesco per il più eccellente de' pittori giovani che allora fussero a Fiorenza.
Non molto dopo, essendo a Benvenuto dalla Volpaia, maestro d'oriuoli, il quale allora si trovava in Roma, chiesto dal cardinale Salviati il Vecchio un giovane pittore, il quale stesse appresso di sé, e gli facesse per suo deletto alcune pitture, Benvenuto gli propose Francesco il quale era suo amico e sapeva esser il più sufficiente di quanti giovani pittori conosceva; il che fece anco tanto più volentieri, avendo promesso il Cardinale gli darebbe ogni comodo et aiuto da potere studiare.
Piacendo dunque al Cardinale le qualità del giovane, disse a Benvenuto che mandasse per lui e gli diede per ciò danari; e così arrivato Francesco in Roma, piacendo il suo modo di fare et i suoi costumi e maniere al Cardinale, ordinò che in Borgo Vecchio avesse le stanze, e quattro scudi il mese et il piatto alla tavola de' gentiluomini.
Le prime opere che Francesco (al quale pareva avere avuto grandissima ventura) facesse al Cardinale furono un quadro di Nostra Donna, che fu tenuto bello, et in una tela un signor franzese che corre cacciando dietro a una cervia, il quale fuggendo, si salva nel tempio di Diana; della quale opera tengo io il disegno di sua mano, per memoria di lui, nel nostro libro.
Finita questa tela, il Cardinale fece ritrarre in un quadro bellissimo di Nostra Donna una sua nipote maritata al signor Cagnino Gonzaga et esso signore parimente.
Ora standosi Francesco in Roma e non avendo maggior disiderio che di vedere in quella città l'amico suo Giorgio Vasari, ebbe in ciò la fortuna favorevole ai suo' disideri, ma molto più esso Vasari.
Perciò che, essendosi partito tutto sdegnato il cardinale Ipolito da papa Clemente, per le cagioni che allora si dissero, e ritornandosene indi a non molto a Roma accompagnato da Baccio Valori, nel passare per Arezzo trovò Giorgio che era rimaso senza padre e si andava trattenendo il meglio che poteva.
Per che disiderando che facesse qualche frutto nell'arte e di volerlo appresso di sé, ordinò a Tommaso de' Nerli, che quivi era commessario, che glielo mandasse a Roma subito che avesse finita una cappella, che faceva a fresco ai monaci di S.
Bernardo dell'Ordine di Monte Oliveto in quella città.
La qual commessione essequì il Nerli subitamente; onde arrivato Giorgio in Roma andò subito a trovare Francesco, il quale tutto lieto gli raccontò in quanta grazia fusse del Cardinale suo signore, e che era in luogo dove potea cavarsi la voglia di studiare, aggiugnendo: "Non solo mi godo di presente, ma spero ancor meglio.
Perciò che, oltre al veder te in Roma, col quale potrò come giovane amicissimo considerare e conferire le cose dell'arte, sto con speranza d'andare a servire il cardinale Ipolito de' Medici, dalla cui liberalità e pel favore del Papa potrò maggiori cose sperare, che quelle che ho al presente, e per certo mi verrà fatto, se un giovane che aspetta di fuori non viene".
Giorgio, se bene sapeva che il giovane il quale s'aspettava era egli e che il luogo si serbava per lui, non però volle scoprirsi, per un certo dubbio cadutogli in animo: non forse il Cardinale avesse altri per le mani, e per non dir cosa che poi fusse riuscita altrimenti.
Aveva Giorgio portato una lettera del detto commessario Nerli al Cardinale, la quale in cinque dì ch'era stato in Roma non aveva anco presentata.
Finalmente andati Giorgio e Francesco a palazzo, trovarono, dove è oggi la sala de' re, Messer Marco da Lodi, che già era stato col Cardinale di Cortona, come si disse di sopra, et il quale allora serviva Medici.
A costui fattosi incontra Giorgio gli disse che aveva una lettera del commessario d'Arezzo, la quale andava al Cardinale e che lo pregava volesse dargliele; la quale cosa mentre prometteva Messer Marco di far tostamente, ecco che appunto arriva quivi il Cardinale.
Per che fattosegli Giorgio incontra e presentata la lettera, con basciargli le mani, fu ricevuto lietamente e poco appresso commesso a Iacopone da Bibbiena, maestro di casa, che l'accomodasse di stanze e gli desse luogo alla tavola de' paggi.
Parve cosa strana a Francesco che Giorgio non gl'avesse conferita la cosa, tuttavia pensò che l'avesse fatto a buon fine e per lo migliore.
Avendo dunque Iacopone sopra detto dato alcune stanze a Giorgio dietro a Santo Spirito e vicine a Francesco, attesero tutta quella vernata ambidue di compagnia con molto profitto alle cose dell'arte, non lasciando né in palazzo, né in altra parte di Roma, cosa alcuna notabile la quale non disegnassono.
E perché quando il Papa era in palazzo non potevano così stare a disegnare, subito che Sua Santità cavalcava, come spesso faceva, alla Magliana, entravano per mezzo d'amici in dette stanze a disegnare, e vi stavano dalla mattina alla sera senza mangiare altro che un poco di pane e quasi assiderandosi di freddo.
Essendo poi dal cardinale Salviati ordinato a Francesco che dipignesse a fresco nella cappella del suo palazzo, dove ogni mattina udiva messa, alcune storie della vita di San Giovanni Battista, si diede Francesco a studiare ignudi di naturale e Giorgio con esso lui, in una stufa quivi vicina, e dopo feciono in Camposanto alcune notomie.
Venuta poi la primavera, essendo il cardinale Ipolito mandato dal Papa in Ungheria, ordinò che esso Giorgio fusse mandato a Firenze e che quivi lavorasse alcuni quadri e ritratti, che aveva da mandare a Roma.
Ma il luglio vegnente fra per le fatiche del verno passato et il caldo della state, amalatosi Giorgio, in ceste fu portato in Arezzo, con molto dispiacere di Francesco, il quale infermò anch'egli e fu per morire.
Pure guarito Francesco, gli fu per mezzo d'Antonio Abaco, maestro di legname, dato a fare da maestro Filippo da Siena, sopra la porta di dietro di Santa Maria della Pace, in una nicchia, a fresco un Cristo che parla a San Filippo, et in due angoli la Vergine e l'Angelo che l'annunzia, le quali pitture, piacendo molto a mastro Filippo, furono cagione che facesse fare nel medesimo luogo in un quadro grande che non era dipinto, dell'otto facce di quel tempio, un'Assunzione di Nostra Donna.
Onde considerando Francesco avere a fare quest'opera, non pure in luogo publico, ma in luogo dove erano pitture d'uomini rarissimi, di Raffaello da Urbino, del Rosso, di Baldassarri da Siena e d'altri, mise ogni studio e diligenza in condurla a olio nel muro, onde gli riuscì bella pittura e molto lodata, e fra l'altre è tenuta bonissima figura il ritratto che vi fece del detto maestro Filippo con le mani giunte.
E perché Francesco stava, come s'è detto, col cardinale Salviati et era conosciuto per suo creato, cominciando a essere chiamato e non conosciuto per altro che per Cecchino Salviati, ha avuto insino alla morte questo cognome.
Essendo morto papa Clemente Settimo e creato Paulo Terzo, fece dipignere Messer Bindo Altoviti, nella facciata della sua casa in ponte Sant'Agnolo, da Francesco l'arme di detto nuovo pontefice con alcune figure grandi et ignude, che piacquero infinitamente.
Ritrasse ne' medesimi tempi il detto Messer Bindo, che fu una molto buona figura et un bel ritratto, ma questo fu poi mandato alla sua villa in San Mizzano in Valdarno, dove è ancora; dopo fece per la chiesa di San Francesco a Ripa una bellissima tavola a olio d'una Nunziata, che fu condotta con grandissima diligenza.
Nell'andata di Carlo Quinto a Roma l'anno 1535, fece per Antonio da San Gallo alcune storie di chiaro scuro, che furono poste nell'arco che fu fatto a San Marco, le quali pitture, come s'è detto in altro luogo, furono le migliori che fussero in tutto quell'apparato.
Volendo poi il signor Pierluigi Farnese, fatto allora signor di Nepi, adornare quella città di nuove muraglie e pitture, prese al suo servizio Francesco, dandogli le stanze in Belvedere, dove gli fece in tele grandi alcune storie a guazzo de' fatti d'Alessandro Magno che furono poi in Fiandra messe in opera di panni d'arazzo.
Fece al medesimo signor di Nepi una grande e bellissima stufa con molte storie e figure lavorate in fresco.
Dopo essendo il medesimo fatto duca di Castro, nel fare la prima entrata fu fatto con ordine di Francesco un bellissimo e ricco apparato in quella città et un arco alla porta tutto pieno di storie e di figure e statue fatte con molto giudizio da valentuomini, et in particolare da Alessandro detto Scherano scultore da Settignano.
Un altro arco a uso di facciata fu fatto al Petrone et un altro alla piazza, che quanto al legname furono condotti da Batista Botticegli, et oltre all'altre cose fece in questo apparato Francesco una bella scena e prospettiva per una comedia che si recitò.
Avendo ne' medesimi tempi Giulio Camillo, che allora si trovava in Roma, fatto un libro di sue composizioni per mandarlo al re Francesco di Francia, lo fece tutto storiare a Francesco Salviati, che vi mise quanta più diligenza è possibile mettere in simile opera.
Il cardinal Salviati, avendo disiderio avere un quadro di legni tinti, cioè di tarsia, di mano di fra' Damiano da Bergamo converso di S.
Domenico di Bologna, gli mandò un disegno come volea che lo facesse, di mano di Francesco, fatto di lapis rosso; il quale disegno, che rappresentò il re Davit unto da Samuello, fu la miglior cosa e veramente rarissima che mai disegnasse Cecchino Salviati.
Dopo, Giovanni da Cepperello e Battista gobbo da San Gallo, avendo fatto dipignere a Iacopo del Conte fiorentino, pittore allora giovane, nella Compagnia della Misericordia de' Fiorentini, di San Giovanni Dicollato sotto il Campidoglio in Roma, cioè nella seconda chiesa, dove si ragunano, una storia di detto San Giovanni Battista, cioè quando l'Angelo nel tempio appare a Zaccheria; feciono i medesimi sotto quella fare da Francesco un'altra storia del medesimo Santo, cioè quando la Nostra Donna visita Santa Lisabetta; la quale opera, che fu finita l'anno 1538, condusse in fresco di maniera, ch'ella è fra le più graziose e meglio intese pitture che Francesco facesse mai, da essere annoverata nell'invenzione, nel componimento della storia e nell'osservanza et ordine del diminuire le figure con regola, nella prospettiva et architettura de' casamenti, negl'ignudi, ne' vestiti, nella grazia delle teste et in somma in tutte le parti, onde non è maraviglia se tutta Roma ne restò ammirata.
Intorno a una finestra fece alcune capricciose bizzarrie finte di marmo et alcune storiette, che hanno grazia maravigliosa; e perché non perdeva Francesco punto di tempo, mentre lavorò quest'opera, fece molte altre cose e disegni e colorì un Fetonte con i cavalli del sole, che aveva disegnato Michelagnolo.
Le quali tutte cose mostrò il Salviati a Giorgio, che dopo la morte del duca Alessandro era andato a Roma per due mesi, dicendogli che finito che avesse un quadro d'un San Giovanni giovinetto, che faceva al cardinale Salviati suo signore, et una Passione di Cristo in tele, che s'aveva a mandare in Ispagna, et un quadro di Nostra Donna, che faceva a Raffaello Acciaiuoli, voleva dare di volta a Fiorenza a rivedere la patria, i parenti e gl'amici, essendo anco vivo il padre e la madre, ai quali fu sempre di grandissimo aiuto e massimamente in allogare due sue sorelle, una delle quali fu maritata e l'altra è monaca nel monasterio di Monte Domini.
Venendo dunque a Firenze, dove fu con molta festa ricevuto dai parenti e dagl'amici, s'abbatté a punto a esservi quando si faceva l'apparato per le nozze del duca Cosimo e della signora donna Leonora di Tolledo.
Per che, essendogli data a fare una delle già dette storie che si feciono nel cortile, l'accettò molto volentieri: che fu quella dove l'Imperatore mette la corona ducale in capo al duca Cosimo.
Ma venendo voglia a Francesco, prima che l'avesse finita, d'andare a Vinezia, la lasciò a Carlo Portegli da Loro, che la finì secondo il disegno di Francesco; il quale disegno, con molti altri del medesimo, è nel nostro libro.
Partito Francesco di Firenze e condottosi a Bologna vi trovò Giorgio Vasari, che di due giorni era tornato da Camaldoli, dove aveva finito le due tavole che sono nel tramezzo della chiesa e cominciata quella dell'altare maggiore, e dava ordine di fare tre tavole grandi per lo refettorio de' padri di San Michele in Bosco, dove tenne seco Francesco due giorni.
Nel qual tempo fecero opera alcuni amici suoi che gli fusse allogata una tavola, che avevano da far fare gl'uomini dello spedale della Morte, ma con tutto che il Salviati ne facesse un bellissimo disegno, quegl'uomini, come poco intendenti, non seppono conoscere l'occasione che loro aveva mandata Messer Domenedio di potere avere un'opera di mano d'un valentuomo in Bologna.
Per che, partendosi Francesco quasi sdegnato, lasciò in mano di Girolamo Fagiuoli alcuni disegni molto begli perché gl'intagliasse in rame e gli facesse stampare.
E giunto in Vinezia, fu raccolto cortesemente dal patriarca Grimani e da Messer Vettor suo fratello, che gli fecero infinite carezze.
Al quale patriarca, dopo pochi giorni fece a olio in uno ottangolo di quattro braccia una bellissima Psiche alla quale, come a dea, per le sue bellezze sono offerti incensi e voti; il quale ottangolo fu posto in un salotto della casa di quel signore, dove è un palco nel cui mezzo girano alcuni festoni fatti da Camillo Mantovano, pittore in fare paesi, fiori, frondi, frutti, et altre sì fatte cose eccellente; fu posto dico il detto ottangolo in mezzo di quattro quadri di braccia due e mezzo l'uno, fatti di storie della medesima Psiche, come si disse nella vita del Genga, da Francesco da Furlì.
Il quale ottangolo è non solo più bello senza comparazione di detti quattro quadri, ma la più bell'opera di pittura che sia in tutta Vinezia.
Dopo fece in una camera, dove Giovanni Ricamatore da Udine aveva fatto molte cose di stucchi, alcune figurette a fresco ignude e vestite, che sono molto graziose; parimente in una tavola che fece alle monache del Corpus Domini in Vinezia, dipinse con molta diligenza un Cristo morto con le Marie et un Angelo in aria che ha i misterii della Passione in mano.
Fece il ritratto di Messer Pietro Aretino, che come cosa rara fu da quel poeta mandato al re Francesco con alcuni versi in lode di chi l'aveva dipinto.
Alle monache di Santa Cristina di Bologna dell'Ordine di Camaldoli dipinse il medesimo Salviati, pregato da don Giovanfrancesco da Bagno loro confessore, una tavola con molte figure, che è nella chiesa di quel monasterio, veramente bellissima.
Essendo poi venuto a fastidio il vivere di Vinezia a Francesco, come a colui che si ricordava di quel di Roma, e parendogli che quella stanza non fusse per gl'uomini del disegno se ne partì per tornare a Roma.
E dato una giravolta da Verona e da Mantova, veggendo in una quelle molte antichità che vi sono e nell'altra l'opere di Giulio Romano, per la via di Romagna se ne tornò a Roma e vi giunse l'anno 1541.
Quivi posatosi alquanto, le prime opere che fece furono il ritratto di Messer Giovanni Gaddi e quello di Messer Anniballe Caro suoi amicissimi, e quelli finiti fece per la cappella de' cherici di camera nel palazzo del papa una molto bella tavola, e nella chiesa de' tedeschi cominciò una cappella a fresco per un mercatante di quella nazione, facendo di sopra nella volta degl'Apostoli che ricevono lo Spirito Santo, et in un quadro che è nel mezzo alto Gesù Cristo che risuscita, con i soldati tramortiti intorno al sepolcro in diverse attitudini, e che scortano con gagliarda e bella maniera.
Da una banda fece Santo Stefano e dall'altra San Giorgio in due nicchie; da basso fece San Giovanni limosinario che dà la limosina a un poverello nudo et ha a canto la Carità, e dall'altro lato Santo Alberto frate carmelitano in mezzo alla Loica et alla Prudenza; e nella tavola grande fece ultimamente a fresco Cristo morto con le Marie.
Avendo Francesco fatto amicizia con Piero di Marcone orefice fiorentino, e divenutogli compare, fece alla comare e moglie di esso Piero, dopo il parto, un presente d'un bellissimo disegno, per dipignerlo in un di que' tondi nei quali si porta da mangiare alle donne di parto.
Nel quale disegno era in un partimento riquadrato et accomodato sotto e sopra, con bellissime figure, la vita dell'uomo, cioè tutte l'età della vita umana, che posavano ciascuna sopra diversi festoni appropriati a quella età secondo il tempo.
Nel quale bizzarro spartimento erano accomodati in due ovati bislunghi la figura del sole e della luna, e nel mezzo Isais città d'Egitto che dinanzi al tempio della dea Pallade dimandava sapienza; quasi volendo mostrare che ai nati figliuoli si doverebbe inanzi ad ogni altra cosa pregare sapienza e bontà.
Questo disegno tenne poi sempre Piero così caro, come fusse stato, anzi come era, una bellissima gioia.
Non molto dopo, avendo scritto il detto Piero et altri amici a Francesco che avrebbe fatto bene a tornare alla patria, perciò che si teneva per fermo che sarebbe stato adoperato dal signor duca Cosimo, che non aveva maestri intorno se non lunghi et irresoluti, si risolvé finalmente (confidando anco molto nel favore di Messer Alamanno fratello del Cardinale e zio del Duca) a tornarsene a Fiorenza.
E così venuto, prima che altro tentasse, dipinse al detto Messer Alamanno Salviati un bellissimo quadro di Nostra Donna, il quale lavorò in una stanza che teneva nell'Opera di Santa Maria del Fiore Francesco dal Prato, il quale allora di orefice e maestro di tausia s'era dato a gettare figurette di bronzo et a dipignere con suo molto utile et onore.
Nel medesimo luogo dico, il quale stava colui, come ufficiale sopra i legnami dell'Opera, ritrasse Francesco l'amico suo Piero di Marcone et Aveduto del Cegia Vaiaio e suo amicissimo, il quale Aveduto, oltre a molte altre cose che ha di mano di Francesco, ha il ritratto di lui stesso fatto a olio e di sua mano naturalissimo.
Il sopra detto quadro di Nostra Donna, essendo, finito che fu, in bottega del Tasso intagliatore di legname et allora architettore di palazzo, fu veduto da molti e lodato infinitamente.
Ma quello che anco più lo fece tenere pittura rara, si fu che il Tasso, il quale soleva biasimare quasi ogni cosa, la lodava senza fine, e, che fu più, disse a Messer Pierfrancesco maiordomo che sarebbe stato ottimamente fatto che il Duca avesse dato da lavorare a Francesco alcuna cosa d'importanza.
Il quale Messer Pierfrancesco e Cristofano Rinieri, che avevano gli orecchi del Duca, fecero sì fatto ufficio, che parlando Messer Alamanno a sua eccellenza e dicendogli che Francesco desiderava che gli fusse dato a dipignere il salotto dell'udienza, che è dinanzi alla capella del palazzo ducale, e che non si curava d'altro pagamento, ella si contentò che ciò gli fusse conceduto.
Per che, avendo Francesco fatto in disegni piccoli il trionfo e molte storie de' fatti di Furio Camillo, si mise a fare lo spartimento di quel salotto, secondo le rotture dei vani delle finestre e delle porte, che sono quali più alte e quali più basse.
E non fu piccola difficultà ridurre il detto spartimento in modo che avesse ordine e non guastasse le storie.
Nella faccia dove è la porta per la quale si entra nel salotto rimanevano due vani grandi divisi dalla porta; dirimpetto a questa, dove sono le tre finestre che guardano in piazza ne rimanevano quattro, ma non più larghi che circa tre braccia l'uno.
Nella testa che è a man ritta entrando, dove sono due finestre che rispondono similmente in piazza, da un altro lato erano tre vani simili, cioè di tre braccia circa, e nella testa, che è a man manca dirimpetto a questa, essendo la porta di marmo che entra nella capella et una finestra con una grata di bronzo, non rimaneva se non un vano grande da potervi accommodare cosa di momento.
In questa facciata adunque della capella dentro a un ornamento di pilastri corinti che reggono un architrave, il quale ha uno sfondato di sotto dove pendono due ricchissimi festoni e due pendagli di variate frutte molto bene contrafatte e sopra cui siede un putto ignudo che tiene l'arme ducale, cioè di casa Medici e Tolledo, fece due storie: a man ritta Camillo che comanda che quel maestro di scuola sia dato in preda a' fanciulli suoi scolari, e nell'altra il medesimo, che mentre l'esercito combatte et il fuoco arde gli steccati et alloggiamenti del campo, rompe i Galli; et a canto dove seguita il medesimo ordine di pilastri fece grande quanto il vivo una Occasione che ha preso la Fortuna per lo crine, et alcune imprese di sua eccellenza, con molti ornamenti fatti con grazia maravigliosa.
Nella facciata maggiore, dove sono due gran vani divisi dalla porta principale, fece due storie grandi e bellissime.
Nella prima sono Galli, che pesando l'oro del tributo, vi aggiungono una spada, acciò sia il peso maggiore, e Camillo che sdegnato con la virtù dell'armi si libera dal tributo, la qual storia è bellissima, copiosa di figure, di paesi, d'antichità e di vasi benissimo et in diverse maniere finti d'oro e d'argento.
Nell'altra storia a canto a questa è Camillo sopra il carro trionfale tirato da quattro cavalli, et in alto la Fama che lo corona.
Dinanzi al carro sono sacerdoti con la statua della dea Giunone, con vasi in mano, molto riccamente abbigliati e con alcuni trofei e spoglie bellissime; d'intorno al carro sono infiniti prigioni in diverse attitudini, e dietro i soldati dell'esercito armati, fra i quali ritrasse Francesco se stesso tanto bene, che par vivo.
Nel lontano dove passa il trionfo è una Roma molto bella, e sopra la porta è una Pace di chiaro scuro con certi prigioni, la quale abrucia l'armi; il che tutto fu fatto da Francesco con tanta diligenza e studio, che non può vedersi più bell'opra.
Nell'altra faccia, che è volta a ponente, fece nel mezzo e ne' maggior vani in una nicchia Marte armato, e sotto quello una figura ignuda finta per un Gallo con la cresta in capo simile a quella de' galli naturali, et in un'altra nicchia Diana succinta di pelle, che si cava una freccia del turcasso, e con un cane.
Ne' due canti di verso l'altre due facciate sono due Tempi, uno che aggiusta i pesi con le bilance e l'altro che tempra, versando l'acqua di due vasi l'uno nell'altro.
Nell'ultima facciata, dirimpetto alla capella, la quale volta a tramontana, è da un canto a man ritta il sole figurato nel mo' che gli ...
egizzii il mostrano, e dall'altro la luna nel medesimo modo; nel mezzo è il Favore finto in un giovane ignudo in cima alla ruota, et in mezzo da un lato all'Invidia, all'Odio et alla Maladicenza e dall'altro agli Onori, al Diletto et a tutte l'altre cose descritte da Luciano.
Sopra le finestre è un fregio tutto pieno di bellissimi ignudi, grandi quanto il vivo et in diverse forme et attitudini, con alcune storie similmente de' fatti di Camillo, e dirimpetto alla Pace, che arde l'arme, è il fiume Arno che avendo un corno di dovizia abbondantissimo, scuopre (alzando con una mano un panno) una Fiorenza e la grandezza de' suoi pontefici e gli eroi di casa Medici.
Vi fece oltre di ciò un basamento che gira intorno a queste storie e nicchie con alcuni termini di femina che reggono festoni, e nel mezzo sono certi ovati con storie di popoli che adornano una Sfinge et il fiume Arno.
Mise Francesco in fare quest'opera tutta quella diligenza e studio che è possibile, e la condusse felicemente ancora che avesse molte contrarietà, per lasciar nella patria un'opra degna di sé e di tanto prencipe.
Era Francesco di natura malinconico, e le più volte non si curava quando era a lavorare d'avere intorno niuno.
Ma nondimeno quando a principio cominciò quest'opera, quasi sforzando la natura e facendo il liberale, con molta dimestichezza lasciava che il Tasso et altri amici suoi, che gli avevano fatto qualche servizio, stesseno a vederlo lavorare, carezzandogli in tutti i modi che sapeva.
Quando poi ebbe preso, secondo che dicono, pratica della corte e che gli parve essere in favore, tornando alla natura sua colorosa, mordace, non aveva loro alcun rispetto; anzi, che era peggio, con parole mordacissime, come soleva (il che servì per una scusa a' suoi avversarii), tassava e biasimava l'opere altrui, e sé e le sue poneva sopra le stelle.
Questi modi, dispiacendo ai più e medesimamente a certi artefici, gl'acquistarono tanto odio, che il Tasso e molti altri che d'amici gli erano divenuti contrarii, gli cominciarono a dar che fare e che pensare; perciò che, se bene lodavano l'eccellenza che era in lui dell'arte e la facilità e prestezza con le quali conduceva l'opere interamente e benissimo, non mancava loro dall'altro lato che biasimare.
E perché, se gli avesseno lasciato pigliar piede et accommodare le cose sue, non avrebbono poi potuto offenderlo e nuocergli, cominciarono a buon'ora a dargli che fare e molestarlo.
Per che ristrettisi insieme molti dell'arte et altri e fatta una setta, cominciarono a seminare fra i maggiori che l'opera del salotto non riusciva, e che lavorando per pratica non istudiava cosa che facesse.
Nel che il laceravano veramente a torto, perciò che se bene non istentava a condurre le sue opere, come facevano essi, non è però che egli non istudiasse e che le sue cose non avessero invenzione e grazia infinita, né che non fussero ottimamente messe in opera.
Ma non potendo i detti aversarii superare con l'opere la virtù di lui, volevano con sì fatte parole e biasimi sotterrarla, ma ha finalmente troppa forza la virtù et il vero.
Da principio si fece Francesco beffe di cotali rumori, ma veggendoli poi crescere oltre il convenevole, se ne dolse più volte col Duca.
Ma non veggendosi che quel signore gli facesse in apparenza quegli favori ch'egli arebbe voluto, e parendo che non curasse quelle sue doglienze, cominciò Francesco a cascare di maniera, che presogli i suoi contrarii animo addosso, missono fuori una voce che le sue storie della sala s'avevano a gettare per terra e che non piacevano, né avevano in sé parte niuna di bontà.
Le quali tutte cose, che gli pontavano contra, con invidia e maledicenza incredibile de' suoi avversarii, avevano ridotto Francesco a tale, che se non fusse stata la bontà di Messer Lelio Torelli, di Messer Pasquino Bertini e d'altri amici suoi, egli si sarebbe levato dinanzi a costoro, il che era a punto quello che eglino desideravano.
Ma questi sopra detti amici suoi confortandolo tuttavia a finire l'opera della sala et altre che aveva fra mano, il rattennono, sì come feciono anco molti altri amici suoi fuori di Firenze, ai quali scrisse queste sue persecuzioni, e fra gli altri Giorgio Vasari in rispondendo a una lettera, che sopra ciò gli scrisse il Salviati, lo confortò sempre ad aver pazienza, perché la virtù perseguitata raffinisce come al fuoco l'oro, aggiungendo che era per venir tempo che sarebbe conosciuta la sua virtù et ingegno, che non si dolesse se non di sé, che anco non conosceva gli umori e come son fatti gli uomini et artefici della sua patria.
Nonostante dunque tante contrarietà e persecuzioni che ebbe il povero Francesco, finì quel salotto, cioè il lavoro che aveva tolto a fare in fresco nelle facciate, perciò che nel palco o vero soffittato non fu bisogno che lavorasse alcuna cosa, essendo tanto riccamente intagliato e messo tutto d'oro, che per sì fatta non si può vedere opera più bella.
E per accompagnare ogni cosa fece fare il Duca di nuovo due finestre di vetro con l'imprese et arme sue e di Carlo V, che si può far di quel lavoro meglio, che furono condotte da Batista dal Borro, pittore aretino raro in questa professione.
Dopo questa fece Francesco per sua eccellenza il palco del salotto ove si mangia il verno, con molte imprese e figurine a tempera, et un bellissimo scrittoio che risponde sopra la camera verde.
Ritrasse similmente alcuni de' figliuoli del Duca, et un anno per carnovale fece nella sala grande la scena e prospettiva d'una comedia, che si recitò, con tanta bellezza e diversa maniera da quelle che erano state fatte in Fiorenza insino allora, che ella fu giudicata superiore a tutte.
Né di questo è da maravigliarsi, essendo verissimo che Francesco in tutte le sue cose fu sempre di gran giudizio, vario e copioso d'invenzione, e che, più, possedeva le cose del disegno et aveva più bella maniera che qualunche altro fusse allora a Fiorenza et i colori maneggiava con molta pratica e vaghezza.
Fece ancora la testa o vero ritratto del signor Giovanni de' Medici, padre del duca Cosimo, che fu bellissima, la quale è oggi nella guardaroba di detto signor Duca.
A Cristofano Rinieri, suo amicissimo, fece un quadro di Nostra Donna molto bello che è oggi nell'udienza della decima; a Ridolfo Landi fece in un quadro una Carità, che non può esser più bella, et a Simon Corsi fece similmente un quadro di Nostra Donna, che fu molto lodato; a Messer Donato Acciaioli cavalier di Rodi, col quale tenne sempre singular dimestichezza, fece certi quadretti, che sono bellissimi.
Dipinse similmente in una tavola un Cristo che mostra a San Tomaso, il quale non credeva che fusse nuovamente risuscitato, i luoghi delle piaghe e ferite che aveva ricevute dai giudei, la quale tavola fu da Tomaso Guadagni condotta in Francia e posta in una chiesa di Lione alla capella de' Fiorentini.
Fece parimente Francesco a riquisizione del detto Cristofano Rinieri e di maestro Giovanni Rosto, arazziere fiamingo, tutta la storia di Tarquinio e Lucrezia romana in molti cartoni, che essendo poi messi in opera di panni d'arazzo fatti d'oro, di seta e filaticci, riuscì opera maravigliosa.
La qual cosa intendendo il Duca, che allora faceva fare panni similmente d'arazzo al detto maestro Giovanni in Fiorenza per la sala de' Dugento tutti d'oro e di seta, et aveva fatto far cartoni delle storie di Ioseffo ebreo al Bronzino et al Pontormo, come s'è detto, volle che anco Francesco ne facesse un cartone, che fu quello dell'interpretazione delle sette vacche grasse e magre.
Nel quale cartone, dico, mise Francesco tutta quella diligenza che in simile opera si può maggiore e che hanno di bisogno le pitture che si tessono: invenzioni capricciose, componimenti varii vogliono aver le figure, che spicchino l'una dall'altra, perché abbiano rilievo e venghino allegre ne' colori, ricche nelli abiti e vestiri.
Dove essendo poi questo panno e gli altri riusciti bene, si risolvé sua eccellenza di mettere l'arte in Fiorenza e la fece insegnare a alcuni putti, i quali cresciuti fanno ora opere eccellentissime per questo Duca.
Fece anco un bellissimo quadro di Nostra Donna pur a olio, che è oggi in camera di Messer Alessandro figliuolo di Messer Ottaviano de' Medici.
Al detto Messer Pasquino Bertini fece in tela un altro quadro di Nostra Donna, con Cristo e San Giovanni fanciulletti che ridono d'un papagallo che hanno tra mano, il quale fu opera capricciosa e molto vaga.
Et al medesimo fece un disegno bellissimo d'un Crucifisso alto quasi un braccio con una Madalena a' piedi, in sì nuova e vaga maniera, che è una maraviglia.
Il qual disegno, avendo Messer Salvestro Bertini accommodato a Girolamo Razzi suo amicissimo, che oggi è don Silvano, ne furono coloriti due da Carlo da Loro, che n'ha poi fatti molti altri che sono per Firenze.
Avendo Giovanni e Piero d'Agostino Dini fatta in Santa Croce, entrando per la porta di mezzo a man ritta, una capella di macigni molto ricca et una sepoltura per Agostino et altri di casa loro, diedero a fare la tavola di quella a Francesco, il quale vi dipinse Cristo che è deposto di croce da Ioseffo Baramatia e da Nicodemo, et a' piedi la Nostra Donna svenuta con Maria Madalena, San Giovanni e l'altre Marie.
La quale tavola fu condotta da Francesco con tanta arte e studio, che non solo il Cristo nudo è bellissimo, ma insieme tutte l'altre figure ben disposte e colorite con forza e rilievo.
Et ancora che da principio fusse questa tavola dagli avversarii di Francesco biasimata, ella gl'acquistò nondimeno gran nome nell'universale, e chi n'ha fatto dopo lui a concorrenza, non l'ha superato.
Fece il medesimo avanti che partisse di Firenze il ritratto del già detto Messer Lelio Torelli et alcune altre cose di non molta importanza, delle quali non so i particolari, ma fra l'altre cose diede fine a una carta, la quale aveva disegnata molto prima in Roma della conversione di San Paolo, che è bellissimo, il quale fece intagliar in rame da Enea Vico da Parma in Fiorenza.
Et il Duca si contentò trattenerlo infino a che fusse ciò fatto in Fiorenza, con i suoi soliti stipendii e provisione.
Nel qual tempo, che fu l'anno 1548, essendo Giorgio Vasari in Arimini a lavorare a fresco et a olio l'opere delle quali si è favellato in altro luogo, gli scrisse Francesco una lunga lettera, ragguagliandolo per apunto d'ogni cosa e come le sue cose passavano in Fiorenza, et in particolare d'aver fatto un disegno per la capella maggiore di San Lorenzo, che di ordine del signor Duca s'aveva a dipignere; ma che intorno a ciò era stato fatto malissimo ufficio per lui appresso sua eccellenzia, e che oltre all'altre cose, teneva quasi per fermo che Messer Pierfrancesco maiordomo non avesse mostro il suo disegno, onde era stata allogata l'opera al Pontorno; et ultimamente, che per queste cagioni se ne tornava a Roma, malissimo sodisfatto degl'uomini et artefici della sua patria.
Tornato dunque in Roma, avendo comperata una casa vicina al palazzo del cardinale Farnese, mentre si andava trattenendo con lavorare alcune cose di non molta importanza, gli fu dal detto cardinale, per mezzo di Messer Annibale Caro e di don Giulio Clovio, data a dipignere la capella del palazzo di San Giorgio.
Nella quale fece bellissimi partimenti di stucchi et una graziosa volta a fresco con molte figure e storie di San Lorenzo, et in una tavola di pietra a olio la Natività di Cristo, accommodando in quell'opera, che fu bellissima, il ritratto di detto Cardinale.
Dopo essendogli allogato un altro lavoro nella già detta Compagnia della Misericordia, dove aveva fatto Iacopo del Conte la predica et il battesimo di San Giovanni, nelle quali, se bene non aveva passato Francesco, si era portato benissimo, e dove avevano fatto alcune altre cose Battista Franco viniziano e Pirro Ligorio, fece Francesco in questa parte, che è a punto a canto all'altra sua storia della Visitazione, la natività di esso San Giovanni, la quale, se bene condusse ottimamente, ella nondimeno non fu pari alla prima.
Parimente in testa di detta Compagnia fece per Messer Bartolomeo Pussotti due figure in fresco, cioè Santo Andrea e San Bartolomeo Apostoli, molto belli, i quali mettono in mezzo la tavola dell'altare, nella quale è un Deposto di croce di mano del detto Iacopo del Conte, che è bonissima pittura e la migliore opera che infino allora avesse mai fatto.
L'anno 1550 essendo stato eletto sommo pontefice Giulio Terzo, nell'apparato della coronazione, per l'arco che si fece sopra la scala di San Piero, fece Francesco alcune storie di chiaro scuro molto belle, e dopo essendosi fatto nella Minerva, dalla Compagnia del Sacramento, il medesimo anno, un sepolcro con molti gradi et ordini di colonne, fece in quello alcune storie e figure di terretta, che furono tenute bellissime; in una capella di San Lorenzo in Damaso fece due Angeli in fresco che tengono un panno, d'uno de' quali n'è il disegno nel nostro libro.
Dipinse a fresco nel reffettorio di San Salvatore del Lauro a Monte Giordano, nella facciata principale, le nozze di Cana galilea, nelle quali fece Gesù Cristo dell'acqua vino, con gran numero di figure, e dalle bande alcuni Santi e papa Eugenio Quarto che fu di quell'ordine et altri fondatori.
E di dentro sopra la porta di detto reffettorio fece in un quadro a olio San Giorgio che ammazza il serpente, la quale opera condusse con molta pratica, finezza e vaghezza di colori.
Quasi ne' medesimi tempi mandò a Fiorenza a Messer Alamanno Salviati un quadro grande, nel quale sono dipinti Adamo et Eva che nel Paradiso terrestre mangiano d'intorno all'albero della vita il pomo vietato, che è una bellissima opera.
Dipinse Francesco al signor Ranuccio cardinale Sant'Agnolo di casa Farnese, nel salotto che è dinanzi alla maggior sala del palazzo de' Farnesi, due facciate, con bellissimo capriccio: in una fece il signor Ranuccio Farnese il Vecchio che da Eugenio Quarto riceve il bastone del capitanato di Santa Chiesa, con alcune virtù, e nell'altra papa Paolo Terzo Farnese che dà il bastone della Chiesa al signor Pier Luigi, e mentre si vede venire da lontano Carlo Quinto imperatore, accompagnato da Alessandro cardinale Farnese e da altri signori ritratti di naturale.
Et in questa, oltra le dette e molte altre cose, dipinse una Fama et altre figure, che sono molto ben fatte.
Ma è ben vero che quest'opera non fu del tutto finita da lui, ma da Taddeo Zucchero da Sant'Agnolo, come si dirà a suo luogo.
Diede proporzione e fine alla capella del Popolo, che già fra' Bastiano Viniziano aveva cominciata per Agostino Chigii, che non essendo finita, Francesco la finì, come s'è ragionato in fra' Bastiano nella vita sua.
Al cardinale Riccio da Monte Pulciano dipinse nel suo palazzo di strada Giulia una bellissima sala, dove fece a fresco in più quadri molte storie di Davit, e fra l'altre una Bersabè in un bagno che si lava con molte altre femine, mentre Davit la sta a vedere: è una storia molto ben composta, graziosa e tanto piena d'invenzione, quanto altra che si possa vedere.
In un altro quadro è la morte d'Uria, in uno l'arca a cui vanno molti suoni inanzi, et insomma dopo alcune altre una battaglia che fa Davit con i suoi nimici, molto ben composta; e per dirlo brevemente, l'opera di questa sala è tutta piena di grazia, di bellissime fantasie e di molte capricciose et ingegnose invenzioni.
Lo spartimento è fatto con molte considerazioni et il colorito è vaghissimo, e per dire il vero, sentendosi Francesco gagliardo e copioso d'invenzione et avendo la mano ubbidiente all'ingegno, arebbe voluto sempre avere opere grandi e straordinarie alle mani.
E non per altro fu strano nel conversare con gli amici, se non perché essendo vario et in certe cose poco stabile, quello che oggi gli piaceva, domani aveva in odio, e fece pochi lavori d'importanza che non avesse in ultimo a contendere del prezzo; per le quali cose era fuggito da molti.
Dopo queste opere, avendo Andrea Tassini a mandar un pittore al re di Francia, et avendo l'anno 1554 in vano ricercato Giorgio Vasari, che rispose non volere, per qual si voglia gran provisione o promesse o speranza, partirsi dal servizio del duca Cosimo suo signore, convenne finalmente con Francesco e lo condusse in Francia, con obligare di satisfarlo in Roma, non lo satisfacendo in Francia.
Ma prima che esso Francesco partisse di Roma, come quello che pensò non avervi mai più a ritornare, vendé la casa, le masserizie et ogni altra cosa, eccetto gli ufficii che aveva.
Ma la cosa non riuscì come si aveva promesso, perciò che arrivato a Parigi, dove da Messer Francesco Primaticcio abbate di San Martino e pittore et architetto del Re fu ricevuto benignamente e con molte cortesie, fu subito conosciuto per quello che si dice per un uomo così fatto.
Conciò fusse che non vedesse cosa né del Rosso, né d'altri maestri, la quale egli alla scoperta o così destramente non biasimasse.
Per che aspettando ognuno da lui qualche gran cosa, fu dal cardinale di Loreno, che là l'aveva condotto, messo a fare alcune pitture in un suo palazzo a Dampiera, per che avendo fatto molti disegni, mise finalmente mano all'opra facendo alcuni quadri di storie a fresco sopra cornicioni di camini et uno studiolo pieno di storie, che dicono che fu di gran fattura.
Ma che che se ne fusse cagione, non gli furono cotali opere molto lodate.
Oltre di questo non vi fu mai Francesco molto amato, per esser di natura tutto contraria a quella degli uomini di quel paese, essendo che, quanto vi sono avuti cari et amati gli uomini allegri, gioviali, che vivono alla libera e si trovano volentieri in brigata et a far banchetti, tanto vi sono, non dico fuggiti, ma meno amati e carezzati coloro che sono come Francesco era, di natura malinconico, sobrio, malsano e stitico.
Ma d'alcune cose arebbe meritato scusa, però che se la sua complessione non comportava che s'avilupasse ne' pasti e nel mangiar troppo e bere, arebbe potuto essere più dolce nel conversare.
E, che è peggio, dove suo debito era, secondo l'uso del paese e di quelle corti, farsi vedere e corteggiare, egli arebbe voluto, e parevagli meritarlo, essere da tutto il mondo corteggiato.
In ultimo, essendo quel re occupato in alcune guerre e parimente il Cardinale, e mancando le provisioni e promesse, si risolvé Francesco, dopo essere stato là venti mesi, a ritornarsene in Italia.
E così condottosi a Milano (dove dal cavalier Lione Aretino fu cortesemente ricevuto in una sua casa, la quale si ha fabricata ornatissima e tutta piena di statue antiche e moderne e di figure di gesso, formate da cose rare come in altro luogo si dirà) dimorato che quivi fu quindici giorni e riposatosi, se ne venne a Fiorenza, dove avendo trovato Giorgio Vasari e dettogli quanto aveva ben fatto a non andare in Francia, gli contò cose da farne fuggire la voglia a chiunque d'andarvi l'avesse maggiore.
Da Firenze tornatosene Francesco a Roma, mosse un piato a' mallevadori, che erano entrati per le sue provisioni del cardinale di Loreno, e gli strinse a pagargli ogni cosa, e riscosso i danari comperò, oltre ad altri che vi avea prima, alcuni uffizii, con animo risoluto di voler badare a vivere, conoscendosi malsano et avere in tutto guasta la complessione.
Ma ciò nonostante, avrebbe voluto essere impiegato in opere grandi, ma non gli venendo fatto così presto, si trattenne un pezzo in facendo quadri o ritratti.
Morto papa Paulo Quarto, essendo creato Pio similmente Quarto, che dilettandosi assai di fabricare si serviva nelle cose d'architettura di Pirro Ligorio, ordinò Sua Santità che il cardinale Alessandro Farnese e l'Emulio facessono finire la sala grande, detta dei re, a Daniello da Volterra, che l'aveva già cominciata.
Fece ogni opera il detto reverendissimo Farnese perché Francesco n'avesse la metà; nel che fare essendo lungo combattimento fra Daniello e Francesco e massimamente adoperandosi Michel Agnolo Buonarroti in favore di Daniello, non se ne venne per un pezzo a fine.
Intanto essendo andato il Vasari con Giovanni cardinale de' Medici, figliuolo del duca Cosimo, a Roma, nel raccontargli Francesco molte sue disaventure e quelle particolarmente nelle quali, per le cagioni dette pur ora, si ritrovava, gli mostrò Giorgio, che molto amava la virtù di quell'uomo, che egli si era insino allora assai male governato e che lasciasse per l'avenire fare a lui, perciò che farebbe in guisa, che per ogni modo gli toccarebbe a fare la metà della detta sala de' re, la quale non poteva Daniello fare da per sé, essendo uomo lungo et irresoluto, e non forse così gran valentuomo et universale come Francesco.
Così dunque stando le cose, e per allora non si facendo altro, fu ricerco Giorgio non molti giorni dopo dal Papa di fare una parte di detta sala; ma avendo egli risposto che nel palazzo del duca Cosimo suo signore aveva a farne una tre volte maggiore di quella, et oltra ciò che era sì male stato trattato da papa Giulio Terzo, per lo quale aveva fatto molte fatiche alla vigna al monte et altrove, che non sapeva più che si sperare da certi uomini, aggiugnendo che (avendo egli fatta al medesimo senza esserne stato pagato una tavola in palazzo, dentrovi Cristo che nel mare di Tiberiade chiama dalle reti Pietro et Andrea, la quale gl'era stata levata da papa Paulo Quarto da una capella, che aveva fatta Giulio sopra il corridore di Belvedere, e doveva essere mandata a Milano) Sua Santità volesse fargliela o rendere o pagare.
Alle quali cose rispondendo il Papa disse (o vero, o non vero che così fusse) non sapere alcuna cosa di detta tavola, e volerla vedere; per che fattala venire, veduta che Sua Santità l'ebbe a mal lume, si contentò che ella gli fusse renduta.
Dopo rapiccatosi il ragionamento della sala, disse Giorgio al Papa liberamente che Francesco era il primo e miglior pittore di Roma, e che non potendo niuno meglio servirlo di lui, era da farne capitale.
E che se bene il Buonarroto et il cardinale di Carpi favorivano Daniello, lo facevano più per interesse dell'amicizia, e forse come appassionati, che per altro.
Ma per tornare alla tavola, non fu sì tosto partito Giorgio dal Papa, che l'ebbe mandata a casa di Francesco, il quale poi di Roma gliela fece condurre in Arezzo, dove come in altro luogo abbiam detto, è stata dal Vasari con ricca et onorata spesa nella Pieve di quella città collocata.
Stando le cose della sala de' re nel modo che si è detto di sopra, nel partire il duca Cosimo da Siena per andar a Roma, il Vasari, che era andato insin lì con sua eccellenza, gli raccomandò caldamente il Salviati, acciò gli facesse favore appresso al Papa, et a Francesco scrisse quanto aveva da fare, giunto che fusse il Duca in Roma.
Nel che non uscì punto Francesco del consiglio datogli da Giorgio, per che andando a far reverenza al Duca, fu veduto con bonissima cera da sua eccellenza, e poco appresso fatto tale ufficio per lui appresso Sua Santità, che gli fu allogata mezza la detta sala, alla quale opera mettendo mano, prima che altro facesse, gettò a terra una storia stata cominciata da Daniello, onde furono poi fra loro molte contese.
Serviva come s'è già detto questo Pontefice nelle cose d'architettura Pirro Logorio, il quale aveva molto da principio favorito Francesco, et arebbe seguitato; ma colui non tenendo più conto né di Pirro, né d'altri, poi che ebbe cominciato a lavorare, fu cagione che d'amico gli divenne in un certo modo avversario, e se ne videro manifestissimi segni; perciò che Pirro cominciò a dire al Papa, che essendo in Roma molti giovani pittori e valentuomini, che a voler cavare le mani di quella sala sarebbe stato ben fatto allogar loro una storia per uno e vederne una volta il fine.
I quali modi di Pirro, a cui si vedeva che il Papa in ciò acconsentiva, dispiacquero tanto a Francesco, che tutto sdegnato si tolse giù dal lavoro e dalle contenzioni, parendogli che poca stima fusse fatta di lui.
E così montato a cavallo, senza far motto a niuno, se ne venne a Fiorenza, dove tutto fantastico, senza tener conto d'amico che avesse, si pose in uno albergo, come non fusse stato di questa patria e non vi avesse né conoscenza, né chi fusse in cosa alcuna per lui.
Dopo, avendo baciato le mani al Duca, fu in modo accarezzato, che si sarebbe potuto sperare qualche cosa di buono, se Francesco fusse stato d'altra natura e si fusse attenuto al consiglio di Giorgio, il quale lo consigliava a vendere gl'ufficii che aveva in Roma e ridursi in Fiorenza a godere la patria e gl'amici, per fuggire il pericolo di perdere insieme con la vita tutto il frutto del suo sudore e fatiche intollerabili.
Ma Francesco guidato dal senso, dalla còllora e dal desiderio di vendicarsi, si risolvette volere tonare a Roma ad ogni modo fra pochi giorni.
In tanto levandosi di su quell'albergo a' prieghi degl'amici si ritirò in casa di Messer Marco Finale priore di Santo Apostolo, dove fece, quasi per passarsi tempo, a Messer Iacopo Salviati sopra tela d'argento, una Pietà colorita, con la Nostra Donna e l'altre Marie, che fu cosa bellissima; rinfrescò di colori un tondo d'arme ducale, che altra volta avea fatta a posta sopra la porta del palazzo di Messer Alamanno, et al detto Messer Iacopo fece un bellissimo libro di abiti bizzarri et acconciature diverse d'uomini e cavalli per mascherate, per che ebbe infinite cortesie dall'amorevolezza di quel signore, che si doleva della fantastica e strana natura di Francesco, il quale non poté mai questa volta, come l'altre avea fatto, tirarselo in casa.
Finalmente avendo Francesco a partire per Roma, Giorgio come amico gli ricordò che essendo ricco d'età, mal complessionato e poco più atto alle fatiche, badasse a vivere quietamente e lasciare le gare e le contenzioni; il che non arebbe potuto fare commodamente, avendosi acquistato roba et onore a bastanza, se non fusse stato troppo avaro e disideroso di guadagnare.
Lo confortò oltre ciò a vendere gran parte degl'ufficii che aveva et a accommodare le sue cose, in modo che in ogni bisogno o accidente che venisse, potesse ricordarsi degli amici e di coloro che l'avevano con fede e con amore servito.
Promise Francesco di ben fare e dire e confessò che Giorgio gli diceva il vero, ma come al più degl'uomini adiviene, che danno tempo al tempo, non ne fece altro.
Arrivato Francesco in Roma, trovò che il cardinale Emulio aveva allogate le storie della sala e datone due a Taddeo Zucchero da Sant'Agnolo, una a Livio da Forlì, un'altra a Orazio da Bologna, una a Girolamo Sermoneta, e l'altre ad altri; la qual cosa avisando Francesco a Giorgio e dimandando se era bene che seguitasse quella che avea cominciata, gli fu risposto che sarebbe stato ben fatto, dopo tanti disegni piccoli e cartoni grandi, che n'avesse finita una; nonostante che a tanti da molto meno di lui fusse stata allogata la maggior parte, e che facesse sforzo d'avicinarsi con l'operare, quanto potesse il più, alle pitture della facciata e volta del Buonarroto nella capella di Sisto et a quelle della Paulina, perciò che veduta che fusse stata la sua, si sarebbono l'altre mandate a terra e tutte con sua molta gloria allogate a lui; avvertendolo a non curarsi né d'utile, né di danari, o dispiacere che gli fusse fatto da chi governava quell'opera; però che troppo più importa l'onore, che qualunche altra cosa.
Delle quali tutte lettere e proposte e risposte, ne sono le copie e gl'originali fra quelle che tenghiamo noi per memoria di tant'uomo, nostro amicissimo, e per quelle che di nostra mano deono essere state fra le sue cose ritrovate.
Stando Francesco dopo queste cose sdegnato e non ben risoluto di quello che fare volesse, afflitto dell'animo, malsano del corpo et indebolito da continuo medicarsi, si amalò finalmente del male della morte, che in poco tempo il condusse all'estremo, senza avergli dato tempo di potere disporre delle sue cose interamente.
A un suo creato chiamato Annibale, figliuolo di Nanni di Baccio Bigio, lasciò scudi sessanta l'anno in sul Monte delle Farine, quattordici quadri e tutti i disegni et altre cose dell'arte; il resto delle sue cose lasciò a suor Gabriella sua sorella monaca, ancor che io intenda che ella non ebbe, come si dice, del sacco le corde; tuttavia le dovette venire in mano un quadro dipinto sopra tela d'argento con un ricamo intorno, il quale aveva fatto per lo Re di Portogallo o di Polonia, che e' si fusse, e lo lasciò a lei, acciò il tenesse per memoria di lui.
Tutte l'altre cose, cioè gl'ufficii che aveva dopo intolerabili fatiche comperati, tutti si perderono.
Morì Francesco il giorno di San Martino a' dì 11 di novembre l'anno 1563, e fu sepolto in San Ieronimo, chiesa vicina alla casa dove abitava.
Fu la morte di Francesco di grandissimo danno e perdita all'arte, perché se bene aveva cinquantaquattro anni et era malsano, ad ogni modo continuamente studiava e lavorava, et in questo ultimo s'era dato a lavorare di musaico, e si vede che era capriccioso et avrebbe voluto far molte cose, e s'egli avesse trovato un principe che avesse conosciuto il suo umore e datogli da far lavori secondo il suo capriccio, avrebbe fatto cose maravigliose, perché era, come abbiam detto, ricco, abondante e copiosissimo nell'invenzione di tutte le cose et universale in tutte le parti della pittura.
Dava alle sue teste, di tutte le maniere, bellissima grazia, e possedeva gli ignudi bene quanto altro pittore de' tempi suoi; ebbe nel fare de' panni una molto graziata e gentile maniera, acconciandogli in modo che si vedeva sempre nelle parti dove sta bene l'ignudo et abbigliando sempre con nuovi modi di vestiri le sue figure; fu capriccioso e vario nell'acconciature de' capi, ne' calzari et in ogni altra sorte d'ornamenti.
Maneggiava i colori a olio, a tempera et a fresco in modo che si può affermare lui essere stato uno de' più valenti, spediti, fieri e solleciti artefici della nostra età; e noi, che l'abbiamo praticato tanti anni, ne possiamo fare rettamente testimonianza.
Et ancora che fra noi sia stata sempre per lo desiderio che hanno i buoni artefici di passare l'un l'altro qualche onesta emulazione, non però mai, quanto all'interesse dell'amicizia appartiene, è mancato fra noi l'affezzione e l'amore, se bene dico ciascuno di noi a concorrenza l'un dell'altro ha lavorato ne' più famosi luoghi d'Italia, come si può vedere in un infinito di numero di lettere, che appresso di me sono, come ho detto, di mano di Francesco.
Era il Salviati amorevole di natura, ma sospettoso, facile a credere ogni cosa, acuto, sottile e penetrativo, e quando si metteva a ragionare d'alcuni delle nostre arti, o per burla o da dovero, offendeva alquanto e talvolta toccava insino in sul vivo.
Piacevagli il praticare con persone letterate e con grand'uomini, et ebbe sempre in odio gl'artefici plebei, ancor che fussino sempre in alcuna cosa virtuosi; fuggiva certi che sempre dicono male, e quando si veniva a ragionamento di loro gli lacerava senza rispetto; ma sopra tutto gli dispiacevano le giunterie che fanno alcuna volta gl'artefici, delle quali, essendo stato in Francia et uditone alcune, sapeva troppo bene ragionare.
Usava alcuna volta (per meno essere offeso dalla malinconia) trovarsi con gl'amici e far forza di star allegro.
Ma finalmente quella sua sì fatta natura irresoluta, sospettosa e soletaria non fece danno se non a lui.
Fu suo grandissimo amico Manno fiorentino orefice in Roma, uomo raro nel suo esercizio et ottimo per costumi e bontà, e perché egli è carico di famiglia, se Francesco avesse potuto disporre del suo e non avesse spese tutte le sue fatiche in ufficii per lasciargli al Papa, ne arebbe fatto gran parte a questo uomo da bene et artefice eccellente.
Fu parimente suo amicissimo il sopradetto Aveduto dell'Aveduto Vaiaio, il quale fu a Francesco il più amorevole et il più fedele di quanti altri amici avesse mai; e se fusse costui stato in Roma quando Francesco morì, si sarebbe forse in alcune cose con migliore consiglio governato che non fece.
Fu suo creato ancora Roviale spagnuolo, che fece molte opere seco, e da sé nella chiesa di Santo Spirito di Roma una tavola, dentrovi la conversione di San Paolo.
Volle anco gran bene il Salviati a Francesco di Girolamo dal Prato, in compagnia del quale, come si è detto di sopra, essendo anco fanciullo, attese al disegno.
Il quale Francesco fu di bellissimo ingegno e disegnò meglio che altro orefice de' suoi tempi, e non fu inferiore a Girolamo suo padre, il quale di piastra d'argento lavorò meglio qualunche cosa, che altro qual si volesse suo pari.
E secondo che dicono, veniva a costui fatto agevolmente ogni cosa, perciò che battuta la piastra d'argento con alcuni stozzi e quella messo sopra un pezzo d'asse e sotto cera, sego e pece, faceva una materia fra il duro et il tenero, la quale spignendo con ferri in dentro et in fuori, gli faceva riuscire quello che voleva: teste, petti, braccia, gambe, schiene e qualunche altra cosa voleva o gli era addimandata da chi faceva far voti, per appendergli a quelle sante imagini che in alcun luogo, dove avessero avuto grazie o fussero stati esauditi, si ritrovavano.
Questo Francesco dunque, non attendendo solamente a fare boti, come faceva il padre, lavorò anco di tausia et a commettere nell'acciaio oro et argento alla damaschina, facendo fogliami, lavori, figure e qualunche altra cosa voleva.
Della qual sorte di lavoro fece un'armadura intera e bellissima da fonte a piè al duca Alessandro de' Medici, e fra molte altre medaglie che fece il medesimo, quelle furono di sua mano e molto belle che con la testa del detto duca Alessandro furono poste ne' fondamenti della fortezza della porta a Faenza, insieme con altre, nelle quali era da un lato la testa di papa Clemente Settimo e dall'altro un Cristo ignudo, con i flagelli della sua Passione.
Si dilettò anco Francesco dal Prato delle cose di scultura e gittò alcune figurette di bronzo, le quali ebbe il duca Alessandro, che furono graziosissime; il medesimo rinettò, e condusse a molta perfezione, quattro figure simili fatte da Baccio Bandinelli, cioè una Leda, una Venere et un Ercole et un Apollo, che furono date al medesimo Duca.
Dispiacendo adunque a Francesco l'arte dell'orefice e non potendo attendere alla scultura, che ha bisogno di troppe cose, si diede, avendo buon disegno, alla pittura; e perché era persona che praticava poco, né si curava che si sapesse più che tanto che egli attendesse alla pittura, lavorò da sé molte cose.
Intanto, come si disse da principio, venendo Francesco Salviati a Firenze, lavorò nelle stanze che costui teneva nell'Opera di Santa Maria del Fiore, il quadro di Messer Alamanno; onde con questa occasione vedendo costui il modo di fare del Salviati, si diede con molto più studio, che insino allora fatto non aveva, alla pittura; e condusse in un quadro molto bello una conversione di San Paolo, la quale oggi è appresso Guglielmo del Tovaglia.
E dopo in un quadro della medesima grandezza, dipinse le serpi che piovono addosso al popolo ebreo; in un altro fece Gesù Cristo che cava i Santi Padri del limbo, i quali ultimi due, che sono bellissimi, ha oggi Filippo Spini, gentiluomo che molto si diletta delle nostre arti.
Et oltre a molte altre cose piccole che fece Francesco dal Prato, disegnò assai, e bene, come si può vedere in alcuni di sua mano che sono nel nostro libro de' disegni.
Morì costui l'anno 1562 e dolse molto a tutta l'accademia, perché oltre all'esser valentuomo nell'arte, non fu mai il più da bene uomo di lui.
Fu allievo di Francesco Salviati Giuseppo Porta da Castel Nuovo della Garfagnana, che fu chiamato anch'egli per rispetto del suo maestro, Giuseppo Salviati.
Costui giovanetto, l'anno 1535 essendo stato condotto in Roma da un suo zio, segretario di monsignor Onofrio Bartolini arcivescovo di Pisa, fu acconcio col Salviati, appresso al quale imparò in poco tempo, non pure a disegnare benissimo, ma ancora a colorire ottimamente.
Andato poi col suo maestro a Vinezia, vi prese tante pratiche di gentiluomini, che essendovi da lui lasciato fece conto di volere che quella città fusse sua patria, e così presovi moglie, vi si è stato sempre et ha lavorato in pochi altri luoghi che a Vinezia.
In sul campo di S.
Stefano dipinse già la facciata della casa de' Loredani di storie colorite a fresco molto vagamente, e fatte con bella maniera; dipinse similmente a San Polo quella de' Bernardi, et un'altra dietro a San Rocco, che è opera bonissima.
Tre altre facciate di chiaro scuro ha fatto molto grandi, piene di varie storie: una a San Moisè, la seconda a San Cassiano e la terza a Santa Maria Zebenigo.
Ha dipinto similmente a fresco in un luogo detto Treville, appresso Trevisi, tutto il palazzo de' Priuli, fabrica ricca e grandissima, dentro e fuori, della quale fabrica si parlerà a luogo nella vita del Sansovino.
A Pieve di Sacco ha fatto una facciata molto bella et a Bagnuolo, luogo de' frati di Santo Spirito di Vinezia, ha dipinto una tavola a olio, et ai medesimi padri ha fatto nel convento di Santo Spirito il palco, o vero soffittato del loro refettorio, con uno spartimento pieno di quadri dipinti, e nella testa principale un bellissimo cenacolo.
Nel palazzo di San Marco ha dipinto nella sala del doge le sibille, i profeti, le virtù cardinali e Cristo con le Marie, che gli sono state infinitamente lodate.
E nella già detta libraria di San Marco, fece due storie grandi, a concorrenza degli altri pittori di Vinezia, de' quali si è ragionato di sopra.
Essendo chiamato a Roma dal cardinale Emulio, dopo la morte di Francesco, finì una delle maggiori storie che sieno nella detta sala dei re, e ne cominciò un'altra, e dopo essendo morto papa Pio Quarto, se ne tornò a Venezia, dove gli ha dato la Signoria a dipignere in palazzo un palco pieno di quadri a olio, il quale è a sommo delle scale nuove.
Il medesimo ha dipinto sei molto belle tavole a olio: una in San Francesco della Vigna, all'altare della Madonna; la seconda nella chiesa de' Servi all'altar maggiore; la terza ne' fra' minori; la quarta nella Madonna dell'Orto; la quinta a San Zacaria e la sesta a San Moisè, e due n'ha fatto a Murano, che sono belle e fatte con molta diligenza e bella maniera.
Di questa Giuseppe, il quale ancor vive e si fa eccellentissimo, non dico altro per ora, se non che, oltre alla pittura, attende con molto studio alla geometria, e di sua mano è la voluta del capitel ionico che oggi mostra in stampa come si deve girare secondo la misura antica; e tosto doverà venire in luce un'opra che ha composto delle cose di geometria.
Fu anche discepolo di Francesco un Domenico Romano, che gli fu di grande aiuto nella sala che fece in Fiorenza, et in altre opere, et il quale sté l'anno 1550 col signor Giuliano Cesarino e non lavora da sé solo.
FINE DELLA VITA DI FRANCESCO SALVIATI, PITTORE FIORENTINO
VITA DI DANIELLO RICCIARELLI DA VOLTERRA PITTORE E SCULTORE
Avendo Daniello quando era giovanetto imparato alquanto a disegnare da Giovanni Antonio Soddoma, il quale andò a fare in quel tempo alcuni lavori in quella città, partito che si fu, fece esso Daniello molto migliore e maggiore acquisto sotto Baldassarre Peruzzi che sotto la disciplina di esso Soddoma fatto non aveva.
Ma per vero dire, con tutto ciò, non fece per allora gran riuscita, e questo perciò che quanto metteva fatica e studio, spinto da una gran voglia in cercando d'apparare, altre tanto all'incontro il serviva poco l'ingegno e la mano.
Onde nelle sue prime opere che fece in Volterra si conosce una grandissima, anzi infinita fatica, ma non già principio di bella e gran maniera, né vaghezza, né grazia, né invenzione, come si è veduto a buon'ora in molti altri che sono nati per essere dipintori, i quali hanno mostro anco ne' primi principii, facilità, fierezza e saggio di qualche buona maniera.
Anzi le prime cose di costui mostrano essere state fatte veramente da un malinconico, essendo piene di stento e condotte con molta pazienza e lunghezza di tempo.
Ma venendo alle sue opere, per lasciar quelle delle quali non è da far conto, fece nella sua giovanezza in Volterra a fresco la facciata di Messer Mario Maffei, di chiaro scuro, che gli diede buon nome e gli acquistò molto credito.
La quale, poi che ebbe finita, vedendo non aver quivi concorrenza che lo spignesse a cercare di salire a miglior grada e non essere in quella città opere, né antiche, né moderne, dalle quali potesse molto imparare, si risolvette di andare per ogni modo a Roma, dove intendeva che allora non erano molti che attendessero alla pittura, da Perino del Vaga in fuori.
Ma prima che partisse, andò pensando di voler portare alcun'opera finita che lo facesse conoscere, e così, avendo fatto in una tela un Cristo a olio battuto alla colonna con molte figure, e messovi in farlo tutta quella diligenza che è possibile, servendosi di modelli e ritratti dal vivo, lo portò seco.
E giunto in Roma, non vi fu stato molto, che per mezzo d'amici mostrò al cardinale Triulzi quella pittura, la quale in modo gli sodisfece, che non pure la comperò, ma pose grandissima affezzione a Daniello, mandandolo poco appresso a lavorare dove avea fatto fuor di Roma a un suo casale detto Salone un grandissimo casamento, il quale faceva adornare di fontane, stucchi e pitture e dove apunto allora lavoravano Gianmaria da Milano et altri alcune stanze di stucchi e grottesche.
Qui dunque giunto Daniello, sì per la concorrenza e sì per servire quel signore, dal quale poteva molto onore et utile sperare, dipinse in compagnia di coloro diverse cose in molte stanze e logge, e particolarmente vi fece molte grottesche piene di varie feminette, ma sopra tutto riuscì molto bella una storia di Fetonte fatta a fresco di figure grandi quanto il naturale et un fiume grandissimo che vi fece, il quale è una molto buona figura.
Le quali tutte opere, andando spesso il detto cardinale a vedere e menando seco or uno or altro cardinale, furono cagione che Daniello facesse con molti di loro servitù et amicizia.
Dopo, avendo Perino del Vaga, il quale allora faceva alla Trinità la capella di Messer Agnolo de' Massimi, bisogno d'un giovane che gl'aiutasse, Daniello, che disiderava di acquistare, tirato dalle promesse di colui, andò a star seco e gl'aiutò fare nell'opera di quella capella alcune cose, le quali condusse con molta diligenza a fine.
Avendo fatto Perino inanzi al Sacco di Roma, come s'è detto, alla capella del Crucifisso di San Marcello, nella volta la creazione di Adamo et Eva grandi quanto il vivo, e molto maggiori due Evangelisti, cioè San Giovanni e San Marco, et anco non finiti del tutto perché la figura del San Giovanni mancava dal mezzo in su, gl'uomini di quella Compagnia si risolverono, quando poi furono quietate le cose di Roma, che il medesimo Perino finisse quell'opera.
Ma avendo altro che fare, fattone i cartoni la fece finire a Daniello, il quale finì il San Giovanni lasciato imperfetto; fece del tutto gl'altri due Evangelisti, San Luca e San Matteo, nel mezzo due putti che tengono un candelieri, e nell'arco della faccia che mette in mezzo la finestra due Angeli, che volando e stando sospesi in su l'ale, tengono in mano misterii della Passione di Gesù Cristo; e l'arco adornò riccamente di grottesche e molte belle figurine ignude, et insomma si portò in tutta questa opera bene oltre modo, ancor che vi mettesse assai tempo.
Dopo, avendo il medesimo Perino dato a fare a Daniello un fregio nella sala del palazzo di Messer Agnolo Massimi con molti partimenti di stucco et altri ornamenti e storie de' fatti di Fabio Massimo, si portò tanto bene che veggendo quell'opera la signora Elena Orsina et udendo molto lodare la virtù di Daniello, gli diede a fare una sua capella nella chiesa della Trinità di Roma, in su 'l monte dove stanno i frati di San Francesco di Paula, onde Daniello mettendo ogni sforzo e diligenza per fare un'opera rara la quale il facesse conoscere per eccellente pittore, non si curò mettervi le fatiche di molti anni.
Dal nome dunque di quella signora, dandosi alla capella il titolo della croce di Cristo Nostro Salvatore, si tolse il suggetto de' fatti di S.
Elena.
E così nella tavola principale, facendo Daniello Gesù Cristo che è deposto di croce da Gioseffo e Nicodemo et altri Discepoli, lo svenimento di Maria Vergine sostenuta sopra le braccia da Madalena et altre Marie, mostrò grandissimo giudizio e di esser raro uomo, perciò che, oltre al componimento delle figure che è molto ricco, il Cristo è ottima figura et un bellissimo scorto, venendo coi piedi inanzi e col resto in dietro.
Sono similmente belli e difficili scorti e figure quelli di coloro che avendolo sconfitto, lo reggono con le fascie stando sopra certe scale e mostrando in alcune parti l'ignudo fatto con molta grazia.
Intorno poi a questa tavola fece un bellissimo e vario ornamento di stucchi pieno d'intagli, e con due figure che sostengono con la testa il frontone, mentre con una mano tengono il capitello e con l'altra cercano mettere la colonna che lo regga, la quale è posta da piè in sulla basa sotto il capitello, la quale opera è fatta con incredibile diligenza.
Nell'arco sopra la tavola dipinse a fresco due sibille, che sono le migliori figure di tutta quell'opera, le quali sibille mettono in mezzo la finestra che è sopra il mezzo di detta tavola e dà lume a tutta la capella, la cui volta è divisa in quattro parti con bizzarro, vario e bello spartimento di stucchi e grottesche, fatte con nuove fantasie di maschere e festoni, dentro ai quali sono quattro storie della Croce e di Santa Elena madre di Gostantino.
Nella prima è quando avanti la Passione del Salvatore sono fabricate tre croci; nella seconda quando Santa Elena comanda ad alcuni Ebrei che le insegnino le dette croci; nella terza quando, non volendo essi insegnarle, ella fa mettere in un pozzo colui che le sapeva, e nella quarta quando colui insegna il luogo dove tutte e tre erano sotterrate; le quali quattro storie sono belle oltre ogni credenza e condotte con molto studio.
Nelle facce dalle bande sono altre quattro storie, cioè due per faccia, e ciascuna è divisa dalla cornice che fa l'imposta dell'arco sopra cui posa la crocera della volta di detta capella: in una è Santa Elena che fa cavare d'un pozzo la Croce santa e l'altre due, e nella seconda quando quella del Salvatore sana un infermo.
Ne' quadri di sotto a man ritta, la detta Santa quella di Cristo riconosce nel risuscitare un morto sopra cui è posta, nell'ignudo del quale morto mise Daniello incredibile studio per ritrovare i muscoli e rettamente tutte le parti dell'uomo.
Il che fece ancora in coloro che gli mettono addosso la croce e nei circonstanti che stanno tutti stupidi a veder quel miracolo; et oltre ciò è fatto con molta diligenza un bizzarro cataletto con una ossatura di morto che l'abbraccia, condotto con bella invenzione e molta fatica.
Nell'altro quadro, che a questo è dirimpetto, dipinse Eraclio imperadore, il quale scalzo, a piedi et in camicia messe la Croce di Cristo nella porta di Roma, dove sono femine, uomini e putti ginocchioni che l'adorano, molti suoi baroni et uno staffiere che gli tiene il cavallo.
Sotto per basamento sono per ciascuna due femine di chiaro scuro e fatte di marmo, molto belle, le quali mostrano di reggere dette storie, e sotto l'arco primo della parte dinanzi fece nel piano per lo ritto due figure grandi quanto il vivo: un San Francesco di Paula, capo di quell'ordine che uffizia la detta chiesa, et un San Ieronimo vestito da cardinale, che sono due bonissime figure, sì come anche sono quelle di tutta l'opera, la quale condusse Daniello in sette anni e con fatiche e studio inestimabile.
Ma perché le pitture che son fatte per questa via hanno sempre del duro e del difficile, manca quest'opera d'una certa leggiadra facilità che suole molto dilettare.
Onde Daniello stesso, confessando la fatica che aveva durata in quest'opera e temendo di quello che gl'avenne e di non essere biasimato, fece per suo capriccio e quasi per sua defensione sotto i piedi di detti due Santi due storiette di stucco di basso rilievo, nelle quali volle mostrare che essendo suoi amici Michelagnolo Buonarroti e fra' Bastiano del Piombo (l'opere de' quali andava imitando, et osservando i precetti), se bene faceva adagio e con istento, nondimeno il suo imitare quei due uomini poteva bastare a difenderlo dai morsi degl'invidiosi e maligni, la mala natura de' quali è forza, ancor che loro non paia, che si scuopra.
In una, dico, di queste storiette fece molte figure di satiri, che a una stadera pesano gambe, braccia et altre membra di figure, per ridurre al netto quelle che sono a giusto peso e stanno bene e per dare le cattive a Michelagnolo e fra' Bastiano che le vanno conferendo; nell'altra è Michelagnolo che si guarda in uno specchio, di che il significato è chiarissimo.
Fece similmente in due angoli dell'arco dalla banda di fuori due ignudi di chiaro scuro, che sono della medesima bontà che sono l'altre figure di quell'opera; la quale scoperta che fu dopo sì lungo tempo, fu molto lodata e tenuta lavoro bellissimo e difficile et il suo maestro eccellentissimo.
Dopo questa capella gli fece, Alessandro cardinale Farnese in una stanza del suo palazzo, cioè in sul cantone, sotto uno di que' palchi ricchissimi fatti con ordine di maestro Antonio da San Gallo, a tre cameroni che sono in fila, fare un fregio di pittura bellissimo con una storia di figure per ogni faccia, che furono un trionfo di Bacco bellissimo, una caccia et altre simili che molto sodisfecero a quel cardinale, il quale, oltre ciò, gli fece fare in più luoghi di quel fregio un liocorno in diversi modi in grembo a una vergine, che è l'impresa di quella illustrissima famiglia.
La quale opera fu cagione che quel signore, il quale è sempre stato amatore di tutti gl'uomini rari e virtuosi, lo favorisse sempre; e più arebbe fatto se Daniello non fusse stato così lungo nel suo operare.
Ma di questo non aveva colpa Daniello poiché sì fatta era la sua natura et ingegno, et egli più tosto si contentava di fare poco e bene, che assai e non così bene.
Adunque, oltre all'affezione che gli portava il cardinale, lo favorì di maniera il signor Annibale Caro appresso i suoi signori Farnesi, che sempre l'aiutarono.
Et a madama Margarita d'Austria, figliuola di Carlo Quinto, nel palazzo de' Medici a Navona, dello scrittoio del quale si è favellato nella vita dell'Indaco, in otto vani dipinse otto storiette de' fatti et opere illustri di detto Carlo Quinto imperatore con tanta diligenza e bontà, che per simile cosa non si può quasi fare meglio.
Essendo poi l'anno 1547 morto Perino del Vaga et avendo lasciata imperfetta la sala dei re, che, come si è detto, è nel palazzo del papa dinanzi alla capella di Sisto et alla Paulina, per mezzo di molti amici e signori e particolarmente di Michelagnolo Buonarroti fu da papa Paolo Terzo messo in suo luogo Daniello, con la medesima provisione che aveva Perino, et ordinatogli che desse principio agl'ornamenti delle facciate che s'avevano a fare di stucchi con molti ignudi tutti tondi sopra certi frontoni.
E perché quella sala rompeno sei porte grandi di mischio, tre per banda, et una sola facciata rimane intera, fece Daniello sopra ogni porta quasi un tabernacolo di stucco bellissimo, in ciascuno de' quali disegnava fare di pittura uno di quei re che hanno difesa la chiesa apostolica, e seguitare nelle facciate istorie di que' re che con tributi o vittorie hanno beneficato la chiesa, onde in tutto venivano a essere sei storie e sei nicchie.
Dopo le quali nicchie, o vero tabernacoli, fece Daniello con l'aiuto di molti tutto l'altro ornamento ricchissimo di stucchi che in quella sala si vede, studiando in un medesimo tempo i cartoni di quello che aveva disegnato far in quel luogo di pittura.
Il che fatto, diede principio a una delle storie, ma non ne dipinse più che due braccia in circa e due di que' re ne' tabernacoli di stucco sopra le porte, perché, ancor che fusse sollecitato dal cardinale Farnese e dal Papa, senza pensare che la morte suole spesse volte guastare molti disegni, mandò l'opera tanto in lungo, che quando sopravenne la morte del Papa, l'anno 1549, non era fatto se non quello che è detto; per che, avendosi a fare nella sala che era piena di palchi e legnami il conclave, fu necessario gettare ogni cosa per terra e scoprire l'opera.
La quale essendo veduta da ognuno, l'opere di stucco furono, sì come meritavano, infinitamente lodate, ma non già tanto i due re di pittura, perciò che pareva che in bontà non corrispondesseno all'opera della Trinità e che egli avesse, con tanta commodità e stipendii onorati, più tosto dato a dietro che acquistato.
Essendo poi creato pontefice l'anno 1550 Giulio Terzo, si fece inanzi Daniello con amici e con favori per avere la medesima provisione e seguitare l'opera di quella sala, ma il Papa, non vi avendo volto l'animo, diede sempre passata, anzi mandato per Giorgio Vasari, che aveva seco avuto servitù insino quando esso pontefice era arcivescovo Sipontino, si serviva di lui in tutte le cose del disegno.
Ma nondimeno avendo Sua Santità deliberato fare una fontana in testa al corridore di Belvedere e non piacendogli un disegno di Michelagnolo, nel quale era un Moisè che percotendo la pietra ne faceva uscire acqua, per esser cosa che non potea condursi se non con lunghezza di tempo, volendolo Michelagnolo far di marmo, ma il consiglio di Giorgio, il quale fu che la Cleopatra figura divina e stata fatta da' Greci si accommodasse in quel luogo, ne fu dato, per mezzo del Buonarroto, cura a Daniello, con ordine che in detto luogo facesse di stucchi una grotta dentro la quale fusse la detta Cleopatra collocata.
Daniello dunque, avendovi messo mano, ancor che fusse molto sollecitato lavorò con tanta lentezza in quell'opera, finì la stanza sola di stucchi e di pitture, ma molte altre cose che 'l Papa voleva fare vedendo andare più allungo che non pensava, che uscitone la voglia al Papa non fu altrimenti finita, ma si rimase in quel modo che oggi si vede ogni cosa.
Fece Daniello nella chiesa di Santo Agostino a fresco in una capella in figure grandi quanto il naturale una Santa Elena che fa ritrovare la Croce, e dalle bande in due nicchie Santa Cecilia e Santa Lucia, la quale opera fu parte colorita da lui e parte, con suoi disegni, dai giovani che stavano con esso lui; onde non riuscì di quella perfezzione che l'altre opere sue.
In questo medesimo tempo dalla signora Lucrezia della Rovere gli fu allogata una capella nella Trinità, dirimpetto a quella della signora Elena Orsina, nella quale, fatto uno spartimento di stucchi, fece con suoi cartoni dipignere di storie della Vergine la volta da Marco da Siena e da Pellegrino da Bologna.
Et in una delle facciate fece fare a Bizzera spagnuolo la natività di essa Vergine e nell'altra, da Giovan Paulo Rossetti da Volterra suo creato, Gesù Cristo presentato a Simeone; et al medesimo fece fare in due storie, che sono negl'archi di sopra, Gabriello che annunzia essa Vergine e la Natività di Cristo; di fuori negl'angoli fece due figuroni e sotto ne' pilastri due Profeti; nella facciata dell'altare dipinse Daniello di sua mano la Nostra Donna che saglie i gradi del tempio, e nella principale la medesima Vergine che sopra molti bellissimi Angeli in forma di putti saglie in cielo et i dodici Apostoli a basso che stanno a vederla salire.
E perché il luogo non era capace di tante figure et egli desiderava di fare in ciò nuova invenzione, finse che l'altare di quella capella fusse il sepolcro et intorno misse gl'Apostoli, facendo loro posare i piedi in sul piano della capella dove comincia l'altare, il quale modo di fare ad alcuni è piaciuto et ad altri, che sono la maggior e miglior parte, non punto.
Ma con tutto che penasse Daniello quatordeci anni a condurre quest'opera, non è però punto migliore della prima.
Nell'altra facciata che restò a finirsi di questa capella, nella quale andava l'uccisione de' fanciulli innocenti, fece lavorare il tutto, avendone fatto i cartoni, a Michele Alberti fiorentino, suo creato.
Avendo monsignor Messer Giovanni della Casa fiorentino et uomo dottissimo (come le sue leggiadrissime e dotte opere, così latine come volgari, ne dimostrano) cominciato a scrivere un trattato delle cose di pittura, e volendo chiarirsi d'alcune minuzie e particolari dagl'uomini della professione, fece fare a Daniello con tutta quella diligenza che fu possibile il modello d'un Davit di terra finito, e dopo gli fece dipignere, o vero ritrarre, in un quadro il medesimo Davit che è bellissimo, da tutte due le bande, cioè il dinanzi et il di dietro, che fu cosa capricciosa, il quale quadro è oggi appresso Messer Annibale Rucellai.
Al medesimo Messer Giovanni fece un Cristo morto con le Marie, et in una tela per mandare in Francia Enea che spogliandosi per andare a dormire con Dido è sopragiunto da Mercurio, che mostra di parlargli nella maniera che si legge ne' versi di Vergilio.
Al medesimo fece in un altro quadro, pure a olio, un bellissimo San Giovanni in penitenza grande quanto il naturale che da quel signore, mentre visse, fu tenuto carissimo, e parimente un San Girolamo bello a maraviglia.
Morto papa Giulio Terzo e creato sommo pontefice Paulo Quarto, il cardinale di Carpi cercò che fusse da Sua Santità data a finire a Daniello la detta sala dei re, ma non si dilettando quel papa di pitture, rispose essere molto meglio fortificare Roma che spendere in dipignere, e così avendo fatto mettere mano al portone di Castello, secondo il disegno di Salustio, figliuolo di Baldassarre Peruzzi sanese, suo architetto, fu ordinato che in quell'opera, la quale si conduceva tutta di trevertino a uso d'arco trionfale magnifico e sontuoso, si ponessero nelle nicchie cinque statue di braccia quattro e mezzo l'una; per che, essendo ad altri state allogate l'altre, a Daniello fu dato a fare un Angelo Michele.
Avendo intanto monsignor Giovanni Riccio cardinale di Monte Pulciano deliberato di fare una capella in San Pietro a Montorio, dirimpetto a quella che aveva papa Giulio fatta fare con ordine di Giorgio Vasari, et allogata la tavola, le storie in fresco e le statue di marmo che vi andavano a Daniello, esso Daniello, già resoluto al tutto di volere abandonare la pittura e darsi alla scultura, se n'andò a Carrara a far cavare i marmi, così del San Michele come delle statue aveva da fare per la capella di Montorio, mediante la quale occasione, venendo a vedere Firenze e l'opere che il Vasari faceva in palazzo al duca Cosimo e l'altre di quella città, gli furono fatte da infiniti amici suoi molte carezze e particolarmente da esso Vasari, al quale l'aveva per sue lettere raccommandato il Buonarroti.
Dimorando adunque Daniello in Firenze e veggendo quanto il signor Duca si dilettasse di tutte l'arti del disegno, venne in disiderio d'accommodarsi al servigio di sua eccellenza illustrissima; per che, avendo adoperato molti mezzi et avendo il signor Duca a coloro che lo raccomandavano risposto che fusse introdotto dal Vasari, così fu fatto.
Onde Daniello offerendosi a servire sua eccellenza amorevolmente, ella gli rispose che molto volentieri l'accettava e che, sodisfatto che egli avesse agl'oblighi ch'aveva in Roma, venisse a sua posta che sarebbe veduto ben volentieri.
Stette Daniello tutta quella state in Firenze, dove l'accommodò Giorgio in una casa di Simon Botti suo amicissimo; là dove in detto tempo formò di gesso quasi tutte le figure di marmo che di mano di Michelagnolo sono nella sagrestia nuova di San Lorenzo, e fece per Michele Fuchero fiamingo una Leda che fu molto bella figura.
Dopo, andato a Carrara e di là mandati marmi che voleva alla volta di Roma, tornò di nuovo a Fiorenza per questa cagione.
Avendo Daniello menato in sua compagnia, quando a principio venne da Roma a Fiorenza, un suo giovane chiamato Orazio Pianetti, virtuoso e molto gentile, qualunche di ciò si fusse la cagione, non fu sì tosto arrivato a Fiorenza, che si morì.
Di che sentendo infinita noia e dispiacere Daniello, come quegli che molto, per le sue virtù, amava il giovane, e non potendo altrimenti verso di lui il suo buono animo mostrare, tornato quest'ultima volta a Fiorenza, fece la testa di lui di marmo dal petto in su, ritraendola ottimamente da una formata in sul morto, e quella finita la pose con uno epitaffio nella chiesa di San Michele Berteldi in sulla piazza degl'Antinori.
Nel che si mostrò Daniello, con questo veramente amorevole uffizio, uomo di rara bontà et altrimenti amico agl'amici di quello che oggi si costuma communemente, pochissimi ritrovandosi che nell'amicizia altra cosa amino che l'utile e commodo proprio.
Dopo queste cose, essendo gran tempo che non era stato a Volterra sua patria, vi andò prima che ritornasse a Roma e vi fu molto carezzato dagl'amici e parenti suoi; et essendo pregato di lasciare alcuna memoria di sé nella patria, fece in un quadrotto di figure piccole la storia degl'innocenti, che fu tenuta molto bell'opera, e la pose nella chiesa di San Piero; dopo, pensando di non mai più dovervi ritornare, vendé quel poco che vi aveva di patrimonio a Lionardo Ricciarelli suo nipote, il quale essendo con esso lui stato a Roma et avendo molto bene imparato a lavorare di stucco, servì poi tre anni Giorgio Vasari in compagnia di molti altri nell'opere che allora si fecero nel palazzo del Duca.
Tornato finalmente Daniello a Roma, avendo papa Paolo Quarto volontà di gettare in terra il Giudizio di Michelagnolo per gli ignudi che li pareva che mostrasseno la parti vergognose troppo disonestamente, fu detto da cardinali et uomini di giudizio che sarebbe gran peccato guastarle e trovoron modo che Daniello facesse lor certi panni sottili che le coprissi, che tal cosa finì poi sotto Pio Quarto con rifar la Santa Caterina et il San Biagio, parendo che non istesseno con onestà.
Cominciò le statue in quel mentre per la capella del detto cardinale di Monte Pulciano et il San Michele del Portone, ma nondimeno non lavorava con quella prestezza che arebbe potuto e dovuto, come lui che se n'andava di pensiero in pensiero.
Intanto, dopo essere stato morto il re Arrigo di Francia in giostra, venendo il signor Ruberto Strozzi in Italia et a Roma, Caterina de' Medici reina, essendo rimasa reggente in quel regno, per fare al detto suo morto marito alcuna onorata memoria, commise che il detto Ruberto fusse col Buonarroto e facesse che in ciò il suo disiderio avesse compimento; onde, giunto egli a Roma, parlò di ciò lungamente con Michelagnolo, il quale non potendo, per essere vecchio, tòrre sopra di sé quell'impresa, consigliò il signor Ruberto a darla a Daniello, al quale egli non mancarebbe né d'aiuto né di consiglio in tutto quello potesse.
Della quale offerta facendo gran conto lo Strozzi, poi che si fu maturamente considerato quello fusse da farsi, fu risoluto che Daniello facesse un cavallo di bronzo tutto d'un pezzo, alto palmi venti dalla testa insino a' piedi e lungo quaranta incirca, e che sopra quello poi si ponesse la statua di esso re Arrigo armato e similmente di bronzo.
Avendo dunque fatto Daniello un modelletto di terra secondo il consiglio e giudizio di Michelagnolo, il quale molto piacque al signor Ruberto, fu scritto il tutto in Francia et in ultimo convenuto fra lui e Daniello del modo di condurre quell'opera, del tempo, del prezzo e d'ogni altra cosa; per che, messa Daniello mano al cavallo con molto studio, lo fece di terra, senza fare mai altro, come aveva da essere interamente.
Poi, fatta la forma, si andava apparecchiando a gettarlo, e da molti fonditori, in opera di tanta importanza, pigliava parere d'intorno al modo che dovesse tenere perché venisse ben fatta, quando Pio Quarto, dopo la morte di Paolo stato creato pontefice, fece intendere a Daniello volere - come si è detto nella vita del Salviati - che si finisse l'opera della sala de' re e che perciò si lasciasse indietro ogni altra cosa; al che rispondendo Daniello, disse essere occupatissimo et ubligato alla reina di Francia, ma che farebbe i cartoni e la farebbe tirare inanzi a' suoi giovani, e che oltre ciò farebbe anch'egli la parte sua.
La quale risposta non piacendo al Papa, andò pensando di allogare il tutto al Salviati, onde Daniello, ingelosito, fece tanto col mezzo del cardinale di Carpi e di Michelagnolo, che a lui fu data a dipignere la metà di detta sala e l'altra metà, come abbiamo detto, al Salviati, nonostante che Daniello facesse ogni possibile opera d'averla tutta, per andarsi tranquillando senza concorrenza, a suo commodo.
Ma in ultimo la cosa di questo lavoro fu guidata in modo, che Daniello non vi fece cosa niuna più di quello che già avesse fatto molto inanzi, et il Salviati non finì quel poco che aveva cominciato, anzi gli fu anco quel poco dalla malignità d'alcuni gettato per terra.
Finalmente Daniello dopo quattro anni (quanto a lui apparteneva) arebbe gettato il già detto cavallo, ma gli bisognò indugiare molti mesi, più di quello che arebbe fatto, mancandogli le provisioni che doveva fare di ferramenti, metallo et altre materie il signor Ruberto; le quali tutte cose essendo finalmente state provedute, sotterrò Daniello la forma, che era una gran machina, fra due fornaci da fondere in una stanza molto a proposito che aveva a Monte Cavallo, e fonduta la materia, dando nelle spine il metallo, per un pezzo andò assai bene, ma in ultimo sfondando il peso del metallo la forma del cavallo, nel corpo tutta la materia prese altra via, il che travagliò molto da principio l'animo di Daniello, ma nondimeno, considerato il tutto, trovò la via da rimediare a tanto inconveniente.
E così, in capo a due mesi gettandolo la seconda volta, prevalse la sua virtù agl'impedimenti della fortuna, onde condusse il getto di quel cavallo (che è un sesto, o più, maggiore che quello d'Antonino che è in Campidoglio) tutto unito e sottile ugualmente per tutto.
Et è gran cosa che sì grand'opera non pesa se non venti migliaia.
Ma furono tanti i disagi e le fatiche che vi spese Daniello, il quale, anzi che non, era di poca complessione e malinconico, che non molto dopo sopragiunse un catarro crudele che lo condusse molto male, anzi dove arebbe dovuto Daniello star lieto, avendo in così raro getto superato infinite difficultà, non parve che mai poi, per cosa che prospera gl'avenisse, si rallegrasse.
E non passò molto che il detto catarro in due giorni gli tolse la vita a dì quattro d'aprile 1566; ma inanzi avendosi preveduta la morte si confessò molto divotamente e volle tutti i sacramenti della chiesa, e poi, facendo testamento, lasciò che il suo corpo fusse sepellito nella nuova chiesa stata principiata alle Terme da Pio Quarto ai monaci certosini, ordinando che in quel luogo et alla sua sepoltura fusse posta la statua di quell'Angelo che aveva già cominciata per lo portone di Castello.
E di tutto diede cura (facendogli in ciò essecutori del suo testamento) a Michele degl'Alberti fiorentino et a Feliciano da San Vito di quel di Roma, lasciando per ciò loro dugento scudi.
La quale ultima volontà essequirono ambidue con amore e diligenza, dandogli in detto luogo, secondo che da lui fu ordinato, onorata sepoltura.
Ai medesimi lasciò tutte le sue cose appartenenti all'arte, forme di gesso, modelli, disegni e tutte altre masserizie e cose da lavorare, onde si offersono all'ambasciadore di Francia di dare finita del tutto fra certo tempo l'opera del cavallo e la figura del re che vi andava sopra, e nel vero essendosi ambidue esercitati molti anni sotto la disciplina e studio di Daniello, si può da loro sperare ogni gran cosa.
È stato creato similmente di Daniello Biagio da Carigliano pistolese e Giovampaulo Rossetti da Volterra, che è persona molto diligente e di bellissimo ingegno, il quale Giovampaulo, essendosi già molti anni sono ritirato a Volterra, ha fatto e fa opere degne di molta lode.
Lavorò parimente con Daniello e fece molto frutto Marco da Siena, il quale condottosi a Napoli si è presa quella città per patria e vi sta e lavora continuamente; è stato similmente creato di Daniello Giulio Mazzoni da Piacenza, che ebbe i suoi primi principii dal Vasari quando in Fiorenza lavorava una tavola per Messer Biagio Mei che fu mandata a Lucca e posta in San Piero Cigoli, e quando in Monte Oliveto di Napoli faceva esso Giorgio la tavola dell'altare maggiore, una grande opera nel reffettorio e la sagrestia di San Giovanni carbonaro, i portegli dell'organo del piscopio con altre tavole et opere.
Costui avendo poi da Daniello imparato a lavorare di stucchi, paragonando in ciò il suo maestro, ha ornato di sua mano tutto il didentro del palazzo del cardinale Capo di Ferro e fattovi opere maravigliose, non pure di stucchi, ma di storie a fresco et a olio, che gli hanno dato e meritamente infinita lode.
Ha il medesimo fatta di marmo e ritratta dal naturale la testa di Francesco del Nero tanto bene, che non credo sia possibile far meglio, onde si può sperare che abbia a fare ottima riuscita e venire in queste nostre arti a quella perfezione che si può maggiore e migliore.
È stato Daniello persona costumata e da bene e di maniera intento ai suoi studii dell'arte, che nel rimanente del viver suo non ha avuto molto governo et è stato persona malinconica e molto solitaria.
Morì Daniello di 57 anni in circa.
Il suo ritratto s'è chiesto a quei suoi creati che l'aveano fatto di gesso, e quando fui a Roma l'anno passato me l'avevano promesso.
Né per imbasciate o lettere che io abbia loro scritto non l'han voluto dare, mostrando poca amorevolezza al lor morto maestro; però non ho voluto guardare a questa loro ingratitudine, essendo stato Daniello amico mio, che si è messo questo che ancora che li somigli poco, faccia la scusa della diligenza mia e della poca cura et amorevolezza di Michele degli Alberti e di Feliciano da San Vito.
FINE DELLA VITA DI DANIELLO DA VOLTERRA, PITTORE E SCULTORE
VITA DI TADDEO ZUCCHERO PITTORE DA SANT'AGNOLO IN VADO
Esendo duca d'Urbino Francesco Maria, nacque nella terra di Santo Agnolo in Vado, luogo di quello stato, l'anno 1529 a dì primo di settembre ad Ottaviano Zucchero pittore un figliuol maschio, al quale pose nome Taddeo, il qual putto avendo di dieci anni imparato a leggere e scrivere ragionevolmente, se lo tirò il padre appresso e gl'insegnò alquanto a disegnare.
Ma veggendo Ottaviano quello suo figliuolo aver bellissimo ingegno e potere divenire altr'uomo nella pittura, che a lui non pareva essere, lo mise a stare con Pompeo da Fano, suo amicissimo e pittore ordinario; l'opere del quale non piacendo a Taddeo e parimente i costumi, se ne tornò a Sant'Agnolo, quivi et altrove aiutando al padre quanto poteva e sapeva.
Finalmente, essendo cresciuto Taddeo d'anni e di giudizio, veduto non potere molto acquistare sotto la disciplina del padre, carico di sette figliuoli maschi et una femina, et anco non essergli col suo poco sapere d'aiuto più che tanto, tutto solo se n'andò di quattordici anni a Roma, dove a principio, non essendo conosciuto da niuno e niuno conoscendo, patì qualche disagio.
E se pure alcuno vi conosceva, vi fu da loro peggio trattato che dagl'altri, per che accostatosi a Francesco cognominato di Sant'Agnolo, il quale lavorava di grottesche con Perino del Vaga a giornate, se gli raccomandò con ogni umiltà, pregandolo che volesse, come parente che gl'era, aiutarlo; ma non gli venne fatto, perciò che Francesco, come molte volte fanno certi parenti, non pure non l'aiutò, né di fatti, né di parole, ma lo riprese e ributtò agramente.
Ma non per tanto non si perdendo d'animo, il povero giovinetto senza sgomentarsi si andò molti mesi trattenendo per Roma, o per meglio dire stentando, con macinare colori ora in questa et ora in quell'altra bottega, per piccol prezzo, e talora, come poteva il meglio, alcuna cosa disegnando.
E se bene in ultimo si acconciò per garzone con un Giovampiero calavrese, non vi fece molto frutto, perciò che colui, insieme con una sua moglie, fastidiosa donna, non pure lo facevano macinare colori giorni e notte, ma lo facevano non ch'altro patire del pane; del quale acciò non potesse anco avere a bastanza, né a sua posta, lo tenevano in un paniere appiccato al palco con certi campanelli, che ogni poco che il paniere fosse tocco, sonavano e facevano la spia.
Ma questo arebbe dato poca noia a Taddeo, se avesse avuto commodo di potere disegnare alcune carte, che quel suo maestraccio aveva di mano di Raffaello da Urbino.
Per queste e molt'altre stranezze, partitosi Taddeo da Giovampiero, si risolvette a stare da per sé et andarsi riparando per le botteghe di Roma, dove già era conosciuto, una parte della settimana spendendo in lavorare a opere per vivere, et un'altra in disegnando e particularmente l'opere di mano di Raffaello, che erano in casa d'Agostino Chigi et in altri luoghi di Roma.
E perché molte volte, sopragiugnendo la sera, non aveva dove in altra parte ritirarsi, si riparò molte notti sotto le logge del detto Chigi et in altri luoghi simili, i quali disagi gli guastorno in parte la complessione, e se non l'avesse la giovinezza aiutato, l'arebbono ucciso del tutto.
Con tutto ciò amalandosi e non essendo da Francesco Sant'Agnolo suo parente più aiutato di quello che fosse stato altra volta, se ne tornò a Sant'Agnolo a casa il padre, per non finire la vita in tanta miseria quanta quella era in che si trovava.
Ma per non perdere oggimai più tempo in cose che non importano più che tanto, e bastando avere mostrato con quanta difficultà e disagi acquistasse, dico che Taddeo finalmente guarito e tornato a Roma, si rimesse a' suoi soliti studii (ma con aversi più cura, che per l'adietro fatto non aveva), e sotto un Iacopone imparò tanto, che venne in qualche credito, onde il detto Francesco suo parente, che così empiamente si era portato verso lui, veggendolo fatto valent'uomo, per servirsi di lui si rapatumò seco e cominciarono a lavorare insieme, essendosi Taddeo, che era di buona natura, tutte l'ingiurie dimenticato.
E così facendo Taddeo i disegni et ambidui lavorando molti fregi di camere e logge a fresco, si andavano giovando l'uno all'altro.
Intanto Daniello da Parma pittore, il quale già stette molti anni con Antonio da Coreggio, et avea avuto pratica con Francesco Mazzuoli parmigiano, avendo preso a fare a Vitto di là di Sore nel principio dell'Abruzzo una chiesa a fresco per la capella di Santa Maria, prese in suo aiuto Taddeo conducendolo a Vitto.
Nel che fare, se bene Daniello non era il migliore pittore del mondo, aveva nondimeno per l'età e per avere veduto il modo di fare del Coreggio e del Parmigiano, e con che morbidezza conducevano le loro opere, tanta pratica, che mostrandola a Taddeo et insegnandogli, gli fu di grandissimo giovamento con le parole, non altrimenti che un altro arebbe fatto con l'operare.
Fece Taddeo in quest'opera, che aveva la volta a croce, i quattro Evangelisti, due Sibille, duoi Profeti e quattro storie non molto grandi di Iesù Cristo e della Vergine sua madre.
Ritornato poi a Roma, ragionando Messer Iacopo Mattei gentiluomo romano con Francesco Sant'Agnolo di volere fare dipignere di chiaro scuro la facciata d'una sua casa, gli mise inanzi Taddeo, ma perché pareva troppo giovane a quel gentiluomo, gli disse Francesco che ne facesse prova in due storie, e che quelle non riuscendo, si sarebbono potute gettare per terra, e riuscendo arebbe seguitato.
Avendo dunque Taddeo messo mano all'opera, riuscirno sì fatte le due prime storie, che ne restò Messer Iacopo non pure sodisfatto, ma stupido; onde avendo finita quell'opera l'anno 1548, fu sommamente da tutta Roma lodata e con molta ragione.
Perciò che dopo Pulidoro, Maturino, Vincenzo da San Gimignano e Baldassarre da Siena, niuno era in simili opere arrivato a quel segno che aveva fatto Taddeo, giovane allora di diciotto anni; l'istorie della quale opera si possono comprendere da queste inscrizzioni, che sono sotto ciascuna de' fatti di Furio Camillo; la prima dunque è questa: TUSCULANI, PACE CONSTANTI, VIM ROMANAM ARCENT; la seconda; M[ARCUS] F[URIUS) C[AMILLUS] SIGNIFERUM SECUM IN HOSTEM RAPIT; la terza: M[ARCO] F[URIO] C[AMILLO] AUCTORE INCENSA URBS RESTITUITUR; la quarta: M[ARCUS] F[URIUS) C[AMILLUS] PACTIONIBUS TURBATIS PRAELIUM GALLIS NUNCIAT; la quinta: M[ARCUS] F[URIUS] C[AMILLUS) PRODITOREM VINCTUM FALERIO REDUCENDUM TRADIT; la sesta: MATRONALIS AURI COLLATIONE, VOTUM APOLLINI SOLVITUR; la settima: M[ARCUS] F[URIUS] C[AMILLUS] IUNONI REGINAE TEMPLUM IN AVENTINO DEDICAT; l'ottava: SIGNUM IUNONIS REGINAE A VEIIS ROMAM TRANSFERTUR; la nona: M[ARC...] F[URI...] C[AMILL...] ...
[M]ANLIUS DICT[ATOR] DECEM ...
SOS ...
CIOS CAPIT.
Dal detto tempo insino all'anno 1550, che fu creato papa Giulio Terzo, si andò trattenendo Taddeo in opera di non molta importanza, ma però con ragionevole guadagno; il quale anno 1550, essendo il Giubileo, Ottaviano padre di Taddeo, la madre et un altro loro figliuolo andorno a Roma a pigliare il santissimo Giubileo et in parte vedere il figliolo.
Là dove stati che furno alcune settimane con Taddeo, nel partirsi gli lasciarono il detto putto che avevano menato con esso loro, chiamato Federigo, acciò lo facesse attendere alle lettere: ma giudicandolo Taddeo più atto alla pittura, come si è veduto essere poi stato vero, ne l'eccellente riuscita che esso Federigo ha fatto, lo cominciò, imparato che ebbe le prime lettere, a fare attendere al disegno con miglior fortuna et appoggio che non aveva avuto egli.
Fece intanto Taddeo nella chiesa di Santo Ambrogio de' Milanesi, nella facciata de l'altare maggiore, quattro storie de' fatti di quel Santo, non molto grandi e colorite a fresco, con un fregio di puttini e femine a uso di termini, che fu assai bell'opera, e, questa finita, allato a Santa Lucia della Tinta, vicino all'Orso, fece una facciata piena di storie di Alessandro Magno, cominciando dal suo nascimento e seguitando in cinque storie i fatti più notabili di quell'uomo famoso, che gli fu molto lodata, ancor che questa avesse il paragone a canto d'un'altra facciata di mano di Pulidoro.
In questo tempo, avendo Guido Baldo duca d'Urbino udita la fama di questo giovane suo vasallo e desiderando dar fine alle facciate della capella del Duomo d'Urbino, dove Batista Franco, come s'è detto, aveva a fresco dipinta la volta, fece chiamare Taddeo a Urbino; il quale, lasciando in Roma chi avesse cura di Federigo e lo facesse attendere a imparare, e parimente d'un altro suo fratello, il quale pose con alcuni amici suoi all'orefice, se n'andò ad Urbino, dove gli furono da quel Duca fatte molte carezze e poi datogli ordine di quanto avesse a disegnare per conto della capella et altre cose.
Ma in quel mentre, avendo quel Duca come generale de' signori viniziani a ire a Verona et a vedere l'altre fortificazioni di quel dominio, menò seco Taddeo, il quale gli ritrasse il quadro di mano di Raffaello, che è, come in altro luogo s'è detto, in casa de' signori conti da Canossa; dopo cominciò, pur per sua eccellenza, una telona grande, dentrovi la conversione di San Pavolo, la quale è ancora così imperfetta a Sant'Agnolo appresso Ottaviano suo padre.
Ritornato poi in Urbino andò per un pezzo seguitando i disegni della detta capella, che furono de' fatti di Nostra Donna, come si può vedere in una parte di quelli, che è appresso Federigo suo fratello, disegnati di penna e chiaro scuro; ma o venisse che 'l Duca non fosse resoluto e gli paresse Taddeo troppo giovane, o da altra cagione, si stette Taddeo con esso lui due anni, senza fare altro che alcune pitture in uno studiolo a Pesaro et un'arme grande a fresco nella facciata del palazzo et il ritratto di quel Duca in un quadro grande quanto il vivo, che tutte furono bell'opere.
Finalmente, avendo il Duca a partire per Roma per andare a ricevere il bastone, come generale di santa Chiesa, da papa Giulio Terzo, lasciò a Taddeo che seguitasse la detta capella e che fosse di tutto quello, che per ciò bisognava, proveduto.
Ma i ministri del Duca, facendogli come i più di simili uomini fanno, cioè stentare ogni cosa, furono cagione che Taddeo, dopo avere perduto duoi anni di tempo, se n'andò a Roma, dove truovato il Duca si scusò destramente, senza dar biasimo a nessuno, promettendo che non mancherebbe di fare quando fosse tempo.
L'anno poi 1551, avendo Stefano Veltroni dal Monte Sansavino ordine dal Papa e dal Vasari di fare adornare di grottesche le stanze della vigna, che fu del cardinale Poggio, fuori della porta del Popolo in sul monte, chiamò Taddeo, e nel quadro del mezzo gli fece dipignere una Occasione, che avendo presa la Fortuna, mostra di volerle tagliare il crine con le forbice, impresa di quel Papa, nel che Taddeo si portò molto bene.
Dopo avendo il Vasari fatto sotto il palazzo nuovo, primo di tutti gl'altri, il disegno del cortile e della fonte, che poi fu seguitata dal Vignola e dall'Amannato e murata da Baronino, nel dipignervi molte cose Prospero Fontana, come di sotto si dirà, si servì assai di Taddeo in molte cose, che gli furono occasione di maggiore bene; perciò che, piacendo a quel Papa il suo modo di fare, gli fece dipignere in alcune stanze sopra il corridore di Belvedere alcune figurette colorite, che servirono per fregii di quelle camere, et in una loggia scoperta, dietro quelle che voltavano verso Roma, fece nella facciata di chiaro scuro e grandi quanto il vivo tutte le fatiche di Ercole, che furono al tempo di papa Pavolo Quarto rovinate, per farvi altre stanze e murarvi una capella.
Alla vigna di papa Giulio, nelle prime camere del palazzo, fece di colori nel mezzo della volta alcune storie, e particularmente il monte Parnaso, e nel cortile del medesimo fece due storie di chiaro scuro de' fatti delle Sabine, che mettono in mezzo la porta di mischio principale, che entra nella loggia, dove si scende alla fonte de l'acqua vergine, le quali opere furono lodate e commendate molto.
E perché Federigo, mentre Taddeo era a Roma col Duca, era tornato a Urbino e quivi et a Pesaro statosi poi sempre, lo fece Taddeo dopo le dette opere tornare a Roma per servirsene in fare un fregio grande in una sala et altri in altre stanze della casa di Giambecari sopra la piazza di Sant'Apostolo, et in altri fregi che fece dalla guglia di San Mauro nelle case di Messer Antonio Portatore, tutti pieni di figure, et altre cose, che furono tenute bellissime.
Avendo compro Mattiuolo, maestro delle poste al tempo di papa Giulio, un sito in campo Marzio e murato un casotto molto commodo, diede a dipignere a Taddeo la facciata di chiaro scuro, il qual Taddeo vi fece tre storie di Mercurio messaggero degli dii, che furono molto belle, et il restante fece dipignere ad altri con disegni di sua mano.
Intanto, avendo Messer Iacopo Mattei fatta murare nella chiesa della Consolazione sotto il Campidoglio una capella, la diede, sapendo già quanto valesse, a dipignere a Taddeo, il quale la prese a fare volentieri e per piccol prezzo per mostrare ad alcuni, che andavano dicendo che non sapeva se non fare facciate et altri lavori di chiaro scuro, che sapeva anco fare di colori.
A quest'opera dunque avendo Taddeo messo mano, non vi lavorava se non quando si sentiva in capriccio e vena di far bene, spendendo l'altro tempo in opere che non gli premevano quanto questa per conto dell'onore, e così con suo commodo la condusse in quattro anni.
Nella volta fece a fresco quattro storie della Passione di Cristo di non molta grandezza con bellissimi capricci e tanto bene condotte, per invenzione, disegno e colorito, che vinse se stesso; le quali storie sono la cena con gl'Apostoli, la lavazione d'i piedi, l'orare nell'orto e quando è preso e baciato da Giuda.
In una delle facciate dalle bande fece, in figure grandi quanto il vivo, Cristo battuto alla colonna, e nell'altra Pilato che lo mostra flagellato ai giudei, dicendo "Ecce homo"; e sopra questa in un arco è il medesimo Pilato che si lava le mani, e nell'altro arco dirimpetto Cristo menato dinanzi ad Anna.
Nella faccia dell'altare fece il medesimo quando è crucifisso e le Marie a' piedi con la Nostra Donna tramortita, messa in mezzo dalle bande da due Profeti, e nell'arco sopra l'ornamento di stucco fece due Sibille, le quali quattro figure trattano della Passione di Cristo, e nella volta sono quattro mezze figure intorno a certi ornamenti di stucco, figurate per i quattro Evangelisti, che sono molto belle.
Quest'opera, la quale fu scoperta l'anno 1556, non avendo Taddeo più che ventisei anni, fu et è tenuta singolare et egli allora giudicato dagl'artefici eccellente pittore.
Questa finita gl'allogò Messer Mario Frangipane nella chiesa di San Marcello una sua capella, nella quale si servì Taddeo, come fece anco in molti altri lavori, de' giovani forestieri, che sono sempre in Roma e vanno lavorando a giornate per imparare e guadagnare, ma nondimeno per allora non la condusse del tutto.
Dipinse il medesimo al tempo di Paolo Quarto in palazzo del Papa alcune stanze a fresco, dove stava il cardinale Caraffa, nel torrone sopra la guardia de' Lanzi, et a olio in alcuni quadrotti la Natività di Cristo, la Vergine e Giuseppo quando fuggono in Egitto, i quali duoi furono mandati in Portogallo dall'ambasciatore di quel re.
Volendo il cardinal di Mantoa fare dipignere dentro tutto il suo palazzo a canto all'arco di Portogallo con prestezza grandissima, allogò quell'opera a Taddeo per convenevole prezzo; il qual Taddeo cominciando con buon numero d'uomini, in brieve lo condusse a fine, mostrando avere grandissimo giudizio in sapere accommodare tanti diversi cervelli in opera sì grande e conoscere le maniere differenti per sì fatto modo, che l'opera mostri essere tutta d'una stessa mano; insomma sodisfece in questo lavoro Taddeo con suo molto utile al detto cardinale et a chiunche la vide, ingannando l'opinione di coloro che non potevano credere che egli avesse a riuscire in viluppo di sì grand'opera.
Parimente dipinse dalle Botteghe Scure per Messer Alessandro Mattei, in certi sfondati delle stanze del suo palazzo, alcune storie di figure a fresco, et alcun'altre ne fece condurre a Federigo suo fratello, acciò si accommodasse al lavorare, il quale Federigo, avendo preso animo, condusse poi da sé un monte di Parnaso sotto le scale d'Araceli in casa d'un gentiluomo chiamato Stefano Margani romano, nello sfondato d'una volta.
Onde Taddeo, veggendo il detto Federigo assicurato e fare da sé con i suoi proprii disegni, senza essere più che tanto da niuno aiutato, gli fece allogare dagli uomini di Santa Maria dell'Orto a Ripa in Roma (mostrando quasi di volerla fare egli) una capella, perciò che a Federigo solo, essendo anco giovinetto, non sarebbe stata data già mai.
Taddeo dunque, per sodisfare a quegl'uomini, vi fece la Natività di Cristo et il resto poi condusse tutto Federigo, portandosi di maniera, che si vide principio di quella eccellenza che oggi è in lui manifesta.
Né medesimi tempi, al duca di Guisa che era allora in Roma, disiderando egli di condurre un pittore pratico e valent'uomo a dipignere un suo palazzo in Francia, fu mezzo per le mani Taddeo; onde, vedute delle opere sue e piaciutagli la maniera, convenne di dargli l'anno di provisione seicento scudi, e che Taddeo, finita l'opera che aveva fra mano, dovesse andare in Francia a servirlo.
E così arebbe fatto Taddeo, essendo i danari per mettersi a ordine stati lasciati in un banco, se non fossero allora seguite le guerre che furono in Francia e poco appresso la morte di quel Duca.
Tornato dunque Taddeo a fornire in San Marcello l'opera del Frangipane, non poté lavorare molto a lungo senza essere impedito, perciò che, essendo morto Carlo Quinto imperatore, e dandosi ordine di fargli onoratissime esequie in Roma, come a imperatore de' romani, furono allogate a Taddeo, che il tutto condusse in venticinque giorni, molte storie de' fatti di detto imperatore e molti trofei et altri ornamenti, che furono da lui fatti di carta pesta molto magnifici et onorati; onde gli furono pagati per le sue fatiche, e di Federigo et altri che gli avevano aiutato, scudi secento d'oro.
Poco dopo dipinse in Bracciano, al signor Paolo Giordano Orsini, due cameroni bellissimi et ornati di stucchi et oro riccamente, cioè in uno le storie d'Amore e di Psiche e nell'altro, che prima era stato da altri comminciato, fece alcune storie di Alessandro Magno, et altre che gli restarono a fare, continuando i fatti del medesimo, fece condurre a Federigo suo fratello, che si portò benissimo.
Dipinse poi a Messer Stefano del Bufalo, al suo giardino dalla fontana di Trievi, in fresco le Muse d'intorno al fonte Castalio et il monte di Parnaso, che fu tenuta bell'opera.
Avendo gl'Operai della Madonna d'Orvieto, come s'è detto nella vita di Simone Mosca, fatto fare nelle navate della chiesa alcune capelle con ornamenti di marmi e stucchi, e fatto fare alcune tavole a Girolamo Mosciano da Brescia, per mezzo d'amici, udita la fama di lui, condussero Taddeo, che menò seco Federigo, a Orvieto; dove, messo mano a lavorare, condusse nella faccia d'una di dette capelle due figurone grandi, una per la Vita Attiva e l'altra per la Contemplativa, che furono tirate via con una pratica molto sicura, nella maniera che faceva le cose, che molto non studiava.
E mentre che Taddeo lavorava queste, dipinse Federigo nella nicchia della medesima capella tre storiette di San Paolo; alla fine delle quali, essendo amalati amendue, si partirono, promettendo di tornare al settembre; e Taddeo se ne tornò a Roma, e Federigo a Sant'Agnolo con un poco di febbre, la quale passatagli, in capo a due mesi tornò anch'egli a Roma.
Dove la settimana santa vegnente, nella Compagnia di Santa Agata de' fiorentini, che è dietro a Banchi, dipinsero ambidue in quattro giorni per un ricco apparato, che fu fatto per lo giovedì e venerdì santo, di storie di chiaro scuro, tutta la Passione di Cristo nella volta e nicchia di quello oratorio, con alcuni Profeti et altre pitture, che feciono stupire chiunche le vide.
Avendo poi Alessandro cardinale Farnese condotto a buon termine il suo palazzo di Caprarola con architettura del Vignola, di cui si parlerà poco appresso, lo diede a dipignere tutto a Taddeo, con queste condizioni, che non volendosi Taddeo privare degl'altri suoi lavori di Roma, fusse obligato a fare tutti i disegni, cartoni, ordini e partimenti dell'opere, che in quel luogo si avevano a fare, di pitture e di stucchi, che gli uomini i quali avevano a mettere in opera fussono a volontà di Taddeo, ma pagati dal cardinale, che Taddeo fosse obligato a lavorarvi egli stesso due o tre mesi dell'anno, et ad andarvi quante volte bisognava a vedere come le cose passavano e ritoccare quelle che non istessono a suo modo.
Per le quali tutte fatiche gli ordinò il cardinale dugento scudi l'anno di provisione; per lo che Taddeo avendo così onorato trattenimento e l'appoggio di tanto signore, si risolvé a posare l'animo et a non volere più pigliare per Roma, come insino allora aveva fatto, ogni basso lavoro, e massimamente per fuggire il biasimo che gli davano molti dell'arte, dicendo che con certa sua avara rapacità pigliava ogni lavoro per guadagnare con le braccia d'altri quello ch'a molti sarebbe stato onesto trattenimento da potere studiare, come aveva fatto egli nella sua prima giovanezza.
Dal quale biasimo si difendeva Taddeo con dire che lo faceva per rispetto di Federigo e di quell'altro suo fratello, che aveva alle spalle e voleva che con l'aiuto suo imparasseno.
Risolutosi dunque a servire Farnese et a finire la capella di San Marcello, fece dare da Messer Tizio da Spoleti, maestro di casa del detto cardinale, a dipignere a Federigo la facciata d'una sua casa, che aveva in sulla piazza della Dogana, vicina a Santo Eustachio, al quale Federigo fu ciò carissimo, perciò che non aveva mai altra cosa tanto desiderato quanto d'avere alcun lavoro sopra di sé.
Fece dunque di colori in una facciata la storia di Santo Eustachio quando si battezza insieme con la moglie e con i figliuoli, che fu molto buon'opera, e nella facciata di mezzo fece il medesimo Santo, che cacciando vede fra le corna d'un cervio Iesù Cristo crucifisso.
Ma perché Federigo quando fece quest'opera non aveva più che ventotto anni, Taddeo, che pure considerava quell'opera essere in luogo publico e che importava molto all'onore di Federigo, non solo andava alcuna volta a vederlo lavorare, ma anco talora voleva alcuna cosa ritoccare e racconciare.
Per che Federigo, avendo un pezzo avuto pacienza, finalmente traportato una volta dalla collera, come quegli che arebbe voluto fare da sé, prese la martellina e gittò in terra non so che, che aveva fatto Taddeo, e per isdegno stette alcuni giorni che non tornò a casa.
La qual cosa intendendo gl'amici dell'uno e dell'altro, fecciono tanto, che si rapattumarono con questo, che Taddeo potesse correggere e mettere mano nei disegni e cartoni di Federigo a suo piacimento, ma non mai nell'opere che facesse, o a fresco, o a olio, o in altro modo.
Avendo dunque finita Federigo l'opera di detta casa, ella gli fu universalmente lodata e gl'acquistò nome di valente pittore.
Essendo poi ordinato a Taddeo che rifacesse nella sala de' palafrenieri quegl'Apostoli, che già vi aveva fatto di terretta Raffaello, e da Paolo Quarto erano stati gettati per terra, Taddeo fattone uno, fece condurre tutti gli altri da Federigo suo fratello, che si portò molto bene; e dopo feciono insieme nel palazzo di Araceli un fregio colorito a fresco in una di quelle sale.
Trattandosi poi, quasi nel medesimo tempo che lavoravano costoro in Araceli, di dare al signor Federigo Borromeo per donna la signora donna Verginia, figliola del duca Guido Baldo d'Urbino, fu mandato Taddeo a ritrarla, il che fece ottimamente, et avanti che partisse da Urbino fece tutti i disegni d'una credenza, che quel Duca fece poi fare di terra in Castel Durante per mandare al re Filippo di Spagna.
Tornato Taddeo a Roma, presentò al Papa il ritratto, che piacque assai, ma fu tanta la cortesia di quel Pontefice o de' suoi ministri, che al povero pittore non furono, non che altro, rifatte le spese.
L'anno 1560, aspettando il Papa in Roma il signor duca Cosimo e la signora duchessa Leonora sua consorte, et avendo disegnato d'alloggiare loro eccellenze nelle stanze che già Innocenzio Ottavo fabricò, le quali respondono sul primo cortile del palazzo et in quello di San Piero e che hanno dalla parte dinanzi logge che rispondono sopra la piazza dove si dà la benedizione, fu dato carico a Taddeo di fare le pitture et alcuni fregi che v'andavano, e di mettere d'oro i palchi nuovi, che si erano fatti in luogo de' vecchi consumati dal tempo.
Nella qual opera, che certo fu grande e d'importanza, si portò molto bene Federigo, al quale diede quasi cura del tutto Taddeo suo fratello, ma con suo gran pericolo perciò che, dipignendo grottesche nelle dette logge, cascando d'uno ponte che posava sul principale fu per capitare male.
Né passò molto, ch'il cardinale Emulio, a cui aveva di ciò dato cura il Papa, diede a dipignere a molti giovani (acciò fosse finito tostamente) il palazzetto, che è nel bosco di Belvedere, cominciato al tempo di papa Paolo Quarto con bellissima fontana et ornamenti di molte statue antiche, secondo l'architettura e disegno di Pirro Ligorio.
I giovani dunque, che in detto luogo con loro molto onore lavorarono, furono Federigo Bassocci da Urbino, giovane di grande aspettazione, Lionardo Cungii e Durante del Nero, ambidue dal Borgo Sansepolcro, i quali condussono le stanze del primo piano.
A sommo la scala, fatta a lumaca, dipinse la prima stanza Santi Zidi, pittore fiorentino, che si portò molto bene e la maggior, ch'è a canto a questa, dipinse il sopra detto Federigo Zucchero, fratello di Taddeo, e di là da questa, condusse un'altra stanza Giovanni dal Carso Schiavone, assai buon maestro di grottesche.
Ma ancor che ciascuno dei sopra detti si portasse benissimo, nondimeno superò tutti gli altri Federigo in alcune storie che vi fece di Cristo, come la Transfigurazione, le nozze di Cana Galilea et il centurione inginocchiato.
E di due, che ne mancavano, una ne fece Orazio Sammacchini, pittore bolognese, e l'altra un Lorenzo Costa mantovano; il medesimo Federigo Zucchero dipinse in questo luogo la loggetta, che guarda sopra il vivaio, e dopo fece un fregio in Belvedere nella sala principale, a cui si saglie per la lumaca, con istorie di Moisè e Faraone, belle a fatto.
Della qual opera ne diede, non ha molto, esso Federigo il disegno fatto e colorito di sua mano in una bellissima carta al reverendo don Vincenzio Borghini, che lo tiene carissimo e come disegno di mano d'eccellente pittore.
E nel medesimo luogo dipinse il medesimo l'Angelo che amazza in Egitto i primigeniti, facendosi, per fare più presto, aiutare a molti suoi giovani.
Ma nello stimarsi da alcuni le dette opere, non furono le fatiche di Federigo e degl'altri riconosciute come dovevano, per essere in alcuni artefici nostri, in Roma, a Fiorenza e per tutto, molti maligni che, accecati dalle passioni e dall'invidie, non conoscono o non vogliono conoscere l'altrui opere lodevoli et il difetto delle proprie.
E questi tali sono molte volte cagione ch'i begl'ingegni de' giovani, sbigottiti, si raffreddano negli studii e nell'operare.
Nell'offizio della Ruota dipinse Federigo, dopo le dette opere, intorno a un'arme di papa Pio Quarto, due figure maggior del vivo, cioè la Giustizia e l'Equità, che furono molto lodate, dando in quel mentre tempo a Taddeo di attendere all'opera di Caprarola et alla capella di San Marcello.
Intanto Sua Santità, volendo finire ad ogni modo la sala de' re, dopo molte contenzioni state fra Daniello et il Salviati, come s'è detto, ordinò al vescovo di Furlì quanto intorno a ciò voleva che facesse, onde egli scrisse al Vasari a dì tre di settembre l'anno 1561, che volendo il Papa finire l'opera della sala de' re, gl'aveva commesso che si trovassero uomini, i quali ne cavassero una volta le mani, e che perciò, mosso dall'antica amicizia e d'altre cagioni, lo pregava a voler andare a Roma per fare quell'opera, con bona grazia e licenzia del Duca suo signore; perciò che con suo molto onore et utile ne farebbe piacere a Sua Beatitudine, e che acciò quanto prima rispondesse.
Alla quale lettera rispondendo, il Vasari disse che, trovandosi stare molto bene al servizio del Duca et essere delle sue fatiche rimunerato altrimenti che non era stato fatto a Roma da altri pontefici, voleva continuare nel servigio di sua eccellenza per cui aveva da mettere allora mano a molto maggior sala che quella de' re non era, e che a Roma non mancavano uomini di chi servirsi in quell'opera.
Avuta il detto vescovo dal Vasari questa risposta, e con Sua Santità conferito il tutto, dal cardinale Emulio, che novamente aveva avuto cura dal Pontefice di far finire quella sala, fu compartita l'opera, come s'è detto, fra molti giovani, che erano parte in Roma e parte furono d'altri luoghi chiamati.
A Giuseppe Porta da Castel Nuovo della Carfagnana, creato del Salviati, furono date due [del]le maggiori storie della sala; a Girolamo Siciolante da Sermoneta un'altra delle maggiori et un'altra delle minori; a Orazio Sammacchini bolognese un'altra minore, et a Livo da Furlì una simile; a Giambattista Fiorini bolognese un'altra delle minori.
La qual cosa udendo Taddeo e veggendosi escluso, per essere stato detto al detto cardinale Emulio che egli era persona che più attendeva al guadagno che alla gloria e che al bene operare, fece col cardinale Farnese ogni opera per essere anch'egli a parte di quel lavoro, ma il cardinale non si volendo in ciò adoperare, gli rispose che gli dovevano bastare l'opere di Caprarola e che non gli pareva dovere che i suoi lavori dovessero essere lasciati indietro per l'emulazioni e gare degli artefici, aggiungendo ancora che quando si fa bene sono l'opere che danno nome ai luoghi, e non i luoghi all'opere.
Ma ciò nonostante, fece tanto Taddeo con altri mezzi appresso l'Emulio, che finalmente gli fu dato a fare una delle storie minori sopra una porta, non potendo, né per preghi o altri mezzi, ottenere che gli fusse conceduto una delle maggiori.
E nel vero dicono che l'Emulio andava in ciò rattenuto perciò che, sperando che Giuseppo Salviati avesse a passare tutti, era d'animo di dargli il restante e forse gittare in terra quelle che fussero state fatte d'altri.
Poi dunque che tutti i sopra detti ebbono condotte le lor opere a buon termine, le volle tutte il Papa vedere; e così fatto scoprire ogni cosa, conobbe (e di questo parere furono tutti i cardinali et i migliori artefici) che Taddeo s'era portato meglio degl'altri, come che tutti si fossero portati ragionevolmente; per il che ordinò Sua Santità al signor Agabrio, che gli facesse dare dal cardinal Emulio a far un'altra storia delle maggiori.
Onde gli fu allogata la testa, dove è la porta della capella Paulina, nella quale diede principio all'opera, ma non seguitò più oltre, sopravenendo la morte del Papa e scoprendosi ogni cosa per fare il conclave, ancor che molte di quelle storie non avessero avuto il suo fine.
Della quale storia, che in detto luogo cominciò Taddeo, ne abbiamo il disegno di sua mano, e da lui statoci mandato, nel detto nostro libro de' disegni.
Fece nel medesimo tempo Taddeo, oltre ad alcune altre cosette, un bellissimo Cristo in un quadro, che doveva essere mandato a Caprarola al cardinal Farnese, il quale è oggi appresso Federigo suo fratello, che dice volerlo per sé mentre che vive.
La qual pittura ha il lume d'alcuni Angeli, che piangendo tengono alcune torce.
Ma perché dell'opere che Taddeo fece a Caprarola si parlerà a lungo poco appresso nel discorso del Vignuola, che fece quella fabrica, per ora non ne dirò altro.
Federigo intanto, essendo chiamato a Vinezia, convenne col patriarca Grimani di finirgli la capella di San Francesco della Vigna rimasa imperfetta, come s'è detto, per la morte di Battista Franco viniziano.
Ma inanzi che cominciasse detta capella adornò al detto patriarca le scale del suo palazzo di Venezia di figurette poste con molta grazia dentro a certi ornamenti di stucco, e dopo condusse a fresco nella detta capella le due storie di Lazzero e la conversione di Madalena.
Di che n'è il disegno di mano di Federigo nel detto nostro libro.
Appresso nella tavola della medesima capella fece Federigo la storia de' Magi a olio; dopo fece fra Ghioggia e Monselice, alla villa di Messer Gioambatista Pellegrini, dove hanno lavorato molte cose Andrea Schiavone e Lamberto e Gualtieri fiaminghi, alcune pitture in una loggia, che sono molto lodate.
Per la partita dunque di Federigo, seguitò Taddeo di lavorare a fresco tutta quella state nella capella di San Marcello, per la quale fece finalmente nella tavola a olio la conversione di San Paolo; nella quale si vede fatto con bella maniera quel Santo cascato da cavallo, e tutto sbalordito dallo splendore e dalla voce di Gesù Cristo, il quale figurò in una gloria d'Angeli, in atto a punto che pare che dica: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?"; sono similmente spaventati e stanno come insensati e stupidi tutti i suoi, che gli stanno d'intorno.
Nella volta dipinse a fresco dentro a certi ornamenti di stucco tre storie del medesimo Santo: in una quando, essendo menato prigione a Roma, sbarca nell'isola di Malta, dove si vede che nel far fuoco se gl'aventa una vipera alla mano per morderlo, mentre in diverse maniere stanno alcuni marinari quasi nudi d'intorno alla barca; in un'altra è quando cascando dalla finestra uno giovane, è presentato a San Paolo, che in virtù di Dio lo risuscita; e nella terza è la decollazione e morte di esso Santo.
Nelle facce da basso sono, similmente a fresco, due storie grandi: in una San Paolo che guarisce uno stropiato delle gambe, e nell'altra una disputa dove fa rimanere cieco un mago, che l'una e l'altra sono veramente bellissime.
Ma quest'opera essendo per la sua morte rimasa imperfetta, l'ha finita Federigo questo anno e si è scoperta con molta sua lode.
Fece nel medesimo tempo Taddeo alcuni quadri a olio, che dall'ambasciatore di quel re furono mandati in Francia.
Essendo rimaso imperfetto per la morte del Salviati il salotto del palazzo de' Farnesi, cioè mancando due storie nell'entrata, dirimpetto al finestrone, le diede a fare il cardinale Sant'Agnolo Farnese a Taddeo, che le condusse molto bene a fine, ma non però passò Francesco, né anco l'arrivò, nell'opere fatte da lui nella medesima stanza, come alcuni maligni et invidiosi erano andati dicendo per Roma, per diminuire con false calumnie la gloria del Salviati.
E se bene Taddeo si difendeva con dire che aveva fatto fare il tutto a' suoi garzoni e che non era in quell'opera di sua mano se non il disegno e poche altre cose, non furono cotali scuse accettate, perciò che non si deve nelle concorrenzie, da chi vuole alcuno superare, mettere in mano il valore della sua virtù e fidarlo a persone deboli, però che si va a perdita manifesta.
Conobbe adunque il cardinale Sant'Agnolo, uomo veramente di sommo giudizio in tutte le cose e di somma bontà, quanto aveva perduto nella morte del Salviati; imperò che, se bene era superbo, altiero e di mala natura, era nelle cose della pittura veramente eccellentissimo.
Ma tuttavia essendo mancati in Roma i più eccellenti si risolvé quel signore, non ci essendo altri, di dare a dipignere la sala maggiore di quel palazzo a Taddeo, il quale la prese volentieri, con speranza di avere a mostrare con ogni sforzo quanta fusse la virtù e saper suo.
Aveva già Lorenzo Pucci fiorentino cardinal Santiquattro fatta fare nella Trinità una capella e dipignere da Perino del Vaga tutta la volta, e fuori certi Profeti, con due putti che tenevano l'arme di quel cardinale.
Ma essendo rimasa imperfetta e mancando a dipignersi tre facciate, morto il cardinale, que' padri senza aver rispetto al giusto e ragionevole, venderono all'arcivescovo di Corfù la detta capella, che fu poi data dal detto Arcivescovo a dipignere a Taddeo.
Ma quando pure per qualche cagione e rispetto della chiesa fusse stato ben fatto trovar modi di finire la capella, dovevano, almeno in quella parte che era fatta, non consentire che si levasse l'arme del Cardinale per farvi quella del detto Arcivescovo, la quale potevano mettere in altro luogo e non far ingiuria così manifesta alla buona mente di quel Cardinale.
Per aversi dunque Taddeo tant'opere alle mani, ogni dì sollecitava Federigo a tornarsene da Venezia, il quale Federigo, dopo aver finita la capella del patriarca, era in pratica di tòrre a dipignere la facciata principale della sala grande del consiglio, dove già dipinse Antonio Viniziano.
Ma le gare e le contrarietà che ebbe dai pittori veniziani furno cagione che non l'ebbero né essi con tanti lor favori, né egli parimente.
In quel mentre Taddeo, avendo disiderio di vedere Fiorenza e le molte opere che intendeva avere fatto e fare tuttavia il duca Cosimo et il principio della sala grande che faceva Giorgio Vasari amico suo, mostrando una volta d'andare a Caprarola in servizio dell'opera che vi faceva, se ne venne, per un San Giovanni, a Fiorenza, in compagnia di Tiberio Calcagni, giovane scultore et architetto fiorentino, dove oltre la città gli piacquero infinitamente l'opere di tanti scultori e pittori eccellenti, così antichi come moderni; e se non avesse avuto tanti carichi e tante opere alle mani, vi si sarebbe volentieri trattenuto qualche mese.
Avendo dunque veduto l'apparecchio del Vasari per la detta sala, cioè quarantaquattro quadri grandi, di braccia quattro, sei, sette e dieci l'uno, nei quali lavorava figure per la maggior parte di sei et otto braccia, e con l'aiuto solo di Giovanni Strada fiamingo et Iacopo Zucchi, suoi creati, e Battista Naldini, e tutto essere stato condotto in meno d'un anno, n'ebbe grandissimo piacere e prese grand'animo; onde, ritornato a Roma, messe mano alla detta capella della Trinità, con animo d'avere a vincere se stesso nelle storie che vi andavano di Nostra Donna, come si dirà poco appresso.
Ora Federigo, se bene era sollecitato a tornarsene da Vinezia, non poté non compiacere e non starsi quel carnovale in quella città in compagnia d'Andrea Palladio architetto, il quale avendo fatto alli signori della Compagnia della Calza un mezzo teatro di legname, a uso di colosseo, nel quale si aveva da recitare una tragedia, fece fare nell'apparato a Federigo dodici storie grandi, di sette piedi e mezzo l'una per ogni verso, con altre infinite cose de' fatti d'Ircano, re di Ierusalem, secondo il soggetto della tragedia; nella quale opera acquistò Federigo onore assai per la bontà di quella e prestezza con la quale la condusse.
Dopo, andando il Palladio a fondare nel Friuli il palazzo di Civitale, di cui aveva già fatto il modello, Federigo andò con esso lui per vedere quel paese, nel quale disegnò molte cose che gli piacquero.
Poi, avendo veduto molte cose in Verona et in molte altre città di Lombardia, se ne venne finalmente a Firenze, quando a punto si facevano ricchissimi apparati e maravigliosi per la venuta della reina Giovanna d'Austria.
Dove arrivato, fece, come volle il signore Duca, in una grandissima tela, che copriva la scena in testa della sala, una bellissima e capricciosa caccia di colori et alcune storie di chiaro scuro per un arco, che piacquero infinitamente.
Da Firenze andato a Sant'Agnolo a rivedere gli amici e' parenti, arrivò finalmente in Roma alli sedici del vegnente genaio, ma fu di poco soccorso in quel tempo a Taddeo: perciò che la morte di papa Pio Quarto, e poi quella del cardinal Sant'Agnolo, interroppero l'opera della sala de' re e quella del palazzo de' Farnesi, onde Taddeo, che aveva finito un altro appartamento di stanze a Caprarola e quasi condotto a fine la capella di San Marcello, attendeva all'opera della Trinità con molta sua quiete e conduceva il transito di Nostra Donna e gli Apostoli, che sono intorno al cataletto.
Et avendo anco in quel mentre preso per Federigo una capella da farsi in fresco nella chiesa de' preti riformati del Gesù, alla guglia di San Mauro, esso Federigo vi mise subitamente mano.
Mostrava Taddeo (fingendosi sdegnato per avere Federigo troppo penato a tornare) non curarsi molto della tornata di lui, ma nel vero l'aveva carissima, come si vide poi per gl'effetti, conciò fusse che gl'era di molta molestia l'avere a provedere la casa (il quale fastidio gli soleva levare Federigo), et il disturbo di quel loro fratello che stava all'orefice; pure, giunto Federigo, ripararono a molti inconvenienti per potere con animo riposato attendere a lavorare.
Cercavano in quel mentre gl'amici di Taddeo dargli donna, ma egli, come colui che era avezzo a vivere libero e dubitava di quello che le più volte suole avenire, cioè di non tirarsi in casa, insieme con la moglie, mille noiose cure e fastidii, non si volle mai risolvere; anzi, attendendo alla sua opera della Trinità, andava facendo il cartone della facciata maggiore, nella quale andava il salire di Nostra Donna in cielo, mentre Federigo fece in un quadro San Piero in prigione, per lo signor Duca d'Urbino, et un altro dove è una Nostra Donna in cielo, con alcuni Angeli intorno, che doveva essere mandato a Milano; un altro, che fu mandato a Perugia, un'Occasione.
Avendo il cardinale di Ferrara tenuto molti pittori e maestri di stucco a lavorare a una sua bellissima villa, che ha a Tigoli, vi mandò ultimatamente Federigo a dipignere due stanze, una delle quali è dedicata alla Nobiltà e l'altra alla Gloria, nelle quali si portò Federigo molto bene e vi fece di belle e capricciose invenzioni, e ciò finito se ne tornò a Roma alla sua opera della detta capella conducendola, come ha fatto, a fine; nella quale ha fatto un coro di molti Angeli e variati splendori, con Dio Padre che manda lo Spirito Santo sopra la Madonna, mentre è dall'angelo Gabriello annunziata, e messa in mezzo da sei Profeti maggiori del vivo e molto belli.
Taddeo seguitando intanto di fare nella Trinità in fresco l'assunta della Madonna, pareva che fosse spinto dalla natura a far in quell'opera, come ultima, l'estremo di sua possa; e di vero fu l'ultima; perciò che infermato d'un male che a principio parve assai leggeri e cagionato dai gran caldi che quell'anno furono, e poi riuscì gravissimo, si morì del mese di settembre l'anno 1566, avendo prima come buon cristiano ricevuto i Sacramenti della Chiesa e veduto la più parte dei suoi amici, lasciando in suo luogo Federigo suo fratello, ch'anch'egli allora era amalato.
E così in poco tempo, essendo stati levati del mondo il Buonarroto, il Salviati, Daniello e Taddeo, hanno fatto grandissima perdita le nostre arti e particolarmente la pittura.
Fu Taddeo molto fiero nelle sue cose et ebbe una maniera assai dolce e pastosa, e tutto lontana da certe crudezze; fu abondante ne' suoi componimenti e fece molto belle le teste, le mani e gl'ignudi, allontanandosi in essi da molte crudezze, nelle quali fuor di modo si affaticano alcuni per parere d'intendere l'arte e la notomia, ai quali aviene molte volte, come avenne a colui che, per volere essere nel favellare troppo ateniese, fu da una donniciola per non ateniese conosciuto.
Colorì parimente Taddeo con molta vaghezza et ebbe maniera facile, perché fu molto aiutato dalla natura, ma alcuna volta se ne volle troppo servire.
Fu tanto volentoroso d'avere da sé, che durò un pezzo a pigliare ogni lavoro per guadagnare, et insomma fece molte, anzi infinite cose degne di molta lode.
Tenne lavoranti assai per condurre l'opere, perciò che non si può fare altrimenti; fu sanguigno, subito e molto sdegnoso, et oltre ciò dato alle cose veneree, ma nondimeno, ancor che a ciò fusse inclinatissimo di natura, fu temperato e seppe fare le sue cose con una certa onesta vergogna e molto segretamente; fu amorevole degli amici e dove potette giovare loro se n'ingegnò sempre.
Restò coperta alla morte sua l'opera della Trinità et imperfetta la sala grande del palazzo di Farnese, e così l'opere di Caprarola, ma tutte nondimeno rimasero in mano di Federigo suo fratello, il quale si contentano i padroni dell'opera che dia a quelle fine come farà, e nel vero non sarà Federigo meno erede della virtù di Taddeo che delle facultà.
Fu da Federigo data sepoltura a Taddeo nella Ritonda di Roma, vicino al tabernacolo dove è sepolto Raffaello da Urbino del medesimo stato, e certo sta bene l'uno a canto all'altro, perciò che sì come Raffaello d'anni trentasette e nel medesimo dì che era nato morì, cioè il venerdì santo, così Taddeo nacque a dì primo di settembre 1529 e morì alli due dello stesso mese, l'anno 1566.
È d'animo Federigo, se gli fia conceduto, restaurare l'altro tabernacolo pure nella Ritonda e fare qualche memoria in quel luogo al suo amorevole fratello, al quale si conosce obligatissimo.
Ora perché di sopra si è fatto menzione di Iacopo Barozzi da Vignuola e detto che secondo l'ordine et architettura di lui ha fatto l'illustrissimo cardinal Farnese il suo ricchissimo e reale villaggio di Caprarola, dico che Iacopo Barozzi da Vignuola, pittore et architetto bolognese, che oggi ha 58 anni, nella sua puerizia e gioventù fu messo all'arte della pittura in Bologna, ma non fece molto frutto, perché non ebbe buono indirizzo da principio, et anco, per dire il vero, egli aveva da natura molto più inclinazione alle cose d'architettura che alla pittura, come infine allora si vedeva apertamente ne' suoi disegni et in quelle poche opere che fece di pittura, imperò che sempre si vedeva in quella cose d'architettura e prospettiva, e fu in lui così forte e potente questa inclinazione di natura, che si può dire ch'egli imparasse quasi da se stesso i primi principii e le cose più difficili ottimamente in breve tempo, et onde si videro di sua mano, quasi prima che fosse conosciuto, belle e capricciose fantasie di varii disegni, fatti per la più parte a requisizione di Messer Francesco Guicciardini allora governatore di Bologna, e d'alcuni altri amici suoi, i quali disegni furno poi messi in opera di legni commessi e tinti a uso di tarsie da fra' Damiano da Bergamo, dell'Ordine di San Domenico in Bologna.
Andato poi esso Vignola a Roma per attendere alla pittura e cavare di quella onde potesse aiutare la sua povera famiglia, si trattenne da principio in Belvedere con Iacopo Melighini ferrarese, architettore di papa Paolo Terzo, disegnando per lui alcune cose di architettura; ma dopo, essendo allora in Roma un'accademia di nobilissimi gentiluomini e signori, che attendevano alla lezione di Vitruvio, fra' quali era Messer Marcello Cervini, che fu poi papa, monsignor Maffei, Messer Alessandro Manzuoli et altri, si diede il Vignuola per servizio loro a misurare interamente tutte l'anticaglie di Roma et a fare alcune cose secondo i loro capricci, la qual cosa gli fu di grandissimo giovamento nell'imparare e nell'utile parimente.
Intanto, essendo venuto a Roma Francesco Primaticcio, pittore bolognese, del quale si parlerà in altro luogo, si servì molto del Vignuola in formare una gran parte dell'antichità di Roma, per portare le forme in Francia e gettarne poi statue di bronzo simili all'antiche; della qual cosa speditosi il Primaticcio, nell'andare in Francia condusse seco il Vignuola per servirsene nelle cose di architettura e perché gl'aiutasse a gettare di bronzo le dette statue che avevano formate, sì come nell'una e nell'altra cosa fece con molta diligenza e giudizio.
E passati duoi anni, se ne tornò a Bologna, secondo che aveva promesso al conte Filippo Pepoli, per attendere alla fabrica di San Petronio.
Nel qual luogo consumò parecchi anni in ragionamenti e dispute con alcuni, che seco in quei maneggi competevano, senza avere fatto altro che condurre e fatto fare con i suoi disegni il navilio che condusce le barche drento a Bologna, là dove prima non si accostavano a tre miglia, della qual opera non fu mai fatta né la più utile né la migliore, ancor che male ne fosse rimunerato il Vignuola, inventore di così utile e lodevole impresa.
Essendo poi l'anno 1550 creato papa Giulio Terzo, per mezzo del Vasari fu accommodato il Vignuola per architetto di Sua Santità e datogli particolar cura di condurre l'Acqua Vergine, e d'essere sopra le cose della vigna di esso papa Giulio, che prese volentieri a suo servigio il Vignuola per avere avuto cognizione di lui quando fu legato di Bologna.
Nella quale fabrica et altre cose che fece per quel Pontefice, durò molta fatica, ma ne fu male remunerato.
Finalmente avendo Alessandro cardinale Farnese conosciuto l'ingegno del Vignuola e sempre molto favoritolo nel fare la sua fabrica e palazzo di Caprarola, volle che tutto nascesse dal capriccio, disegno et invenzione del Vignuola, e nel vero non fu punto manco il giudizio di quel signore in fare elezione d'un eccellente architettore, che la grandezza dell'animo in mettere mano a così grande e nobile edifizio, il quale, ancor che sia in luogo che si possa poco godere dall'universale essendo fuor di mano, è nondimeno cosa maravigliosa per sito e molto il proposito per chi vuole ritirarsi alcuna volta dai fastidii e tumulti della città.
Ha dunque questo edificio forma di pentagono ed è spartito in quattro appartamenti senza la parte dinanzi, dove è la porta principale, dentro alla quale parte dinanzi è una loggia di palmi quaranta in larghezza et ottanta in lunghezza; in su uno de' lati è girata, in forma tonda, una scala a chiocciola di palmi dieci nel vano degli scaglioni, e venti è il vano del mezzo che dà lume a detta scala, la quale gira dal fondo per insino all'altezza del terzo appartamento più alto, e la detta scala si regge tutta sopra colonne doppie, con cornici che girano in tondo secondo la scala, che è ricca e varia, cominciando dall'ordine dorico e seguitando il ionico, corinto e composto, con richezza di balaustri, nicchie et altre fantasie, che la fanno essere cosa rara e bellissima.
Dirimpetto a questa scala, cioè in sull'altro de' canti che mettono in mezzo la detta loggia dell'entrata, è un appartamento di stanze che comincia da un ricetto tondo, simile alla larghezza della scala, e camina in una gran sala terrena, lunga palmi ottanta e larga quaranta, la quale sala è lavorata di stucchi e dipinta di storie di Giove, cioè la nascita, quando è [nutrito] dalla capra [Amaltea] e che ella è incoronata, con due altre storie che la mettono in mezzo; nelle quali è quando ell'è collocata in cielo fra le quarantaotto imagini; e con un'altra simile storia della medesima capra, che allude, come fanno anco l'altre, al nome di Caprarola.
Nelle facciate di questa sala sono prospettive di casamenti tirati dal Vignuola e colorite da un suo genero, che sono molto belle e fanno parere la stanza maggiore.
A canto a questa sala è un salotto di palmi quaranta, che a punto viene a essere in sull'angolo che segue, nel quale, oltre ai lavori di stucco, sono dipinte cose che tutte dimostrano la Primavera.
Da questo salotto seguitando verso l'altro angolo, cioè verso la punta del pentagono, dove è cominciata una torre, si va in tre camere, larghe ciascuna quaranta palmi e trenta lunghe; nella prima delle quali è di stucchi e pitture, con varie invenzioni, dipinta la State, alla quale stagione è questa prima camera dedicata; nell'altra che segue, è dipinta e lavorata nel medesimo modo la stagione dell'Autunno, e nell'ultima, fatta in simil modo, la quale si difende dalla tramontana, è fatto di simile lavoro l'Invernata.
E così infin qui avemo ragionato (quanto al piano che è sopra le prime stanze sotterranee, intagliate nel tufo, dove sono tinelli, cucine, dispense, cantine) della metà di questo edifizio pentagono, cioè dalla parte destra, dirimpetto alla quale, nella sinistra, sono altre tante stanze a punto e della medesima grandezza.
Dentro ai cinque angoli del pentagono ha girato il Vignuola un cortile tondo, nel quale rispondono con le loro porte tutti gl'appartamenti dell'edifizio, le quali porte, dico, riescono tutte in sulla loggia tonda, che circonda il cortile intorno, e la quale è larga diciotto palmi, et il diametro del cortile resta palmi novantacinque e cinque once.
I pilastri della quale loggia, tramezzata da nicchie che sostengono gl'archi e le volte, essendo accoppiati con la nicchia in mezzo, sono venti, di larghezza palmi quindici ogni due, che altretanto sono i vani degl'archi.
Et intorno alla loggia negl'angoli, che fanno il sesto del tondo, sono quattro scale a chiocciola, che vanno dal fondo del palazzo per fino in cima per commodo del palazzo e delle stanze, con pozzi che smaltiscono l'acque piovane e fanno nel mezzo una citerna grandissima e bellissima, per non dire nulla de' lumi e d'altre infinite commodità, che fanno questa parere, come è veramente, una rara e bellissima fabrica; la quale, oltre all'avere forma e sito di fortezza, è accompagnata di fuori da una scala ovata, da fossi intorno e da ponti levatoi fatti con bell'invenzione e nuova maniera, che vanno ne' giardini pieni di ricche e varie fontane, di graziosi spartimenti di verzure et insomma di tutto quello che a un villaggio veramente reale è richiesto.
Ora, sagliendo per la chioccia grande dal piano del cortile in sull'altro appartamento di sopra, si trovavano finite sopra la detta parte di cui si è raggionato, altre tante stanze, e di più la capella, la quale è dirimpetto alla detta scala tonda principale in su questo piano.
Nella sala, che è a punto sopra quella di Giove e di pari grandezza, sono dipinte di mano di Taddeo e d'i suoi giovani, con ornamenti ricchissimi e bellissimi di stucco, i fatti degl'uomini illustri di casa Farnese.
Nella volta è uno spartimento di sei storie, cioè di quattro quadri e due tondi, che girano intorno alla cornice di detta sala, e nel mezzo tre ovati accompagnati per lunghezza da due quadri minori, in uno de' quali è dipinta la Fama e nell'altro Bellona.
Nel primo de' tre ovati è la Pace, in quel del mezzo l'arme vecchia di casa Farnese col cimiero, sopra cui è un liocorno, e nell'altro la Religione.
Nella prima delle sei dette storie, che è un tondo, è Guido Farnese con molti personaggi ben fatti intorno, e con questa inscrizzione sotto: GUIDO FARNESIUS URBIS VETERIS PRINCIPATUM, CIVIBUS IPSIS DEFERENTIBUS ADEPTUS, LABORANTI INTESTINIS DISCORDIIS CIVITATI, SEDITIOSA FACTIONE EIECTA, PACEM ET TRANQUILLITATEM RESTITUIT, ANNO 1323.
In un quadro lungo è Pietro Nicolò Farnese, che libera Bologna, con questa iscrizzione sotto: PETRUS NICOLAUS, SEDIS ROMANAE POTENTISSIMIS HOSTIBUS MEMORABILI PRAELIO SUPERATIS, IMMINENTI OBSIDIONIS PERICULO BONONIAM LIBERAT, ANNO SALUTIS 1361.
Nel quadro, che è canto a questo, è Pietro Farnese, fatto capitano de' fiorentini, con questa iscrizzione: PETRUS FARNESIUS REIPUBLICAE IMPERATOR, MAGNIS PISANORUM COPIIS ...
URBEM FLORENTIAM TRIUMPHANS INGREDITUR, ANNO 1362.
Nell'altro tondo, che è dirimpetto al sopra detto, è un altro Pietro Farnese, che rompe i nemici della Chiesa romana a Orbatello, con la sua inscrizzione.
In uno de' due altri quadri, che sono eguali, è il signor Ranieri Farnese fatto generale de' fiorentini in luogo del sopra detto signor Pietro suo fratello, con questa iscrizzione: RAINERIUS FARNESIUS A FLORENTINIS, DIFICILI REIPUBLICAE TEMPORE, IN PETRI FRATRIS MORTUI LOCUM, COPIARUM OMNIUM DUX DELIGITUR, ANNO 1362.
Nell'altro quadro è Ranuccio Farnese fatto da Eugenio Terzo generale della Chiesa, con questa iscrizzione: RANUTIUS FARNESIUS, PAULI TERTII PAPAE AVUS, EUGENIO TERTIO PONTEFICE MAXIMO ROSAE AUREAE MUNERE INSIGNITUS, PONTIFICII EXERCITUS IMPERATOR CONSTITUITUR, ANNO CHRISTI 1435.
Insomma sono in questa volta un numero infinito di bellissime figure, di stucchi et altri ornamenti messi d'oro.
Nelle facciate sono otto storie, cioè due per facciata: nella prima, entrando a man ritta, è in una papa Giulio Terzo, che conferma Parma e Piacenza al duca Ottavio et al principe suo figliuolo, presenti il cardinale Farnese, Sant'Agnolo suo fratello, Santa Fiore camarlingo, Salviati il vecchio, Chieti, Carpi, Polo e Morone, tutti ritratti di naturale con questa inscrizione: IULIUS III PONTIFEX MAXIMUS, ALEXANDRO FARNESIO AUCTORE, OCTAVIO FARNESIO EIUS FRATRI, PARMAM AMMISSAM RESTITUIT, ANNO SALUTIS 1550.
Nella seconda è il cardinale Farnese, che va in Vormanzia, legato all'imperatore Carlo Quinto, e gl'escono incontra sua maestà et il principe suo figliuolo, con infinita moltitudine di baroni e con essi il re de' romani, con la sua inscrizione.
Nella facciata a man manca entrando, è nella prima storia la guerra d'Alemagna contra i luterani, dove fu legato il duca Ottavio Farnese l'anno 1546, con la sua inscrizione.
Nella seconda è il detto cardinale Farnese e l'Imperatore con i figliuoli, i quali tutti e quattro sono sotto il baldacchino portato da diversi, che vi sono ritratti di naturale, in fra i quali è Taddeo maestro dell'opera, con una comitiva di molti signori intorno.
In una delle facce, o vero testate, sono due storie, et in mezzo un ovato, dentro al quale è il ritratto del re Filippo con questa inscrizzione: PHILIPPO HISPANIARUM REGI MAXIMO, OB EXIMIA IN DOMUM FARNESIAM MERITA.
In una delle storie è il duca Ottavio, che prende per isposa madama Margherita d'Austria con papa Paulo Terzo in mezzo, con questi ritratti: del cardinale Farnese giovane e del cardinale di Carpi, del duca Pierluigi, Messer Durante, Eurialo da Cingoli, Messer Giovanni Riccio da Monte Pulciano, il vescovo di Como, la signora Livia Colonna, Claudia Mancina, Settimia e donna Maria di Mendozza; nell'altra è il duca Orazio, che prende per isposa la sorella del re Enrico di Francia, con questa inscrizzione: HENRICUS II VALESIUS GALLIAE REX HORATIO FARNESIO CASTRI DUCI, DIANAM FILIAM IN MATRIMONIUM COLLOCAT, ANNO SALUTIS 1552.
Nella quale storia, oltre al ritratto di essa Diana col manto reale e del duca Orazio suo marito, sono ritratti: Caterina Medici reina di Francia, Margherita sorella del re, il re di Navarra, il connestabile, il duca di Guisa, il duca di Nemors, l'amiraglio principe di Condé, il cardinale di Loreno giovane, Guisa non ancor cardinale e 'l signor Piero Strozzi, madama di Monponsier, madamisella di Roano.
Nell'altra testata rincontro alla detta, sono similmente due altre storie, con l'ovato in mezzo, nel quale è il ritratto del re Enrico di Francia con questa inscrizione: HENRICO FRANCORUM REGI MAXIMO FAMILIAE FARNESIAE CONSERVATORI.
In una delle storie, cioè in quella che è a man ritta, papa Paulo Terzo veste il duca Orazio, che è inginocchioni, una veste sacerdotale e lo fa prefetto di Roma, con il duca Pierluigi appresso et altri signori intorno, con queste parole: PAULUS III PONTIFEX MAXIMUS HORATIUM FARNESIUM NEPOTEM SUMMAE SPEI ADOLESCENTEM PRAEFECTUM URBIS CREAT, ANNO SALUTIS 1549.
Et in questa sono questi ritratti: il cardinal di Parigi, Viseo, Morone, Badia, Trento, Sfondrato et Ardinghelli.
A canto a questa, nell'altra storia, il medesimo Papa dà il baston generale a Pierluigi et ai figliuoli, che non erano ancor cardinali, con questi ritratti: il Papa, Pierluigi Farnese, camarlingo, duca Ottavio, Orazio, cardinale di Capua, Simonetta, Iacobaccio, San Iacopo, Ferrara, signor Ranuccio Farnese giovanetto, il Giovio, il Molza e Marcello Cervini, che poi fu papa, marchese di Marignano, signor Giovambattista Castaldo, signor Alessandro Vitelli et il signor Giovambattista Savelli.
Venendo ora al salotto, che è a canto a questa sala, che viene a essere sopra alla Primavera, nella volta adorna con un partimento grandissimo e ricco di stucchi et oro, è nello sfondato del mezzo l'incoronazione di papa Paulo Terzo con quattro vani che fanno epitaffio in croce, con queste parole: PAULUS III FARNESIUS PONTIFEX MAXIMUS, DEO ET HOMINIBUS APPROBANTIBUS, SACRA TIARA SOLEMNI RITU CORONATUR, ANNO SALUTIS 1534, III NONARUM NOVEMBRIS.
Seguitano quattro storie sopra la cornice, cioè sopra ogni faccia la sua.
Nella prima il Papa benedisce le galee a Civitavecchia per mandarle a Tunis di Barberia l'anno 1535, nell'altra il medesimo scomunica il re d'Inghilterra l'anno 1537, col suo epitaffio; nella terza è un'armata di galee, che prepararono l'imperadore e' viniziani contra il Turco con autorità et aiuto del Pontefice l'anno 1538; nella quarta quando, essendosi Perugia ribellata dalla Chiesa, vanno i perugini a chiedere perdono l'anno 1540.
Nelle facciate di detto salotto sono quattro storie grandi, cioè una per ciascuna faccia, e tramezzate da finestre e porte.
Nella prima è in una storia grande Carlo Quinto imperatore, che tornato da Tunis vittorioso bacia i piedi a papa Paulo Farnese in Roma l'anno 1535; nell'altra, che è sopra la porta, è a man manca la pace che papa Paulo Terzo, a Bussel, fece fare a Carlo Quinto imperatore e Francesco Primo di Francia l'anno 1538, nella quale storia sono questi ritratti: Borbone vecchio, il re Francesco, il re Enrico, Lorenzo vecchio, Turnone, Lorenzo giovane, Borbone giovane e due figliuoli del re Francesco.
Nella terza il medesimo Papa fa legato il cardinal di Monte al Concilio di Trento, dove sono infiniti ritratti.
Nell'ultima, che è fra le due finestre, il detto fa molti cardinali per la preparazione del Concilio, fra i quali vi sono quattro che dopo lui successivamente furono papi: Iulio Terzo, Marcello Cervino, Paulo Quarto e Pio Quarto.
Il qual salotto, per dirlo brevemente, è ornatissimo di tutto quello che a sì fatto luogo si conviene.
Nella prima camera a canto a questo salotto, dedicata al vestire, che è lavorata anch'essa di stucchi e d'oro riccamente, è nel mezzo un sacrifizio con tre figure nude, fra le quali è un Alessandro Magno armato, che butta sopra il fuoco alcune vesti di pelle, et in molte altre storie, che sono nel medesimo luogo, è quando si trovò il vestire d'erbe e d'altre cose salvatiche, che troppo sarebbe volere il tutto pienamente raccontare.
Di questa si entra nella seconda camera, dedicata al Sonno, la quale quando ebbe Taddeo a dipignere ebbe queste invenzioni dal comendatore Anniballe Caro, di commessione del cardinale.
E perché meglio s'intenda il tutto, porremo qui l'aviso del Caro, con le sue proprie parole, che sono queste:
I soggetti che il cardinale mi ha comandato che io vi dia, per le pitture del palazzo di Caprarola, non basta che vi si dichino a parole, perché oltre all'invenzione vi si ricerca la disposizione, l'attitudini, i colori et altre avertenze assai, secondo le descrizioni che io truovo delle cose che mi ci paiono al proposito; per che distendarò in carta tutto che sopra ciò mi occorre più brevemente e più distintamente ch'io potrò.
E prima, quanto alla camera della volta piatta, che d'altro per ora non mi ha dato carico, mi pare che essendo ella destinata per il letto della propria persona di sua signoria illustrissima, vi si debbano fare cose convenienti al luogo e fuor dell'ordinario, sì quanto all'invenzione, come quanto all'artifizio.
Ma per dir prima il mio concetto in universale, vorrei che vi si facesse una Notte, perché oltre che sarebbe appropriata al dormire, sarebbe cosa non molto divulgata e sarebbe diversa dall'altre stanze e darebbe occasione a voi di far cose belle e rare dell'arte vostra; perché i gran lumi e le grand'ombre che ci vanno soglion dare assai di vaghezza e di rilievo alle figure, e' mi piacerebbe che il tempo di questa Notte fosse in su l'alba, perché le cose che vi si rapresenteranno siano verisimilmente visibili.
E per venire ai particolari et alla disposizion d'essi, è necessario che ci intendiamo prima del sito e del ripartimento della camera.
Diciamo adunque che ella sia, come è, divisa in volta et in parete, o facciate che le vogliamo chiamare; la volta poi in un sfondato di forma ovale nel mezzo et in quattro peducci grandi in su' canti, i quali stringendosi di mano in mano e continuandosi l'uno con l'altro lungo le facciate, abracciano il sopra detto ovato.
Le parte poi sono pur quattro e da un peduccio all'altro fanno quattro lunette; e per dare il nome a tutte queste parti con le divisioni che faremo della camera tutta, potremo nominare d'ogn'intorno le parti sue da ogni banda.
Dividasi dunque in cinque siti: il primo sarà da capo, e questo presupongo che sia verso il giardino; il secondo, che sarà l'oposito a questo, diremo da' piè; il terzo da man destra chiamaremo destro; il quarto dalla sinistra, sinistro; il quinto, poiché sarà fra tutti questi, si dirà mezzo.
E con questi nomi nominando tutte le parti, diremo come dir lunetta da capo, facciata da piedi, sfondato sinistro, corno destro, e se alcun'altra parte ci converrà nominare; et ai peducci, che stanno nei canti fra dua di questi termini, daremo nome dell'uno e dell'altro.
Così determinaremo ancora di sotto nel pavimento il sito del letto, il quale dovrà esser secondo me lungo la facciata da' piè, con la testa volta alla faccia sinistra.
Or nominate le parti tutte, torniamo a dar forma a tutte insieme, di poi a ciascuna da sé.
Primieramente lo sfondato della volta, o veramente l'ovato, secondo che il cardinale ha ben considerato, si fingerà che sia tutto cielo; il resto della volta, che saranno i quattro peducci con quel ricinto che avemo già detto che abbraccia intorno l'ovato, si farà parer che sia la parte non rotta dentro dalla camera e che posi sopra le facciate con qualche bell'ordine di architettura a vostro modo.
Le quattro lunette vorrei che si fingessero sfondate ancor esse, e dove l'ovato di sopra rappresenta cielo, queste rappresentassero cielo, terra e mare di fuor della camera, secondo le figure e l'istorie che vi si faranno.
E perché, per esser la volta molto stiacciata, le lunette riescano tante basse che non sono capaci se non di picciole figure, io farei di ciascuna lunetta tre parti per longitudine, e lassando le streme a filo con l'altezza de' peducci, sfonderei quella di mezzo sotto esso filo, per modo che ella fusse come un finestrone alto e mostrasse il di fuora della stanza con istorie e figure grandi a proporzione dell'altre; e le due estremità che restano di qua e di là come corni di essa lunetta (che corni di qui inanzi si dimandaranno), rimanessero basse, secondo che vengono dal filo in su, per fare in ciaschedun di essi una figura a sedere o a giacere, o dentro o di fuora della stanza, che le vogliate far parere, secondo che meglio ritornerà; e questo che dico d'una lunetta, dico di tutt'e quattro.
Ripigliando poi tutta la parte di dentro della camera insieme, mi parrebbe che ella dovesse esser per se stessa tutta in oscuro, se non quanto li sfondati, così dell'ovato di sopra come de' finestroni dalli lati, gli dessero non so che di chiaro, parte dal cielo con i lumi celesti, parte dalla terra con fuochi che vi si faranno, come si dirà poi.
E con tutto ciò dalla mezza stanza in giù vorrei che quanto più si andasse verso il da piè, dove sarà la Notte, tanto vi fusse più scuro, e così dall'altra metà in su, secondo che da mano in mano più si avvicinasse al capo dove sarà l'Aurora, si andasse tutta via più illuminando.
Così disposto il tutto, veniamo a divisar i soggetti dando a ciascheduna parte il suo.
Nell'ovato, che è nella volta, si facci a capo di essa, come avemo detto, l'Aurora.
Questa truovo che si puol fare in più modi, ma io scerrò di tutti quello che a me pare che si possi far più graziosamente in pittura.
Facciasi dunque una fanciulla di quella bellezza che i poeti si ingegnano di esprimere con parole, componendola di rose, d'oro, di porpora, di rugiada, di simil vaghezze, e questo quanto ai colori e carnagione.
Quanto all'abito, componendone pur di molti uno che paia più al proposito, si ha da considerare che ella, come ha tre stati e tre colori distinti, così ha tre nomi: Alba, Vermiglia e Rancia; per questo gli farei una vesta fino alla cintura, candida, sottile e come trasparente; dalla cintura infino alle ginocchia una sopraveste di scarlatto, con certi trinci e gruppi, che imitassero quei suoi riverberi nelle nuvole quando è vermiglia; dalle ginocchia in giù fino a' piedi di color d'oro per rappresentarla quando è rancia, avvertendo che questa veste deve esser fessa, cominciando dalle cosce per fargli mostrare le gambe ignude; e così la veste, come la sopraveste, siano scosse dal vento e faccino pieghe e svolazzi.
Le braccia vogliono essere ignude ancor esse d'incarnagione pur di rose; negl'omeri gli si facciano l'ali di varii colori, in testa una corona di rose, nelle mani gli si ponga una lampada, o una facella accesa, o vero gli si mandi avanti un amore che porti una face et un altro dopo, che con un'altra svegli Titone; sia posta a sedere in una sedia indorata, sopra un carro simile, tirato o da un Pegaso alato o da dua cavalli, che nell'un modo e nell'altro si dipigne.
I colori de' cavalli siano dell'uno splendente in bianco, dell'altro splendente in rosso per denotargli secondo i nomi che Omero dà loro di Lampo e di Fetonte; facciasi sorgere da una marina tranquilla, che mostri di esser crespa, luminosa e brillante.
Dietro nella facciata gli si facci dal corno destro Titone suo marito, e dal sinistro Cefalo suo innamorato; Titone sia un vecchio tutto canuto sopra un letto ranciato, o veramente in una culla, secondo quelli che per la gran vecchiaia lo fanno rimbambito, e facciasi in attitudine di tenerla o di vagheggiarla o di sospirarla, come la sua partita gli rincresce; Cefalo un giovane bellissimo vestito di un farsetto soccinto nel mezzo, con i sua usattini in piedi, con il dardo in mano, che abbi il ferro inorato, con un cane a lato in modo di entrare in un bosco, come non curante di lei per l'amore che porta alla sua Procri.
Tra Cefalo e Titone, nel vano del finestrone dietro l'Aurora, si faccino spontare alcuni pochi razzi di sole di splendore più vivo di quel dell'Aurora, ma che sia poi impedito, che non si vegga, da una gran donna, che li si pari dinanzi.
Questa donna sarà la Vigilanza e vuol esser così fatta, che paia illuminata dietro alle spalle dal sole che nasce e che ella per prevenirlo si cacci dentro alla camera per il finestrone che si è detto; la sua forma sia d'una donna alta, splendida, valorosa, con gl'occhi bene aperti, con le ciglia ben inarcate, vestita di velo trasparente fino ai piedi, succinta nel mezzo della persona, con una mano si appoggi a un'asta e con l'altra raccolga una falda di gonna, stia ferma sul piè destro, e tenendo il piè sinistro sospeso, mostri da un canto di posar saldamente e dall'altro di avere pronti i passi; alzi il capo a mirare l'Aurora e paia sdegnata che ella si sia levata prima di lei; porti in testa una celata con un gallo suvi, il qual dimostri di battere l'ali e di cantare; e tutto questo dietro l'Aurora; ma davanti a lei nel cielo dello sfondato farei alcune figurette di fanciulle l'una dietro l'altra, quali più chiare e quali meno, secondo che elle meno o più fussero appresso al lume di essa Aurora, per significare l'Ore, che vengono inanzi al sole et a lei.
Queste Ore siano fatte con abiti, ghirlande et acconciature da vergini, alate con le man piene di fiori, come se gli spargessero.
Nell'opposita parte, a piè dell'ovato, sia la Notte, e come l'Aurora sorge, questa tramonti; come ella ne mostra la fronte, questa ne volga le spalle; questa esca di un mar tranquillo, questa se imerga in uno che sia nubiloso e fosco; i cavalli di quella vengano con il petto inanzi, di questa mostrino le groppe, e così la persona istessa della Notte sia varia del tutto a quella dell'Aurora.
Abbia la carnagione nera, nero il manto, neri i capelli, nere l'ali e queste siano aperte come se volasse; tenga le mani alte e dall'una un bambino bianco che dorma per significare il Sonno, dall'altra un altro nero, che paia dormire e significhi la Morte, perché de ambidua questi dicesi esser madre; mostri di cadere con il capo inanzi fitto in un'ombra più folta, et il ciel d'intorno sia di azzurro più carico e sparso di molte stelle.
Il suo carro sia di bronzo con le rote distinte in quattro spazii, per toccare le sua quattro vigilie.
Nella facciata poi dirimpetto, cioè da' piè, come l'Aurora ha di qua e di là Titone e Cefalo, questa abbia l'Oceano e Atlante.
L'Oceano si farà dalla destra un omaccione con barba e crini bagnati e rabbuffati, e così de' crini come della barba gli escano a post'a posta alcune teste di delfini; accennisi appoggiato sopra un carro tirato da balene, con i tritoni davanti con le buccine, intorno con le ninfe, e dietro alcune bestie di mare.
Se non con tutte queste cose, almeno con alcune, secondo lo spazio che averete, che mi par poco a tanta materia.
Per Atlante facciasi dalla sinistra un monte, che abbia il petto, le braccia e tutte le parti disopra d'uomo robusto, barbuto e muscoloso, in atto di sostenere il cielo come è la sua figura ordinaria.
Più a basso medesimamente, incontro la Vigilanzia, che avemo posta sotto l'Aurora, si dovrebbe porre il Sonno; ma perché mi par meglio che stia sopra il letto, per alcune ragioni, porremo in suo luogo la Quiete; questa Quiete truovo bene che ell'era adorata e che l'era dedicato il tempio, ma non truovo già come fosse figurata; se già la sua figura non fosse quella della Sicurtà, il che non credo, perché la sicurtà è dell'animo e la quiete è del corpo.
Figuraremo dunque la Quiete da noi in questo modo: una giovane di aspetto piacevole, che come stanca non giaccia, ma segga e dorma con la testa appoggiata sopra al braccio sinistro; abbi un'asta che se gli posi sopra nella spalla e da piè ponti in terra, e sopra essa lasci cadere il braccio spendolone e vi tenga una gamba cavalcioni in atto di posare per ristoro e non per infingardia.
Tenga una corona di papaveri et un scettro apartato da un canto, ma non sì che non possi prontamente ripigliarlo, e dove la Vigilanza ha in capo un gallo che canta, a questa si puol fare una gallina che covi, per mostrare che ancora posando fa la sua azzione.
Dentro all'ovato medesimo, dalla parte destra, farassi una Luna.
La sua figura sarà di una giovane di anni circa diciotto, grande, di aspetto virginale, simile ad Apollo, con le chiome lunghe, folte e crespe alquanto, o con uno di quelli cappelli in capo che si dicano acidari, largo di sotto et acuto e torto in cima come il corno del doge, con due ali verso la fronte, che pendano e cuoprino l'orecchie e fuori della testa con due cornette, come da una luna crescente, o secondo Apuleio con un tondo schiacciato, liscio e risplendente a guisa di specchio in mezzo la fronte, che di qua e di là abbia alcuni serpenti e sopra certe poche spighe, con una corona in capo o di dittamo, secondo i Greci, o di diversi fiori, secondo Marziano, o di elicriso, secondo alcun altri.
La veste, chi vuol che sia lunga fino a' piedi, chi corta fino alle ginocchia, succinta sotto le mamelle et attraversata sotto l'ombilico alla ninfale, con un mantelletto in spalla affibbiato sul destro muscolo, e con usattini in piede vagamente lavorati.
Pausania alludendo credo a Diana, la fa vestita di pelle di cervo; Apuleio, pigliandola forse per Iside, gli dà un abito di velo sottilissimo di varii colori: bianco, giallo, rosso, et un'altra veste tutta nera, ma chiara e lucida, sparsa di molte stelle con una luna in mezzo e con un lembo d'intorno, con ornamenti di fiori e di frutti pendente a guisa di fiocchi.
Pigliate un di questi abiti, qual meglio vi torna.
Le braccia fate che siano ignude, con le lor maniche larghe, con la destra tenga una face ardente, con la sinistra un arco allentato, il quale secondo Claudiano è di corno e secondo Ovidio di oro.
Fatelo come vi pare et attaccategli il turcasso agl'omeri.
Si truova in Pausania con doi serpenti nella sinistra, et in Apuleio con un vaso dorato, col manico di serpe, il quale pare come gonfio di veleno, e col piede ornato di foglie di palme; ma con questo credo che vogli significare Iside; però mi risolvo che gli facciate l'arco come disopra.
Cavalchi un carro tirato da cavalli, un nero, l'altro bianco, o se vi piacesse di variare, da un mulo, secondo Festo Pompeio, o da giovenchi, secondo Claudiano et Ausonio, e facendo giovenchi vogliono avere le corna molte piccole et una macchia bianca sul destro fianco.
L'attitudine della Luna deve essere di mirare sopra dal cielo dell'ovato verso il corno dell'istessa facciata che guarda il giardino, dove sia posto Endimione suo amante e s'inchini dal carro per baciarlo; e non si potendo per la interposizione del ricinto lo vagheggi et illumini del suo splendore.
Per Endimione bisogna fare un bel giovane pastore, adormentato a' piè del monte Lamio.
Nel corno dell'altra parte sia Pane, dio de' pastori, inamorato di lei, la figura del quale è notissima.
Pongaseli una sampogna al collo e con ambe le mani stenda una matassa di lana bianca verso la Luna, con che fingono che si acquistasse l'amore di lei e con questo presente mostri di pregarla che scenda a starsi con lui.
Nel resto del vano del medesimo finestrone si facci un'istoria e sia quella de' sagrificii lemurii, che usavano fare di notte per cacciare i mali spiriti di casa.
Il rito di questi era con le man lavate e co' piedi scalzi andare attorno spargendo fava nera, rivolgendosela prima per bocca e poi gittandosela dietro le spalle, e tra questi erano alcuni, che sonando bacini e tali instrumenti di rame, facevano romore.
Dal lato sinistro dell'ovato si farà Mercurio nel modo ordinario con il suo cappelletto alato, con i talari a' piedi, col caduceo alla sinistra, con borsa nella destra, ignudo tutto, salvo con quello suo mantelletto nella spalla, giovane bellissimo, ma di una bellezza naturale, senza artifizio alcuno; di volto allegro, d'occhi spiritosi, sbarbato o di prima lanuggine, stretto nelle spalle e di pel rosso.
Alcuni gli pongono l'ali sopra l'orecchie e gli fanno uscire da' capelli certe penne d'oro.
L'attitudine fate a vostro modo, pur che mostri di calarsi dal cielo per infonder sonno, e che rivolto verso la parte del letto, paia di voler toccare il padiglione con la verga.
Nella facciata sinistra, nel corno verso la facciata da' piè, si potria fare i Lari dèi, che sono due figliuoli i quali erano genii delle case private, cioè due giovani vestiti di pelli di cani, con certi abiti soccinti e gittati sopra la spalla sinistra per modo che venghino sotto la destra per mostrare che siano disinvolti e pronti alla guardia di casa.
Stiano a sedere l'uno a canto l'altro, tenghino un'asta per ciascuno nella destra et in mezzo di essi sia un cane, e disopra loro sia un piccolo capo di Vulcano, con un cappelletto in testa et a canto con una tanaglia da fabbri.
Nell'altro corno verso la facciata da capo farei un Batto, che per avere rivelato le vacche rubate da lui, sia convertito in sasso.
Facciasi un pastor vecchio a sedere, che col braccio destro e con l'indice mostri il luogo dove le vacche erano ascoste, e col sinistro si appoggi a un pedone o vincastro, bastone de' pastori, e da mezzo in giù sia sasso nero di colore di paragone in che fu convertito.
Nel resto poi del finestrone dipingasi l'istoria del sacrifizio, che faceano gli antichi ad esso Mercurio, perché il sonno non si interrompesse.
E per figurare questo bisogna fare un altare con suvi la sua statua, a piede un fuoco e d'intorno genti che vi gettano legne ad abruciare e che con alcune tazze in mano piene di vino, parte ne spargano e parte ne beano.
Nel mezzo dell'ovato, per empier tutta la parte del cielo, farei il Crepuscolo, come mezzano tra l'Aurora e la Notte.
Per significare questo, truovo che si fa un giovanetto tutto ignudo, talvolta con l'ali talvolta senza, con due facelle accese, l'una delle quali faremo che si accenda a quella dell'Aurora e l'altra che si stenda verso la Notte.
Alcuni fanno che questo giovanetto con le due faci medesime cavalchi sopra un cavallo del Sole o dell'Aurora, ma questo non farebbe componimento a nostro proposito, però lo faremo come di sopra e volto verso la Notte, ponendogli dietro fra le gambe una gran stella, la quale fosse quella di Venere, perché Venere e Fosforo et Espero e Crepuscolo pare che si tenga per una cosa medesima.
E da questa in fuori, di verso l'Aurora, fate che tutte le minori stelle siano sparite, et avendo infin qui ripieno tutto il di dentro della camera, così di sopra nell'ovato, come nelli lati e nelle facciate, resta che venghiamo al didentro, che sono nella volta i quattro peducci, e cominciando da quello che è sopra 'l letto, che viene a essere tra la facciata sinistra e quella da' piè, faccisi il Sonno, e per figurare lui bisogna prima figurare la sua casa.
Ovidio la pone in Lenno e ne' Cimerii, Omero nel mare Egeo, Stazio appresso alli Etiopi, l'Ariosto nell'Arabia; dovunque si sia, basta che si finga un monte, qual se ne può imaginare uno, dove siano sempre tenebre e non mai sole; a' piè di esso una concavità profonda, per dove passi un'acqua come morta, per mostrare che non mormori, e sia di color fosco, perciò che la fanno un ramo di Lete; dentro questa concavità sia un letto, il quale fingendo d'essere d'ebano, sarà di color nero e di neri panni si cuopra.
In questo sia collocato il Sonno, un giovane di tutta bellezza, perché bellissimo e placidissimo lo fanno, ignudo secondo alcuni, e secondo alcuni altri vestito di due vesti, una bianca di sopra, l'altra nera di sotto, con l'ali in sugl'omeri, e secondo Stazio ancora nella cima del capo.
Tenga sotto il braccio un corno, che mostri rovesciare sopra 'l letto un liquore livido per denotare oblivione, ancora che altri lo facciano pieno di frutti; in una mano abbi la verga, nell'altra tre vesciche di papavero; dorma come infermo, col capo e con le membra languide e come abandonato nel dormire; d'intorno al suo letto si vegga Morfeo, Icalo e Fantaso e gran quantità di Sogni, che tutti questi sono suoi figliuoli.
I Sogni siano certe figurette alate di bell'aspetto, altre di brutto, come quelli che parte dilettano e spaventano; abbiano l'ali ancor essi et i piedi storti come instabili et incerti, che se ne volino e si girino intorno a lui, facendo come una rappresentazione con trasformarsi in cose possibili et impossibili.
Morfeo è chiamato da Ovidio artefice e fingitore di figure, e però lo farei in atto di figurare maschere di variati mostacci, ponendone alcune di esse a' piedi; Icalo dicano che si trasforma esso stesso in più forme, e questo figurerei per modo, che nel tutto paresse uomo et avesse parti di fiera, di uccello, di serpente come Ovidio medesimo lo descrive; Fantaso vogliano che si trasmuti in diverse cose insensate, e questo si puole rappresentare ancora, con le parole di Ovidio, parte di sasso, parte d'acqua, parte di legno.
Fingasi che in questo luogo siano due porte, una di avorio onde escano i sogni falsi, et una di corno onde escano i veri, et i veri sieno coloriti più distinti, più lucidi e meglio fatti; i falsi, confusi, foschi et imperfetti.
Nell'altro peduccio, tra la facciata da' piè et a man destra, farete Brinto, dea de' vaticinii et interpretante de' sogni.
Di questa non truovo l'abito, ma la farei ad uso di sibilla, assisa a' piè di quell'olmo descritto da Virgilio sotto le cui frondi pone infinite imagini, mostrando che sì come caggiano dalle sue fronde, così gli volino d'intorno nella forma che avemo loro data, e come si è detto, quale più chiare, quale più fosche, alcune interrotte, alcune confuse e certe svanite quasi del tutto per rappresentare con esse i sogni, le visioni, gli oracoli, le fantasme e le vanità che si veggono dormendo, che fin di queste cinque sorti par che le faccia Macrobio; et ella stia come in astratto per interpretarle, e d'intorno abbi genti, che gli offeriscono panieri pieni di ogni sorte di cose, salvo di pesce.
Nel peduccio poi tra la facciata destra e quella di capo starà convenientemente Arpocrate, dio del silenzio, perché rappresentandosi nella prima vista a quelli che entrano dalla porta che viene dal camerone dipinto, avvertirà gl'intranti che non faccino strepito.
La figura di questo è di un giovane o putto più tosto di colore nero, per essere dio degli Egizii, col dito alla bocca in atto di comandare che si taccia.
Porti in mano un ramo di persico, e se pare, ghirlanda delle sue foglie.
Fingano che nascesse debile di gambe, e che essendo ucciso, la madre Iside lo resuscitasse, e per questo altri lo fanno disteso in terra, altri in grembo di essa madre, con piè congiunti.
E per accompagnamento dell'altre figure, io lo farei pur dritto et appoggiato in qualche modo, o veramente a sedere come quello dell'illustrissimo cardinale Sant'Agnolo, il quale è anco alato e tiene un corno di dovizia.
Abbia gente intorno che gli offeriscono, come era solito, primizie di lenticchie et altri legumi e di persichi sopra detti.
Altri facevano per questo medesimo dio una figura senza faccia, con un cappelletto in testa, con una pelle di lupo intorno, tutto coperto d'occhi e di orecchi.
Fate di questi qual vi pare.
Nell'ultimo peduccio, tra la facciata da capo e la sinistra, sarà ben locata Angerona, dea della segretezza, che per venire di dentro alla porta dell'entrata medesima, amonirà quelli che escono di camera a tener segreto tutto quello che hanno inteso e veduto, come si conviene servendo a' signori.
La sua figura è d'una donna posta sopra un altare, con la bocca legata e sigillata; non so con che abito la facessero, ma io la rivolgerei in un panno lungo che la coprisse tutta, e mostrarei che si ristringesse nelle spalle.
Faccinsi intorno a lei alcuni pontefici dai quali se gli sacrificava nella curia inanzi alla porta, perché non fosse lecito a persona di revelare cosa che vi si trattasse, in pregiudizio della republica.
Ripieni dalla parte di dentro i peducci, resta ora a dir solamente che intorno a tutta quest'opera mi parrebbe che dovesse essere un fregio, che la terminasse da ogn'intorno, et in questo farei o grottesche o istoriette di figure piccole, e la materia vorrei che fusse conforme ai soggetti già dati di sopra e di mano in mano ai più vicini.
E facendo istoriette mi piacerebbe che mostrassero l'azzioni che fanno gl'uomini et anco gl'animali nell'ora che ci aviam proposto.
E cominciando pur da capo, farei nel fregio di quella facciata, come cose appropriate all'Aurora, artefici, operari, gente di più sorti, che già levate tornassero alli esercizi et alle fatiche loro, come fabbri alla fucina, litterati alli studii, cacciatori alla campagna, mulattieri alla lor via, e sopra tutto ci vorrei quella vecchiarella del Petrarca, che [dis]cinta e scalza levatasi da filare accendesse il fuoco; e se vi pare farvi grottesche di animali, fateci degl'uccelli che cantino, dell'oche che escano a pascere, de' galli che annunziano il giorno e simili novelle.
Nel fregio della facciata da' piè, conforme alle tenebre, vi farei gente che andassero a frugnolo, spie, adulteri, scalatori di finestre e cose tali, e per grottesche istrici, ricci, tassi, un pavone con la ruota che significa la notte stellata, gufi, civette, pipistrelli e simili.
Nel fregio della facciata destra, per cose proporzionate alla Luna, pescatori di notte naviganti alla busola, negromanti, streghe e simili: per grottesche un fanale di lontano, reti, nasse con alcuni pesci dentro, e granchi che pascessero al lume di luna, e se [il] luogo n'è capace, un elefante inginocchioni che la adorasse; et ultimamente nel fregio della facciata sinistra, matematici con i loro strumenti da misurare, ladri, falsatori di monete, cavatori di tesori, pastori con le mandre ancor chiuse intorno agli lor fuochi, e simili.
E per animali vi farei lupi, volpe, scimie, cuccie, e se altre vi sono di queste sorte maliziosi et insidiatori degl'altri animali.
In questa parte ho messo queste fantasie così a caso, per accennare di che specie invenzioni vi si potessero fare, ma per non esser cose che abbino bisogno di essere descritte, lasso che voi ve l'imaginiate a vostro modo, sapendo che i pittori sono per lor natura ricchi e graziosi in trovare di queste bizzarrie.
Et avendo già ripiene tutte le parti dell'opera così di dentro come di fuori della camera, non ci occorre dirvi altro, se non che conferiate il tutto con monsignor illustrissimo e secondo il suo gusto, agiungendovi o togliendone quel che bisogna, cerchiate voi dalla parte vostra farvi onore.
State sano.
Ma ancora che tutte queste belle invenzioni del Caro fussero capricciose, ingegnose e lodevoli molto, non poté nondimeno Taddeo mettere in opera se non quelle di che fu il luogo capace, che furono la maggior parte, ma quelle che egli vi fece furono da lui condotte con molta grazia e bellissima maniera.
A canto a questa, nell'ultima delle dette tre camere, che è dedicata alla Solitudine, dipinse Taddeo, con l'aiuto de' suoi uomini, Cristo che predica agl'Apostoli nel deserto e nei boschi, con un S.
Giovanni a man ritta molto ben lavorato.
In un'altra storia, che è dirimpetto a questa, sono dipinte molte figure, che si stanno nelle selve per fuggire la conversazione, le quali alcun'altre cercano di disturbare tirando loro sassi, mentre alcuni si cavano gl'occhi per non vedere.
In questa medesimamente è dipinto Carlo V imperatore, ritratto di naturale, con questa inscrizione: POST INNUMEROS LABORES OCIOSAM QUIETAMQUE VITAM TRADUXIT.
Dirimpetto a Carlo è il ritratto del Gran Turco ultimo, che molto si dilettò della solitudine, con queste parole: ANIMUM A NEGOCIO AD OCIUM REVOCAVIT.
Appresso vi è Aristotile, che ha sotto queste parole: ANIMA FIT, SEDENDO ET QUIESCENDO, PRUDENTIOR.
All'incontro a questo, sotto un'altra figura di mano di Taddeo, è scritto così: QUAE AD MODUM NEGOCII, SIC ET OCII RATIO HABENDA: sotto un'altra si legge: OCIUM CUM DIGNITATE, NEGOCIUM SINE PERICULO, e dirimpetto a questa sotto un'altra figura è questo motto: VIRTUTIS ET LIBERAE VITAE MAGISTRA OPTIMA SOLITUDO: sotto un'altra: PLUS AGUNT QUI NIHIL AGERE VIDENTUR, e sotto l'ultima: QUI AGIT PLURIMA, PLURIMUM PECCAT.
E per dirlo brevemente, è questa stanza ornatissima di belle figure e ricchissima anch'ella di stucchi e d'oro.
Ma tornando al Vignuola, quanto egli sia eccellente nelle cose d'architettura, l'opere sue stesse che ha scritte e publicate, e va tuttavia scrivendo, oltre le fabriche maravigliose ne fanno pienissima fede, e noi nella vita di Michelagnolo ne diremo a quel proposito quanto occorrerà.
Taddeo, oltre alle dette cose, ne fece molte altre delle quali non accade far menzione, ma in particolare una cappella nella chiesa degl'orefici in strada Giulia, una facciata di chiaro scuro da S.
Ieronimo e la cappella dell'altare maggiore in Santa Sabina; e Federigo suo fratello, dove in S.
Lorenzo in Damaso è la cappella di quel Santo tutta lavorata di stucco, fa nella tavola San Lorenzo in sulla graticola et il Paradiso aperto, la quale tavola si aspetta debba riuscire opera bellissima.
E per non lasciare indietro alcuna cosa, la quale essere possa di utile, piacere o giovamento a chi leggerà questa nostra fatica, alle cose dette aggiugnerò ancora questa: mentre Taddeo lavorava, come s'è detto, nella vigna di papa Giulio, e la facciata di Matiolo delle Poste, fece a monsignore Innocenzio, illustrissimo e reverendissimo cardinale di Monte, due quadretti di pittura, non molto grandi; uno de' quali che è assai bello (avendo l'altro donato) è oggi nella salvaroba di detto cardinale in compagnia d'una infinità di cose antiche e moderne, veramente rarissime, in fra le quali non tacerò che è un quadro di pittura capricciosissimo quanto altra cosa di cui si sia fatto infin qui menzione.
In questo quadro, dico, che è alto circa due braccia e mezzo, non si vede, da chi lo guarda in prospettiva et alla sua veduta ordinaria, altro che alcune lettere in campo incarnato, e nel mezzo la luna, che secondo le righe dello scritto va di mano in mano crescendo e diminuendo, e nondimeno, andando sotto il quadro e guardando in una sfera, o vero specchio, che sta sopra il quadro a uso d'un picciol baldacchino, si vede di pittura e naturalissimo in detto specchio, che lo riceve dal quadro, il ritratto del re Enrico Secondo di Francia, alquanto maggiore del naturale, con queste lettere intorno: HENRY II ROY DE FRANCE.
Il medesimo ritratto si vede, calando il quadro abbasso e posta la fronte in sulla cornice di sopra, guardando in giù, ma è ben vero che chi lo mira a questo modo lo vede volto a contrario di quello che è nello specchio, il quale ritratto, dico, non si vede, se non mirandolo come di sopra, perché è dipinto sopra ventotto gradini sottilissimi, che non si veggiono, i quali sono fra riga e riga dell'infrascritte parole, nelle quali, oltre al significato loro ordinario, si legge, guardando i capiversi d'ambidue gl'estremi, alcune lettere alquante maggiori dell'altre, e nel mezzo: HENRICUS VALESIUS, DEI GRATIA, GALLORUM REX INVICTISSIMUS.
Ma è ben vero che Messer Alessandro Taddei romano, segretario di detto cardinale, e don Silvano Razzi, mio amicissimo, i quali mi hanno di questo quadro e di molte altre cose dato notizia, non sanno di chi sia mano, ma solamente che fu donato dal detto re Enrico al cardinale Caraffa quando fu in Francia, e poi dal Caraffa al detto illustrissimo di Monte, che lo tenne come cosa rarissima, che è veramente.
Le parole adunque, che sono dipinte nel quadro e che sole in esso si veggiono da chi lo guarda alla sua veduta ordinaria e come si guardano l'altre pitture, sono queste:
HEUS TU QUID VIDES NIL UT REOR
NISI LUNAM CRESCENTEM ET E
REGIONE POSITAM QUAE, EX
INTERVALLO, GRADATIM UTI
CRESCIT, NOS ADMONET UT IN
UNA SPE FIDE ET CHARITATE TV
SIMUL ET EGO ILLUMINATI
VERBO DEI CRESCAMUS, DONEC
AB EIUSDEM GRATIA FIAT
LUX IN NOBIS AMPLISSIMA QUI
EST AETERNUS ILLE DATOR LUCIS
IN QUO ET A QUO MORTALES OMNES
VERAM LUCEM RECIPERE SI
SPERAMUS INVANUM NON SPERABIMUS
Nella medesima guardaroba è un bellissimo ritratto della signora Sofonisba Angusciuola di mano di lei medesima, e da lei stato donato a papa Giulio Terzo.
E, che è da essere molto stimato, in un libro antichissimo, la Bucolica, Georgica et Eneida di Virgilio di caratteri tanto antichi, che in Roma et in altri luoghi è stato da molti letterati uomini giudicato che fusse scritto ne' medesimi tempi di Cesare Augusto, o poco dopo.
Onde non è maraviglia se dal detto cardinale è tenuto in grandissima venerazione.
E questo sia il fine della vita di Taddeo Zucchero pittore.
VITA DI MICHELAGNOLO BUONARRUOTI FIORENTINO PITTORE, SCULTORE ET ARCHITETTO
Mentre gl'industriosi et egregii spiriti col lume del famosissimo Giotto e de' seguaci suoi si sforzavano dar saggio al mondo del valore che la benignità delle stelle e la proporzionata mistione degli umori aveva dato agli ingegni loro, e desiderosi di imitare con la eccellenza dell'arte la grandezza della natura, per venire il più che potevano a quella somma cognizione che molti chiamano intelligenza, universalmente, ancora che indarno, si affaticavano, il benignissimo Rettore del cielo volse clemente gli occhi alla terra, e veduta la vana infinità di tante fatiche, gli ardentissimi studii senza alcun frutto e la opinione prosuntuosa degli uomini, assai più lontana dal vero che le tenebre dalla luce, per cavarci di tanti errori si dispose mandare in terra uno spirito, che universalmente in ciascheduna arte et in ogni professione fusse abile, operando per sé solo a mostrare che cosa sia la perfezzione dell'arte del disegno nel lineare, dintornare, ombrare e lumeggiare, per dare rilievo alle cose della pittura, e con retto giudizio operare nella scultura, e rendere le abitazioni commode e sicure, sane, allegre, proporzionate e ricche di varii ornamenti nell'architettura.
Volle oltra ciò accompagnarlo della vera filosofia morale, con l'ornamento della dolce poesia, acciò che il mondo lo eleggesse et ammirasse per suo singularissimo specchio nella vita, nell'opere, nella santità dei costumi et in tutte l'azzioni umane, e perché da noi più tosto celeste che terrena cosa si nominasse.
E perché vide che nelle azzioni di tali esercizii et in queste arti singularissime, cioè nella pittura, nella scultura e nell'architettura, gli ingegni toscani sempre sono stati fra gli altri sommamente elevati e grandi, per essere eglino molto osservanti alle fatiche et agli studii di tutte le facultà, sopra qualsivoglia gente di Italia, volse dargli Fiorenza, dignissima fra l'altre città, per patria, per colmare al fine la perfezzione in lei meritamente di tutte le virtù per mezzo d'un suo cittadino.
Nacque dunque un figliuolo sotto fatale e felice stella nel Casentino, di onesta e nobile donna, l'anno 1474 a Lodovico di Lionardo Buonarruoti Simoni, disceso, secondo che si dice, della nobilissima et antichissima famiglia de' conti di Canossa.
Al quale Lodovico, essendo podestà quell'anno del castello di Chiusi e Caprese, vicino al Sasso della Vernia, dove San Francesco ricevé le stimate, diocesi aretina, nacque dico un figliuolo il sesto dì di marzo, la domenica, intorno all'otto ore di notte, al quale pose nome Michelagnolo, perché non pensando più oltre, spirato da un che di sopra volse inferire costui essere cosa celeste e divina, oltre all'uso mortale, come si vidde poi nelle figure della natività sua, avendo Mercurio, e Venere in seconda, nella casa di Giove, con aspetto benigno ricevuto, il che mostrava che si doveva vedere ne' fatti di costui, per arte di mano e d'ingegno, opere maravigliose e stupende.
Finito l'uffizio della podesteria, Lodovico se ne tornò a Fiorenza, e nella villa di Settignano, vicino alla città tre miglia, dove egli aveva un podere de' suoi passati (il qual luogo è copioso di sassi e per tutto pieno di cave di macigni, che son lavorati di continovo da scarpellini e scultori, che nascono in quel luogo la maggior parte), fu dato da Lodovico Michelagnolo a balia in quella villa alla moglie d'uno scarpellino.
Onde Michelagnolo ragionando col Vasari una volta per ischerzo disse: "Giorgio, si' ho nulla di buono nell'ingegno, egli è venuto dal nascere nella sottilità dell'aria del vostro paese d'Arezzo, così come anche tirai dal latte della mia balia gli scarpegli e 'l mazzuolo con che io fo le figure".
Crebbe col tempo in figliuoli assai Lodovico, et essendo male agiato e con poche entrate, andò accomodando all'Arte della Lana e Seta i figliuoli, e Michelagnolo, che era già cresciuto, fu posto con maestro Francesco da Urbino alla scuola di gramatica; e perché l'ingegno suo lo tirava al dilettarsi del disegno, tutto il tempo che poteva mettere di nascoso lo consumava nel disegnare, essendo per ciò e dal padre e da' suoi maggiori gridato e tal volta battuto, stimando forse che lo attendere a quella virtù non conosciuta da loro, fussi cosa bassa e non degna della antica casa loro.
Aveva in questo tempo preso Michelagnolo amicizia con Francesco Granacci, il quale anche egli giovane si era posto appresso a Domenico del Grillandaio per imparare l'arte della pittura, là dove amando il Granacci Michelagnolo e vedutolo molto atto al disegno, lo serviva giornalmente de' disegni del Grillandaio, il quale era allora reputato non solo in Fiorenza, ma per tutta Italia de' migliori maestri che ci fussero.
Per lo che crescendo giornalmente più il desiderio di fare a Michelagnolo, e Lodovico non potento diviare che il giovane al disegno non attendesse, e che non ci era rimedio, si risolvé, per cavarne qualche frutto e perché egli imparasse quella virtù, consigliato da amici, di acconciarlo con Domenico Grillandaio.
Aveva Michelagnolo, quando si acconciò all'arte con Domenico, quattordici anni, e perché chi ha scritto la vita sua dopo l'anno 1550, che io scrissi queste vite la prima volta, dicendo che alcuni, per non averlo praticato, n'han detto cose che mai non furono e lassatone di molte che son degne d'essere notate, e particularmente tocco questo passo tassando Domenico d'invidiosetto, né che porgessi mai aiuto alcuno a Michelagnolo, il che si vidde essere falso, potendosi vedere per una scritta di mano di Lodovico padre di Michelagnolo scritto sopra i libri di Domenico, il qual libro è appresso oggi agli eredi suoi che dice così: "1488.
Ricordo questo dì primo d'aprile, come io Lodovico di Lionardo di Buonarota acconcio Michelagnolo mio figliuolo con Domenico e Davit di Tommaso di Currado per anni tre prossimi a venire con questi patti e modi: che 'l detto Michelagnolo debba stare con i sopra detti detto tempo a imparare a dipignere et a fare detto essercizio, e ciò i sopra detti gli comanderanno, e detti Domenico e Davit gli debbon dare in questi tre anni fiorini ventiquattro di sugello, el primo anno fiorini sei, el secondo anno fiorini otto, il terzo fiorini dieci; in tutta la somma di lire novantasei".
Et appresso vi è sotto questo ricordo o questa partita, scritta pur di mano di Lodovico: "Hanne avuto il sopra detto Michelagnolo questo dì 16 d'aprile fiorini dua d'oro in oro.
Ebbi io Lodovico di Lionardo, suo padre lui, contanti lire 12,12".
Queste partite ho copiate io dal proprio libro per mostrare che tutto quel che si scrisse allora e che si scriverrà al presente è la verità, né so che nessuno l'abbi più praticato di me e che gli sia stato più amico e servitore fedele, come n'è testimonio fino chi nol sa; né credo che ci sia nessuno che possa mostrare maggior numero di lettere scritte da lui proprio, né con più affetto che egli ha fatto a me.
Ho fatto questa disgressione per fede della verità, e questo basti per tutto il resto della sua vita.
Ora torniamo alla storia.
Cresceva la virtù e la persona di Michelagnolo di maniera che Domenico stupiva vedendolo fare alcune cose fuor d'ordine di giovane, perché gli pareva che non solo vincesse gli altri discepoli, dei quali aveva egli numero grande, ma che paragonasse molte volte le cose fatte da lui come maestro.
Avvenga che uno de' giovani che imparava con Domenico, avendo ritratto alcune femine di penna, vestite, dalle cose del Grillandaio, Michelagnolo prese quella carta e con penna più grossa ridintornò una di quelle femmine di nuovi lineamenti nella maniera che arebbe avuto a stare, perché istessi perfettamente, che è cosa mirabile a vedere la diferenza delle due maniere e la bontà e giudizio d'un giovanetto così animoso e fiero che gli bastasse l'animo correggere le cose del suo maestro.
Questa carta è oggi appresso di me tenuta per reliquia, che l'ebbi dal Granaccio per porla nel libro de' disegni con altri di suo avuti da Michelagnolo; e l'anno 1550, che era a Roma, Giorgio la mostrò a Michelagnolo che la riconobbe et ebbe caro rivederla, dicendo per modestia che sapeva di questa arte più quando egl'era fanciullo, che allora che era vecchio.
Ora avvenne che lavorando Domenico la cappella grande di Santa Maria Novella, un giorno che egli era fuori si misse Michelagnolo a ritrarre di naturale il ponte con alcuni deschi, con tutte le masserizie dell'arte, et alcuni di que' giovani che lavoravano.
Per il che tornato Domenico e visto il disegno di Michelagnolo disse: "Costui ne sa più di me"; e rimase sbigottito della nuova maniera e della nuova imitazione, che dal giudizio datogli dal cielo aveva un simil giovane in età così tenera, che invero era tanto quanto più desiderar si potesse nella pratica d'uno artefice che avesse operato molti anni.
E ciò era che tutto il sapere e potere della grazia era nella natura essercitata dallo studio e dall'arte, per che in Michelagnolo faceva ogni dì frutti più divini, come apertamente cominciò a dimostrarsi nel ritratto che e' fece d'una carta di Martino tedesco stampata, che gli dette nome grandissimo.
Imperò che, essendo venuta allora in Firenze una storia del detto Martino, quando i diavoli battano Santo Antonio, stampata in rame, Michelagnolo la ritrasse di penna di maniera, che non era conosciuta, e quella medesima con i colori dipinse; dove per contrafare alcune strane forme di diavoli, andava a comperare pesci che avevano scaglie bizzarre di colori, e quivi dimostrò in questa cosa tanto valore, che e' ne acquistò e credito e nome.
Contrafece ancora carte di mano di varii maestri vecchi tanto simili, che non si conoscevano, perché tignendole et invecchiandole col fumo e con varie cose, in modo le insudiciava, che elle parevano vecchie, e paragonatole con la propria non si conosceva l'una dall'altra; né lo faceva per altro se non per avere le proprie di mano di coloro, col darli le ritratte, che egli per l'eccellenza dell'arte amirava e cercava di passargli nel fare, onde n'acquistò grandissimo nome.
Teneva in quel tempo il magnifico Lorenzo de' Medici nel suo giardino in sulla piazza di S.
Marco Bertoldo scultore, non tanto per custode o guardiano di molte belle anticaglie, che in quello aveva ragunate e raccolte con grande spesa, quanto perché desiderando egli sommamente di creare una scuola di pittori e di scultori eccellenti, voleva che elli avessero per guida e per capo il sopra detto Bertoldo, che era discepolo di Donato.
Et ancora che e' fusse sì vecchio che non potesse più operare, era nientedimanco maestro molto pratico e molto reputato, non solo per avere diligentissimamente rinettato il getto de' pergami di Donato suo maestro, ma per molti getti ancora che egli aveva fatti di bronzo di battaglie e di alcune altre cose piccole, nel magisterio delle quali non si trovava allora in Firenze chi lo avanzasse.
Dolendosi adunque Lorenzo, che amor grandissimo portava alla pittura et alla scultura, che ne' suoi tempi non si trovassero scultori celebrati e nobili, come si trovavano molti pittori di grandissimo pregio e fama, deliberò, come io dissi, di fare una scuola; e per questo chiese a Domenico Ghirlandai, che se in bottega sua avesse de' suoi giovani che inclinati fussero a ciò, l'inviasse al giardino, dove egli desiderava di essercitargli e creargli in una maniera che onorasse sé e lui e la città sua.
Laonde da Domenico gli furono per ottimi giovani dati fra gli altri Michelagnolo e Francesco Granaccio; per il che andando eglino al giardino, vi trovarono che il Torrigiano, giovane de' Torrigiani, lavorava di terra certe figure tonde che da Bertoldo gli erano state date.
Michelagnolo, vedendo questo, per emulazione alcune ne fece; dove Lorenzo vedendo sì bello spirito lo tenne sempre in molta aspettazione, et egli inanimito dopo alcuni giorni si misse a contrafare con un pezzo di marmo una testa che v'era d'un fauno vecchio antico e grinzo, che era guasta nel naso e nella bocca rideva.
Dove a Michelagnolo, che non aveva mai più tocco marmo né scarpegli, successe il contrafarla così bene, che il Magnifico ne stupì, e visto che fuor della antica testa di sua fantasia gli aveva trapanato la bocca e fattogli la lingua e vedere tutti i denti, burlando quel signore con piacevolezza, come era suo solito, gli disse: "Tu doveresti pur sapere che i vecchi non hanno mai tutti i denti e sempre qualcuno ne manca loro".
Parve a Michelagnolo in quella semplicità, temendo et amando quel signore, che gli dicesse il vero; né prima si fu partito, che subito gli roppe un dente e trapanò la gengìa di maniera, che pareva che gli fussi caduto; et aspettando con desiderio il ritorno del Magnifico, che venuto e veduto la semplicità e bontà di Michelagnolo, se ne rise più d'una volta contandola per miracolo a' suoi amici; e fatto proposito di aiutare e favorire Michelagnolo, mandò per Lodovico suo padre e gliene chiese, dicendogli che lo voleva tenere come un de' suoi figliuoli, et egli volentieri lo concesse; dove il Magnifico gli ordinò in casa sua una camera, e lo faceva attendere, dove del continuo mangiò alla tavola sua co' suoi figliuoli et altre persone degne e di nobiltà, che stavano col Magnifico, dal quale fu onorato.
E questo fu l'anno seguente che si era acconcio con Domenico, che aveva Michelagnolo da quindici anni o sedici; e stette in quella casa quattro anni, che fu poi la morte del Magnifico Lorenzo nel 1492.
Imperò in quel tempo ebbe da quel signore Michelagnolo provisione, e per aiutare suo padre, di cinque ducati il mese, e per rallegrarlo gli diede un mantello pagonazzo, et al padre uno officio in dogana; vero è che tutti quei giovani del giardino erano salariati, chi assai e chi poco, dalla liberalità di quel magnifico e nobilissimo cittadino, e da lui mentre che visse furono premiati.
Dove in questo tempo consigliato dal Poliziano, uomo nelle lettere singulare, Michelagnolo fece in un pezzo di marmo datogli da quel signore la battaglia di Ercole coi centauri, che fu tanto bella che talvolta per chi ora la considera non par di mano di giovane, ma di maestro pregiato e consumato negli studii e pratico in quell'arte.
Ella è oggi in casa sua tenuta per memoria di Lionardo suo nipote come cosa rara che ell'è, il quale Lionardo non è molti anni che aveva in casa per memoria di suo zio una Nostra Donna di basso rilievo di mano di Michelagnolo di marmo alta poco più d'un braccio, nella quale sendo giovanetto in questo tempo medesimo, volendo contrafare la maniera di Donatello si portò sì bene che par di man sua, eccetto che vi si vede più grazia e più disegno.
Questa donò Lionardo poi al duca Cosimo Medici, il quale la tiene per cosa singularissima, non essendoci di sua mano altro basso rilievo che questo di scultura.
E tornando al giardino del magnifico Lorenzo, era il giardino tutto pieno d'anticaglie e di eccellenti pitture molto adorno, per bellezza, per studio, per piacere ragunate in quel loco, del quale teneva di continuo Michelagnolo le chiavi, e molto più era sollecito che gli altri in tutte le sue azzioni, e con viva fierezza sempre pronto si mostrava.
Disegnò molti mesi nel Carmine alle pitture di Masaccio, dove con tanto giudizio quelle opere ritraeva, che ne stupivano gli artefici e gli altri uomini di maniera, che gli cresceva l'invidia insieme col nome.
Dicesi che il Torrigiano, contratta seco amicizia e scherzando, mosso da invidia di vederlo più onorato di lui e più valente nell'arte, con tanta fierezza gli percosse d'un pugno il naso, che rotto e stiacciatolo di mala sorte lo segnò per sempre; onde fu bandito di Fiorenza il Torrigiano, come s'è detto altrove.
Morto il magnifico Lorenzo, se ne tornò Michelagnolo a casa del padre con dispiacere infinito della morte di tanto uomo amico a tutte le virtù, dove Michelagnolo comperò un gran pezzo di marmo e fecevi dentro un Ercole di braccia quattro, che sté molti anni nel palazzo degli Strozzi, il quale fu stimato cosa mirabile e poi fu mandato l'anno dello assedio in Francia al re Francesco da Giovambatista della Palla.
Dicesi che Piero de' Medici, che molto tempo aveva praticato Michelagnolo, sendo rimasto erede di Lorenzo suo padre mandava spesso per lui volendo comperare cose antiche di camei et altri intagli; et una invernata che e' nevicò in Fiorenza assai, gli fece fare di neve nel suo cortile una statua che fu bellissima, onorando Michelagnolo di maniera per le virtù sue, che 'l padre cominciando a vedere che era stimato fra i grandi, lo rivestì molto più onoratamente che non soleva.
Fece per la chiesa di Santo Spirito della città di Firenze un Crocifisso di legno, che si pose et è sopra il mezzo tondo dello altare maggiore a compiacenza del priore, il quale gli diede comodità di stanze; dove molte volte scorticando corpi morti per studiare le cose di notomia, cominciò a dare perfezzione al gran disegno che gl'ebbe poi.
Avvenne che furono cacciati di Fiorenza i Medici, e già poche settimane innanzi Michelagnolo era andato a Bologna e poi a Venezia, temendo che non gli avvenisse per essere familiare di casa qualche caso sinistro, vedendo l'insolenzie e mal modo di governo di Piero de' Medici; e non avendo avuto in Venezia trattenimento se ne tornò a Bologna; dove, avvenutogli inconsideratamente disgrazia di non pigliare un contrasegno allo entrare della porta per uscir fuori, come era allora ordinato per sospetto - ché Messer Giovanni Bentivogli voleva che i forestieri che non avevano il contrasegno fussino condennati in lire cinquanta di bolognini -, et incorrendo Michelagnolo in tal disordine, né avendo il modo di pagare, fu compassionevolmente veduto a caso da Messer Giovanfrancesco Aldovrandi, uno de' sedici del governo, il quale fattosi contare la cosa lo liberò e lo trattenne appresso di sé più d'uno anno.
Et un dì l'Aldovrando, condottolo a vedere l'arca di San Domenico fatta, come si disse, da Giovan Pisano e poi da maestro Niccolò da l'Arca scultori vecchi, e mancandoci un Angelo che teneva un candelliere, et un San Petronio, figure d'un braccio incirca, gli dimandò se gli bastasse l'animo di fargli: rispose di sì.
Così, fattogli dare il marmo, gli condusse, che son le miglior figure che vi sieno, e gli fece dare Messer Francesco Aldovrando ducati trenta d'amendue.
Stette Michelagnolo in Bologna poco più d'uno anno e vi sarebbe stato più per satisfare alla cortesia dello Aldovrandi, il quale l'amava e per il disegno e perché piacendoli come toscano la pronunzia del leggere di Michelagnolo, volentieri udiva le cose di Dante, del Petrarca e del Boccaccio et altri poeti toscani.
Ma perché conosceva Michelagnolo che perdeva tempo, volentieri se ne tornò a Fiorenza e fé per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici di marmo un San Giovannino, e poi dreto a un altro marmo si messe a fare un Cupido che dormiva, quanto il naturale; e finito, per mezzo di Baldassarri del Milanese fu mostro a Pierfrancesco per cosa bella, che giudicatolo il medesimo gli disse: "Se tu lo mettessi sotto terra sono certo che passerebbe per antico, mandandolo a Roma acconcio in maniera che paressi vecchio, e ne caveresti molto più che a venderlo qui".
Dicesi che Michelagnolo l'acconciò di maniera che pareva antico, né è da maravigliarsene perché aveva ingegno da far questo e meglio.
Altri vogliono che 'l Milanese lo portassi a Roma e lo sotterrassi in una sua vigna, e poi lo vendessi per antico al cardinale San Giorgio ducati dugento.
Altri dicono che gliene vendé un che faceva per il Milanese, che scrisse a Pierfrancesco che facessi dare a Michelagnolo scudi trenta, dicendo che più del Cupido non aveva avuti, ingannando il cardinale Pierfrancesco e Michelagnolo; ma inteso poi da chi aveva visto che 'l putto era fatto a Fiorenza, tenne modi che seppe il vero per un suo mandato, e fece sì l'agente del Milanese gl'ebbe a rimettere e riebbe il Cupido, il quale venuto nelle mani al duca Valentino e donato da lui alla Marchesana di Mantova, che lo condusse al paese dove oggi ancor si vede.
Questa cosa non passò senza biasimo del cardinale San Giorgio, il quale non conoscendo la virtù dell'opera, che consiste nella perfezzione, che tanto son buone le moderne quanto le antiche pur che sieno eccellenti, essendo più vanità quella di coloro che van dietro più al nome che a' fatti; che di questa sorte d'uomini se n'è trovato d'ogni tempo, che fanno più conto del parere che dell'essere.
Imperò questa cosa diede tanta riputazione a Michelagnolo che fu subito condotto a Roma et acconcio col cardinale San Giorgio, dove stette vicino a un anno, che come poco intendente di queste arti, non fece fare niente a Michelagnolo.
In quel tempo un barbiere del cardinale stato pittore, che coloriva a tempera molto diligentemente, ma non aveva disegno, fattosi amico Michelagnolo gli fece un cartone d'un San Francesco che riceve le stimate, che fu condotto con i colori dal barbieri in una tavoletta molto diligentemente: la qual pittura è oggi locata in una prima cappella entrando in chiesa a man manca di San Piero a Montorio.
Conobbe bene poi la virtù di Michelagnolo Messer Iacopo Galli, gentiluomo romano, persona ingegnosa, che gli fece fare un Cupido di marmo, quanto il vivo, et appresso una figura di un Bacco di palmi dieci che ha una tazza nella man destra e nella sinistra una pelle d'un tigre et un grappolo d'uve, che un satirino cerca di mangiargliene, nella qual figura si conosce che egli ha voluto tenere una certa mistione di membra maravigliose, e particolarmente avergli dato la sveltezza della gioventù del maschio e la carnosità e tondezza della femina: cosa tanto mirabile, che nelle statue mostrò essere eccellente più d'ogni altro moderno, il quale fino allora avesse lavorato.
Per il che nel suo stare a Roma acquistò tanto nello studio dell'arte, ch'era cosa incredibile vedere i pensieri alti e la maniera difficile, con facilissima facilità da lui esercitata, tanto con ispavento di quegli che non erano usi a vedere cose tali, quanto degli usi alle buone, perché le cose che si vedevano fatte, parevano nulla al paragone delle sue.
Le quali cose destarono al cardinale di San Dionigi, chiamato il cardinale Rovano franzese, disiderio di lasciar per mezzo di sì raro artefice qualche degna memoria di sé in così famosa città, e gli fé fare una Pietà di marmo tutta tonda, la quale finita fu messa in San Pietro nella cappella della Vergine Maria della Febbre nel tempio di Marte.
Alla quale opera non pensi mai scultore, né artefice raro potere aggiugnere di disegno, né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelagnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell'arte.
Fra le cose belle vi sono, oltra i panni divini suoi si scorge il morto Cristo, e non si pensi alcuno di bellezza di membra e d'artificio di corpo vedere uno ignudo tanto ben ricerco di muscoli, vene, nerbi, sopra l'ossatura di quel corpo, né ancora un morto più simile al morto di quello.
Quivi è dolcissima aria di testa, et una concordanza nelle appiccature e congiunture delle braccia et in quelle del corpo e delle gambe, i polsi e le vene lavorate, che invero si maraviglia lo stupore che mano d'artefice abbia potuto sì divinamente e propriamente fare in pochissimo tempo cosa sì mirabile; che certo è un miracolo che un sasso da principio senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezzione che la natura a fatica suol formar nella carne.
Poté l'amor di Michelagnolo e la fatica insieme in questa opera tanto, che quivi (quello che in altra opera più non fece) lasciò il suo nome scritto attraverso in una cintola che il petto della Nostra Donna soccigne: nascendo che un giorno Michelagnolo entrando drento dove l'è posta vi trovò gran numero di forestieri lombardi che la lodavano molto, un de' quali domandò a un di quegli chi l'aveva fatta, rispose: "Il Gobbo nostro da Milano".
Michelagnolo stette cheto e quasi gli parve strano che le sue fatiche fussino attribuite a un altro; una notte vi si serrò drento e con un lumicino, avendo portato gli scarpegli, vi intagliò il suo nome.
Et è veramente tale, che come a vera figura e viva, disse un bellissimo spirito:
Bellezza et onestate,
e doglia e pièta in vivo marmo morte,
deh, come voi pur fate,
non piangete sì forte,
che anzi tempo risveglisi da morte,
e pur, mal grado suo,
nostro Signore e tuo
sposo, figliuolo e padre,
unica sposa sua figliuola e madre.
Laonde egli n'acquistò grandissima fama.
E se bene alcuni, anzi goffi che no, dicono che egli abbia fatto la Nostra Donna troppo giovane, non s'accorgono e non sanno eglino che le persone vergini senza essere contaminate si mantengano e conservano l'aria del viso loro gran tempo, senza alcuna macchia, e che gli afflitti come fu Cristo fanno il contrario? Onde tal cosa accrebbe assai più gloria e fama alla virtù sua che tutte l'altre dinanzi.
Gli fu scritto di Fiorenza d'alcuni amici suoi che venisse, perché non era fuor di proposito che di quel marmo che era nell'Opera guasto, il quale Pier Soderini fatto gonfaloniere a vita allora di quella città aveva avuto ragionamento molte volte di farlo condurre a Lionardo da Vinci, et era allora in pratica di darlo a maestro Andrea Contucci dal Monte San Savino eccellente scultore, che cercava di averlo; e Michelagnolo, quantunque fussi dificile a cavarne una figura intera senza pezzi, al che fare non bastava a quegl'altri l'animo di non finirlo senza pezzi, salvo che a lui, e ne aveva avuto desiderio molti anni innanzi, venuto in Fiorenza tentò di averlo.
Era questo marmo di braccia nove, nel quale per mala sorte un maestro Simone da Fiesole aveva cominciato un gigante, e sì mal concio era quella opera, che lo aveva bucato fra le gambe e tutto mal condotto e storpiato: di modo che gli Operai di Santa Maria del Fiore, che sopra tal cosa erano, senza curar di finirlo, l'avevano posto in abandono e già molti anni era così stato et era tuttavia per istare.
Squadrollo Michelagnolo di nuovo, et esaminando potersi una ragionevole figura di quel sasso cavare et accomodandosi con l'attitudine al sasso ch'era rimasto storpiato da maestro Simone, si risolse di chiederlo agli Operai et al Soderini, dai quali per cosa inutile gli fu conceduto, pensando che ogni cosa che se ne facesse, fusse migliore che lo essere nel quale allora si ritrovava, perché né spezzato, né in quel modo concio, utile alcuno alla Fabrica non faceva.
Laonde Michelagnolo fatto un modello di cera finse in quello per la insegna del palazzo un Davit giovane, con una frombola in mano, acciò che, sì come egli aveva difeso il suo popolo e governatolo con giustizia, così chi governava quella città dovesse animosamente difenderla e giustamente governarla: e lo cominciò nell'Opera di Santa Maria del Fiore, nella quale fece una turata fra muro e tavole et il marmo circondato, e quello di continuo lavorando senza che nessuno il vedesse, a ultima perfezzione lo condusse.
Era il marmo già da maestro Simone storpiato e guasto, e non era in alcuni luoghi tanto che alla volontà di Michelagnolo bastasse per quel che averebbe voluto fare: egli fece che rimasero in esso delle prime scarpellate di maestro Simone, nella estremità del marmo, delle quali ancora se ne vede alcuna.
E certo fu miracolo quello di Michelagnolo far risuscitare uno che era morto.
Era questa statua quando finita fu, ridotta in tal termine che varie furono le dispute che si fecero per condurla in piazza de' Signori.
Per che Giuliano da S.
Gallo et Antonio suo fratello fecero un castello di legname fortissimo e quella figura con i canapi sospesero a quello, acciò che scotendosi non si troncasse, anzi venisse crollandosi sempre, e con le travi per terra piane con argani la tirorono e la missero in opera.
Fece un cappio al canapo che teneva sospesa la figura facilissimo a scorrere, e stringeva quanto il peso l'agravava, che è cosa bellissima et ingegnosa che l'ho nel nostro libro disegnato di man sua, che è mirabile, sicuro e forte per legar pesi.
Nacque in questo mentre, che vistolo su Pier Soderini, il quale piaciutogli assai, et in quel mentre che lo ritoccava in certi luoghi, disse a Michelagnolo che gli pareva che il naso di quella figura fussi grosso.
Michelagnolo accortosi che era sotto al gigante il gonfalonieri e che la vista non lo lasciava scorgere il vero, per satisfarlo salì in sul ponte, che era accanto alle spalle, e preso Michelagnolo con prestezza uno scarpello nella man manca con un poco di polvere di marmo che era sopra le tavole del ponte, e cominciato a gettare leggieri con li scarpegli, lasciava cadere a poco a poco la polvere, né toccò il naso da quel che era.
Poi guardato a basso al gonfalonieri, che stava a vedere, disse: "Guardatelo ora".
"A me mi piace più", disse il gonfalonieri, "gli avete dato la vita." Così scese Michelagnolo, e lo avere contento quel signore che se ne rise da sé Michelagnolo avendo compassione a coloro che per parere d'intendersi non sanno quel che si dicano; et egli, quando ella fu murata e finita la discoperse, e veramente che questa opera ha tolto il grido a tutte le statue moderne et antiche, o greche, o latine che elle si fussero, e si può dire che né 'l Marforio di Roma né il Tevere o il Nilo di Belvedere o i giganti di Monte Cavallo le sian simili in conto alcuno, con tanta misura e bellezza e con tanta bontà la finì Michelagnolo.
Perché in essa sono contorni di gambe bellissime et appiccature e sveltezza di fianchi divine; né ma' più s'è veduto un posamento sì dolce né grazia che tal cosa pareggi, né piedi, né mani, né testa che a ogni suo membro di bontà d'artificio e di parità, né di disegno s'accordi tanto.
E certo chi vede questa non dee curarsi di vedere altra opera di scultura fatta nei nostri tempi o negli altri da qual si voglia artefice.
N'ebbe Michelagnolo da Pier Soderini per sua mercede scudi quattrocento, e fu rizzata l'anno 1504, e per la fama che per questo acquistò nella scultura fece al sopra detto gonfalonieri un Davit di bronzo bellissimo, il quale egli mandò in Francia; et ancora in questo tempo abbozzò e non finì due tondi di marmo, uno a Taddeo Taddei, oggi in casa sua, et a Bartolomeo Pitti ne cominciò un altro, il quale da fra' Miniato Pitti di Monte Oliveto, intendente e raro nella cosmografia et in molte scienzie e particolarmente nella pittura, fu donata a Luigi Guicciardini che gl'era grande amico; le quali opere furono tenute egregie e mirabili.
Et in questo tempo ancora abbozzò una statua di marmo di San Matteo nell'Opera di Santa Maria del Fiore, la quale statua così abbozzata mostra la sua perfezzione et insegna agli scultori in che maniera si cavano le figure de' marmi senza che venghino storpiate, per potere sempre guadagnare col giudizio levando del marmo et avervi da potersi ritrarre e mutare qualcosa, come accade se bisognassi.
Fece ancora di bronzo una Nostra Donna in un tondo che lo gettò di bronzo a requisizione di certi mercatanti fiandresi de' Moscheroni, persone nobilissime ne' paesi loro, che pagatogli scudi cento la mandassero in Fiandra.
Venne volontà ad Agnolo Doni, cittadino fiorentino amico suo, sì come quello che molto si dilettava aver cose belle così d'antichi come di moderni artefici, d'avere alcuna cosa di Michelagnolo; per che gli cominciò un tondo di pittura, dentrovi una Nostra Donna, la quale inginochiata con amendua le gambe, ha in sulle braccia un putto e porgelo a Giuseppo che lo riceve; dove Michelagnolo fa conoscere nello svoltare della testa della madre di Cristo e nel tenere gli occhi fissi nella somma bellezza del figliuolo, la maravigliosa sua contentezza e lo affetto del farne parte a quel santissimo vecchio, il quale con pari amore, tenerezza e reverenza lo piglia, come benissimo si scorge nel volto suo senza molto considerarlo.
Né bastando questo a Michelagnolo, per mostrare maggiormente l'arte sua essere grandissima, fece nel campo di questa opera molti ignudi appoggiati, ritti et a sedere, e con tanta diligenza e pulitezza lavorò questa opera che certamente delle sue pitture in tavola, ancora che poche sieno, è tenuta la più finita e la più bella opera che si truovi.
Finita che ella fu, la mandò a casa Agnolo, coperta, per un mandato insieme con una polizza, e chiedeva settanta ducati per suo pagamento.
Parve strano ad Agnolo, che era assegnata persona, spendere tanto in una pittura, se bene e' conoscesse che più valesse, e disse al mandato che bastavano quaranta, e gliene diede; onde Michelagnolo gli rimandò indietro, mandandogli a dire che cento ducati o la pittura gli rimandasse indietro.
Per il che Agnolo, a cui l'opera piaceva, disse: "Io gli darò quei settanta".
Et egli non fu contento, anzi per la poca fede d'Agnolo ne volle il doppio di quel che la prima volta ne aveva chiesto; per che se Agnolo volse la pittura, fu forzato mandargli centoquaranta.
Avvenne che dipignendo Lionardo da Vinci pittore rarissimo nella sala grande del Consiglio, come nella vita sua è narrato, Piero Soderini, allora gonfaloniere, per la gran virtù che egli vidde in Michelagnolo, gli fece allogagione d'una parte di quella sala: onde fu cagione che egli facesse a concorrenza di Lionardo l'altra facciata, nella quale egli prese per subietto la guerra di Pisa.
Per il che Michelagnolo ebbe una stanza nello spedale de' Tintori a Santo Onofrio, e quivi cominciò un grandissimo cartone, né però volse mai che altri lo vedesse.
E lo empié di ignudi che bagnandosi per lo caldo nel fiume d'Arno, in quello stante si dava a l'arme nel campo fingendo che gli inimici li assalissero, e mentre che fuor delle acque uscivano per vestirsi i soldati, si vedeva dalle divine mani di Michelagnolo chi affrettare lo armarsi per dare aiuto a' compagni, altri affibbiarsi la corazza, e molti mettersi altre armi in dosso, et infiniti combattendo a cavallo cominciare la zuffa.
Eravi fra l'altre figure un vecchio che aveva in testa per farsi ombra una grillanda di ellera, il quale postosi a sedere per mettersi le calze e non potevano entrargli per aver le gambe umide dell'acqua, e sentendo il tumulto de' soldati e le grida et i romori de' tamburini affrettando tirava per forza una calza; et oltra che tutti i muscoli e' nervi della figura si vedevano, faceva uno storcimento di bocca per il quale dimostrava assai quanto e' pativa e che egli si adoperava fin alle punte de' piedi.
Eranvi tamburini ancora e figure che coi panni avvolti ignudi correvano verso la baruffa; e di stravaganti attitudini si scorgeva chi ritto, chi ginocchioni o piegato o sospeso a giacere, et in aria attaccati con iscorti difficili.
V'erano ancora molte figure aggruppate et in varie maniere abbozzate, chi contornato di carbone, chi disegnato di tratti e chi sfumato e con biacca lumeggiati, volendo egli mostrare quanto sapesse in tale professione.
Per il che gli artefici stupiti et ammirati restorono, vedendo l'estremità dell'arte in tal carta per Michelagnolo mostrata loro.
Onde, veduto sì divine figure, dicono, alcuni che le viddero, di man sua e d'altri ancora non essere mai più veduto cosa che della divinità dell'arte nessuno altro ingegno possa arrivarla mai.
E certamente è da credere, perciò che da poi che fu finito e portato alla sala del papa con gran romore dell'arte e grandissima gloria di Michelagnolo, tutti coloro che su quel cartone studiarono e tal cosa disegnarono, come poi si seguitò molti anni in Fiorenza per forestieri e per terrazzani, diventarono persone in tale arte eccellenti, come vedemo: poiché in tale cartone studiò Aristotile da S.
Gallo amico suo, Ridolfo Ghirlandaio, Raffael Sanzio da Urbino, Francesco Granaccio, Baccio Bandinelli et Alonso Berugetta spagnuolo; seguitò Andrea del Sarto, il Francia Bigio, Iacopo Sansovino, il Rosso, Maturino, Lorenzetto, el Tribolo allora fanciullo, Iacopo da Puntormo e Pierin del Vaga, i quali tutti ottimi maestri fiorentini furono; per il che essendo questo cartone diventato uno studio d'artefici, fu condotto in casa Medici nella sala grande di sopra, e tal cosa fu cagione che egli troppo a securtà nelle mani degli artefici fu messo: per che nella infermità del duca Giuliano, mentre nessuno badava a tal cosa, fu come s'è detto altrove stracciato, et in molti pezzi diviso, tal che in molti luoghi se n'è sparto, come ne fanno fede alcuni pezzi che si veggono ancora in Mantova in casa di Messer Uberto Strozzi gentiluomo mantovano, i quali con riverenza grande son tenuti.
E certo che a vedere e' son più tosto cosa divina che umana.
Era talmente la fama di Michelagnolo per la Pietà fatta, per il gigante di Fiorenza e per il cartone nota, che essendo venuto l'anno 1503 la morte di papa Alessandro VI e creato Giulio Secondo, che allora Michelagnolo era di anni ventinove incirca, fu chiamato con gran suo favore da Giulio II per fargli fare la sepoltura sua, e per suo viatico gli fu pagato scudi cento da' suoi oratori.
Dove condottosi a Roma, passò molti mesi innanzi che gli facessi mettere mano a cosa alcuna.
Finalmente si risolvette a un disegno che aveva fatto per tal sepoltura, ottimo testimonio della virtù di Michelagnolo, che di bellezza e di superbia e di grande ornamento e ricchezza di statue passava ogni antica et imperiale sepoltura.
Onde cresciuto lo animo a papa Giulio, fu cagione che si risolvé a mettere mano a rifare di nuovo la chiesa di S.
Piero di Roma per mettercela drento, come s'è detto altrove.
Così Michelagnolo si misse al lavoro con grande animo: e per dargli principio, andò a Carrara a cavare tutti i marmi con dua suoi garzoni, et in Fiorenza da Alamanno Salviati ebbe a quel conto scudi mille, dove consumò in que' monti otto mesi senza altri danari o provisioni, dove ebbe molti capricci di fare in quelle cave, per lasciar memoria di sé, come già avevano fatto gli antichi, statue grandi, invitato da que' massi.
Scelto poi la quantità de' marmi et fattoli caricare alla marina e di poi condotti a Roma, empierono la metà della piazza di S.
Piero intorno a Santa Caterina e fra la chiesa e 'l corridore che va a Castello, nel qual luogo Michelagnolo aveva fatto la stanza da lavorar le figure et il resto della sepoltura; e perché comodamente potessi venire a vedere lavorare, il Papa aveva fatto fare un ponte levatoio dal corridore alla stanza, e per ciò molto famigliare se l'era fatto, che col tempo questi favori gli dettono gran noia e persecuzione, e gli generorono molta invidia fra gli artefici suoi.
Di quest'opera condusse Michelagnolo, vivente Giulio e dopo la morte sua, quattro statue finite et otto abbozzate, come si dirà al suo luogo, e perché questa opera fu ordinata con grandissima invenzione qui di sotto narreremo l'ordine che egli pigliò.
E perché ella dovessi mostrare maggior grandezza volse che ella fussi isolata da poterla vedere da tutt'a quattro le faccie, che in ciascuna era per un verso braccia dodici e per l'altre due braccia diciotto, tanto che la proporzione era un quadro e mezzo.
Aveva un ordine di nicchie di fuori a torno a torno, le quali erano tramezzate da termini vestiti dal mezzo in su, che con la testa tenevano la prima cornice, e ciascuno termine con strana e bizzarra attitudine ha legato un prigione ignudo, il qual posava coi piedi in un risalto d'un basamento.
Questi prigioni erano tutte le provincie soggiogate da questo Pontefice e fatte obediente alla Chiesa apostolica; et altre statue diverse pur legate erano tutte le virtù et arte ingegnose, che mostravano esser sottoposte alla morte non meno che si fussi quel Pontefice che sì onoratamente le adoperava.
Su' canti della prima cornice andava quattro figure grandi: la Vita attiva e la contemplativa, e S.
Paulo e Moisè.
Ascendeva l'opera sopra la cornice in gradi diminuendo con un fregio di storie di bronzo e con altre figure e putti et ornamenti a torno, e sopra era per fine due figure, che una era il Cielo, che ridendo sosteneva in sulle spalle una bara insieme con Cibele dea della terra, [e] pareva che si dolessi che ella rimanessi al mondo priva d'ogni virtù per la morte di questo uomo, et il Cielo pareva che ridessi che l'anima sua era passata alla gloria celeste.
Era accomodato che s'entrava et usciva per le teste della quadratura dell'opera nel mezzo delle nicchie, e drento era caminando a uso di tempio in forma ovale, nel quale aveva nel mezzo la cassa, dove aveva a porsi il corpo morto di quel Papa; e finalmente vi andava in tutta quest'opera quaranta statue di marmo senza l'altre storie, putti et ornamenti e tutte intagliate le cornici e gli altri membri dell'opera d'architettura.
Et ordinò Michelagnolo per più facilità che una parte de' marmi gli fussin portati a Fiorenza, dove egli disegnava tal volta farvi la state per fuggire la mala aria di Roma, dove in più pezzi ne condusse di quest'opera una faccia di tutto punto, e di suo mano finì in Roma due prigioni a fatto cosa divina, et altre statue che non s'è mai visto meglio, che non si messono altrimenti in opera (ché furono da lui donati detti prigioni al signor Ruberto Strozzi per trovarsi Michelagnolo malato in casa sua, che furono mandati poi a donare al re Francesco, e' quali sono oggi a Cevan in Francia); et otto statue abozzò in Roma parimente, et a Fiorenza ne abozzò cinque, e finì una Vittoria con un prigion sotto, qual sono oggi appresso del duca Cosimo, stati donati da Lionardo suo nipote a sua eccellenza, che la Vittoria l'ha messa nella sala grande del suo palazzo, dipinta dal Vasari.
Finì il Moisè di cinque braccia di marmo, alla quale statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e delle antiche ancora si può dire il medesimo, avvenga che egli con gravissima attitudine sedendo, posa un braccio in sulle tavole che egli tiene con una mano, e con l'altra si tiene la barba, la quale nel marmo svellata e lunga è condotta di sorte, che i capegli, dove ha tanta dificultà la scultura, son condotti sottilissimamente piumosi, morbidi e sfilati d'una maniera, che pare impossibile che il ferro sia diventato pennello; et inoltre alla bellezza della faccia, che ha certo aria di vero Santo e terribilissimo principe, pare che mentre lo guardi abbia voglia di chiedergli il velo per coprirgli la faccia, tanto splendida e tanto lucida appare altrui.
Et ha sì bene ritratto nel marmo la divinità che Dio aveva messo nel santissimo volto di quello, oltreché vi sono i panni straforati e finiti con bellissimo girar di lembi, e le braccia di muscoli, e le mane di ossature, e' nervi sono a tanta bellezza e perfezzione condotte, e le gambe appresso, e le ginocchia, et i piedi sotto di sì fatti calzari accomodati, et è finito talmente ogni lavoro suo che Moisè può più oggi che mai chiamarsi amico di Dio, poiché tanto innanzi agli altri ha voluto mettere insieme e preparargli il corpo per la sua ressurrezione, per le mani di Michelagnolo; e seguitino gli ebrei di andare, come fanno ogni sabato, a schiera, e maschi e femine, come gli storni a visitarlo et adorarlo: che non cosa umana, ma divina adoreranno.
Dove finalmente pervenne allo accordo e fine di questa opera, la quale delle quattro parti se ne murò poi in San Piero in Vincola una delle minori.
Dicesi che mentre che Michelagnolo faceva questa opera, venne a Ripa tutto il restante de' marmi per detta sepoltura che erano rimasti a Carrara, e' quali fur fatti condurre cogl'altri sopra la piazza di San Pietro, e perché bisognava pagarli a chi gli aveva condotti, andò Michelagnolo come era solito al Papa; ma avendo Sua Santità in quel dì cosa che gli importava per le cose di Bologna, tornò a casa e pagò di suo detti marmi pensando averne l'ordine subito da Sua Santità.
Tornò un altro giorno per parlarne al Papa, e trovato dificultà a entrare, perché un palafreniere gli disse che avessi pazienzia, che aveva commessione di non metterlo drento, fu detto da un vescovo al palafreniere: "Tu non conosci forse questo uomo".
"Troppo ben lo conosco", disse il palafrenieri, "ma io son qui per far quel che m'è commesso da' miei superiori e dal Papa".
Dispiacque questo atto a Michelagnolo, e parendogli il contrario di quello che aveva provato innanzi, sdegnato rispose al palafrenieri del Papa, che gli dicessi che da qui innanzi quando lo cercava Sua Santità essere ito altrove, e tornato alla stanza a due ore di notte montò in sulle poste lasciando a due servitori che vendessino tutte le cose di casa ai giudei e lo seguitassero a Fiorenza dove egli s'era avviato.
Et arrivato a Poggibonzi, luogo sul fiorentino, sicuro si fermò, né andò guari che cinque corrieri arrivorono con le lettere del Papa per menarlo indietro, che né per preghi, né per la lettera che gli comandava che tornasse a Roma sotto pena della sua disgrazia, al che fare non volse intendere niente: ma i prieghi de' corrieri finalmente lo svolsono a scrivere due parole in risposta a Sua Santità, che gli perdonassi che non era per tornare più alla presenzia sua, poiché l'aveva fatto cacciare via come un tristo, e che la sua fedel servitù non meritava questo, e che si provedessi altrove di chi lo servissi.
Arrivato Michelagnolo a Fiorenza, attese a finire in tre mesi che vi stette il cartone della sala grande, che Pier Soderini gonfaloniere desiderava che lo mettessi in opera.
Imperò venne alla Signoria in quel tempo tre brevi che dovessino rimandare Michelagnolo a Roma; per il che egli veduto questa furia del Papa, dubitando di lui ebbe, secondo che si dice, voglia di andarsene in Gostantinopoli a servire il Turco per mezzo di certi frati di San Francesco, che desiderava averlo per fare un ponte che passassi da Gostantinopoli a Pera.
Pure, persuaso da Pier Soderini allo andare a trovare il Papa, ancor che non volessi, come persona publica per assicurarlo con titolo d'imbasciadore della città, finalmente lo raccomandò al cardinale Soderini suo fratello, che lo introducessi al Papa, [e] lo inviò a Bologna dove era già di Roma venuto Sua Santità.
Dicesi ancora in altro modo questa sua partita di Roma: che il Papa si sdegnassi con Michelagnolo, il quale non voleva lasciar vedere nessuna delle sue cose, e che avendo sospetto de' suoi dubitando come fu più d'una volta che vedde quel che faceva travestito a certe occasioni che Michelagnolo non era in casa o al lavoro, e perché corrompendo una volta i suo' garzoni con danari per entrare a vedere la cappella di Sisto suo zio, che gli fé dipignere come si disse poco innanzi, e che nascostosi Michelagnolo una volta perché egli dubitava del tradimento de' garzoni, tirò con tavole nell'entrare il Papa in cappella, che non pensando chi fussi, lo fece tornare fuora a furia.
Basta che o nell'uno modo o nell'altro, egli ebbe sdegno col Papa, e poi paura, che se gli ebbe a levar dinanzi.
Così arrivato in Bologna, né prima trattosi gli stivali che fu da' famigliari del Papa condotto da Sua Santità, che era nel palazzo de' Sedici, accompagnato da uno vescovo del cardinale Soderini, perché essendo malato il cardinale non poté andargli; et arrivati dinanzi al Papa, inginocchiatosi Michelagnolo, lo guardò Sua Santità a traverso e come sdegnato, e gli disse: "In cambio di venire tu a trovare noi, tu hai aspettato che venghiamo a trovar te?", volendo inferire che Bologna è più vicina a Fiorenza che Roma.
Michelagnolo con le mani cortese et a voce alta gli chiese umilmente perdono, scusandosi che quel che aveva fatto era stato per isdegno, non potendo sopportare d'essere cacciato così via, e che avendo errato di nuovo gli perdonassi.
Il vescovo che aveva al Papa offerto Michelagnolo, scusandolo diceva a Sua Santità che tali uomini sono ignoranti e che da quell'arte in fuora non valevano in altro, e che volentieri gli perdonassi.
Al Papa venne còllora, e con una mazza che avea rifrustò il vescovo dicendogli: "Ignorante sei tu che gli di' villania, che non gliene diciàn noi".
Così dal palafrenieri fu spinto fuori il vescovo con frugoni, e partito, et il Papa sfogato la còllora sopra di lui, benedì Michelagnolo, il quale con doni e speranze fu trattenuto in Bologna tanto, che Sua Santità gli ordinò che dovessi fare una statua di bronzo a similitudine di papa Giulio, cinque braccia d'altezza; nella quale usò arte bellissima nella attitudine, perché nel tutto avea maestà e grandezza, e ne' panni mostrava ricchezza e magnificenza, e nel viso animo, forza, prontezza e terribilità.
Questa fu posta in una nicchia sopra la porta di San Petronio.
Dicesi che mentre Michelagnolo la lavorava, vi capitò il Francia orefice e pittore eccellentissimo per volerla vedere, avendo tanto sentito delle lodi e della fama di lui e delle opere sue, e non avendone vedute alcuna.
Furono adunque messi mezzani, perché vedesse questa, e n'ebbe grazia.
Onde veggendo egli l'artificio di Michelagnolo, stupì; per il che fu da lui dimandato che gli pareva di quella figura, rispose il Francia che era un bellissimo getto et una bella materia.
Là dove parendo a Michelagnolo che egli avessi lodato più il bronzo che l'artifizio, disse: "Io ho quel medesimo obligo a papa Giulio che me l'ha data, che voi agli speziali che vi danno i colori per dipignere", e con còllora in presenza di que' gentiluomini disse che egli era un goffo.
E di questo proposito medesimo venendogli innanzi un figliuolo del Francia su detto, che era molto bel giovanetto, gli disse: "Tuo padre fa più belle figure vive che dipinte".
Fra i medesimi gentiluomini fu uno non so chi, che dimandò a Michelagnolo qual credeva che fussi maggiore, o la statua di quel Papa, o un par di bo', et ei rispose: "Secondo che buoi, se di questi bolognesi, oh! senza dubio son minori i nostri da Fiorenza".
Condusse Michelagnolo questa statua finita di terra innanzi che 'l Papa partissi di Bologna per Roma; et andato Sua Santità a vedere, né sapeva che se gli porre nella man sinistra alzando la destra con un atto fiero, che 'l Papa dimandò s'ella dava la benedizione o la maladizione.
Rispose Michelagnolo che l'annunziava il popolo di Bologna, perché fussi savio; e richiesto Sua Santità di parere se dovessi porre un libro nella sinistra, gli disse: "Mettivi una spada, che io non so lettere".
Lasciò il Papa in sul banco di Messer Antonmaria da Lignano scudi mille per finirla, la quale fu poi posta nel fine di sedici mesi che penò a condurla, nel frontespizio della chiesa di San Petronio nella facciata dinanzi, come si è detto, e della sua grandezza s'è detto.
Questa statua fu rovinata da' Bentivogli, e 'l bronzo di quella venduto al duca Alfonso di Ferrara, che ne fece una artiglieria chiamata la Giulia, salvo la testa, la quale si trova nella sua guardaroba.
Mentre che 'l Papa se n'era tornato a Roma e che Michelagnolo aveva condotto questa statua, nella assenzia di Michelagnolo, Bramante, amico e parente di Raffaello da Urbino, e per questo rispetto poco amico di Michelagnolo, vedendo che il Papa favoriva et ingrandiva l'opere che faceva di scoltura, andaron pensando di levargli dell'animo, che tornando Michelagnolo, Sua Santità non facessi attendere a finire la sepoltura sua, dicendo che pareva uno affrettarsi la morte et augurio cattivo il farsi in vita il sepolcro, e' lo persuasono a far che nel ritorno di Michelagnolo Sua Santità, per memoria di Sisto suo zio, gli dovessi far dipignere la volta della cappella che egli aveva fatta in palazzo, et in questo modo pareva a Bramante et altri emuli di Michelagnolo di ritrarlo dalla scoltura ove lo vedeva perfetto, e metterlo in disperazione, pensando col farlo dipignere che dovessi fare, per non avere sperimento ne' colori a fresco, opera men lodata, e che dovessi riuscire da meno che Raffaello; e caso pure che e' riuscissi il farlo, el facessi sdegnare per ogni modo col Papa, dove ne avessi a seguire, o nell'uno modo o nell'altro, l'intento loro di levarselo dinanzi.
Così ritornato Michelagnolo a Roma e stando in proposito il Papa di non finire per allora la sua sepoltura, lo ricercò che dipignessi la volta della cappella.
Il che Michelagnolo, che desiderava finire la sepoltura e parendogli la volta di quella cappella lavor grande e dificile, e considerando la poca pratica sua ne' colori, cercò con ogni via di scaricarsi questo peso da dosso, mettendo perciò innanzi Raffaello.
Ma tanto quanto più ricusava, tanto maggior voglia ne cresceva al Papa, impetuoso nelle sue imprese, e per arroto di nuovo dagli emuli di Michelagnolo stimolato, e spezialmente da Bramante, che quasi il Papa, che era sùbito, si fu per adirare con Michelagnolo.
Là dove visto che perseverava Sua Santità in questo, si risolvé a farla, et a Bramante comandò il Papa che facessi per poterla dipignere il palco: dove lo fece impiccato tutto sopra canapi, bucando la volta; il che da Michelagnolo visto dimandò Bramante come egli avea a fare, finito che avea di dipignerla, a riturare i buchi; il quale disse: "E' vi si penserà poi", e che non si poteva fare altrimenti.
Conobbe Michelagnolo che o Bramante in questo valeva poco, o che egl'era poco amico, e se ne andò dal Papa e gli disse che quel ponte non stava bene, e che Bramante non l'aveva saputo fare; il quale gli rispose in presenzia di Bramante che lo facessi a modo suo.
Così ordinò di farlo sopra i sorgozoni che non toccassi il muro, che fu il modo che ha insegnato poi et a Bramante et agli altri di armare le volte e fare molte buone opere.
Dove egli fece avanzare a un povero uomo legnaiuolo che lo rifece tanto di canapi, che vendutogli avanzò la dote per una sua figliuola, donandogliene Michelagnolo.
Per il che messo mano a fare i cartoni di detta volta, dove volse ancora il Papa che si guastassi le facciate che avevano già dipinto al tempo di Sisto i maestri innanzi a lui, e fermò che per tutto il costo di questa opera avessi quindici mila ducati, il quale prezzo fu fatto per Giuliano da San Gallo.
Per il che sforzato Michelagnolo dalla grandezza della impresa a risolversi di volere pigliare aiuto, e mandato a Fiorenza per uomini e deliberato mostrare in tal cosa che quei che prima v'avevano dipinto dovevano essere prigioni delle fatiche sue, volse ancora mostrare agli artefici moderni come si disegna e dipigne.
Laonde il suggetto della cosa lo spinse a andare tanto alto per la fama e per la salute dell'arte, che cominciò e finì i cartoni, e quella volendo poi colorire a fresco e non avendo fatto più, vennero da Fiorenza in Roma alcuni amici suoi pittori, perché a tal cosa gli porgessero aiuto et ancora per vedere il modo del lavorare a fresco da loro, nel qual v'erano alcuni pratichi, fra i quali furono il Granaccio, Giulian Bugiardini, Iacopo di Sandro, l'Indaco vecchio, Agnolo di Domenico et Aristotile, e dato principio all'opera, fece loro cominciare alcune cose per saggio.
Ma veduto le fatiche loro molto lontane dal desiderio suo e non sodisfacendogli, una mattina si risolse gettare a terra ogni cosa che avevano fatto.
E rinchiusosi nella cappella non volse mai aprir loro, né manco in casa, dove era, da essi si lasciò vedere.
E così da la beffa, la quale pareva loro che troppo durasse, presero partito, e con vergogna se ne tornarono a Fiorenza.
Laonde Michelagnolo, preso ordine di far da sé tutta quella opera, a bonissimo termine la ridusse con ogni sollecitudine di fatica e di studio; né mai si lasciava vedere per non dare cagione che tal cosa s'avesse a mostrare; onde negli animi delle genti nasceva ogni dì maggior desiderio di vederla.
Era papa Giulio molto desideroso di vedere le imprese che e' faceva, per il che di questa che gli era nascosa venne in grandissimo desiderio; onde volse un giorno andare a vederla e non gli fu aperto, ché Michelagnolo non averebbe voluto mostrarla.
Per la qual cosa nacque il disordine, come s'è ragionato, che s'ebbe a partire di Roma, non volendo mostrarla al Papa; che secondo che io intesi da lui per chiarir questo dubbio, quando e' ne fu condotta il terzo, la gli cominciò a levare certe muffe traendo tramontano una invernata.
Ciò fu cagione che la calce di Roma, per essere bianca fatta di trevertino, non secca così presto, e mescolata con la pozzolana, che è di color tanè, fa una mestica scura, e quando l'è liquida, aquosa, e che 'l muro è bagnato bene, fiorisce spesso nel seccarsi; dove che in molti luoghi sputava quello salso umore fiorito, ma col tempo l'aria lo consumava.
Era di questa cosa disperato Michelagnolo, né voleva seguitare più, e scusandosi col Papa che quel lavoro non gli riusciva, ci mandò Sua Santità Giuliano da San Gallo, che dettogli da che veniva il difetto, lo confortò a seguitare e gli insegnò a levare le muffe.
Là dove condottola fino alla metà, il Papa, che v'era poi andato a vedere alcune volte per certe scale a piuoli aiutato da Michelagnolo, volse che ella si scoprissi, perché era di natura frettoloso et impaziente, e non poteva aspettare ch'ella fussi perfetta et avessi avuto, come si dice, l'ultima mano.
Trasse subito che fu scoperta tutta Roma a vedere, et il Papa fu il primo, non avendo pazienzia che abassassi la polvere per il disfare de' palchi.
Dove Raffaello da Urbino, che era molto eccellente in imitare, vistola mutò subito maniera, e fece a un tratto per mostrare la virtù sua i Profeti e le Sibille dell'opera della Pace, e Bramante allora tentò che l'altra metà della cappella si desse dal Papa a Raffaello.
Il che inteso Michelagnolo si dolse di Bramante e disse al Papa senza avergli rispetto molti difetti, e della vita, e delle opere sue d'architettura, che come s'è visto poi, Michelagnolo nella fabbrica di San Piero n'è stato correttore.
Ma il Papa, conoscendo ogni giorno più la virtù di Michelagnolo, volse che seguitasse, e veduto l'opera scoperta, giudicò che Michelagnolo l'altra metà la poteva migliorare assai.
E così del tutto condusse alla fine perfettamente in venti mesi da sé solo quell'opera senza aiuto pure di chi gli macinassi i colori.
Èssi Michelagnolo doluto talvolta che per la fretta che li faceva il Papa e' non la potessi finire come arebbe voluto a modo suo, dimandandogli il Papa importunamente quando e' finirebbe; dove una volta fra l'altre gli rispose che ella sarebbe finita "quando io arò satisfatto a me nelle cose dell'arte": "E noi vogliamo", rispose il Papa, "che satisfacciate a noi nella voglia che aviamo di farla presto"; gli conchiuse finalmente che se non la finiva presto, che lo farebbe gettare giù da quel palco.
Dove Michelagnolo, che temeva et aveva da temere la furia del Papa, finì subito senza metter tempo in mezzo quel che ci mancava; e disfatto il resto del palco, la scoperse la mattina d'Ognisanti che 'l Papa andò in cappella a cantare la messa, con satisfazione di tutta quella città.
Desiderava Michelagnolo ritoccare alcune cose a secco, come avevon fatto que' maestri vecchi nelle storie di sotto, certi campi, e panni, et arie di azzurro oltramarino, et ornamenti d'oro in qualche luogo, acciò gli desse più ricchezza e maggior vista; per che avendo inteso il Papa che ci mancava ancor questo, desiderava, sentendola lodar tanto da chi l'aveva vista, che la fornissi, ma perché era troppo lunga cosa a Michelagnolo rifare il palco, restò pur così.
Il Papa vedendo spesso Michelagnolo gli diceva: "Che la cappella si arrichisca di colori e d'oro, ché l'è povera".
Michelagnolo con domestichezza rispondeva: "Padre Santo, in quel tempo gli uomini non portavano addosso oro, e quegli che son dipinti non furon mai troppo ricchi, ma santi uomini, perch'egli sprezaron le ricchezze".
Fu pagato in più volte a Michelagnolo dal Papa a conto di quest'opera tremila scudi, che ne dovette spendere in colori venticinque.
Fu condotta questa opera con suo grandissimo disagio dello stare a lavorare col capo all'insù, e talmente aveva guasto la vista, che non poteva leggere lettere né guardar disegni se non all'insù; che gli durò poi parecchi mesi, et io ne posso fare fede, che avendo lavorato cinque stanze in volta per le camere grandi del palazzo del duca Cosimo, se io non avessi fatto una sedia che s'appoggiava la testa e si stava a giacere lavorando, non le conducevo mai, ché mi ha rovinato la vista et indebolito la testa di maniera, che me ne sento ancora e stupisco che Michelagnolo reggessi tanto a quel disagio.
Imperò acceso ogni dì più dal desiderio del fare et allo acquisto e miglioramento che fece, non sentiva fatica né curava disagio.
È il partimento di questa opera accomodato con sei peducci per banda et uno nel mezzo delle faccie da' piè e da capo, ne' quali ha fatto di braccia sei di grandezza, drento Sibille e Profeti, e nel mezzo da la Creazione del mondo fino al Diluvio e la inebriazione di Noè, e nelle lunette tutta la Generazione di Gesù Cristo.
Nel partimento non ha usato ordine di prospettive che scortino, né v'è veduta ferma, ma è ito accomodando più il partimento alle figure che le figure al partimento, bastando condurre gli ignudi e' vestiti con perfezzione di disegno, che non si può né fare, né s'è fatto mai opera, et a pena con fatica si può imitare il fatto.
Questa opera è stata et è veramente la lucerna dell'arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all'arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo, per tante centinaia d'anni in tenebre stato.
E nel vero non curi più chi è pittore di vedere novità et invenzioni, e di attitudini, abbigliamenti addosso a figure, modi nuovi d'aria e terribilità di cose variamente dipinte, perché tutta quella perfezzione che si può dare a cosa che in tal magisterio si faccia a questa ha dato.
Ma stupisca ora ogni uomo che in quella sa scorger la bontà delle figure, la perfezzione degli scorti, la stupendissima rotondità di contorni, che hanno in sé grazia e sveltezza, girati con quella bella proporzione che nei belli ignudi si vede, ne' quali per mostrar gli stremi e la perfezzione dell'arte, ve ne fece di tutte l'età, diferenti d'aria e di forma così nel viso come ne' lineamenti, di aver più sveltezza e grossezza nelle membra, come ancora si può conoscere nelle bellissime attitudini che diferente[mente] e' fanno sedendo e girando e sostenendo alcuni festoni di foglie di quercia e di ghiande messe per l'arme e per l'impresa di papa Giulio, denotando che a quel tempo et al governo suo era l'età dell'oro, per non essere allora la Italia ne' travagli e nelle miserie che ella è stata poi.
Così in mezzo di loro tengono alcune medaglie drentovi storie in bozza e contrafatte in bronzo e d'oro, cavate dal Libro de' Re.
Senza che egli per mostrare la perfezzione dell'arte e la grandezza de Dio, fece nelle istorie il suo dividere la luce dalle tenebre, nelle quale si vede la maestà sua che con le braccia aperte si sostiene sopra sé solo e mostra amore insieme et artifizio.
Nella seconda fece con bellissima discrezione et ingegno quando Dio fa il sole e la luna, dove è sostenuto da molti putti e mostrasi molto terribile per lo scorto delle braccia e delle gambe.
Il medesimo fece nella medesima storia quando benedetto la terra e fatto gli animali, volando si vede in quella volta una figura che scorta, e dove tu camini per la cappella, continuo gira, e si voltan per ogni verso; così nell'altra quando divide l'acqua dalla terra: figure bellissime et acutezze d'ingegno degne solamente d'essere fatte dalle divinissime mani di Michelagnolo.
E così seguitò sotto a questo la creazione di Adamo, dove ha figurato Dio portato da un gruppo di Angioli ignudi e di tenera età, i quali par che sostenghino non solo una figura, ma tutto il peso del mondo, apparente tale mediante la venerabilissima maiestà di quello e la maniera del moto, nel quale con un braccio cigne alcuni putti, quasi che egli si sostenga, e con l'altro porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e di dintorni di qualità che e' par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore più tosto che dal pennello e disegno d'uno uomo tale.
Poco di sotto a questa in una altra istoria fé il suo cavar della costa della madre nostra Eva, nella quale si vede quegli ignudi l'un quasi morto per essere prigion del sonno, e l'altra divenuta viva e fatta vigilantissima per la benedizione di Dio.
Si conosce dal pennello di questo ingegnosissimo artefice interamente la diferenza che è dal sonno alla vigilanza, e quanto stabile e ferma possa apparire umanamente parlando la maestà divina.
Séguitale di sotto come Adamo, alle persuasioni d'una figura mezza donna e mezza serpe, prende la morte sua e nostra nel pomo, e veggonvisi egli et Eva cacciati di Paradiso.
Dove nelle figure dell'Angelo appare con grandezza e nobiltà la esecuzione del mandato d'un Signore adirato, e nella attitudine di Adamo il dispiacere del suo peccato, insieme con la paura della morte; come nella femina similmente si conosce la vergogna, la viltà e la voglia del raccomandarsi, mediante il suo restrignersi nelle braccia, giuntar le mani a palme e mettersi il collo in seno; e nel torcer la testa verso l'Angelo, che ella ha più paura della iustizia che speranza nella misericordia divina.
Né di minor bellezza è la storia del sacrificio di Caino et Abel, dove sono chi porta le legne e chi soffia chinato nel fuoco et altri che scannono la vittima; la quale certo non è fatta con meno considerazione et accuratezza che le altre.
Usò l'arte medesima et il medesimo giudizio nella storia del Diluvio, dove appariscono diverse morti d'uomini, che spaventati dal terror di quei giorni, cercano il più che possono per diverse vie scampo alle lor vite.
Perciò che nelle teste di quelle figure, si conosce la vita esser in preda della morte, non meno che la paura, il terrore et il disprezzo d'ogni cosa.
Vedevisi la pietà di molti, aiutandosi l'un l'altro tirarsi al sommo d'un sasso cercando scampo.
Tra' quali vi è uno che abracciato un mezzo morto, cerca il più che può di camparlo, che la natura non lo mostra meglio.
Non si può dir quanto sia bene espressa la storia di Noè, quando inebriato dal vino dorme scoperto et ha presenti un figliuolo che se ne ride e due che lo ricuoprono; storia e virtù d'artefice incomparabile e da non poter essere vinta se non da se medesimo.
Conciò sia che come se ella per le cose fatte insino allora avessi preso animo, risorse e demostrossi molto maggiore nelle cinque Sibille e ne' sette Profeti fatti qui di grandezza di cinque braccia l'uno e più; dove in tutti sono attitudini varie e bellezza di panni e varietà di vestiri, e tutto insomma con invenzione et iudizio miracoloso, onde a chi distingue gli affetti loro appariscono divini.
Vedesi quel Ieremia con le gambe incrocicchiate, tenersi una mano alla barba posando il gomito sopra il ginocchio, l'altra posar nel grembo et aver la testa chinata d'una maniera che ben dimostra la malinconia, i pensieri, la cogitazione e l'amaritudine che egli ha del suo popolo; così medesimamente due putti, che gli sono dietro; e similmente è nella prima Sibilla di sotto a lui verso la porta, nella quale volendo esprimere la vecchiezza, oltra che egli aviluppandola di panni ha voluto mostrare che già i sangui sono agghiacciati dal tempo, et inoltre nel leggere, per avere la vista già logora, li fa accostare il libro alla vista acutissimamente.
Sotto a questa figura è Ezechiel profeta vecchio, il quale ha una grazia e movenzia bellissima et è molto di panni abbigliato, che con una mano tiene un ruotolo di profezie, con l'altra sollevata, voltando la testa mostra voler parlar cose alte e grandi, e dietro ha due putti che gli tengono i libri.
Seguita sotto questi una Sibilla, che fa il contrario di Eritrea sibilla che di sopra dicemo, perché tenendo il libro lontano cerca voltare una carta mentre ella con un ginocchio sopra l'altro si ferma in sé, pensando con gravità quel ch'ella de' scrivere, fin che un putto che gli è dietro, soffiando in un stizzon di fuoco gli accende la lucerna.
La qual figura è di bellezza straordinaria per l'aria del viso e per la acconciatura del capo e per lo abbigliamento de' panni, oltra ch'ella ha le braccia nude, le quali son come l'altre parti.
Fece sotto questa Sibilla Ioel profeta, il quale fermatosi sopra di sé ha preso una carta e quella con ogni intenzione et affetto legge.
Dove nell'aspetto si conosce che egli si compiace tanto di quel che e' truova scritto, ch'e' pare una persona viva quando ella ha aplicato molto forte i suoi pensieri a qualche cosa.
Similmente pose sopra la porta della cappella il vecchio Zacheria, il quale cercando per il libro scritto d'una cosa che egli non truova sta con una gamba alta e l'altra bassa, e mentre che la furia del cercare quel che non truova lo fa stare così, non si ricorda del disagio che egli in così fatta positura patisce.
Questa figura è di bellissimo aspetto per la vecchiezza et è di forma alquanto grossa et ha un panno con poche pieghe, che è bellissimo, oltra che e' vi è un'altra Sibilla, che voltando in verso l'altare dall'altra banda col mostrare alcune scritte, non è meno da lodare coi suoi putti che si siano l'altre.
Ma chi considererà Isaia profeta che gli è di sopra, il quale stando molto fiso ne' suoi pensieri ha le gambe sopraposte l'una e l'altra, e tenendo una mano dentro al libro per segno del dove egli leggeva ha posato l'altro braccio col gomito sopra il libro et apoggiato la gota alla mano, chiamato da un di quei putti che egli ha dietro, volge solamente la testa senza sconciarsi niente del resto, vedrà tratti veramente tolti dalla natura stessa, vera madre dell'arte, e vedrà una figura che tutta bene studiata può insegnare largamente tutti i precetti del buon pittore.
Sopra a questo Profeta è una Sibilla vecchia bellissima che mentre che ella siede studia in un libro con una eccessiva grazia, e non senza belle attitudini di due putti che le sono intorno.
Né si può pensare di immaginarsi di poter agiugnere alla eccellenza della figura di un giovane fatto per Daniello, il quale scrivendo in un gran libro cava di certe scritte alcune cose e le copia con una avidità incredibile.
E per sostenimento di quel peso gli fece un putto fra le gambe, che lo regge mentre che egli scrive, il che non potrà mai paragonare pennello tenuto da qual si voglia mano; così come la bellissima figura della Libica, la quale avendo scritto un gran volume tratto da molti libri, sta con una attitudine donnesca per levarsi in piedi, et in un medesimo tempo mostra volere alzarsi e serrare il libro: cosa difficilissima per non dire impossibile ad ogni altro che al suo maestro.
Che si può egli dire delle quattro storie da' canti, ne' peducci di quella volta? Dove nell'una Davit, con quella forza puerile che più si può, nella vincita d'un gigante spiccandoli il collo fa stupire alcune teste di soldati che sono intorno al campo; come ancora maravigliare altrui le bellissime attitudini che egli fece nella storia di Iudit, nell'altro canto, nella quale apparisce il tronco di Oloferne, che privo della testa si risente, mentre che ella mette la morta testa in una cesta, in capo a una sua fantesca vecchia, la quale per essere grande di persona si china acciò Iudit la possa aggiugnere per acconciarla bene; e mentre che ella tenendo le mani al peso cerca di ricoprirla, e voltando la testa verso il tronco, il quale così morto nello alzare una gamba et un braccio fa romore dentro nel padiglione, mostra nella vista il timore del campo e la paura del morto: pittura veramente consideratissima.
Ma più bella e più divina di questa e di tutte l'altre ancora è la storia delle serpi di Moisè, la quale è sopra il sinistro canto dello altare, conciò sia che in lei si vede la strage che fa de' morti, il piovere, il pugnere et il mordere delle serpi, e vi apparisce quella che Moisè messe di bronzo sopra il legno; nella quale storia vivamente si conosce la diversità delle morti che fanno coloro che privi sono d'ogni speranza per il morso di quelle.
Dove si vede il veleno atrocissimo far di spasmo e paura morire infiniti, senza il legare le gambe et avvolgere a le braccia coloro che rimasti in quella attitudine che gli erano non si possono muovere; senza le bellissime teste che gridano et arrovesciate si disperano.
Né manco belli di tutti questi sono coloro che riguardando il serpente e sentendosi nel riguardarlo alleggerire il dolore e rendere la vita, lo riguardano con affetto grandissimo, fra' quali si vede una femina che è sostenuta da uno d'una maniera che e' si conosce non meno l'aiuto che l'è porto da chi la regge, che il bisogno di lei in sì subita paura e puntura.
Similmente nell'altra, dove Assuero essendo in letto legge i suoi annali, son figure molto belle, e tra l'altre vi si vegon tre figure a una tavola, che mangiano, nelle quali rapresenta il consiglio che e' si fece di liberare il popolo ebreo e di appiccare Aman; la quale figura fu da lui in scorto straordinariamente condotta, avvenga che e' finse il tronco che regge la persona di colui e quel braccio che viene innanzi non dipinti, ma vivi e rilevati infuori, così con quella gamba che manda innanzi e simil parti che vanno dentro; figura certamente fra le dificili e belle bellissima e dificilissima.
Che troppo lungo sarebbe a dichiarare le tante belle fantasie d'atti diferenti dove tutta è la geonologia d'i padri cominciando da' figliuoli di Noè per mostrare la Generazione di Gesù Cristo.
Nelle qual figure non si può dire la diversità delle cose, come panni, arie di teste et infinità di capricci straordinari e nuovi e bellissimamente considerati; dove non è cosa che con ingegno non sia messa in atto; e tutte le figure che vi sono son di scorti bellissimi et artifiziosi, et ogni cosa che si ammira è lodatissima e divina.
Ma chi non amirerà e non resterà smarrito veggendo la terribilità dell'Iona, ultima figura della cappella? Dove con la forza della arte la volta, che per natura viene innanzi girata dalla muraglia, sospinta dalla apparenza di quella figura che si piega indietro, apparisce diritta e vinta dall'arte del disegno, ombre e lumi, pare che veramente si pieghi indietro.
O veramente felice età nostra, o beati artefici, che ben così vi dovete chiamare, da che nel tempo vostro avete potuto al fonte di tanta chiarezza rischiarare le tenebrose luci degli occhi e vedere fattovi piano tutto quel che era dificile da sì maraviglioso e singulare artefice! Certamente la gloria delle sue fatiche vi fa conoscere et onorare, da che ha tolto da voi quella benda che avevate innanzi agli occhi della mente, sì di tenebre piena, e v'ha scoperto il vero dal falso, il quale v'adombrava l'intelletto.
Ringraziate di ciò dunque il Cielo e sforzatevi di imitare Michelagnolo in tutte le cose.
Sentissi nel discoprirla correre tutto il mondo d'ogni parte, e questo bastò per fare rimanere le persone trasecolate e mutole; laonde il Papa, di tal cosa ingrandito e dato animo a sé di far maggiore impresa, con danari e ricchi doni rimunerò molto Michelagnolo, il quale diceva alle volte de' favori, che gli faceva quel Papa, tanto grandi che mostrava di conoscere grandemente la virtù sua; e se talvolta per una sua cotale amorevolezza gli faceva villania la medicava con doni e favori segnalati: come fu quando dimandandogli Michelagnolo licenzia una volta di andare a fare il San Giovanni a Fiorenza, e chiestogli per ciò danari, disse: "Be', questa cappella quando sarà fornita?"; "Quando potrò, Padre Santo"; il Papa che aveva una mazza in mano percosse Michelagnolo dicendo: "Quando potrò, quando potrò: te la farò finire bene io".
Però tornato a casa Michelagnolo per mettersi in ordine per ire a Fiorenza, mandò subito il Papa Cursio, suo camerieri, a Michelagnolo con cinquecento scudi, dubitando che non facessi delle sue, a placarlo, facendo scusa del Papa che ciò erano tutti favori et amorevolezze.
E perché conosceva la natura del Papa e finalmente l'amava, se ne rideva, vedendo poi finalmente ritornare ogni cosa in favore et util suo, e che procurava quel Pontefice ogni cosa per mantenersi questo uomo amico.
Dove che, finito la cappella et innanzi che venissi quel Papa a morte, ordinò Sua Santità, se morissi, al cardinale Santiquattro et al cardinale Aginense suo nipote che facessi finire la sua sepoltura con minor disegno che 'l primo.
Al che fare di nuovo si messe Michelagnolo, e così diede principio volentieri a questa sepoltura per condurla una volta senza tanti impedimenti al fine, che n'ebbe sempre di poi dispiacere e fastidi e travagli più che di cosa che facessi in vita, e ne acquistò per molto tempo in un certo modo nome d'ingrato verso quel Papa, che l'amò e favorì tanto.
Di che egli alla sepoltura ritornato, quella di continuo lavorando e parte mettendo in ordine disegni da potere condurre le facciate della cappella, volse la fortuna invidiosa che di tal memoria non si lasciasse quel fine che di tanta perfezzione aveva avuto principio; perché successe in quel tempo la morte di papa Giulio, onde tal cosa si misse in abandono per la creazione di papa Leone Decimo, il quale d'animo e valore non meno splendido che Giulio, aveva desiderio di lasciare nella patria sua per essere stato il primo Pontefice di quella, in memoria di sé e d'uno artefice divino e suo cittadino, quelle maraviglie che un grandissimo principe come esso poteva fare.
Per il che dato ordine che la facciata di S.
Lorenzo di Fiorenza, chiesa dalla casa de' Medici fabricata, si facesse per lui, fu cagione che il lavoro della sepoltura di Giulio rimase imperfetto, e richiese Michelagnolo di parere e disegno e che dovesse essere egli il capo di questa opera.
Dove Michelagnolo fé tutta quella resistenza che potette allegando essere obligato per la sepoltura [a] Santiquattro et Aginense; gli rispose che non pensassi a questo che già aveva pensato egli et operato che Michelagnolo fussi licenziato da loro, promettendo che Michelagnolo lavorerebbe a Fiorenza, come già aveva cominciato, le figure per detta sepoltura; che tutto fu con dispiacere de' cardinali e di Michelagnolo che si partì piangendo.
Onde vari et infiniti furono i ragionamenti che circa ciò seguirono; perché tale opera della facciata averebbono voluto compartire in più persone, e per l'architettura concorsero molti artefici a Roma al Papa, e fecero disegni Baccio d'Agnolo, Antonio da San Gallo, Andrea et Iacopo Sansovino, il grazioso Raffaello da Urbino, il quale nella venuta del Papa fu poi condotto a Fiorenza per tale effetto.
Laonde Michelagnolo si risolse di fare un modello, e non volere altro che lui in tal cosa, superiore o guida dell'architettura.
Ma questo non volere aiuto fu cagione che né egli né altri operasse, e que' maestri disperati ai loro soliti esercizii si ritornassero.
E Michelagnolo andando a Carrara [passò da Fiorenza] con una comissione che da Iacopo Salviati gli fussino pagati mille scudi; ma essendo nella giunta sua serrato Iacopo in camera per faccende con alcuni cittadini, Michelagnolo non volle aspettare l'udienza, ma si partì senza far motto e subito andò a Carrara.
Intese Iacopo dello arrivo di Michelagnolo, e non lo trovando in Fiorenza gli mandò i mille scudi a Carrara.
Voleva il mandato che gli facesse la ricevuta, al quale disse che erano per la spesa del Papa e non per interesso suo, che gli riportasse che non usava far quitanza, né riceute per altri; onde per tema colui ritornò senza a Iacopo.
Mentre che egli era a Carrara e che e' faceva cavar marmi, non meno per la sepoltura di Giulio che per la facciata, pensando pur di finirla, gli fu scritto che avendo inteso papa Leone che nelle montagne di Pietrasanta a Seravezza sul dominio fiorentino, nella altezza del più alto monte chiamato l'Altissimo, erano marmi della medesima bontà e bellezza che quelli di Carrara, e già lo sapeva Michelagnolo, ma pareva che non ci volesse attendere per essere amico del marchese Alberigo signore di Carrara, e per fargli beneficio volessi più tosto cavare de' carraresi che di quegli di Seravezza, o fusse che egli la giudicasse cosa lunga e da perdervi molto tempo, come intervenne; ma pure fu forzato andare a Seravezza, se bene allegava in contrario che ciò fussi di più disagio e spesa, come era, massimamente nel suo principio, e di più che non era forse così.
Ma, in effetto, non volse udirne parola, però convenne fare una strada di parecchi miglia per le montagne, e per forza di mazze e picconi rompere massi per ispianare e con palafitta ne' luoghi paludosi, ove spese molti anni Michelagnolo per esseguire la volontà del Papa, e vi si cavò finalmente cinque colonne di giusta grandezza, che una n'è sopra la piazza di San Lorenzo in Fiorenza, l'altre sono alla marina.
E per questa cagione il marchese Alberigo, che si vedde guasto l'aviamento, diventò poi gran nemico di Michelagnolo senza sua colpa.
Cavò oltre a queste colonne molti marmi, che sono ancora in sulle cave stati più di trenta anni.
Ma oggi il duca Cosimo ha dato ordine di finire la strada, che ci è ancora dua miglia a farsi, molto malagevole per condurre questi marmi, e di più da un'altra cava eccellente per marmi che allora fu scoperta da Michelagnolo, per poter finire molte belle imprese, e nel medesimo luogo di Seravezza ha scoperto una montagna di mischii durissimi e molti begli sotto Stazema, villa in quelle montagne, dove ha fatto fare il medesimo duca Cosimo una strada siliciata di più di quattro miglia per condurli alla marina.
E tornando a Michelagnolo, che se ne tornò a Fiorenza perdendo molto tempo ora in questa cosa et ora in quell'altra, et allora fece per il palazzo de' Medici un modello delle finestre inginocchiate a quelle stanze che sono sul canto dove Giovanni da Udine lavorò quella camera di stucco e dipinse, che è cosa lodatissima, e fecevi fare, ma con suo ordine, dal Piloto orefice quelle gelosie di rame straforato che son certo cosa mirabile.
Consumò Michelagnolo molti anni in cavar marmi; vero è che mentre si cavavano fece modelli di cera et altre cose per l'Opera.
Ma tanto si prolungò questa impresa, che i danari del Papa assegnati a questo lavoro si consumarono nella guerra di Lombardia, e l'opera per la morte di Leone rimase imperfetta, per che altro non vi si fece che il fondamento dinanzi per reggerla, e condussesi da Carrara una colonna grande di marmo su la piazza di San Lorenzo.
Spaventò la morte di Leone talmente gli artefici e le arti et in Roma et in Fiorenza, che mentre che Adriano vi visse, Michelagnolo s'attese in Fiorenza alla sepoltura di Giulio.
Ma morto Adriano e creato Clemente VII, il quale nelle arti della architettura, della scultura, della pittura, fu non meno desideroso di lasciar fama che Leone e gli altri suo' predecessori, in questo tempo, l'anno 1525, fu condotto Giorgio Vasari fanciullo a Fiorenza dal cardinale di Cortona e messo a stare con Michelagnolo a imparare l'arte.
Ma essendo lui chiamato a Roma da papa Clemente VII, perché gli aveva cominciato la libreria di San Lorenzo e la sagrestia nuova per metter le sepolture di marmo de' suoi maggiori che egli faceva, si risolvé che il Vasari andasse a stare con Andrea del Sarto fino a che egli si spediva, et egli proprio venne a bottega di Andrea a raccomandarlo.
Partì per Roma Michelagnolo in fretta, et infestato di nuovo da Francesco Maria duca di Urbino nipote di papa Giulio, il quale si doleva di Michelagnolo dicendo che aveva ricevuto sedici mila scudi per detta sepoltura e che se ne stava in Fiorenza a' suoi piaceri, e lo minacciò malamente che se non vi attendeva lo farebbe capitare male.
Giunto a Roma papa Clemente, che se ne voleva servire, lo consigliò che facessi conto cogli agenti del Duca, ché pensava che a quel che gli aveva fatto fussi più tosto creditore che debitore; la cosa restò così.
E ragionando insieme di molte cose, si risolsero di finire affatto la sagrestia e libreria nuova di S.
Lorenzo di Fiorenza.
Laonde, partitosi di Roma, e' voltò la cupola che vi si vede, la quale di vario componimento fece lavorare, et al Piloto orefice fece fare una palla a settantadue facce che è bellissima.
Accadde mentre che e' la voltava, che fu domandato da alcuni suoi amici: "Michelagnolo, voi doverete molto variare la vostra lanterna da quella di Filippo Bruneleschi", et egli rispose loro: "Egli si può ben variare, ma migliorare no".
Fecevi dentro quattro sepolture per ornamento nelle facce, per li corpi de' padri de' due papi, Lorenzo vecchio e Giuliano suo fratello, e per Giuliano fratello di Leone e per Lorenzo suo nipote.
E perché egli la volse fare ad imitazione della sagrestia vecchia, che Filippo Brunelleschi aveva fatto, ma con altro ordine di ornamenti, vi fece dentro uno ornamento composito, nel più vario e più nuovo modo che per tempo alcuno gli antichi et i moderni maestri abbino potuto operare; perché nella novità di sì belle cornici, capitegli e base, porte, tabernacoli e sepolture, fece assai diverso da quello che di misura, ordine e regola facevano gli uomini secondo il comune uso e secondo Vitruvio e le antichità, per non volere a quello agiugnere.
La quale licenzia ha dato grande animo a quelli che hanno veduto il far suo di mettersi a imitarlo, e nuove fantasie si sono vedute poi alla grottesca più tosto che a ragione o regola, a' loro ornamenti.
Onde gli artefici gli hanno infinito e perpetuo obligo, avendo egli rotti i lacci e le catene delle cose, che per via d'una strada comune eglino di continuo operavano.
Ma poi lo mostrò meglio e volse far conoscere tal cosa nella libreria di San Lorenzo nel medesimo luogo, nel bel partimento delle finestre, nello spartimento del palco e nella maravigliosa entrata di quel ricetto.
Né si vidde mai grazia più risoluta nel tutto e nelle parti come nelle mensole, ne' tabernacoli e nelle cornici, né scala più comoda: nella quale fece tanto bizzarre rotture di scaglioni e variò tanto da la comune usanza delli altri, che ogni uno se ne stupì.
Mandò in quello tempo Pietro Urbano pistolese suo creato a Roma a mettere in opera un Cristo ignudo che tiene la croce, il quale è una figura mirabilissima, che fu posto nella Minerva allato alla cappella maggiore per Messer Antonio Metelli.
Seguì intorno a questo tempo il Sacco di Roma, la cacciata de' Medici di Firenze, nel qual mutamento disegnando chi governava rifortificare quella città, feciono Michelagnolo sopra tutte le fortificazioni commessario generale.
Dove in più luoghi disegnò e fece fortificar la città, e finalmente il poggio di S.
Miniato cinse di bastioni, i quali non colle piote di terra faceva e legnami e stipe alla grossa, come s'usa ordinariamente, ma armadure di sotto intessute di castagni e quercie e di altre buone maniere, et in cambio di piote prese mattoni crudi fatti con capechio e sterco di bestie, spianati con somma diligenza: e perciò fu mandato dalla Signoria di Firenze a Ferrara a vedere le fortificazioni del duca Afonso Primo, e così le sue artiglierie e munizioni; ove ricevé molte cortesie da quel signore, che lo pregò che gli facessi a comodo suo qualche cosa di sua mano, che tutto gli promesse Michelagnolo; il quale tornato andava del continuo anco fortificando la città, e benché avessi questi impedimenti lavorava nondimeno un quadro d'una Leda per quel Duca, colorito a tempera di sua mano, che fu cosa divina, come si dirà a suo luogo, e le statue per le sepolture di San Lorenzo segretamente.
Stette Michelagnolo ancora in questo tempo sul monte di San Miniato forse sei mesi per sollecitare quella fortificazione del monte, perché se 'l nemico se ne fussi impadronito era perduta la città, e così con ogni sua diligenza seguitava queste imprese.
Et in questo tempo seguitò in detta sagrestia l'opera; che di quella restarono parte finite e parte no sette statue, nelle quali con le invenzioni dell'architettura delle sepolture è forza confessare che egli abbia avanzato ogni uomo in queste tre professioni.
Di che ne rendono ancora testimonio quelle statue, che da lui furono abozzate e finite di marmo che in tal luogo si veggono: l'una è la Nostra Donna, la quale nella sua attitudine sedendo manda la gamba ritta adosso alla manca con posar ginocchio sopra ginocchio, et il Putto inforcando le cosce in su quella che è più alta, si storce con attitudine bellissima in verso la madre chiedendo il latte, et ella con tenerlo con una mano e con l'altra apogiandosi si piega per dargliene.
Ancora che non siano finite le parti sue, si conosce nell'essere rimasta abozzata e gradinata nella imperfezione della bozza la perfezzione dell'opera.
Ma molto più fece stupire ciascuno che considerando nel fare le sepolture del duca Giuliano e del duca Lorenzo de' Medici egli pensassi che non solo la terra fussi per la grandezza loro bastante a dar loro onorata sepoltura, ma volse che tutte le parti del mondo vi fossero, e che gli mettessero in mezzo e coprissero il lor sepolcro quattro statue: a uno pose la Notte et il Giorno, a l'altro l'Aurora et il Crepuscolo; le quali statue sono con bellissime forme di attitudini et artificio di muscoli lavorate, bastanti, se l'arte perduta fosse, a ritornarla nella pristina luce.
Vi son fra l'altre statue que' due capitani armati, l'uno il pensoso duca Lorenzo, nel sembiante della saviezza con bellissime gambe talmente fatte che occhio non può veder meglio, l'altro è il duca Giuliano sì fiero con una testa e gola con incassatura di occhi, profilo di naso, sfenditura di bocca e capegli sì divini, mani, braccia, ginocchia e piedi; et insomma tutto quello che quivi fece è da fare che gli occhi né stancare né saziare vi si possono già mai.
Veramente chi risguarda la bellezza de' calzari e della corazza, celeste lo crede e non mortale.
Ma che dirò io della Aurora femina ignuda e da fare uscire il maninconico dell'animo e smarrire lo stile alla scultura? Nella quale attitudine si conosce il suo sollecito levarsi sonnacchiosa, svilupparsi dalle piume, perché pare che nel destarsi ella abbia trovato serrato gli occhi a quel gran Duca.
Onde si storce con amaritudine, dolendosi nella sua continovata bellezza in segno del gran dolore.
E che potrò io dire della Notte, statua non rara, ma unica? Chi è quello che abbia per alcun secolo in tale arte veduto mai statue antiche o moderne così fatte? Conoscendosi non solo la quiete di chi dorme, ma il dolore e la malinconia di chi perde cosa onorata e grande.
Credasi pure che questa sia quella Notte la quale oscuri tutti coloro che per alcun tempo nella scultura e nel disegno pensavano, non dico di passarlo, ma di paragonarlo già mai.
Nella qual figura, quella sonnolenza si scorge che nelle imagini adormentate si vede; per che da persone dottissime furono in lode sua fatti molti versi latini e rime volgari come questi de' quali non si sa l'autore:
La Notte, che tu vedi in sì dolci atti
dormir, fu da uno Angelo scolpita
in questo sasso; e perché dorme, ha vita.
Destala, se non 'l credi, e parleratti.
A' quali in persona della Notte rispose Michelagnolo così:
Grato mi è il sonno, e più l'esser di sasso,
mentre che il danno e la vergogna dura,
non veder, non sentir, m'è gran ventura:
però non mi destar, deh, parla basso.
E certo se la inimicizia ch'è tra la fortuna e la virtù, e la bontà d'una e la invidia dell'altra avesse lasciato condurre tal cosa a fine, poteva mostrare l'arte alla natura, che ella di gran lunga in ogni pensiero l'avanzava.
Lavorando egli con sollecitudine e con amore grandissimo tali opere, crebbe, che pur troppo li impedì il fine, lo assedio di Fiorenza, l'anno 1529; il quale fu cagione che poco o nulla egli più vi lavorasse, avendogli i cittadini dato la cura di fortificare oltra al monte di San Miniato, la terra, come s'è detto.
Conciò sia che avendo egli prestato a quella republica mille scudi e trovandosi de' Nove della milizia ufizio deputato sopra la guerra, volse tutto il pensiero e lo animo suo a dar perfezione a quelle fortificazioni, et avendola stretta finalmente l'esercito intorno, et a poco a poco mancata la speranza degli aiuti e cresciute le dificultà del mantenersi, e parendogli di trovarsi a strano partito, per sicurtà della persona sua si deliberò partire di Firenze et andarsene a Vinezia senza farsi conoscere per la strada a nessuno.
Partì dunque segretamente per la via del monte di San Miniato che nessuno il seppe, menandone seco Antonio Mini suo creato e 'l Piloto orefice amico suo fedele, e con essi portarono sul dosso uno imbottito per uno di scudi ne' giubboni.
Et a Ferrara condotti, riposandosi, avvenne che per gli sospetti della guerra e per la lega dello imperatore e del Papa, che erano intorno a Fiorenza, il duca Alfonso da Este teneva ordini in Ferrara e voleva sapere secretamente dagli osti che alloggiavano, i nomi di tutti coloro che ogni dì alloggiavano, e la listra de' forestieri di che nazione si fossero ogni dì si faceva portare.
Avvenne dunque che essendo Michelagnolo quivi con animo di non esser conosciuto, e con li suoi scavalcato, fu ciò per questa via noto al Duca, che se ne rallegrò per esser divenuto amico suo.
Era quel principe di grande animo e mentre che visse si dilettò continuamente della virtù.
Mandò subito alcuni de' primi della sua corte che per parte di sua eccellenza in palazzo e dove era il Duca lo conducessero, et i cavalli et ogni sua cosa levassero e bonissimo alloggiamento in palazzo gli dessero.
Michelagnolo trovandosi in forza altrui, fu constretto ubidire, e quel che vender non poteva, donare, et al Duca con coloro andò senza levare le robe dell'osteria.
Per che fattogli il Duca accoglienze grandissime e doltosi della sua salvatichezza, et apresso fattogli di ricchi et onorevoli doni, volse con buona provisione in Ferrara fermarlo.
Ma egli non avendo a ciò l'animo intento, non vi volle restare; e pregatolo almeno che mentre la guerra durava non si partisse, il Duca di nuovo gli fece offerte di tutto quello che era in poter suo.
Onde Michelagnolo, non volendo esser vinto di cortesia, lo ringraziò molto, e voltandosi verso i suoi due disse che aveva portato in Ferrara dodicimila scudi, e che se gli bisognava erano al piacer suo insieme con esso lui.
Il Duca lo menò a spasso come aveva fatto altra volta per il palazzo, e quivi gli mostrò ciò che aveva di bello fino a un suo ritratto di mano di Tiziano, il quale fu da lui molto commendato.
Né però lo poté mai fermare in palazzo, perché egli alla osteria volse ritornare, onde l'oste che l'alloggiava ebbe sotto mano dal Duca infinite cose da fargli onore e commissione alla partita sua di non pigliare nulla del suo alloggio.
Indi si condusse a Vinegia, dove desiderando di conoscerlo molti gentiluomini, egli che sempre ebbe poca fantasia che di tale esercizio s'intendessero, si partì di Giudecca, dove era alloggiato, dove si dice che allora disegnò per quella città, pregato dal doge Gritti, il ponte del Rialto, disegno rarissimo d'invenzione e d'ornamento.
Fu richiamato Michelagnolo con gran preghi alla patria, e fortemente raccomandatogli che non volessi abandonar l'impresa e mandatogli salvo condotto, finalmente vinto dallo amore non senza pericolo della vita, ritornò, et in quel mentre finì la Leda che faceva, come si disse, dimandatali dal duca Alfonso, la quale fu portata poi in Francia per Anton Mini suo creato.
Et intanto rimediò al campanile di S.
Miniato, torre che offendeva stranamente il campo nimico con due pezzi di artiglieria, di che voltosi a batterlo con cannoni grossi i bombardieri del campo l'avevon quasi lacero e l'arebbono rovinato; onde Michelagnolo, con balle di lana e gagliardi materassi sospesi con corde, lo armò di maniera, che gli è ancora in piedi.
Dicono ancora che nel tempo dell'assedio gli nacque occasione per la voglia che prima aveva d'un sasso di marmo di nove braccia venuto da Carrara, che per gara e concorrenza fra loro, papa Clemente lo aveva dato a Baccio Bandinelli; ma per essere tal cosa nel publico, Michelagnolo la chiese al gonfaloniere, et esso glielo diede che facesse il medesimo, avendo già Baccio fatto il modello e levato di molta pietra per abozzarlo.
Onde fece Michelagnolo un modello, il quale fu tenuto maraviglioso e cosa molto vaga, ma nel ritorno de' Medici fu restituito a Baccio.
Fatto lo accordo, Baccio Valori comessario del Papa ebbe comissione di far pigliare e mettere al Bargello certi cittadini de' più parziali; e la corte medesima cercò di Michelagnolo a casa, il quale dubitandone s'era fuggito segretamente in casa d'un suo grande amico, ove stette molti giorni nascosto, tanto che passato la furia, ricordandosi papa Clemente della virtù di Michelagnolo, fé fare diligenza di trovarlo, con ordine che non se gli dicessi niente, anzi, che se gli tornassi le solite provisioni, e che egli attendessi all'Opera di S.
Lorenzo mettendovi per proveditore Messer Giovanbatista Figiovanni, antico servidore di casa Medici e priore di S.
Lorenzo.
Dove assicurato Michelagnolo cominciò, per farsi amico Baccio Valori, una figura di tre braccia di marmo che era uno Apollo che si cavava del turcasso una freccia, e lo condusse presso al fine, il quale è oggi nella camera del principe di Fiorenza, cosa rarissima, ancora che non sia finita del tutto.
In questo tempo essendo mandato a Michelagnolo un gentiluomo del duca Alfonso di Ferrara, che aveva inteso che gli aveva fatto qualcosa rara di suo mano, per non perdere una gioia così fatta, arrivato che fu in Fiorenza e trovatolo, gli presentò lettere di credenza da quel signore.
Dove Michelagnolo fattogli accoglienze, gli mostrò la Leda dipinta da lui che abraccia il cigno, e Castore e Polluce che uscivano dell'uovo in certo quadro grande dipinto a tempera col fiato; e pensando il mandato del Duca al nome che sentiva fuori di Michelagnolo che dovessi aver fatto qualche gran cosa, non conoscendo né l'artificio, né l'eccellenza di quella figura, disse a Michelagnolo: "Oh, questa è una poca cosa".
Gli dimandò Michelagnolo che mestiero fussi il suo, sapendo egli che niuno meglio può dar giudizio delle cose che si fanno che coloro che vi sono essercitati pur assai drento.
Rispose ghignando: "Io son mercante", credendo non essere stato conosciuto da Michelagnolo per gentiluomo, e quasi fattosi beffe d'una tal dimanda mostrando ancora insieme sprezzare l'industria de' Fiorentini.
Michelagnolo che aveva inteso benissimo el parlar così fatto, rispose alla prima: "Voi farete questa mala mercanzia per il vostro signore.
Levatevimi dinanzi".
E così in que' giorni Anton Mini suo creato, che aveva due sorelle da maritarsi, gliene chiese, et egli gliene donò volentieri, con la maggior parte de' disegni e cartoni fatti da lui, ch'erano cosa divina.
Così due casse di modegli con gran numero di cartoni finiti per far pitture e parte d'opere fatte, che venutogli fantasia d'andarsene in Francia gli portò seco, e la Leda la vendé al re Francesco per via di mercanti, oggi a Fontanableò, et i cartoni e disegni andaron male, perché egli si morì là in poco tempo e gliene fu rubati, dove si privò questo paese di tante e sì utili fatiche che fu danno inestimabile.
A Fiorenza è ritornato poi il cartone della Leda, che l'ha Bernardo Vecchietti, e così quattro pezzi di cartoni della cappella di ignudi e Profeti condotti da Benvenuto Cellini scultore, oggi appresso agli eredi di Girolamo degli Albizi.
Convenne a Michelagnolo andare a Roma a papa Clemente, il quale benché adirato con lui, come amico della virtù gli perdonò ogni cosa e gli diede ordine che tornasse a Fiorenza e che la libreria e sagrestia di S.
Lorenzo si finissero del tutto, e per abreviare tal opera una infinità di statue che ci andavano compartirono in altri maestri.
Egli n'allogò due al Tribolo, una a Raffaello da Monte Lupo et una a fra' Giovan Agnolo frate de' Servi, tutti scultori, e gli diede aiuto in esse facendo a ciascuno i modelli in bozze di terra, laonde tutti gagliardamente lavorarono et egli ancora alla libreria faceva attendere, onde si finì il palco di quella d'intagli in legnami con suoi modelli, i quali furono fatti per le mani del Carota e del Tasso fiorentini, eccellenti intagliatori e maestri, et ancora di quadro, e similmente i banchi dei libri lavorati allora da Batista del Cinque e Ciapino amico suo, buoni maestri in quella professione.
E per darvi ultima fine fu condotto in Fiorenza Giovanni da Udine divino, il quale per lo stucco della tribuna insieme con altri suo lavoranti et ancora maestri fiorentini, vi lavorò.
Laonde con sollecitudine cercarono di dare fine a tanta impresa.
Per che volendo Michelagnolo far porre in opera le statue, in questo tempo al Papa venne in animo di volerlo appresso di sé, avendo desiderio di fare le facciate della cappella di Sisto, dove egli aveva dipinto la volta a Giulio II, suo nipote; nelle quali facciate voleva Clemente che nella principale dove è l'altare vi si dipignessi il Giudizio Universale, acciò potessi mostrare in quella storia tutto quello che l'arte del disegno poteva fare; e nell'altra dirimpetto sopra la porta principale gli aveva ordinato che vi facessi quando per la sua superbia Lucifero fu dal Cielo cacciato e precipitati insieme nel centro dello inferno tutti quegli Angeli che peccarono con lui.
Delle quali invenzioni molti anni innanzi s'è trovato che aveva fatto schizzi Michelagnolo e varii disegni, un de' quali poi fu posto in opera nella chiesa della Trinità di Roma da un pittore ciciliano, il quale stette molti mesi con Michelagnolo a servirlo e macinar colori.
Questa opera è nella croce della chiesa alla cappella di San Gregorio dipinta a fresco, che ancora che sia mal condotta, si vede un certo che di terribile e di vario nelle attitudini e groppi di quegli ignudi che piovono dal cielo e de' cascati nel centro della terra conversi in diverse forme di diavoli molto spaventate e bizzarre, et è certo capricciosa fantasia.
Mentre che Michelagnolo dava ordine a far questi disegni e cartoni della prima facciata del Giudizio, non restava giornalmente essere alle mani con gli agenti del duca d'Urbino, dai quali era incaricato aver ricevuto da Giulio II sedicimila scudi per la sepoltura, e non poteva soportare questo carico; e desiderava finirla un giorno quantunque e' fussi già vecchio, e volentieri se ne sarebbe stato a Roma, poiché senza cercarla gli era venuta questa occasione per non tornare più a Fiorenza, avendo molta paura del duca Alessandro de' Medici, il quale pensava gli fusse poco amico; per che avendogli fatto intendere per il signor Alessandro Vitegli che dovessi vedere dove fussi miglior sito per fare il castello e cittadella di Fiorenza, rispose non vi volere andare se non gli era comandato da papa Clemente.
Finalmente fu fatto lo accordo di questa sepoltura, e che così finissi in questo modo: che non si facessi più la sepoltura isolata in forma quadra, ma solamente una di quelle facce sole in quel modo che piaceva a Michelagnolo, e che fussi obligato a metterci di sua mano sei statue, et in questo contratto che si fece col duca d'Urbino concesse sua eccellenzia che Michelagnolo fussi obligato a papa Clemente quattro mesi dell'anno o a Fiorenza, o dove più gli paresse adoperarlo; et ancora che paressi a Michelagnolo d'esser quietato, non finì per questo; perché desiderando Clemente di vedere l'ultima pruova delle forze della sua virtù, lo faceva attendere al cartone del Giudizio.
Ma egli mostrando al Papa di essere occupato in quello, non restava però con ogni poter suo, e segretamente lavorava sopra le statue che andavano a detta sepoltura.
Successe l'anno 1533 la morte di papa Clemente, dove a Fiorenza si fermò l'opera della sagrestia e libreria, la quale con tanto studio cercando si finisse, pure rimase imperfetta.
Pensò veramente allora Michelagnolo essere libero e potere attendere a dar fine alla sepoltura di Giulio II; ma essendo creato Paulo Terzo non passò molto che fattolo chiamare a sé, oltra al fargli carezze et offerte, lo ricercò che dovessi servirlo e che lo voleva appresso di sé.
Ricusò questo Michelagnolo, dicendo che non poteva fare, essendo per contratto obligato al duca d'Urbino fin che fussi finita la sepoltura di Giulio.
Il Papa ne prese còllora dicendo: "Io ho avuto trenta anni questo desiderio et ora che son papa non me lo caverò? Io straccerò il contratto e son disposto che tu mi serva a ogni modo".
Michelagnolo, veduto questa risoluzione, fu tentato di partirsi da Roma et in qualche maniera trovar via da dar fine a questa sepoltura.
Tuttavia temendo, come prudente, della grandezza del Papa, andava pensando trattenerlo di sodisfarlo di parole, vedendolo tanto vecchio, fin che qualcosa nascesse.
Il Papa, che voleva far fare qualche opera segnalata a Michelagnolo, andò un giorno a trovarlo a casa con dieci cardinali, dove e' volse veder tutte le statue della sepoltura di Giulio che gli parsono miracolose, e particolarmente il Moisè, che dal cardinale di Mantova fu detto che quella sol figura bastava a onorare papa Giulio, e veduto i cartoni e' disegni che ordinava per la facciata della cappella che gli parvono stupendi, di nuovo il Papa lo ricercò con istanzia che dovessi andare a servirlo, promettendogli che farebbe che 'l duca d'Urbino si contenterà di tre statue e che l'altre si faccin fare con suo modegli a altri eccellenti maestri.
Per il che procurato ciò con gli agenti del Duca Sua Santità, fecesi di nuovo contratto confermato dal Duca, e Michelagnolo spontaneamente si obligò pagar le tre statue e farla murare; che per ciò depositò in sul banco degli Strozzi ducati millecinquecento ottanta, e' quali arebbe potuto fuggire, e gli parve aver fatto assai a essersi disobligato di sì lunga e dispiacevole impresa, la quale egli la fece poi murare in San Piero in Vincola in questo modo: messe su il primo imbasamento intagliato con quattro piedistalli che risaltavano in fuori tanto quanto prima vi doveva stare un prigione per ciascuno, che in quel cambio vi restava una figura di un termine; e perché da basso veniva povero aveva per ciascun termine messo a' piedi una mensola che posava a rovescio in su.
Que' quattro termini mettevano in mezzo tre nicchie, due delle quali erano tonde dalle bande, e vi dovevano andare le Vittorie, in cambio delle quali in una messe Lia figliuola di Laban, per la Vita attiva con uno specchio in mano per la considerazione si deve avere per le azzioni nostre, e nell'altra una grillanda di fiori per le virtù che ornano la vita nostra in vita, e dopo la morte la fanno gloriosa; l'altra fu Rachel sua sorella per la Vita contemplativa con le mani giunte, con un ginocchio piegato, e col volto par che stia elevata in spirito; le quali statue condusse di sua mano Michelagnolo in meno di uno anno.
Nel mezzo è l'altra nicchia, ma quadra, che questa doveva essere nel primo disegno una delle porti che entravano nel tempietto ovato della sepoltura quadrata; questa essendo diventata nicchia, vi è posto in sur un dado di marmo la grandissima e bellissima statua di Moisè, della quale a bastanza si è ragionato.
Sopra le teste de' termini che fan capitello, è architrave, fregio e cornice che risalta sopra i termini, intagliato con ricchi fregi e fogliami uovoli e dentegli et altri ricchi membri per tutta l'opera; sopra la quale cornice si muove un altro ordine pulito senza intagli, di altri ma variati termini, corrispondendo a dirittura a que' primi a uso di pilastri con varie modanature di cornice, e per tutto questo ordine accompagna et obedisce a quegli di sotto.
Vi viene un vano simile a quello che fa nicchia quadra sopra il Moisè, nel quale è posato su' risalti della cornice una cassa di marmo con la statua di papa Giulio a diacere, fatta da Maso dal Bosco scultore, e dritto nella nicchia che vi è, una Nostra Donna che tiene il Figliuolo in collo, condotta da Scherano da Settignano scultore, col modello di Michelagnolo, che sono assai ragionevole statue; et in due altre nicchie quadre sopra la Vita attiva e la contemplativa sono due statue maggiori, un Profeta et una Sibilla a sedere, che ambidue fur fatte da Raffaello da Monte Lupo, come s'è detto nella vita di Baccio suo padre, che fur condotte con poca satisfazione di Michelagnolo.
Ebbe per ultimo finimento questa opera una cornice varia che risaltava, come di sotto, per tutto; e sopra i termini era per fine candelieri di marmo e nel mezzo l'arme di papa Giulio, e sopra il Profeta e la Sibilla nel vano della nicchia vi fece per ciascuna una finestra per comodità di que' frati che ufiziano quella chiesa, avendovi fatto il coro dietro, che servono, dicendo il divino ufizio, a mandare le voci in chiesa et a vedere celebrare.
E nel vero che tutta questa opera è tornata benissimo, ma non già a gran pezzo come era ordinato il primo disegno.
Risolvessi Michelagnolo, poiché non poteva fare altro, di servire papa Paulo, il quale volle che proseguisse l'ordinatogli da Clemente senza alterare niente l'invenzione o concetto che gli era stato dato, avendo rispetto alla virtù di quell'uomo, al quale portava tanto amore e riverenza, che non cercava se non piacergli, come ne aparve segno, che desiderando Sua Santità che sotto il Iona di cappella ove era prima l'arme di papa Giulio II, mettervi la sua, essendone ricerco, per non fare torto a Giulio et a Clemente non ve la volse porre, dicendo non istare bene, e ne restò Sua Santità satisfatto per non gli dispiacere, e conobbe molto bene la bontà di quell'uomo quanto tirava dietro allo onesto et al giusto senza rispetto et adulazione, cosa che loro son soliti provar di rado.
Fece dunque Michelagnolo fare, che non vi era prima, una scarpa di mattoni ben murati e scelti e ben cotti alla facciata di detta cappella, e volse che pendessi dalla somità di sopra un mezzo braccio, perché né polvere né altra bruttura potessi fermare sopra.
Né verrò a particolari della invenzione o componimento di questa storia, perché se n'è ritratte e stampate tante e grandi e piccole, che e' non par necessario perdervi tempo a descriverla.
Basta che si vede che l'intenzione di questo uomo singulare non ha voluto entrare in dipignere altro che la perfetta e proporzionatissima composizione del corpo umano et in diversissime attitudini; non sol questo, ma insieme gli affetti delle passioni e contentezze dell'animo, bastandogli satisfare in quella parte di che è stato superiore a tutti i suoi artefici, e mostra la via della gran maniera e degli ignudi e quanto e' sappi nelle dificultà del disegno, e finalmente ha aperto la via alla facilità di questa arte nel principale suo intento, che è il corpo umano, et attendendo a questo fin solo, ha lassato da parte le vaghezze de' colori, i capricci e le nuove fantasie di certe minuzie e delicatezze, che da molti altri pittori non sono interamente, e forse non senza qualche ragione, state neglette.
Onde qualcuno non tanto fondato nel disegno ha cerco con la varietà di tinte et ombre di colori e con bizzarre varie e nuove invenzioni, et insomma con questa altra via farsi luogo fra i primi maestri.
Ma Michelagnolo stando saldo sempre nella profondità dell'arte, ha mostro a quegli che sanno assai [come] dovevano arrivare al perfetto.
E per tornare alla storia, aveva già condotto Michelagnolo a fine più di tre quarti dell'opera, quando andando papa Paulo a vederla, perché Messer Biagio da Cesena maestro delle cerimonie e persona scrupolosa, che era in cappella col Papa, dimandato quel che gliene paressi, disse essere cosa disonestissima in un luogo tanto onorato avervi fatto tanti ignudi che sì disonestamente mostrano le lor vergogne, e che non era opera da cappella di papa, ma da stufe e d'osterie.
Dispiacendo questo a Michelagnolo e volendosi vendicare, subito che fu partito lo ritrasse di naturale senza averlo altrimenti innanzi, nello inferno nella figura di Minòs con una gran serpe avvolta alle gambe fra un monte di diavoli.
Né bastò il raccomandarsi di Messer Biagio al Papa et a Michelagnolo che lo levassi, che pure ve lo lassò per quella memoria, dove ancor si vede.
Avenne in questo tempo che egli cascò di non poco alto dal tavolato di questa opera e fattosi male a una gamba, per lo dolore e per la còllora da nessuno non volle essere medicato.
Per il che trovandosi allora vivo maestro Baccio Rontini fiorentino, amico suo e medico capriccioso e di quella virtù molto affezionato, venendogli compassione di lui gli andò un giorno a picchiare a casa, e non gli essendo risposto da' vicini né da lui, per alcune vie segrete cercò tanto di salire, che a Michelagnolo di stanza in stanza pervenne, il quale era disperato.
Laonde maestro Baccio fin che egli guarito non fu, non lo volle abandonare già mai, né spicarsegli d'intorno.
Egli di questo male guarito e ritornato all'opera, et in quella di continuo lavorando, in pochi mesi a ultima fine la ridusse dando tanta forza alle pitture di tal opera, che ha verificato il detto di Dante "Morti li morti, i vivi parean vivi".
E quivi si conosce la miseria dei dannati e l'allegrezza de' beati.
Onde scoperto questo Giudizio, mostrò non solo essere vincitore de' primi artefici che lavorato vi avevano, ma ancora nella volta che egli tanto celebrata avea fatta, volse vincere se stesso, et in quella di gran lunga passatosi, superò se medesimo, avendosi egli imaginato il terrore di que' giorni, dove egli fa rappresentare, per più pena di chi non è ben vissuto, tutta la sua Passione; facendo portare in aria da diverse figure ignude la croce, la colonna, la lancia, la spugna, i chiodi e la corona con diverse e varie attitudini molto dificilmente condotte a fine nella facilità loro.
Èvvi Cristo il quale sedendo con faccia orribile e fiera ai dannati si volge maladicendogli, non senza gran timore della Nostra Donna che ristrettasi nel manto ode e vede tanta rovina.
Sonvi infinitissime figure che gli fanno cerchio di Profeti, di Apostoli e particularmente Adamo e Santo Pietro, i quali si stimano che vi sien messi l'uno per l'origine prima delle genti al giudizio, l'altro per essere stato il primo fondamento della cristiana religione.
A' piedi gli è un San Bartolomeo bellissimo, il qual mostra la pelle scorticata.
Èvvi similmente uno ignudo di San Lorenzo, oltra che senza numero sono infinitissimi Santi e Sante et altre figure maschi e femine intorno, appresso e discosto, i quali si abracciano e fannosi festa avendo per grazia di Dio e per guidardone delle opere loro la beatitudine eterna.
Sono sotto i piedi di Cristo i sette Angeli scritti da San Giovanni Evangelista con le sette trombe, che sonando a sentenza, fanno arricciare i capelli a chi gli guarda per la terribilità che essi mostrano nel viso, e fra gl'altri vi son due Angeli che ciascuno ha il libro delle vite in mano; et appresso non senza bellissima considerazione si veggono i sette peccati mortali da una banda combattere in forma di diavoli e tirar giù allo inferno l'anime che volano al cielo, con attitudini bellissimi e scorti molto mirabili.
Né ha restato nella ressurrezione de' morti mostrare al mondo come essi della medesima terra ripiglion l'ossa e la carne, e come da altri vivi aiutati vanno volando al cielo, che da alcune anime già beate è lor porto aiuto, non senza vedersi tutte quelle parti di considerazioni che a una tanta opera come quella si possa stimare che si convenga.
Per che per lui si è fatto studii e fatiche d'ogni sorte, apparendo egualmente per tutta l'opera, come chiaramente e particularmente ancora nella barca di Caronte si dimostra, il quale con attitudine disperata l'anime tirate dai diavoli giù nella barca batte col remo, ad imitazione di quello che espresse il suo famigliarissimo Dante quando disse:
Caron demonio, con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie:
batte col remo qualunque si adagia.
Né si può imaginare quanto di varietà sia nelle teste di que' diavoli, mostri veramente d'inferno.
Nei peccatori si conosce il peccato e la tema insieme del danno eterno.
Et oltra a ogni bellezza straordinaria è il vedere tanta opera sì unitamente dipinta e condotta, che ella pare fatta in un giorno e con quella fine che mai minio nissuno si condusse talmente; e nel vero la moltitudine delle figure, la terribilità e grandezza dell'opera è tale, che non si può descrivere, essendo piena di tutti i possibili umani affetti et avendogli tutti maravigliosamente espressi: avvenga che i superbi, gli invidiosi, gli avari, i lussuriosi e gli altri così fatti si riconoschino agevolmente da ogni bello spirito, per avere osservato ogni decoro, sì d'aria, sì d'attitudini e sì d'ogni altra naturale circostanzia nel figurarli; cosa che, se bene è maravigliosa e grande, non è stata impossibile a questo uomo, per essere stato sempre accorto e savio et avere visto uomini assai et acquistato quella cognizione con la pratica del mondo, che fanno i filosofi con la speculazione e per gli scritti.
Talché chi giudicioso e nella pittura intendente si trova, vede la terribilità dell'arte, et in quelle figure scorge i pensieri e gli affetti, i quali mai per altro che per lui non furono dipinti; così vede ancora quivi come si fa il variare delle tante attitudini negli strani e diversi gesti di giovani, vecchi, maschi, femine: nei quali a chi non si mostra il terrore dell'arte insieme con quella grazia che egli aveva dalla natura? Per che fa scuotere i cuori di tutti quegli che non son saputi, come di quegli che sanno in tal mestiero.
Vi sono gli scorti che paiono di rilievo, e con la unione, la morbidezza e la finezza nelle parti delle dolcezze da lui dipinte mostrano veramente come hanno da essere le pitture fatte da' buoni e veri pittori; e vedesi nei contorni delle cose girate da lui, per una via che da altri che da lui non potrebbono essere fatte, il vero giudizio e la vera dannazione e ressurressione.
E questo, nell'arte nostra, è quello essempio e quella gran pittura mandata da Dio agli uomini in terra, acciò che veggano come il fato fa quando gli intelletti dal supremo grado in terra descendono et hanno in essi infusa la grazia e la divinità del sapere.
Questa opera mena prigioni legati quegli che di sapere l'arte si persuadono, e nel vedere i segni da lui tirati ne' contorni di che cosa essa si sia, trema e teme ogni terribile spirito sia quanto si voglia carico di disegno.
E mentre che si guardano le fatiche dell'opera sua, i sensi si stordiscono solo a pensare che cosa possono essere le altre pitture fatte e che si faranno, poste a tal paragone.
Età veramente felice chiamar si puote e felicità della memoria di chi ha visto veramente stupenda maraviglia del secol nostro! Beatissimo e fortunatissimo Paulo Terzo, poiché Dio consentì che sotto la protezione sua si ripari il vanto che daranno alla memoria sua e di te le penne degli scrittori! Quanto acquistano i meriti tuoi per le sue virtù? Certo fato bonissimo hanno a questo secolo nel suo nascere gli artefici, da che hanno veduto squarciato il velo delle dificultà di quello che si può fare et imaginare nelle pitture e sculture et architetture fatte da lui.
Penò a condurre questa opera otto anni e la scoperse l'anno 1541 (credo io) il giorno di Natale con stupore e maraviglia di tutta Roma, anzi di tutto il mondo, et io che quell'anno andai a Roma per vederla, che ero a Vinezia, ne rimasi stupito.
Aveva papa Paulo fatto fabricare, come s'è detto in Antonio da San Gallo, al medesimo piano una cappella chiamata la Paulina a imitazione di quella di Niccola V, nella quale deliberò che Michelagnolo vi facessi due storie grandi in dua quadroni: che in una fece la conversione di San Paulo con Gesù Cristo in aria e moltitudine di Angeli ignudi con bellissimi moti, e di sotto l'essere sul piano di terra cascato stordito e spaventato Paulo da cavallo con i suoi soldati attorno, chi attento a sollevarlo, altri storditi dalla voce e splendore di Cristo in varie e belle attitudini e movenzie amirati e spaventati si fuggano, et il cavallo che fugendo par che dalla velocità del corso ne meni via chi cerca ritenerlo, e tutta questa storia è condotta con arte e disegno straordinario.
Nell'altra è la crocifissione di San Piero, il quale è confitto ignudo sopra la croce, che è una figura rara; mostrando i crocifissori, mentre hanno fatto in terra una buca, volere alzare in alto la croce, acciò rimanga crocifisso co' piedi all'aria; dove sono molte considerazioni notabili e belle.
Ha Michelagnolo atteso solo, come s'è detto altrove, alla perfezzione dell'arte, per che né paesi vi sono, né alberi, né casamenti, né anche certe varietà e vaghezze dell'arte vi si veggono, perché non vi attese mai, come quegli che forse non voleva abassare quel suo grande ingegno in simil cose.
Queste furono l'ultime pitture condotte da lui d'età d'anni settantacinque, e secondo che egli mi diceva con molta sua gran fatica: avenga che la pittura passato una certa età, e massimamente il lavorare in fresco, non è arte da vecchi.
Ordinò Michelagnolo che con i suoi disegni Perino del Vaga pittore eccellentissimo facessi la volta di stucchi e molte cose di pittura, e così era ancora la volontà di papa Paulo III; che mandandolo poi per la lunga non se ne fece altro, come molte cose restano imperfette, quando per colpa degli artefici inrisoluti, quando de' principi poco accurati a sollecitargli.
Aveva papa Paulo dato principio a fortificare Borgo e condotto molti signori con Antonio da San Gallo a questa dieta, ove volse che intervenissi ancora Michelagnolo, come quelli che sapeva che le fortificazioni fatte intorno al monte di San Miniato a Fiorenza erano state ordinate da lui; e dopo molte dispute fu domandato del suo parere.
Egli che era d'oppinione contraria al San Gallo et a molti altri lo disse liberamente; dove il San Gallo gli disse che era sua arte la scultura e pittura, non le fortificazioni.
Rispose Michelagnolo che di quelle ne sapeva poco, ma che del fortificare, col pensiero che lungo tempo ci aveva avuto sopra, con la sperienzia di quel che aveva fatto, gli pareva sapere più che non aveva saputo né egli né tutti que' di casa sua, mostrandogli in presenzia di tutti che ci aveva fatto molti errori.
E moltiplicando di qua e di là le parole, il Papa ebbe a por silenzio, e non andò molto che e' portò disegnata tutta la fortificazione di Borgo, che aperse gli occhi a tutto quello che s'è ordinato e fatto poi; e fu cagione che il portone di Santo Spirito, che era vicino al fine ordinato dal San Gallo, rimase imperfetto.
Non poteva lo spirito e la virtù di Michelagnolo restare senza far qualcosa, e poiché non poteva dipignere, si messe attorno a un pezzo di marmo per cavarvi drento quattro figure tonde maggiori che 'l vivo, facendo in quello Cristo morto per dilettazione e passar tempo, e come egli diceva, perché l'esercitarsi col mazzuolo lo teneva sano del corpo.
Era questo Cristo come deposto di croce, sostenuto dalla Nostra Donna entrandoli sotto et aiutando con atto di forza Niccodemo fermato in piede e da una delle Marie che lo aiuta, vedendo mancato la forza nella madre, che vinta dal dolore non può reggere; né si può vedere corpo morto simile a quel di Cristo, che cascando con le membra abbandonate fa attiture tutte diferenti non solo degli altri suoi, ma di quanti se ne fecion mai: opera faticosa, rara in un sasso e veramente divina; e questa, come si dirà di sotto, restò imperfetta et ebbe molte disgrazie; ancora ch'egli avessi avuto animo che la dovessi servire per la sepoltura di lui a' piè di quello altare dove e' pensava di porla.
Avvenne che l'anno 1546 morì Antonio da San Gallo, onde mancato chi guidassi la fabbrica di San Piero, furono varii pareri tra i deputati di quella col Papa a chi dovessino darla.
Finalmente credo che Sua Santità spirato da Dio si risolvé di mandare per Michelagnolo; e ricercatolo di metterlo in luogo suo, lo ricusò dicendo, per fuggire questo peso, che l'architettura non era arte sua propria.
Finalmente non giovando i preghi, il Papa gli comandò che l'accettassi; dove con sommo suo dispiacere e contra sua voglia bisognò che egli entrassi a quella impresa.
Et un giorno fra gli altri andando egli in San Piero a vedere il modello di legname che aveva fatto il San Gallo e la fabbrica per esaminarla, vi trovò tutta la setta sangallesca, che fattosi innanzi, il meglio che seppono dissono a Michelagnolo che si rallegravano che il carico di quella fabbrica avessi a essere suo, e che quel modello era un prato che non vi mancherebbe mai da pascere.
"Vuoi dite il vero", rispose loro Michelagnolo, volendo inferire, come e' dichiarò così a un amico, per le pecore e buoi che non intendono l'arte; et usò dir poi publicamente che il San Gallo l'aveva condotta cieca di lumi, e che aveva di fuori troppi ordini di colonne l'un sopra l'altro, e che con tanti risalti, aguglie e tritumi di membri teneva molto più dell'opera todesca, che del buon modo antico o della vaga e bella maniera moderna; et oltre a questo, che e' si poteva risparmiare cinquanta anni di tempo a finirla e più di trecento mila scudi di spesa, e condurla con più maestà e grandezza e facilità, e maggior disegno di ordine, bellezza e comodità.
E lo mostrò poi in un modello che e' fece per ridurlo a quella forma che si vede oggi condotta l'opera, e fé conoscere quel che e' diceva essere verissimo.
Questo modello gli costò venticinque scudi e fu fatto in quindici dì; quello del San Gallo passò, come s'è detto, quattro mila e durò molti anni.
E da questo et altro modo di fare si conobbe che quella fabbrica era una bottega et un trafico da guadagnare, il quale si andava prolongando con intenzione di non finirlo ma' da chi se l'avesse presa per incetta.
Questi modi non piacevono a questo uomo da bene, e per levarsegli d'attorno, mentre che 'l Papa lo forzava a pigliare l'ufizio dello architettore di quella opera, disse loro un giorno apertamente che eglino si aiutassino con gli amici e facessino ogni opera che e' non entrassi in quel governo, perché se gli avesse avuto tal cura, non voleva in quella fabbrica nessuno di loro; le quali parole dette in publico l'ebbero per male, come si può credere, e furono cagione che gli posono tanto odio, il quale crescendo ogni dì nel vedere mutare tutto quell'ordine drento e fuori, che non lo lassorono mai vivere, ricercando ogni dì varie e nuove invenzioni per travagliarlo, come si dirà a suo luogo.
Finalmente papa Paulo gli fece un motu proprio, come lo creava capo di quella fabbrica con ogni autorità e che e' potessi fare e disfare quel che v'era, crescere e scemare e variare a suo piacimento ogni cosa, e volse che il governo de' ministri tutti dependessino dalla volontà sua.
Dove Michelagnolo, visto tanta sicurtà e fede del Papa verso di lui, volse per mostrare la sua bontà che fussi dichiarato nel motu proprio come egli serviva la fabrica per l'amore de Dio e senza alcun premio, se bene il Papa gli aveva prima dato il passo di Parma del fiume, che gli rendeva da secento scudi, che lo perdé nella morte del duca Pier Luigi Farnese e per scambio gli fu dato una cancelleria di Rimini di manco valore, di che non mostrò curarsi, et ancora che il Papa gli mandassi più volte danari per tal provisione, non gli volse accettar mai, come ne fanno fede Messer Alessandro Ruffini, cameriere allora di quel Papa, e Messer Pier Giovanni Aliotti, vescovo di Furlì.
Finalmente fu dal Papa aprovato il modello che aveva fatto Michelagnolo che ritirava San Piero a minor forma, ma sì bene a maggior grandezza, che satisfazione di tutti quelli che hanno giudizio, ancora che certi che fanno professione d'intendenti (ma infatti non sono) non lo aprovano.
Trovò che quattro pilastri principali fatti da Bramante e lassati da Antonio da S.
Gallo, che avevono a reggere il peso della tribuna, erano deboli, e' quali egli parte riempié facendo due chiocciole o lumache da lato, nelle quali sono scale piane, per le quali i somari vi salgano a portare fino in cima tutte le materie, e parimente gli uomini vi possono ire a cavallo infino in sulla cima del piano degli archi.
Condusse la prima cornice sopra gli archi di trevertini, che gira in tondo, che è cosa mirabile, graziosa e molto varia da l'altre, né si può far meglio in quel genere.
Diede principio alle due nicchie grandi della crociera; e dove prima per ordine di Bramante, Baldassarre e Raffaello, come s'è detto, verso Camposanto vi facevano otto tabernacoli, e così fu seguitato poi dal S.
Gallo, Michelagnolo gli ridusse a tre, e di drento tre cappelle, e sopra con la volta di trevertini et ordine di finestre vive di lumi, che hanno forma varia e terribile grandezza, le quali, poi che sono in essere e van fuori in stampa, non solamente tutti quegli di Michelagnolo, ma quegli del San Gallo ancora, non mi metterò a descrivere per non essere necessario altrimenti; basta che egli con ogni accuratezza si messe a far lavorare per tutti que' luoghi dove la fabrica si aveva a mutare d'ordine, a cagione ch'ella si fermassi stabilissima, di maniera che ella non potessi essere mutata mai più da altri: provedimento di savio e prudente ingegno, perché non basta il far bene se non si assicura ancora, poi che la prosunzione e l'ardire di chi gli pare sapere, se gli è creduto più alle parole che a' fatti, e talvolta il favore di chi non intende, può far nascere di molti inconvenienti.
Aveva il populo romano col favore di quel Papa desiderio di dare qualche bella, utile e commoda forma al Campidoglio, et accomodarlo di ordini, di salite, di scale a sdruccioli e con iscaglioni, e con ornamenti di statue antiche che vi erano per abellire quel luogo; e fu ricerco perciò di consiglio Michelagnolo, il quale fece loro un bellissimo disegno e molto ricco, nel quale da quella parte dove sta il Senatore, che è verso levante, ordinò di trevertini una facciata et una salita di scale che da due bande salgono per trovare un piano, per il quale s'entra nel mezzo della sala di quel palazzo, con ricche rivolte piene di balaustri varii che servano per appoggiatoi e per parapetti.
Dove per arricchirla dinanzi vi fece mettere i due fiumi a ghiacere, antichi, di marmo sopra a alcuni basamenti, uno de' quali è il Tevere, l'altro è il Nilo, di braccia nove l'uno, cosa rara, e nel mezzo ha da ire in una gran nicchia un Giove.
Seguitò dalla banda di mezzogiorno, dove è il palazzo de' Conservatori, per riquadrarlo, una ricca e varia facciata con una loggia da' piè piena di colonne e nicchie, dove vanno molte statue antiche, et attorno sono varii ornamenti e di porte e finestre, che già n'è posto una parte.
E dirimpetto a questa ne ha a seguitare un'altra simile di verso tramontana sotto Araceli; e dinanzi una salita di bastoni di verso ponente, qual sarà piana con un ricinto e parapetto di balaustri, dove sarà l'entrata principale con un ordine e basamenti, sopra i quali va tutta la nobiltà delle statue di che oggi è così ricco il Campidoglio.
Nel mezzo della piazza in una basa in forma ovale è posto il cavallo di bronzo tanto nominato, su 'l quale è la statua di Marco Aurelio, la quale il medesimo papa Paulo fece levare dalla piazza di Laterano ove l'aveva posta Sisto Quarto.
Il quale edifizio riesce tanto bello oggi, che egli è degno d'essere conumerato fra le cose degne che ha fatto Michelagnolo, et è oggi guidato per condurlo a fine da Messer Tomao de' Cavalieri gentiluomo romano, che è stato et è de' maggiori amici che avessi mai Michelagnolo, come si dirà più basso.
Aveva papa Paulo Terzo fatto tirare innanzi al San Gallo, mentre viveva, il palazzo di casa Farnese, et avendovisi a porre in cima il cornicione per il fine del tetto della parte di fuori, volse che Michelagnolo con suo disegno et ordine lo facessi, il quale non potendo mancare a quel Papa, che lo stimava et accarezzava tanto, fece fare un modello di braccia sei di legname della grandezza che aveva a essere, e quello in su uno de' canti del palazzo fé porre, che mostrassi in effetto quel che aveva a essere l'opera, che piaciuto a Sua Santità et a tutta Roma, è stato poi condotto quella parte che se ne vede a fine, riuscendo il più bello e 'l più vario di quanti se ne sieno mai visti, o antichi, o moderni; e da questo, poiché 'l San Gallo morì, volse il Papa che avessi Michelagnolo cura parimente di quella fabrica, dove egli fece il finestrone di marmo con colonne bellissime di mischio che è sopra la porta principale del palazzo con un'arme grande bellissima e varia di marmo di papa Paulo Terzo fondatore di quel palazzo.
Seguitò di dentro, dal primo ordine in su del cortile di quello, gli altri due ordini con le più belle varie e graziose finestre, et ornamenti, et ultimo cornicione che si sien visti mai; là dove per le fatiche et ingegno di quell'uomo, è oggi diventato il più bel cortile di Europa.
Egli allargò e fé maggior la sala grande, e diede ordine al ricetto dinanzi, e con vario e nuovo modo di sesto in forma di mezzo ovato fece condurre le volte di detto ricetto, e perché s'era trovato in quell'anno alle terme Antoniane un marmo di braccia sette per ogni verso, nel quale era stato dagli antichi intagliato Ercole che sopra un monte teneva il toro per le corna con un'altra figura in aiuto suo, et intorno a quel monte varie figure di pastori, ninfe et altri animali, opera certo di straordinaria bellezza per vedere sì perfette figure in un sasso sodo e senza pezzi, che fu giudicato servire per una fontana, Michelagnolo consigliò che si dovessi condurre nel secondo cortile e quivi restaurarlo per fargli nel medesimo modo gettare acque, che tutto piacque.
La quale opera è stata fino a oggi da que' signori Farnesi fatta restaurare con diligenzia per tale effetto.
Et allora Michelagnolo ordinò che si dovessi a quella dirittura fare un ponte che attraversassi il fiume del Tevere, acciò si potessi andare da quel palazzo in Trastevere a un altro lor giardino e palazzo, perché per la dirittura della porta principale che volta in Campo di Fiore si vedessi a una ochiata il cortile, la fonte, strada Iulia et il ponte e la bellezza dell'altro giardino, fino all'altra porta che riusciva nella strada di Trastevere, cosa rara e degna di quel pontefice e della virtù, giudizio e disegno di Michelagnolo.
E perché l'anno 1547 morì Bastiano Viniziano frate del Piombo, e disegnando papa Paulo che quelle statue antiche per il suo palazzo si restaurassino, Michelagnolo favorì volentieri Guglielmo dalla Porta scultore milanese, il quale giovane di speranza dal sudetto fra' Bastiano era stato raccomandato a Michelagnolo, che piaciutoli il far suo, lo messe innanzi a papa Paulo per acconciare dette statue, e la cosa andò sì innanzi che gli fece dare Michelagnolo l'ufizio del Piombo; che dato poi ordine al restaurarle, come se ne vede ancora oggi in quel palazzo, dove fra' Guglielmo [scordatosi] de' benefizii ricevuti, fu poi uno de' contrari a Michelagnolo.
Successe l'anno 1549 la morte di papa Paulo Terzo, dove dopo la creazione di papa Giulio Terzo, il cardinale Farnese ordinò fare una gran sepoltura a papa Paulo suo per le mani di fra' Guglielmo, il quale avendo ordinato di metterla in San Piero sotto il primo arco della nuova chiesa sotto la tribuna, che impediva il piano di quella chiesa e non era in verità il luogo suo, e perché Michelagnolo consigliò giudiziosamente che là non poteva né doveva stare, il frate gli prese odio credendo che lo facessi per invidia, ma ben s'è poi accorto che gli diceva il vero e che il mancamento è stato da lui che ha avuto la comodità e non l'ha finita, come si dirà altrove, et io ne fo fede, avvenga che l'anno 1550 io fussi per ordine di papa Giulio Terzo andato a Roma a servirlo, e volentieri per godermi Michelagnolo, fui per tal consiglio adoperato; dove Michelagnolo desiderava che tal sepoltura si mettessi in una delle nicchie dove è oggi la colonna degli spiritati, che era il luogo suo, et io mi ero adoperato che Giulio Terzo si risolveva, per conrispondenza di quella opera, far la sua nell'altra nicchia col medesimo ordine che quella di papa Paulo; dove il frate che la prese in contrario fu cagione che la sua non s'è mai poi finita e che quella di quello altro Pontefice non si facessi, che tutto fu pronosticato da Michelagnolo.
Voltossi papa Giulio a far fare quell'anno nella chiesa di San Piero a Montorio una cappella di marmo con dua sepolture per Antonio cardinale da' Monti suo zio e Messer Fabbiano, avo del Papa, primo principio della grandezza di quella casa illustre.
Della quale avendo il Vasari fatto disegni e modelli, papa Giulio, che stimò sempre la virtù di Michelagnolo et amava il Vasari, volse che Michelagnolo ne facessi il prezzo fra loro, et il Vasari suplicò il Papa a far che Michelagnolo ne pigliassi la protezione, e perché il Vasari aveva proposto per gl'intagli di quella opera Simon Mosca e per le statue Raffael Monte Lupo, consigliò Michelagnolo che non vi si facessi intagli di fogliami né manco ne' membri dell'opera di quadro, dicendo che dove vanno figure di marmo non ci vuole essere altra cosa.
Per il che il Vasari dubitò che non lo facessi perché l'opera rimanessi povera; et in effetto poi quando e' la vedde finita confessò che gli avessi avuto giudizio, e grande.
Non volse Michelagnolo che il Monte Lupo facessi le statue, avendo visto quanto s'era portato male nelle sue della sepoltura di Giulio Secondo, e si contentò più presto ch'elle fussino date a Bartolomeo Ammannati, quale il Vasari aveva messo innanzi, ancor che il Buonarroto avessi un poco di sdegno particolare seco e con Nanni di Baccio Bigio, nato, se ben si considera, da legger cagione, che essendo giovanetti, mossi dall'afezione dell'arte più che per offenderlo, avevano industriosamente, entrando in casa, levati a Anton Mini creato di Michelagnolo molte carte disegnate, che di poi per via del magistrato de' signori Otto gli furon rendute tutte, né gli volse, per intercessione di Messer Giovanni Norchiati canonico di San Lorenzo amico suo, fargli dare altro gastigo.
Dove il Vasari, ragionandogli Michelagnolo di questa cosa, gli disse ridendo che gli pareva che non meritassino biasimo alcuno e che s'egli avessi potuto, arebbe non solamente toltogli parecchi disegni, ma l'arebbe spogliato di tutto quel che gli avessi potuto avere di suo mano solo per imparare l'arte, che s'ha da volere bene a quegli che cercan la virtù, e premiargli ancora, perché non si hanno questi a trattare come quegli che vanno rubando i danari, le robe e l'altre cose importanti.
Or così si recò la cosa in burla.
Fu ciò cagione che a quella opera di Montorio si diede principio, e che il medesimo anno il Vasari e lo Ammannato andorono a far condurre i marmi da Carrara a Roma per far detto lavoro.
Era in quel tempo ogni giorno il Vasari con Michelagnolo; dove una mattina il Papa dispensò per amorevolezza ambidue che facendo le sette chiese a cavallo, ch'era l'anno santo, ricevessino il perdono a doppio; dove nel farle ebbono fra l'una e l'altra chiesa molti utili e begli ragionamenti dell'arte et industriosi, che 'l Vasari ne distese un dialogo, che a migliore occasione si manderà fuori con altre cose attenente all'arte.
Autenticò papa Giulio Terzo quell'anno il motu proprio di papa Paulo Terzo sopra la fabbrica di San Piero, et ancora che gli fussi detto molto male dai fautori della setta sangallesca per conto della fabbrica di San Piero, per allora non ne volse udire niente quel Papa avendogli (come era vero) mostro il Vasari ch'egli aveva dato la vita a quella fabrica, et operò con Sua Santità che quella non facessi cosa nessuna attenente al disegno senza il giudizio suo, che l'osservò sempre: perché né alla vigna Iulia fece cosa alcuna senza il suo consiglio, né in Belvedere, dove si rifece la scala che v'è ora in cambio della mezza tonda che veniva innanzi, saliva otto scaglioni et altri otto in giro entrava in dentro, fatta già da Bramante, che era posta nella maggior nicchia in mezzo Belvedere.
Michelagnolo vi disegnò e fé fare quella quadra coi balaustri di preperigno che vi è ora, molto bella.
Aveva il Vasari quell'anno finito di stampare l'opera delle vite de' pittori, scultori et architettori in Fiorenza, e di niuno de' vivi aveva fatto la vita, ancor che ci fussi de' vecchi, se non di Michelagnolo; e così gli presentò l'opera, che la ricevé con molta allegrezza, dove molti ricordi di cose aveva avuto dalla voce sua il Vasari come da artefice più vecchio e di giudizio; e non andò guari che avendola letta gli mandò Michelagnolo il presente sonetto fatto da lui, il quale mi piace in memoria delle sue amorevolezze porre in questo luogo:
Se con lo stile o coi colori avete
alla natura pareggiato l'arte,
anzi a quella scemato il pregio in parte,
che 'l bel di lei più bello a noi rendete,
poi che con dotta man posto vi sete
a più degno lavoro, a vergar carte,
quel che vi manca a lei di pregio in parte
nel dar vita ad altrui tutta togliete.
Che se secolo alcuno omai contese
in far bell'opre, almen cedale, poi
che convien ch'al prescritto fine arrive.
Or le memorie altrui, già spente, accese
tornando, fate or che fien quelle e voi,
mal grado d'esse, eternalmente vive.
Partì il Vasari per Fiorenza, e lassò la cura a Michelagnolo del fare fondare a Montorio.
Era Messer Bindo Altoviti, allora Consolo della nazione fiorentina, molto amico del Vasari, che in su questa occasione gli disse che sarebbe bene di far condurre questa opera nella chiesa di San Giovanni de' fiorentini, e che ne aveva già parlato con Michelagnolo, il quale favorirebbe la cosa e sarebbe questo cagione di dar fine a quella chiesa.
Piacque questo a Messer Bindo, et essendo molto famigliare del Papa gliene ragionò caldamente, mostrando che sarebbe stato bene che le sepolture e la cappella che Sua Santità faceva fare per Montorio l'avesse fatte nella chiesa di San Giovanni de' fiorentini, et aggiugnendo che ciò sarebbe cagione che con questa occasione e sprone la nazione farebbe spesa tale, che la chiesa arebbe la sua fine; e se Sua Santità facesse la cappella maggiore, gli altri mercanti farebbono sei cappelle, e poi di mano in mano il restante.
Là dove il Papa si voltò d'animo, et ancora che ne fussi fatto modello e prezzo, andò a Montorio e mandò per Michelagnolo, al quale ogni giorno il Vasari scriveva et aveva secondo l'occasione delle faccende risposta da lui.
Scrisse adunque al Vasari Michelagnolo, al primo dì d'agosto 1550, la mutazione che aveva fatto il Papa, e son queste le parole istesse di sua mano:
Messer Giorgio mio caro.
Circa al rifondare a San Piero a Montorio come il Papa non volse intendere non ve ne scrissi niente, sapendo voi essere avisato dall'uomo vostro di qua.
Ora mi accade dirvi quello che segue, e questo è che ier mattina, sendo il Papa andato a detto Montorio, mandò per me, riscontràlo in sul ponte che tornava: ebbi lungo ragionamento seco circa le sepolture allogatevi, et all'ultimo mi disse che era risoluto non volere mettere dette sepolture in su quel monte, ma nella chiesa de' fiorentini; richiesemi di parere e di disegno, et io ne lo confortai assai, stimando che per questo mezzo detta chiesa s'abbia a finire.
Circa le vostre tre ricevute non ho penna da rispondere a tante altezze, ma se avessi caro di essere in qualche parte quello che mi fate, non l'arei caro per altro se non perché voi avessi un servidore che valessi qualcosa.
Ma io non mi maraviglio, sendo voi risucitatore di uomini morti, che voi allunghiate vita ai vivi, o vero che i mal vivi furiate per infinito tempo alla morte.
E per abreviare, io son tutto, come son, vostro.
Michelagnolo Buonaruoti in Roma.
Mentre che queste cose si travagliavano e che la nazione cercava di far danari, nacquero certe difficultà, per che non conclusero niente, e così la cosa si raffreddò.
Intanto avendo già fatto il Vasari e l'Ammannato cavare a Carrara tutti i marmi, se ne mandò a Roma gran parte, e così l'Ammannato con essi, scrivendo per lui il Vasari al Buonaruoto che facessi intendere al Papa dove voleva questa sepoltura, e che avendo l'ordine facessi fondare, sùbito che Michelagnolo ebbe la lettera, parlò al nostro signore e scrisse al Vasari questa resoluzione di man sua:
Messer Giorgio mio caro.
Sùbito che Bartolomeo fu giunto qua, andai a parlare al Papa, e, visto che voleva fare rifondare a Montorio per le sepolture, provveddi d'un muratore di San Piero.
El Tantecose lo seppe e volsevi mandare uno a suo modo; io per non combattere con chi dà le mosse a' venti, mi son tirato adreto, perché essendo uomo leggeri, non vorrei essere trasportato in qualche macchia.
Basta che nella chiesa de' fiorentini non mi pare s'abbia più a pensare.
Tornate presto e state sano.
Altro non mi accade.
Addì 13 di ottobre 1550.
Chiamava Michelagnolo il Tantecose monsignor di Furlì, perché voleva fare ogni cosa.
Essendo maestro di camera del Papa, provedeva per le medaglie, gioie, camei e figurine di bronzo, pitture, disegni, e voleva che ogni cosa dipendessi da lui.
Volentieri fuggiva Michelagnolo questo uomo perché aveva fatto sempre ufizii contrarii al bisogno di Michelagnolo, e perciò dubitava non essere da l'ambizione di questo uomo trasportato in qualche macchia.
Basta che la nazione fiorentina perse per quella chiesa una bellissima occasione, che Dio sa quando la racquisterà già mai, et a me ne dolse infinitamente.
Non ho voluto mancare di fare questa breve memoria perché si vegga che questo uomo cercò di giovare sempre alla nazione sua et agli amici suoi et all'arte.
Né fu tornato a pena il Vasari a Roma, che innanzi che fussi il principio dell'anno 1551, la setta sangallesca aveva ordinato contro Michelagnolo un trattato, che il Papa dovessi fare congregazione in San Pietro, e ragunare i fabriceri e tutti quegli che avevono la cura per mostrare con false calumnie a Sua Santità che Michelagnolo aveva guasto quella fabrica: perché avendo egli già murato la nicchia del re, dove sono le tre cappelle, e condottole con le tre finestre sopra, né sapendo quel che si voleva fare nella volta, con giudizio debole avevano dato ad intendere al cardinale Salviati vecchio et a Marcello Cervino, che fu poi papa, che San Piero rimaneva con poco lume.
Là dove ragunati tutti, il Papa disse a Michelagnolo che i deputati dicevano che quella nicchia arebbe reso poco lume.
Gli rispose: "Io vorrei sentire parlare questi deputati".
Il cardinale Marcello rispose: "Siàn noi".
Michelagnolo gli disse: "Monsignore, sopra queste finestre, nella volta che s'ha a fare di trevertini ne va tre altre".
"Voi non ce l'avete mai detto" disse il cardinale, e Michelagnolo soggiunse: "Io non sono, né manco voglio essere obligato a dirlo, né alla signoria vostra né a nessuno, quel che io debbo o voglio fare; l'ufizio vostro è di far venire danari et avere loro cura dai ladri, et a' disegni della fabbrica ne avete a lasciare il carico a me".
E voltossi al Papa e disse: "Padre Santo, vedete quel che io guadagno, che se queste fatiche che io duro non mi giovano all'anima, io perdo tempo e l'opera".
Il Papa, che lo amava, gli messe le mani in sulle spalle e disse: "Voi guadagnate per l'anima e per il corpo, non dubitate", e per aversegli saputo levare dinanzi, gli crebbe il Papa amore infinitamente e comandò a lui et al Vasari che 'l giorno seguente amendue fussino alla vigna Iulia; nel qual luogo ebbe molti ragionamenti seco, che condussero quell'opera quasi alla bellezza che ella è, né faceva né deliberava cosa nessuna di disegno senza il parere e giudizio suo.
Et in fra l'altre volse, perché egli ci andava spesso col Vasari, stando Sua Santità intorno alla fonte dell'Acqua Vergine con dodici cardinali, arrivato Michelagnolo volse (dico) il Papa per forza che Michelagnolo gli sedessi allato, quantunque egli umilissimamente il recusassi, onorando lui sempre, quanto è possibile, la virtù sua.
Fecegli fare un modello d'una facciata per un palazzo che Sua Santità desiderava fare allato a San Rocco, volendosi servire del mausoleo di Augusto per il resto della muraglia; che non si può vedere per disegno di facciata, né il più vario, né il più ornato, né il più nuovo di maniera e di ordine, avenga, come s'è visto in tutte le cose sue, che e' non s'è mai voluto obligare a legge, o antica, o moderna di cose d'architettura, come quegli che ha auto l'ingegno atto a trovare sempre cose nuove e varie e non punto men belle.
Questo modello è oggi appresso il duca Cosimo de' Medici, che gli fu donato da papa Pio Quarto, quando gli andò a Roma, che lo tiene fra le sue cose più care.
Portò tanto rispetto questo Papa a Michelagnolo, che del continuo prese la sua protezione contro a cardinali et altri che cercavano calunniarlo, e volse che sempre per valenti e reputati che fussino gli artefici andassino a trovarlo a casa, e gli ebbe tanto rispetto e reverenza, che non si ardiva Sua Santità per non gli dare fastidio a richiederlo di molte cose, che Michelagnolo ancor che fussi vecchio poteva fare.
Aveva Michelagnolo fino nel tempo di Paulo Terzo per suo ordine dato principio a far rifondare il ponte Santa Maria di Roma, il quale per il corso dell'acqua continuo e per l'antichità sua era indebolito e rovinava.
Fu ordinato da Michelagnolo per via di casse il rifondare e fare diligenti ripari alle pile, e di già ne aveva condotto a fine una gran parte e fatto spese grosse in legnami e trevertini a benefizio di quella opera, e venendosi nel tempo di Giulio Terzo in congregazione coi cherici di camera in pratica di dargli fine, fu proposto fra loro da Nanni di Baccio Bigio architetto, che con poco tempo e somma di danari si sarebbe finito, allogando in cottimo a lui; e con certo modo allegavano sotto spezie di bene per isgravar Michelagnolo, perché era vecchio e che non se ne curava, e stando così la cosa non se ne verrebbe mai a fine.
Il Papa, che voleva poche brighe, non pensando a quel che poteva nascere, diede autorità a' cherici di camera che come cosa loro n'avessino cura, i quali lo dettono poi, senza che Michelagnolo ne sapessi altro, con tutte quelle materie con patto libero a Nanni; il quale non attese a quelle fortificazioni, come era necessario a rifondarlo, ma lo scaricò di peso per vendere gran numero di trevertini di che era rifiancato e solicato anticamente il ponte, che venivano a gravarlo e facevanlo più forte e sicuro e più gagliardo, mettendovi in quel cambio materia di ghiaie et altri getti, che non si vedeva alcun difetto di drento, e di fuori vi fece sponde et altre cose, che a vederlo pareva rinovato tutto, ma indebolito totalmente e tutto assottigliato.
Seguì da poi cinque anni dopo, che venendo la piena del diluvio l'anno 1557, egli rovinò di maniera, che fece conoscere il poco giudizio de' cherici di camera, e 'l danno che ricevé Roma per partirsi dal consiglio di Michelagnolo, il quale predisse questa sua rovina molte volte a' suoi amici et a me, che mi ricordo passandovi insieme a cavallo che mi diceva: "Giorgio, questo ponte ci triema sotto; sollecitiamo il cavalcare, che non rovini in mentre ci siàn su".
Ma tornando al ragionamento di sopra, finito che fu l'opera di Montorio e con molta mia satisfazione, io tornai a Fiorenza per servizio del duca Cosimo, che fu l'anno 1554.
Dolse a Michelagnolo la partita del Vasari e parimente a Giorgio, avenga che ogni giorno que' suoi aversarii ora per una via or per un'altra lo travagliavano: per il che non mancarono giornalmente l'uno a l'altro scriversi, e l'anno medesimo d'aprile dandogli nuova il Vasari che Lionardo nipote di Michelagnolo aveva avuto un figliuolo mastio, e con onorato corteo di donne nobilissime l'avevano accompagnato al battesimo, rinovando il nome del Buonaruoto, Michelagnolo rispose in una lettera al Vasari queste parole:
Giorgio amico caro.
Io ho preso grandissimo piacere della vostra, visto che pur vi ricordate del povero vecchio, e più per esservi trovato al trionfo, che mi scrivete d'aver visto rinascere un altro Buonaruoto, del quale aviso vi ringrazio quanto so e posso; ma ben mi dispiace tal pompa, perché l'uomo non dee ridere quando il mondo tutto piange.
Però mi pare che Lionardo non abbia a fare tanta festa d'uno che nasce, con quella allegrezza che s'ha a serbare alla morte di chi è ben vissuto.
Né vi maravigliate se non rispondo subito: lo fo per non parere mercante.
Ora io vi dico che per le molte lode, che per detta mi date, se io ne meritassi sol una, mi parrebbe, quando io mi vi detti in anima et in corpo, avervi dato qualcosa, et aver sadisfatto a qualche minima parte di quel che io vi son debitore; dove vi ricognosco ogni ora creditore di molte più che io non ho da pagare.
E perché son vecchio oramai non spero in questa, ma nell'altra vita potere pareggiare il conto: però vi prego di pazienzia, e son vostro, e le cose di qua stan pur così.
Aveva già nel tempo di Paulo Terzo mandato il duca Cosimo il Tribolo a Roma per vedere se egli avesse potuto persuadere Michelagnolo a ritornare a Fiorenza, per dar fine alla sagrestia di San Lorenzo.
Ma scusandosi Michelagnolo che invecchiato non poteva più il peso delle fatiche, e con molte ragioni lo escluse, che non poteva partirsi di Roma.
Onde il Tribolo dimandò finalmente della scala della libreria di San Lorenzo, della quale Michelagnolo aveva fatto fare molte pietre, e non ce n'era modello né certezza appunto della forma; e quantunque ci fussero segni in terra in un mattonato et altri schizzi di terra, la propria et ultima risoluzione non se ne trovava.
Dove per preghi che facessi il Tribolo e ci mescolassi il nome del Duca, non rispose mai altro, se non che non se ne ricordava.
Fu dato dal duca Cosimo ordine al Vasari che scrivesse a Michelagnolo che gli mandassi a dire che fine avesse a avere questa scala; ché forse per l'amicizia et amore che gli portava, doverebbe dire qualcosa, che sarebbe cagione che venendo tal risoluzione ella si finirebbe.
Scrisse il Vasari a Michelagnolo l'animo del Duca, e che tutto quel che si aveva a condurre toccherebbe a lui esserne lo essecutore, il che farebbe con quella fede che sapeva che e' soleva aver cura delle cose sue.
Per il che mandò Michelagnolo l'ordine di far detta scala in una lettera di sua mano addì 28 di settembre 1555:
Messer Giorgio amico caro.
Circa la scala della libreria, di che m'è stato tanto parlato, crediate che se io mi potessi ricordare come io l'avevo ordinata, che io non mi farei pregare.
Mi torna bene nella mente come un sogno una certa scala, ma non credo che sia appunto quella che io pensai allora, perché mi torna cosa goffa; pure la scriverò qui, cioè che i' togliessi una quantità di scatole aovate di fondo d'un palmo l'una, ma non d'una lunghezza e larghezza, e la maggiore e prima ponessi in sul pavimento, lontana dal muro dalla porta tanto quanto volete che la scala sia dolce o cruda; et un'altra ne mettessi sopra questa che fussi tanto minore per ogni verso, che in sulla prima di sotto avanzassi tanto piano, quanto vuole il piè per salire, diminuendole e ritirandole verso la porta fra l'una e l'altra, sempre per salire, e che la diminuzione dell'ultimo grado sia quant'è 'l vano della porta, e detta parte di scala aovata abbi come dua ale, una di qua et una di là, che vi seguitino i medesimi gradi e non aovati.
Di queste serva il mezzo per il signore dal mezzo in su di detta scala, e rivolte di dette alie ritornino al muro; dal mezzo in giù insino in sul pavimento si discostino con tutta la scala dal muro circa tre palmi, in modo che l'imbasamento del ricetto non sia occupato in luogo nessuno, e resti libera ogni faccia.
Io scrivo cosa da ridere, ma so ben che voi troverete cosa al proposito.
Scrisse ancora Michelagnolo in que' dì al Vasari che essendo morto Giulio Terzo, e creato Marcello, la setta gli era contro, per la nuova creazione di quel Pontefice cominciò di nuovo a travagliarlo; per il che sentendo ciò il Duca, e dispiacendogli questi modi, fece scrivere a Giorgio e dirli che doveva partirsi di Roma e venirsene a stare in Fiorenza, dove quel Duca non desiderava altro, se non talvolta consigliarsi per le sue fabriche secondo i suoi disegni e che arebbe da quel signore tutto quello che e' desiderava, senza far niente di sua mano.
E di nuovo gli fu per Messer Lionardo Marinozzi cameriere segreto del duca Cosimo portate lettere scritte da sua eccellenza e così dal Vasari.
Dove essendo morto Marcello e creato Paulo Quarto, dal quale di nuovo gli era stato, in quel principio che egli andò a baciare il piede, fatte offerte assai, in desiderio della fine della fabbrica di San Pietro, e l'obligo, che gli pareva avervi, lo tenne fermo, e pigliando certe scuse scrisse al Duca che non poteva per allora servirlo, et una lettera al Vasari con queste parole proprie:
Messer Giorgio amico caro.
Io chiamo Iddio in testimonio, come io fu' contra mia voglia con grandissima forza messo da papa Paulo Terzo nella fabbrica di San Pietro di Roma dieci anni sono; e se si fussi seguitato fino a oggi di lavorare in detta fabbrica come si faceva allora, io sarei ora a quello di detta fabbrica, ch'io desidererei tornarmi costà; ma per mancamento di danari la s'è molto allentata, et allentasi quando l'è giunta in più faticose e dificil parti, in modo che abandonandola ora non sarebbe altro che con grandissima vergogna e peccato perdere il premio delle fatiche che io ho durate in detti dieci anni per l'amor de Dio.
Io vi ho fatto questo discorso per risposta della vostra, e perché ho una lettera del Duca, m'ha fatto molto maravigliare che sua signoria si sia degnata a scrivere con tanta dolcezza.
Ne ringrazio Iddio e sua eccellenza quanto so e posso.
Io esco di proposito, perché ho perduto la memoria e 'l cervello, e lo scrivere m'è di grande affanno, perché non è mia arte.
La conclusione è questa: di farvi intendere quel che segue dello abandonare la sopra detta fabbrica, e partirsi di qua: la prima cosa contenterei parecchi ladri, e sarei cagione della sua rovina, e forse ancora del serrarsi per sempre.
Seguitando di scrivere Michelagnolo a Giorgio, gli disse per escusazione sua col Duca, che avendo casa e molte cose a comodo suo in Roma, che valevano migliaia di scudi, oltra a l'esser indisposto della vita per renella, fianco e pietra, come hanno tutti e' vecchi e come ne poteva far fede maestro Eraldo suo medico, del quale si lodava dopo Dio avere la vita da lui, per che per queste cagioni non poteva partirsi, e che finalmente non gli bastava l'animo se non di morire.
Raccomandavasi al Vasari come per più altre lettere, che ha di suo, che lo raccomandassi al Duca che gli perdonassi oltra a quello che (come ho detto) gli scrisse al Duca in escusazione sua.
E se Michelagnolo fussi stato da poter cavalcare sarebbe subito venuto a Fiorenza, onde credo che non si sarebbe saputo poi partire per ritornarsene a Roma, tanto lo mosse la tenerezza e l'amore che portava al Duca; et intanto attendeva a lavorare in detta fabbrica in molti luoghi, per fermarla ch'ella non potesse essere più mossa.
In questo mentre alcuni gli avevon referto che papa Paulo Quarto era d'animo di fargli acconciare la facciata della cappella dove è il Giudizio Universale, perché diceva che quelle figure mostravano le parte vergognose troppo disonestamente: là dove fu fatto intendere l'animo del Papa a Michelagnolo il quale rispose: "Dite al Papa che questa è piccola faccenda, e che facilmente si può acconciare; che acconci egli il mondo, che le pitture si acconciano presto".
Fu tolto a Michelagnolo l'ufizio della cancelleria di Rimini; non volse mai parlare al Papa, che non sapeva la cosa, il quale dal suo coppiere gli fu levato col volergli fare dare per conto della fabbrica di San Piero scudi cento il mese, che fattogli portare una mesata a casa, Michelagnolo non gli accettò.
L'anno medesimo gli nacque la morte di Urbino suo servidore, anzi come si può chiamare e come aveva fatto, suo compagno: questo venne a stare con Michelagnolo a Fiorenza l'anno 1530, finito l'assedio, quando Antonio Mini suo discepolo andò in Francia, et usò grandissima servitù a Michelagnolo, tanto che in ventisei anni quella servitù e dimestichezza fece che Michelagnolo lo fé ricco e l'amò tanto, che così vecchio in questa sua malattia lo servì e dormiva la notte vestito a guardarlo.
Per il che dopo che fu morto, il Vasari per confortarlo gli scrisse et egli rispose con queste parole:
Messer Giorgio mio caro, io posso male scrivere, pur per risposta della vostra lettera dirò qualche cosa.
Voi sapete come Urbino è morto: di che m'è stato grandissima grazia di Dio, ma con grave mio danno et infinito dolore.
La grazia è stata che dove in vita mi teneva vivo, morendo m'ha insegnato morire non con dispiacere, ma con desiderio della morte.
Io l'ho tenuto ventisei anni e hollo trovato rarissimo e fedele, et ora che lo avevo fatto ricco e che io l'aspettavo bastone e riposo della mia vecchiezza, m'è sparito, né m'è rimasto altra speranza che di rivederlo in Paradiso.
E di questo n'ha mostro segno Iddio per la felicissima morte che ha fatto, che più assai che 'l morire gli è incresciuto lasciarmi in questo mondo traditore con tanti affanni; benché la maggior parte di me n'è ita seco, né mi rimane altro che una infinita miseria; e mi vi raccomando.
Fu adoperato al tempo di Paulo Quarto nelle fortificazioni di Roma in più luoghi, e da Salustio Peruzzi, a chi quel Papa, come s'è detto altrove, aveva dato a fare il portone di Castello Santo Agnolo, oggi la metà rovinato; si adoperò ancora a dispensare le statue di quella opera e vedere i modelli degli scultori e correggerli.
Et in quel tempo venne vicino a Roma lo esercito franzese, dove pensò Michelagnolo con quella città avere a capitare male; dove Antonio Franzese da Castel Durante, che gli aveva lassato Urbino in casa per servirlo nella sua morte, si risolvé fuggirsi di Roma, e segretamente andò Michelagnolo nelle montagne di Spuleto; dove egli visitando certi luoghi di romitori, nel qual tempo scrivendoli il Vasari e mandandogli una operetta, che Carlo Lenzoni cittadino fiorentino alla morte sua aveva lasciata a Messer Cosimo Bartoli, che dovessi farla stampare e dirizzare a Michelagnolo, finita che ella fu in que' dì la mandò il Vasari a Michelagnolo, che ricevuta, rispose così:
Messer Giorgio amico caro.
Io ho ricevuto il libretto di Messer Cosimo che voi mi mandate, et in questa sarà una di ringraziamento; pregovi che gliene diate, et a quella mi raccomando.
Io ho avuto a questi dì con gran disagio e spesa e gran piacere nelle montagne di Spuleti a visitare que' romiti, in modo che io son ritornato men che mezzo a Roma, perché veramente e' non si trova pace se non ne' boschi.
Altro non ho che dirvi, mi piace che stiate sano e lieto, e mi vi raccomando.
De' 18 di settembre 1556.
Lavorava Michelagnolo quasi ogni giorno per suo passatempo intorno a quella pietra che s'è già ragionato, con le quattro figure, la quale egli spezzò in questo tempo per queste cagioni: perché quel sasso aveva molti smerigli et era duro e faceva spesso fuoco nello scarpello; o fusse pure che il giudizio di quello uomo fussi tanto grande che non si contentava mai di cosa che e' facessi: e che e' sia il vero, delle sue statue se ne vede poche finite nella sua virilità, ché le finite affatto sono state condotte da lui nella sua gioventù, come il Bacco, la Pietà della Febre, il Gigante di Fiorenza, il Cristo della Minerva, che queste non è possibile né crescere né diminuire un grano di panìco senza nuocere loro; l'altre del duca Giuliano e Lorenzo, Notte et Aurora, e 'l Moisè con altre dua in fuori, che non arrivano tutte a undici statue, l'altre dico sono state imperfette, e son molte maggiormente, come quello che usava dire, che se s'avessi avuto a contentare di quel che faceva, n'arebbe mandate poche, anzi, nessuna fuora; vedendosi ch'egli era ito tanto con l'arte e col giudizio innanzi, che com'egli aveva scoperto una figura e conosciutovi un minimo che d'errore, la lasciava stare e correva a manimettere un altro marmo, pensando non avere a venire a quel medesimo; et egli spesso diceva essere questa la cagione che egli diceva d'aver fatto sì poche statue e pitture.
Questa Pietà, come fu rotta, la donò a Francesco Bandini.
In questo tempo Tiberio Calcagni scultore fiorentino era divenuto molto amico di Michelagnolo, per mezzo di Francesco Bandini e di Messer Donato Giannotti, et essendo un giorno in casa di Michelagnolo dove era rotta questa Pietà, dopo lungo ragionamento li dimandò per che cagione l'avessi rotta e guasto tante maravigliose fatiche: rispose esserne cagione la importunità di Urbino suo servidore, che ogni dì lo sollecitava a finirla, e che fra l'altre cose gli venne levato un pezzo d'un gomito della Madonna, e che prima ancora se l'era recata in odio e ci aveva avuto molte disgrazie attorno di un pelo che v'era; dove scappatogli la pazienzia la roppe, e la voleva rompere affatto, se Antonio suo servidore non se gli fusse raccomandato che così com'era gliene donassi.
Dove Tiberio inteso ciò, parlò al Bandino, che desiderava di avere qualcosa di mano sua, et il Bandino operò che Tiberio promettessi a Antonio scudi duecento d'oro, e pregò Michelagnolo che se volessi che con suo aiuto di modelli Tiberio la finissi per il Bandino, saria cagione che quelle fatiche non sarebbono gettate invano, e ne fu contento Michelagnolo; là dove ne fece loro un presente.
Questa fu portata via subito e rimessa insieme poi da Tiberio, e rifatto non so che pezzi, ma rimase imperfetta per la morte del Bandino, di Michelagnolo e di Tiberio.
Truovasi al presente nelle mani di Pierantonio Bandini, figliuolo di Francesco, alla sua vigna di Monte Cavallo.
E tornando a Michelagnolo, fu necessario trovar qualcosa poi di marmo perché e' potessi ogni giorno passar tempo scarpellando, e fu messo un altro pezzo di marmo, dove era stato già abbozzato un'altra Pietà, varia da quella, molto minore.
Era entrato a servire Paulo Quarto Pirro Ligorio architetto, e sopra alla fabbrica di San Piero, e di nuovo travagliava Michelagnolo, et andavano dicendo che egli era rimbambito.
Onde sdegnato da queste cose volentieri se ne sarebbe tornato a Fiorenza, e soprastato a tornarsene, fu di nuovo da Giorgio sollecitato con lettere; ma egli conosceva d'esser tanto invecchiato e condotto già alla età di ottantun anno, scrivendo al Vasari in quel tempo per suo ordinario, e mandandogli varii sonetti spirituali, gli diceva che era al fine della vita, che guardassi dove egli teneva i suoi pensieri, leggendo vedrebbe che era alle ventiquattro ore, e non nasceva pensiero in lui che non vi fussi scolpita la morte, dicendo in una sua:
Dio il voglia Vasari che io la tenga a disagio qualche anno, e so che mi direte bene che io sia vecchio e pazzo a voler fare sonetti; ma perché molti dicono che io sono rimbambito, ho voluto fare l'uffizio mio.
Per la vostra veggo l'amore che mi portate, e sappiate per cosa certa che io arei caro di riporre queste mie debili ossa a canto a quelle di mio padre, come mi pregate: ma partendo di qua sarei causa d'una gran rovina della fabbrica di San Piero, d'una gran vergogna e d'un grandissimo peccato.
Ma come sia stabilita che non possa essere mutata, spero far quanto mi scrivete, se già non è peccato a tenere a disagio parecchi ghiotti che aspettano mi parta presto.
Era con questa lettera scritto pur di suo mano il presente sonetto:
Giunto è già 'l corso della vita mia
con tempestoso mar per fragil barca
al comun porto, ov'a render si varca
conto e ragion d'ogni opra trista e pia.
Onde l'affettuosa fantasia,
che l'arte mi fece idolo e monarca,
cognosco or ben, quant'era d'error carca,
e quel ch'a mal suo grado ognun desia.
Gli amorosi pensier già vani e lieti
che fien or, s'a due morti mi avicino?
D'una son certo, e l'altra mi minaccia.
Né pinger né scolpir fia più che queti
l'anima volta a quello amor divino,
ch'aperse a prender noi in croce le braccia.
Per il che si vedeva che andava ritirando verso Dio e lasciando le cure dell'arte per le persecuzioni de' suoi maligni artefici e per colpa di alcuni soprastanti della fabbrica, che arebbono voluto, come e' diceva, menar le mani.
Fu risposto per ordine del duca Cosimo a Michelagnolo dal Vasari con poche parole in una lettera confortandolo al rimpatriarsi, e col sonetto medesimo corrispondente alle rime.
Sarebbe volentieri partitosi di Roma Michelagnolo, ma era tanto stracco et invecchiato, che aveva, come si dirà più basso, stabilito tornarsene; ma la volontà era pronta, inferma la carne, che lo riteneva in Roma.
Et avvenne di giugno l'anno 1557, avendo egli fatto modello della volta che copriva la nicchia che si faceva di trevertino alla cappella del re, che nacque per non vi potere ire, come soleva, uno errore: che il capo maestro in sul corpo di tutta la volta prese la misura con una centina sola, dove avevano a essere infinite.
Michelagnolo, come amico e confidente del Vasari, gli mandò di sua mano disegni con queste parole scritte a piè di dua:
La centina segnata di rosso la prese il capo maestro sul corpo di tutta la volta; di poi, come si cominciò a passar al mezzo tondo, che è nel colmo di detta volta, s'accorse dell'errore che faceva detta centina, come si vede qui nel disegno le segnate di nero.
Con questo errore è ita la volta tanto innanzi, che s'ha a disfare un gran numero di pietre, perché in detta volta non ci va nulla di muro, ma tutto trivertino, et il diametro de' tondi, che senza la cornice gli ricigne di ventidue palmi.
Questo errore, avendo il modello fatto appunto, come fo d'ogni cosa, è stato fatto per non vi potere andare spesso per la vecchiezza; e dove io credetti che ora fussi finita detta volta, non sarà finita in tutto questo verno; e se si potessi morire di vergogna e dolore, io non sarei vivo.
Pregovi che raguagliate il Duca ché io non sono ora a Fiorenza.
E seguitando nell'altro disegno dove egli aveva disegnato la pianta diceva così:
Messer Giorgio, perché sia meglio inteso la dificultà della volta, per osservare il nascimento suo fino di terra, è stato forza dividerla in tre volte in luogo delle finestre da basso divise dai pilastri, come vedete, che e' vanno piramidati in mezzo, dentro del colmo della volta come fa il fondo e' lati delle volte ancora, e bisognò governarle con un numero infinito di centine, e tanto fanno mutazione e per tanti versi di punto in punto, che non ci si può tener regola ferma; e' tondi e' quadri che vengono nel mezzo de' lor fondi hanno a diminuire e crescere per tanti versi et andare a tanti punti, che è dificil cosa a trovare il modo vero.
Nondimeno, avendo il modello, come fo di tutte le cose, non si doveva mai pigliare sì grande errore di volere con una centina sola governare tutt'a tre que' gusci, onde n'è nato ch'è bisognato con vergogna e danno disfare, e disfassene ancora un gran numero di pietre.
La volta et i conci et i vani è tutta di trivertino, come l'altre cose dabasso, cosa non usata a Roma.
Fu assoluto dal duca Cosimo Michelagnolo, vedendo questi inconvenienti, del suo venire più a Fiorenza, dicendogli che aveva più caro il suo contento, e che seguitasse San Piero, che cosa che potessi avere al mondo, e che si quietassi.
Onde Michelagnolo scrisse al Vasari nella medesima carta che ringraziava il Duca quanto sapeva e poteva di tanta carità, dicendo: "Dio mi dia grazia ch'io possa servirlo di questa povera persona", ché la memoria e 'l cervello erano iti aspettarlo altrove.
La data di questa lettera fu d'agosto l'anno 1557; avendo per questo Michelagnolo conosciuto che 'l Duca stimava e la vita e l'onor suo più che egli stesso che l'adorava.
Tutte queste cose e molt'altre che non fa di bisogno, aviamo appresso di noi scritte di sua mano.
Era ridotto Michelagnolo in un termine, che vedendo che in San Piero si trattava poco, et avendo già tirato innanzi gran parte del fregio delle finestre di dentro e delle colonne doppie di fuora che girano sopra il cornicione tondo, dove s'ha poi a posare la cupola, come si dirà, che confortato da' maggiori amici suoi come dal cardinale di Carpi, da Messer Donato Gianozzi e da Francesco Bandini e da Tomao de' Cavalieri e dal Lottino, lo stringevano che, poi che vedeva il ritardare del volgere la cupola, ne dovessi fare almeno un modello; stette molti mesi di così senza risolversi, alla fine vi diede principio, e ne condusse a poco a poco un piccolo modello di terra per potervi poi con l'esempio di quello e con le piante e profili che aveva disegnati, farne fare un maggiore di legno: il quale, datoli principio, in poco più d'uno anno lo fece condurre a maestro Giovanni franzese con molto suo studio e fatica, e lo fé di grandezza tale, che le misure e proporzioni piccole tornassino parimente col palmo antico romano, nell'opera grande all'intera perfezzione, avendo condotto con diligenzia in quello tutti i membri di colonne, base, capitegli, porte, finestre e cornici e risalti, e così ogni minuzia, conoscendo in tale opera non si dover fare meno; poiché fra i cristiani, anzi in tutto il mondo, non si trovi né vegga una fabbrica di maggiore ornamento e grandezza di quella.
E mi par necessario, se delle cose minori aviamo perso tempo a notarle, sia molto più utile e debito nostro descrivere questo modo di disegno per dover condurre questa fabbrica e tribuna con la forma et ordine e modo che ha pensato di darli Michelagnolo; però con quella brevità che potrò ne faremo una semplice narrazione, acciò che, se mai accadessi che non consenta Dio, come s'è visto fino a ora essere stata questa opera travagliata in vita di Michelagnolo, così fusse dopo la morte sua dall'invidia e malignità de' presuntuosi, possino questi miei scritti qualunque e' si sieno, giovare ai fedeli che saranno esecutori della mente di questo raro uomo, et ancora raffrenare la volontà de' maligni che volessino alterarle; e così in un medesimo tempo si giovi e diletti et apra la mente a' begli ingegni che sono amici e si dilettano di questa professione.
E per dar principio, dico che questo modello fatto con ordine di Michelagnolo trovo che sarà nel grande tutto il vano della tribuna di dentro palmi 186, parlando della sua larghezza da muro a muro, sopra il cornicione grande che gira di dentro in tondo di trivertino che si posa sopra i quattro pilastri grandi doppi che si muovono di terra, con i suo capitegli intagliati d'ordine corinto accompagnato dal suo architrave, fregio e cornicione pur di trivertino, il quale cornicione girando intorno intorno alle nicchie grande si posa e lieva sopra i quattro grandi archi delle tre nicchie e della entrata che fanno croce a quella fabrica: dove comincia poi a nascere il principio della tribuna, il nascimento della quale comincia un basamento di trivertino con un piano largo palmi sei, dove si camina, e questo basamento gira in tondo a uso di pozzo, et è la sua grossezza palmi 33 et undici oncie, alto fino alla sua cornice palmi 11 once dieci, e la cornice di sopra è palmi 8 incirca, e l'agetto è palmi sei e mezzo.
Entrasi per questo basamento tondo per salire nella tribuna per quattro entrate che sono sopra gli archi delle nicchie, et ha diviso la grossezza di questo basamento in tre parti, quello dalla parte di drento è palmi 15, quello di fuori è palmi 11, e quel di mezzo palmi 7 once 11, che fa la grossezza di palmi 33 once 11.
Il vano di mezzo è voto e serve per andito, il quale è alto di sfogo duo quadri e gira in tondo unito con una volta a mezza botte et ogni dirittura delle quattro entrate [ha] otto porte, che con quattro scaglion che saglie ciascuna, una ne va al piano della cornice del primo imbasamento larga palmi 6 e mezzo, e l'altra saglie alla cornice di dentro che gira intorno alla tribuna larga 8 palmi e tre quarti, nelle quali per ciascuna si camina agiatamente di dentro e di fuori a quello edifizio; è da una delle entrate a l'altra in giro palmi 201 che essendo 4 spazii viene a girare tutta palmi 806.
Séguita per potere salire dal piano di questo imbasamento dove posano le colonne et i pilastri e che fa poi fregio delle finestre di drento intorno intorno, il quale è alto palmi 14 once una, intorno al quale dalla banda di fuori è da' piè un brieve ordine di cornice, e così da capo, che non son da ogetto se non 10 once, et è tutto di trivertino.
Nella grossezza della terza parte sopra quella di drento che aviàn detto esser grossa palmi 15 è fatto una scala in ogni quarta parte, la metà della quale saglie per un verso, e l'altra metà per l'altro, larga palmi 4 et un quarto; questa si conduce al piano delle colonne.
Comincia sopra questo piano a nascere in sulla dirittura del vivo da l'imbasamento 18 grandissimi pilastroni tutti di trivertino, ornati ciascuno di dua colonne di fuori e pilastri di drento, come si dirà disotto, e fra l'uno e l'altro ci resta tutta la larghezza di dove hanno da essere tutte le finestre che danno lume alle tribune.
Questi son volti per fianchi al punto del mezzo della tribuna lunghi palmi 36, e nella faccia dinanzi 19 e mezzo.
Ha ciascuno di questi dalla banda di fuori dua colonne, che il dappiè del dado loro è palmi 8 e tre quarti, et alti palmi 1 e mezzo.
La basa è larga palmi 5 once 8, alta palmi [...] once 11, il fuso della colonna è 43 palmi e mezzo, il dapiè palmi 5 once 6, e da capo palmi 4 once 9, il capitello corinto alto palmi 6 e mezzo, e nella cimasa palmi 9.
Di queste colonne se ne vede 3 quarti, ché l'altro quarto si unisce in su canti accompagnata da la metà d'un pilastro, che fa canto vivo di drento, e lo accompagna nel mezzo di drento una entrata d'una porta in arco larga palmi 5, alta 13 once 5, che fino al capitello de' pilastri e colonne viene poi ripiena di sodo, facendo unione con altri dua pilastri, che sono simili a quegli che fan canto vivo allato alle colonne.
Questi ribattono e fanno ornamento a canto a 16 finestre che vanno intorno intorno a detta tribuna, che la luce di ciascuna è larga palmi 12 e mezzo, alte palmi 22 in circa.
Queste di fuori vengono ornate di architravi varii, larghi palmi 2 e tre quarti, e di drento sono ornate similmente con ordine vario con suoi frontespizii e quarti tondi, e vengono larghi di fuori e stretti di drento per ricevere più lume, e così sono di drento da piè più basse, perché dian lume sopra il fregio e la cornice ch'è messa in mezzo ciascuna da dua pilastri piani che rispondono di altezza alle colonne di fuori, tal che vengano a essere 36 colonne di fuori e 36 pilastri di drento, sopra a' quali pilastri di drento è l'architrave, ch'è di altezza palmi 4 e 5 quarti, et il fregio 4 e mezzo, e la cornice 4 e dua terzi, e di proietture 5 palmi, sopra la quale va un ordine di balaustri per potervi caminare attorno attorno sicuramente; e per potere salire agiatamente dal piano dove cominciano le colonne sopra la medesima dirittura nella grossezza del vano di 15 palmi, saglie nel medesimo modo e della medesima grandezza con duo branche o salite, una altra scala fino al fine di quanto son alte le colonne, capitello et architrave, fregio e cornicione, tanto che senza impedire la luce delle finestre passa questa scala di sopra in una lumaca della medesima larghezza fino che truova il piano dove ha a cominciare a volgersi la tribuna.
Il quale ordine, distribuzione et ornamento è tanto vario, comodo e forte, durabile e ricco, e fa di maniera spalle alle due volte della cupola che vi si avolta sopra, ch'è cosa tanto ingegnosa e ben considerata, e di poi tanto ben condotta di muraglia, che non si può vedere agli occhi di chi sa e di chi intende cosa più vaga, più bella e più artifiziosa, e per le legature e commettiture delle pietre, e per avere in sé ogni parte e fortezza et eternità, e con tanto giudizio aver cavatone l'acque che piovono per molti condotti segreti, e finalmente ridottola a quella perfezzione, che tutte l'altre cose delle fabriche che si son viste e murate fino a oggi reston niente appetto alla grandezza di questa; et è stato grandissimo danno che a chi toccava non mettessi tutto il poter suo perché, innanzi che la morte ci levassi dinanzi sì raro uomo, si dovessi veder voltato sì bella e terribil machina.
Fin qui ha condotto di muraglia Michelagnolo questa opera, e solamente restaci a dar principio al voltare della tribuna, della quale poi che n'è rimasto il modello, seguiteremo di contar l'ordine che gli ha lasciato perché la si conduca.
Ha girato il sesto di questa volta con tre punti che fanno triangolo in questo modo:
A.
B.
C.
Il punto C, che è più basso et è il principal col quale egli ha girato il primo mezzo tondo della tribuna, col quale e' dà la forma e l'altezza e larghezza di questa volta, la quale egli dà ordine ch'ella si muri tutta di mattoni bene arrotati e cotti, a spina pesce: questa la fa grossa palmi 4 e mezzo tanto grossa da piè quanto da capo, e lascia a canto un vano per il mezzo di palmi 4 e mezzo da piè, il quale ha a servire per la salita delle scale, che hanno a ire alla lanterna movendosi dal piano della cornice dove sono 'balaustri.
Et il sesto della parte di drento dell'altra volta che ha a essere lunga da piè, istretta da capo è girato in sul punto segnato B, il qual è da piè per fare la grossezza della volta palmi 4 e mezzo; e l'ultimo sesto che si ha a girare per fare la parte di fuori che allarghi da piè e stringa da capo, s'ha da mettere in sul punto segnato A, il quale girato ricresce da capo tutto il vano di mezzo del voto di drento, dove vanno le scale per altezza palmi 8 per irvi ritto; e la grossezza della volta viene a diminuire a poco a poco di maniera, che essendo, come s'è detto, da piè palmi 4 e mezzo, torna da capo palmi 3 e mezzo, e torna rilegata di maniera la volta di fuori con la volta di drento con leghe e scale, che l'una regge l'altra, che di 8 parte che ella è partita nella pianta, che quattro sopra gli archi vengono vote per dare manco peso loro, e l'altre quattro vengono rilegate et incatenate con leghe sopra i pilastri, perché possa eternamente aver vita.
Le scale di mezzo fra l'una volta e l'altra son condotte in questa forma: queste, dal piano dove la comincia a voltarsi, si muovano in una delle quattro parti, e ciascuna saglie per dua entrate intersegandosi le scale in forma di X, tanto che si conducano alla metà del sesto segnato C sopra la volta, che avendo salito tutto il diritto della metà del sesto, l'altro che resta si saglie poi agevolmente di giro in giro uno scaglione e poi l'altro a dirittura, tanto che si arriva al fine dell'occhio dove comincia il nascimento della lanterna, intorno alla quale fa, secondo la diminuzione dello spartimento che nasce sopra i pilastri, come si dirà di sotto, un ordine minore di pilastri doppi e finestre, simile a quelle che son fatte di drento.
Sopra il primo cornicione grande di drento alla tribuna ripiglia da piè per fare lo spartimento degli sfondati, che vanno drento alla volta della tribuna, e' quali sono partiti in sedici costole che risaltano, e son larghe da piè tanto quanto è la larghezza di dua pilastri, che dalla banda disotto tramezzano le finestre sotto alla volta della tribuna, le quali vanno piramidalmente diminuendo fino a l'occhio della lanterna, e da piè posano in su un piedistallo della medesima larghezza, alto palmi 12, e questo piedistallo posa in sul piano della cornice, che s'aggira e cammina intorno intorno alla tribuna, sopra la quale negli sfondati del mezzo fra le costole sono nel vano otto ovati grandi alti l'uno palmi 29, e sopra uno spartimento di quadri, che allargano da piè e stringano da capo, alti 24 palmi, e stringendosi le costole viene di sopra a quadri un tondo di 14 palmi alto: che vengano a essere otto ovati, otto quadri et otto tondi, che fanno ciascuno di loro uno sfondato più basso, il piano de' quali mostra una ricchezza grandissima, perché disegnava Michelagnolo le costole e gli ornamenti di detti ovati, quadri e tondi fargli tutti scorniciati di trivertino.
Restaci a far menzione delle superficie et ornamento del sesto della volta dalla banda dove va il tetto, che comincia a volgersi sopra un basamento alto palmi 25 e mezzo, il quale ha da piè un basamento che ha di getto palmi dua, e così la cimasa da capo, la coperta o tetto, della quale e' disegnava coprirla del medesimo piombo che è coperto oggi il tetto del vecchio San Piero, che fa 16 vani da sodo a sodo che cominciono dove finiscono le due colonne che gli mettono in mezzo, ne' quali faceva per ciascuno nel mezzo dua finestre per dar luce al vano di mezzo, dove è la salita delle scale fra le dua volte che sono 32 in tutto.
Queste, per via di mensole che reggano un quarto tondo, faceva, sportando fuor, tetto di maniera che difendeva dall'acque piovane l'alta e nuova vista, et a ogni dirittura e mezzo de' sodi delle due colonne sopra dove finiva il cornicione, si partiva la sua costola per ciascuno allargando da piè e stringendo da capo: in tutto 16 costole larghe palmi cinque, nel mezzo delle quali era un canale quadro largo un palmo e mezzo, dov'era drentovi fa[tta] una scala di scaglioni alti un palmo incirca, per le quali si saliva per quelle e scendeva dal piano dove per infino in cima dove comincia la lanterna.
Questi vengano fatti di trivertino e murati a cassetta per[ché] le commettiture si difendino dall'acque e dai diacci per l'amore delle pioggie.
Fa il disegno della lanterna nella medesima diminuzione che fa tutta l'opera, che battendo le fila alla circunferenza viene ogni cosa a diminuire del pari et a rilevar su con la medesima misura un tempio stietto di colonne tonde a dua a dua, come sta di sotto quelle ne' sodi ribattendo i suoi pilastri per potere caminare a torno a torno e vedere per i mezzi fra i pilastri dove sono le finestre, il didrento della tribuna e della chiesa; et architrave, fregio e cornice di sopra girava in tondo, risaltando sopra la dua colonne alla dirittura delle quali si muovono sopra quelle alcuni viticci che tramezzati da certi nicchioni insieme vanno a trovare il fine della pergamena, che comincia a voltarsi e stringersi un terzo della altezza, a uso di piramide tondo, fino alla palla, [che] dove va questo finimento ultimo va la croce.
Molti particulari e minuzie potrei aver conto, come di sfogatoi per i tremuoti, acquidotti, lumi diversi et altre comodità, che le lasso poi che l'opera non è al suo fine, bastando aver tocco le parti principali il meglio che ho possuto.
Ma perché tutto è in essere e si vede, basta aver così brevemente fattone uno schizzo che è gran lume a chi non vi ha nessuna cognizione.
Fu la fine di questo modello fatto con grandissima satisfazione non solo di tutti gli amici suoi, ma di tutta Roma, et il fermamento e stabilimento di quella fabbrica.
Seguì che morì Paulo Quarto e fu creato dopo lui Pio Quarto, il quale facendo seguitare di murare il palazzetto del bosco di Belvedere a Pirro Ligorio restato architetto del palazzo, fece offerte e carezze assai a Michelagnolo.
Il motu proprio avuto prima da Paulo Terzo, e da Iulio Terzo e Paulo Quarto sopra la fabbrica di San Piero, gli confermò e gli rendé una parte delle entrate e provisioni tolte da Paulo Quarto, adoperandolo in molte cose delle sue fabriche, et a quella di S.
Piero nel tempo suo fece lavorare gagliardamente.
Particolarmente se ne servì nel fare un disegno per la sepoltura del marchese Marignano suo fratello, la quale fu allogata da Sua Santità per porsi nel Duomo di Milano al cavalier Lione Lioni aretino, scultore eccellentissimo, molto amico di Michelagnolo, che a suo luogo si dirà della forma di questa sepoltura.
Et in quel tempo il cavaliere Lione ritrasse in una medaglia Michelagnolo molto vivacemente, et a compiacenza di lui gli fece nel rovescio un cieco guidato da un cane con queste lettere attorno: "Docebo iniquos vias tuas et impii ad te convertentur".
E perché gli piacque assai gli donò Michelagnolo un modello d'uno Ercole che scoppia Anteo, di sua mano, di cera con certi suoi disegni.
Di Michelagnolo non ci è altri ritratti che duoi di pittura, uno di mano del Bugiardino e l'altro di Iacopo del Conte, et uno di bronzo di tutto rilievo fatto da Daniello Ricciarelli e questo del cavalier Lione, da e' quali se n'è fatte tante copie, che n'ho visto in molti luoghi di Italia e fuori assai numero.
Andò il medesimo anno Giovanni cardinale de' Medici, figliuolo del duca Cosimo, a Roma, per il cappello a Pio Quarto, e convenne, come suo servitore e familiare, al Vasari andar seco, che volentieri vi andò e vi stette circa un mese per godersi Michelagnolo, che l'ebbe carissimo e di continuo gli fu a torno.
Aveva portato seco il Vasari, per ordine di sua eccellenza, il modello di legno di tutto il palazzo ducale di Fiorenza, insieme coi disegni delle stanze nuove, che erano state murate e dipinte da lui, quali desiderava Michelagnolo vedere in modello e disegno, poi che sendo vecchio non poteva vedere l'opere, le quali erano copiose, diverse e con varie invenzioni e capricci, che cominciavano dalla castrazione di Celo, Saturno, Opi, Cerere, Giove, Giunone, Ercole, che in ogni stanza era uno di questi nomi, con le sue istorie in diversi partimenti, come ancora l'altre camere e sale che erano sotto queste avevano il nome degli eroi di casa Medici, cominciando da Cosimo Vecchio, Lorenzo, Leone Decimo, Clemente Settimo, el signor Giovanni, el duca Alessandro e duca Cosimo, nelle quali per ciascuna erano non solamente le storie de' fatti loro, ma loro ritratti e de' figliuoli e di tutte le persone antiche, così di governo come d'arme e di lettere, ritratte di naturale, delle quali aveva scritto il Vasari un dialogo ove si dichiarava tutte le istorie et il fine di tutta l'invenzione, e come le favole di sopra s'accomodassino alle istorie di sotto, le quali gli fur lette da Annibal Caro, che n'ebbe grandissimo piacere Michelagnolo.
Questo dialogo, come arà più tempo il Vasari, si manderà fuori.
Queste cose causorono che desiderando il Vasari di metter mano alla sala grande, e perché era, come s'è detto altrove, il palco basso che la faceva nana e cieca di lumi, et avendo desiderio di alzarla non si voleva risolvere il duca Cosimo a dargli licenzia ch'ella si alzasse.
Non che 'l Duca temesse la spesa, come s'è visto poi, ma il pericolo di alzare i cavagli del tetto 13 braccia sopra; dove sua eccellenza come giudiziosa consentì che s'avessi il parere da Michelagnolo, visto in quel modello la sala come era prima, poi levato tutti que' legni e postovi altri legni con nuova invenzione del palco e delle facciate, come s'è fatto da noi, e disegnata in quella insieme l'invenzione delle istorie, che piaciutagli ne diventò subito non giudice, ma parziale, vedendo anche il modo e la facilità dello alzare i cavagli e 'l tetto et il modo di condurre tutta l'opera in breve tempo.
Dove egli scrisse nel ritorno del Vasari al Duca che seguitassi quella impresa, che l'era degna della grandezza sua.
Il medesimo anno andò a Roma il duca Cosimo con la signora duchessa Leonora sua consorte, e Michelagnolo, arrivato il Duca, lo andò a vedere subito, il quale fattogli molte carezze, lo fece, stimando la sua gran virtù, sedere a canto a sé, e con molta domestichezza ragionandogli di tutto quello che sua eccellenza aveva fatto fare di pittura e di scultura a Fiorenza, e quello che aveva animo di volere fare, e della sala particularmente, di nuovo Michelagnolo ne lo confortò e si dolse, perché amava quel signore, non essere giovane di età da poterlo servire.
E ragionando sua eccellenza che aveva trovato il modo da lavorare il porfido, cosa non creduta da lui, se gli mandò, come s'è detto nel primo capitolo delle Teoriche, la testa del Cristo lavorata da Francesco del Tadda scultore, che ne stupì.
E tornò dal Duca più volte mentre che dimorò in Roma con suo grandissima satisfazione, et il medesimo fece andandovi poco dopo lo illustrissimo don Francesco de' Medici suo figliuolo, del quale Michelagnolo si compiacque per le amorevoli accoglienze e carezze fatte da sua eccellenza illustrissima, che gli parlò sempre con la berretta in mano avendo infinita reverenza a sì raro uomo, e scrisse al Vasari che gli incresceva l'essere indisposto e vecchio, che arebbe voluto fare qualcosa per quel signore, et andava cercando comperare qualche anticaglia bella per mandargliene a Fiorenza.
Ricercato a questo tempo Michelagnolo dal Papa per Porta Pia d'un disegno, ne fece tre tutti stravaganti e bellissimi che 'l Papa elesse per porre in opera quello di minore spesa, come si vede oggi murata con molta sua lode.
E visto l'umor del Papa, perché dovessi restaurare le altre porte di Roma, gli fece molti altri disegni; el medesimo fece richiesto dal medesimo Pontefice per far la nuova chiesa di Santa Maria delli Angioli nelle Terme Diocliziane per ridurle a tempio a uso di cristiani, e prevalse un suo disegno che fece, a molti altri fatti da eccellenti architetti, con tante belle considerazioni per comodità de' frati Certosini, che l'hanno ridotto oggi quasi a perfezzione, che fé stupire Sua Santità e tutti i prelati e' signori di corte delle bellissime considerazioni che aveva fatte con giudizio, servendosi di tutte l'ossature di quelle terme, e se ne vedde cavato un tempio bellissimo et una entrata fuor della openione di tutti gli architetti, dove ne riportò lode et onore infinito.
Come anche per questo luogo e' disegnò per Sua Santità di fare un ciborio del Sagramento di bronzo stato gettato gran parte da maestro Iacopo Ciciliano eccellente gettatore di bronzi, che fa che vengono le cose sottilissimamente senza bave, che con poca fatica si rinettano; che in questo genere è raro maestro e molto piaceva a Michelagnolo.
Aveva discorso insieme la nazione fiorentina più volte di dar qualche buon principio alla chiesa di San Giovanni di strada Giulia; dove ragunatosi tutti i capi delle case più ricche promettendo, ciascuna per rata secondo le facultà, sovvenire detta fabbrica, tanto che feciono da riscuotere buona somma di danari, e disputossi fra loro se gli era bene seguitare l'ordine vecchio o far qualche cosa di nuovo migliore, fu risoluto che si dessi ordine sopra i fondamenti vecchi a qualche cosa di nuovo, e finalmente creorono tre sopra questa cura di questa fabbrica che fu Francesco Bandini, Umberto Ubaldini e Tommaso de' Bardi, e' quali richiesano Michelagnolo di disegno raccomandandosegli, sì perché era vergogna della nazione avere gettato via tanti danari, né aver mai profittato niente, che se la virtù sua non gli giovava a finirla, non avevono ricorso alcuno.
Promesse loro con tanta amorevolezza di farlo, quanto cosa 'e facessi mai prima, perché volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre che tornassino in onore di Dio, poi per l'amor della sua nazione, qual sempre amò.
Aveva seco Michelagnolo a questo parlamento Tiberio Calcagni scultore fiorentino, giovane molto volenteroso di imparare l'arte, il quale essendo andato a Roma s'era volto alle cose d'architettura.
Amandolo Michelagnolo, gli aveva dato a finire, come s'è detto, la Pietà di marmo ch'e' roppe, et inoltre una testa di Bruto di marmo col petto maggiore assai del naturale, perché la finisse quale era condotta la testa sola con certe minutissime gradine.
Questa l'aveva cavata da un ritratto di esso Bruto intagliato in una corgnola antica, che era apresso al signor Giuliano Ceserino, antichissima, che a' preghi di Messer Donato Gianotti suo amicissimo la faceva Michelagnolo per il cardinale Ridolfi, che è cosa rara.
Michelagnolo dunque, per le cose d'architettura, non possendo disegnare più per la vecchiaia, né tirar linee nette, si andava servendo di Tiberio, perché era molto gentile e discreto: perciò desiderando servirsi di quello in tale impresa, gl'impose che e' levassi la pianta del sito della detta chiesa; la quale levata e portata subito a Michelagnolo, in questo tempo che non si pensava che facessi niente, fece intendere per Tiberio che gli aveva serviti, e finalmente mostrò loro cinque piante di tempii bellissimi, che viste da loro si maravigliorono, e disse loro che scegliessino una a modo loro: e quali non volendo farlo, riportandosene al suo giudizio, volse che si risolvessino pure a modo loro: onde tutti d'uno stesso volere ne presono una più ricca, alla quale risolutosi disse loro Michelagnolo che se conducevano a fine quel disegno, che né romani, né greci mai ne' tempi loro feciono una cosa tale: parole che né prima né poi usciron mai di bocca a Michelagnolo, perché era modestissimo.
Finalmente conclusero che l'ordinazione fussi tutta di Michelagnolo, e le fatiche dello esseguire detta opera fussi di Tiberio, che di tutto si contentorono, promettendo loro che egli gli servirebbe benissimo; e così dato la pianta a Tiberio che la riducessi netta e disegnata giusta, gli ordinò i profili di fuori e di drento, e che ne facessi un modello di terra, insegnandogli il modo da condurlo che stessi in piedi.
In dieci giorni condusse Tiberio il modello di otto palmi, del quale piaciuto assai a tutta la nazione, ne feciono poi fare un modello di legno, che è oggi nel consolato di detta nazione: cosa tanto rara, quanto tempio nessuno che si sia mai visto, sì per la bellezza, ricchezza e gran varietà sua; del quale fu dato principio e speso scudi 5000, che mancato a quella fabbrica gli assegnamenti è rimasta così, che n'ebbe grandissimo dispiacere.
Fece allogare a Tiberio con suo ordine a Santa Maria Maggiore una cappella cominciata per il cardinale di Santa Fiore, restata imperfetta per la morte di quel Cardinale e di Michelagnolo e di Tiberio, che fu di quel giovane grandissimo danno.
Era stato Michelagnolo anni 17 nella fabbrica di San Pietro, e più volte i deputati l'avevon voluto levare da quel governo, e non essendo riuscito loro, andavano pensando ora con questa stranezza et ora con quella opporsegli a ogni cosa, che per istracco se ne levassi, essendo già tanto vecchio che non poteva più.
Ove essendovi per soprastante Cesare da Casteldurante, che in que' giorni si morì, Michelagnolo, perché la fabbrica non patissi, vi mandò, per fino che trovassi uno a modo suo, Luigi Gaeta, troppo giovane ma suffizientissimo.
E' deputati, una parte de' quali molte volte avevon fatto opera di mettervi Nanni di Baccio Bigio, che gli stimolava e prometteva gran cose, per potere travagliare le cose della fabbrica a loro modo, mandoron via Luigi Gaeta: il che inteso Michelagnolo, quasi sdegnato, non voleva più capitare alla fabbrica; dove e' cominciorono a dar nome fuori che non poteva più, che bisognava dargli un sustituto, e che egli aveva detto che non voleva impacciarsi più di San Piero.
Tornò tutto agli orecchi di Michelagnolo, il quale mandò Daniello Ricciarelli da Volterra al vescovo Ferratino, uno de' soprastanti, che aveva detto al cardinale di Carpi che Michelagnolo aveva detto a un suo servitore che non voleva impacciarsi più della fabbrica; che tutto Daniello disse non essere questa la voluntà di Michelagnolo; dolendosi il Ferratino che egli non conferiva il concetto suo, e che era bene che dovessi mettervi un sostituto e volentieri arebbe accettato Daniello, il quale pareva che si contentassi Michelagnolo; dove fatto intendere a' deputati in nome di Michelagnolo che avevono un sustituto, presentò il Ferratino non Daniello, ma in cambio suo Nanni Bigio, che entrato drento et accettato da' soprastanti, non andò guari che dato ordine di fare un ponte di legno dalla parte delle stalle del papa dove è il monte, per salire sopra la nicchia grande che volta a quella parte, fé mozzare alcune travi grosse di abeto dicendo che si consumava nel tirare su la roba troppi canapi, che era meglio il condurla per quella via.
Il che inteso Michelagnolo andò subito dal Papa, e romoreggiando perché era sopra la piazza di Campidoglio, lo fé subito andare in camera, dove disse: "Gli è stato messo, Padre Santo, per mio sostituto da' deputati uno che io non so chi egli sia, però se conoscevano loro e la Santità Vostra che io non sia più 'l caso, io me ne tornerò a riposare a Fiorenza, dove goderò quel gran Duca che m'ha tanto desiderato, e finirò la vita in casa mia: però vi chieggo buona licenzia".
Il Papa n'ebbe dispiacere e con buone parole confortandolo gli ordinò che dovessi venire a parlargli il giorno lì in Araceli, dove fatto ragunare i deputati della fabbrica, volse intendere le cagioni di quello che era seguito: dove fu risposto da loro che la fabbrica rovinava e vi si faceva degli errori; il che avendo inteso il Papa non essere il vero, comandò al signor Gabrio Scerbellone che dovessi andare a vedere in sulla fabbrica e che Nanni che proponeva queste cose gliele mostrassi: che ciò fu eseguito.
E trovato il signor Gabrio esser ciò tutta malignità e non essere vero, fu cacciato via con parole poco oneste di quella fabbrica in presenza di molti signori, rimproverandogli che per colpa sua rovinò il ponte Santa Maria e che in Ancona volendo con pochi danari far gran cose "per nettare il porto lo riempiesti più in un dì che non fece il mare in dieci anni"; tale fu il fine di Nanni per la fabbrica di San Piero, per la quale Michelagnolo di continuo non attese mai a altro in 17 anni che fermarla per tutto con riscontri, dubitando per queste persecuzioni invidiose non avessi dopo la morte sua a essere mutata; dove è oggi sicurissima da poterla sicuramente voltare.
Per il che s'è visto che Iddio, che è protettore de' buoni, l'ha difeso fino ch'egl'è vissuto et ha sempre operato per benefizio di questa fabbrica e difensione di questo uomo fino alla morte.
Avvenga che, vivente dopo lui, Pio Quarto ordinò a' soprastanti della fabbrica che non si mutasse niente di quanto aveva ordinato Michelagnolo, e con maggiore autorità lo fece eseguire Pio V suo successore; il quale, perché non nascessi disordine, volse che si eseguissi inviolabilmente i disegni fatti da Michelagnolo, mentre che furono esecutori di quella Pirro Ligorio e Iacopo Vignola architetti, che Pirro volendo presuntuosamente muovere et alterare quell'ordine, fu con poco onor suo levato via da quella fabbrica e lassato il Vignola.
E finalmente quel Pontefice, zelantissimo non meno dello onor della fabbrica di San Piero che della Religione cristiana, l'anno 1565 che 'l Vasari andò 'a piedi di Sua Santità, e chiamato di nuovo l'anno 1566, non si trattò se non al procuratore l'osservazione de' disegni lasciati da Michelagnolo; e per ovviare a tutti e' disordini comandò Sua Santità al Vasari che con Messer Guglielmo Sangalletti, tesauriere segreto di Sua Santità, per ordine di quel Pontefice andassi a trovare il vescovo Ferratino, capo de' fabricieri di San Pietro, che dovessi attendere a tutti gli avvertimenti e ricordi importanti che gli direbbe il Vasari, acciò che mai per il dir di nessuno maligno e presuntuoso s'avessi a muovere segno o ordine lasciato dalla eccellente virtù e memoria di Michelagnolo.
Et a ciò fu presente Messer Giovambatista Altoviti, molto amico del Vasari et a queste virtù.
Per il che udito il Ferratino un discorso che gli fece il Vasari, accettò volentieri ogni ricordo e promesse inviolabilmente osservare e fare osservare in quella fabbrica ogni ordine e disegno che avesse per ciò lasciato Michelagnolo, et inoltre d'essere protettore, difensore e conservatore delle fatiche di sì grande uomo.
E tornando a Michelagnolo, dico che innanzi la morte un anno incirca, avendosi adoperato il Vasari segretamente che 'l duca Cosimo de' Medici operassi col Papa per ordine di Messer Averardo Serristori suo imbasciadore, che, visto che Michelagnolo era molto cascato, si tenesse diligente cura di chi gli era attorno a governarlo e chi gli praticava in casa, che venendogli qualche subito accidente, come suole venire a' vecchi, facessi provisione che le robe, disegni, cartoni, modelli e danari et ogni suo avere nella morte si fussino inventariati e posti in serbo per dare alla fabbrica di San Piero, se vi fussi stato cose attenenti a lei, così alla sagrestia e libreria di San Lorenzo e facciata, non fussino state trasportate via, come spesso suole avvenire; che finalmente giovò tal diligenza, che tutto fu eseguito in fine.
Desiderava Lionardo suo nipote la quaresima vegnente andare a Roma, come quello che s'indovinava che già Michelagnolo era in fine della vita sua, e lui se ne contentava, quando amalatosi Michelagnolo di una lenta febbre, subito fé scrivere a Daniello che Lionardo andassi: ma il male cresciutogli, ancora che Messer Federigo Donati suo medico e gli altri suoi gli fussino a torno, con conoscimento grandissimo fece testamento di tre parole, che lasciava l'anima sua nelle mane de Iddio, il suo corpo alla terra e la roba a' parenti più prossimi, imponendo a' suoi che nel passare di questa vita gli ricordassino il patire di Gesù Cristo; e così a dì 17 di febraio, l'anno 1563 a ore 23 a uso fiorentino, che al romano sarebbe 1564, spirò per irsene a miglior vita.
Fu Michelagnolo molto inclinato alle fatiche dell'arte, veduto che gli riusciva ogni cosa quantunque dificile, avendo avuto dalla natura l'ingegno molto atto et aplicato a queste virtù eccellentissime del disegno; là dove per esser interamente perfetto, infinite volte fece anatomia scorticando uomini per vedere il principio e legazioni dell'ossature, muscoli, nerbi, vene e moti diversi e tutte le positure del corpo umano, e non solo degli uomini, ma degli animali ancora e particularmente de' cavagli, de' quali si dilettò assai di tenerne; e di tutti volse veder il lor principio et ordine in quanto all'arte, e lo mostrò talmente nelle cose che gli accaddono trattare, che non ne fa più chi non attende a altra cosa che quella.
Per il che ha condotto le cose sue così col pennello come con lo scarpello, che son quasi inimmitabili, et ha dato, come s'è detto, tanta arte, grazia et una certa vivacità alle cose sue - e ciò sia detto con pace di tutti - che ha passato e vinto gli antichi avendo saputo cavare della dificultà tanto facilmente le cose, che non paion fatte con fatica, quantunque, [da] chi disegna poi le cose sue, la vi si trovi per imitarla.
È stata conosciuta la virtù di Michelagnolo in vita e non come aviene a molti dopo la morte, essendosi visto che Giulio II, Leon X, Clemente VII, Paulo III, e Giulio III, e Paulo IIII e Pio IIII, sommi pontefici, l'hanno sempre voluto appresso e, come si sa, Solimanno imperatore de' Turchi, Francesco Valesio re di Francia, Carlo V imperatore, e la signoria di Vinezia, e finalmente il duca Cosimo de' Medici, come s'è detto, e tutti con onorate provisioni, non per altro che per valersi della sua gran virtù; che ciò non accade se non a uomini di gran valore come era egli, avendo conosciuto e veduto che queste arti, tutt'e tre, erano talmente perfette in lui, che non si trova, né in persone antiche o moderne in tanti e tanti anni che abbia girato il sole, che Dio l'abbi concesso a altri che a lui.
Ha avuto l'immaginativa tale e sì perfetta, che le cose propostosi nella idea sono state tali che con le mani, per non potere esprimere sì grandi e terribili concetti, ha spesso abandonato l'opere sue, anzi ne ha guasto molte, come io so che, innanzi che morissi di poco, abruciò gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l'ingegno suo, per non apparire se non perfetto, e io ne ho alcuni di sua mano trovati in Fiorenza messi nel nostro libro de' disegni, dove ancora che vi vegga la grandezza di quello ingegno, si conosce che quando e' voleva cavar Minerva della testa di Giove, ci bisognava il martello di Vulcano, imperò egli usò le sue figure farle di nove e di dieci e di dodici teste, non cercando altro che col metterle tutte insieme ci fussi una certa concordanza di grazia nel tutto che non lo fa il naturale, dicendo che bisognava avere le seste negli occhi e non in mano, perché le mani operano e l'occhio giudica: che tale modo tenne ancora nell'architettura.
Né paia nuovo a nessuno che Michelagnolo si dilettassi della solitudine, come quello che era innamorato dell'arte sua, che vuol l'uomo per sé solo e cogitativo e perché è necessario che, chi vuole attendere agli studii di quella, fugga le compagnie: avenga che chi attende alle considerazioni dell'arte non è mai solo né senza pensieri, e coloro che gliele attribuivano a fantasticheria et a stranezza, hanno il torto, perché chi vuole operar bene, bisogna allontanarsi da tutte le cure e fastidi, perché la virtù vuol pensamento, solitudine e comodità, e non errare con la mente.
Con tutto ciò ha avuto caro l'amicizie di molte persone grandi e delle dotte e degli uomini ingegnosi a' tempi convenienti e se l'è mantenute, come il grande Ipolito cardinale de' Medici che l'amò grandemente, et inteso che un suo cavallo turco che aveva piaceva per la sua bellezza a Michelagnolo, fu dalla liberalità di quel signore mandato a donare con dieci muli carichi di biada et un servidore che lo governassi, che Michelagnolo volentieri lo accettò.
Fu suo amicissimo lo illustrissimo cardinale Polo, innamorato Michelagnolo delle virtù e bontà di lui, il cardinale Farnese e Santacroce, che fu poi papa Marcello, il cardinale Ridolfi, el cardinale Maffeo, e monsignor Bembo, Carpi, e molti altri cardinali e vescovi e prelati, che non accade nominargli, monsignor Claudio Tolomei, el magnifico Messer Ottaviano de' Medici suo compare che gli battezzò un suo figliuolo, e Messer Bindo Altoviti, al quale donò il cartone della cappella, dove Noè inebriato è schernito da un de' figliuoli e ricoperto le vergogne dagli altri dua; Messer Lorenzo Ridolfi e Messer Anibal Caro, e Messer Giovan Francesco Lottini da Volterra; et infinitamente amò più di tutti Messer Tommaso de' Cavalieri gentiluomo romano, quale essendo giovane e molto inclinato a queste virtù, perché egli imparassi a disegnare, gli fece molte carte stupendissime disegnate di lapis nero e rosso di teste divine, e poi gli disegnò un Ganimede rapito in cielo da l'uccel di Giove, un Tizio che l'avvoltoio gli mangia il cuore, la cascata del carro del sole con Fetonte nel Po et una baccanalia di putti, che tutti sono ciascuno per sé cosa rarissima e disegni non mai più visti.
Ritrasse Michelagnolo Messer Tommaso in un cartone grande di naturale, che né prima né poi di nessuno fece il ritratto, perché aborriva il fare somigliare il vivo se non era d'infinita bellezza.
Queste carte sono state cagione che dilettandosi Messer Tommaso quanto e' fa, che n'ha poi avute una buona partita che già Michelagnolo fece a fra' Bastiano Viniziano, che le messe in opera, che sono miracolose, et invero egli le tiene meritamente per reliquie e n'ha accomodato gentilmente gli artefici.
Et invero Michelagnolo collocò sempre l'amor suo a persone nobili, meritevoli e degne, che nel vero ebbe giudizio e gusto in tutte le cose.
Ha fatto poi fare Messer Tommaso a Michelagnolo molti disegni per amici, come per il cardinale di Cesis la tavola dove è la Nostra Donna annunziata dall'Angelo, cosa nuova, che poi fu da Marcello Mantovano colorita e posta nella cappella di marmo, che ha fatto fare quel Cardinale nella chiesa della Pace di Roma, come ancora un'altra Nunziata colorita pur di mano di Marcello in una tavola nella chiesa di S.
Ianni Laterano, che 'l disegno l'ha il duca Cosimo de' Medici, il quale dopo la morte donò Lionardo Buonarruoti suo nipote a sua eccellenza che gli tien per gioie, insieme con un Cristo che òra nell'orto e molti altri disegni e schizzi e cartoni di mano di Michelagnolo, insieme con la statua della Vittoria che ha sotto un prigione, di braccia cinque alta; ma quattro prigioni bozzati, che possano insegnare a cavare de' marmi le figure con un modo sicuro da non istorpiare i sassi, che il modo è questo: che se e' si pigliassi una figura di cera o d'altra materia dura, e si mettessi a diacere in una conca d'acqua, la quale acqua essendo per sua natura nella sua sommità piana e pari, alzando la detta figura a poco a poco del pari, così vengono a scoprirsi prima le parti più rilevate et a nascondersi i fondi, cioè le parti più basse della figura, tanto che nel fine ella così viene scoperta tutta.
Nel medesimo modo si debbono cavare con lo scarpello le figure de' marmi, prima scoprendo le parti più rilevate, e di mano in mano le più basse, il quale modo si vede osservato da Michelagnolo ne' sopra detti prigioni, i quali sua eccellenzia vuole che servino per esemplo de' suoi accademici.
Amò gli artefici suoi e praticò con essi, come con Iacopo Sansovino, il Rosso, il Puntormo, Daniello da Volterra e Giorgio Vasari aretino, al quale usò infinite amorevolezze e fu cagione che egli attendessi alla architettura con intenzione di servirsene un giorno, e conferiva seco volentieri e discorreva delle cose dell'arte.
E questi che dicano che non voleva insegnare, hanno il torto, perché l'usò sempre a' suoi famigliari et a chi dimandava consiglio, e perché mi sono trovato a molti presente, per modestia lo taccio non volendo scoprire i difetti d'altri.
Si può ben far giudizio di questo che con coloro che stettono con seco in casa ebbe mala fortuna, perché percosse in subietti poco atti a imitarlo; ché Piero Urbano pistolese suo creato era persona d'ingegno, ma non volse mai affaticarsi; Antonio Mini arebbe voluto, ma non ebbe il cervello atto, e quando la cera è dura non s'imprime bene; Ascanio dalla Ripa Transone durava gran fatiche, ma mai se ne vedde il frutto né in opere, né in disegni, e pestò parecchi anni intorno a una tavola che Michelagnolo gli aveva dato un cartone, nel fine se n'è ito in fummo quella buona aspettazione che si credeva di lui, che mi ricordo che Michelagnolo gli veniva compassione sì dello stento suo e l'aiutava di suo mano, ma giovò poco.
E s'egli avessi avuto un subietto, che me lo disse parecchi volte, arebbe speso così vecchio fatto notomia et arebbe scrittovi sopra per giovamento de' suoi artefici, che fu ingannato da parecchi; ma si difidava, per non potere esprimere con gli scritti quel ch'egli arebbe voluto, per non essere egli esercitato nel dire, quantunque egli in prosa nelle lettere sue abbia con poche parole spiegato bene il suo concetto, essendosi egli molto dilettato delle lezzioni de' poeti volgari, e particolarmente di Dante che molto lo amirava et imitava ne' concetti e nelle invenzioni, così 'l Petrarca, dilettatosi di far madrigali, sonetti molto gravi sopra e' quali s'è fatto comenti, e Messer Benedetto Varchi nella Accademia fiorentina fece una lezione onorata sopra quel sonetto che comincia:
Non ha l'ottimo artista alcun concetto,
ch'un marmo solo in sé non circonscriva.
Ma infiniti ne mandò di suo e ricevé risposta di rime e di prose della illustrissima marchesana di Pescara, delle virtù della quale Michelagnolo era innamorato et ella parimente di quelle di lui, e molte volte andò ella a Roma da Viterbo a visitarlo, e le disegnò Michelagnolo una Pietà in grembo alla Nostra Donna con dua Angioletti mirabilissima, et un Cristo confitto in croce, che alzato la testa raccomanda lo spirito al Padre, cosa divina, oltre a un Cristo con la Samaritana al pozzo.
Dilettossi molto della Scrittura Sacra, come ottimo cristiano che egli era, et ebbe in gran venerazione l'opere scritte da fra' Girolamo Savonarola per avere udito la voce di quel frate in pergamo.
Amò grandemente le bellezze umane per la imitazione dell'arte per potere scerre il bello dal bello, ché senza questa imitazione non si può far cosa perfetta; ma non in pensieri lascivi e disonesti, che l'ha mostro nel modo del viver suo, che è stato parchissimo, essendosi contentato quando era giovane, per istare intento al lavoro, d'un poco di pane e di vino, avendolo usato sendo vecchio fino che faceva il Giudizio di cappella, col ristorarsi la sera quando aveva finito la giornata, pur parchissimamente; che se bene era ricco viveva da povero, né amico nessuno mai mangiò seco o di rado, né voleva presenti di nessuno, perché pareva, come uno gli donava qualcosa, d'essere sempre obligato a colui.
La qual sobrietà lo faceva essere vigilantissimo e di pochissimo sonno, e bene spesso la notte si levava, non potendo dormire, a lavorare con lo scarpello avendo fatto una celata di cartoni, e sopra il mezzo del capo teneva accesa la candela, la quale con questo modo rendeva lume dove egli lavorava senza impedimento delle mani.
Et il Vasari, che più volte vidde la celata, considerò che non adoperava cera, ma candele di sevo di capra schietto, che sono eccellenti, e gliene mandò quattro mazzi, che erano quaranta libbre.
Il suo servitore garbato gliene portò alle dua ore di notte, e presentategliene, Michelagnolo ricusava che non le voleva, gli disse: "Messere, le m'hanno rotto per di qui in ponte le braccia, né le vo' riportare a casa che dinanzi al vostro uscio ci è una fanghiglia soda e starebbono ritte agevolmente; io le accenderò tutte".
Michelagnolo gli disse: "Posale costì, che io non voglio che tu mi faccia le baie a l'uscio".
Dissemi che molte volte nella sua gioventù dormiva vestito, come quello che stracco dal lavoro non curava di spogliarsi per aver poi a rivestirsi.
Sono alcuni che l'hanno tassato essere avaro; questi s'ingannano, perché sì delle cose dell'arte come delle facultà ha mostro il contrario; delle cose dell'arte si vede aver donato, come s'è detto, et a Messer Tommaso de' Cavalieri, a Messer Bindo et a fra' Bastiano disegni che valevano assai; ma a Antonio Mini suo creato tutti i disegni, tutti i cartoni, il quadro della Leda, tutti i suoi modegli e di cera e di terra che fece mai, che come s'è detto, rimasono tutti in Francia a Gherardo Perini gentiluomo fiorentino suo amicissimo; in tre carte alcune teste di matita nera divine, le quali sono dopo la morte di lui venute in mano dello illustrissimo don Francesco principe di Fiorenza, che le tiene per gioie, come le sono.
A Bartolommeo Bettini fece e donò un cartone d'una Venere con Cupido che la bacia, che è cosa divina, oggi appresso agli eredi in Fiorenza; e per il marchese del Vasto fece un cartone d'un Noli me tangere, cosa rara, che l'uno e l'altro dipinse eccellentemente il Puntormo, come s'è detto.
Donò i duoi prigioni al signor Ruberto Strozzi, et a Antonio suo servitore, et a Francesco Bandini la Pietà che roppe, di marmo.
Né so quel che si possa tassar d'avarizia questo uomo, avendo donato tante cose, che se ne sarebbe cavato migliaia di scudi.
Che si può egli dire, se non che io so, che mi ci son trovato, che ha fatto più disegni et ito a vedere più pitture e più muraglie, né mai ha voluto niente? Ma veniamo ai danari guadagnati col suo sudore, non con entrate, non con cambi, ma con lo studio e fatica sua, se si può chiamare avaro chi soveniva molti poveri, come faceva egli, e maritava segretamente buon numero di fanciulle, et arricchiva chi lo aiutava nell'opere, e chi lo servì come Urbino suo servidore che lo fece ricchissimo et era suo creato che l'aveva servito molto tempo; e gli disse: "Se io mi muoio, che farai tu?".
Rispose: "Servirò un altro".
"O povero a te", gli disse Michelagnolo, "io vo' riparare alla tua miseria", e gli donò scudi dumila in una volta, cosa che è solita da farsi per i Cesari e pontefici grandi; senzaché al nipote ha dato per volta tre e quattro mila scudi, e nel fine gli ha lassato scudi diecimila senza le cose di Roma.
È stato Michelagnolo di una tenace e profonda memoria, che nel vedere le cose altrui una sol volta l'ha ritenute sì fattamente e servitosene in una maniera, che nessuno se n'è mai quasi accorto, né ha mai fatto cosa nessuna delle sue che riscontri l'una con l'altra, perché si ricordava di tutto quello che aveva fatto.
Nella sua gioventù sendo con gli amici sua pittori, giucorno una cena a chi faceva una figura che non avessi niente di disegno, che fussi goffa, simile a que' fantocci che fanno coloro che non sanno et imbrattano le mura, Qui si valse della memoria, perché ricordatosi aver visto in un muro una di queste gofferie, la fece come se l'avessi avuta dinanzi di tutto punto, e superò tutti que' pittori; cosa dificile in uno uomo tanto pieno di disegno, avvezzo a cose scelte, che ne potessi uscir netto.
È stato sdegnoso e giustamente verso di chi gli ha fatto ingiuria, non però s'è visto mai esser corso alla vendetta, ma sì bene più tosto pazientissimo et in tutti i costumi modesto, e nel parlare molto prudente e savio, con risposte piene di gravità et alle volte con motti ingegnosi, piacevoli et acuti.
Ha detto molte cose che sono state da noi notate, delle quali ne metteremo alcune, perché saria lungo a descriverle tutte.
Essendogli ragionato della morte da un suo amico dicendogli che doveva assai dolergli, sendo stato in continove fatiche per le cose dell'arte, né mai avuto ristoro, rispose che tutto era nulla, perché se la vita ci piace, essendo anco la morte di mano d'un medesimo maestro, quella non ci doverebbe dispiacere.
A un cittadino che lo trovò da Or San Michele in Fiorenza che s'era fermato a riguardare la statua del San Marco di Donato, e lo domandò quel che di quella figura gli paresse, Michelagnolo rispose che non vedde mai figura che avessi più aria di uomo da bene di quella e che se San Marco era tale, se gli poteva credere ciò che aveva scritto.
Essendogli mostro un disegno e raccomandato un fanciullo che allora imparava a disegnare, scusandolo alcuni che era poco tempo che s'era posto all'arte, rispose: "E' si conosce".
Un simil motto disse a un pittore che aveva dipinto una Pietà e non s'era portato bene, che ell'era proprio una pietà a vederla.
Inteso che Sebastiano Viniziano aveva a fare nella cappella di San Piero a Montorio un frate, disse che gli guasterebbe quella opera; domandato della cagione, rispose che avendo eglino guasto il mondo che è sì grande, non sarebbe gran fatto che gli guastassino una cappella sì piccola.
Aveva fatto un pittore una opera con grandissima fatica e penatovi molto tempo, e nello scoprirla aveva acquistato assai; fu dimandato Michelagnolo che gli pareva del facitore di quella; rispose: "Mentre che costui vorrà esser ricco, sarà del continuo povero".
Uno amico suo che già diceva messa et era religioso, capitò a Roma tutto pieno di puntali e di drappo e salutò Michelagnolo et egli si finse di non vederlo, per che fu l'amico forzato fargli palese il suo nome; mostrò di maravigliarsi Michelagnolo che fussi in quell'abito, poi soggiunse quasi rallegrandosi: "Oh voi siete bello! Se fossi così drento, come io vi veggio di fuori, buon per l'anima vostra".
Al medesimo che aveva raccomandato uno amico suo a Michelagnolo che gli aveva fatto fare una statua, pregandolo che gli facessi dare qualcosa più, il che amorevolmente fece; ma l'invidia dello amico che richiese Michelagnolo credendo che non lo dovesse fare, veggendo pur che l'aveva fatto, fece che se ne dolse, e tal cosa fu detta a Michelagnolo; onde rispose che gli dispiacevano gli uomini fognati, stando nella metafora della architettura, intendendo che con quegli che hanno due bocche, mal si può praticare.
Domandato da uno amico suo quel che gli paresse d'uno che aveva contrafatto di marmo figure antiche delle più celebrate, vantandosi lo immitatore che di gran lunga aveva superato gli antichi; rispose: "Chi va dietro a altri, mai non li passa innanzi, e chi non sa far bene da sé, non può servirsi bene delle cose d'altri".
Aveva non so che pittore [fatto] un'opera, dove era un bue che stava meglio delle altre cose; fu dimandato perché il pittore aveva fatto più vivo quello che l'altre cose, disse: "Ogni pittore ritrae se medesimo bene".
Passando da San Giovanni di Fiorenza gli fu dimandato il suo parere di quelle porte, egli rispose: "Elle sono tanto belle, che le starebbon bene alle porte del Paradiso".
Serviva un principe che ogni dì variava disegni, né stava fermo; disse Michelagnolo a uno amico suo: "Questo signore ha un cervello come una bandiera di campanile, che ogni vento che vi dà drento la fa girare".
Andò a vedere una opera di scultura che doveva mettersi fuora perché era finita, e si affaticava lo scultore assai in acconciare i lumi delle finestre perch'ella mostrassi bene, dove Michelagnolo gli disse: "Non ti affaticare che l'importanza sarà il lume della piazza", volendo inferire che come le cose sono in publico, il populo fa giudizio s'elle sono buone o cattive.
Era un gran principe che aveva capriccio in Roma d'architetto, et aveva fatto fare certe nicchie per mettervi figure, che erano l'una tre quadri alte con uno anello in cima, e vi provò a mettere dentro statue diverse, che non vi tornavano bene.
Dimandò Michelagnolo quel che vi potessi mettere; rispose: "De' mazzi di anguille appiccate a quello anello".
Fu assunto al governo della fabrica di S.
Piero un signore che faceva professione d'intendere Vitruvio e d'essere censore delle cose fatte.
Fu detto a Michelagnolo: "Voi avete avuto uno alla fabbrica che ha un grande ingegno".
Rispose Michelagnolo: "Gli è vero, ma gli ha cattivo giudizio".
Aveva un pittore fatto una storia et aveva cavato di diversi luoghi di carte e di pitture molte cose, né era in su quella opera niente che non fussi cavato, e fu mostro a Michelagnolo che veduta, gli fu dimandato da un suo amicissimo quel che gli pareva; rispose: "Bene ha fatto, ma io non so al dì del giudizio, che tutti i corpi piglieranno le lor membra, come farà quella storia, che non ci rimarrà niente": avvertimento a coloro che fanno l'arte, che s'avezzino a fare da sé.
Passando da Modana vedde di mano di maestro Antonio Bigarino modanese scultore, che aveva fatto molte figure belle di terra cotta e colorite di colore di marmo, le quali gli parsono una eccellente cosa, e perché quello scultore non sapeva lavorare il marmo, disse: "Se questa terra diventassi marmo, guai alle statue antiche".
Fu detto a Michelagnolo che doveva risentirsi contro a Nanni di Baccio Bigio, perché voleva ogni dì competere seco; rispose: "Chi combatte con da pochi, non vince a nulla".
Un prete suo amico disse: "Gli è peccato che non aviate tolto donna, perché aresti avuto molti figliuoli e lasciato loro tante fatiche onorate".
Rispose Michelagnolo: "Io ho moglie troppa, che è questa arte che m'ha fatto sempre tribolare, et i miei figliuoli saranno l'opere che io lasserò; che se saranno da niente, si viverà un pezzo.
E guai a Lorenzo di Bartoluccio Ghiberti se non faceva le porte di S.
Giovanni, perché i figliuoli e' nipoti gli hanno venduto e mandato male tutto quello che lasciò: le porte sono ancora in piedi".
Il Vasari mandato da Giulio Terzo a un'ora di notte per un disegno a casa Michelagnolo, trovò che lavorava sopra la Pietà di marmo che e' ruppe.
Conosciutolo Michelagnolo al picchiare della porta, si levò dal lavoro e prese in mano una lucerna dal manico; dove esposto il Vasari quel che voleva, mandò per il disegno Urbino di sopra, et entrati in altro ragionamento, voltò intanto gli occhi il Vasari a guardare una gamba del Cristo sopra la quale lavorava e cercava di mutarla; e per ovviare che 'l Vasari non la vedessi, si lasciò cascare la lucerna di mano, e rimasti al buio, chiamò Urbino che recassi un lume, et in tanto uscito fuori del tavolato, dove ell'era, disse: "Io sono tanto vecchio, che spesso la morte mi tira per la cappa perché io vadia seco, e questa mia persona cascherà un dì come questa lucerna, e sarà spento il lume della vita".
Con tutto ciò aveva piacere di certe sorte uomini a suo gusto, come il Menighella pittore dozzinale e goffo di Valdarno, che era persona piacevolissima, il quale veniva talvolta a Michelagnolo che gli facessi un disegno di San Rocco, di Santo Antonio per dipignere a' contadini.
Michelagnolo che era dificile a lavorare per i re, si metteva giù lassando stare ogni lavoro, e gli faceva disegni semplici accomodati alla maniera e volontà, come diceva Menighella, e fra l'altre gli fece fare un modello d'un Crocifisso, che era bellissimo, sopra il quale vi fece un cavo, e ne formava di cartone e d'altre mesture, et in contado gli andava vendendo, che Michelagnolo crepava delle risa; massime che gli intraveniva di bei casi, come con un villano, il quale gli fece dipignere S.
Francesco, e dispiaciutoli che 'l Menighella gli aveva fatto la vesta bigia, che l'arebbe voluta di più bel colore, il Menighella gli fece in dosso un piviale di broccato, e lo contentò.
Amò parimente Topolino scarpellino, il quale aveva fantasia d'essere valente scultore, ma era debolissimo.
Costui stette nelle montagne di Carrara molti anni a mandar marmi a Michelagnolo, né arebbe mai mandato una scafa carica che non avessi mandato sopra tre o quattro figurine bozzate di sua mano, che Michelagnolo moriva delle risa.
Finalmente ritornato, et avendo bozzato un Mercurio in un marmo, si messe Topolino a finirlo, et un dì che ci mancava poco, volse Michelagnolo lo vedessi e strettamente operò li dicessi l'openion sua.
"Tu sei un pazzo, Topolino", gli disse Michelagnolo "a volere far figure, non vedi che a questo Mercurio dalle ginocchia alli piedi ci manca più di un terzo di braccio, che gli è nano, e che tu l'hai storpiato?".
"O questo non è niente, s'ella non ha altro io ci rimedierò, lassate fare a me." Rise di nuovo della semplicità sua Michelagnolo, e partito, prese un poco di marmo Topolino e tagliato il Mercurio sotto le ginocchia un quarto, lo incassò nel marmo e lo comesse gentilmente, facendo un paio di stivaletti a Mercurio, che il fine passava la commettitura e lo allungò il bisogno: che fatto venire poi Michelagnolo e mostrogli l'opera sua di nuovo, rise e si maravigliò che tali goffi stretti dalla necessità piglion di quelle resoluzioni che non fanno i valenti uomini.
Mentre che egli faceva finire la sepoltura di Giulio Secondo, fece a uno squadratore di marmi condurre un termine per porlo nella sepoltura di S.
Piero in Vincola, con dire: "Lieva oggi questo, e spiana qui, pulisci qua"; di maniera che senza che colui se n'avedessi, gli fé fare una figura; perché finita colui maravigliosamente la guardava, disse Michelagnolo: "Che te ne pare?".
"Parmi bene", rispose colui "e v'ho grande obligo".
"Perché", soggiunse Michelagnolo.
"Perché io ho ritrovato per mezzo vostro una virtù che io non sapeva d'averla."
Ma per abreviare dico che la complessione di questo uomo fu molto sana, perché era asciutta e bene annodata di nerbi, e se bene fu da fanciullo cagionevole e da uomo ebbe dua malattie d'importanza, soportò sempre ogni fatica e non ebbe difetto, salvo nella sua vecchiezza patì dello orinare e di renella, che s'era finalmente convertita in pietra, onde per le mani di maestro Realdo Colombo suo amicissimo si siringò molti anni e lo curò diligentemente.
Fu di statura mediocre, nelle spalle largo, ma ben proporzionato con tutto il resto del corpo.
Alle gambe portò invecchiando di continuovo stivali di pelle di cane sopra lo ignudo i mesi interi, che quando gli voleva cavare poi nel tirargli ne veniva spesso la pelle.
Usava sopra le calze stivali di cordovano afibiati di drento per amore degli umori.
La faccia era ritonda, la fronte quadrata e spaziosa con sette linee diritte, e le tempie sportavano in fuori più delle orecchie assai, le quali orecchie erano più presto alquanto grandi e fuor delle guance; il corpo era a proporzione della faccia e più tosto grande, il naso alquanto stiacciato, come si disse nella vita del Torrigiano, che gliene ruppe con un pugno, gli occhi più tosto piccoli che no, di color corneo machiati di scintille giallette azzurricine, le ciglia con pochi peli, le labra sottili e quel di sotto più grossetto et alquanto infuori; il mento ben composto alla proporzione del resto; la barba, e' capegli neri, sparsa con molti peli canuti, lunga non molto e biforcata, e non molto folta.
Certamente fu al mondo la sua venuta, come dissi nel principio, uno esemplo mandato da Dio agli uomini dell'arte nostra, perché s'imparassi da lui nella vita sua i costumi, e nelle opere, come avevano a essere i veri et ottimi artefici.
Et io che ho da lodare Dio d'infinite felicità che raro suole accadere negli uomini della professione nostra, annovero fra le maggiori una: esser nato in tempo che Michelagnolo sia stato vivo, e sia stato degno che io l'abbia avuto per padrone e che egli mi sia stato tanto famigliare et amico quanto sa ognuno, e le lettere sue scrittemi ne fanno testimonio apresso di me; e per la verità e per l'obligo che io ho alla sua amorevolezza ho potuto scrivere di lui molte cose e tutte vere, che molti altri non hanno potuto fare.
L'altra felicità è, come mi diceva egli: "Giorgio riconosci Dio che t'ha fatto servire il duca Cosimo, che per contentarsi che tu muri e dipinga e metta in opera i suoi pensieri e disegni, non ha curato spesa: dove se tu consideri agli altri di chi tu hai scritto le Vite, non hanno avuto tanto".
Fu con onoratissime essequie col discorso di tutta l'arte e di tutti gli amici suoi e della nazione fiorentina, dato sepoltura a Michelagnolo in Santo Apostolo in un deposito nel cospetto di tutta Roma, avendo disegnato Sua Santità di farne fare particolare e memoria sepoltura in San Piero di Roma.
Arrivò Lionardo suo nipote che era finito ogni cosa, quantunque andasse in poste; et avutone aviso il duca Cosimo, il quale aveva disegnato che poi che non l'aveva potuto aver vivo et onorarlo, di farlo venire a Fiorenza e non restare con ogni sorte di pompa onorarlo dopo la morte, fu ad uso di mercanzia mandato in una balla segretamente; il quale modo si tenne acciò in Roma non s'avesse a fare romore e forse essere impedito il corpo di Michelagnolo e non lasciato condurre in Fiorenza.
Ma innanzi che il corpo venisse, intesa la nuova della morte, ragunatisi insieme a richiesta del luogotenente della loro Accademia i principali pittori, scultori et architetti, fu ricordato loro da esso luogotenente, che allora era il reverendo don Vincenzio Borghini, che erano ubligati in virtù de' loro capitoli ad onorare la morte di tutti i loro fratelli, e che avendo essi ciò fatto sì amorevolmente e con tanta sodisfazione universale nell'essequie di fra' Giovan Agnolo Montorsoli, che primo dopo la creazione dell'Accademia era mancato, vedessero bene quello che fare si convenisse per l'onoranza del Buonarruoto, il quale da tutto il corpo della Compagnia e con tutti i voti favorevoli era stato eletto primo accademico e capo di tutti loro.
Alla quale proposta risposero tutti, come ubbligatissimi et affezionatissimi alla virtù di tant'uomo, che per ogni modo si facesse opera di onorarlo in tutti que' modi che per loro si potessino maggiori e migliori.
Ciò fatto per non avere ogni giorno a ragunare tante gente insieme con molto scomodo loro, e perché le cose passassero più quietamente, furono eletti sopra l'essequie et onoranza da farsi quattro uomini: Agnolo Bronzino e Giorgio Vasari pittori, Benvenuto Cellini e Bartolomeo Amannati, scultori, tutti di chiaro nome e d'illustre valore nelle lor arti, acciò dico questi consultassono e fermassono fra loro e col luogotenente quanto che e come si avesse a fare ciascuna cosa, con facultà di poter disporre di tutto il corpo della Compagnia et Accademia.
Il quale carico presero tanto più volentieri offerendosi, come fecero, di bonissima voglia, tutti i giovani e vecchi, ciascuno nella sua professione, di fare quelle pitture e statue che s'avessono a fare in quell'onoranza.
Dopo ordinarono che il luogotenente per debito del suo uffizio et i consoli in nome della Compagnia et Accademia significassero il tutto al signor Duca, e chiedessono quegli aiuti e favori che bisognavano, e specialmente che le dette essequie si potessono fare in San Lorenzo, chiesa dell'illustrissima casa de' Medici, e dove è la maggior parte dell'opere che di mano di Michelagnolo si veggiono in Firenze.
E che oltre ciò sua eccellenza si contentasse che Messer Benedetto Varchi facesse e recitasse l'orazione funerale, acciò che l'eccellente virtù di Michelagnolo fusse lodata dall'eccellente eloquenza di tant'uomo, quanto era il Varchi, il quale per essere particularmente a' servigii di sua eccellenza non arebbe preso, senza parola di lei, cotal carico, ancor che come amorevolissimo di natura et affezionatissimo alla memoria di Michelagnolo erano certissimi che, quanto a sé, non l'arebbe mai ricusato.
Questo fatto, licenziati che furono gl'accademici, il detto luogotenente scrisse al signor Duca una lettera di questo preciso tenore:
Avendo l'Accademia e Compagnia de' Pittori e Scultori consultato fra loro, quando sia con satisfazione di Vostra Eccellenzia illustrissima di onorare in qualche parte la memoria di Michelagnolo Buonarruoti, sì per il debito generale di tanta virtù, nella loro professione del maggior artefice che forse sia stato mai, e loro particolare, per l'interesse della comune patria, sì ancora per il gran giovamento che queste professioni hanno ricevuto della perfezione dell'opere et invenzioni sue, tal che pare che sia loro obligo mostrarsi amorevoli in quel modo ch'ei possono alla sua virtù, hanno per una loro esposto a Vostra Eccellenzia illustrissima questo loro desiderio e ricercatola come loro proprio refugio di certo aiuto.
Io pregato da loro e (come giudico) obligato, per essersi contentata Vostra Eccellenzia illustrissima che io sia ancora questo anno con nome di suo luogotenente in loro compagnia, et aggiunto che la cosa mi pare piena di cortesia e d'animi virtuosi e grati; ma molto più conoscendo quanto Vostra Eccellenzia illustrissima è favoritore della virtù, e come un porto et un unico protettore in questa età delle persone ingegnose, avanzando in questo i suoi antinati, i quali alli eccellenti di queste professioni feciono favori straordinari, avendo per ordine del magnifico Lorenzo Giotto, tanto tempo innanzi morto, ricevuto una statua nel principal tempio, e fra' Filippo un sepolcro bellissimo di marmo, a spese sue proprie, e molti altri in diverse occasioni, utili et onori grandissimi; mosso da tutte queste cagioni, ho preso animo di raccomandare a Vostra Eccellenzia illustrissima la petizione di questa Accademia di potere onorare la virtù di Michelagnolo allievo e creatura particulare della scuola del magnifico Lorenzo, che sarà a loro contento straordinario, grandissima satisfazione all'universale, incitamento non piccolo ai professori di quest'arti et a tutta Italia saggio del bell'animo e pieno di bontà di Vostra Eccellenzia illustrissima, la quale Dio conservi lungamente felice a beneficio de' popoli suoi e sostentamento della virtù.
Alla quale lettera detto signor Duca rispose così:
Reverendo nostro carissimo.
La prontezza che ha dimostrato e dimostra codesta Accademia per onorare la memoria di Michelagnolo Buonarruoti, passato di questa a miglior vita, ci ha dato, dopo la perdita d'un uomo così singolare, molta consolazione; e non solo volemo contentarla di quanto ci ha domandato nel memoriale, ma procurare ancora che l'ossa di lui sieno portate a Firenze, secondo che fu la sua voluntà, per quanto siamo avisati: il che tutto scriviamo all'Accademia prefata [per infiammarla] tanto più a celebrare in tutti i modi la virtù di tanto uomo.
E Dio vi contenti.
Della lettera poi, o vero memoriale di cui si fa di sopra menzione, fatta dall'Accademia al signor Duca, fu questo il proprio tenore:
Illustrissimo, etc.
L'Accademia e gl'uomini della Compagnia del Disegno, creata per grazia e favore di Vostra Eccellenzia illustrissima, sappiendo con quanto studio et affezione ella abbia fatto per mezzo dell'oratore suo in Roma venire il corpo di Michelagnolo Buonarruoti a Firenze, ragunatisi insieme hanno unitamente diliberato di dovere celebrare le sue essequie in quel modo che saperanno e potranno il migliore.
Londe, sappiendo essi che Sua Eccellenzia illustrissima era tanto osservata da Michelagnolo, quanto ella amava lui, la suplicano che le piaccia per l'infinita bontà e liberalità sua concedere loro: prima, che essi possano celebrare dette essequie nella chiesa di San Lorenzo, edificata da' suoi maggiori, e nella quale sono tante e sì bell'opere da lui fatte, così nell'architettura, come nella scultura, e vicino alla quale ha in animo di volere che s'edifichi la stanza che sia quasi un nido et un continuo studio dell'architettura, scultura e pittura a detta Accademia e Compagnia del Disegno; secondamente la pregano che voglia far commettere a Messer Benedetto Varchi che non solo voglia fare l'orazione funerale, ma ancora recitarla di propria bocca, come ha promesso di voler fare liberissimamente, pregato da noi, ogni volta che Vostra Eccellenzia illustrissima se ne contenti.
Nel terzo luogo supplicano e pregano quella, che le piaccia, per la medesima bontà e liberalità sua, sovenirgli di tutto quello che in celebrare dette essequie, oltra la loro possibilità, la quale è piccolissima, facesse loro di bisogno.
E tutte queste cose e ciascuna d'esse si sono trattate e diliberate alla presenza e con consentimento del molto magnifico e reverendo monsignore Messer Vincenzio Borghini, priore degl'Innocenti, luogotenente di Sua Eccellenzia illustrissima di detta Accademia e Compagnia del Disegno.
La quale, etc.
Alla quale lettera dell'Accademia fece il Duca questa risposta:
Carissimi nostri, siamo molto contenti di sodisfare pienamente alle vostre petizioni, tanta è stata sempre l'affezione che noi portiamo alla rara virtù di Michelagnolo Buonarruoti e portiamo ora a tutta la professione vostra; però non lasciate di essequire quanto voi avete in proponimento di fare per l'essequie di lui, ché noi non mancheremo di sovenire a' bisogni vostri; et intanto si è scritto a Messer Benedetto Varchi per l'orazione et allo spedalingo quello di più che ci soviene in questo proposito, e state sani.
Di Pisa.
La lettera al Varchi fu questa:
Messer Benedetto nostro carissimo.
L'affezione che noi portiamo alla rara virtù di Michelagnolo Buonarruoti, ci fa desiderare che la memoria di lui sia onorata e celebrata in tutti modi; però ci sarà cosa grata che per amore nostro vi pigliate cura di fare l'orazione, che si arà da ricitare nell'essequie di lui, secondo l'ordine preso dalli deputati dell'Accademia, e gratissima se sarà recitata per l'organo vostro.
E state sano.
Scrisse anco Messer Bernardino Grazini ai detti deputati che nel Duca non si sarebbe potuto disiderare più ardente disiderio intorno a ciò di quello che avea mostrato, e che si promettessino ogni aiuto e favore da sua eccellenzia illustrissima.
Mentre che queste cose si trattavano a Firenze, Lionardo Buonarruoti nipote di Michelagnolo, il quale intesa la malatia del zio si era per le poste trasferito a Roma, ma non l'aveva trovato vivo, avendo inteso da Daniello da Volterra, stato molto familiare amico di Michelagnolo, e da altri ancora che erano stati intorno a quel santo vecchio, che egli aveva chiesto e pregato che il suo corpo fusse portato a Fiorenza, sua nobilissima patria, della quale fu sempre tenerissimo amatore, aveva con prestezza, e perciò buona resoluzione, cautamente cavato il corpo di Roma, e come fusse alcuna mercanzia inviatolo verso Firenze in una balla.
Ma non è qui da tacere che quest'ultima risoluzione di Michelagnolo dichiarò, contra l'openione d'alcuni, quello che era verissimo: cioè che l'essere stato molti anni assente da Firenze, non era per altro stato che per la qualità dell'aria, perciò che la sperienza gli aveva fatto conoscere che quella di Firenze, per essere acuta e sottile, era alla sua complessione nimicissima, e che quella di Roma più dolce e temperata l'aveva mantenuto sanissimo fino al novantesimo anno, con tutti i sensi così vivaci et interi come fussero stati mai, e con sì fatte forze, secondo quell'età, che insino all'ultimo giorno non aveva lasciato d'operare alcuna cosa.
Poi che dunque per così sùbita e quasi improvisa venuta non si poteva far per allora quello che fecero poi, arrivato il corpo di Michelagnolo in Firenze fu messa, come vollono i deputati, la cassa il dì medesimo ch'ella arrivò in Fiorenza, cioè il dì undici di marzo, che fu in sabato, nella Compagnia dell'Assunta, che è sotto l'altar maggiore e sotto le scale di dietro di San Piero Maggiore, senza che fusse tocca di cosa alcuna.
Il dì seguente, che fu la domenica della seconda settimana di Quaresima, tutti i pittori, scultori et architetti si ragunarono così dissimulatamente intorno a San Piero, dove non avevano condotto altro che una coperta di velluto, fornita tutta e trapuntata d'oro, che copriva la cassa e tutto il feretro, sopra la quale cassa era una imagine di Crucifisso.
Intorno poi a mezza ora di notte, ristretti tutti intorno al corpo, in un subito i più vecchi et eccellenti artefici diedero di mano a una gran quantità di torchi che li erano stati condotti, et i giovani a pigliare il feretro con tanta prontezza, che beato colui che vi si poteva accostare e sotto mettervi le spalle, quasi credendo d'avere nel tempo avenire a poter gloriarsi d'aver portato l'ossa del maggior uomo che mai fusse nell'arti loro.
L'essere stato veduto intorno a San Piero un certo che di ragunata, aveva fatto, come in simili casi adiviene, fermarvi molte persone, e tanto più essendosi bucinato che il corpo di Michelagnolo era venuto e che si aveva a portare in Santa Croce.
E se bene, come ho detto, si fece ogni opera che la cosa non si sapesse, acciò che spargendosi la fama per la città non vi concorresse tanta moltitudine che si potesse fuggire un certo che di tumulto e confusione, et ancora perché desideravano che quel poco che volevan fare per allora venisse fatto con più quiete che pompa, riserbando il resto a più agio e più comodo tempo, l'una e l'altra andò per lo contrario; perciò che quanto alla moltitudine, andando, come s'è detto, la nuova di voce in voce, si empié in modo la chiesa in un batter d'occhio, che in ultimo con grandissima difficultà si condusse quel corpo di chiesa in sagrestia, per sballarlo e metterlo nel suo deposito.
E quanto all'essere cosa onorevole, se bene non può negarsi che il vedere nelle pompe funerali grande apparecchio di religiosi, gran quantità di cera e gran numero d'imbastiti e vestiti a nero, non sia cosa di magnifica e grande apparenza, non è però che anco non fusse gran cosa vedere così all'improvviso ristretti in un drappello quelli uomini eccellenti che oggi sono in tanto pregio e saranno molto più per l'avvenire, intorno a quel corpo con tanti amorevoli uffizii et affezzione.
E di vero il numero di cotanti artefici in Firenze (che tutti vi erano) è grandissimo sempre stato; conciò sia che queste arti sono sempre, per sì fatto modo fiorite in Firenze, che io credo che si possa dire senza ingiurie dell'altre città, che il proprio e principal nido e domicilio di quelle sia Fiorenza, non altrimenti che già fusse delle scienze Atene.
Oltre al quale numero d'artefici, erano tanti cittadini loro dietro e tanti dalle bande delle strade dove si passava, che più non ne capivano.
E, che è maggior cosa, non si sentiva altro che celebrare da ognuno i meriti di Michelagnolo, e dire la vera virtù avere tanta forza, che poi che è mancata ogni speranza d'utile o onore che si possa da un virtuoso avere, ell'è nondimeno di sua natura e per proprio merito amata et onorata.
Per le quali cose apparì questa dimostrazione più viva e più preziosa, che ogni pompa d'oro e di drappi che fare si fusse potuta.
Con questa bella frequenza, essendo stato quel corpo condotto in Santa Croce, poi che ebbono i frati fornite le cerimonie che si costumano d'intorno ai defunti, fu portato, non senza grandissima difficultà, come s'è detto, per lo concorso de' popoli, in sagrestia; dove il detto luogotenente, che per l'uffizio suo vi era intervenuto, pensando di far cosa grata a molti et anco (come poi confessò) disiderando di vedere morto quello che e' non aveva veduto vivo o l'aveva veduto in età che n'aveva perduta ogni memoria, si risolvé allora di fare aprire la cassa.
E così fatto, dove egli e tutti noi presenti credevamo trovare quel corpo già putrefatto e guasto, perché era stato morto giorni venticinque e ventidue nella cassa, lo vedemo così in tutte le sue parti intero e senza alcuno odore cattivo, che stemo per credere che più tosto si riposasse in un dolce e quietissimo sonno.
Et oltre che le fattezze del viso erano come a punto quando era vivo (fuori che un poco il colore era come di morto) non aveva niun membro che guasto fusse o mostrasse alcuna schifezza, e la testa e le gote a toccarle erano non altrimenti che se di poche ore innanzi fusse passato.
Passata poi la furia del popolo, si diede ordine di metterlo in un deposito in chiesa a canto all'altare de' Cavalcanti, per me' la porta che va nel chiostro del capitolo.
In quel mezzo sparsasi la voce per la città, vi concorse tanta moltitudine di giovani per vederlo, che fu gran fatica il potere chiudere il deposito.
E se era di giorno, come fu di notte, sarebbe stato forza lasciarlo stare aperto molte ore, per sodisfare all'universale.
La mattina seguente, mentre si cominciava dai pittori e scultori a dare ordine all'onoranza, cominciarono molti belli ingegni, di che è sempre Fiorenza abondantissima, ad appiccare sopra detto deposito versi latini e volgari, e così per buona pezza fu continuato, intanto che quelli componimenti, che allora furono stampati, furono piccola parte a rispetto de' molti che furono fatti.
Ora per venire all'essequie, le quali non si fecero il dì dopo San Giovanni, come si era pensato, ma furono insino al quattordicesimo giorno di luglio prolungate, i tre deputati (perché Benvenuto Cellini, essendosi da principio sentito alquanto indisposto, non era mai fra loro intervenuto), fatto che ebbero proveditore Zanobi Lastricati scultore, si risolverono a far cosa più tosto ingegnosa e degna dell'arti loro, che pomposa e di spesa.
"E nel vero, avendosi a onorare" dissero que' deputati et il loro proveditore "un uomo come Michelagnolo, e da uomini della professione che egli ha fatto, e più tosto ricchi di virtù che d'amplissime facultà, si dee ciò fare non con pompa regia o soperchie vanità, ma con invenzioni et opere piene di spirito e di vaghezza, che escano dal sapere della prontezza delle nostre mani e de' nostri artefici, onorando l'arte con l'arte.
Perciò che, se bene dall'eccellenza del signor Duca possiamo sperare ogni quantità di danari che fusse di bisogno, avendone già avuta quella quantità che abbiamo domandata, noi nondimeno avemo a tenere per fermo che da noi si aspetta più presto cosa ingegnosa e vaga per invenzione e per arte, che ricca per molta spesa o grandezza di superbo apparato." Ma ciò nonostante, si vide finalmente che la magnificenza fu uguale all'opere che uscirono delle mani dei detti accademici, e che quella onoranza fu non meno veramente magnifica, che ingegnosa, e piena di capricciose e lodevoli invenzioni.
Fu dunque in ultimo dato questo ordine, che nella navata di mezzo di San Lorenzo, dirimpetto alle due porte de' fianchi, delle quali una va fuori e l'altra nel chiostro, fusse ritto, come si fece, il catafalco di forma quadro, alto braccia ventotto, con una Fama in cima, lungo undici e largo nove.
In sul basamento dunque di esso catafalco, alto da terra braccia due, erano nella parte che guarda verso la porta principale della chiesa posti due bellissimi fiumi a giacere, figurati l'uno per Arno e l'altro per lo Tevere.
Arno aveva un corno di dovizia pieno di fiori e frutti, significando perciò i frutti che dalla città di Firenze sono nati in queste professioni, i quali sono stati tanti e così fatti, che hanno ripieno il mondo, e particolarmente Roma, di straordinaria bellezza.
Il che dimostrava ottimamente l'altro fiume, figurato come si è detto per lo Tevere; perciò che stendendo un braccio, si aveva piene le mani de' fiori e frutti avuti dal corno di dovizia dell'Arno, che gli giaceva a canto e dirimpetto.
Veniva a dimostrare ancora, godendo de' frutti d'Arno, che Michelagnolo è vivuto gran parte degl'anni suoi a Roma, e vi ha fatto quelle maraviglie che fanno stupire il mondo.
Arno aveva per segno il leone et il Tevere la lupa con i piccioli Romulo e Remo, et erano ambidue colossi di straordinaria grandezza e bellezza, e simili al marmo.
L'uno, cioè il Tevere, fu di mano di Giovanni di Benedetto da Castello, allievo del Bandinello, e l'altro di Battista di Benedetto, allievo dell'Ammannato, ambi giovani eccellenti e di somma aspettazione.
Da questo piano si alzava una faccia di cinque braccia e mezzo con le sue cornici di sotto, e sopra, et in su' canti, lasciando nel mezzo lo spazio di quattro quadri.
Nel primo de' quali, che veniva a essere nella faccia dove erano i due fiumi, era dipinto di chiaro scuro, sì come erano anche tutte l'altre pitture di questo apparato, il magnifico Lorenzo vecchio de' Medici, che riceveva nel suo giardino, del quale si è in altro luogo favellato, Michelagnolo fanciullo, avendo veduti certi saggi di lui che accennavano, in que' primi fiori, i frutti che poi largamente sono usciti della vivacità e grandezza del suo ingegno.
Cotale istoria dunque si conteneva nel detto quadro, il quale fu dipinto da Mirabello e da Girolamo del Crucifissaio, così chiamati, i quali come amicissimi e compagni presono a fare quell'opera insieme, nella quale con vivezza e pronte attitudini si vedeva il detto magnifico Lorenzo, ritratto di naturale, ricevere graziosamente Michelagnolo fanciulletto e tutto reverente nel suo giardino, et essaminatolo, consegnarlo ad alcuni maestri che gl'insegnassero.
Nella seconda storia, che veniva a essere, continuando il medesimo ordine, volta verso la porta del fianco che va fuori, era figurato papa Clemente, che contra l'openione del volgo, il quale pensava che Sua Santità avesse sdegno con Michelagnolo per conto delle cose dell'assedio di Firenze, non solo lo assicura e se gli mostra amorevole, ma lo mette in opera alla sagrestia nuova et alla libreria di San Lorenzo, ne' quali luoghi quanto divinamente operasse si è già detto.
In questo quadro adunque era di mano di Federigo fiamingo, detto del Padoano, dipinto con molta destrezza e dolcissima maniera Michelagnolo che mostra al Papa la pianta della detta sagrestia, e dietro lui parte da alcuni Angioletti, e parte da altre figure, erano portati i modelli della libreria, della sagrestia e delle statue che vi sono oggi finite.
Il che tutto era molto bene accomodato e lavorato con diligenza.
Nel terzo quadro che posando come gl'altri detti sul primo piano, guardava l'altare maggiore, era un grande epitaffio latino composto dal dottissimo Messer Pier Vettori, il sentimento del quale era tale in lingua fiorentina: "L'Accademia de' pittori, scultori et architettori, col favore et aiuto del duca Cosimo de' Medici, loro capo e sommo protettore di queste arti, ammirando l'eccellente virtù di Michelagnolo Buonarruoti e riconoscendo in parte il beneficio ricevuto dalle divine opere sue, ha dedicato questa memoria, uscita dalle proprie mani e da tutta l'affezzione del cuore, all'eccellenza e virtù del maggior pittore, scultore et architettore che sia mai stato".
Le parole latine furono queste: "Collegium pictorum, statuariorum, architectorum, auspicio opeque sibi prompta Cosmi ducis, autoris suorum commodorum, suspiciens singularem virtutem Michaëlis Angeli Bonarrotae intelligensque quanto sibi auxilio semper fuerint praeclara ipsius opera, studuit se gratum erga illum ostendere sommum omnium qui unquam fuerint p.
s.
a.
ideoque monumentum hoc suis manibus extructum magno animi ardore ipsius memoriae dedicavit".
Era questo epitaffio retto da due Angioletti, i quali con volto piangente e spegnendo ciascuno una face, quasi si lamentavano essere spenta tanta e così rara virtù.
Nel quadro poi che veniva a essere volto verso la porta che va nel chiostro era quando per l'assedio di Firenze Michelagnolo fece la fortificazione del poggio a San Miniato, che fu tenuta inespugnabile e cosa maravigliosa: e questo fu di mano di Lorenzo Sciorini, allievo del Bronzino, giovane di bonissima speranza.
Questa parte più bassa, e come dire la base di tutta la machina, aveva in ciascun canto un piedestallo che risaltava, e sopra ciascun piedestallo era una statua grande più che il naturale, che sotto n'aveva un'altra come soggetta e vinta, di simile grandezza, ma raccolta in diverse attitudini e stravaganti.
La prima a man ritta, andando verso l'altare maggiore, era un giovane svelto, e nel sembiante tutto spirito e di bellissima vivacità figurato per l'Ingegno, con due aliette sopra le tempie, nella guisa che si dipigne alcuna volta Mercurio.
E sotto a questo giovane fatto con incredibile diligenza, era con orecchi asinini una bellissima figura fatta per l'Ignoranza, mortal nimica dell'Ingegno.
Le quali ambedue statue furono di mano di Vincenzio Danti perugino, del quale e dell'opere sue, che sono rare fra i moderni giovani scultori, si parlerà in un altro luogo più lungamente.
Sopra l'altro piedestallo, il quale essendo a man ritta verso l'altare maggiore guardava verso la sagrestia nuova, era una donna, fatta per la Pietà cristiana, la quale essendo d'ogni bontà e religione ripiena, non è altro che un aggregato di tutte quelle virtù che i nostri hanno chiamate teologiche e di quelle che furono dai gentili dette morali; onde meritamente, celebrandosi da' cristiani la virtù d'un cristiano ornata di santissimi costumi, fu dato conveniente et onorevole luogo a questa, che risguarda la legge di Dio e la salute dell'anime, essendo che tutti gl'altri ornamenti del corpo e dell'animo, dove questa manchi, sono da essere poco, anzi nulla stimati.
Questa figura, la quale avea sotto sé prostrato e da sé calpestato il Vizio o vero l'Impietà, era di mano di Valerio Cioli, il quale è valente giovane di bellissimo spirito, e merita lode di molto giudizioso e diligente scultore.
Dirimpetto a questa, dalla banda della sagrestia vecchia, era un'altra simile figura stata fatta giudiziosamente per la dea Minerva o vero l'Arte, perciò che si può dire con verità che dopo la bontà de' costumi e della vita, la quale dee tener sempre appresso i migliori il primo luogo, l'Arte poi sia stata quella che ha dato a quest'uomo non solo onore e facultà, ma anco tanta gloria che si può dire lui aver in vita goduto que' frutti che a pena dopo morte sogliono dalla fama trarne, mediante l'egregie opere loro, gl'uomini illustri e valorosi; e, quello che è più, aver intanto superata l'invidia, che senza alcuna contradizione, per consenso comune, ha il grado e nome della principale e maggiore eccellenza ottenuto; e per questa cagione aveva sotto i piedi questa figura, l'Invidia, la quale era una vecchia secca e distrutta, con occhi viperini et insomma con viso e fattezze che tutte spiravano tossico e veleno; et oltre ciò, era cinta di serpi et aveva una vipera in mano.
Queste due statue erano di mano d'un giovinetto di pochissima età, chiamato Lazzaro Calamech da Carrara, il quale ancor fanciullo ha dato infino a oggi in alcune cose di pittura e scultura gran saggio di bello e vivacissimo ingegno.
Di mano d'Andrea Calamech, zio del sopra detto et allievo dell'Amannato, erano le due statue poste sopra il quarto piedestallo, che era dirimpetto all'organo e risguardava verso le porte principali della chiesa.
La prima delle quali era figurata per lo Studio, perciò che quegli che poco e lentamente s'adoprano non possono venir in pregio già mai, come venne Michelagnolo; conciò sia che dalla sua prima fanciullezza di quindici insino a novanta anni non restò mai, come di sopra si è veduto, di lavorare.
Questa statua dello Studio, che ben si convenne a tant'uomo, il quale era un giovane fiero e gagliardo, il quale alla fine del braccio poco sopra la giuntura della mano aveva due aliette, significanti la velocità e spessezza dell'operare, si aveva sotto come prigione cacciata la Pigrizia o vero Ociosità, la quale era una donna lenta e stanca et in tutti i suoi atti grave e dormigliosa.
Queste quattro figure disposte nella maniera che s'è detto, facevano un molto vago e magnifico componimento, e parevano tutte di marmo, perché sopra la terra fu dato un bianco che tornò bellissimo.
In su questo piano, dove le dette figure posavano, nasceva un altro imbasamento pur quadro et alto braccia quattro in circa, ma di larghezza e lunghezza tanto minore di quel di sotto quanto era l'aggetto e scorniciamento dove posavano le dette figure, et aveva in ogni faccia un quadro di pittura di braccia sei e mezzo per lunghezza e tre d'altezza, e di sopra nasceva un piano nel medesimo modo che quel di sotto, ma minore; e sopra ogni canto sedeva in sul risalto d'un zoccolo una figura quanto di naturale o più; e queste erano quattro donne, le quali per gli stromenti che avevano erano facilmente conosciute per la Pittura, Scultura, Architettura e Poesia; per le cagioni che di sopra nella narrazione della sua vita si sono vedute.
Andandosi dunque dalla principale porta della chiesa verso l'altare maggiore, nel primo quadro del secondo ordine del catafalco, cioè sopra la storia nella quale Lorenzo de' Medici riceve, come si è detto, Michelagnolo nel suo giardino, era con bellissima maniera dipinto, per l'architettura, Michelagnolo innanzi a papa Pio Quarto col modello in mano della stupenda machina della cupola di San Piero di Roma.
La quale storia, che fu molta lodata, era stata dipinta da Piero Francia pittore fiorentino, con bella maniera et invenzione.
E la statua, o vero simulacro dell'Architettura, che era alla man manca di questa storia, era di mano di Giovanni di Benedetto da Castello, che con tanta sua lode fece anco, come si è detto, il Tevere, uno de' due fiumi che erano dalla parte dinanzi del catafalco.
Nel secondo quadro, seguitando d'andare a man ritta verso la porta del fianco che va fuori, per la pittura si vedeva Michelagnolo dipignere quel tanto, ma non mai a bastanza lodato Giudizio, quello dico che è l'esempio degli scorci e di tutte l'altre difficultà dell'arte.
Questo quadro, il quale lavorarono i giovani di Michele di Ridolfo con molta grazia e diligenza, aveva la sua imagine e statua della Pittura similmente a man manca, cioè in sul canto che guarda la sagrestia nuova, fatta da Batista del Cavaliere, giovane non meno eccellente nella scultura, che per bontà, modestia e costumi rarissimo.
Nel terzo quadro, volto verso l'altare maggiore, cioè in quello che era sopra il già detto epitaffio, per la scultura si vedeva Michelagnolo ragionare con una donna, la quale per molti segni si conosceva essere la Scultura, e parea che si consigliasse con esso lei.
Aveva Michelagnolo intorno alcune di quelle opere che eccellentissime ha fatto nella scultura, e la donna in una tavoletta queste parole di Boezio: "Simili sub imagine formans": allato al qual quadro, che fu opera d'Andrea del Minga e da lui lavorato con bella invenzione e maniera, era in sulla man manca la statua di essa Scultura, stata molto ben fatta da Antonio di Gino Lorenzi scultore.
Nella quarta di queste quattro storie, che era volta verso l'organo, si vedeva per la poesia Michelagnolo tutto intento a scrivere alcuna composizione, et intorno a lui, con bellissima grazia e con abiti divisati, secondo che dai poeti sono descritte, le nove Muse et innanzi a esse Appollo con la lira in mano e con la sua corona d'alloro in capo, e con un'altra corona in mano, la quale mostrava di volere porre in capo a Michelagnolo.
Al vago e bello componimento di questa storia, stata dipinta con bellissima maniera e con attitudini e vivacità prontissime da Giovanmaria Butteri, era vicina e sulla man manca la statua della Poesia opera di Domenico Poggini, uomo non solo nella scultura e nel fare impronte di monete e medaglie bellissime, ma ancora nel fare di bronzo e nella poesia parimente molto esercitato.
Così fatto, dunque, era l'ornamento del catafalco, il quale, perché andava digradando ne' suoi piani tanto che vi si poteva andare attorno, era quasi a similitudine del mausoleo d'Augusto in Roma, e forse per essere quadro più si assomigliava al Settizonio di Severo, non a quello presso al Campidoglio, che comunemente così è chiamato per errore, ma al vero, che nelle Nuove Rome si vede stampato appresso l'Antoniane.
Infin qui, dunque, aveva il detto catafalco tre gradi: dove giacevano i fiumi era il primo, il secondo dove le figure doppie posavano, et il terzo dove avevano il piede le scempie.
Et in su questo piano ultimo nasceva una base o vero zoccolo alta un braccio, e molto minore per larghezza e lunghezza del detto ultimo piano; sopra i risalti della quale sedevano le dette figure scempie et intorno alla quale si leggevano queste parole: "Sic ars extollitur arte".
Sopra questa base poi posava una piramide, alta braccia nove, in due parti della quale, cioè in quella che guardava la porta principale et in quella che volgeva verso l'altare maggiore, giù da basso, era in due ovati la testa di Michelagnolo di rilievo ritratta dal naturale e stata molto ben fatta da Santi Buglioni.
In testa della piramide era una palla a essa piramide proporzionata, come se in essa fussero state le ceneri di quegli che si onorava, e sopra la palla era, maggiore del naturale, un Fama, finta di marmo, in atto che pareva volasse et insieme facesse per tutto il mondo risonare le lodi et il pregio di tanto artefice, con una tromba la quale finiva in tre bocche.
La quale Fama fu di mano di Zanobi Lastricati, il quale, oltre alle fatiche che ebbe come proveditore in tutta l'opera, non volle anco mancare di mostrare con suo molto onore la virtù della mano e dell'ingegno.
In modo che dal piano di terra alla testa della Fama era, come si è detto, l'altezza di braccia ventotto.
Oltre al detto catafalco, essendo tutta la chiesa parata di rovesci e rasce nere, appiccate non come si suole alle colonne del mezzo, ma alle cappelle che sono intorno intorno, non era alcun vano, fra i pilastri che mettono in mezzo le dette cappelle e corrispondono alle colonne, che non avesse qualche ornamento di pittura et in quale, facendo bella e vaga et ingegnosa mostra, non porgesse in un medesimo tempo maraviglia e diletto grandissimo.
E per cominciarmi da un capo, nel vano della prima cappella, che è a canto all'altare maggiore andando verso la sagrestia vecchia, era un quadro alto braccia sei e lungo otto, nel quale con nuova e quasi poetica invenzione era Michelagnolo in mezzo, come giunto ne' campi Elisii, dove gl'erano da man destra assai maggiori che il naturale i più famosi e que' tanto celebrati pittori e scultori antichi, ciascuno de' quali si conosceva a qualche notabile segno: Praxitele al Satiro che è nella vigna di papa Giulio Terzo, Apelle al ritratto d'Alessandro Magno, Zeusi a una tavoletta dove era figurata l'uva che ingannò gl'uccelli, e Parrasio con la finta coperta del quadro di pittura.
E così come [questi] a questi, così gl'altri ad altri segni erano conosciuti.
A man manca erano quegli che in questi nostri secoli da Cimabue in qua sono stati in queste arti illustri: onde vi si conosceva Giotto a una tavoletta in cui si vedeva il ritratto di Dante giovanetto, nella maniera che in Santa Croce si vede essere stato da esso Giotto dipinto; Masaccio al ritratto di naturale; Donatello similmente al suo ritratto et al suo Zuccone del campanile che gl'era a canto; e Filippo Brunelleschi al ritratto della sua cupola di Santa Maria del Fiore.
Ritratti poi di naturale, senz'altri segni, vi erano fra' Filippo, Taddeo Gaddi, Paulo Uccello, fra' Giovan Agnolo, Iacopo Puntormo, Francesco Salviati et altri; i quali tutti con le medesime accoglienze che gl'antichi e pieni di amore e maraviglia gl'erano intorno, in quel modo stesso che ricevettero Virgilio gl'altri poeti nel suo ritorno, secondo la finzione del divino poeta Dante, dal quale essendosi presa l'invenzione, si tolse anco il verso che in un breve si leggeva sopra, et in una mano del fiume Arno, che a' piedi di Michelagnolo con attitudine e fattezze bellissime giaceva:
Tutti l'ammiran, tutti onor gli fanno.
Il qual quadro di mano di Alessandro Allori allievo del Bronzino, pittore eccellente e non indegno discepolo e creato di tanto maestro, fu da tutti coloro che il videro, sommamente lodato.
Nel vano della cappella del Santissimo Sacramento, in testa della crocera era, in un quadro lungo braccia 5 e largo 4, intorno a Michelagnolo tutta la scuola dell'arti, puttini, fanciulli e giovani di ogni età insino a 24 anni, i quali, come a cosa sacra e divina, offerivano le primizie delle fatiche loro, cioè pitture, sculture e modelli a lui, che gli riceveva cortesemente e gl'ammaestrava nelle cose dell'arti, mentre eglino attentissimamente l'ascoltavano e guardavano con attitudini e volti veramente belli e graziatissimi.
E per vero dire non poteva tutto il componimento di questo quadro essere in un certo modo meglio fatto, né in alcuna delle figure alcuna cosa più bella disiderarsi; onde Batista allievo del Puntormo, che l'avea fatto, fu infinitamente lodato.
Et i versi che si leggevano a' piè di detta storia dicevano così:
Tu pater, tu rerum inventor, tu patria nobis
suppeditas praecepta, tuis ex, inclite, chartis.
Venendosi poi dal luogo dove era il detto quadro verso le porte principali della chiesa, quasi a canto e prima che si arrivasse all'organo, nel quadro che era nel vano d'una cappella, lungo 6 et alto 4 braccia, era dipinto un grandissimo e straordinario favore, che alla rara virtù di Michelagnolo fece papa Giulio Terzo.
Il quale volendosi servire in certe fabbriche del giudizio di tant'uomo, l'ebbe a sé nella sua vigna, dove fattoselo sedere allato, ragionarono buona pezza insieme, mentre cardinali, vescovi et altri personaggi di corte che avevano intorno, stettono sempre in piedi.
Questo fatto dico si vedeva con tanto buona composizione e con tanto rilievo essere stato dipinto e con tanta vivacità e prontezza di figure, che per aventura non sarebbe migliore uscito delle mani d'uno eccellente vecchio e molto esercitato maestro.
Onde Iacopo Zucchi giovane et allievo di Giorgio Vasari, che lo fece con bella maniera, mostrò che di lui si poteva onoratissima riuscita sperare.
Non molto lontano a questo in sulla medesima mano, cioè poco di sotto all'organo, aveva Giovanni Strada fiamingo, valente pittore, in un quadro lungo 6 braccia et alto 4, dipinto quando Michelagnolo nel tempo dell'assedio di Firenze andò a Vinezia: dove standosi nell'appartato di quella nobilissima città che si chiama la Giudecca, Andrea Gritti doge e la Signoria mandarono alcuni gentiluomini et altri a visitarlo e fargli offerte grandissime; nella quale cosa esprimere mostrò il detto pittore, con suo molto onore, gran giudizio e molto sapere, così in tutto il componimento, come in ciascuna parte di esso, perché si vedevano nell'attitudini e vivacità de' volti e ne' movimenti di ciascuna figura invenzione, disegno e bonissima grazia.
Ora tornando all'altare maggiore e volgendo verso la sagrestia nuova, nel primo quadro che si truovava, il quale veniva a essere nel vano della prima cappella, era di mano di Santi Tidi, giovane di bellissimo giudizio e molto esercitato nella pittura in Firenze et in Roma, un altro segnalato favore stato fatto alla virtù di Michelagnolo, come credo aver detto di sopra, dall'illustrissimo signor don Francesco Medici, principe di Firenze, il quale trovandosi in Roma circa tre anni avanti che Michelagnolo morisse, et essendo da lui visitato, subito che entrò esso Buonarruoto si levò il principe in piede, et appresso per onorare un tant'uomo e quella veramente reverenda vecchiezza, colla maggior cortesia che mai facesse giovane principe volle (comeché Michelagnolo, il quale era modestissimo, recusasse) che sedesse nella sua propria sedia, onde s'era egli stesso levato, e stando poi in piedi udirlo con quella attenzione e reverenza che sogliono i figliuoli un ottimo padre.
A' piè del principe era un putto, condotto con molta diligenza, il quale aveva un mazzocchio o vero berretta ducale in mano, e d'intorno a loro erano alcuni soldati vestiti all'antica, e fatti con molta prontezza e bella maniera.
Ma sopra tutte l'altre erano benissimo fatti e molto vivi e pronti il Principe e Michelagnolo, in tanto che parea veramente che il vecchio proferisse le parole et il giovane attentissimamente l'ascoltasse.
In un altro quadro alto braccia 9 e lungo 12, il quale era dirimpetto alla cappella del Sacramento, Bernardo Timante Buontalenti, pittore molto amato e favorito dall'illustrissimo Principe, aveva con bellissima invenzione figurati i fiumi delle tre principali parti del mondo, come venuti tutti mesti e dolenti a dolersi con Arno del comune danno e consolarlo.
I detti fiumi erano il Nilo, il Gange et il Po.
Aveva per contrasegno il Nilo un coccodrillo e per la fertilità del paese una ghirlanda di spighe; il Gange l'uccel grifone et una ghirlanda di gemme, et il Po un cigno et una corona d'ambre nere.
Questi fiumi guidati in Toscana dalla Fama, la quale si vedeva in alto quasi volante, si stavano intorno a Arno, coronato di cipresso e tenente il vaso asciutto et elevato con una mano, e nell'altra un ramo d'arcipresso e sotto sé un lione.
E per dimostrare l'anima di Michelagnolo essere andata in cielo alla somma felicità, aveva finto l'accorto pittore uno splendore in aria significante il celeste lume, al quale in forma d'Angioletto s'indirizzava la benedetta anima, con questo verso lirico:
Vivens orbe peto laudibus aethera.
Dagli lati sopra due basi erano due figure in atto di tenere aperta una cortina, dentro la quale pareva che fussero i detti fiumi, l'anima di Michelagnolo e la Fama; e ciascuna delle dette due figure n'aveva sotto un'altra.
Quella che era a man ritta de' fiumi, figurata per Vulcano, aveva una face in mano, la figura che gli aveva il collo sotto i piedi figurata per l'Odio in atto disagioso e quasi fatigante per uscirgli di sotto, aveva per contrasegno un avoltoio con questo verso:
Surgere quid properas, Odium crudele? Iaceto.
E questo perché le cose sopr'umane e quasi divine non deono in alcun modo essere né odiate né invidiate.
L'altra fatta per Aglaia, una delle tre Grazie e moglie di Vulcano, per significare la Proporzione, aveva in mano un giglio, sì perché i fiori sono dedicati alle Grazie, e sì ancora perché si dice il giglio non disconvenirsi ne' mortorii.
La figura che sotto questa giaceva e la quale era finta per la Sproporzione, aveva per contrasegno una scimia o vero bertuccia, e sopra questo verso:
Vivus et extinctus docuit sic sternere turpe.
E sotto i fiumi erano questi altri due versi:
Venimus, Arne, tuo confixa en vulnere maesta
flumina, ut ereptum mundo ploremus honorem.
Questo quadro fu tenuto molto bello per l'invenzione, per la bellezza de' versi e per lo componimento di tutta la storia e vaghezza delle figure.
E perché il pittore non come gl'altri per commessione con questa sua fatica onorò Michelagnolo, ma spontaneamente, e con quegli aiuti che gli fece la sua virtù da' suoi cortesi et onorati amici, meritò per ciò essere ancora maggiormente comendato.
In un altro quadro, lungo 6 braccia et alto 4, vicino alla porta del fianco, che va fuori, aveva Tommaso da San Friano, pittore giovane e di molto valore, dipinto Michelagnolo come ambasciadore della sua patria innanzi a papa Giulio Secondo, come si è detto che andò e per quali cagioni mandato dal Soderino.
Non molto lontano dal sopra detto quadro, cioè poco sotto la detta porta del fianco che va fuori, in un altro quadro della medesima grandezza, Stefano Pieri, allievo del Bronzino e giovane molto diligente e studioso, aveva (sì come invero non molto avanti era avenuto più volte in Roma) dipinto Michelagnolo a sedere allato all'illustrissimo signor duca Cosimo in una camera, standosi a ragionare insieme, come di tutto si è detto di sopra a bastanza.
Sopra i detti panni neri di che era parata, come si è detto, tutta la chiesa intorno intorno, dove non erano storie o quadri di pittura, era in ciascuno de' vani delle cappelle imagini di morte, imprese et altre simili cose, tutte diverse da quelle che sogliono farsi, e belle e capricciose.
Alcune quasi dolendosi d'avere avuto a privare per forza il mondo d'un così fatt'uomo avevano in un brieve queste parole: "Coëgit dura necessitas".
Et appresso un mondo, al quale era nato sopra un giglio che aveva tre fiori et era tronco nel mezzo con bellissima fantasia et invenzione di Alessandro Allori sopra detto.
Altre Morti poi erano fatte con altra invenzione, ma quella fu molto lodata, alla quale, essendo prostrata in terra, l'Eternità con una palma in mano, aveva un de' piedi posto in sul collo e, guardandola con atto sdegnoso, parea che le dicesse la sua necessità o volontà che sia non avere fatto nulla, però che mal suo grado viverà Michelagnolo in ogni modo.
Il motto diceva così: "Vicit inclita virtus", e questa fu invenzione del Vasari.
Né tacerò che ciascuna di queste Morti era tramezzata dall'impresa di Michelagnolo, che erano tre corone o vero tre cerchi intrecciati insieme, in guisa che la circonferenza dell'uno passava per lo centro degl'altri due scambievolmente.
Il quale segno usò Michelagnolo, o perché intendesse che le tre professioni di scultura, pittura et architettura fussero intrecciate et in modo legate insieme, che l'una dà e riceve dall'altra comodo et ornamento e ch'elle non si possono né deono spiccar d'insieme, o pure che come uomo d'alto ingegno ci avesse dentro più sottile intendimento.
Ma gl'accademici, considerando lui in tutte e tre queste professioni essere stato perfetto, e che l'una ha aiutato et abbellito l'altra, gli mutarono i tre cerchi in tre corone intrecciate insieme, col motto: "Tergeminis tollit honoribus", volendo perciò dire che meritamente in dette tre professioni se gli deve la corona di somma perfezzione.
Nel pergamo dove il Varchi fece l'orazione funerale, che poi fu stampata, non era ornamento alcuno, perciò che essendo di bronzo e di storie di mezzo e basso rilievo dall'eccellente Donatello stato lavorato, sarebbe stato ogni ornamento, che se gli fusse sopra posto, di gran lunga men bello.
Ma era bene in su quell'altro, che gli è dirimpetto e che non era ancor messo in su le colonne, un quadro alto quattro braccia e largo poco più di due, dove con bella invenzione bonissimo disegno era dipinto per la Fama o vero Onore un giovane con bellissima attitudine con una tromba nella man destra e con i piedi addosso al Tempo et alla Morte, per mostrare che la fama e l'onore, mal grado della morte e del tempo, serbano vivi in eterno coloro che virtuosamente in questa vita hanno operato.
Il qual quadro fu di mano di Vincenzio Danti perugino scultore, del quale si è parlato e si parlerà altra volta.
In cotal modo essendo apparata la chiesa, adorna di lumi e piena di populo inumerabile, per essere ognuno, lasciata ogni altra cura, concorso a così onorato spettacolo, entrarono dietro al detto luogotenente dell'Accademia, accompagnati dal capitano et alabardieri della guardia del Duca, i consoli e gl'accademici et insomma tutti i pittori, scultori et architetti di Firenze.
I quali poi che furono a sedere, dove fra il catafalco e l'altare maggiore erano stati buona pezza aspettati da un numero infinito di signori e gentiluomini, che secondo i meriti di ciascuno erano stati a sedere accomodati, si diede principio a una solennissima messa de' morti con musiche e cerimonie d'ogni sorte.
La quale finita, salì sopra il pergamo già detto il Varchi, che poi non aveva fatto mai cotale ufficio che egli lo fece per la illustrissima signora duchessa di Ferrara, figliuola del duca Cosimo, e quivi con quella eleganza, con que' modi e con quella voce che proprii e particolari furono, in orando, di tanto uomo, raccontò le lodi, i meriti, la vita e l'opere del divino Michelagnolo Buonarruoti.
E nel vero che grandissima fortuna fu quella di Michelagnolo non morire prima che fusse creata la nostra Accademia, da che con tanto onore e con sì magnifica et onorata pompa fu celebrato il suo mortorio.
Così a sua gran ventura si dee reputare che avenisse che egli inanzi al Varchi passasse di questa ad eterna e felicissima vita, poi che non poteva da più eloquente e dotto uomo essere lodato.
La quale orazione funerale di Messer Benedetto Varchi fu poco appresso stampata, sì come fu anco non molto dopo un'altra similmente bellissima orazione, pure delle lodi di Michelagnolo e della pittura, stata fatta dal nobilissimo e dottissimo Messer Lionardo Salviati, giovane allora di circa ventidue anni, e così raro e felice ingegno in tutte le maniere di componimenti latini e toscani, quanto sa insino a ora e meglio saprà per l'avenire tutto il mondo.
Ma che dirò o che posso dire che non sia poco della virtù, bontà e prudenza del molto reverendo signor luogotenente, don Vincenzio Borghini sopra detto, se non che lui capo, lui guida e lui consigliere, celebrarono quell'essequie i virtuosissimi uomini dell'Accademia e Compagnia del Disegno? Perciò che se bene era bastante ciascuno di loro a fare molto maggior cosa di quello che fecero nell'arti loro, non si conduce nondimeno mai alcuna impresa a perfetto e lodato fine, se non quando un solo a guisa d'esperto nocchiero e capitano ha il governo di tutti e sopra gl'altri maggioranza.
E perché non fu possibile che tutta la città in un sol giorno vedesse il detto apparato, come volle il signor Duca fu lasciato stare molte settimane in piedi a sodisfazione de' suoi popoli e de' forestieri, che da' luoghi convicini lo vennero a vedere.
Non porremo in questo luogo una moltitudine grande di epitaffi e di versi latini e toscani fatti da molti valenti uomini in onore di Michelagnolo, sì perché un'opera da se stessi vorrebbono, e perché altrove da altri scrittori sono stati scritti e mandati fuora.
Ma non lascerò già di dire in questa ultima parte che, dopo tutti gli onori sopra detti, il Duca ordinò che a Michelagnolo fusse dato un luogo onorato in Santa Croce per la sua sepoltura, nella quale chiesa egli in vita aveva destinato d'esser sepolto per esser quivi la sepoltura de' suoi antichi.
Et a Lionardo nipote di Michelagnolo donò sua eccellenza tutti i marmi e mischi per detta sepoltura, la quale col disegno di Giorgio Vasari fu allogata a Batista Lorenzi valente scultore, insieme con la testa di Michelagnolo.
E perché vi hanno a essere tre statue, la Pittura, la Scultura e l'Architettura, una di queste fu allogata a Batista sopra detto, una a Giovanni dell'Opera, l'ultima a Valerio Cioli scultori fiorentini, le quali con la sepoltura tuttavia si lavorano, e presto si vedranno finite e poste nel luogo loro.
La spesa dopo i marmi ricevuti dal Duca è fatta da Lionardo Buonarruoti sopra detto, ma sua eccellenza, per non mancare in parte alcuna agli onori di tanto uomo, farà porre, sì come egli ha già pensato di fare, la memoria e 'l nome suo insieme con la testa nel duomo, sì come degli altri fiorentini eccellenti vi si veggono i nomi e l'imagini loro.
IL FINE DELLA VITA DI MICHELAGNOLO BUONARRUOTI PITTORE, SCULTORE ET ARCHITETTO FIORENTINO
DESCRIZIONE DELL'OPERE DI FRANCESCO PRIMATICCIO BOLOGNESE ABATE DI S.
MARTINO PITTORE ET ARCHITETTO
Avendo in fin qui trattato de' nostri artefici, che non sono più vivi fra noi, cioè di quelli che sono stati dal milledugento insino a questo anno 1567 e posto nell'ultimo luogo Michelagnolo Buonarruoti per molti rispetti, se bene due o tre sono mancati dopo lui, ho pensato che non possa essere se non opera lodevole far parimente menzione in questa nostra opera di molti nobili artefici che sono vivi, e per i loro meriti degnissimi di molta lode, e di essere in fra questi ultimi annoverati.
Il che fo tanto più volentieri quanto tutti mi sono amicissimi e fratelli, e già i tre principali tant'oltre con gl'anni, che essendo all'ultima vecchiezza pervenuti, si può poco altro da loro sperare, come che si vadano, per una certa usanza, in alcuna cosa ancora adoperando.
Appresso ai quali farò anco brevemente menzione di coloro che sotto la loro disciplina sono tali divenuti, che hanno oggi fra gl'artefici i primi luoghi, e d'altri che similmente caminano alla perfezzione delle nostre arti.
Cominciandomi dunque da Francesco Primaticcio, per dir poi di Tiziano Vecello et Iacopo Sansovini, dico che detto Francesco, essendo nato in Bologna della nobile famiglia de' Primaticci, molto celebrata da fra' Leandro Alberti e dal Pontano, fu indirizzato nella prima fanciullezza alla mercatura, ma piacendogli poco quell'esercizio, indi a non molto, come di animo e spirito elevato, si diede ad esercitare il disegno, al quale si vedeva essere da natura inclinato.
E così attendendo a disegnare, e talora a dipignere, non passò molto, che diede saggio d'avere a riuscire eccellente.
Andando poi a Mantoa, dove allora lavorava Giulio Romano il palazzo del T al duca Federigo, ebbe tanto mezzo, ch'e' fu messo in compagnia di molti altri giovani che stavano con Giulio a lavorare in quell'opera.
Dove, attendendo lo spazio di sei anni con molta fatica e diligenza agli studii dell'arte, imparò a benissimo maneggiare i colori e lavorare di stucco; onde fra tutti gl'altri giovani, che nell'opera detta di quel palazzo s'affaticarono, fu tenuto Francesco de' migliori e quelli che meglio disegnasse e colorisse di tutti, come si può vedere in un camerone grande, nel quale fece intorno due fregiature di stucco una sopra l'altra, con una grande abondanza di figure, che rappresentano la milizia antica de' Romani.
Parimente nel medesimo palazzo condusse molte cose che vi si veggiono di pittura, con i disegni di Giulio sopra detto, per le quali cose venne il Primaticcio in tanta grazia di quel Duca, che avendo il re Francesco di Francia inteso con quanti ornamenti avesse fatto condurre l'opera di quel palazzo, e scrittogli che per ogni modo gli mandasse un giovane il quale sapesse lavorare di pitture e di stucco, gli mandò esso Francesco Primaticcio l'anno 1531.
Et ancor che fusse andato l'anno innanzi al servigio del medesimo Re il Rosso pittore fiorentino, come si è detto, e vi avesse lavorato molte cose e particolarmente quadri del Bacco e Venere, di Psiche e Cupido, nondimeno i primi stucchi che si facessero in Francia et i primi lavori a fresco di qualche conto ebbero, si dice, principio dal Primaticcio, che lavorò di questa maniera molte camere, sale e logge al detto re; al quale piacendo la maniera et il procedere in tutte le cose di questo pittore, lo mandò l'anno 1540 a Roma a procacciare d'avere alcuni marmi antichi, nel che lo servì con tanta diligenza il Primaticcio, che fra teste, torsi e figure ne comperò in poco tempo centoventicinque pezzi.
Et in quel medesimo tempo fece formare da Iacopo Barozzi da Vignuola et altri il cavallo di bronzo che è in Campidoglio; una gran parte delle storie della colonna; la statua del Commodo, la Venere, il Laoconte, il Tevere, il Nilo e la statua di Cleopatra, che sono in Belvedere, per gettarle tutte di bronzo.
Intanto essendo in Francia morto il Rosso, e per ciò rimasa imperfetta una lunga galleria, stata cominciata con suoi disegni et in gran parte ornata di stucchi e di pitture, fu richiamato da Roma il Primaticcio; per che imbarcatosi con i detti marmi e cavi di figure antiche, se ne tornò in Francia, dove innanzi ad ogni altra cosa gettò, secondo che erano in detti cavi e forme, una gran parte di quelle figure antiche; le quali vennono tanto bene, che paiano le stesse antiche, come si può vedere là dove furono poste nel giardino della Reina a Fontanableò, con grandissima sodisfazione di quel Re, che fece in detto luogo quasi una nuova Roma.
Ma non tacerò che ebbe il Primaticcio, in far le dette statue, maestri tanto eccellenti nelle cose del getto, che quell'opere vennero, non pure sottili, ma con una pelle così gentile, che non bisognò quasi rinettarle.
Ciò fatto, fu commesso al Primaticcio che desse fine alla galleria che il Rosso aveva lasciata imperfetta, onde messovi mano, la diede in poco tempo finita con tanti stucchi e pitture, quante in altro luogo siano state fatte già mai; per che trovandosi il Re ben servito nello spazio di otto anni, che aveva per lui lavorato costui, lo fece mettere nel numero de' suoi camerieri e poco appresso, che fu l'anno 1544, lo fece, parendogli che Francesco il meritasse, abate di San Martino.
Ma con tutto ciò non ha mai restato Francesco di fare lavorare molte cose di stucco e di pitture in servigio del suo Re e degl'altri, che dopo Francesco Primo hanno governato quel regno.
E fra gl'altri che in ciò l'hanno aiutato, l'ha servito, oltre molti de' suoi bolognesi, Giovambatista figliuolo di Bartolomeo Bagnacavallo, il quale non è stato manco valente del padre in molti lavori e storie, che ha messo in opera del Primaticcio.
Parimente l'ha servito assai tempo un Ruggieri da Bologna, che ancora sta con esso lui; similmente Prospero Fontana, pittore bolognese, fu chiamato in Francia non ha molto dal Primaticcio, che disegnava servirsene; ma essendovi subito che fu giunto amalato con pericolo della vita, se ne tornò a Bologna.
E per vero dire questi due, cioè il Bagnacavallo et il Fontana, sono valent'uomini, et io che dell'uno e dell'altro mi sono assai servito - cioè del primo a Roma e del secondo a Rimini et a Fiorenza - lo posso con verità affermare.
Ma fra tutti coloro che hanno aiutato l'abate Primaticcio, niuno gli ha fatto più onore di Niccolò da Modena, di cui si è altra volta ragionato, perciò che costui con l'eccellenza della sua virtù ha tutti gl'altri superato, avendo condotto di sua mano, con i disegni dell'abate, una sala, detta del ballo, con tanto gran numero di figure, che appena pare che si possano numerare, e tutte grandi quanto il vivo e colorite d'una maniera chiara, che paiano con l'unione de' colori a fresco, lavorate a olio.
Dopo quest'opera ha dipinto nella gran galleria, pur con i disegni dell'abate, sessanta storie della vita e fatti d'Ulisse, ma di colorito molto più scuro che non son quelle della sala del ballo.
E ciò è avvenuto però che non ha usato altro colore, che le terre in quel modo schiette ch'elle sono prodotte dalla natura, senza mescolarvi si può dire bianco, ma cacciate ne' fondi tanto terribilmente di scuro, che hanno una forza e rilievo grandissimo.
Et oltre ciò l'ha condotte con una sì fatta unione per tutto, che paiono quasi fatte tutte in un medesimo giorno, onde merita lode straordinaria e massimamente avendole condotte a fresco senza averle mai ritocche a secco, come oggi molti costumano di fare.
La volta similmente di questa galleria è tutta lavorata di stucchi e di pitture, fatte con molta diligenza dai sopra detti et altri pittori giovani, ma però con i disegni dell'abate, sì come è anco la sala vecchia et una bassa galleria, che è sopra lo stagno, la quale è bellissima e meglio e di più bell'opere ornata, che tutto il rimanente di quel luogo, del qual troppo lunga cosa sarebbe voler pienamente ragionare.
A Medone ha fatto il medesimo abate Primaticcio infiniti ornamenti al cardinale di Lorena in un suo grandissimo palazzo chiamato la Grotta, ma tanto straordinario di grandezza, che a somiglianti degl'antichi, così fatti edificii potrebbe chiamarsi le terme, per la infinità e grandezza delle logge, scale e camere publiche e private che vi sono.
E per tacere l'altre particolarità, è bellissima una stanza chiamata il padiglione, per essere tutta adorna con partimenti di cornici, che hanno la veduta di sotto in su, piena di molte figure, che scortano nel medesimo modo e sono bellissime.
Di sotto è poi una stanza grande con alcune fontane lavorate di stucchi e piene di figure tutte tonde e di spartimenti di conchiglie e altre cose marittime e naturali, che sono cosa maravigliosa e bella oltremodo, e la volta è similmente tutta lavorata di stucchi ottimamente per man di Domenico del Barbieri pittore fiorentino, che è non pure eccellente in questa sorte di rilievi, ma ancora nel disegno, onde in alcune cose che ha colorite ha dato saggio di rarissimo ingegno.
Nel medesimo luogo ha lavorato ancora molte figure di stucco pur tonde uno scultore similmente de' nostri paesi, chiamato Ponzio, che si è portato benissimo.
Ma perché infinite e varie sono l'opere che in questi luoghi sono state fatte in servigio di que' signori, vo toccando solamente le cose principali dell'abate, per mostrare quanto è raro nella pittura, nel disegno e nelle cose d'architettura, e nel vero non mi parrebbe fatica allargarmi intorno alle cose particolari, se io n'avessi vera e distinta notizia, come ho delle cose di qua.
Ma quanto al disegno il Primaticcio è stato et è eccellentissimo, come si può vedere in una carta di sua mano dipinta delle cose del cielo, la quale è nel nostro libro e fu da lui stesso mandata a me, che la tengo, per amor suo e perché è di tutta perfezzione, carissima.
Morto il re Francesco, restò l'abate nel medesimo luogo e grado appresso al re Enrico, e lo servì mentre che visse, e dopo fu dal re Francesco Secondo fatto commessario generale sopra le fabriche di tutto il regno; nel quale uffizio, che è onoratissimo e di molta riputazione, si esercitò già il padre del cardinale della Bordagiera e monsignor di Villaroy.
Morto Francesco II, continuando nel medesimo uffizio serve il presente Re, di ordine del quale e della Reina madre ha dato principio il Primaticcio alla sepoltura del detto re Enrico, facendo nel mezzo d'una cappella a sei facce la sepoltura di esso Re et in quattro facce la sepoltura di quattro figliuoli.
In una dell'altre due facce della cappella è l'altare e nell'altra la porta.
E perché vanno in queste opere moltissime statue di marmo e bronzi e storie assai di basso rilievo, ella riuscirà opera degna di tanto e sì gran Re, e dell'eccellenza et ingegno di sì raro artefice, come è questo abate di S.
Martino, il quale è stato ne' suoi migliori anni in tutte le cose che appartengono alle nostre arti eccellentissimo et universale, poiché si è adoperato in servigio de' suoi signori non solo nelle fabriche, pitture e stucchi, ma ancora in molti apparati di feste e mascherate con bellissime e capricciose invenzioni; è stato liberalissimo e molto amorevole verso gl'amici e parenti, e parimente verso gl'artefici che l'hanno servito.
In Bologna ha fatto molti benefizii ai parenti suoi e comperato loro casamenti onorati, e quelli fatti comodi e molto ornati, sì come è quella dove abita oggi Messer Antonio Anselmi, che ha per donna una delle nipoti di esso abate Primaticcio, il quale ha anco maritata un'altra sua nipote, sorella di questa, con buona dote et onoratamente.
È vivuto sempre il Primaticcio non da pittore et artefice, ma da signore, e come ho detto è stato molto amorevole ai nostri artefici.
Quando mandò a chiamare, come s'è detto, Prospero Fontana, gli mandò, perché potesse condursi in Francia, una buona somma di danari, la quale, essendosi infermato, non poté Prospero con sue opere e lavori scontare né rendere, per che passando io l'anno 1563 per Bologna, gli raccomandai, per questo conto, Prospero, e fu tanta la cortesia del Primaticcio, che avanti io partissi di Bologna vidi uno scritto dell'abate, nel quale donava liberamente a Prospero tutta quella somma di danari, che per ciò avesse in mano; per le quali cose è tanta la benevolenza ch'egli si ha acquistata appresso gl'artefici, che lo chiamano et onorano come padre.
E per dire ancora alcun'altra cosa di esso Prospero, non tacerò che fu già con sua molte lode adoperato in Roma da papa Giulio Terzo in palazzo, alla vigna Giulia et al palazzo di Campo Marzio, che allora era del signor Balduino Monti et oggi è del signor Ernando cardinale de' Medici e figliuolo del duca Cosimo.
In Bologna ha fatto il medesimo molte opere a olio et a fresco, e particolarmente nella Madonna del Baracane, in una tavola a olio, una Santa Caterina, che alla presenza del tiranno disputa con filosofi e dottori, che è tenuta molto bell'opera; et ha dipinto il medesimo nel palazzo, dove sta il governatore, nella cappella principale molte pitture a fresco.
È anco molto amico del Primaticcio Lorenzo Sabatini pittore eccellente, e se non fusse stato carico di moglie e molti figliuoli, l'arebbe l'abate condotto in Francia, conoscendo che ha bonissima maniera e gran pratica in tutte le cose, come si vede in molte opere che ha fatto in Bologna; e l'anno 1566 se ne servì il Vasari nell'apparato che si fece in Fiorenza per le dette nozze del principe e della serenissima reina Giovanna d'Austria, facendogli fare nel ricetto, che è fra la sala dei dugento e la grande, sei figure a fresco, che sono molto belle e degne veramente di essere lodate.
Ma perché questo valente pittore va tuttavia acquistando, non dirò di lui altro, se non che se ne spera, attendendo come fa agli studii dell'arte, onoratissima riuscita.
Ora con l'occasione dell'abate e degl'altri bolognesi, de' quali si è in fin qui fatto menzione, dirò alcuna cosa di Pellegrino bolognese, pittore di somma aspettazione e di bellissimo ingegno.
Costui dopo avere ne' suoi primi anni atteso a disegnare l'opere del Vasari, che sono a Bologna nel refettorio di San Michele in Bosco, e quelle d'altri pittori di buon nome, andò a Roma l'anno 1547, dove attese insino all'anno 1550 a disegnare le cose più notabili, lavorando in quel mentre e poi in Castel Sant'Agnolo alcune cose d'intorno all'opere che fece Perino del Vaga.
Nella chiesa di San Luigi de' Franzesi fece nella cappella di San Dionigi in mezzo d'una volta una storia a fresco d'una battaglia, nella quale si portò di maniera, che ancor che Iacopo del Conte pittore fiorentino e Girolamo Siciolante da Sermoneta avessero nella medesima cappella molte cose lavorato, non fu loro Pellegrino punto inferiore, anzi pare a molti che si portasse meglio di loro nella fierezza, grazia, colorito e disegno di quelle sue pitture, le quali poi furono cagione che monsignor Poggio si servisse assai di Pellegrino; perciò che avendo in sul monte Esquilino, dove aveva una sua vigna, fabricato un palazzo fuor della porta del Popolo, volle che Pellegrino gli facesse alcune figure nella facciata, e che poi gli dipignesse dentro una loggia, che è volta verso il Tevere, la quale condusse con tanta diligenza, che è tenuta opera molto bella e graziosa.
In casa di Francesco Formento, fra la strada del Pellegrino e Parione, fece in un cortile una facciata e due altre figure, e con ordine de' ministri di papa Giulio Terzo lavorò in Belvedere un'arme grande con due figure, e fuora della porta del Popolo alla chiesa di Santo Andrea, la quale avea fatto edificare quel Pontefice, fece un San Piero et un Santo Andrea, che furono due molto lodate figure; il disegno del quale San Piero è nel nostro libro con altre carte disegnate dal medesimo con molta diligenza.
Essendo poi mandato a Bologna da monsignor Poggio, gli dipinse a fresco in un suo palazzo molte storie, fra le quali n'è una bellissima, nella quale si vede, e per molti ignudi e vestiti, e per i leggiadri componimenti delle storie, che superò se stesso, di maniera che non ha anco fatto ma' poi altra opera di questa migliore.
In San Iacopo della medesima città cominciò a dipignere pure al cardinale Poggio una cappella, che poi fu finita dal già detto Prospero Fontana.
Essendo poi condotto Pellegrino dal cardinale d'Augusta alla Madonna di Loreto, gli fece di stucchi e di pitture una bellissima cappella: nella volta in un ricco partimento di stucchi è la Natività e presentazione di Cristo al tempio nelle braccia di Simeone, e nel mezzo è massimamente il Salvatore trasfigurato in sul monte Tabor, e con esso Moisè, Elia et i discepoli; e nella tavola che è sopra l'altare, dipinse San Giovanni Batista che battezza Cristo, et in questa ritrasse ginocchioni il detto Cardinale.
Nelle facciate dagli lati dipinse in una S.
Giovanni che predica alle turbe e nell'altra la decollazione del medesimo, e nel Paradiso sotto la chiesa dipinse storie del giudicio et alcune figure di chiaro scuro, dove oggi confessano i Teatini.
Essendo non molto dopo condotto da Giorgio Morato in Ancona, gli fece per la chiesa di Santo Agostino, in una gran tavola a olio, Cristo battezzato da S.
Giovanni, e da un lato S.
Paulo con altri Santi, e nella predella buon numero di figure piccole, che sono molto graziose.
Al medesimo fece nella chiesa di S.
Ciriaco sul monte un bellissimo adornamento di stucco alla tavola dell'altar maggiore e dentro un Cristo tutto tondo di rilievo di braccia cinque, che fu molto lodato; parimente ha fatto nella medesima città un ornamento di stucco grandissimo e bellissimo all'altare maggiore di S.
Domenico, et arebbe anco fatto la tavola, ma perché venne in diferenza col padrone di quell'opera, ella fu data a fare a Tiziano Vecello, come si dirà a suo luogo.
Ultimamente avendo preso a fare Pellegrino nella medesima città d'Ancona la loggia de' mercanti, che è volta da una parte sopra la marina e dall'altra verso la principale strada della città, ha adornato la volta, che è fabbrica nuova, con molte figure grandi di stucco e pitture.
Nella quale opera perché ha posto Pellegrino ogni sua maggior fatica e studio, ell'è riuscita in vero molto bella e graziosa, perciò che oltre che sono tutte le figure belle e ben fatte, vi sono alcuni scorti d'ignudi bellissimi, nei quali si vede che ha imitato l'opere del Buonarruoto, che sono nella cappella di Roma, con molta diligenza.
E perché non sono in quelle parti architetti, né ingegni di conto e che più sappiano di lui, ha preso Pellegrino assunto di attendere all'architettura et alla fortificazione de' luoghi di quella provincia; e come quelli che ha conosciuto la pittura più dificile e forse manco utile che l'architettura, lasciato alquanto da un lato il dipignere, ha condotto per la fortificazione d'Ancona molte cose, e per molti altri luoghi dello stato della Chiesa, e massimamente a Ravenna.
Finalmente ha dato principio in Pavia per lo cardinale Bonromeo a un palazzo per la Sapienza, et oggi, perché non ha però del tutto abandonata la pittura, lavora in Ferrara nel refettorio di San Giorgio ai monaci di Monte Oliveto una storia a fresco che sarà molto bella, della quale mi ha esso Pellegrino mostrato non ha molto il disegno, che è bellissimo.
Ma perché è giovane di trentacinque anni, e va tuttavia maggiormente acquistando e caminando alla perfezzione, questo di lui basti per ora.
Parimente sarò brieve in ragionare d'Orazio Fumaccini, pittore similmente bolognese, il quale ha fatto, come s'è detto, in Roma sopra una delle porte della sala de' re una storia, che è bonissima, et in Bologna molte lodate pitture; perché anch'esso è giovane e si porta in guisa, che non sarà inferiore ai suoi maggiori, de' quali avemo in queste nostre vite fatto menzione.
I Romagnuoli anch'essi, mossi dall'esempio de' Bolognesi loro vicini, hanno nelle nostre arti molte cose nobilmente operato, perciò che, oltre a Iacopone da Faenza, il quale, come s'è detto, dipinse in Ravenna a la tribuna di San Vitale, vi sono stati e sono molti altri dopo lui che sono eccellenti.
Maestro Luca de' Longhi ravignano, uomo di natura buono, quieto e studioso, ha fatto nella sua patria Ravenna e per di fuori molte tavole a olio e ritratti di naturale bellissimi, e fra l'altre sono assai leggiadre due tavolette che gli fece fare non ha molto nella chiesa de' monaci Classi il reverendo don Antonio da Pisa, allora abate di quel monasterio, per non dir nulla d'un infinito numero d'altre opere che ha fatto questo pittore.
E per vero dire se maestro Luca fusse uscito di Ravenna, dove si è stato sempre e sta con la sua famiglia, essendo assiduo e molto diligente e di bel giudizio, sarebbe riuscito rarissimo, perché ha fatto e fa le sue cose con pacienza e studio, et io ne posso far fede, che so quanto gli acquistasse quando dimorai due mesi in Ravenna, in praticando e ragionando delle cose dell'arte; né tacerò che una sua figliuola ancora piccola fanciulletta chiamata Barbera disegna molto bene, et ha cominciato a colorire alcuna cosa con assai buona grazia e maniera.
Fu concorrente un tempo di Luca, Livio Agresti da Furlì, il quale, fatto che ebbe per l'abate de' Grassi nella chiesa dello Spirito Santo alcune storie a fresco et alcun'altre opere, si partì di Ravenna et andossene a Roma, dove attendendo con molto studio al disegno, si fece buon pratico, come si può veder in alcune facciate et altri lavori a fresco, che fece in quel tempo; e le sue prime opere, che sono in Narni, hanno assai del buono.
Nella chiesa di Santo Spirito di Roma ha dipinto a fresco in una cappella istorie e figure assai, che sono condotte con molto studio e fatica: onde sono da ognuno meritamente lodate.
La quale opera fu cagione, come s'è detto, che gli fusse allogata una delle storie minori, che sono sopra le porte, nella sala de' re nel palazzo di Vaticano, nella quale si portò in modo bene, ch'ella può stare a paragone dell'altre.
Ha fatto il medesimo per lo cardinale d'Augusta sette pezzi di storie dipinte sopra tela d'argento, che sono stati tenuti bellissimi in Ispagna, dove sono stati dal detto Cardinale mandati a donare al re Filippo per paramento d'una stanza.
Un'altra tela d'argento simile ha dipinto nella medesima maniera, la quale si vede oggi nella chiesa de' Chietini in Furlì; finalmente essendosi fatto buono e fiero disegnatore, pratico coloritore, copioso ne' componimenti delle storie e di maniera universale, è stato condotto con buona provisione dal sopra detto Cardinale in Augusta, dove va facendo continuamente opere degne di molta lode.
Ma è rarissimo in alcune cose, fra gl'altri di Romagna, Marco da Faenza (che così, e non altrimenti è chiamato) per ciò che è pratico oltre modo nelle cose a fresco, fiero, risoluto e terribile, e massimamente nella pratica e maniera di far grottesche, non avendo in ciò oggi pari né chi alla sua perfezzione aggiunga.
Delle costui opere si vede per tutta Roma; et in Fiorenza è di suo mano la maggior parte degl'ornamenti di venti diverse stanze che sono nel palazzo ducale, e le fregiature del palco della sala maggiore di detto palazzo, stato dipinto da Giorgio Vasari, come si dirà a suo luogo pienamente, senzaché gl'ornamenti del principale cortile di detto palazzo fatti per la venuta della reina Giovanna in poco tempo, furono in gran parte condotti dal medesimo.
E questo basti di Marco, essendo ancor vivo et in sul più bello d'acquistare et operare.
In Parma è oggi appresso al signor duca Ottavio Farnese un pittore detto Miruolo, credo di nazione romagnuolo, il quale, oltre ad alcun'opere fatte in Roma, ha dipinto a fresco molte storie in un palazzetto, che ha fatto fare il detto signor Duca nel castello di Parma, dove sono alcune fontane state condotte con bella grazia da Giovanni Boscoli, scultore da Monte Pulciano; il quale avendo molti anni lavorato di stucchi appresso al Vasari nel palazzo del detto signor duca Cosimo di Fiorenza, si è finalmente condotto a' servizii del detto signor Duca di Parma con buona provisione, et ha fatto e va facendo continuamente opere degne del suo raro e bellissimo ingegno.
Sono parimente nelle medesime città e provincie molti altri eccellenti e nobili artefici, ma perché sono anco giovani, si serberà a più comodo tempo a fare di loro quella onorata menzione, che le loro opere e virtù averanno meritato.
E questo è il fine dell'opere dell'abate Primaticcio.
Aggiugnerò che essendosi egli fatto ritrarre in disegno di penna da Bartolomeo Passerotto pittore bolognese suo amicissimo, il detto ritratto ci è venuto alle mani e l'avemo nel nostro libro dei disegni di mano di diversi pittori eccellenti.
FINE DELLA VITA DELL'ABATE PRIMATICCIO
DESCRIZIONE DELL'OPERE DI TIZIANO DA CADOR PITTORE
Essendo nato Tiziano in Cador, piccol castello posto in sulla Piave e lontano cinque miglia dalla chiusa dell'alpe, l'anno 1480, della famiglia de' Vecelli, in quel luogo delle più nobili, pervenuto all'età di dieci anni con bello spirito e prontezza d'ingegno, fu mandato a Vinezia in casa d'un suo zio cittadino onorato, il quale veggendo il putto molto inclinato alla pittura, lo pose con Gianbellino pittore, in quel tempo eccellente e molto famoso, come s'è detto, sotto la cui disciplina attendendo al disegno, mostrò in brieve essere dotato dalla natura di tutte quelle parti d'ingegno e giudizio che necessarie sono all'arte della pittura.
E perché in quel tempo Gianbellino e gli altri pittori di quel paese, per non avere studio di cose antiche, usavano molto, anzi non altro, che il ritrarre qualunche cosa facevano dal vivo, ma con maniera secca, cruda e stentata, imparò anco Tiziano per allora quel modo.
Ma venuto poi l'anno circa 1507 Giorgione da Castel Franco, non gli piacendo in tutto il detto modo di fare, cominciò a dare alle sue opere più morbidezza e maggiore rilievo con bella maniera, usando nondimeno di cacciar sì avanti le cose vive e naturali e di contrafarle quanto sapeva il meglio con i colori, e macchiarle con le tinte crude e dolci, secondo che il vivo mostrava, senza far disegno, tenendo per fermo che il dipignere solo con i colori stessi, senz'altro studio di disegnare in carta, fusse il vero e miglior modo di fare et il vero disegno.
Ma non s'accorgeva che egli è necessario a chi vuol bene disporre i componimenti et accomodare l'invenzioni, ch'e' fa bisogno prima in più modi diferenti porle in carta, per vedere come il tutto torna insieme.
Conciò sia che l'idea non può vedere né imaginare perfettamente in se stessa l'invenzioni, se non apre e non mostra il suo concetto agl'occhi corporali, che l'aiutino a farne buon giudizio; senzaché pur bisogna fare grande studio sopra gl'ignudi, a volergli intendere bene, il che non vien fatto né si può senza mettere in carta; et il tenere sempre, che altri colorisce, persone ignude innanzi, o vero vestite, è non piccola servitù, là dove quando altri ha fatto la mano disegnando in carta, si vien poi di mano in mano con più agevolezza a mettere in opera disegnando e dipignendo.
E così facendo pratica nell'arte, si fa la maniera et il giudizio perfetto, levando via quella fatica e stento con che si conducono le pitture, di cui si è ragionato di sopra, per non dir nulla, che disegnando in carta si viene a empiere la mente di bei concetti e s'impara a fare a mente tutte le cose della natura, senza avere a tenerle sempre innanzi, o ad avere a nascere sotto la vaghezza de' colori lo stento del non sapere disegnare, nella maniera che fecero molti anni i pittori viniziani, Giorgione, il Palma, il Pordenone et altri che non videro Roma, né altre opere di tutta perfezione.
Tiziano dunque, veduto il fare e la maniera di Giorgione, lasciò la maniera di Gianbellino, ancor che vi avesse molto tempo costumato, e si accostò a quella, così bene imitando in brieve tempo le cose di lui, che furono le sue pitture talvolta scambiate e credute opere di Giorgione, come di sotto si dirà.
Cresciuto poi Tiziano in età, pratica e giudizio, condusse a fresco molte cose, le quali non si possono raccontare con ordine, essendo sparse in diversi luoghi; basta, che furono tali, che si fece da molti periti giudizio che dovesse, come poi è avenuto, riuscire eccellentissimo pittore.
A principio dunque, che cominciò seguitare la maniera di Giorgione, non avendo più che diciotto anni, fece il ritratto d'un gentiluomo da Ca' Barbarigo amico suo, che fu tenuto molto bello, essendo la somiglianza della carnagione propria e naturale, e sì ben distinti i capelli l'uno dall'altro, che si conterebbono, come anco si farebbono i punti d'un giubone di raso inargentato, che fece in quell'opera; insomma fu tenuto sì ben fatto e con tanta diligenza, che se Tiziano non vi avesse scritto in ombra il suo nome, sarebbe stato tenuto opera di Giorgione.
Intanto avendo esso Giorgione condotta la facciata dinanzi del Fondaco de' Tedeschi, per mezzo del Barbarigo furono allogate a Tiziano alcune storie, che sono nella medesima sopra la Merceria.
Dopo la quale opera fece un quadro grande di figure simili al vivo, che oggi è nella sala di Messer Andrea Loredano, che sta da San Marcuola; nel qual quadro è dipinta la Nostra Donna che va in Egitto, in mezzo a una gran boscaglia e certi paesi molto ben fatti, per aver dato Tiziano molti mesi opera a fare simili cose, e tenuto perciò in casa alcuni tedeschi eccellenti pittori di paesi e verzure.
Similmente nel bosco di detto quadro fece molti animali, i quali ritrasse dal vivo e sono veramente naturali e quasi vivi; dopo, in casa di Messer Giovanni d'Anna gentiluomo e mercante fiamingo suo compare, fece il suo ritratto, che par vivo, et un quadro di Ecce Homo, con molte figure che da Tiziano stesso e da altri è tenuto molto bell'opera.
Il medesimo fece un quadro di Nostra Donna, con altre figure come il naturale d'uomini e putti, tutti ritratti dal vivo e da persone di quella casa.
L'anno poi 1507 mentre Massimiliano imperadore faceva guerra ai Viniziani, fece Tiziano, secondo che egli stesso racconta, un angelo Raffaello, Tobia et un cane nella chiesa di San Marziliano, con un paese lontano, dove in un boschetto San Giovanni Batista ginocchioni sta orando verso il cielo, donde viene uno splendore che lo illumina.
E questa opera si pensa che facesse innanzi che desse principio alla facciata del Fondaco de' Tedeschi; nella quale facciata non sapendo molti gentiluomini che Giorgione non vi lavorasse più, né che la facesse Tiziano, il quale ne aveva scoperto una parte, scontrandosi in Giorgione, come amici si rallegravano seco, dicendo che si portava meglio nella facciata di verso la Merceria, che non avea fatto in quella che è sopra il canal grande.
Della qual cosa sentiva tanto sdegno Giorgione, che infino che non ebbe finita Tiziano l'opera del tutto e che non fu notissimo che esso Tiziano aveva fatta quella parte, non si lasciò molto vedere, e da indi in poi non volle che mai più Tiziano praticasse o fusse amico suo.
L'anno appresso 1508 mandò fuori Tiziano in istampa di legno il trionfo della Fede, con una infinità di figure, i primi parenti, i Patriarchi, i Profeti, le Sibille, gl'innocenti, i martiri, gl'Apostoli e Gesù Cristo in sul trionfo, portato dai quattro Evangelisti e dai quattro dottori, con i Santi confessori dietro.
Nella quale opera mostrò Tiziano fierezza, bella maniera e sapere tirare via di pratica; e mi ricordo, che fra' Bastiano del Piombo, ragionando di ciò, mi disse che se Tiziano in quel tempo fusse stato a Roma et avesse veduto le cose di Michelagnolo, quelle di Raffaello e le statue antiche, et avesse studiato il disegno, arebbe fatto cose stupendissime, vedendosi la bella pratica che aveva di colorire, e che meritava il vanto d'essere a' tempi nostri il più bello e maggiore imitatore della natura nelle cose de' colori; ché egli arebbe nel fondamento del gran disegno aggiunto all'Urbinate et al Buonarruoto.
Dopo condottosi Tiziano a Vicenza, dipinse a fresco sotto la loggetta dove si tiene ragione all'udienza publica, il giudizio di Salamone, che fu bell'opera; appresso tornato a Vinezia dipinse la facciata de' Grimani, et in Padoa nella chiesa di Santo Antonio alcune storie, pure a fresco, de' fatti di quel Santo.
Et in quella di Santo Spirito fece in una piccola tavoletta un San Marco a sedere in mezzo a certi Santi, ne' cui volti sono alcuni ritratti di naturale, fatti a olio con grandissima diligenza; la qual tavola molti hanno creduto che sia di mano di Giorgione.
Essendo poi rimasa imperfetta per la morte di Giovan Bellino nella sala del Gran Consiglio una storia, dove Federigo Barbarossa alla porta della chiesa di San Marco sta ginocchioni innanzi a papa Alessandro Quarto, che gli mette il piè sopra la gola, la fornì Tiziano, mutando molte cose e facendovi molti ritratti di naturale di suoi amici et altri, onde meritò da quel senato avere nel Fondaco de' Tedeschi un uffizio, che si chiama la Senseria, che rende trecendo scudi l'anno; il quale ufficio hanno per consuetudine que' signori di dare al più eccellente pittore della loro città; con questo che sia di tempo in tempo ubligato a ritrarre, quando è creato, il principe loro o uno doge, per prezzo solo di otto scudi, che gli paga esso principe; il quale ritratto poi si pone in luogo publico per memoria di lui nel palazzo di San Marco.
Avendo l'anno 1514 il duca Alfonso di Ferrara fatto acconciare un camerino, et in certi spartimenti fatto fare dal Dosso pittore ferrarese istorie di Enea, di Marte e Venere, et in una grotta Vulcano con due fabbri alla fucina, volle che vi fussero anco delle pitture di mano di Gianbellino, il quale fece in un'altra faccia un tino di vin vermiglio con alcune baccanti intorno, sonatori, satiri et altri maschi e femine inebriati, et appresso un Sileno tutto ignudo e molto bello, a cavallo sopra il suo asino, con gente attorno, che hanno piene le mani di frutte e d'uve, la quale opera invero fu con molta diligenza lavorata e colorita, in tanto che è delle più belle opere che mai facesse Gianbellino, se bene nella maniera de' panni è un certo che di tagliente, secondo la maniera tedesca, ma non è gran fatto, perché imitò una tavola d'Alberto Duro fiammingo, che di que' giorni era stata condotta a Vinezia e posta nella chiesa di San Bartolomeo, che è cosa rara e piena di molte belle figure fatte a olio.
Scrisse Gianbellino nel detto tino queste parole: "Ioannes Bellinus Venetus pinxit 1514".
La quale opera non avendo potuta finire del tutto, per essere vecchio, fu mandato per Tiziano, come più eccellente di tutti gl'altri, acciò che la finisse; onde egli essendo disideroso d'acquistare e farsi conoscere, fece con molta diligenza due storie, che mancavano al detto camerino.
Nella prima è un fiume di vino vermiglio, a cui sono intorno cantori e sonatori quasi ebri, e così femine come maschi, et una donna nuda che dorme, tanto bella, che pare viva, insieme con altre figure, et in questo quadro scrisse Tiziano il suo nome.
Nell'altro che è contiguo a questo e primo rincontro all'entrata, fece molti amorini e putti belli et in diverse attitudini, che molto piacquero a quel signore, sì come fece anco l'altro quadro; ma fra gl'altri è bellissimo uno di detti putti, che piscia in un fiume e si vede nell'acqua, mentre gl'altri sono intorno a una base che ha forma d'altare, sopra cui è la statua di Venere, con una chiocciola marina nella man ritta e la Grazia e Bellezza intorno, che sono molto belle figure e condotte con incredibile diligenza.
Similmente nella porta d'un armario dipinse Tiziano dal mezzo in su una testa di Cristo maravigliosa e stupenda, a cui un villano ebreo mostra la moneta di Cesare.
La quale testa et altre pitture di detto camerino, affermano i nostri migliori artefici che sono le migliori e meglio condotte che abbia mai fatto Tiziano, e nel vero sono rarissime, onde meritò essere liberalissimamente riconosciuto e premiato da quel signore, il quale ritrasse ottimamente con un braccio sopra un gran pezzo d'artiglieria.
Similmente ritrasse la signora Laura, che fu poi moglie di quel Duca, che è opera stupenda.
E di vero hanno gran forza i doni in coloro che s'affaticano per la virtù, quando sono sollevati dalle liberalità de' principi.
Fece in quel tempo Tiziano amicizia con il divino Messer Lodovico Ariosto, e fu da lui conosciuto per eccellentissimo pittore, e celebrato nel suo Orlando Furioso:
...Tizian, che onora
non men Cador che quei Venezia e Urbino.
Tornato poi Tiziano a Vinezia, fece per lo suocero di Giovanni da Castel Bolognese, in una tela a olio un pastore ignudo et una forese che gli porge certi flauti perché suoni, con un bellissimo paese; il qual quadro è oggi in Faenza in casa il su detto Giovanni.
Fece appresso nella chiesa de' frati minori, chiamata la Ca' grande, all'altar maggiore in una tavola la Nostra Donna che va in cielo et i dodici Apostoli a basso, che stanno a vederla salire; ma quest'opera, per essere stata fatta in tela e forse mal custodita, si vede poco.
Nella medesima chiesa alla cappella di quelli da Ca' Pesari, fece in una tavola la Madonna col Figliuolo in braccio, un San Piero et un San Giorgio et attorno i padroni ginocchioni, ritratti di naturale, in fra i quali è il vescovo di Baffo et il fratello, allora tornati dalla vittoria che ebbe detto vescovo contra i Turchi.
Alla chiesetta di San Niccolò nel medesimo convento, fece in una tavola San Niccolò, San Francesco, Santa Caterina e San Sebastiano ignudo, ritratto dal vivo e senza artificio niuno che si veggia essere stato usato in ritrovare la bellezza delle gambe e del torso, non vi essendo altro che quanto vide nel naturale, di maniera che tutto pare stampato dal vivo, così è carnoso e proprio, ma con tutto ciò è tenuto bello come è anco molto vaga una Nostra Donna col Putto in collo, la quale guardano tutte le dette figure.
L'opera della quale tavola fu dallo stesso Tiziano disegnata in legno e poi da altri intagliata e stampata.
Per la chiesa di Santo Rocco fece dopo le dette opere, in un quadro, Cristo con la croce in spalla e con una corda al collo tirata da un ebreo, la qual figura, che hanno molti creduta sia di mano di Giorgione, è oggi la maggior divozione di Vinezia, et ha avuto di limosine più scudi che non hanno in tutta la loro vita guadagnato Tiziano e Giorgione.
Dopo essendo chiamato a Roma dal Bembo, che allora era secretario di papa Leone X et il quale aveva già ritratto, acciò che vedesse Roma, Raffaello da Urbino et altri, andò tanto menando Tiziano la cosa d'oggi in domani, che morto Leone e Raffaello l'anno 1520, non v'andò altrimenti.
Fece per la chiesa di Santa Maria Maggiore in un quadro un San Giovanni Batista nel deserto fra certi sassi, un Angelo che par vivo et un pezzetto di paese lontano, con alcuni alberi sopra la riva d'un fiume molto graziosi.
Ritrasse di naturale il principe Grimani et il Loredano, che furono tenuti mirabili, e non molto dopo il re Francesco, quando partì d'Italia per tornare in Francia, e l'anno che fu creato doge Andrea Gritti fece Tiziano il suo ritratto, che fu cosa rarissima, in un quadro dove è la Nostra Donna, San Marco e Santo Andrea col volto del detto doge, il qual quadro, che è cosa maravigliosissima, è nella sala del collegio.
E perché aveva, come s'è detto, obligo di ciò fare, ha ritratto oltre i sopra detti gl'altri dogi, che sono stati secondo i tempi: Pietro Lando, Francesco Donato, Marcantonio Trevisano et il Veniero, ma dai due dogi e fratelli Pauli è stato finalmente assoluto, come vecchissimo, da cotale obligo.
Essendo innanzi al Sacco di Roma andato a stare a Vinezia Pietro Aretino, poeta celeberrimo de' tempi nostri, divenne amicissimo di Tiziano e del Sansovino, il che fu di molto onore et utile a esso Tiziano, perciò che lo fece conoscere tanto lontano quanto si distese la sua penna e massimamente a prìncipi d'importanza, come si dirà a suo luogo.
Intanto, per tornare all'opere di Tiziano, egli fece la tavola all'altare di San Piero martire, nella chiesa di San Giovanni e Polo, facendovi maggior del vivo il detto Santo martire dentro a una boscaglia d'alberi grandissimi, cascato in terra et assalito dalla fierezza d'un soldato, che l'ha in modo ferito nella testa, che essendo semivivo se gli vede nel viso l'orrore della morte: mentre in un altro frate, che va innanzi fuggendo, si scorge lo spavento e timore della morte; in aria sono due Angeli nudi, che vengono da un lampo di cielo, il quale dà lume al paese, che è bellissimo, et a tutta l'opera insieme; la quale è la più compiuta, la più celebrata e la maggiore e meglio intesa e condotta, che altra la quale in tutta la sua vita Tiziano abbia fatto ancor mai.
Quest'opera vedendo il Gritti, che a Tiziano fu sempre amicissimo, come anco al Sansovino, gli fece allogare nella sala del Gran Consiglio una storia grande della rotta di Chiaradadda, nella quale fece una battaglia e furia di soldati, che combattono mentre una terribile pioggia cade dal cielo; la quale opera, tolta tutta dal vivo, è tenuta la migliore di quante storie sono in questa sala, e la più bella.
Nel medesimo palazzo a' piè d'una scala dipinse a fresco una Madonna.
Avendo non molto dopo fatto, a un gentiluomo da Ca' Contarini, in un quadro un bellissimo Cristo che siede a tavola con Cleofas e Luca, parve al gentiluomo che quella fusse opera degna di stare in publico, come è veramente, per che fattone, come amorevolissimo della patria e del publico, dono alla Signoria, fu tenuto molto tempo nelle stanze del doge, ma oggi è in luogo publico e da potere essere veduta da ognuno nella salotta d'oro, dinanzi alla sala del Consiglio de' Dieci sopra la porta.
Fece ancora quasi ne' medesimi tempi, per la scuola di Santa Maria della Carità, la Nostra Donna che saglie i gradi del tempio, con teste d'ogni sorte ritratte dal naturale; parimente nella scuola di San Fantino, in una tavoletta un San Girolamo in penitenza, che era dagl'artefici molto lodata, ma fu consumata dal fuoco, due anni sono, con tutta quella chiesa.
Dicesi che l'anno 1530, essendo Carlo Quinto imperatore in Bologna, fu dal cardinale Ipolito de' Medici, Tiziano, per mezzo di Pietro Aretino, chiamato là, dove fece un bellissimo ritratto di sua maestà tutto armato che tanto piacque, che gli fece donare mille scudi, de' quali bisognò che poi desse la metà ad Alfonso Lombardi scultore, che avea fatto un modello, per farlo di marmo, come si disse nella sua vita.
Tornato Tiziano a Vinezia, trovò che molti gentiluomini, i quali avevano tolto a favorire il Pordenone, lodando molto l'opere da lui state fatte nel palco della sala de' Pregai et altrove, gli avevano fatto allogare nella chiesa di San Giovanni elemosinario una tavoletta acciò che egli la facesse a concorrenza di Tiziano, il quale nel medesimo luogo aveva poco innanzi dipinto il detto San Giovanni elemosinario in abito di vescovo.
Ma per diligenza che in detta tavola ponesse il Pordenone, non poté paragonare, né giugnere a gran pezzo all'opera di Tiziano, il quale poi fece per la chiesa di Santa Maria degl'Angeli a Murano una bellissima tavola d'una Nunziata.
Ma non volendo quelli che l'avea fatta fare spendervi cinquecento scudi, come ne voleva Tiziano, egli la mandò per consiglio di Messer Piero Aretino a donare al detto imperatore Carlo Quinto, che gli fece, piacendogli infinitamente quell'opera, un presente di duemila scudi, e dove aveva a essere posta la detta pittura ne fu messa in suo cambio una di mano del Pordenone.
Né passò molto, che tornando Carlo Quinto a Bologna per abboccarsi con papa Clemente quando venne con l'esercito d'Ungheria, volle di nuovo essere ritratto da Tiziano, il quale ritrasse ancora prima che partisse di Bologna il detto cardinale Ipolito de' Medici, con abito all'ungheresca, et in un altro quadro più piccolo il medesimo tutto armato; i quali ambidue sono oggi nella guardaroba del duca Cosimo.
Ritrasse in quel medesimo tempo il marchese del Vasto, Alfonso Davalos, et il detto Pietro Aretino, il quale gli fece allora pigliare servitù et amicizia con Federigo Gonzaga, duca di Mantoa; col quale andato Tiziano al suo stato, lo ritrasse che par vivo, e dopo il cardinale suo fratello.
E questi finiti, per ornamento d'una stanza, fra quelle di Giulio Romano, fece dodici teste dal mezzo in su de' dodici cesari molto belle, sotto ciascuna delle quali fece poi Giulio detto una storia de' fatti loro.
Ha fatto Tiziano in Cador sua patria una tavola, dentro la quale è una Nostra Donna e San Tiziano vescovo, et egli stesso ritratto ginocchioni.
L'anno che papa Paulo Terzo andò a Bologna e di lì a Ferrara, Tiziano andato alla corte ritrasse il detto Papa, che fu opera bellissima, e da quello un altro al cardinale Santa Fiore; i quali ambidue, che gli furono molto bene pagati dal Papa, sono in Roma, uno nella guardaroba del cardinale Farnese e l'altro appresso gl'eredi di detto cardinale Santa Fiore.
E da questi poi ne sono state cavate molte copie, che sono sparse per Italia.
Ritrasse anco quasi ne' medesimi tempi Francesco Maria duca d'Urbino, che fu opera maravigliosa, onde Messer Piero Aretino per questo lo celebrò con un sonetto, che cominciava:
Se il chiaro Apelle con la man dell'arte
rasemplò d'Alessandro il volto e il petto...
Sono nella guardaroba del medesimo Duca di mano di Tiziano due teste di femmina molto vaghe, et una Venere giovanetta a giacere con fiori e certi panni sottili attorno molto belli e ben finiti, et oltre ciò una testa dal mezzo in su d'una Santa Maria Maddalena con i capegli sparsi, che è cosa rara.
Vi è parimente il ritratto di Carlo Quinto, del re Francesco quando era giovane, del duca Guidobaldo Secondo, di papa Sisto Quarto, di papa Giulio Secondo, di Paulo Terzo, del cardinal vecchio di Loreno e di Solimano imperatore de' Turchi, i quali ritratti dico sono di mano di Tiziano, e bellissimi.
Nella medesima guardaroba, oltre a molte altre cose è un ritratto d'Aniballe cartaginese, intagliato nel cavo d'una corniuola antica, e così una testa di marmo bellissima di mano di Donato.
Fece Tiziano l'anno 1541 ai frati di Santo Spirito di Vinezia la tavola dell'altare maggiore, figurando in essa la venuta dello Spirito Santo sopra gl'Apostoli, con uno Dio finto di fuoco e lo Spirito in colomba.
La qual tavola essendosi guasta indi a non molto tempo, dopo avere molto piatito con que' frati, l'ebbe a rifare, ed è quella che è al presente sopra l'altare.
In Brescia fece nella chiesa di San Nazzaro la tavola dell'altare maggiore di cinque quadri; in quello del mezzo è Gesù Cristo che risuscita, con alcuni soldati attorno, e dagli lati San Nazzaro, San Bastiano, l'angelo Gabriello e la Vergine annunziata.
Nel Duomo di Verona, fece nella facciata da piè in una tavola, un'Assunta di Nostra Donna in cielo e gl'Apostoli in terra, che è tenuta in quella città delle cose moderne la migliore.
L'anno 1541 fece il ritratto di don Diego di Mendozza, allora ambasciadore di Carlo Quinto a Vinezia, tutto intero et in piedi, che fu bellissima figura, e da questa cominciò Tiziano quello che è poi venuto in uso, cioè fare alcuni ritratti interi.
Nel medesimo modo fece quello del cardinale di Trento allora giovane, et a Francesco Marcolini ritrasse Messer Pietro Aretino, ma non fu già questi sì bello come uno, pure di mano di Tiziano, che esso Aretino di se stesso mandò a donare al duca Cosimo de' Medici, al quale mandò anco la testa del signor Giovanni de' Medici, padre di detto signor Duca.
La qual testa fu ritratta da una forma, che fu improntata in sul viso di quel signore quando morì in Mantoa, che era appresso l'Aretino.
I quali ambidue ritratti sono in guardaroba del detto signor Duca fra molte altre nobilissime pitture.
L'anno medesimo, essendo stato il Vasari in Vinezia tredici mesi a fare, come s'è detto, un palco a Messer Giovanni Cornaro et alcune cose per la Compagnia della Calza, il Sansovino, che guidava la fabrica di Santo Spirito, gli aveva fatto fare disegni per tre quadri grandi a olio, che andavano nel palco, acciò gli conducesse di pittura; ma essendosi poi partito il Vasari, furono i detti tre quadri allogati a Tiziano, che gli condusse bellissimi per avere atteso con molt'arte a fare scortare le figure al di sotto in su.
In uno è Abraam che sacrifica Isaac, nell'altro Davit che spicca il collo a Golia, e nel terzo Abel ucciso da Cain suo fratello.
Nel medesimo tempo ritrasse Tiziano se stesso, per lasciare quella memoria di sé ai figliuoli.
E venuto l'anno 1546, chiamato dal cardinale Farnese andò a Roma, dove trovò il Vasari che, tornato da Napoli, faceva la sala della Cancelleria al detto Cardinale, per che essendo da quel signore stato raccomandato Tiziano a esso Vasari, gli tenne amorevol compagnia in menarlo a vedere le cose di Roma.
E così riposato che si fu Tiziano alquanti giorni, gli furono date stanze in Belvedere, acciò mettesse mano a fare di nuovo il ritratto di papa Paulo intero, quello di Farnese e quello del duca Ottavio, i quali condusse ottimamente e con molta sodisfazione di que' signori, a persuasione de' quali fece, per donare al Papa, un Cristo dal mezzo in su, in forma di Ecce Homo, la quale opera, o fusse che le cose di Michelagnolo, di Raffaello, di Pulidoro e d'altri l'avessono fatto perdere, o qualche altra cagione, non parve ai pittori, tuttoché fusse buon'opera, di quell'eccellenza che molte altre sue e particolarmente i ritratti.
Andando un giorno Michelagnolo et il Vasari a vedere Tiziano in Belvedere, videro in un quadro, che allora avea condotto, una femina ignuda figurata per una Danae, che aveva in grembo Giove trasformato in pioggia d'oro e molto, come si fa in presenza, gliene lodarono.
Dopo partiti che furono da lui, ragionandosi del fare di Tiziano, il Buonarruoto lo comendò assai, dicendo che molto gli piaceva il colorito suo e la maniera, ma che era un peccato che a Vinezia non s'imparasse da principio a disegnare bene e che non avessono que' pittori miglior modo nello studio.
"Conciò sia" diss'egli "che se quest'uomo fusse punto aiutato dall'arte e dal disegno, come è dalla natura, e massimamente nel contrafare il vivo, non si potrebbe far più né meglio, avendo egli bellissimo spirito et una molto vaga e vivace maniera." Et infatti così è vero, perciò che chi non ha disegnato assai e studiato cose scelte, antiche o moderne, non può fare bene di pratica da sé, né aiutare le cose che si ritranno dal vivo dando loro quella grazia e perfezzione, che dà l'arte fuori dell'ordine della natura, la quale fa ordinariamente alcune parti che non son belle.
Partito finalmente Tiziano di Roma, con molti doni avuti da que' signori e particolarmente per Pomponio suo figliuolo un benefizio di buona rendita, si mise in cammino per tornare a Vinezia, poi che Orazio suo altro figliuolo ebbe ritratto Messer Batista Ceciliano, eccellente suonatore di violone, che fu molto buon'opera, et egli fatto alcuni altri ritratti al duca Guidobaldo d'Urbino.
E giunto a Fiorenza, vedute le rare cose di quella città, rimase stupefatto non meno che avesse fatto di quelle di Roma, et oltre ciò, visitò il duca Cosimo, che era al Poggio a Caiano, offerendosi a fare il suo ritratto, di che non si curò molto sua eccellenza forse per non far torto a tanti nobili artefici della sua città e dominio.
Tiziano adunque, arrivato a Vinezia, finì al marchese del Vasto una locuzione (così la chiamarono) di quel signore a' suoi soldati, e dopo gli fece il ritratto di Carlo Quinto, quello del Re catolico e molti altri.
E questi lavori finiti, fece nella chiesa di Santa Maria Nuova di Vinezia in una tavoletta una Nunziata, e poi facendosi aiutare ai suoi giovani, condusse nel refettorio di San Giovanni e Polo un cenacolo, e nella chiesa di San Salvadore all'altar maggiore una tavola, dove è un Cristo trasfigurato in sul monte Tabor, et ad un altro altare della medesima chiesa una Nostra Donna annunziata dall'Angelo.
Ma queste opere ultime, ancor che in loro si veggia del buono, non sono molto stimate da lui e non hanno di quella perfezzione che hanno l'altre sue pitture.
E perché sono infinite l'opere di Tiziano, e massimamente i ritratti, è quasi impossibile fare di tutti memoria; onde dirò solamente de' più segnalati, ma senz'ordine di tempi, non importando molto sapere qual fusse prima e qual fatto poi.
Ritrasse più volte, come s'è detto, Carlo Quinto, et ultimamente fu per ciò chiamato alla corte, dove lo ritrasse, secondo che era in quegli quasi ultimi anni, e tanto piacque a quello invittissimo Imperadore il fare di Tiziano, che non volse da che prima lo conobbe essere ritratto da altri pittori, e ciascuna volta che lo dipinse ebbe mille scudi d'oro di donativo.
Fu da sua maestà fatto cavaliere con provisione di scudi dugento sopra la camera di Napoli.
Quando similmente ritrasse Filippo re di Spagna, e di esso Carlo figliuolo, ebbe da lui di ferma provisione altri scudi dugento, di maniera che aggiunti quelli quattrocento alli trecento, che ha in sul Fondaco de' Tedeschi da' signori viniziani, ha senza faticarsi settecento scudi fermi di provisione ciascun anno.
Del quale Carlo Quinto e di esso re Filippo mandò Tiziano i ritratti al signor duca Cosimo, che gli ha nella sua guardaroba.
Ritrasse Ferdinando re de' Romani, che poi fu imperatore, e di quello tutti i figliuoli, cioè Massimiliano oggi imperatore et il fratello, ritrasse la reina Maria, e per l'imperatore Carlo il duca di Sassonia, quando era prigione.
Ma che perdimento di tempo è questo? Non è stato quasi alcun signore di gran nome, né principe, né gran donna, che non sia stata ritratta da Tiziano, veramente in questa parte eccellentissimo pittore.
Ritrasse il re Francesco Primo di Francia, come s'è detto, Francesco Sforza duca di Milano, il marchese di Pescara, Antonio da Leva, Massimiano Stampa, il signor Giovanbatista Castaldo et altri infiniti signori.
Parimente in diversi tempi, oltre alle dette, ha fatto molte altre opere: in Vinezia di ordine di Carlo Quinto fece in una gran tavola da altare Dio in Trinità, dentro a un trono la Nostra Donna, e Cristo fanciullo con la colomba sopra, et il campo tutto di fuoco per lo amore, et il Padre cinto di cherubini ardenti; da un lato è il detto Carlo Quinto e dall'altro l'imperatrice, fasciati d'un panno lino, con mani giunte in atto d'orare, fra molti Santi, secondo che gli fu comandato da Cesare, il quale fino allora nel colmo delle vittorie, cominciò a mostrare d'avere animo di ritirarsi, come poi fece, dalle cose mondane, per morire veramente da cristiano timorato de Dio e disideroso della propria salute.
La quale pittura disse a Tiziano l'imperatore, che volea metterla in quel monasterio dove poi finì il corso della sua vita.
E perché è cosa rarissima, si aspetta che tosto debba uscire fuori stampata.
Fece il medesimo un Prometeo alla reina Maria, il quale sta legato al monte Caucaso et è lacerato dall'aquila di Giove, et un Sisifo all'inferno, che porta un sasso, e Tizio stracciato dall'avoltoio.
E queste tutte dal Prometeo infuori ebbe sua maestà, e con esse un Tantalo della medesima grandezza, cioè quanto il vivo, in tela et a olio.
Fece anco una Venere et Adone, che sono maravigliosi, essendo ella venutasi meno et il giovane in atto di volere partire da lei, con alcuni cani intorno molto naturali.
In una tavola della medesima grandezza fece Andromeda legata al sasso e Perseo che la libera dall'orca marina, che non può essere altra pittura più vaga di questa, come è anco un'altra Diana, che standosi in un fonte con le sue ninfe, converte Atteon in cervio.
Dipinse parimente un'Europa, che sopra il toro passa il mare.
Le quali pitture sono appresso al Re catolico tenute molto care, per la vivacità che ha dato Tiziano alle figure con i colori in farle quasi vive e naturali.
Ma è ben vero che il modo di fare che tenne in queste ultime è assai diferente dal fare suo da giovane.
Conciò sia che le prime son condotte con una certa finezza e diligenza incredibile e da essere vedute da presso e da lontano, e queste ultime, condotte di colpi, tirate via di grosso e con macchie, di maniera che da presso non si possono vedere e di lontano appariscono perfette; e questo modo è stato cagione che molti, volendo in ciò immitare e mostrare di fare il pratico, hanno fatto di goffe pitture, e ciò adiviene perché se bene a molti pare che elle siano fatte senza fatica, non è così il vero e s'ingannano, perché si conosce che sono rifatte e che si è ritornato loro addosso con i colori tante volte, che la fatica vi si vede.
E questo modo sì fatto è giudizioso, bello e stupendo, perché fa parere vive le pitture e fatte con grande arte, nascondendo le fatiche.
Fece ultimamente Tiziano in un quadro alto braccia tre e largo quattro, Gesù Cristo fanciullo in grembo alla Nostra Donna et adorato da' Magi, con buon numero di figure d'un braccio l'una, che è opera molto vaga, sì come è ancora un altro quadro, che egli stesso ricavò da questo e diede al cardinale di Ferrara il vecchio.
Un'altra tavola, nella quale fece Cristo schernito da' giudei, che è bellissima, fu posta in Milano nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a una cappella.
Alla reina di Portogallo in un quadro fece un Cristo poco minore del vivo, battuto da' giudei alla colonna, che è bellissimo.
In Ancona, all'altare maggiore di San Domenico fece nella tavola Cristo in croce, et a' piedi la Nostra Donna, San Giovanni e San Domenico bellissimi e di quell'ultima maniera fatta di macchie, come si disse pure ora.
È di mano del medesimo nella chiesa de' Crucicchieri in Vinezia la tavola, che è all'altare di San Lorenzo, dentro al quale è il martirio di quel Santo, con un casamento pieno di figure, e San Lorenzo a giacere in iscorto, mezzo sopra la grata, sotto un gran fuoco, et intorno alcuni che l'accendono.
E perché ha finto una notte, hanno due serventi in mano due lumiere, che fanno lume dove non arriva il riverbero del fuoco che è sotto la grata, che è spesso e molto vivace; et oltre ciò ha finto un lampo, che venendo di cielo e fendendo le nuvole, vince il lume del fuoco e quello delle lumiere, stando sopra al Santo et all'altre figure principali; et oltre ai detti tre lumi, le genti che ha finto di lontano alle finestre del casamento hanno il lume da lucerne e candele che loro sono vicine, et insomma il tutto è fatto con bell'arte, ingegno e giudizio.
Nella chiesa di San Sebastiano all'altare di San Niccolò è di mano dello stesso Tiziano in una tavoletta un San Niccolò che par vivo, a sedere in una sedia finta di pietra, con un Angelo che gli tiene la mitria, la quale opera gli fece fare Messer Niccolò Crasso avocato.
Dopo fece Tiziano per mandare al Re cattolico una figura da mezza coscia in su d'una Santa Maria Madalena scapigliata, cioè con i capelli che le cascano sopra le spalle, intorno alla gola e sopra il petto, mentre ella alzando la testa con gl'occhi fissi al cielo mostra compunzione nel rossore degl'occhi, e nelle lacrime dogliezza de' peccati; onde muove questa pittura chiunche la guarda estremamente, e, che è più, ancor che sia bellissima non muove a lascivia, ma a comiserazione.
Questa pittura, finita che fu, piacque tanto a [Badoer] Silvio gentiluomo viniziano, che donò a Tiziano per averla cento scudi, come quelli che si diletta sommamente della pittura; là dove Tiziano fu forzato farne un'altra, che non fu men bella, per mandarla al detto Re catolico.
Si veggiono anco ritratti di naturale da Tiziano un cittadino viniziano suo amicissimo chiamato il Sinistri, et un altro nominato Messer Paulo da Ponte, del quale ritrasse anco una figliuola, che allora aveva, bellissima giovane, chiamata la signora Giulia da Ponte, comare di esso Tiziano, e similmente la signora Irene, vergine bellissima, letterata, musica et incaminata nel disegno, la quale morendo circa sette anni sono, fu celebrata quasi da tutte le penne degli scrittori d'Italia.
Ritrasse Messer Francesco Filetto oratore di felice memoria, e nel medesimo quadro dinanzi a lui un suo figliuolo, che pare vivo, il qual ritratto è in casa di Messer Matteo Giustiniano amatore di queste arti, che ha fattosi fare da Iacomo da Bassano pittore un quadro che è molto bello, sì come anco sono molte altre opere di esso Bassano, che sono sparse per Vinezia e tenute in buon pregio, e massimamente per cose piccole et animali di tutte le sorti.
Ritrasse Tiziano il Bembo un'altra volta, cioè poi che fu cardinale, il Fracastoro et il cardinale Accolti di Ravenna, che l'ha il duca Cosimo in guardaroba, et il nostro Danese scultore ha in Vinezia in casa sua un ritratto di man di Tiziano d'un gentiluomo da Ca' Delfini.
Si vede di mano del medesimo Messer Niccolò Zeno, la Rossa moglie del Gran Turco, d'età d'anni sedici, e Cameria di costei figliuola con abiti et acconciature bellissime.
In casa Messer Francesco Sonica, avocato e compare di Tiziano, è il ritratto di esso Messer Francesco di mano dell'istesso, et in un quadrone grande la Nostra Donna, che andando in Egitto, pare discesa dell'asino e postasi a sedere sopra un sasso nella via con San Giuseppo appresso e San Giovannino, che porge a Cristo fanciullo certi fiori colti per man d'un Angelo dai rami d'un albero che è in mezzo a quel bosco pieno d'animali, nel lontano del quale si sta l'asino pascendo; la quale pittura, che è oggi graziosissima, ha posta il detto gentiluomo in un suo palazzo, che ha fatto in Padoa da Santa Iustina.
In casa d'un gentiluomo de' Pisani appresso San Marco è di mano di Tiziano il ritratto d'una gentildonna che è cosa maravigliosa.
A monsignor Giovanni della Casa fiorentino, stato uomo illustre per chiarezza di sangue e per lettere a' tempi nostri, avendo fatto un bellissimo ritratto d'una gentildonna che amò quel signor mentre stette in Vinezia, meritò da lui essere onorato con quel bellissimo sonetto, che comincia:
Ben vegg'io, Tiziano, in forme nove
l'idolo mio, che i begl'occhi apre e gira,
con quello che segue.
Ultimamente mandò questo pittore eccellente al detto Re catolico una cena di Cristo con gl'Apostoli in un quadro sette braccia lungo, che fu cosa di straordinaria bellezza.
Oltre alle dette cose e molte altre di minor pregio, che ha fatte quest'uomo e si lasciano per brevità, ha in casa l'infrascritte abbozzate e cominciate: il martirio di San Lorenzo, simile al sopra detto, il quale disegna mandare al Re catolico; una gran tela, dentro la quale è Cristo in croce con i ladroni et i crucifissori a basso, la quale fa per Messer Giovanni d'Anna, et un quadro, che fu cominciato per il doge Grimani, padre del patriarca d'Aquileia.
E per la sala del palazzo grande di Brescia ha dato principio a tre quadri grandi, che vanno negl'ornamenti del palco, come s'è detto ragionando di Cristofano e d'un suo fratello, pittori bresciani.
Cominciò anco molti anni sono, per Alfonso Primo duca di Ferrara, un quadro d'una giovane ignuda, che s'inchina a Minerva, con un'altra figura a canto, et un mare, dove nel lontano è un Nettunno in mezzo sopra il suo carro, ma per la morte di quel signore, per cui si faceva quest'opera a suo capriccio, non fu finita e si rimase a Tiziano.
Ha anco condotto a buon termine, ma non finito, un quadro dove Cristo appare a Maria Madalena nell'orto in forma d'ortolano, di figure quanto il naturale, e così un altro di simile grandezza, dove, presente la Madonna e l'altre Marie, Cristo morto si ripone nel sepolcro, et un quadro parimente d'una Nostra Donna, che è delle buone cose che siano in quella casa; e come s'è detto un suo ritratto, che da lui fu finito quattro anni sono, molto bello e naturale, e finalmente un San Paulo che legge, mezza figura, che pare quello stesso ripieno di Spirito Santo.
Queste dico tutte opere ha condotto, con altre molte che si tacciono per non fastidire, infino alla sua età di circa settantasei anni.
È stato Tiziano sanissimo e fortunato quant'alcun altro suo pari sia stato ancor mai, e non ha mai avuto dai cieli se non favori e felicità.
Nella sua casa di Vinezia sono stati quanti principi, letterati e galantuomini sono al suo tempo andati o stati a Vinezia, perché egli, oltre all'eccellenza dell'arte, è stato gentilissimo, di bella creanza e dolcissimi costumi e maniere.
Ha avuto in Vinezia alcuni concorrenti, ma di non molto valore, onde gl'ha superati agevolmente coll'eccellenza dell'arte e sapere trattenersi e farsi grato ai gentiluomini; ha guadagnato assai perché le sue opere gli sono state benissimo pagate, ma sarebbe stato ben fatto che in questi suoi ultimi anni non avesse lavorato se non per passatempo, per non scemarsi coll'opere manco buone la riputazione guadagnatasi negl'anni migliori e quando la natura per la sua declinazione non tendeva all'imperfetto.
Quando il Vasari scrittore della presente storia fu l'anno 1566 a Vinezia, andò a visitare Tiziano come suo amicissimo e lo trovò, ancor che vecchissimo fusse, con i pennelli in mano a dipignere, et ebbe molto piacere di vedere l'opere sue e di ragionare con esso, il quale gli fece conoscere Messer Gian Maria Verdezotti gentiluomo veniziano, giovane pien di virtù, amico di Tiziano et assai ragionevole, disegnatore e dipintore, come mostrò in alcuni paesi disegnati da lui bellissimi.
Ha costui di mano di Tiziano, il quale ama et osserva come padre, due figure dipinte a olio in due nicchie, cioè un Apollo et una Diana.
Tiziano adunque, avendo d'ottime pitture adornato Vinezia, anzi tutta Italia et altre parti del mondo, merita essere amato et osservato dagl'artefici, et in molte cose ammirato et imitato, come quegli che ha fatto e fa tuttavia opere degne d'infinita lode, e dureranno quanto può la memoria degl'uomini illustri.
Ora se bene molti sono stati con Tiziano per imparare, non è però grande il numero di coloro, che veramente si possano dire suoi discepoli: perciò che non ha molto insegnato, ma ha imparato ciascuno più e meno, secondo che ha saputo pigliare dall'opre fatte da Tiziano.
È stato con esso lui fra gli altri un Giovanni fiamingo, che di figure, così piccole come grandi, è stato assai lodato maestro, e nei ritratti maraviglioso, come si vede in Napoli, dove è vivuto alcun tempo e finalmente morto.
Furono di man di costui (il che gli doverà in tutti i tempi essere d'onore) i disegni dell'anotomie, che fece intagliare, e mandar fuori con la sua opera, l'eccellentissimo Andrea Vessalio.
Ma quegli che più di tutti ha imitato Tiziano è stato Paris Bondone, il quale nato in Trevisi di padre trivisano e madre viniziana, fu condotto d'otto anni a Vinezia in casa alcuni suoi parenti.
Dove, imparato che ebbe gramatica e fattosi eccellentissimo musico, andò a stare con Tiziano, ma non vi consumò molti anni, perciò che vedendo quell'uomo non essere molto vago d'insegnare a' suoi giovani, anco pregato da loro sommamente et invitato con la pacienza a portarsi bene, si risolvé a partirsi, dolendosi infinitamente che di quei giorni fusse morto Giorgione, la cui maniera gli piaceva sommamente, ma molto più l'aver fama di bene e volentieri insegnare con amore quello che sapeva.
Ma poi che altro fare non si poteva, si mise Paris in animo di volere per ogni modo seguitare la maniera di Giorgione.
E così, datosi a lavorare et a contrafare dell'opere di colui, si fece tale, che venne in bonissimo credito, onde nella sua età di diciotto anni gli fu allogata una tavola da farsi per la chiesa di San Niccolò de' frati minori; il che avendo inteso Tiziano, fece tanto con mezzi e con favori, che gliele tolse di mano, o per impedirgli che non potesse così tosto mostrare la sua virtù, o pure tirato dal disiderio di guadagnare.
Dopo essendo Paris chiamato a Vicenza a fare una storia a fresco nella loggia di piazza ove si tien ragione, et a canto a quella che aveva già fatta Tiziano del giudizio di Salamone, andò ben volentieri e vi fece una storia di Noè con i figliuoli, che fu tenuta per diligenza e disegno opera ragionevole e non men bella che quella di Tiziano, in tanto che sono tenute amendue, da chi non sa il vero, d'una mano medesima.
Tornato Paris a Vinezia, fece a fresco alcuni ignudi a' piè del ponte di Rialto, per lo qual saggio gli furono fatte fare alcune facciate di case per Vinezia.
Chiamato poi a Trevisi, vi fece similmente alcune facciate et altri lavori, et in particolare molti ritratti che piacquero assai: quello del magnifico Messer Alberto Unigo, quello di Messer Marco Seravalle, di Messer Francesco da Quer e del canonico Rovere e monsignor Alberti.
Nel Duomo della detta città fece in una tavola nel mezzo della chiesa ad istanza del signor vicario la Natività di Gesù Cristo, et appresso una Ressurezione.
In San Francesco fece un'altra tavola al cavaliere Rovere, un'altra in San Girolamo et una in Ogni Santi con variate teste di Santi e Sante, e tutte belle e varie nell'attitudini e ne' vestimenti.
Fece un'altra tavola in San Lorenzo, et in San Polo fece tre cappelle: nella maggiore delle quali fece Cristo che resuscita, grande quanto è il vivo et accompagnato da gran moltitudine d'Angeli, nell'altra alcuni Santi con molti Angeli attorno, e nella terza Gesù Cristo in una nuvola, con la Nostra Donna che gli presenta San Domenico, le quali tutte opere l'hanno fatto conoscere per valentuomo et amorevole della sua città.
In Vinezia poi, dove quasi sempre è abitato, ha fatto in diversi tempi molte opere, ma la più bella e più notabile e dignissima di lode, che facesse mai Paris, fu una storia nella scuola di San Marco da San Giovanni e Polo, nella quale è quando quel pescatore presenta alla signoria di Vinezia l'anello di San Marco, con un casamento in prospettiva bellissimo, intorno al quale siede il senato con il doge; in fra i quali senatori sono molti ritratti di naturale, vivaci e ben fatti oltre modo.
La bellezza di quest'opera, lavorata così bene e colorita a fresco, fu cagione che egli cominciò ad essere adoperato da molti gentiluomini, onde nella casa grande de' Foscari da San Barnaba fece molte pitture e quadri, e fra l'altre un Cristo che sceso al limbo, ne cava i Santi Padri, che è tenuta cosa singolare.
Nella chiesa di San Iob in Canal reio fece una bellissima tavola, et in San Giovanni in Bragola un'altra, et il medesimo a Santa Maria della Celeste et a Santa Marina.
Ma conoscendo Paris che a chi vuole essere adoperato in Vinezia bisogna far troppa servitù in cortegiando questo e quello, si risolvé, come uomo di natura quieto e lontano da certi modi di fare, ad ogni occasione che venisse andare a lavorare di fuori quell'opere che innanzi gli mettesse la fortuna, senza averle a ire mendicando; per che trasferitosi con buona occasione l'anno 1538 in Francia al servizio del re Francesco, gli fece molti ritratti di dame et altri quadri di diverse pitture, e nel medesimo tempo dipinse a monsignor di Guisa un quadro da chiesa bellissimo et uno da camera di Venere e Cupido.
Al cardinale di Loreno fece un Cristo ecce homo, et un Giove con Io, e molte altre opere.
Mandò al re di Pollonia un quadro, che fu tenuto cosa bellissima, nel quale era Giove con una ninfa.
In Fiandra mandò due altri bellissimi quadri: una Santa Maria Madalena nell'eremo, accompagnata da certi Angeli, et una Diana, che si lava con le sue ninfe in un fonte, i quali due quadri gli fece fare il Candiano milanese, medico della reina Maria, per donargli a sua altezza.
In Augusta fece in casa de' Fuccheri molte opere nel loro palazzo, di grandissima importanza e per valuta di tremila scudi.
E nella medesima città fece per i Prineri, grand'uomini di quel luogo, un quadrone grande, dove in prospettiva mise tutti i cinque ordini d'architettura, che fu opera molto bella; et un altro quadro da camera, il quale è appresso il cardinale d'Augusta.
In Crema ha fatto in Santo Agostino due tavole, in una delle quali è ritratto il signor Giulio Manfrone, per un San Giorgio tutto armato.
Il medesimo ha fatto molte opere in Civitale di Belluno, che sono lodate, e particolarmente una tavola in Santa Maria et un'altra in San Giosef, che sono bellissime.
In Genova mandò al signor Ottaviano Grimaldo un suo ritratto grande quanto il vivo e bellissimo, e con esso un altro quadro simile d'una donna lascivissima.
Andato poi Paris a Milano, fece nella chiesa di San Celso in una tavola alcune figure in aria, e sotto un bellissimo paese, secondo che si dice, a istanza del signor Carlo da Roma, e nel palazzo del medesimo due gran quadri a olio: in uno Venere e Marte sotto la rete di Vulcano, e nell'altro il re Davit che vede lavare Bersabè dalle serve di lei alla fonte, et appresso il ritratto di quel signore e quello della signora Paula Visconti sua consorte, et alcuni pezzi di paesi non molto grandi, ma bellissimi.
Nel medesimo tempo dipinse molte favole d'Ovidio al marchese d'Astorga, che le portò seco in Ispagna.
Similmente al signor Tommaso Marini dipinse molte cose, delle quali non accade far menzione.
E questo basti aver detto di Paris, il quale essendo d'anni settantacinque, se ne sta con sua comodità in casa quietamente, e lavora per piacere a richiesta d'alcuni prìncipi et altri amici suoi, fuggendo la concorrenza e certe vane ambizioni per non essere offeso e perché non gli sia turbata una sua somma tranquillità e pace da coloro che non vanno (come dice egli) in verità, ma con doppie vie, malignamente e con niuna carità, là dove egli è avezzo a vivere semplicemente e con una certa bontà naturale, e non sa sottilizzare, né vivere astutamente.
Ha costui ultimamente condotto un bellissimo quadro per la duchessa di Savoia, d'una Venere con Cupido, che dormono custoditi da un servo, tanto ben fatti, che non si possono lodare a bastanza.
Ma qui non è da tacere che quella maniera di pittura, che è quasi dismessa in tutti gl'altri luoghi, si mantien viva dal serenissimo senato di Vinezia, cioè il musaico; perciò che di questo è stato quasi buona e principal cagione Tiziano, il quale quanto è stato in lui ha fatto opera sempre che in Vinezia sia esercitato e fatto dare onorate provisioni a chi ha di ciò lavorato.
Onde sono state fatte diverse opere nella chiesa di San Marco e quasi rinovati tutti i vecchi e ridotta questa sorte di pittura a quell'eccellenza che può essere et ad altro termine, ch'ella non fu in Firenze et in Roma al tempo di Giotto, d'Alesso Baldovinetti, del Ghirlandai e di Gherardo miniatore.
E tutto che si è fatto in Vinezia è venuto dal disegno di Tiziano e d'altri eccellenti pittori, che n'hanno fatto disegni e cartoni coloriti, acciò l'opere si conducessino a quella perfezzione a che si veggiono condotte quelle del portico di San Marco, dove in una nicchia molto bella è il giudizio di Salamone tanto bello, che non si potrebbe in verità con i colori fare altrimenti.
Nel medesimo luogo è l'albero di Nostra Donna di mano di Lodovico Rosso, tutto pieno di Sibille e Profeti fatti d'una gentil maniera, ben commessa e con assai e buon rilievo.
Ma niuno ha meglio lavorato di quest'arte a' tempi nostri, che Valerio e Vincenzio Zuccheri trivisani, di mano de' quali si veggiono in San Marco diverse e molte storie, e particolarmente quella dell'Apocalisse, nella quale sono d'intorno al trono di Dio i quattro Evangelisti in forma d'animali, i sette candelabri et altre molte cose, tanto ben condotte, che guardandole da basso paiono fatte di colori con i pennelli a olio; oltra che si vede loro in mano et appresso quadretti piccoli pieni di figurette fatte con grandissima diligenza; in tanto, che paiono non dico pitture, ma cose miniate, e pure sono di pietre commesse.
Vi sono anco molti ritratti di Carlo Quinto imperatore, di Ferdinando suo fratello, che a lui succedette nell'imperio, e Massimiliano figliuolo di esso Ferdinando et oggi imperatore.
Similmente la testa dell'illustrissimo cardinal Bembo, gloria del secol nostro, e quella del magnifico ...
fatte con tanta diligenza et unione e talmente accomodati i lumi, le carni, le tinte, l'ombre e l'altre cose, che non si può veder meglio né più bell'opera di simil materia.
E di vero è gran peccato che questa arte eccellentissima del fare di musaico, per la sua bellezza et eternità, non sia più in uso di quello che è, e che per opera de' prìncipi, che posson farlo, non ci si attenda.
Oltre ai detti, ha lavorato di musaico in San Marco a concorrenza de' Zuccheri, Bartolomeo Bozzato, il quale si è portato anch'egli nelle sue opere in modo da doverne essere sempre lodato.
Ma quello che in ciò fare è stato a tutti di grandissimo aiuto, è stata la presenza e gl'avvertimenti di Tiziano, del quale, oltre i detti e molti altri, è stato discepolo e l'ha aiutato in molte opere un Girolamo (non so il cognome se non di Tiziano).
IL FINE DELLA VITA DI TIZIANO DA CADOR PITTORE
DESCRIZIONE DELL'OPERE DI IACOPO SANSAVINO SCULTORE FIORENTINO
Mentre che Andrea Contucci scultore dal monte Sansavino, avendo già acquistato in Italia et in Ispagna nome, dopo il Buonarruoto, del più eccellente scultore et architetto che fosse nell'arte, si stava in Firenze per fare le due figure di marmo che dovevano porsi sopra la porta che volta alla Misericordia del tempio di San Giovanni, gli fu dato a imparare l'arte della scultura un giovanetto figliuolo di Antonio di Iacopo Tatti, il quale aveva la natura dotato di grande ingegno e di molta grazia nelle cose che faceva di rilievo, per che conosciuto Andrea quanto nella scultura dovesse il giovane venire eccellente, non mancò con ogni accuratezza insegnargli tutte quelle cose che potevano farlo conoscere per suo discepolo.
E così amandolo sommamente et ingegnandosi con amore e dal giovane essendo parimente amato, giudicarono i popoli che dovesse non pure essere eccellente al pari del suo maestro, ma che lo dovesse passare di gran lunga.
E fu tanto l'amore e benivolenza reciproca fra questi quasi padre e figliuolo, che Iacopo non più del Tatta, ma del Sansovino cominciò in que' primi anni a essere chiamato, e così è stato e sarà sempre.
Cominciando dunque Iacopo a esercitare, fu talmente aiutato dalla natura nelle cose che egli fece, che ancora che egli non molto studio e diligenzia usasse talvolta nell'operare, si vedeva nondimeno in quello che faceva facilità, dolcezza, grazia et un certo che di leggiadro, molto grato agli occhi degli artefici, in tanto che ogni suo schizzo, o segno, o bozza ha sempre avuto una movenzia e fierezza, che a pochi scoltori suole porgere la natura.
Giovò anco pur assai all'uno et all'altro la pratica e l'amicizia, che nella loro fanciullezza e poi nella gioventù ebbero insieme Andrea del Sarto et Iacopo Sansovino, i quali seguitando la maniera medesima nel disegno, ebbero la medesima grazia nel fare, l'uno nella pittura e l'altro nella scultura, per che conferendo insieme i dubbii dell'arte e facendo Iacopo per Andrea modelli di figure, s'aiutavano l'un l'altro sommamente.
E che ciò sia vero ne fa fede questo, che nella tavola di San Francesco delle monache di via Pentolini è un San Giovanni Evangelista il quale fu ritratto da un bellissimo modello di terra, che in quei giorni il Sansovino fece a concorrenzia di Baccio da Monte Lupo, perché l'Arte di Por Santa Maria voleva fare una statua di braccia quattro di bronzo, in una nicchia al canto di Or San Michele, dirimpetto a' Cimatori; per la quale ancora che Iacopo facesse più bello modello di terra che Baccio, fu allogata nondimeno più volentieri al Montelupo, per esser vecchio maestro, che al Sansovino, ancora che fusse meglio l'opera sua, se bene era giovane.
Il qual modello è oggi nelle mani degl'eredi di Nanni Unghero, che è cosa bellissima, al quale Nanni essendo amico allora il Sansovino, gli fece alcuni modelli di putti grandi di terra e d'una figura d'un San Niccola da Tolentino, i quali furno fatti l'uno e l'altro di legno grandi quanto il vivo con aiuto del Sansovino, e posti alla cappella del detto Santo nella chiesa di Santo Spirito.
Essendo per queste cagioni conosciuto Iacopo da tutti gl'artefici di Firenze, e tenuto giovane di bello ingegno et ottimi costumi, fu da Giuliano da San Gallo, architetto di papa Iulio Secondo, condotto a Roma con grandissima satisfazione sua; perciò che piacendogli oltre modo le statue antiche che sono in Belvedere, si mise a disegnarle.
Onde Bramante, architetto anch'egli di papa Iulio, che allora teneva il primo luogo et abitava in Belvedere, visto de' disegni di questo giovane e di tondo rilievo uno ignudo a giacere di terra, che egli aveva fatto, il quale teneva un vaso per un calamaio, gli piacque tanto, che lo prese a favorire e gli ordinò che dovesse ritrar di cera grande il Laocoonte, il quale faceva ritrarre anco da altri, per gettarne poi uno di bronzo, cioè da Zaccheria Zachi da Volterra, Alonso Berugetta spagnolo e dal Vecchio da Bologna, i quali quando tutti furono finiti, Bramante fece vederli a Raffaello Sanzio da Urbino, per sapere chi si fusse di quattro portato meglio.
Là dove fu giudicato da Raffaello che il Sansovino, così giovane, avesse passato tutti gli altri di gran lunga, onde poi per consiglio di Domenico cardinal Grimani, fu a Bramante ordinato che si dovesse fare gittare di bronzo quel di Iacopo; e così, fatta la forma e gettatolo di metallo, venne benissimo.
Là dove rinetto e datolo al cardinale, lo tenne fin che visse non men caro che se fusse l'antico.
E venendo a morte, come cosa rarissima lo lasciò alla Signoria serenissima di Vinezia, la quale avendolo tenuto molti anni nell'armario della sala del Consiglio de' Dieci, lo donò finalmente l'anno 1534 al cardinale di Loreno, che lo condusse in Francia.
Mentre che il Sansovino acquistando giornalmente con li studii dell'arte nome in Roma era in molta considerazione, infermandosi Giuliano da San Gallo, il quale lo teneva in casa in Borgo Vecchio, quando partì di Roma per venire a Firenze in ceste e mutare aria, gli fu da Bramante trovata una camera pure in Borgo Vecchio nel palazzo di Domenico dalla Rovere cardinale di San Clemente, dove ancora alloggiava Pietro Perugino, il quale in quel tempo per papa Giulio dipigneva la volta della camera di Torre Borgia; per che avendo visto Pietro la bella maniera del Sansovino, gli fece fare per sé molti modelli di cera, e fra gli altri un Cristo deposto di croce, tutto tondo, con molte scale e figure, che fu cosa bellissima.
Il quale insieme con l'altre cose di questa sorte e modelli di varie fantasie, furono poi raccolte tutte da Messer Giovanni Gaddi, e sono oggi nelle sue case in Fiorenza alla piazza di Madonna.
Queste cose dico furono cagione che 'l Sansovino pigliò grandissima pratica con maestro Luca Signorelli, pittore cortonese, con Bramantino da Milano, con Bernardino Pinturichio, con Cesare Cesariano, che era allora in pregio per avere comentato Vitruvio, e con molti altri famosi e begli ingegni di quella età.
Bramante adunque, desiderando che 'l Sansovino fusse noto a papa Iulio, ordinò di fargli aconciare alcune anticaglie.
Onde egli messovi mano mostrò nel rassettarle tanta grazia e diligenza, che 'l Papa e chiunque le vidde giudicò che non si potesse far meglio.
Le quali lode, perché avanzasse se stesso, spronarono di maniera il Sansovino, che datosi oltra modo alli studii, essendo anco gentiletto di complessione, con qualche trasordine addosso di quelli che fanno i giovani, s'amalò di maniera, che fu forzato per salute della vita ritornare a Fiorenza, dove giovandoli l'aria nativa, l'aiuto d'esser giovane e la diligenzia e cura de' medici, guarì del tutto in poco tempo.
Per lo che parve a Messer Piero Pitti, il quale procurava allora che nella facciata dove è l'oriuolo di Mercato Nuovo in Firenze si dovesse fare una Nostra Donna di marmo, che essendo in Fiorenza molti giovani valenti et ancora maestri vecchi, si dovesse dare quel lavoro a chi di questi facesse meglio un modello.
Là dove fattone fare uno a Baccio da Montelupo, un altro a Zaccheria Zatii da Volterra, che era anch'egli il medesimo anno tornato a Fiorenza, un altro a Baccio Bandinelli et un altro al Sansovino, posti in giudizio, fu da Lorenzo Credi, pittore eccellente e persona di giudizio e di bontà, dato l'onore e l'opera al Sansovino, e così dagl'altri giudici, artefici et intendenti.
Ma se bene gli fu perciò allogata questa opera, fu nondimeno indugiato tanto a provedergli e condurgli il marmo per opera et invidia d'Averardo da Filicaia, il quale favoriva grandemente il Bandinello et odiava il Sansovino, che veduta quella lunghezza, fu da altri cittadini ordinato che dovesse fare uno degl'Apostoli di marmo grandi che andavano nella chiesa di Santa Maria del Fiore.
Onde fatto il modello d'un San Iacopo, il quale modello ebbe, finito che fu l'opera, Messer Bindo Altoviti, cominciò quella figura e continovando di lavorarla con ogni diligenzia e studio, la condusse a fine tanto perfettamente, che ella è figura miracolosa e mostra in tutte le parti essere stata lavorata con incredibile studio e diligenzia ne' panni, nelle braccia e mani traforate e condotte con tant'arte e con tanta grazia, che non si può nel marmo veder meglio.
Onde il Sansovino mostrò in che modo si lavoravano i panni traforati, avendo quelli condotti tanto sottilmente e sì naturali, che in alcuni luoghi ha campato nel marmo la grossezza che 'l naturale fa nelle pieghe et in su' lembi e nella fine de' vivagni del panno: modo dificile, e che vuole gran tempo e pacienza a volere che riesca in modo che mostri la perfezzione dell'arte; la quale figura è stata nell'Opera da quel tempo che fu finita dal Sansovino fin a l'anno 1565.
Nel qual tempo del mese di dicembre fu messa nella chiesa di Santa Maria del Fiore, per onorare la venuta della reina Giovanna d'Austria, moglie di don Francesco de' Medici principe di Fiorenza e di Siena, dove è tenuta cosa rarissima, insieme con gli altri Apostoli pure di marmo, fatti a concorrenzia da altri artefici, come s'è detto nelle vite loro.
Fece in questo tempo medesimo per Messer Giovanni Gaddi una Venere di marmo in sur un nicchio, bellissima, sì come era anco il modello che era in casa Messer Francesco Montevarchi, amico di queste arti, e gli mandò male per l'innundazione del fiume d'Arno l'anno 1558.
Fece ancora un putto di stoppa et un cecero bellissimo quanto si può di marmo per il medesimo Messer Giovanni Gaddi con molt'altre cose, che sono in casa sua, et a Messer Bindo Altoviti fece fare un camino di spesa grandissima, tutto di macigno intagliato da Benedetto da Rovezzano, che fu posto nelle case sue di Firenze; dove al Sansovino fece fare una storia di figure piccole per metterla nel fregio di detto camino, con Vulcano et altri dei, che fu cosa rarissima.
Ma molto più begli sono due putti di marmo che erano sopra il fornimento di questo camino, i quali tenevano alcune arme delli Altoviti in mano, i quali ne sono stati levati dal signor don Luigi di Toledo, che abita la casa di detto Messer Bindo, e posti intorno a una fontana nel suo giardino in Fiorenza dietro a' frati de' Servi.
Due altri putti pur di marmo di straordinaria bellezza sono di mano del medesimo in casa Giovanfrancesco Ridolfi, i quali tengono similmente un'arme.
Le quali tutte opere feciono tenere il Sansovino da tutta Fiorenza e da quelli dell'arte eccellentissimo e grazioso maestro.
Per lo che Giovanni Bartolini, avendo fatto murare nel suo giardino di Gualfonda una casotta, volse che il Sansovino gli facesse di marmo un Bacco giovinetto quanto il vivo, per che dal Sansovino fattone il modello, piacque tanto a Giovanni, che fattogli consegnare il marmo, Iacopo lo cominciò con tanta voglia, che lavorando volava con le mani e con l'ingegno.
Studiò dico quest'opera di maniera, per farla perfetta, che si mise a ritrarre dal vivo ancor che fusse di verno un suo garzone, chiamato Pippo del Fabbro, facendolo stare ignudo buona parte del giorno, il quale Pippo sarebbe riuscito valente uomo perché si sforzava con ogni fatica d'imitare il maestro.
Ma o fusse lo stare nudo e con la testa scoperta in quella stagione, o pure il troppo studiare e patir disagi, non fu finito il Bacco, che egli impazzò in sulla maniera del fare l'attitudini, e lo mostrò, perché un giorno che pioveva dirottamente, chiamando il Sansovino Pippo et egli non rispondendo, lo vidde poi salito sopra il tetto in cima d'un camino, ignudo, che faceva l'attitudine del suo Bacco; altre volte pigliando lenzuola o altri panni grandi, e' quali bagnati se gli recava adosso all'ignudo come fusse un modello di terra o cenci et acconciava le pieghe, poi salendo in certi luoghi strani et arrecandosi in attitudini or d'una or d'altra maniera, di profeta, d'apostolo, di soldato o d'altro, si faceva ritrarre, stando così lo spazio di due ore senza favellare e non altrimenti che se fusse stato una statua immobile.
Molte altre simili piacevoli pazzie fece il povero Pippo, ma sopra tutto mai non si poté dimenticare il Bacco che avea fatto il Sansovino, se non quando in pochi anni si morì.
Ma tornando alla statua, condotta che fu a fine fu tenuta la più bella opera che fusse mai fatta da maestro moderno, atteso che 'l Sansovino mostrò in essa una difficultà, non più usata, nel fare spiccato intorno intorno un braccio in aria che tiene una tazza del medesimo marmo traforata tra le dita, tanto sottilmente che se ne tien molto poco, oltre che per ogni verso è tanto ben disposta et accordata quella attitudine e tanto ben proporzionate e belle le gambe e le braccia attaccate a quel torso, che pare nel vederlo e toccarlo molto più simile alla carne.
In tanto che quel nome che gl'ha, da chi lo vede se gli conviene, et ancor molto più.
Quest'opera dico, finita che fu, mentre che visse Giovanni fu visitata in quel cortile di Gualfonda da tutti i terrazzani e forestieri, e molto lodata.
Ma poi essendo Giovanni morto, Gherardo Bartolini suo fratello la donò al duca Cosimo, il quale come cosa rara la tiene nelle sue stanze con altre bellissime statue che ha di marmo.
Fece al detto Giovanni un Crocifisso di legno molto bello, che è in casa loro, e molte cose antiche e di man di Michelagnolo.
Avendosi poi l'anno 1514 a fare un ricchissimo apparato in Fiorenza per la venuta di papa Leone X, fu dato ordine dalla Signoria e da Giuliano de' Medici che si facessero molti archi trionfali di legno in diversi luoghi della città.
Onde il Sansovino non solo fece i disegni di molti, ma tolse in compagnia di Andrea del Sarto a fare egli stesso la facciata di Santa Maria del Fiore, tutta di legno, con statue e con istorie et ordine d'architettura, nel modo a punto che sarebbe ben fatto ch'ella stesse, per torne via quello che vi è di componimento et ordine tedesco; per che messovi mano (per non dire ora alcuna cosa della coperta di tela, che per San Giovanni et altre feste solennissime soleva coprire la piazza di Santa Maria del Fiore e di esso San Giovanni, essendosi di ciò in altro luogo favellato a bastanza), dico che sotto queste tende aveva ordinato il Sansovino la detta facciata di lavoro corinto, e che fattala a guisa d'arco trionfale, aveva messo sopra un grandissimo imbasamento da ogni banda le colonne doppie con certi nicchioni fra loro pieni di figure tutte tonde, che figuravano gl'Apostoli, e sopra erano alcune storie grandi di mezzo rilievo, finte di bronzo, di cose del Vecchio Testamento, alcune delle quali ancora si veggiono lungarno in casa de' Lanfredini.
Sopra seguitavano gl'architravi, fregi e cornicioni, che risaltavano, et appresso varii e bellissimi frontespizii.
Negl'angoli poi degl'archi, nelle grossezze e sotto, erano storie dipinte di chiaro scuro di mano d'Andrea del Sarto, e bellissime.
Et in somma questa opera del Sansovino fu tale, che veggendola papa Leone disse che era un peccato che così fatta non fusse la vera facciata di quel tempio, che fu cominciata da Arnolfo tedesco.
Fece il medesimo Sansovino nel detto apparato per la venuta di Leone X, oltre la detta facciata, un cavallo di tondo rilievo, tutto di terra e cimatura, sopra un basamento murato, in atto di saltare e con una figura sotto di braccia nove.
La quale opera fu fatta con tanta bravura e fierezza, che piacque e fu molto lodata da papa Leone, onde esso Sansovino fu da Iacopo Salviati menato a baciare i piedi al Papa, che gli fece molte carezze.
Partito il Papa di Firenze et abboccatosi a Bologna con il re Francesco Primo di Francia, si risolvé tornarsene a Firenze, onde fu dato ordine al Sansovino che facesse un arco trionfale alla porta San Gallo, onde egli non discordando punto da se medesimo, lo condusse simile all'altre cose che aveva fatte, cioè bello a maraviglia, pieno di statue e di quadri di pitture ottimamente lavorati.
Avendo poi deliberato Sua Santità che si facesse di marmo la facciata di San Lorenzo, mentre che s'aspettava da Roma Raffaello da Urbino et il Buonarruoto, il Sansovino d'ordine del Papa fece un disegno di quella, il quale piacendo assai ne fu fatto fare da Baccio d'Agnolo un modello di legno bellissimo.
Et intanto avendone fatto un altro il Buonarruoto, fu a lui et al Sansovino ordinato che andassero a Pietra Santa; dove avendo trovati molti marmi, ma difficili a condursi, persono tanto tempo, che tornati a Firenze trovarono il Papa partito per Roma.
Per che andatigli amendue dietro con i loro modelli ciascuno da per sé, giunse a punto Iacopo quando il modello del Buonarruoto si mostrava a Sua Santità in Torre Borgia; ma non gli venne fatto quello che si pensava, perciò che, dove credeva di dovere almeno sotto Michelagnolo far parte di quelle statue, che andavano in detta opera, avendogliene fatto parole il Papa e datogliene intenzione Michelagnolo, s'avide giunto in Roma che esso Buonarruoto voleva essere solo.
Tuttavia, essendosi condotto a Roma, per non tornarsene a Firenze invano, si risolvé fermarsi in Roma e quivi attendere alla scultura et architettura.
E così avendo tolta a fare per Giovanfrancesco Martelli fiorentino una Nostra Donna di marmo, maggiore del naturale, la condusse bellissima col putto in braccio, e fu posta sopra un altare dentro alla porta principale di Santo Agostino quando s'entra a man ritta.
Il modello di terra della quale statua donò al priore di Roma de' Salviati, che lo pose in una cappella del suo palazzo, sul canto della piazza di San Piero al principio di Borgo Nuovo.
Fece poi, non passò molto, per la cappella che aveva fatta fare il reverendissimo cardinale Albonrense nella chiesa delli Spagnuoli in Roma, sopra l'altare una statua di marmo di braccia quattro oltra modo lodatissima, d'un San Iacopo, il quale ha una movenzia molto graziosa et è condotto con perfezzione e giudizio, onde gli arecò grandissima fama, e mentre che faceva queste statue, fece la pianta e modello e poi cominciò a fare murare la chiesa di San Marcello de' frati de' Servi, opera certo bellissima.
E seguitando d'essere adoperato nelle cose d'architettura, fece a Messer Marco Coscia una loggia bellissima sulla strada che va a Roma, a Ponte Molle nella via Appia; per la Compagnia del Crocifisso della chiesa di San Marcello un Crocifisso di legno da portare a processione molto grazioso, e per Antonio cardinale di Monte cominciò una gran fabbrica alla sua vigna fuor di Roma, in su l'Acqua vergine.
E forse è di mano di Iacopo un molto bel ritratto di marmo di detto cardinal vecchio di Monte, che oggi è nel palazzo del signor Fabiano al Monte San Savino sopra la porta della camera principale di sala.
Fece fare ancora la casa di Messer Luigi Leoni molto comoda, et in Banchi un palazzo, che è dalla casa de' Gaddi, il quale fu poi compero da Filippo Strozzi, che certo è comodo e bellissimo e con molti ornamenti.
Essendosi in questo tempo col favore di papa Leone levato sù la nazione fiorentina, a concorrenzia de' Tedeschi e delli Spagnuoli e de' Franzesi, i quali avevono chi finito e chi cominciato in Roma le chiese delle loro nazioni e quelle fatte adornare e cominciate a sfiziare solennemente, aveva chiesto di poter fare ancor essa una chiesa.
Di che avendo dato ordine il Papa a Lodovico Capponi, allora consolo della nazione, fu deliberato che dietro Banchi al principio di strada Iulia in sulla riva del Tevere, si facesse una grandissima chiesa e si dedicasse a San Giovanni Batista, la quale per magnificenza, grandezza, spesa, ornamenti e disegno, quella di tutte l'altre nazioni avanzasse.
Concorrendo dunque in fare disegni per quest'opera, Raffaello da Urbino, Antonio da San Gallo e Baldassarre da Siena et il Sansovino, veduto che il Papa ebbe i disegni di tutti, lodò come migliore quello del Sansovino, per avere egli oltre all'altre cose fatto su quattro canti di quella chiesa per ciascuno una tribuna e nel mezzo una maggiore tribuna, simile a quella pianta che Sebastiano Serlio pose nel suo secondo libro di architettura.
Là onde, concorrendo col volere del Papa tutti i capi della nazione fiorentina con molto favore del Sansovino, si cominciò a fondare una parte di questa chiesa, lunga tutta ventidue canne; ma non vi essendo spazio e volendo pur fare la facciata di detta chiesa in sulla dirittura delle case di strada Iulia, erano necessitati entrare nel fiume del Tevere almeno quindici canne, il che piacendo a molti, per essere maggiore spesa e più superba il fare i fondamenti nel fiume, si mise mano a farli e vi spesero più di quarantamila scudi, che sarebbono bastanti a fare la metà della muraglia della chiesa.
Intanto il Sansovino che era capo di questa fabbrica, mentre che di mano in mano si fondava, cascò, e fattosi male d'importanza, si fece dopo alcuni giorni portare a Fiorenza per curarsi, lasciando a quella cura, come s'è detto, per fondare il resto Antonio da San Gallo.
Ma non andò molto, che avendo per la morte di Leone perduto la nazione uno apoggio sì grande et un principe tanto splendido, si abandonò la fabrica per quanto durò la vita di papa Adriano VI; poi creato Clemente, per seguitare il medesimo ordine e disegno fu ordinato che il Sansovino ritornasse e seguitasse quella fabrica nel medesimo modo che l'aveva ordinata prima, e così fu rimesso mano a lavorare.
Et intanto egli prese a fare la sepoltura del cardinale d'Aragonia, e quella del cardinale Aginense, e fatto già cominciare a lavorare i marmi per gli ornamenti, e fatti molti modelli per le figure, aveva già Roma in poter suo e faceva molte cose per tutti quei signori importantissime, quando Dio per castigo di quella città e per abassare la superbia delli abitatori di Roma permise che venisse Borbone con l'esercito, a' sei giorni di maggio 1527, e che fusse messo a sacco e ferro e fuoco tutta quella città; nella quale rovina, oltre a molti altri belli ingegni che capitarono male, fu forzato il Sansovino a partirsi con suo gran danno di Roma et a fuggirsi in Vinezia, per indi passare in Francia a' servigi del Re, dove era già stato chiamato.
Ma trattenendosi in quella città per provedersi molte cose, che di tutte era spogliato, e mettersi a ordine, fu detto al principe Andrea Griti, il quale era molto amico alle virtù, che quivi era Iacopo Sansovino; onde venuto in desiderio di parlargli, perché a punto in que' giorni Domenico cardinale Grimani gli aveva fatto intendere che 'l Sansovino sarebbe stato a proposito per le cupole di San Marco, lor chiesa principale, le quali, e dal fondamento debole, e dalla vecchiaia, e da essere male incatenate, erano tutte aperte e minacciavano rovina, lo fece chiamare, e dopo molte accoglienze e lunghi ragionamenti avuti, gli disse che voleva, e ne lo pregava, che riparasse alla rovina di queste tribune, il che promise il Sansovino di fare e rimediarvi; e così, preso a fare quest'opera, vi fece mettere mano; et accomodato tutte l'armadure di drento e fatto travate a guisa di stelle, puntellò nel cavo del legno di mezzo tutti i legni che tenevano il cielo della tribuna, e con cortine di legnami le ricinse di drento in guisa, che poi di fuora e con catene di ferro stringendole e rinfiancandole con altri muri, e di sotto facendo nuovi fondamenti a' pilastri che le reggevano, le fortificò et asicurò per sempre.
Nel che fare fece stupire Vinezia e restare sodisfatto non pure il Gritti, e, che fu più, a quello serenissimo senato rendé tanta chiarezza della virtù sua, che essendo (finita l'opera) morto il protomaestro de' signori procuratori di San Marco, che è il primo luogo che danno quei signori agli ingegnieri et architetti loro, lo diedero a lui con la casa solita e con provisione assai conveniente.
Là dove, accettatolo il Sansovino ben volentieri e fermato l'animo, divenne capo di tutte le fabbriche loro, con suo onore e commodo.
Fece dunque primamente la fabbrica publica della Zecca, la quale egli disegnò e spartì dentro con tanto ordine e comodità per servizio e comodo di tanti manifattori, che non è in luogo nessuno un erario tanto bene ordinato, né con maggior fortezza di quello, il quale adornò tutto con ordine rustico molto bello, il quale modo, non si essendo usato prima in quella città, rese maraviglia assai agli uomini di quel luogo.
Per lo che, conosciuto l'ingegno del Sansovino essere per servizio di quella città atto a ogni loro bisogno, lo feciono attendere molti anni alle fortificazioni dello stato loro.
Né passò molto, che seguitò per ordine del Consiglio de' Dieci la bellissima e ricchissima fabrica della libreria di San Marco incontro al palazzo della Signoria, con tanto ordine d'intaglio, di cornici, di colonne, capitegli e mezze figure per tutta l'opera, che è una maraviglia.
E tutto si è fatto senza risparmio niuno di spesa, onde costa infino a oggi centocinquantamila ducati et è tenuto molto in pregio in quella città per essere piena di ricchissimi pavimenti, di stucchi e di storie per le sale di quel luogo, e scale publiche adornate di varie pitture, come s'è ragionato nella vita di Batista Franco, oltre a molte altre belle comodità e ricchi ornamenti che ha nella entrata della porta principale, che rendono e maestà e grandezza, mostrando la virtù del Sansovino; il qual modo di fare fu cagione che in quella città, nella quale infino allora non era entrato mai modo se non di fare le case et i palazzi loro con un medesimo ordine, seguitando sempre ciascuno le medesime cose con la medesima misura et usanza vecchia, senza variare secondo il sito che si truovavano o secondo la comodità, fu cagione dico, che si cominciassero a fabricare con nuovi disegni e migliore ordine le cose publiche e le private.
Et il primo palazzo che facesse fu quello di Messer Giorgio Cornaro, cosa bellissima e fatta con comodi et ornamenti condecenti, di spesa di scudi settantamila.
Da che mosso un altro gentiluomo da Ca' Delfino, ne fece fare al Sansovino un altro minore con spesa di trentamila scudi, lodatissimo e bellissimo.
E dopo fece quello del Moro con spesa di ventimila scudi, che fu similmente molto lodato, et appresso molti altri di minore spesa nella città e nel contado.
In tanto che si può dire quella magnifica città oggi per quantità e qualità di sontuosi e bene intesi edifizii risplendere et essere in questa parte quello ch'ell'è per ingegno, industria e virtù di Iacopo Sansovino, che per ciò merita grandissima laude.
Essendo con queste opere è stato cagione che i gentiluomini viniziani hanno condotta l'architettura moderna nella loro città, perciò che non solo vi si è fatto quello che è passato per le sue mani, ma molte, anzi infinite altre cose, che sono state condotte da altri maestri che là sono andati ad abitare et hannovi magnifiche cose operato.
Fece ancora Iacopo la fabrica della loggia della piazza di San Marco d'ordine corinto, che è a' piedi del campanile di detto San Marco, con ornamento ricchissimo di colonne e quattro nicchie, nelle quali sono quattro figure grandi quanto il naturale, di bronzo e di somma bellezza.
E fa quest'opera quasi una bellissima basa al detto campanile, il quale è largo da piè una delle faccie piedi trentacinque, che tanto incirca è l'ornamento del Sansovino, et alto da terra fino alla cornice dove sono le finestre delle campane piedi centosessanta, dal piano di detta cornice fin all'altra di sopra dove è il corridore sono piedi venticinque, e l'altro dado di sopra è alto piedi ventotto e mezzo; e da questo piano dal corridore fino alla piramide, pigna, o punta che se la chiamino, sono piedi sessanta; in cima della quale punta il quadricello sopra il quale posa l'Angiolo è alto piedi sei; et il detto Angiolo che gira è alto dieci piedi, di maniera che tutta l'altezza viene ad essere piedi duecentonovantadue.
Diede ancora il disegno e condusse per la scuola, o vero Fraternita e Compagnia della Misericordia, la fabrica di quel luogo grandissima e di spesa di centocinquantamila scudi.
Rifece la chiesa di San Francesco della Vigna, dove stanno i frati de' Zoccoli, opera grandissima e d'importanza.
Né per questo, mentre che ha atteso a tante fabriche, ha mai restato che per suo diletto non abbia fatto giornalmente opere grandissime e belle di scultura, di marmo e di bronzo.
Sopra la pila dell'acqua santa ne' frati della Ca' Grande è di sua mano una statua fatta di marmo per un San Giovanni Batista, molto bella e lodatissima.
A Padova alla cappella del Santo è una storia grande di marmo, di mano del medesimo, di figure di mezzo rilievo bellissime d'un miracolo di Santo Antonio di Padova, la quale in quel luogo è stimata assai.
All'entrare delle scale del palazzo di San Marco fa tuttavia di marmo in forma di due giganti bellissimi, di braccia sette l'uno, un Nettunno et un Marte, mostrando le forze che ha in terra et in mare quella serenissima republica.
Fece una bellissima statua d'un Ercole al duca di Ferrara, e nella chiesa di S.
Marco fece quattro storie di bronzo di mezzo rilievo, alte un braccio e lunghe uno e mezzo, per mettere a un pergamo, con istorie di quello Evangelista, tenute molto in pregio per la varietà loro.
E sopra la porta del medesimo San Marco ha fatto una Nostra Donna di marmo grande quanto il naturale, tenuta cosa bellissima, et alla porta della sagrestia di detto loco è di sua mano la porta di bronzo, divisa in due parti bellissime e con istorie di Gesù Cristo, tutte di mezzo rilievo e lavorate eccellentissimamente; e sopra la porta dello arsenale ha fatto una bellissima Nostra Donna di marmo, che tiene il Figliolo in collo.
Le quali tutte opere non solo hanno illustrato et adornato quella republica, ma hanno fatto conoscere giornalmente il Sansovino per eccellentissimo artefice et amare et onorare dalla magnificenza e liberalità di que' signori, e parimente dagl'altri artefici, referendosi a lui tutto quello di scultura et architettura che è stato in quella città al suo tempo operato.
E nel vero ha meritato l'eccellenza di Iacopo di essere tenuta nel primo grado in quella città fra gl'artefici del disegno, e che la sua virtù sia stata amata et osservata universalmente dai nobili e dai plebei.
Perciò che oltre all'altre cose egli ha, come s'è detto, fatto col suo sapere e giudizio che si è quasi del tutto rinovata quella città et imparato il vero e buon modo di fabricare.
Ma se ella ha ricevuto da lui bellezza et ornamento, egli all'incontro è da lei stato molto benificato.
Conciò sia che oltre all'altre cose, egli è vivuto in essa da che prima vi andò insino all'età di settantotto anni sanissimo e gagliardo, e gli ha tanto conferito l'aria e quel cielo, che non ne mostra in un certo modo più che quaranta.
E ha veduto e vede d'un suo virtuosissimo figliuolo, uomo di lettere, due nipoti, un maschio et una femmina, sanissimi e belli, con somma sua contentezza.
E, che se è più, vive ancora felicissimamente e con tutti que' comodi et agi, che maggiori può avere un par suo.
Ha sempre amato gl'artefici, et in particolare è stato amicissimo dell'eccellente e famoso Tiziano, come fu anco, mentre visse, di Messer Pietro Aretino, per le quali cose ho giudicato ben fatto, se bene vive, fare di lui questa onorata memoria, e massimamente che oggimai è per far poco nella scultura.
Ha avuto il Sansovino molti discepoli in Fiorenza: Niccolò detto il Tribolo, come s'è detto, il Solosmeo da Settignano, che finì dalle figure grandi in fuori tutta la sepoltura di marmo ch'è a Monte Casino, dove è il corpo di Piero de' Medici, che affogò nel fiume del Garigliano.
Similmente è stato suo discepolo Girolamo da Ferrara detto il Lombardo, del quale s'è ragionato nella vita di Benvenuto Garofalo ferrarese, et il quale, e dal primo Sansovino, e da questo secondo ha imparato l'arte, di maniera che oltre alle cose di Loreto, delle quali si è favellato, e di marmo e di bronzo, ha in Vinezia molte opere lavorato.
Costui se bene capitò sotto il Sansovino d'età di trenta anni e con poco disegno, ancora che avesse innanzi lavorato di scultura alcune cose, essendo più tosto uomo di lettere e di corte, che scultore, attese nondimeno di maniera, che in pochi anni fece quel profitto che si vede nelle sue opere di mezzo rilievo che sono nelle fabriche della libreria e loggia del campanile di San Marco, nelle quali opere si portò tanto bene, che poté poi fare da sé solo le statue di marmo et i Profeti che lavorò, come si disse, alla Madonna di Loreto.
Fu ancora discepolo del Sansovino Iacopo Colonna, che morì a Bologna già trenta anni sono lavorando un'opera d'importanza.
Costui fece in Vinezia nella chiesa di San Salvadore un San Girolamo di marmo ignudo, che si vede ancora in una nicchia intorno all'organo, che fu bella figura e molto lodata; et a Santa Croce della Giudecca fece un Cristo, pure ignudo di marmo, che mostra le piaghe, con bello artifizio, e parimente a San Giovanni Nuovo tre figure: Santa Dorotea, Santa Lucia e Santa Caterina; et in Santa Marina si vede di sua mano un cavallo con un capitano armato sopra; le quali opere possono stare al pari con quante ne sono in Vinezia.
In Padova nella chiesa di Santo Antonio fece di stucco detto Santo e San Bernardino vestiti.
Della medesima materia fece a Messer Luigi Cornaro una Minerva, una Venere et una Diana, maggiori del naturale e tutte tonde; di marmo un Mercurio, e di terra cotta un Marzio ignudo e giovinetto, che si cava una spina d'un piè, anzi, mostrando averla cavata, tiene con una mano il piè, guardando la ferita, e con l'altra pare che si voglia nettare la ferita con un panno, la quale opera, perché è la migliore che mai facesse costui, disegna il detto Messer Luigi farla gettare di bronzo.
Al medesimo fece un altro Mercurio di pietra, il quale fu poi donato al duca Federigo di Mantova.
Fu parimente discepolo del Sansovino Tiziano da Padova, scultore, il quale nella loggia del campanile di San Marco di Vinezia scolpì di marmo alcune figurette, e nella chiesa del medesimo San Marco si vede pur da lui scolpito e gettato di bronzo un bello e gran coperchio di pila di bronzo nella cappella di San Giovanni.
Aveva costui fatto la statua d'un San Giovanni, nel quale sono i quattro Evangelisti e quattro storie di San Giovanni con bello artifizio, per gettarla di bronzo, ma morendosi d'anni trentacinque, rimase il mondo privo d'un eccellente e valoroso artefice.
È di mano di costui la volta della cappella di Santo Antonino da Padova, con molto ricco partimento di stucco.
Aveva cominciato per la medesima un serraglio di cinque archi di bronzo, che erano pieni di storie di quel Santo, con altre figure di mezzo e basso rilievo, ma rimase anco questo per la sua morte imperfetto, e per discordia di coloro che avevano cura di farla fare; e n'erano già stati gettati molti pezzi, che riuscivano bellissimi, e fatte le cere per molti altri, quando costui si morì e rimase per le dette cagioni ogni cosa adietro.
Il medesimo Tiziano, quando il Vasari fece il già detto apparato per i signori della Compagnia della Calza in Canareio, fece in quello alcune statue di terra e molti termini, e fu molte volte adoperato in ornamenti di scene, teatri, archi et altre cose simili, con suo molto onore, avendo fatto cose tutte piene d'invenzioni, capricci e varietà, e sopra tutto con molta prestezza.
Pietro da Salò fu anch'egli discepolo del Sansovino, et avendo durato a intagliare fogliami infino alla sua età di trenta anni, finalmente aiutato dal Sansovino, che gli insegnò, si diede a fare figure di marmo.
Nel che si compiacque e studiò di maniera, che in due anni faceva da sé, come ne fanno fede alcune opere assai buone, che di sua mano sono nella tribuna di San Marco; e la statua d'un Marte maggiore del naturale, che è nella facciata del palazzo publico, la quale statua è in compagnia di tre altre di mano di buoni artefici.
Fece ancora nelle stanze del Consiglio de' Dieci due figure, una di maschio e l'altra di femina, in compagnia d'altre due fatte dal Danese Cataneo, scultore di somma lode, il quale, come si dirà, fu anch'egli discepolo del Sansovino, le quali figure sono per ornamento d'un camino.
Fece oltre ciò Pietro tre figure che sono a Santo Antonio, maggiori del vivo e tutte tonde, e sono una Giustizia, una Fortezza e la statua d'un capitano generale dell'armata viniziana, condotte con buona pratica.
Fece ancora la statua d'una Iustizia che ha bella attitudine e buon disegno, posta sopra una colonna nella piazza di Murano, et un'altra nella piazza del Rialto di Vinezia, per sostegno di quella pietra dove si fanno i bandi publici, che si chiama il Gobbo di Rialto, le quali opere hanno fatto costui conoscere per bonissimo scultore.
In Padova nel Santo fece una Tetide molto bella et un Bacco che prieme un grappol d'uva in una tazza, e questa, la quale fu la più dificile figura che mai facesse e la migliore, morendo lassò a' suoi figliuoli, che l'hanno ancora in casa per venderla a chi meglio conoscerà e pagherà le fatiche, che in quella fece il loro padre.
Fu parimente discepolo di Iacopo, Alessandro Vittoria da Trento, scultore molto eccellente et amicissimo degli studii, il quale con bellissima maniera ha mostro in molte cose che ha fatto, così di stucco, come di marmo, vivezza d'ingegno e bella maniera, e che le sue opere sono da essere tenute in pregio.
E di mano di costui sono in Vinezia alla porta principale della libreria di S.
Marco due feminone di pietra alte palmi dieci l'una, che sono molto belle, graziose e da esser molto lodate.
Ha fatto nel Santo di Padova alla sepoltura Conterina quattro figure: duoi schiavi o vero prigioni con una Fama et una Tetis tutte di pietra; et uno Angiolo piedi dieci alto, il quale è stato posto sopra il campanile del Duomo di Verona, che è molto bella statua; et in Dalmazia mandò pure di pietra quattro Apostoli nel Duomo di Treù, alti cinque piedi l'uno.
Fece ancora alcune figure d'argento per la scuola di San Giovanni Evangelista di Vinezia, molto graziose, le quali erano tutte di tondo rilievo, et un San Teodoro d'argento di piedi due, tutto tondo; lavorò di marmo nella cappella Grimana a San Sebastiano due figure, alte tre piedi l'una, et appresso fece una Pietà con due figure di pietra tenute buone, che sono a San Salvadore in Vinezia.
Fece un Mercurio al pergamo di palazzo di San Marco, che risponde sopra la piazza, tenuto buona figura.
Et a San Francesco della Vigna fece tre figure grandi quanto il naturale, tutte di pietra, molto belle, graziose e ben condotte, Santo Antonio, San Sebastiano e Santo Rocco, e nella chiesa de' Crocicchieri fece di stucco due figure alte sei piedi l'una, poste all'altare maggiore, molto belle, e della medesima materia fece, come già s'è detto, tutti gli ornamenti che sono nelle volte delle scale nuove del palazzo di San Marco, con vari partimenti di stucchi, dove Batista Franco dipinse poi ne' vani dove sono le storie, le figure e le grottesche che vi sono.
Parimente fece Alessandro quelle delle scale della libreria di San Marco, tutte opere di gran fattura, e ne' frati minori una cappella, e nella tavola di marmo, che è bellissima e grandissima, l'assunzione della Nostra Donna di mezzo rilievo con cinque figurone a basso, che hanno del grande e son fatte con bella maniera, grave e bello andare di panni e condotte con diligenzia.
Le quali figure di marmo sono San Ieronimo, San Giovanbatista, San Pietro, Santo Andrea e San Lionardo, alte sei piedi l'una, e le migliori di quante opere ha fatto infin a ora.
Nel finimento di questa cappella sul frontespizio sono due figure pure di marmo, molto graziose et alte otto piedi l'una.
Il medesimo Vittoria ha fatto molti ritratti di marmo e bellissime teste e somigliano, cioè quella del signor Giovanbatista Feredo, posta nella chiesa di Santo Stefano, quella di Camillo Trevisano oratore, posta nella chiesa di San Giovanni e Polo, il clarissimo Marcantonio Grimani, anch'egli posto nella chiesa di San Sebastiano, et in San Gimignano il piovano di detta chiesa.
Ha parimente ritratto Messer Andrea Loredano, Messer Priamo da Lagie, e dua fratelli da Ca' Pellegrini oratori, cioè Messer Vincenzio e Messer Giovanbatista.
E perché il Vittoria è giovane e lavora volentieri, virtuoso, affabile, disideroso d'acquistare nome e fama et insomma gentilissimo, si può credere che vivendo si abbia a vedere di lui ogni giorno bellissime opere e degne del suo cognome Vettoria, e che vivendo abbia a essere eccellentissimo scultore e meritare sopra gl'altri di quel paese la palma.
Ecci ancora un Tommaso da Lugano scultore, che è stato anch'egli molti anni col Sansovino et ha fatto con lo scarpello molte figure nella libreria di San Marco in compagnia d'altri, come s'è detto, e molto belle.
E poi, partito dal Sansovino, ha fatto da sé una Nostra Donna col Fanciullo in braccio et a' piedi San Giovannino, che sono figure tutte e tre di sì bella forma, attitudine e maniera, che possono stare fra tutte l'altre statue moderne belle che sono in Venezia, la quale opera è posta nella chiesa di San Bastiano.
Et una testa di Carlo Quinto imperatore, la quale fece costui di marmo dal mezzo in su, è stata tenuta cosa maravigliosa e fu molto grata a sua maestà.
Ma perché Tommaso si è dilettato più tosto di lavorare di stucco che di marmo o bronzo, sono di sua mano infinite bellissime figure et opere fatte da lui di cotal materia in casa diversi gentiluomini di Vinezia; e questo basti avere detto di lui.
Finalmente de' lombardi ci resta a far memoria di Iacopo bresciano giovane di ventiquattro anni che s'è partito non è molto dal Sansovino, et il quale ha dato saggio a Vinezia in molti anni che v'è stato di essere ingegnoso e di dovere riuscire eccellente, come poi è riuscito nell'opere che ha fatto in Brescia sua patria, e particolarmente nel palazzo publico: ma se studia e vive si vedranno anco di sua mano cose maggiori e migliori, essendo spiritoso e di bellissimo ingegno.
De' nostri toscani è stato discepolo del Sansovino Bartolomeo Amannati fiorentino, del quale in molti luoghi di quest'opera s'è già fatto memoria.
Costui dico lavorò sotto il Sansovino in Vinezia e poi in Padova per Messer Marco da Mantova, eccellentissimo dottore di medicina, in casa del quale fece un grandissimo gigante nel suo cortile di un pezzo di pietra e la sua sepoltura con molte statue.
Dopo venuto l'Amannato a Roma l'anno 1550, gli furono allogate da Giorgio Vasari quattro statue di braccia quattro l'una di marmo per la sepoltura del cardinale de' Monti vecchio, la quale papa Iulio Terzo aveva allogata a esso Giorgio nella chiesa di San Pietro a Montorio, come si dirà, le quali statue furono tenute molto belle, per che avendogli il Vasari posto amore, lo fece conoscere al detto Iulio Terzo, il quale avendo ordinato quello fusse da fare, lo fece mettere in opera, e così ambidue, cioè il Vasari e l'Amannato, per un pezzo lavorarono insieme alla vigna.
Ma non molto dopo che il Vasari fu venuto a servire il duca Cosimo a Fiorenza, essendo morto il detto Papa, l'Amannato, che si trovava senza lavoro et in Roma da quel Pontefice essere male stato sodisfatto delle sue fatiche, scrisse al Vasari, pregandolo che come l'aveva aiutato in Roma, così volesse aiutarlo in Fiorenza appresso al Duca.
Onde el Vasari adoperandosi in ciò caldamente, lo condusse al servizio di sua eccellenza per cui ha molte statue di marmo e di bronzo, che ancora non sono in opera, lavorate.
Per lo giardino di Castello ha fatto due figure di bronzo maggiori del vivo, cioè Ercole che fa scoppiare Anteo, al quale Anteo, invece dello spirito, esce acqua in gran copia per bocca.
Finalmente ha condotto l'Amannato il colosso di Nettunno di marmo che è in piazza, alto braccia dieci e mezzo.
Ma perché l'opera della fonte a cui ha da stare in mezzo il detto Nettunno non è finita, non ne dirò altro.
Il medesimo Amannato, come architetto, attende, con suo molto onore e lode, alla fabbrica de' Pitti, nella quale opera ha grande occasione di mostrare la virtù e grandezza dell'animo suo, e la magnificenza e grande animo del duca Cosimo.
Direi molti particolari di questo scultore, ma perché mi è amico, et altri secondo che intendo scrive le cose sue, non dirò altro per non mettere mano a quello che da altri fie meglio, che io forse non saprei raccontarlo.
Restaci per ultimo de' discepoli del Sansovino a far menzione del Danese Cataneo scultore da Carrara, il quale essendo anco piccol fanciullo stette con esso lui a Vinezia, e partitosi d'anni diciannove dal detto suo maestro, fece da per sé in San Marco un fanciullo di marmo, et un San Lorenzo nella chiesa de' frati minori, a San Salvadore un altro fanciullo di marmo, et a San Giovanni e Polo la statua d'un Bacco ignudo, che preme un grappol d'uva d'una vite che s'aggira intorno a un tronco che ha dietro alle gambe, la quale statua è oggi in casa de' Mozzanighi da San Barnaba.
Ha lavorato molte figure per la libreria di San Marco e per la loggia del campanile insieme con altri, de' quali si è di sopra favellato, et oltre le dette, quelle due che già si disse essere nelle stanze del Consiglio de' Dieci.
Ritrasse di marmo il cardinale Bembo et il Contarino capitan generale dell'armata viniziana, i quali ambidue sono in Santo Antonio di Padova, con belli e ricchi ornamenti a torno.
E nella medesima città di Padova in San Giovanni di Verdara è di mano del medesimo il ritratto di Messer Girolamo Gigante iureconsulto dottissimo.
A Vinezia ha fatto in Santo Antonio della Giudecca il ritratto naturalissimo del Giustiniano, luogotenente del gran mastro di Malta, e quello del Tiepolo stato tre volte generale: ma queste non sono anco state messe ai luoghi loro.
Ma la maggiore opera e più segnalata che abbia fatta il Danese è stato in Verona a Santa Anastasia una cappella di marmi ricca, e con figure grandi, al signor Ercole Fregoso in memoria del signor Iano, già signor di Genova e poi capitano generale de' viniziani, al servizio de' quali morì.
Questa opera è d'ordine corinto in guisa d'arco trionfale, e divisata da quattro gran colonne tonde striate, con i capitegli a foglie di oliva, che posano sopra un basamento di conveniente altezza, facendo il vano del mezzo largo una volta più che uno di quelli dalle bande, con un arco fra le colonne, sopra il quale posa in su capitegli l'architrave e la cornice, e nel mezzo dentro all'arco uno ornamento molto bello di pilastri con cornice e frontespizio, col campo d'una tavola di paragone nero bellissimo, dove è la statua d'un Cristo ignudo maggior del vivo, tutta tonda e molto buona figura, la quale statua sta in atto di mostrare le sue piaghe, con un pezzo di panno rilegato nei fianchi fra le gambe e fino in terra.
Sopra gl'angoli dell'arco sono segni della sua Passione, e tra le due colonne, che sono dal lato destro, sta sopra un basamento una statua tutta tonda, fatta per il signor Iano Fregoso tutta armata all'antica, salvo che mostra le braccia e le gambe nude, e tiene la man manca sopra il pomo della spada, che ha cinta, e con la destra il bastone [di] generale, avendo dietro per investitura, che va dreto alle colonne, una Minerva di mezzo rilievo, che stando in aria tiene con una mano una bacchetta ducale, come quella de' dogi di Vinezia, e con l'altra una bandiera, drentovi l'insegna di San Marco, e tra l'altre due colonne nell'altra investitura è la Virtù militare armata col cimiero in capo, con il semprevivo sopra e con l'impresa nella corazza d'uno ermellino che sta sopra uno scoglio circondato dal fango, con lettere che dicano: "Potius mori quam faedari", e con l'insegna Fregosa; e sopra è una Vittoria con una ghirlanda di lauro et una palma nelle mani.
Sopra la colonna, architrave, fregio e cornice è un altro ordine di pilastri, sopra le cimase de' quali stanno due figure di marmo tonde e due trofei pur tondi e della grandezza delle altre figure.
Di queste due statue una è la Fama in atto di levarsi a volo, accennando con la man dritta al cielo e con una tromba che suona, e questa ha sottili e bellissimi panni attorno e tutto il resto ignuda, e l'altra è fatta per la Eternità, la quale è vestita con abito più grave e sta in maestà, tenendo nella man manca un cerchio dove ella guarda, e con la destra piglia un lembo di panno dentrovi palle, che denotano vari secoli, con la sfera celeste cinta dalla serpe, che con la bocca piglia la coda; nello spazio del mezzo sopra il cornicione che fa fare e mette in mezzo queste due parti, sono tre scaglioni dove seggano due putti grandi et ignudi, i quali tengono un grande scudo con l'elmo sopra, drentovi l'insegna Fregosa, e sotto i detti scalini è di paragone un epitaffio di lettere grandi dorate.
La quale tutta opera è veramente degna d'essere lodata, avendola il Danese condotta con molta diligenza, e dato bella proporzione e grazia a quel componimento, e fatto con gran studio ciascuna figura.
È il Danese non pure, come s'è detto, eccellente scultore, ma anco buono e molto lodato poeta, come l'opere sue ne dimostrano apertamente, onde ha sempre praticato et avuto stretta amicizia con i maggiori uomini e più virtuosi dell'età nostra.
E di ciò anco sia argomento questa detta opera, da lui stata fatta molto poeticamente.
È di mano del Danese nel cortile della Zecca di Vinezia, sopra l'ornamento del pozzo, la statua del Sole ignuda, in cambio della quale vi volevano que' signori una Iustizia, ma il Danese considerò che in quel luogo il Sole è più a proposito.
Questa ha una verga d'oro nella mano manca et uno scetro nella destra, a sommo al quale fece un occhio, et i razzi solari attorno alla testa, e sopra la palla del mondo, circondata dalla serpe che si tiene in bocca la coda, con alcuni monticelli d'oro per detta palla generati da lui.
Arebbevi voluto fare il Danese due altre statue, e quella della Luna per l'argento e quella del Sole per l'oro, et un'altra per lo rame, ma bastò a que' signori che vi fusse quella dell'oro, come del più perfetto di tutti gl'altri metalli.
Ha cominciato il medesimo Danese un'altra opera in memoria del principe Loredano, doge di Vinezia, nella quale si spera che di gran lunga abbia a passare d'invenzione e capriccio tutte l'altre sue cose.
La quale opera deve essere posta nella chiesa di San Giovanni e Polo di Vinezia.
Ma perché costui vive e va tuttavia lavorando a benefizio del mondo e dell'arte, non dirò altro di lui, né d'altri discepoli del Sansovino.
Non lascerò già di dire brevemente d'alcuni altri eccellenti artefici scultori e pittori di quelle parti di Vinezia, con l'occasione dei sopra detti, per porre fine a ragionare di loro in questa vita del Sansovino.
Ha dunque avuto Vicenza in diversi tempi ancor ch'essa, scultori, pittori et architetti, d'una parte de' quali si fece memoria nella vita di Vittore Scarpaccia, e massimamente di quei che fiorirono al tempo del Mantegna e che da lui impararono a disegnare, come furono Bartolomeo Mantegna, Francesco Veruzio e Giovanni Speranza pittori.
Di mano de' quali sono molte pitture sparse per Vicenza.
Ora nella medesima città sono molte sculture di mano d'un Giovanni intagliatore et architetto, che sono ragionevoli ancor che la sua propria professione sia stata di fare ottimamente fogliami et animali, come ancora fa, se bene è vecchio.
Parimente Girolamo Pironi vicentino ha fatto in molti luoghi della sua città opere lodevoli di scultura e pittura.
Ma fra tutti i vicentini merita di essere sommamente lodato Andrea Palladio architetto, per essere uomo di singolare ingegno e giudizio, come ne dimostrano molte opere fatte nella sua patria et altrove, e particolarmente la fabrica del palazzo della Comunità, che è molto lodata, con due portici di componimento dorico fatti con bellissime colonne.
Il medesimo ha fatto un palazzo molto bello e grandissimo oltre ogni credere al conte Ottavio de' Vieri, con infiniti ricchissimi ornamenti.
Et un altro simile al conte Giuseppo di Porto, che non può essere né più magnifico, né più bello, né più degno d'ogni gran principe di quello che è.
Et un altro se ne fa tuttavia con ordine del medesimo al conte Valerio Coricatto, molto simile per maestà e grandezza all'antiche fabriche tanto lodate.
Similmente ai conti di Valmorana ha già quasi condotto a fine un altro superbissimo palazzo, che non cede a niuno dei sopra detti in parte veruna.
Nella medesima città, sopra la piazza detta volgarmente l'Isola, ha fatto un'altra molto magnifica fabbrica al signor Valerio Chireggiolo, et a Pugliano villa del Vicentino una bellissima casa al Signor Bonifazio Pugliana cavaliere, e nel medesimo contado di Vicenza, al Finale, ha fatto a Messer Biagio Saraceni un'altra fabbrica, et una a Bagnolo al signor Vittore Pisani con ricchissimo e gran cortile d'ordine dorico, con bellissime colonne.
Presso a Vicenza nella villa di Lisiera ha fabricato al signor Giovanfrancesco Valmorana un altro molto ricco edifizio con quattro torri in sui canti, che fanno bellissimo vedere.
A Meledo altresì ha principiato al conte Francesco Trissino e Lodovico suo fratello un magnifico palazzo, sopra un colle assai rilevato, con molti spartimenti di loggie, scale et altre comodità da villa.
A Campiglia, pure sul Vicentino, fa al signor Mario Ropetta un'altra simile abitura, con tanti comodi, ricchi partimenti di stanze, loggie e cortili e camere dedicate a diverse Virtù, ch'ella sarà tosto condotta che fie al suo fine stanza più regia che signorile.
A Lunede n'ha fatto un'altra da villa al signor Girolamo de' Godi, et a Ugurano un'altra al conte Iacopo Angarano che è veramente bellissima, come che paia piccola cosa al grande animo di quel signore.
A Quinto, presso a Vicenza fabricò anco, non ha molto, un altro palagio al conte Marcantonio Triene, che ha del grande e del magnifico quanto più non saprei dire.
Insomma ha tante grandissime e belle fabriche fatto il Palladio dentro e fuori di Vicenza, che quando non vi fussero altre, possono bastare a fare una città onoratissima et un bellissimo contado.
In Vinezia ha principiato il medesimo molte fabriche, ma una sopra tutte, che è maravigliosa e notabilissima, a imitazione delle case che solevano far gl'antichi, nel monasterio della Carità.
L'atrio di questa è largo piedi quaranta e lungo 54, che tanto è a punto il diametro del quadrato, essendo le sue ali una delle tre parti e mezzo della lunghezza.
Le colonne, che sono corinte, sono grosse piedi tre e mezzo et altre 35.
Dall'atrio si va nel peristilio, cioè in un claustro (così chiamano i frati i loro cortili) il quale dalla parte di verso l'atrio è diviso in cinque parti e dai fianchi in sette, con tre ordini di colonne l'un sopra l'altro, che il dorico è di sotto, e sopra il ionico et il corinto.
Dirimpetto all'atrio è il refettorio, lungo due quadri e alto insino al piano del peristilio, con le sue officine intorno commodissime.
Le scale sono a lumaca et in forma ovale, e non hanno né muro, né colonna, né parte di mezzo che le regga, sono larghe piedi tredici, e gli scalini nel posare si reggono l'un l'altro per essere fitti nel muro.
Questo edifizio è tutto fatto di pietre cotte, cioè mattoni, salvo le base delle colonne, i capitegli, l'imposte degl'archi, le scale, le superficie delle cornici e le finestre tutte e le porte.
Il medesimo Palladio ai monaci neri di San Benedetto, nel loro monasterio di San Giorgio Maggiore di Vinezia, ha fatto un grandissimo e bellissimo refettorio col suo ricetto innanzi, et ha cominciato a fondare una nuova chiesa, con sì bell'ordine, secondo che mostra il modello, che se fie condotto a fine riuscirà opera stupenda e bellissima.
Ha oltre ciò cominciato la facciata della chiesa di S.
Francesco della Vigna, la quale fa fare di pietra istriana il reverendissimo Grimani, patriarca d'Aquileia, con molto magnifica spesa.
Sono le colonne larghe da piè palmi quattro et alte quaranta d'ordine corinto, e di già è murato da piè tutto l'imbasamento.
Alle Gambaraie, luogo vicino a Vinezia sette miglia, in sul fiume della Brenta ha fatto l'istesso Palladio una molto comoda abitazione a Messer Niccolò e Messer Luigi Foscari, gentiluomini viniziani.
Un'altra n'ha fatta a Marocco villa del Mestrino al cavalier Mozzenigo.
A Piombino una a Messer Giorgio Cornaro, una alla Montagnama al magnifico Messer Francesco Pisani, et a Zigogiari in sul Padovano una al conte Adovardo da Tiene gentiluomo vicentino; in Udine del Friuli una al signor Floriano Antimini; alla Mota, castel pure del Friuli, una al magnifico Messer Marco Zeno, con bellissimo cortile e portici intorno intorno.
Alla Fratta, castel del Polesine, una gran fabrica al signor Francesco Badoaro, con alcune logge bellissime e capricciose; similmente vicino ad Asolo, castello del Trevisano, ha condotto una molto comoda abitazione al reverendissimo signor Daniello Barbaro, eletto d'Aquileia, che ha scritto sopra Vitruvio, et al clarissimo Messer Marcantonio suo fratello, con tanto bell'ordine, che meglio e più non si può imaginare, e fra l'altre cose vi ha fatto una fontana molto simile a quella che fece fare papa Giulio in Roma alla sua vigna Giulia, con ornamenti per tutto di stucchi e pitture fatti da maestri eccellenti.
In Genova ha fatto Messer Luca Giustiniano una fabrica con disegno del Palladio, che è tenuta bellissima, come sono anco tutte le sopra scritte, delle quali sarebbe stata lunghissima storia voler raccontare molti particolari di belle e strane invenzioni e capricci.
E perché tosto verrà in luce un'opera del Palladio, dove saranno stampati due libri d'edifizii antichi et uno di quelli che ha fatto egli stesso edificare, non dirò altro di lui, perché questa basterà a farlo conoscere per quello eccellente architetto ch'egli è tenuto da chiunche vede l'opere sue bellissime, senzaché essendo anco giovane et attendendo continuamente agli studii dell'arte, si possono sperare ogni giorno di lui cose maggiori.
Non tacerò che a tanta virtù ha congiunta una sì affabile e gentil natura, che lo rende appresso d'ognuno amabilissimo.
Onde ha meritato d'essere stato accettato nel numero degl'Accademici del disegno fiorentini, insieme col Danese, Giuseppo Salviati, il Tintoretto e Batista Farinato da Verona, come si dirà in altro luogo, parlando di detti Accademici.
Bonifazio pittore viniziano, del quale non ho prima avuto cognizione, è degno anch'esso di essere nel numero di tanti eccellenti artefici annoverato per essere molto pratico e valente coloritore.
Costui oltre a molti quadri e ritratti, che sono per Vinezia, ha fatto nella chiesa de' Servi della medesima città, all'altare delle reliquie, una tavola dove è un Cristo con gl'Apostoli intorno, e Filippo che par che dica: "Domine ostende nobis patrem"; la quale è condotta con molto bella e buona maniera.
E nella chiesa delle monache dello Spirito Santo, all'altare della Madonna, ha fatto un'altra bellissima tavola con una infinità d'uomini, donne e putti d'ogni età, che adorano insieme con la Vergine un Dio Padre che è in aria con molti Angeli attorno.
E anco pittore di assai buon nome in Vinezia Iacopo Fallaro, il quale ha nella chiesa degl'Ingesuati fatto ne' portegli dell'organo il beato Giovanni Colombini che riceve in Concistoro l'abito del Papa con buon numero di cardinali.
Un altro Iacopo, detto Pisbolica, in Santa Maria Maggiore di Vinezia ha fatto una tavola nella quale è Cristo in aria con molti Angeli, et a basso la Nostra Donna con gl'Apostoli; et un Fabrizio viniziano nella chiesa di Santa Maria Sebenico ha dipinto nella facciata d'una cappella una benedizione della fonte del battesimo, con molti ritratti di naturale fatti con bella grazia e buona maniera.
IL FINE DELLA VITA DI IACOPO SANSOVINO SCULTORE FIORENTINO
VITA DI LIONE LIONI ARETINO E D'ALTRI SCULTORI ET ARCHITETTI
Perché quello che si è detto sparsamente di sopra del cavalier Lione scultore aretino si è detto incidentemente, non fia se non bene che qui si ragioni con ordine dell'opere sue, degne veramente di essere celebrate e di passare alla memoria degl'uomini.
Costui dunque avendo a principio atteso all'orefice e fatto in sua giovanezza molte bell'opere, e particolarmente ritratti di naturale in conii d'acciaio per medaglie, divenne in pochi anni in modo eccellente, che venne in cognizione di molti prìncipi e grand'uomini, et in particolare di Carlo Quinto imperatore, dal quale fu messo, conosciuta la sua virtù, in opere di maggiore importanza che le medaglie non sono.
Conciò sia che fece, non molto dopo che venne in cognizione di Sua Maestà, la statua di esso Imperatore tutta tonda di bronzo maggiore del vivo, e quella poi con due gusci sottilissimi vestì d'una molto gentile armatura, che se gli lieva e veste facilmente e con tanta grazia, che chi la vede vestita non s'accorge e non può quasi credere ch'ella sia ignuda, e quando è nuda niuno crederebbe agevolmente ch'ella potesse così bene armarsi già mai.
Questa statua posa la gamba sinistra e con la destra calca il Furore, il quale è una statua a giacere incatenata con la face e con arme sotto di varie sorti.
Nella base di quest'opera, la quale è oggi in Madril, sono scritte queste parole: "Caesaris virtute Furor domitus".
Fece dopo queste statue Lione un conio grande per stampare medaglie di Sua Maestà con il rovescio de' giganti fulminati da Giove.
Per le quali opere donò l'Imperatore a Lione un'entrata di centocinquanta ducati l'anno in sulla Zecca di Milano, una comodissima casa nella contrada de' Moroni, e lo fece cavaliere e di sua famiglia con dargli molti privilegii di nobiltà per i suoi descendenti.
E mentre stette Lione con Sua Maestà in Bruselles ebbe le stanze nel proprio palazzo dell'Imperatore che talvolta per diporto l'andava a vedere lavorare.
Fece non molto dopo di marmo un'altra statua pur dell'Imperatore, e quelle dell'Imperatrice, del re Filippo et un busto dell'istesso Imperatore da porsi in alto in mezzo a due quadri di bronzo.
Fece similmente di bronzo la testa della reina Maria, quella di Ferdinando allora re de' romani, e di Massimiliano suo figliuolo, oggi Imperatore, quella della reina Leonora e molti altri, che furono poste nella galleria del palazzo di Bindisi da essa reina Maria, che le fé fare.
Ma non vi stettono molto, perché Enrico re di Francia vi apiccò fuoco per vendetta, lasciandovi scritto queste parole: "Vela Fole Maria"; dico per vendetta, perciò che essa Reina pochi anni innanzi aveva fatto a lui il medesimo.
Comunche fusse l'opera di detta galleria non andò innanzi, e le dette statue sono oggi parte in palazzo del Re catolico a Madril e parte in Alicante, porto di mare.
Donde le voleva Sua Maestà far porre in Granata, dove sono le sepolture di tutti i re di Spagna.
Nel tornare Lione di Spagna se ne portò duemila scudi contanti, oltre a molti altri doni e favori, che gli furono fatti in quella corte.
Ha fatto Lione al duca d'Alva la testa di lui, quella di Carlo Quinto e quella del re Filippo.
Al reverendissimo d'Aras, oggi gran cardinale, detto Granvela, ha fatto alcuni pezzi di bronzo in forma ovale di braccia due l'uno, con ricchi partimenti e mezze statue dentrovi.
In uno è Carlo Quinto, in un altro il re Filippo, e nel terzo esso Cardinale, ritratti di naturale, e tutte hanno imbasamenti di figurette graziosissime.
Al signor Vespasiano Gonzaga ha fatto sopra un gran busto di bronzo il ritratto d'Alva, il quale ha posto nelle sue case a Sabbioneto.
Al signor Cesare Gonzaga ha fatto pur di metallo una statua di quattro braccia, che ha sotto un'altra figura che è aviticchiata con un'Idra, per figurare don Ferrante suo padre, il quale con la sua virtù e valore superò il vizio e l'invidia, che avevano cercato porlo in disgrazia di Carlo, per le cose del governo di Milano.
Questa statua, che è togata e parte armata all'antica e parte alla moderna, deve essere portata e posta a Guastalla per memoria di esso don Ferrante, capitano valorosissimo.
Il medesimo ha fatto, come s'è detto in altro luogo, la sepoltura del signore Giovanni Iacopo Medici marchese di Marignano, fratello di papa Pio Quarto, che è posta nel Duomo di Milano, lunga ventotto palmi in circa et alta quaranta.
Questa è tutta di marmo di Carrara et ornata di quattro colonne, due nere e bianche, che come cosa rara furono dal Papa mandate da Roma a Milano, e due altre maggiori, che sono di pietra macchiata, simile al diaspro.
Le quali tutte e quatro sono concordate sotto una medesima cornice, con artifizio non più usato, come volle quel Pontefice, che fece fare il tutto con ordine di Michelagnolo, eccetto però le cinque figure di bronzo, che vi sono di mano di Lione.
La prima delle quali, maggiore di tutte, è la statua di esso Marchese in piedi e maggiore del vivo, che ha nella destra il bastone del generalato, e l'altra sopra un elmo, che è in sur un tronco molto riccamente ornato; alla sinistra di questa è una statua minore, per la Pace et alla destra un'altra fatta per la Virtù militare: e queste sono a sedere et in aspetto tutte meste e dogliose; l'altre due, che sono in alto, una è la Providenza e l'altra la Fama, e nel mezzo al pari di queste è in bronzo una bellissima Natività di Cristo di basso rilievo.
In fine di tutta l'opera sono due figure di marmo, che reggono un'arme di palle di quel signore.
Questa opera fu pagata scudi 7800 secondo che furono d'accordo in Roma l'illustrissimo cardinal Morone et il signor Agabrio Serbelloni.
Il medesimo ha fatto al signor Giovambatista Castaldo una statua pur di bronzo che dee esser posta in non so qual monasterio, con alcuni ornamenti.
Al detto Re catolico ha fatto un Cristo di marmo, alto più di tre braccia, con la croce e con altri misteri della Passione, che è molto lodata.
E finalmente ha fra mano la statua del signor Alfonso Davalo, marchese famosissimo del Guasto, statagli allogata dal marchese di Pescara suo figliuolo, alta quattro braccia e da dover riuscire ottima figura di getto, per la diligenza che mette in farla, e buona fortuna che ha sempre avuto Lione ne' suoi getti.
Il quale Lione per mostrare la grandezza del suo animo, il bello ingegno che ha avuto dalla natura et il favore della fortuna, ha con molta spesa condotto di bellissima architettura un casotto nella contrada de' Moroni, pieno in modo di capricciose invenzioni, che non n'è forse un altro simile in tutto Milano.
Nel partimento della facciata sono sopra a' pilastri sei prigioni di braccia sei l'uno tutti di pietra viva, e fra essi in alcune nicchie, fatte a imitazione degl'antichi, con terminetti, finestre e cornici tutte varie da quel che s'usa e molto graziose, e tutte le parti di sotto corrispondono con bell'ordine a quelle di sopra, le fregiature sono tutte di varii stromenti dell'arti del disegno.
Dalla porta principale, mediante un andito si entra in un cortile, dove nel mezzo, sopra quattro colonne, è il cavallo con la statua di Marco Aurelio formato di gesso da quel proprio che è in Campidoglio.
Dalla quale statua ha voluto che quella sua casa sia dedicata a Marco Aurelio.
E quanto ai prigioni, quel suo capriccio da diversi è diversamente interpretato.
Oltre al qual cavallo, come in altro luogo s'è detto, ha in quella sua bella e comodissima abitazione formate di gesso quant'opere lodate di scultura o di getto ha potuto avere, o moderne, o antiche.
Un figliuolo di costui chiamato Pompeo, il quale è oggi al servizio del re Filippo di Spagna, non è punto inferiore al padre in lavorare conii di medaglie d'acciaio e far di getto figure maravigliose.
Onde in quella corte è stato concorrente di Giovanpaulo Poggini fiorentino, il quale sta anch'egli a' servigi di quel Re et ha fatto medaglie bellissime.
Ma Pompeo avendo molti anni servito quel Re, disegna tornarsene a Milano a godere la sua casa aureliana e l'altre fatiche del suo eccellente padre, amorevolissimo di tutti gl'uomini virtuosi.
E per dir ora alcuna cosa delle medaglie e de' conii d'acciaio con che si fanno, io credo che si possa con verità affermare i moderni ingegni avere operato quanto già facessero gl'antichi romani nella bontà delle figure, e che nelle lettere et altre parti gl'abbiano superato.
Il che si può vedere chiaramente, oltre molti altri, in dodici rovesci che ha fatto ultimamente Pietro Paulo Galeotti nelle medaglie del duca Cosimo, e sono questi: Pisa quasi tornata nel suo primo essere, per opera del Duca, avendole egli asciutto il paese intorno e seccati i luoghi paludosi e fattole altri assai miglioramenti; l'acque condotte in Firenze da luoghi diversi; la fabrica de' magistrati ornata e magnifica per comodità publica; l'unione degli stati di Fiorenza e Siena; l'edificazione d'una città e dua fortezze nell'Elba; la colonna condotta da Roma e posta in Fiorenza in sulla piazza di Santa Trinita; la conservazione fine et augumentazione della libreria di San Lorenzo per utilità publica; la fondazione de' cavalieri di Santo Stefano; la rinunzia del governo al principe; le fortificazioni dello stato; la milizia o vero bande del suo stato; il palazzo de' Pitti con giardini, acque e fabrica, condotto sì magnifico e regio, de' quali rovesci non metto qui né le lettere che hanno a torno né la dichiarazion loro, avendo a trattarne in altro luogo.
I quali tutti dodici rovesci sono belli affatto e condotti con molta grazia e diligenza, come è anco la testa del Duca, che è di tutta bellezza; parimente i lavori e medaglie di stucchi, come ho detto altra volta, si fanno oggi di tutta perfezzione.
Et ultimamente Mario Capocaccia anconetano ha fatti di stucchi di colore in scatolette ritratti e teste veramente bellissime, come sono un ritratto di papa Pio Quinto, ch'io vidi non ha molto, e quello del cardinale Alessandrino.
Ho veduto anco di mano de' figliuoli di Pulidoro pittore perugino ritratti della medesima sorte bellissimi.
Ma per tornare a Milano, riveggendo io un anno fa le cose del Gobbo scultore, del quale altrove si è ragionato, non viddi cosa che fussi se non ordinaria, eccetto un Adamo et Eva, una Iudith et una Santa Elena di marmo che sono intorno al Duomo con altre statue di due morti, fatte per Lodovico detto il Moro e Beatrice sua moglie, le quali dovevano essere poste a un sepolcro di mano di Giovan Iacomo dalla Porta, scultore et architetto del Duomo di Milano, il quale lavorò nella sua giovanezza molte cose sotto il detto Gobbo.
E le sopra dette, che dovevano andare al detto sepolcro, sono condotte con molta pulitezza.
Il medesimo Giovan Iacomo ha fatto molte bell'opere alla Certosa di Pavia, e particolarmente nel sepolcro del conte di Virtù e nella facciata della chiesa.
Da costui imparò l'arte un suo nipote, chiamato Guglielmo, il quale in Milano attese con molto studio a ritrarre le cose di Lionardo da Vinci, circa l'anno 1530, che gli fecero grandissimo giovamento; per che andato con Giovan Iacomo a Genova, quando l'anno 1531 fu chiamato là a fare la sepoltura di San Giovanni Batista, attese al disegno con gran studio sotto Perino del Vaga, e non lasciando perciò la scultura, fece uno dei sedici piedistalli che sono in detto sepolcro.
Là onde, veduto che si portava benissimo, gli furono fatti fare tutti gl'altri.
Dopo condusse due Angeli di marmo, che sono nella Compagnia di San Giovanni.
Et al vescovo di Servega fece due ritratti di marmo et un Moisè maggiore del vivo, il quale fu posto nella chiesa di San Lorenzo.
Et appresso, fatta che ebbe una Cerere di marmo, che fu posta sopra la porta della casa d'Ansaldo Grimaldi, fece sopra la porta della Cazzuola di quella città una statua di Santa Caterina grande quanto il naturale, e dopo le tre Grazie con quattro putti di marmo, che furono mandati in Fiandra al gran scudiero di Carlo Quinto imperatore insieme con un'altra Cerere grande quanto il vivo.
Avendo Guglielmo in sei anni fatte quest'opere, l'anno 1537 si condusse a Roma, dove da Giovan Iacomo suo zio fu molto raccomandato a fra' Bastiano pittore viniziano suo amico, acciò esso il raccomandassi, come fece, a Michelagnolo Buonarruoti, il quale Michelagnolo veggendo Guglielmo fiero e molto assiduo alle fatiche, cominciò a porgli affezione, et innanzi a ogni altra cosa gli fece restaurare alcune cose antiche in casa Farnese, nelle quali si portò di maniera, che Michelagnolo lo mise al servigio del Papa, essendosi anco avuto prima saggio di lui in una sepoltura, che avea condotta dalle Botteghe Oscure per la più parte di metallo al vescovo Sulisse, con molte figure e storie di basso rilievo, cioè le Virtù cardinali et altre fatte con molta grazia, et oltre a quelle la figura di esso Vescovo, che poi andò a Salamanca in Ispagna.
Mentre dunque Guglielmo andava restaurando le statue, che sono oggi nel palazzo de' Farnesi nella loggia che è dinanzi alla sala di sopra, morì l'anno 1547 fra' Bastiano viniziano, che lavorava come s'è detto l'uffizio del Piombo, onde tanto operò Guglielmo col favore di Michelagnolo e d'altri col Papa, che ebbe il detto uffizio del Piombo, con carico di fare la sepoltura di esso papa Paulo Terzo, da porsi in San Piero.
Dove con miglior disegno s'accomodò nel modello delle storie e figure delle Virtù teologiche e cardinali, che aveva fatto per lo detto vescovo Sulisse, mettendo in su' canti quattro putti in quattro tramezzi e quattro cartelle, e facendo oltre ciò di metallo la statua di detto Pontefice a sedere in atto di pace; la quale statua fu alta palmi diciassette.
Ma dubitando per la grandezza del getto che il metallo non raffreddasse, onde ella non riuscisse, messe il metallo nel bagno da basso, per venire aberevando di sotto in sopra.
E con questo modo inusitato venne quel getto benissimo e netto come era la cera, onde la stessa pelle, che venne dal fuoco, non ebbe punto bisogno d'essere rinetta, come in essa statua può vedersi, la quale è posta sotto i primi archi che reggono la tribuna del nuovo San Piero.
Avevano a essere messe a questa sepoltura, la quale secondo un suo disegno doveva essere isolata, quattro figure, che egli fece di marmo con belle invenzioni, secondo che gli fu ordinato da Messer Annibale Caro, che ebbe di ciò cura dal Papa e dal cardinal Farnese.
Una fu la Giustizia, che è una figura nuda sopra un panno a giacere, con la cintura della spada attraverso al petto, e la spada ascosa; in una mano ha i fasci della Iustizia consolare e nell'altra una fiamma di fuoco, è giovane nel viso, ha i capegli avvolti, il naso aquilino e d'aspetto sensitivo.
La seconda fu la Prudenza in forma di matrona, d'aspetto giovane, con uno specchio in mano, un libro chiuso, e parte ignuda e parte vestita.
La terza fu l'Abbondanza, una donna giovane, coronata di spighe, con un corno di dovizia in mano e lo staio antico nell'altra, et in modo vestita, che mostra l'ignudo sotto i panni.
L'ultima e quarta fu la Pace, la quale è una matrona con un putto, che ha cavato gl'occhi e col caduceo di Mercurio.
Fecevi similmente una storia pur di metallo e con ordine del detto Caro, che aveva a essere messa in opera con due fiumi, l'uno fatto per un lago e l'altro per un fiume, che è nello stato de' Farnesi.
Et oltre a tutte queste cose, vi andava un monte pieno di gigli con l'arco vergine.
Ma tutto non fu poi messo in opera, per le cagioni che si sono dette nella vita di Michelagnolo.
E si può credere che come queste parti in sé son belle e fatte con molto giudizio, così sarebbe riuscito il tutto insieme, tuttavia l'aria della piazza è quella che dà il vero lume e fa far retto giudizio dell'opere.
Il medesimo fra' Guglielmo ha condotto nello spazio di molti anni quattordici storie per farle di bronzo, della vita di Cristo, ciascuna delle quali è larga palmi quattro et alta sei, eccetto però una, che è palmi dodici alta e larga sei, dove è la Natività di Gesù Cristo con bellissime fantasie di figure; nell'altre tredici sono: l'andata di Maria con Cristo putto in Ierusalem in su l'asino, con due figure di gran rilievo e molte di mezzo e basso; la Cena con tredici figure ben composte et un casamento ricchissimo; il lavare i piedi ai discepoli; l'orare nell'orto con cinque figure et una turba da basso molto varia; quando è menato ad Anna, con sei figure grandi, e molte di basso et un lontano; lo essere battuto alla colonna; quando è coronato di spine; l'Ecce homo; Pilato che si lava le mani; Cristo che porta la croce, con quindici figure et altre lontane, che vanno al Monte Calvario; Cristo crucifisso, con diciotto figure, e quando è levato di croce.
Le quali tutte istorie, se fussono gettate, sarebbono una rarissima opera, veggendosi che è fatta con molto studio e fatica.
Aveva disegnato papa Pio Quarto farle condurre per una delle porte di San Piero, ma non ebbe tempo, sopravenuto dalla morte.
Ultimamente ha condotto fra' Guglielmo modelli di cera per tre altari di San Piero, Cristo deposto di croce, il ricevere Pietro le chiavi della Chiesa e la venuta dello Spirito Santo, che tutte sarebbono belle storie.
Insomma ha costui avuto et ha occasione grandissima di affaticarsi e fare dell'opere, avenga che l'uffizio del Piombo è di tanto gran rendita, che si può studiare et affaticarsi per la gloria, il che non può fare chi non ha tante comodità.
E nondimeno non ha condotto fra' Guglielmo opere finite dal 1547 infino a questo anno 1567, ma è proprietà di chi ha quell'uffizio impigrire e diventare infingardo.
E che ciò sia vero, costui innanzi che fusse frate del Piombo condusse molte teste di marmo et altri lavori, oltre quelli che abbiàn detto.
È ben vero che ha fatto quattro gran Profeti di stucco, che sono nelle nicchie fra i pilastri del primo arco grande di San Piero; si adoperò anco assai ne' carri della festa di Testaccio et altre mascherate, che già molti anni sono si fecero in Roma.
È stato creato di costui un Guglielmo Tedesco, che fra l'altre opere ha fatto un molto bello e ricco ornamento di statue piccoline di bronzo, imitate dall'antiche migliori, a uno studio di legname (così gli chiamano), che il conte di Pitigliano donò al signor duca Cosimo; le quali figurette son queste: il cavallo di Campidoglio, quelli di Monte Cavallo, gl'Ercoli di Farnese, l'Antimo et Apollo di Belvedere, e le teste de' dodici imperatori con altre tutte ben fatte e simili altre proprie.
Ha aùto ancora Milano un altro scultore che è morto questo anno, chiamato Tommaso Porta, il quale ha lavorato di marmo eccellentemente, e particolarmente ha contrafatto teste antiche di marmo che sono state vendute per antiche, e le maschere l'ha fatte tanto bene, che nessuno l'ha paragonato, et io ne ho una di sua mano di marmo posta nel camino di casa mia d'Arezzo, che ogni uno la crede antica.
Costui fece di marmo quanto in naturale le dodici teste degli imperatori che furono cosa rarissima, le quali papa Giulio Terzo le tolse e gli fece dono della segnatura d'uno uffizio di scudi cento l'anno, e tenne non so che mesi le teste in camera sua, come cosa rara.
Le quali, per opera si crede di fra' Guglielmo su detto e d'altri che l'invidiavano, operorono contra di lui di maniera, che non riguardando alla degnità del dono fattogli da quel Pontefice gli furono rimandate a casa, dove poi con miglior condizione gli fur pagate da mercanti e mandate in Ispagna.
Nessuno di questi imitatori delle cose antiche valse più di costui, del quale m'è parso degno che si faccia memoria di lui tanto più quanto egli è passato a miglior vita, lasciando fama e nome della virtù sua.
Ha similmente molte cose lavorato in Roma un Lionardo milanese, il quale ha ultimamente condotto due statue di marmo, San Piero e San Paulo, nella cappella del cardinale Giovanni Riccio da Monte Pulciano, che sono molto lodate e tenute belle e buone figure.
Et Iacopo e Tommaso Casignuola scultori hanno fatto per la chiesa della Minerva alla cappella de' Caraffi la sepoltura di papa Paulo Quarto, con una statua di pezzi (oltre agl'altri ornamenti) che rappresenta quel Papa, col manto di mischio brocatello, et il fregio et altre cose di mischi di diversi colori, che la rendono maravigliosa.
E così veggiamo questa giunta all'altre industrie degl'ingegni moderni, e che i scultori con i colori vanno nella scultura imitando la pittura.
Il quale sepolcro ha fatto fare la santità e molta bontà e gratitudine di papa Pio Quinto, padre e pontefice veramente beatissimo, santissimo e di lunga vita degnissimo.
Nanni di Baccio Bigio scultore fiorentino, oltre quello che in altri luoghi s'è detto di lui, dico che nella sua giovanezza sotto Raffaello da Monte Lupo attese di maniera alla scultura, che diede in alcune cose piccole, che fece di marmo, gran speranza d'aver a essere valent'uomo.
Et andato a Roma sotto Lorenzetto scultore, mentre attese, come il padre avea fatto, anco all'architettura, fece la statua di papa Clemente Settimo, che è nel coro della Minerva, et una Pietà di marmo, cavata da quella di Michelagnolo, la quale fu posta in Santa Maria de Anima, chiesa de' Tedeschi, come opera che è veramente bellissima.
Un'altra simile, indi a non molto, ne fece a Luigi del Riccio, mercante fiorentino, che è oggi in Santo Spirito di Firenze a una cappella di detto Luigi, il quale è non meno lodato di questa Pietà verso la patria, che Nanni d'aver condotta la statua con molta diligenza et amore.
Si diede poi Nanni sotto Antonio da San Gallo con più studio all'architettura, et attese, mentre Antonio visse, alla fabrica di San Piero, dove cascando da un ponte alto sessanta braccia e sfragellandosi, rimase vivo per miracolo.
Ha Nanni condotto in Roma e fuori molti edifizii, e cercato di più e maggiori averne, come s'è detto nella vita di Michelagnolo.
È sua opera il palazzo del cardinal Monte Pulciano in strada Iulia, et una porta del Monte San Savino fatta fare da Giulio Terzo, con un ricetto d'acqua non finito, una loggia et altre stanze del palazzo stato già fatto dal cardinal vecchio di Monte.
È parimente opera di Nanni la casa de' Mattei et altre molte fabriche, che sono state fatte e si fanno in Roma tuttavia.
È anco oggi fra gl'altri famoso e molto celebre architettore Galeazzo Alessi perugino, il quale, servendo in sua giovanezza il cardinale di Rimini, del quale fu cameriero, fece fra le sue prime opere, come volle detto signore, la riedificazione delle stanze della fortezza di Perugia, con tante comodità e bellezza, che in luogo sì piccolo fu uno stupore, e pure sono state capaci già più volte del Papa, con tutta la corte.
Appresso, per avere altre molte opere che fece al detto Cardinale, fu chiamato dai genovesi con suo molto onore a' servigii di quella republica, per la quale la prima opera che facesse si fu racconciare e fortificare il porto et il molo, anzi quasi farlo un altro da quello che era prima.
Conciò sia che allargandosi in mare per buono spazio, fece fare un bellissimo portone, che giace in mezzo circolo, molto adorno di colonne rustiche e di nicchie a quelle intorno.
All'estremità del qual circolo si congiungono due baluardotti, che difendono detto portone.
In sulla piazza poi, sopra il molo, alle spalle di detto portone, verso la città fece un portico grandissimo, il quale riceve il corpo della guardia, d'ordine dorico, e sopra esso, quanto è lo spazio che egli tiene, et insieme i due baluardi e porta, resta una piazza spedita per comodo dell'artiglieria, la quale a guisa di cavaliere sta sopra il molo e difende il porto dentro e fuora.
Et oltre questo che è fatto, si dà ordine per suo disegno, e già dalla Signoria è stato approvato il modello, all'accrescimento della città, con molta lode di Galeazzo, che in queste et altre opere ha mostrato di essere ingegnosissimo.
Il medesimo ha fatto la strada nuova di Genova, con tanti palazzi fatti con suo disegno alla moderna, che molti affermano in niun'altra città d'Italia trovarsi una strada più di questa magnifica e grande, né più ripiena di ricchissimi palazzi, stati fatti da que' signori a persuasione e con ordine di Galeazzo, al quale confessano tutti avere obligo grandissimo, poiché è stato inventore et essecutore d'opere che, quanto agl'edifizii, rendono senza comparazione la loro città molto più magnifica e grande ch'ella non era.
Ha fatto il medesimo altre strade fuori di Genova, e tra l'altre quella che si parte da Ponte Decimo per andare in Lombardia.
Ha restaurato le mura della città verso il mare e la fabrica del Duomo, facendogli la tribuna e la cupola.
Ha fatto anco molte fabriche private, il palazzo in villa di Messer Luca Iustiniano, quello del signor Ottaviano Grimaldi, i palazzi di due dogi, uno al signor Batista Grimaldi et altri molti, de' quali non accade ragionare.
Già non tacerò che ha fatto il lago et isola del signor Adamo Centurioni, copiosissimo d'acque e fontane, fatte in diversi modi belli e capricciosi.
La fonte del capitan Larcaro, vicina alla città, che è cosa notabilissima.
Ma sopra tutte le diverse maniere di fonti che ha fatte a molti, è bellissimo il bagno che ha fatto in casa del signor Giovan Batista Grimaldi in Bisagno.
Questo, ch'è di forma tondo, ha nel mezzo un laghetto, nel quale si possono bagnare comodamente otto o dieci persone, il quale laghetto ha l'acqua calda da quattro teste di mostri marini, che pare che escano del lago, e la fredda da altre tante rane, che sono sopra le dette teste de' mostri; gira intorno al detto lago, a cui si scende per tre gradi in cerchio, uno spazio quanto a due persone può bastare a passeggiare commodamente, il muro di tutto il circuito è partito in otto spazii: in quattro sono quattro gran nicchie, ciascuna delle quali riceve un vaso tondo, che alzandosi poco da terra, mezzo entra nella nicchia e mezzo resta fuora, et in mezzo di ciascun d'essi può bagnarsi un uomo, venendo l'acqua fredda e calda da un mascherone, che la getta per le corna e la ripiglia quando bisogna per bocca.
In una dell'altre quatro parti è la porta, e nell'altre tre sono finestre e luoghi da sedere, e tutte l'otto parti sono divise da termini che reggono la cornice, dove posa la volta ritonda di tutto il bagno.
Di mezzo alla qual volta pende una gran palla di vetro cristallino, nella quale è dipinta la sfera del cielo, e dentro essa il globo della terra, e da questa in alcune parti, quando altri usa il bagno di notte, viene chiarissimo lume, che rende il luogo luminoso come fusse di mezzo giorno; lascio di dire il comodo dell'antibagno, lo spogliatoio, il bagnetto quali son pieni di istucchi, e le pitture ch'adornano il luogo, per non esser più lungo di quello che bisogni.
Basta, che non son punto disformi a tant'opera.
In Milano con ordine del medesimo Galeazzo s'è fatto il palazzo del signor Tommaso Marini duca di Terranuova, e per avventura la facciata della fabrica, che si fa ora di S.
Celso, l'auditorio del Cambio in forma ritonda, la già cominciata chiesa di S.
Vittore et altri molti edifizi.
Ha mandato l'istesso dove non è potuto egli esser impersona, disegni per tutta Italia e fuori, di molti edifizii, palazzi e tempii de' quali non dirò altro: questo potendo bastare a farlo conoscere per virtuoso e molto eccellente architetto.
Non tacerò ancora, poiché è nostro italiano, se bene non so il particolare dell'opere sue, che in Francia, secondo che intendo, è molto eccellente architetto et in particolare nelle cose di fortificazioni, Rocco Guerrini da Marradi, il quale in queste ultime guerre di quel regno ha fatto con suo molto utile et onore molte opere ingegnose e laudabili.
E così ho in quest'ultimo, per non defraudare niuno del proprio merito della virtù, favellato d'alcuni scultori et architetti vivi, de' quali non ho prima avuto occasione di comodamente ragionare.
IL FINE DELLA VITA DI LIONE LIONI SCULTOR ARETINO
VITA DI DON GIULIO CLOVIO MINIATORE
Non è mai stato, né sarà per aventura in molti secoli, né il più raro, né il più eccellente miniatore, o vogliamo dire dipintore di cose piccole, di don Giulio Clovio, poiché ha di gran lunga superato quanti altri mai si sono in questa maniera di pitture esercitati.
Nacque costui nella provincia di Schiavonia, o vero Crovazia, in una villa detta Grisone, nella diocesi di Madrucci, ancor che i suoi maggiori, della famiglia de' Clovi, fussero venuti di Macedonia, et il nome suo al battesimo fu Giorgio Iulio.
Attese da fanciullo alle lettere, e poi, per istinto naturale, al disegno.
E pervenuto all'età di diciotto anni, disideroso d'acquistare, se ne venne in Italia e si mise a' servigii di Marino cardinal Grimani, appresso al quale attese lo spazio di tre anni a disegnare di maniera, che fece molto migliore riuscita che per aventura non era insino a quel tempo stata aspettata di lui, come si vide in alcuni disegni di medaglie e rovesci, che fece per quel signore, disegnati di penna minutissimamente e con estrema e quasi incredibile diligenza.
Onde veduto che più era aiutato dalla natura nelle piccole cose che nelle grandi, si risolvé, e saviamente, di volere attendere a miniare, poiché erano le sue opere di questa sorte graziosissime e belle a maraviglia, consigliato anco a ciò da molti amici, et in particolare da Giulio Romano, pittore di chiara fama, il quale fu quegli che primo d'ogni altro gl'insegnò il modo di adoperare le tinte et i colori a gomma et a tempera.
E le prime cose che il Clovio colorisse, fu una Nostra Donna, la quale ritrasse come ingegnoso e di bello spirito dal libro della vita di essa Vergine, la quale opera fu intagliata in istampa di legno nelle prime carte d'Alberto Duro.
Per che essendosi portato bene in questa prima opera, si condusse per mezzo del signor Alberto da Carpi, il quale allora serviva in Ungheria, al servizio del re Lodovico e della reina Maria, sorella di Carlo Quinto.
Al quale Re condusse un giudizio di Paris di chiaro scuro che piacque molto, et alla Reina una Lucrezia romana che s'uccideva, con alcune altre cose, che furono tenute bellissime.
Seguendo poi la morte di quel Re e la rovina delle cose d'Ungheria, fu forzato Giorgio Iulio tornarsene in Italia.
Dove non fu a pena arrivato che il cardinale Campeggio vecchio lo prese al suo servizio, onde, accomodatosi a modo suo, fece una Madonna di minio a quel signore et alcun'altre cosette, e si dispose voler attendere per ogni modo con maggiore studio alle cose dell'arte.
E così si mise a disegnare et a cercare d'imitare con ogni sforzo l'opere di Michelagnolo.
Ma fu interrotto quel suo buon proposito dall'infelice Sacco di Roma l'anno 1527, perché trovandosi il povero uomo prigione degli Spagnuoli e mal condotto, in tanta miseria ricorse all'aiuto divino, facendo voto, se usciva salvo di quella rovina miserabile e di mano a que' nuovi farisei, di subito farsi frate.
Onde essendosi salvato per grazia di Dio, e condottosi a Mantova, si fece religioso nel monasterio di San Ruffino dell'Ordine de' canonici regolari Scopetini, essendogli stato promesso, oltre alla quiete e riposo della mente e tranquill'ozio di servire a Dio, che arebbe comodità di attendere alle volte quasi per passatempo a lavorare di minio.
Preso dunque l'abito e chiamatosi don Giulio, fece in capo all'anno professione e poi per ispazio di tre anni si stette assai quietamente fra que' padri, mutandosi d'uno in altro monasterio, secondo che più a lui piaceva, come altrove s'è detto, e sempre alcuna cosa lavorando.
Nel qual tempo condusse un libro grande da coro con minii sottili e bellissime fregiature, facendovi fra l'altre cose un Cristo che appare in forma d'ortolano a Madalena, che fu tenuto cosa singolare; per che cresciutogli l'animo fece, ma di figure molto maggiori, la storia dell'adultera accusata da' giudei a Cristo, con buon numero di figure.
Il che tutto ritrasse da una pittura, la quale di que' giorni avea fatta Tiziano Vecello pittore eccellentissimo.
Non molto dopo avvenne che tramutandosi don Giulio da un monasterio a un altro, come fanno i monaci o i frati, si ruppe sgraziatamente una gamba, per che condotto da que' padri, acciò meglio fusse curato, al monasterio di Candiana, vi dimorò senza guarire alcun tempo, essendo forse male stato trattato, come s'usa, non meno dai padri che da' medici.
La qual cosa intendendo il cardinal Grimani, che molto l'amava, per la sua virtù ottenne dal Papa di poterlo tenere a' suoi servigii e farlo curare.
Onde cavatosi don Giulio l'abito e guarito della gamba andò a Perugia col Cardinale, che là era Legato, e lavorando gli condusse di minio quest'opere: un uffizio di Nostra Donna con quattro bellissime storie, et in uno epistolario tre storie grandi di San Paulo apostolo, una delle quali indi a non molto fu mandata in Ispagna.
Gli fece anco una bellissima Pietà et un Crucifisso, che dopo la morte del Grimani capitò alle mani di messer Giovanni Gaddi, cherico di camera.
Le quali tutte opere fecero conoscere in Roma don Giulio per eccellente e furono cagione che Alessandro cardinal Farnese, il quale ha sempre aiutato, favorito e voluto appresso di sé uomini rari e virtuosi, inteso la fama di lui e vedute l'opere, lo prese al suo servizio, dove è poi stato sempre e sta ancora così vecchio.
Al quale signore dico ha condotti infiniti minii rarissimi, d'una parte de' quali farò qui menzione, perché di tutti non è quasi possibile.
In un quadretto piccolo ha dipinta la Nostra Donna col Figliuolo in braccio, con molti Santi e figure attorno, e ginocchioni papa Paulo Terzo, ritratto di naturale tanto bene che par vivo nella piccolezza di quel minio.
Et all'altre figure similmente non pare che manchi altro che lo spirito e la parola.
Il quale quadrotto, come cosa che è veramente rarissima, fu mandato in Ispagna a Carlo Quinto imperatore, che ne restò stupefatto.
Dopo quest'opera gli fece il cardinale mettere mano a far di minio le storie d'un uffizio della Madonna, scritto di lettera formata dal Monterchi, che in ciò è raro.
Onde risolutosi don Giulio di voler che quest'opera fusse l'estremo di sua possa, vi si misse con tanto studio e diligenza, che niun'altra fu mai fatta con maggiore.
Onde ha condotto col pennello cose tanto stupende, che non par possibile vi si possa con l'occhio né con la mano arrivare.
Ha spartito questa sua fatica don Giulio in ventisei storiette, dua carte a canto l'una all'altra, che è la figura et il figurato, e ciascuna storietta ha l'ornamento attorno vario dall'altra con figure e bizzarrie approposito della storia che egli tratta.
Né vo' che mi paia fatica raccontarle brevemente, atteso che ogni uno nol può vedere.
Nella prima faccia dove comincia il mattutino è l'Angelo che annunzia la Vergine Maria, con una fregiatura nell'ornamento piena di puttini che son miracolosi, e nell'altra storia Esaia, che parla col re Achaz.
Nella seconda alle laude è la visitazione della Vergine a Elisabeta, che ha l'ornamento finto di metallo, nella storia dirimpetto è la Iustizia e la Pace che si abracciano.
La prima è la Natività di Cristo e dirimpetto nel paradiso terrestre Adamo et Eva che mangiano il pomo, con ornamenti l'uno e l'altro pieno di ignudi et altre figure et animali ritratti di naturale.
A terza vi ha fatto i pastori che l'Angelo appar loro e dirimpetto Triburtina Sibilla che mostra a Ottaviano imperatore la Vergine con Cristo nato in cielo, adorno l'uno e l'altro di fregiature e figure varie tutte colorite, e dentro il ritratto di Alessandro Magno et Alessandro cardinal Farnese.
A sesta vi è la circuncisione di Cristo, dov'è ritratto per Simeone papa Paulo Terzo, e dentro alla storia il ritratto della Mancina e della Settimia gentil donne romane, che furono di somma bellezza, et un fregio bene ornato atorno quella, che fascia parimente col medesimo ordine l'altra storia, che gli è a canto, dov'è San Giovanni Batista che battezza Cristo, storia piena di ignudi.
A nona vi ha fatto i Magi che adorano Cristo e dirimpetto Salamone adorato dalla regina Sabba, con fregiature all'una e l'altra ricche e varie, e dentro a questa da' piè, condotto di figure manco che formiche, tutta la festa di Testaccio, che è cosa stupenda a vedere, che sì minuta cosa si possa condur perfetta con una punta di pennello, che è delle gran cose che possa fare una mano e vedere un occhio mortale, nella quale sono tutte le livree che fece allora il cardinale Farnese.
A vespro è la Nostra Donna che fugge con Cristo in Egitto e dirimpetto è la sommersione di Faraone nel Mar Rosso, con le sue fregiature varie da' lati.
A compieta è l'incoronazione della Nostra Donna in cielo, con moltitudine d'Angeli, e dirimpetto nell'altra storia Assuero che incorona Ester con le sue fregiature a proposito; alla messa della Madonna, ha posto innanzi in una fregiatura finta di cameo che è Gabriello che annunzia il verbo alla Vergine, e le due storie sono la Nostra Donna con Gesù Cristo in collo, e nell'altra Dio Padre che crea il cielo e la terra.
Dinanzi a' salmi penitenziali è la battaglia nella quale per comandamento di Davit re fu morto Uria Eteo, dove sono cavagli e gente ferita e morta ch'è miracolosa, e dirimpetto nell'altra storia Davit in penitenzia, con ornamenti et apresso grotteschine; ma chi vuol finire di stupire guardi nelle tanìe, dove minutamente ha fatto intrigaro con le lettere de' nomi de' Santi, dove di sopra nella margine è un cielo pieno di Angeli intorno alla Santissima Trinità, e di mano in mano gl'Apostoli e gl'altri Santi, e dall'altra banda séguita il cielo con la Nostra Donna e tutte le Sante vergini; nella margine di sotto, ha condotto poi di minutissime figure la processione che fa Roma per la solennità del corpo di Cristo piena di ofiziali con le torce, vescovi e cardinali, el Santissimo Sacramento portato dal papa, col il resto della corte e guardia de' lanzi, e finalmente Castello Sant'Agnolo che tira artiglierie: cosa tutta da fare stupire e maravigliare ogni acutissimo ingegno.
Nel principio dello ofizio de' morti son dua storie: la Morte che trionfa sopra tutti e mortali potenti di stati e regni, come la bassa plebe, dirimpetto nell'altra storia è la resurrezione di Lazzaro, e dreto la Morte che combatte con alcuni a cavallo.
Nello ofizio della Croce ha fatto Cristo crucifisso e dirimpetto Moisè con la pioggia delle serpe e lui che mette in alto quella di bronzo.
A quello dello Spirito Santo è quando gli scende sopra gl'Apostoli, e dirimpetto il murar la torre di Babilonia da Nebrot.
La quale opera fu condotta con tanto studio e fatica da don Giulio nello spazio di nove anni, che non si potrebbe, per modo di dire, pagare questa opera con alcun prezzo già mai.
E non è possibile vedere per tutte le storie la più strana e bella varietà di bizzarri ornamenti, e diversi atti e positure d'ignudi, maschi e femine, studiati e ben ricerchi in tutte le parti, e poste con proposito attorno in detti fregi per arricchirne quell'opera.
La quale diversità di cose spargono per tutta quell'opera tanta bellezza, che ella pare cosa divina e non umana, e massimamente avendo con i colori e con la maniera fatto sfuggire et allontanare le figure, i casamenti et i paesi, con tutte quelle parti che richiede la prospettiva e con la maggior perfezzione che si possa.
Intanto che così da presso come lontano fanno restare ciascun maravigliato, per non dire nulla di mille varie sorti d'alberi tanto ben fatti, che paiono fatti in paradiso.
Nelle storie et invenzioni si vede disegno, nel componimento ordine e varietà, e ricchezza negl'abiti, condotti con sì bella grazia e maniera, che par impossibile siano condotti per mano d'uomini, onde possiàn dire che don Giulio abbia, come si disse a principio, superato in questo gl'antichi e moderni, e che sia stato a' tempi nostri un piccolo e nuovo Michelagnolo.
Il medesimo fece già un quadrotto di figure piccole al Cardinale di Trento, sì vago e bello che quel signore ne fece dono all'imperatore Carlo Quinto; e dopo al medesimo ne fece un altro di Nostra Donna et insieme il ritratto del re Filippo, che furono bellissimi e per ciò donati al detto Re catolico.
Al medesimo cardinal Farnese fece in un quadrotto la Nostra Donna col Figliuolo in braccio, Santa Lisabetta, San Giovannino et altre figure, che fu mandato in Ispagna a Rigomes.
In un altro che oggi l'ha il detto Cardinale, fece San Giovanni Batista nel deserto con paesi et animali bellissimi, et un altro simile ne fece poi al medesimo, per mandare al re Filippo.
Una Pietà, che fece con la Madonna et altre molte figure, fu dal detto Farnese donata a papa Paulo Quarto, che mentre visse la volle sempre appresso di sé.
Una storia dove Davit taglia la testa a Golia gigante fu dal medesimo Cardinale donata a madama Margherita d'Austria, che la mandò al re Filippo suo fratello, insieme con un altro che per compagnia di quello gli fece fare quella illustrissima signora, dove Iudit tagliava il capo ad Oloferne.
Dimorò già molti anni sono don Giulio appresso al duca Cosimo molti mesi, et in detto tempo gli fece alcun'opere, parte delle quali furono mandate all'Imperatore et altri signori e parte ne rimasero appresso sua eccellenza illustrissima, che fra l'altre cose gli fece ritrarre una testa piccola d'un Cristo da una che n'ha egli stesso antichissima, la quale fu già di Gottifredi Buglioni re di Ierusalem, la quale dicono essere più simile alla vera effigie del Salvatore che alcun'altra che sia.
Fece don Giulio al detto signor Duca un Crucifisso con la Madalena a' piedi, che è cosa maravigliosa, et un quadro piccolo d'una Pietà, del quale abbiamo il disegno nel nostro libro insieme con un altro, pure di mano di don Giulio, d'una Nostra Donna ritta col Figliuolo in collo, vestita all'ebrea, con un coro d'Angeli intorno e molte anime nude in atto di raccomandarsi.
Ma per tornare al signor Duca, egli ha sempre molto amato la virtù di don Giulio e cercato d'avere delle sue opere.
E se non fusse stato il rispetto che ha avuto a Farnese, non l'arebbe lasciato da sé partire, quanto stette, come ho detto, alcuni mesi al suo servizio in Firenze.
Ha dunque il Duca, oltre le cose dette, un quadretto di mano di don Giulio, dentro al quale è Ganimede portato in cielo da Giove converso in aquila.
Il quale fu ritratto da quello che già disegnò Michelagnolo, il quale è oggi appresso Tomaso de' Cavalieri, come s'è detto altrove.
Ha similmente il Duca nel suo scrittoio un San Giovanni Batista, che siede sopra un sasso, et alcuni ritratti di mano del medesimo che sono mirabili.
Fece già don Giulio un quadro d'una Pietà, con le Marie et altre figure attorno, alla Marchesana di Pescara, et un altro simile in tutto al cardinale Farnese, che lo mandò all'Imperatrice, che è oggi moglie di Massimiliano e sorella del re Filippo.
Et un altro quadretto di mano del medesimo mandò a sua maestà cesarea, dentro al quale è in un paesotto bellissimo San Giorgio che amazza il serpente, fatto con estrema diligenza; ma fu passato questo di bellezza e di disegno da un quadro maggiore, che don Giulio fece a un gentiluomo spagnuolo, nel quale è Traiano imperatore, secondo che si vede nelle medaglie, e col rovescio della provincia di Giudea.
Il quale quadro fu mandato al sopra detto Massimiliano oggi imperatore.
Al detto cardinale Farnese ha fatto due altri quadretti, in uno è Gesù Cristo ignudo con la croce in mano, e nell'altro è il medesimo menato da' giudei et accompagnato da una infinità di popoli al Monte Calvario con la croce in ispalla, e dietro la Nostra Donna e l'altre Marie in atti graziosi e da muovere a pietà un cuor di sasso.
Et in due carte grandi, per un messale, ha fatto allo stesso Cardinale Gesù Cristo che ammaestra nella dottrina del Santo Evangelio gl'Apostoli, e nell'altra il Giudizio Universale tanto bello, anzi ammirabile e stupendo, che io mi confondo a pensarlo, e tengo per fermo che non si possa, non dico fare, ma vedere, né imaginarsi per minio, cosa più bella.
È gran cosa che in molte di queste opere, e massimamente nel detto ufficio della Madonna, abbia fatto don Giulio alcune figurine non più grandi che una ben piccola formica, con tutte le membra sì espresse e sì distinte, che più non si sarebbe potuto in figure grandi quanto il vivo; e che per tutto siano sparsi ritratti naturali d'uomini e donne, non meno simili al vero che se fussero da Tiziano o dal Bronzino stati fatti naturalissimi e grandi quanto il vivo; senzaché in alcune figure di fregi si veggiono alcune figurette nude et in altre maniere, fatte simili a camei, che per piccolissime che sieno sembrano in quel loro essere grandissimi giganti, cotanta è la virtù e strema diligenzia che in operando mette don Giulio.
Del quale ho voluto dare al mondo questa notizia acciò che sappiano alcuna cosa di lui quei che non possono, né potranno delle sue opere vedere, per essere quasi tutte in mano di grandissimi signori e personaggi.
Dico quasi tutte, perché so alcuni privati avere in scatolette ritratti bellissimi di mano di costui, di signori, d'amici o di donne da loro amate.
Ma comunche sia, basta che l'opere di sì fatti uomini non sono publiche, né in luogo da potere essere vedute da ognuno, come le pitture, sculture e fabriche degl'altri artefici di queste nostre arti.
Ora ancor che don Giulio sia vecchio e non studi, né attenda ad altro che procacciarsi con opere sante e buone e con una vita tutta lontana dalle cose del mondo la salute dell'anima sua, e sia vecchio affatto, pur va lavorando continuamente alcuna cosa, là dove stassi in molta quiete e ben governato nel palazzo de' Farnesi, dove è cortesissimo in mostrando ben volentieri le cose sue a chiunche va a visitarlo e vederlo, come si fanno l'altre maraviglie di Roma.
IL FINE DELLA VITA DI DON GIULIO CLOVIO MINIATORE
DI DIVERSI ARTEFICI ITALIANI
Vive anco in Roma, e certo è molto eccellente nella sua professione, Girolamo Siciolante da Sermoneta, del quale se bene si è detto alcuna cosa nella vita di Perino del Vaga, di cui fu discepolo e l'aiutò nell'opere di Castel Sant'Agnolo e molte altre, non sia però se non bene dirne anco qui quanto la sua molta virtù merita veramente.
Fra le prime opere adunque che costui fece da sé fu una tavola alta dodici palmi, che egli fece a olio di venti anni, la quale è oggi nella badia di Santo Stefano, vicino alla terra di Sermoneta sua patria, nella quale sono quanto il vivo San Pietro, Santo Stefano e San Giovanni Batista, con certi putti.
Dopo la quale tavola, che molto fu lodata, fece nella chiesa di Santo Apostolo di Roma, in una tavola a olio, Cristo morto, la Nostra Donna, San Giovanni e la Madalena con altre figure condotte con diligenza.
Nella Pace condusse poi alla cappella di marmo, che fece fare il cardinale Cesis, tutta la volta lavorata di stucchi, in un partimento di quattro quadri, facendovi il Nascere di Gesù Cristo, l'adorazione de' Magi, il fuggire in Egitto e l'uccisione de' fanciulli innocenti, che tutto fu opera molto laudabile e fatta con invenzione, giudizio e diligenza.
Nella medesima chiesa fece, non molto dopo, il medesimo Girolamo in una tavola alta quindici palmi, appresso all'altare maggiore, la Natività di Gesù Cristo, che fu bellissima.
E dopo per la sagrestia della chiesa di Santo Spirito di Roma, in un'altra tavola a olio, la venuta dello Spirito Santo sopra gl'Apostoli, che è molto graziosa opera.
Similmente nella chiesa Santa Maria de Anima, chiesa della nazione tedesca, dipinse a fresco tutta la cappella de' Fuccheri, dove Giulio Romano già fece la tavola con istorie grandi della vita di Nostra Donna.
Et in San Iacopo degli Spagnuoli, all'altare maggiore, fece in una gran tavola un bellissimo Crucifisso, con alcuni Angeli attorno, la Nostra Donna, San Giovanni et oltre ciò due gran quadri, che la mettono in mezzo, con una figura per quadro alta nove palmi, cioè San Iacopo apostolo e Santo Alfonso vescovo, nei quali quadri si vede che mise molto studio e diligenza.
A piazza Giudea, nella chiesa di San Tommaso, ha dipinto tutta una cappella a fresco, che risponde nella corte di casa Cenci, facendovi la natività della Madonna, l'essere annunziata dall'Angelo et il partorire il Salvatore Gesù Cristo.
Al cardinal Capodiferro ha dipinto nel suo palazzo un salotto molto bello de' fatti degl'antichi Romani.
Et in Bologna fece già nella chiesa di San Martino la tavola dell'altare maggiore, che fu molto comendata.
Al signor Pierluigi Farnese, duca di Parma e Piacenza, il quale servì alcun tempo, fece molte opere et in particolare un quadro, che è in Piacenza fatto per una cappella, dentro al quale è la Nostra Donna, San Giuseppo, San Michele, San Giovanni Batista et un Angelo di palmi otto.
Dopo il suo ritorno di Lombardia fece nella Minerva, cioè nell'andito della sagrestia, un Crucifisso, e nella chiesa un altro.
E dopo fece a olio una Santa Caterina et una Santa Agata.
Et in San Luigi fece una storia a fresco a concorrenza di Pellegrino Pellegrini bolognese, e di Iacopo del Conte fiorentino.
In una tavola a olio, alta palmi sedici, fatta nella chiesa di Santo Alò, dirimpetto alla Misericordia, Compagnia de' Fiorentini, dipinse non ha molto la Nostra Donna, San Iacopo apostolo, Santo Alò e San Martino vescovi, et in San Lorenzo in Lucina, alla cappella della contessa di Carpi, fece a fresco un San Francesco che riceve le stimate.
E nella sala de' re fece al tempo di papa Pio Quarto, come s'è detto, una storia a fresco sopra la porta della cappella di Sisto, nella quale storia, che fu molto lodata, Pipino re de' Franchi dona Ravenna alla Chiesa romana e mena prigione Astulfo re de' Longobardi, e di questa abbiamo il disegno di propria mano di Girolamo nel nostro libro, con molti altri del medesimo.
E finalmente ha oggi fra mano la cappella del cardinale Cesis in Santa Maria Maggiore, dove ha già fatto in una gran tavola il martirio di Santa Caterina fra le ruote, che è bellissima pittura, come sono l'altre che quivi et altrove va continuamente e con suo molto studio lavorando.
Non farò menzione de' ritratti, quadri et altre opere piccole di Girolamo, perché oltre che sono infiniti, queste possono bastare a farlo conoscere per eccellente e valoroso pittore.
Avendo detto di sopra, nella vita di Perino del Vaga, che Marcello pittore mantovano operò molti anni sotto di lui cose che gli dierono gran nome, dico al presente, venendo più al particolare, che egli già dipinse nella chiesa di Santo Spirito la tavola e tutta la cappella di San Giovanni Evangelista col ritratto di un commendatore di detto Santo Spirito, che murò quella chiesa e fece la detta cappella.
Il quale ritratto è molto simile e la tavola bellissima; onde, veduta la bella maniera di costui, un frate del Piombo gli fece dipignere a fresco nella Pace, sopra la porta che di chiesa entra in convento, un Gesù Cristo fanciullo, che nel tempio disputa con i dottori, che è opera bellissima.
Ma perché si è dilettato sempre costui di fare ritratti e cose piccole, lasciando l'opere maggiori, n'ha fatto infiniti, onde se ne veggiono alcuni di papa Paulo Terzo belli e simili affatto.
Similmente con disegni di Michelagnolo e di sue opere ha fatto una infinità di cose similmente piccole, e fra l'altre in una sua opera ha fatta tutta la facciata del Giudizio, che è cosa rara e condotta ottimamente, e nel vero, per cose piccole di pittura, non si può far meglio.
Per lo che gli ha finalmente il gentilissimo Messer Tommaso de' Cavalieri, che sempre l'ha favorito, fatto dipignere con disegni di Michelagnolo una tavola per la chiesa di San Giovanni Laterano, d'una Vergine annunziata bellissima.
Il quale disegno di man propria del Buonarruoto, da costui imitato, donò al signor duca Cosimo, Lionardo Buonarruoti, nipote di esso Michelagnolo, insieme con alcuni altri, di fortificazioni, d'architettura et altre cose rarissime.
E questo basti di Marcello, che per ultimo attende a lavorare cose piccole, conducendole con veramente estrema et incredibile pacienza.
Di Iacopo del Conte fiorentino, il quale sì come i sopra detti abita in Roma, si sarà detto a bastanza fra in questo et in altri luoghi, se ancora se ne dirà alcun altro particolare.
Costui dunque essendo stato in fin dalla sua giovanezza molto inclinato a ritrarre di naturale, ha voluto che questa sia stata sua principale professione, ancora che abbia secondo l'occasioni fatto tavole e lavori in fresco pure assai in Roma e fuori.
Ma de' ritratti, per non dire di tutti, che sarebbe lunghissima storia, dirò solamente che egli ha ritratto da papa Paulo Terzo in qua tutti i pontefici che sono stati, e tutti i signori et ambasciatori d'importanza che sono stati a quella corte.
E similmente capitani d'eserciti e grand'uomini di casa Colonna e degli Orsini, il signor Piero Strozzi et una infinità di vescovi, cardinali et altri gran prelati e signori, senza molti letterati et altri galantuomini, che gl'hanno fatto acquistare in Roma nome, onore et utile.
Onde si sta in quella città con sua famiglia molto agiata et onoratamente.
Costui da giovanetto disegnava tanto bene, che diede speranza, se avesse seguitato, di farsi eccellentissimo, e saria stato veramente, ma, come ho detto, si voltò a quello a che si sentiva da natura inclinato.
Nondimeno non si possono le cose sue se non lodare.
È di sua mano una sua tavola, che è nella chiesa del Popolo, un Cristo morto; et in un'altra, che ha fatta in San Luigi, alla cappella di San Dionigi, con storie, è quel Santo.
Ma la più bell'opera che mai facesse si fu dua storie a fresco, che già fece, come s'è detto in altro luogo, nella Compagnia della Misericordia de' Fiorentini, con una tavola d'un Deposto di croce, con i ladroni confitti e lo svenimento di Nostra Donna, colorita a olio, molto belle e condotte con diligenzia e con suo molto onore.
Ha fatto per Roma molti quadri e figure in varie maniere e fatto assai ritratti interi vestiti e nudi d'uomini e di donne, che sono stati bellissimi, però che così erano i naturali.
Ha ritratto anco secondo l'occasioni molte teste di signore, gentildonne e principesse, che sono state a Roma.
E fra l'altre so che già ritrasse la signora Livia Colonna, nobilissima donna, per chiarezza di sangue, virtù e bellezza incomparabile.
E questo basti di Iacopo del Conte, il quale vive e va continuamente operando.
Arei potuto ancora di molti nostri toscani e d'altri luoghi d'Italia fare noto il nome e l'opere loro, che me la son passata di leggieri, perché molti hanno finito, per esser vecchi, di operare et altri, che son giovani che si vanno sperimentando, i quali faranno conoscersi più con le opere che con gli scritti.
E perché ancor vive et opera Adoni Doni d'Ascesi, del quale se bene feci memoria di lui nella vita di Cristofano Gherardi, dirò alcune particolarità dell'opere sue, quali et in Perugia e per tutta l'Umbria, e particolarmente in Fuligno sono molte tavole, ma l'opere sue migliori sono in Ascesi a Santa Maria degl'Angeli nella cappelletta dove morì San Francesco, dove sono alcune storie de' fatti di quel Santo lavorate a olio nel muro, le quali son lodate assai, oltre che ha nella testa del refettorio di quel convento lavorato a fresco la Passione di Cristo, oltre a molte opere che gli han fatto onore; e lo fanno tenere e cortese e liberale la gentilezza e cortesia sua.
In Orvieto sono ancora di quella cura dua giovani, uno pittore chiamato Cesare del Nebbia e l'altro scultore..., ambidua per una gran via da far che la loro città che fino a oggi ha chiamato del continuo a ornarla maestri forestieri, che seguitando i princìpi che hanno presi, non aranno a cercar più d'altri maestri.
Lavora in Orvieto in Santa Maria, Duomo di quella città, Niccolò dalle Pomarancie, pittore giovane, il quale avendo condotto una tavola dove Cristo resuscita Lazzaro, ha mostro insieme con altre cose a fresco di racconciar nome apresso agli altri su detti.
E perché de' nostri maestri italiani [le] vite siano alla fine, dirò solo che avendo sentito non minore un Lodovico scultore fiorentino, quale in Inghilterra et in Bari ha fatto, secondo che m'è detto, cose notabili, per non aver io trovato qua né parenti, né cognome, né visto l'opere sue, non posso come vorrei farne altra memoria che questa del nominarlo.
DI DIVERSI ARTEFICI FIAMMINGHI
Ora ancor che in molti luoghi, ma però confusamente si sia ragionato dell'opere d'alcuni eccellenti pittori fiamminghi e dei loro intagli, non tacerò i nomi d'alcun'altri, poiché non ho potuto avere intera notizia dell'opere, i quali sono stati in Italia, et io gl'ho conosciuti la maggior parte, per apprendere la maniera italiana, parendomi che così meriti la loro industria e fatica usata nelle nostre arti.
Lasciando adunque da parte Martino d'Olanda, Giovanni Eick da Bruggia et Uberto suo fratello, che nel 1410 mise in luce l'invenzione e modo di colorire a olio, come altrove s'è detto, e lasciò molte opere di sua mano in Guanto, in Ipri et in Bruggia, dove visse e morì onoratamente, dico che dopo costoro seguitò Ruggieri Vander Vueiden di Bruselles, il quale fece molte opere in più luoghi, ma principalmente nella sua patria e nel palazzo de' Signori quattro tavole a olio bellissime di cose pertinenti alla Iustizia.
Di costui fu discepolo Havesse, del quale abbiàn, come si disse, in Fiorenza in un quadretto piccolo che è in man del Duca, la Passione di Cristo.
A costui successero Lodovico da Lovano, Luven fiammingo, Pietro Ghrista, Giusto da Guanto, Ugo d'Anversa et altri molti, i quali, perché mai non uscirono di loro paese, tennero sempre la maniera fiamminga.
E se bene venne già in Italia Alberto Durero, del quale si è parlato lungamente, egli tenne nondimeno sempre la sua medesima maniera, se bene fu nelle teste massimamente pronto e vivace, come è notissimo a tutta Europa.
Ma lasciando costoro et insieme con essi Luca d'Olanda et altri, conobbi nel 1532 in Roma un Michele Cockisien, il quale attese assai alla maniera italiana e condusse in quella città molte opere a fresco, e particolarmente in Santa Maria de Anima due cappelle.
Tornato poi al paese e fattosi conoscere per valent'uomo, odo che fra l'altre opere ritrasse al re Filippo di Spagna una tavola da una di Giovanni Eick su detto, che è in Guanto.
Nella quale ritratta che fu portata in Ispagna è il trionfo dell'Agnus Dei.
Studiò poco dopo in Roma Martino Emskerck, buon maestro di figure e paesi, il quale ha fatto in Fiandra molte pitture e molti disegni di stampe di rame, che sono state, come s'è detto altrove, intagliate da Ieronomo Cocca, il quale conobbi in Roma mentre io serviva il cardinale Ipolito de' Medici.
E questi tutti sono stati bellissimi inventori di storie e molto osservatori della maniera italiana.
Conobbi ancora in Napoli, e fu mio amicissimo, l'anno 1545, Giovanni di Calker pittore fiammingo, molto raro e tanto pratico nella maniera d'Italia, che le sue opere non erano conosciute per mano di Fiammingo.
Ma costui morì giovane in Napoli, mentre si sperava gran cose di lui, il quale disegnò la sua notomia al Vessalio.
Ma innanzi a questi fu molto in pregio Divik da Lovano, in quella maniera buon maestro, e Quintino della medesima terra, il quale nelle sue figure osservò sempre più che poté il naturale, come anche fece un suo figliuolo chiamato Giovanni.
Similmente Gios di Cleves fu gran coloritore e raro in far ritratti di naturale, nel che servì assai il re Francesco di Francia, in far molti ritratti di diversi signori e dame.
Sono anco stati famosi pittori e parte sono, della medesima provincia, Giovanni d'Hemsen, Mattias Cook d'Anversa, Bernardo di Burselles, Giovanni Cornelis d'Amsterdam, Lamberto della medesima terra, Enrico da Binat, Giovachino di Patenier di Bovines e Giovanni Scorle canonico di Utrecht, il quale portò in Fiandra molti nuovi modi di pitture cavati d'Italia.
Oltre questi, Giovanni Bella Gamba di Douai, Dirick d'Harlem della medesima, e Francesco Mostaret, che valse assai in fare paesi a olio, fantasticherie, bizzarrie, sogni et imaginazioni.
Girolamo Hertoglien Bos e Pietro Bruveghel di Breda furono imitatori di costui, e Lancilotto è stato eccellente in far fuochi, notti, splendori, diavoli e cose somiglianti.
Piero Covek ha avuto molta invenzione nelle storie e fatto bellissimi cartoni per tapezzerie e panni d'arazzo, e buona maniera e pratica nelle cose d'architettura.
Onde ha tradotto in lingua teutonica l'opere d'architettura di Sebastiano Serlio bolognese.
E Giovanni di Malengt fu quasi il primo che portasse d'Italia in Fiandra il vero modo di fare storie piene di figure ignude e di poesie, e di sua mano in Silanda è una gran tribuna nella badia di Midelborgo.
De' quali tutti si è avuto notizia da maestro Giovanni della Strada di Brucies, pittore, e da Giovanni Bologna de Douai, scultore, ambi fiaminghi et eccellenti come diremo nel trattato degl'Accademici.
Ora quanto a quelli della medesima provincia, che sono vivi et in pregio, il primo è fra loro, per opere di pittura e per molte carte intagliate in rame, Francesco Floris d'Anversa, discepolo del già detto Lamberto Lombardo.
Costui dunque, il quale è tenuto eccellentissimo, ha operato di maniera in tutte le cose della sua professione, che niuno ha meglio (dicono essi) espressi gl'affetti dell'animo, il dolore, la letizia e l'altre passioni, con bellissime e bizzarre invenzioni di lui, intanto che lo chiamano, agguagliandolo all'Urbino, Raffaello fiammingo; vero è che ciò a noi non dimostrano interamente le carte stampate, perciò che chi intaglia, sia quanto vuole valent'uomo, non mai arriva a gran pezza all'opere et al disegno e maniera di chi ha disegnato.
È stato condiscepolo di costui, e sotto la disciplina d'un medesimo maestro ha imparato, Guglielmo Cay di Breda pur d'Anversa, uomo moderato, grave, di giudizio, e molto imitatore del vivo e delle cose della natura, et oltre ciò assai accomodato inventore, e quegli che più d'ogni altro conduce le sue pitture sfumate e tutte piene di dolcezza e di grazia, e se bene non ha la fierezza e facilità e terribilità del suo condiscepolo Floro, ad ogni modo è tenuto eccellentissimo.
Michel Cockisien, del quale ho favellato di sopra e detto che portò in Fiandra la maniera italiana, è molto fra gl'artefici fiaminghi celebrato, per essere tutto grave e fare le sue figure che hanno del virile e del severo.
Onde Messer Domenico Lampsonio fiamingo, del quale si parlerà a suo luogo, ragionando dei due sopra detti e di costui, gl'agguaglia a una bella musica di tre, nella quale faccia ciascun la sua parte con eccellenza.
Fra i medesimi è anco stimato assai Antonio Moro di Utrech in Olanda, pittore del Re catolico, i colori del quale nel ritrarre ciò che vuole di naturale, dicono contendere con la natura et ingannare gl'occhi benissimo.
Scrivemi il detto Lampsonio, che il Moro, il quale è di gentilissimi costumi e molto amato, ha fatto una tavola bellisima d'un Cristo che risuscita con due Angeli e San Piero e San Paulo, che è cosa maravigliosa.
Et anco è tenuto buono inventore e coloritore Martino di Vos, il quale ritrae ottimamente di naturale.
Ma quanto al fare bellissimi paesi, non ha pari Iacopo Gimer, Hanz Bolz et altri tutti d'Anversa e valent'uomini, de' quali non ho così potuto sapere ogni particolare.
Pietro Arsen, detto Pietro Lungo, fece una tavola con le sue ale nella sua patria Asterdam, dentrovi la Nostra Donna et altri Santi, la quale tutta opera costò duemila scudi.
Celebrano ancora per buon pittore Lamberto d'Asterdam, che abitò in Vinezia molti anni et aveva benissimo la maniera italiana (questo fu padre di Federigo, del quale per essere nostro accademico se ne farà memoria a suo luogo), e parimente Pietro Broghel d'Anversa, maestro eccellente, Lamberto Van Hort d'Amersfert d'Olanda; e per buono architetto Gilis Mostaret, fratello di Francesco su detto, e Pietro Pourbs giovinetto ha dato saggio di dover riuscire eccellente pittore.
Ora, acciò sappiamo alcuna cosa de' miniatori di que' paesi, dicono che questi vi sono stati eccellenti: Marino di Sireffa, Luca Hurenbout di Guanto, Simone Benich da Bruggia e Gherardo.
E parimente alcune donne: Susanna sorella del detto Luca, che fu chiamata perciò ai servigii d'Enrico Ottavo re d'Inghilterra e vi stette onoratamente tutto il tempo di sua vita; Clara Skeysers di Guanto, che d'ottanta anni morì, come dicono, vergine; Anna figliuola di maestro Segher medico; Levina figlia di maestro Simone da Bruggia su detto, che dal detto Enrico d'Inghilterra fu maritata nobilmente, et avuta in pregio dalla reina Maria, sì come ancora è dalla reina Lisabetta.
Similmente Caterina figliuola di maestro Giovanni da Hemsen, andò già in Ispagna al servigio della Reina d'Ungheria con buona provisione.
Et insomma molt'altre sono state in quelle parti eccellenti miniatrici.
Nelle cose de' vetri e far finestre sono nella medesima provincia stati molti valent'uomini: Art Van Hort di Nimega, Borghese d'Anversa, Iacobs Felart, Divick Stas di Campen, Giovanni Ack d'Anversa, di mano del quale sono nella chiesa di Santa Gudula di Bruselles le finestre della cappella del Sacramento; e qua in Toscana hanno fatto al duca di Fiorenza molte finestre di vetri a fuoco bellissime Gualtieri e Giorgio fiaminghi e valent'uomini, con i disegni del Vasari.
Nell'architettura e scultura i più celebrati fiaminghi sono Sebastiano d'Oia d'Utrech, il quale servì Carlo V in alcune fortificazioni e poi il re Filippo, Guglielmo d'Anversa, Guglielmo Cucur d'Olanda, buono architetto e scultore, Giovanni di Dale scultore, poeta et architetto, Iacobo Bruca scultore et architetto che fece molte opere alla Reina d'Ungheria reggente, et il quale fu maestro di Giovanni Bologna da Douai, nostro accademico, di cui poco appresso parleremo.
È anco tenuto buono architetto Giovanni di Minescheren da Guanto, et eccellente scultore Matteo Manemacken d'Anversa, il quale sta col Re de' Romani; e Cornelio Flores, fratello del sopra detto Francesco, è altresì scultore et architetto eccellente et è quelli che prima ha condotto in Fiandra il modo di fare le grottesche.
Attendono anco alla scultura con loro molto onore Guglielmo Palidamo, fratello d'Enrico predetto, scultore studiosissimo e diligente, Giovanni di Sart di Himegha, Simone di Delft e Gios Iason d'Amsterdam.
E Lamberto Suave da Liege è bonissimo architetto et intagliatore di stampe col bulino, in che l'ha seguitato Giorgio Robin d'Ipri, Divick Volcaerts e Filippo Galle, amendue d'Arlem, e Luca Leidem con molti altri, che tutti sono stati in Italia a imparare e disegnare le cose antiche per tornarsene, sì come hanno fatto la più parte, a casa eccellenti.
Ma di tutti i sopra detti è stato maggiore Lamberto Lombardo da Liege, gran letterato, giudizioso pittore et architetto eccellentissimo, maestro di Francesco Floris e di Guglielmo Cai, delle virtù del quale Lamberto e d'altri mi ha dato molta notizia per sue lettere Messer Domenico Lampsonio da Legie, uomo di bellissime lettere e molto giudizio in tutte le cose, il quale fu famigliare del cardinale Polo d'Inghilterra, mentre visse, et ora è segretario di monsignor vescovo e prencipe di Lege; costui, dico, mi mandò già scritta latinamente la vita di detto Lamberto, e più volte mi ha salutato a nome di molti de' nostri artefici di quella provincia.
Et una lettera, che tengo di suo, data a dì trenta d'ottobre 1564, è di questo tenore:
Quattro anni sono ho avuto continuamente animo di ringraziare Vostra Signoria di due grandissimi benefizii, che ho ricevuto da lei (so che questo le parrà strano esordio d'uno che non l'abbia mai vista, né conosciuta; certo sarebbe strano se io non l'avessi conosciuta).
Il che è stato in fin d'allora, che la mia buona ventura volse, anzi il Signor Dio, farmi grazia che mi venissero alle mani, non so in che modo, i vostri eccellentissimi scritti degl'architettori, pittori e scultori.
Ma io allora non sapea pure una parola italiana, dove ora, con tutto che io non abbia mai veduto l'Italia, la Dio mercé, con leggere detti vostri scritti, n'ho imparato quel poco che mi ha fatto ardito a scrivervi questa.
Et a questo desiderio d'imparare detta lingua mi hanno indotto essi vostri scritti, il che forse non averebbono mai fatto quei d'altro nessuno; tirandomi a volergli intendere uno incredibile e naturale amore, che fin da piccolo ho portato a queste tre bellissime arti, ma più alla piacevolissima ad ogni sesso, età e grado et a nessuno nociva arte vostra, la pittura.
Della quale ancora era io allora del tutto ignorante e privo di giudizio, et ora, per il mezzo della spesso reiterata lettura de' vostri scritti, n'intendo tanto, che per poco che sia o quasi niente, è pur quanto basta a fare che io meno vita piacevole e lieta e lo stimo più che tutti gl'onori, agi e ricchezze di questo mondo.
È questo poco, dico, tanto che io ritrarrei di colori a olio, come con qual si voglia disegnatoio, le cose naturali, e massimamente ignudi et abiti d'ogni sorte, non mi essendo bastato l'animo d'intromettermi più oltre, come dire a dipigner cose più incerte che ricercano la mano più esercitata e sicura, quali sono paesaggi, alberi, acque, nuvole, splendori, fuochi, etc.; nelle quali cose ancora, sì come anco nell'invenzioni fino a un certo che, forse e per un bisogno potrei mostrare d'aver fatto qualche poco d'avanzo per mezzo di detta lettura.
Pur mi sono contento nel sopra detto termine di far solamente ritratti, e tanto maggiormente che le molte occupazioni, le quali l'uffizio mio porta necessariamente seco, non me lo permettono.
E per mostrarmi grato e conoscente in alcun modo di questi benefizii d'avere, per vostro mezzo, apparato una bellissima lingua et a dipignere, vi arei mandato con questa un ritrattino del mio volto, che ho cavato dallo specchio, se io non avessi dubitato se questa mia vi troverà in Roma, o no, che forse potreste stare ora in Fiorenza, o vero in Arezzo vostra patria.
Questa lettera contiene, oltre ciò, molti altri particolari che non fanno a proposito.
In altre poi mi ha pregato a nome di molti galant'uomini di que' paesi, i quali hanno inteso che queste vite si ristampano, che io ci faccia tre trattati della scultura, pittura et architettura, con disegni di figure, per dichiarare secondo l'occasioni et insegnare le cose dell'arti, come ha fatto Alberto Duro, il Serlio e Leonbatista Alberti, stato tradotto da Messer Cosimo Bartoli, gentiluomo et accademico fiorentino.
La qual cosa arei fatto più che volentieri, ma la mia intenzione è stata di solamente voler scrivere le vite e l'opere degli artefici nostri e non d'insegnare l'arti, col modo di tirare le linee, della pittura, architettura e scultura, senza che essendomi l'opera cresciuta fra mano per molte cagioni, ella sarà per aventura, senza altri trattati, lunga da vantaggio.
Ma io non poteva e non doveva fare altrimenti di quello che ho fatto, né defraudare niuno delle debite lodi et onori, né il mondo del piacere et utile, che spero abbia a trarre di queste fatiche.
DEGL'ACCADEMICI DEL DISEGNO PITTORI, SCULTORI ET ARCHITETTI E DELL'OPERE LORO E PRIMA DEL BRONZINO
Avendo io scritto in fin qui le vite et opere de' pittori, scultori et architetti più eccellenti che sono da Cimabue insino a oggi passati a miglior vita, e con l'occasioni che mi sono venute favellato di molti vivi, rimane ora che io dica alcune cose degl'artefici della nostra Accademia di Firenze, de' quali non mi è occorso in sin qui parlare a bastanza.
E cominciandomi dai principali e più vecchi, dirò prima d'Agnolo detto il Bronzino, pittore fiorentino veramente rarissimo e degno di tutte le lodi.
Costui, essendo stato molti anni col Puntormo, come s'è detto, prese tanto quella maniera et in guisa immitò l'opere di colui, che elle sono state molte volte tolte l'une per l'altre, così furono per un pezzo somiglianti.
E certo è maraviglia come il Bronzino così bene apprendesse la maniera del Puntormo, conciò sia che Iacopo fu eziandio co' suoi più cari discepoli anzi alquanto salvatico e strano che non, come quegli che a niuno lasciava mai vedere le sue opere, se non finite del tutto.
Ma ciò nonostante fu tanta la pacienza et amorevolezza d'Agnolo verso il Puntormo, che colui fu forzato a sempre volergli bene et amarlo come figliuolo.
Le prime opere di conto che facesse il Bronzino, essendo ancor giovane, furono alla Certosa di Firenze, sopra una porta che va dal chiostro grande in capitolo, in due archi, cioè l'uno di fuori e l'altro dentro: nel difuori è una Pietà con due Angeli a fresco, e di dentro un San Lorenzo ignudo sopra la grata, colorita a olio nel muro, le quali opere furono un gran saggio di quell'eccellenza che negl'anni maturi si è veduta poi nell'opere di questo pittore.
Alla cappella di Lodovico Capponi in Santa Felicita di Firenze fece il Bronzino, come s'è detto in altro luogo, in due tondi a olio due Evangelisti, e nella volta colorì alcune figure.
Nella Badia di Firenze de' monaci neri fece nel chiostro di sopra a fresco una storia della vita di San Benedetto, cioè quando si getta nudo sopra le spine, che è bonissima pittura.
Nell'orto delle suore dette le Poverine dipinse a fresco un bellissimo tabernacolo, nel qual è Cristo che appare a Madalena in forma d'ortolano.
In Santa Trinita pur di Firenze si vede di mano del medesimo in un quadro a olio, al primo pilastro a man ritta, un Cristo morto, la Nostra Donna, San Giovanni e Santa Maria Madalena, condotti con bella maniera e molta diligenzia.
Nei quali detti tempi che fece queste opere, fece anco molti ritratti di diversi, e quadri che gli diedero gran nome.
Passato poi l'assedio di Firenze e fatto l'accordo, andò come altrove s'è detto a Pesero, dove appresso Guidobaldo duca d'Urbino fece, oltre la detta cassa d'Arpicordo piena di figure, che fu cosa rara, il ritratto di quel signore e d'una figliuola di Matteo Sofferoni, che fu veramente bellissima e molto lodata pittura.
Lavorò anche all'Imperiale, villa del detto Duca, alcune figure a olio ne' peducci d'una volta, e più n'averebbe fatto, se da Iacopo Puntormo suo maestro non fusse stato richiamato a Firenze perché gl'aiutasse a finire la sala del Poggio a Caiano.
Et arrivato in Firenze, fece quasi per passatempo a Messer Giovanni de Statis, auditore del duca Alessandro, un quadretto di Nostra Donna, che fu opera lodatissima, e poco dopo a monsignor Giovio, amico suo, il ritratto d'Andrea Doria, et a Bartolomeo Bettini, per empiere alcune lunette d'una sua camera, il ritratto di Dante, Petrarca e Boccaccio, figure dal mezzo in su bellissime.
I quali quadri finiti, ritrasse Bonacorso Pinadori, Ugolino Martelli, Messer Lorenzo Lenzi oggi vescovo di Fermo, e Pierantonio Bandini e la moglie con tanti altri, che lunga opera sarebbe voler di tutti fare menzione.
Basta che tutti furono naturalissimi, fatti con incredibile diligenza e di maniera finiti, che più non si può disiderare.
A Bartolomeo Panciatichi fece due quadri grandi di Nostre Donne con altre figure, belli a maraviglia e condotti con infinita diligenza, et oltre ciò i ritratti di lui e della moglie, tanto naturali che paiono vivi veramente e che non manchi loro se non lo spirito.
Al medesimo ha fatto in un quadro un Cristo crucifisso, che è condotto con molto studio e fatica, onde ben si conosce che lo ritrasse da un vero corpo morto confitto in croce, cotanto è in tutte le sue parti di somma perfezzione e bontà.
Per Matteo Strozzi fece alla sua villa di San Casciano, in un tabernacolo a fresco, una Pietà con alcuni Angeli, che fu opera bellissima.
A Filippo d'Averardo Salviati fece in un quadrotto una Natività di Cristo in figure piccole tanto bella, che non ha pari, come sa ognuno, essendo oggi la detta opera in stampa.
Et a maestro Francesco Montevarchi, fisico eccellentissimo, fece un bellissimo quadro di Nostra Donna et alcuni altri quadretti piccoli molto graziosi.
Al Puntormo suo maestro aiutò a fare, come si disse di sopra, l'opera di Careggi, dove condusse di sua mano ne' peducci delle volte cinque figure: la Fortuna, la Fama, la Pace, la Iustizia e la Prudenza, con alcuni putti fatti ottimamente.
Morto poi il duca Alessandro e creato Cosimo, aiutò Bronzino al medesimo Puntormo nell'opera della loggia di Castello.
E nelle nozze dell'illustrissima donna Leonora di Tolledo, moglie già del duca Cosimo, fece due storie di chiaro scuro nel cortile di casa Medici, e nel basamento che reggeva il cavallo del Tribolo, come si disse, alcune storie finte di bronzo de' fatti del signor Giovanni de' Medici, che tutte furon le migliori pitture che fussero fatte in quell'apparato.
Là dove il Duca, conosciuta la virtù di quest'uomo, gli fece metter mano a fare nel suo ducal palazzo una cappella non molto grande per la detta signora Duchessa, donna nel vero, fra quante furono mai, valorosa, e per infiniti meriti, degna d'eterna lode.
Nella qual cappella fece il Bronzino nella volta un partimento, con putti bellissimi e quattro figure, ciascuna delle quali volta i piedi alle facce, San Francesco, San Ieronimo, San Michelagnolo e San Giovanni, condotte tutte con diligenzia et amore grandissimo.
E nell'altre tre facce (due delle quali sono rotte dalla porta e dalla finestra) fece tre storie di Moisè, cioè una per faccia.
Dove è la porta fece la storia delle bisce, o vero serpi, che piovono sopra il popolo, con molte belle considerazioni di figure morse, che parte muoiono, parte sono morte, et alcune guardando nel serpente di bronzo guariscono.
Nell'altra, cioè nella faccia della finestra, è la pioggia della manna, e nell'altra faccia intera quando passa il Mare Rosso e la sommersione di Faraone, la quale storia è stata stampata in Anversa; et insomma questa opera, per cosa lavorata in fresco, non ha pari et è condotta con tutto quella diligenza e studio che si poté maggiore.
Nella tavola di questa cappella, fatta a olio, che fu posta sopra l'altare, era Cristo deposto di croce in grembo alla madre; ma ne fu levata dal duca Cosimo per mandarla, come cosa rarissima, a donare a Gran Vela, maggiore uomo che già fusse appresso Carlo Quinto imperadore.
In luogo della qual tavola ne ha fatto una simile il medesimo e postala sopra l'altare in mezzo a due quadri non manco belli che la tavola, dentro i quali sono l'angelo Gabriello e la Vergine da lui annunziata.
Ma in cambio di questi, quando ne fu levata la prima tavola, erano un San Giovanni Batista et un San Cosimo, che furono messi in guardaroba quando la signora Duchessa, mutato pensiero, fece fare questi altri due.
Il signor Duca, veduta in queste et altre opere l'eccellenza di questo pittore, e particolarmente che era suo proprio ritrarre dal naturale quanto con più diligenzia si può imaginare, fece ritrarre sé, che allora era giovane, armato tutto d'arme bianche e con una mano sopra l'elmo, in un altro quadro la signora Duchessa sua consorte, et in un altro quadro il signor don Francesco loro figliuolo e prencipe di Fiorenza.
E non andò molto che ritrasse, sì come piacque a lei, un'altra volta la detta signora Duchessa, in vario modo dal primo, col signor don Giovanni suo figliuolo appresso.
Ritrasse anche la Bia fanciulletta e figliuola naturale del Duca; e dopo, alcuni di nuovo et altri la seconda volta, tutti i figliuoli del Duca, la signora donna Maria, grandissima fanciulla, bellissima veramente, il prencipe don Francesco, il signor don Giovanni, don Garzia e don Arnaldo in più quadri, che tutti sono in guardaroba di sua eccellenzia insieme con ritratto di don Francesco di Tolledo, della signora Maria madre del Duca e d'Ercole Secondo duca di Ferrara con altri molti.
Fece anco in palazzo quasi ne' medesimi tempi, due anni alla fila per carnovale, due scene e prospettive per comedie, che furono tenute bellissime.
Fece un quadro di singolare bellezza, che fu mandato in Francia al re Francesco, dentro al quale era una Venere ignuda con Cupido che la baciava, et il Piacere da un lato et il Giuoco con altri amori, e dall'altro la Fraude, la Gelosia et altre passioni d'amore.
Avendo fatto il signor Duca cominciare dal Puntormo i cartoni de' panni d'arazzo di seta e d'oro per la sala del Consiglio de' Dugento, e fattone fare due delle storie di Ioseffo ebreo dal detto et uno al Salviati, diede ordine che il Bronzino facessi il resto.
Onde ne condusse quattordici pezzi di quella perfezzione e bontà che sa chiunque gli ha veduti.
Ma perché questa era soverchia fatica al Bronzino, che vi perdeva troppo tempo, si servì nella maggior parte di questi cartoni, facendo esso i disegni, di Raffaello dal Colle, pittore dal Borgo a San Sepolcro, che si portò ottimamente.
Avendo poi fatto Giovanni Zanchini dirimpetto alla cappella de' Dini in Santa Croce di Firenze, cioè nella facciata dinanzi entrando in chiesa per la porta del mezzo a man manca, una cappella molto ricca di conci, con sue sepolture di marmo, allogò la tavola al Bronzino, acciò vi facesse dentro un Cristo disceso al Limbo per trarne i Santi Padri.
Messovi dunque mano condusse Agnolo quell'opera con tutta quella possibile estrema diligenza che può mettere chi desidera acquistar gloria in simigliante fatica.
Onde vi sono ignudi bellissimi, maschi, femine, putti, vecchi e giovani, con diverse fattezze et attitudini d'uomini che vi sono ritratti molto naturali, fra' quali è Iacopo Puntormo, Giovanbatista Gello, assai famoso accademico fiorentino, et il Bacchiacca dipintore, del quale si è favellato di sopra.
E fra le donne vi ritrasse due nobili e veramente bellissime giovani fiorentine, degne per la incredibile bellezza et onestà loro d'eterna lode e di memoria: madonna Gostanza da Somaia, moglie di Giovanbatista Doni, che ancor vive, e madonna Camilla Tedaldi del Corno, oggi passata a miglior vita.
Non molto dopo fece in un'altra tavola grande e bellissima la Ressurezzione di Gesù Cristo, che fu posta intorno al coro della chiesa de' Servi, cioè nella Nunziata, alla cappella di Iacopo e Filippo Guadagni.
Et in questo medesimo tempo fece la tavola che in palazzo fu messa nella cappella, onde era stata levata quella che fu mandata a Gran Vela, che certo è pittura bellissima e degna di quel luogo.
Fece poi Bronzino al signor Alamanno Salviati una Venere con un satiro appresso, tanto bella che par Venere veramente dea della bellezza.
Andato poi a Pisa, dove fu chiamato dal Duca, fece per sua eccellenzia alcuni ritratti, et a Luca Martini suo amicissimo, anzi non pure di lui solo, ma di tutti i virtuosi affezionatissimo veramente, un quadro di Nostra Donna molto bello, nel quale ritrasse detto Luca con una cesta di frutte, per essere stato colui ministro e proveditore per lo detto signor Duca nella diseccazione de' paduli et altre acque, che tenevano infermo il paese d'intorno a Pisa, e conseguentemente per averlo renduto fertile e copioso di frutti.
E non partì di Pisa il Bronzino, che gli fu allogata per mezzo del Martini da Raffaello del Setaiuolo, Operaio del Duomo, la tavola d'una delle cappelle del detto Duomo; nella quale fece Cristo ignudo con la croce et intorno a lui molti Santi, fra i quali è un San Bartolomeo scorticato, che pare una vera notomia et un uomo scorticato da dovero, così è naturale et imitato da una notomia con diligenza; la quale tavola, che è bella in tutte le parti, fu posta da una capella, come ho detto, donde ne levarono un'altra di mano di Benedetto da Pescia, discepolo di Giulio Romano.
Ritrasse poi Bronzino al duca Cosimo Morgante nano ignudo tutto intero, et in due modi, cioè da un lato del quadro il dinanzi e dall'altro il di dietro, con quella stravaganza di membra mostruose che ha quel nano, la qual pittura in quel genere è bella e maravigliosa.
A ser Carlo Gherardi da Pistoia, che in fin da giovinetto fu amico del Bronzino, fece in più tempi, oltre al ritratto di esso ser Carlo, una bellissima Iudit, che mette la testa di Oloferne in una sporta; nel coperchio che chiude questo quadro a uso di spera, fece una Prudenza che si specchia.
Al medesimo fece un quadro di Nostra Donna, che è delle belle cose che abbia mai fatto, perché ha disegno e rilievo straordinario.
Il medesimo fece il ritratto del Duca, pervenuto che fu sua eccellenzia all'età di quaranta anni, e così la signora Duchessa, che l'uno e l'altro somigliano quanto è possibile.
Avendo Giovambatista Cavalcanti fatto fare di bellissimi mischi, venuti d'oltra mare con grandissima spesa, una cappella in Santo Spirito di Firenze e quivi riposte l'ossa di Tommaso suo padre, fece fare la testa col busto di esso suo padre a fra' Giovan Agnolo Montorsoli, e la tavola dipinse Bronzino, facendovi Cristo che in forma d'ortolano appare a Maria Madalena e più lontane due altre Marie, tutte figure fatte con incredibile diligenza.
Avendo alla sua morte lasciata Iacopo Puntormo imperfetta la cappella di San Lorenzo, et avendo ordinato il signor Duca che Bronzino la finisse, egli vi finì dalla parte del Diluvio molti ignudi, che mancavano a basso, e diede perfezzione a quella parte e dall'altra, dove a' piè della Ressurrezione de' morti mancavano nello spazio d'un braccio incirca per altezza, nel largo di tutta la facciata, molte figure, le fece tutte bellissime e della maniera che si veggiono; et a basso fra le finestre in uno spazio che vi restava non dipinto, finì un San Lorenzo ignudo sopra una grata, con certi putti intorno.
Nella quale tutt'opera fece conoscere che aveva con molto miglior giudizio condotte in quel luogo le cose sue, che non aveva fatto il Puntormo suo maestro le sue pitture di quell'opera.
Il ritratto del qual Puntormo fece di sua mano il Bronzino in un canto della detta cappella a man ritta del San Lorenzo.
Dopo diede ordine il Duca a Bronzino che facesse due tavole grandi, una per mandare a Porto Feraio nell'isola dell'Elba alla città di Cosmopoli, nel convento de' frati Zoccolanti, edificato da sua eccellenzia, dentrovi una Deposizione di Cristo di croce con buon numero di figure, et un'altra per la nuova chiesa de' Cavalieri di Santo Stefano, che poi si è edificata in Pisa insieme col palazzo e spedale loro con ordine e disegno di Giorgio Vasari, nella qual tavola dipinse Bronzino dentrovi la Natività di Nostro Signore Gesù Cristo.
Le quali amendue tavole sono state finite con tanta arte, diligenzia, disegno, invenzione e somma vaghezza di colorito, che non si può far più.
E certo non si doveva meno in una chiesa edificata da un tanto principe, che ha fondata e dotata la detta Religione de' Cavalieri.
In alcuni quadretti piccoli, fatti di piastra di stagno e tutti d'una grandezza medesima, ha dipinto il medesimo tutti gl'uomini grandi di casa Medici, cominciando da Giovanni di Bicci e Cosimo Vecchio insino alla Reina di Francia, per quella linea, e nell'altra da Lorenzo fratello di Cosimo Vecchio insino al duca Cosimo e suoi figliuoli, i quali tutti ritratti sono, per ordine, dietro la porta d'uno studiolo che il Vasari ha fatto fare nell'appartamento delle stanze nuove nel palazzo ducale, dove è gran numero di statue antiche di marmi e bronzi e moderne pitture piccole, minii rarissimi et una infinità di medaglie d'oro, d'argento e di bronzo, accomodate con bellissimo ordine.
Questi ritratti dunque degl'uomini illustri di casa Medici sono tutti naturali, vivaci e somigliantissimi al vero, ma è gran cosa che dove sogliono molti negl'ultimi anni far manco bene che non hanno fatto per l'addietro, costui fa così bene e meglio ora, che quando era nel meglio della virilità, come ne dimostrano l'opere che fa giornalmente.
Fece anco non ha molto il Bronzino a don Silvano Razzi monaco di Camaldoli nel monasterio degl'Angeli di Firenze, che è molto suo amico, in un quadro alto quasi un braccio e mezzo una Santa Caterina tanto bella e ben fatta, ch'ella non è inferiore a niun'altra pittura di mano di questo nobile artefice.
Intanto che non pare che le manchi se non lo spirito e quella voce che con[fuse] il tiranno e confessò Cristo suo sposo dilettissimo insino all'ultimo fiato.
Onde niuna cosa ha quel padre, come gentile che è veramente, la quale egli più stimi et abbia in pregio, che quel quadro.
Fece Agnolo un ritratto di don Giovanni cardinale de' Medici, figliuolo del duca Cosimo, che fu mandato in corte dell'imperatore alla reina Giovanna; e dopo quello del signor don Francesco prencipe di Fiorenza, che fu pittura molto simile al vero e fatta con tanta diligenza, che par miniata.
Nelle nozze della reina Giovanna d'Austria, moglie del detto Principe, dipinse in tre tele grandi, che furono poste al ponte alla Carraia, come si dirà in fine, alcune storie delle nozze d'Imeneo, in modo belle che non parvero cose da feste, ma da essere poste in luogo onorato per sempre, così erano finite e condotte con diligenza.
Et al detto signor Prencipe ha dipinto, sono pochi mesi, un quadretto di piccole figure, che non ha pari, e si può dire che sia di minio veramente.
E perché in questa sua presente età d'anni sessantacinque non è meno inamorato delle cose dell'arte che fusse da giovane, ha tolto a fare finalmente, come ha voluto il Duca, nella chiesa di San Lorenzo, due storie a fresco nella facciata a canto all'organo, nelle quali non ha dubbio che riuscirà quell'eccellente Bronzino che è stato sempre.
Si è dilettato costui e dilettasi ancora assai della poesia, onde ha fatto molti capitoli e sonetti, una parte de' quali sono stampati.
Ma sopra tutto (quanto alla poesia) è maraviglioso nello stile e capitoli bernieschi, intanto che non è oggi chi faccia in questo genere di versi meglio, né cose più bizarre e capricciose di lui, come un giorno si vedrà, se tutte le sue opere, come si crede e spera, si stamperanno.
È stato et è il Bronzino dolcissimo e molto cortese amico, di piacevole conversazione, et in tutti i suoi affari è molto onorato; è stato liberale et amorevole delle sue cose quanto più può essere un artefice e nobile come è egli.
È stato di natura quieto e non ha mai fatto ingiuria a niuno, et ha sempre amato tutti i valent'uomini della sua professione, come sappiamo noi che abbiam tenuta insieme stretta amicizia anni quarantatré, cioè dal 1524 insino a questo anno, perciò che cominciai in detto tempo a conoscerlo et amarlo, allora che lavorava alla Certosa col Puntormo, l'opere del quale andava io giovinetto a disegnare in quel luogo.
Molti sono stati i creati e' discepoli del Bronzino.
Ma il primo (per dire ora degl'accademici nostri) è Alessandro Allori, il quale è stato amato sempre dal suo maestro, non come discepolo, ma come proprio figliuolo, e sono vivuti e vivono insieme con quello stesso amore fra l'uno e l'altro che è fra buon padre e figliuolo.
Ha mostrato Alessandro in molti quadri e ritratti, che ha fatto insino a questa sua età di trenta anni, esser degno discepolo di tanto maestro e che cerca con la diligenza e continuo studio di venire a quella più rara perfezzione, che dai begli et elevati ingegni si disidera.
Ha dipinta e condotta tutta di sua mano con molta diligenza la cappella de' Montaguti, nella chiesa della Nunziata, cioè la tavola a olio e le facce e la volta a fresco; nella tavola è Cristo in alto e la Madonna in atto di giudicare, con molte figure in diverse attitudini e ben fatte, ritratte dal Giudizio di Michelagnolo Buonarroti; d'intorno a detta tavola, due di sotto e due di sopra, sono nella medesima facciata quattro figure grandi in forma di Profeti o vero Evangelisti, e nella volta sono alcune Sibille e Profeti condotti con molta fatica e studio e diligenza, avendo cerco imitare negli ignudi Michelagnolo.
Nella facciata che è a man manca guardando l'altare, è Cristo fanciullo che disputa nel tempio in mezzo a' Dottori.
Il qual putto in buona attitudine mostra arguire a' quisiti loro; et i Dottori et altri, che stanno attentamente a udirlo, sono tutti variati di volti, d'attitudini e d'abiti, e fra essi sono ritratti di naturale molti degl'amici di esso Alessandro, che somigliano.
Dirimpetto a questa, nell'altra faccia, è Cristo che caccia del tempio coloro che ne facevano, vendendo e comperando, un mercato et una piazza, con molte cose degne di considerazione e di lode.
E sopra queste due sono alcune storie della Madonna, nella volta figure e non molto grandi, ma sì bene assai acconciamente graziose, con alcuni edifizii e paesi, che mostrano nel loro essere l'amore che porta all'arte e 'l cercare la perfezzione del disegno et invenzione.
E dirimpetto alla tavola, su in alto, è una storia d'Ezechia quando vide una gran moltitudine d'ossa ripigliare la carne e rivestirsi le membra; nella quale ha mostro questo giovane quando egli desideri posseder la notomia del corpo umano, e d'averci atteso, e studiarla, e nel vero in questa prima opera d'importanza ha mostro, nelle nozze di sua altezza con figure di rilievo e storie dipinte, e dato gran saggio e speranza di sé e va continuando, d'avere a farsi eccellente pittore, avendo questa et alcune altre opere minori, come ultimamente in un quadretto pieno di figure piccole a uso di minio che ha fatto per don Francesco principe di Fiorenza, che è lodatissimo, et altri quadri e ritratti ha condotto con grande studio e diligenza per farsi pratico et acquistare gran maniera.
Ha anco mostro buona pratica e molta destrezza un altro giovane, pur creato del Bronzino nostro accademico, chiamato Giovanmaria Butteri, per quel che fece, oltre a molti quadri et altre opere minori, nell'essequie di Michelagnolo e nella venuta della detta serenissima reina Giovanna a Fiorenza.
È stato anco discepolo, prima del Puntormo e poi del Bronzino, Cristofano dell'Altissimo pittore, il quale, dopo aver fatto in sua giovanezza molti quadri a olio et alcuni ritratti, fu mandato dal signor duca Cosimo a Como a ritrarre dal museo di monsignor Giovio molti quadri di persone illustri fra una infinità che in quel luogo ne raccolse quell'uomo raro de' tempi nostri, oltre a molti che ha provisti di più, con la fatica di Giorgio Vasari, il duca Cosimo, che di tutti questi ritratti se ne farà uno indice nella tavola di questo libro per non occupare in questo ragionamento troppo luogo; nel che fare si adoperò Cristofano con molta diligenza e di maniera in questi ritratti, che quelli che ha ricavato insino a oggi, e che sono in tre fregiature d'una guardaroba di detto signor Duca, come si dirà altrove de' sua ornamenti, passano il numero di dugentoottanta, fra pontefici, imperatori, re et altri principi, capitani d'eserciti, uomini di lettere, et insomma per alcuna cagione illustri e famosi.
E per vero dire abbiàn grande obligo a questa fatica e diligenza del Giovio e del Duca, perciò che non solamente le stanze de' principi, ma quelle di molti privati si vanno adornando de' ritratti o d'uno o d'altro di detti uomini illustri, secondo le patrie, famiglie et affezione di ciascuno.
Cristofano adunque fermatosi in questa maniera di pitture, che è secondo il genio suo o vero inclinazione, ha fatto poco altro, come quegli che dee trarre di questa onore et utile a bastanza.
Sono ancora creati del Bronzino Stefano Pieri e Lorenzo dello Sciorina, che l'uno e l'altro hanno nelle esequie di Michelagnolo e nelle nozze di sua altezza adoperato sì, che sono stati conumerati fra i nostri accademici.
Della medesima scuola del Puntormo e Bronzino è anche uscito Batista Naldini, di cui si è in altro luogo favellato, il quale dopo la morte del Puntormo, essendo stato in Roma alcun tempo et atteso con molto studio all'arte, ha molto acquistato e si è fatto pratico e fiero dipintore, come molte cose ne mostrano che ha fatto al molto reverendo don Vincenzio Borghini, il quale se n'è molto servito et ha aiutatolo insieme con Francesco da Poppi, giovane di grande speranza e nostro accademico, che s'è portato bene nelle nozze di sua altezza, et altri suoi giovani, i quali don Vincenzio va continuamente esercitandogli et aiutandogli.
Di Batista si è servito già più di due anni e serve ancora il Vasari nell'opere del palazzo ducale di Firenze, dove, per la concorrenza di molti altri che nel medesimo luogo lavoravano, ha molto acquistato, di maniera che oggi è pari a qual si voglia altro giovane della nostra Accademia.
E quello che molto piace a chi di ciò ha giudizio, si è che egli è spedito e fa l'opere sue senza stento.
Ha fatto Batista in una tavola a olio, che è in una cappella della Badia di Fiorenza de' monaci neri, un Cristo che porta la croce, nella quale opera sono molto buone figure, e tuttavia ha fra mano altre opere, che lo faranno conoscere per valent'uomo.
Ma non è a niuno de' sopra detti inferiore per ingegno, virtù e merito Maso Mazzuoli, detto Maso da San Friano, giovane di circa trenta o trentadue anni, il quale ebbe i suoi primi principii da Pierfrancesco di Iacopo di Sandro nostro accademico, di cui si è in altro luogo favellato.
Costui, dico, oltre all'avere mostro quanto sa e quanto si può di lui sperare in molti quadri e pitture minori, l'ha finalmente mostrato in due tavole con molto suo onore e piena sodisfazione dell'universale, avendo in esse mostrato invenzione, disegno, maniera, grazia et unione nel colorito.
Delle quali tavole in una, che è nella chiesa di Santo Apostolo di Firenze, è la Natività di Gesù Cristo.
E nell'altra, posta nella chiesa di San Piero Maggiore, che è bella quanto più non l'arebbe potuta fare un ben pratico e vecchio maestro, è la Visitazione di Nostra Donna a Santa Lisabetta, fatta con molte belle considerazioni e giudizio; onde le teste, i panni, l'attitudini, i casamenti et ogni altra cosa è piena di vaghezza e di grazia.
Costui nell'esequie del Buonarruoto, come accademico et amorevole, e poi nelle nozze della reina Giovanna in alcune storie si portò bene oltre modo.
Ora perché non solo nella vita di Ridolfo Ghirlandaio si è ragionato di Michele suo discepolo e di Carlo da Loro, ma anco in altri luoghi, qui non dirò altro di loro ancor che sieno de' nostri accademici, essendosene detto a bastanza.
Già non tacerò che sono similmente stati discepoli e creati del Ghirlandaio, Andrea del Minga, ancor esso de' nostri accademici, che ha fatto e fa molte opere, e Girolamo di Francesco crucifissaio, giovane di ventisei anni, e Mirabello di Salincorno pittori, i quali hanno fatto e fanno così fatte opere di pittura a olio, in fresco e ritratti che si può di loro sperare onoratissima riuscita.
Questi due fecero insieme, già sono parecchi anni, alcune pitture a fresco nella chiesa de' Scapuccini fuor di Fiorenza, che sono ragionevoli.
E nell'esequie di Michelagnolo e nozze sopra dette si fecero anch'essi molto onore.
Ha Mirabello fatto molti ritratti e particolarmente quello dell'illustrissimo Prencipe più d'una volta, e molti altri che sono in mano di diversi gentiluomini fiorentini.
Ha anco molto onorato la nostra Accademia e se stesso Federigo di Lamberto d'Asterdam fiammingo, genero del padoano Cartaro, nelle dette esequie e nell'apparato delle nozze del Prencipe; et oltre ciò ha mostro in molti quadri di pitture a olio grandi e piccoli et altre opere, che ha fatto buona maniera e buon disegno e giudizio.
E se ha meritato lode in sin qui, più ne meriterà per l'avenire, adoperandosi egli con molto acquisto continuamente in Fiorenza, la quale par che si abbia eletta per patria, e dove è ai giovani di molto giovamento la concorrenza e l'emulazione.
Si è anco fatto conoscere di bello ingegno et universalmente copioso di buoni capricci Bernardo Timante Buonacorsi, il quale ebbe nella sua fanciullezza i primi principii della pittura dal Vasari, poi continuando ha tanto acquistato, che ha già servito molti anni e serve con molto favore l'illustrissimo signor don Francesco Medici principe di Firenze.
Il quale l'ha fatto e fa continuamente lavorare, onde ha condotto per sua eccellenza molte opere miniate, secondo il modo di don Giulio Clovio, come sono molti ritratti e storie di figure piccole, condotte con molta diligenza.
Il medesimo ha fatto con bell'architettura ordinatagli dal detto Prencipe uno studiolo con partimenti d'ebano e colonne di elitropie e diaspri orientali e di lapislazzari, che hanno base e capitelli d'argento intagliati, et oltre ciò ha l'ordine di quel lavoro, per tutto ripieno di gioie e vaghissimi ornamenti d'argento, con belle figurette.
Dentro ai quali ornamenti vanno miniature, e fra' termini accoppiati figure tonde d'argento e d'oro, tramezzate da altri partimenti di agate, diaspri, elitropie, sardoni, corniuole et altre pietre finissime, che il tutto qui raccontare sarebbe lunghissima storia.
Basta che in questa opera, la quale è presso al fine, ha mostrato Bernardo bellissimo ingegno et atto a tutte le cose; servendosene quel signore a molte sue ingegnose fantasie di tirari per pesi d'argani e di linee, oltra che ha con facilità trovato il modo di fondere il cristallo di montagna e purificarlo e fattone istorie e vasi di più colori, che a tutto Bernardo s'intermette, come ancora si vedrà nel condurre in poco tempo vasi di porcellana, che hanno tutta la perfezzione che più antichi e perfetti; che di questo n'è oggi maestro eccellentissimo Giulio da Urbino, quale si trova appresso allo illustrissimo duca Alfonso Secondo di Ferrara, che fa cose stupende di vasi di terre di più sorte, et a quegli di porcellana dà garbi bellissimi, oltre al condurre della medesima terra duri e con pulimento straordinario quadrini et ottangoli e tondi per far pavimenti contrafatti che paiono pietre mischie, che di queste cose ha il modo il Principe nostro da farne.
Ha dato sua eccellenzia principio ancora a fare un tavolino di gioie con ricco ornamento per accompagnarne un altro del duca Cosimo suo padre, finito non è molto col disegno del Vasari, che è cosa rara, commesso tutto nello alabastro orientale e ne' pezzi grandi di diaspri e chiropie, corgnole, lapislazzari et agate con altre pietre e gioie di pregio che vagliono ventimila scudi; questo tavolino è stato condotto da Bernardino di Porfirio da Leccio, del contado di Fiorenza, il quale è eccellente in questo, che condusse a Messer Bindo Altoviti parimente di diaspri un ottangolo commessi nell'ebano et avorio col disegno del medesimo Vasari, il quale Bernardino è oggi al servigio di loro eccellenzie.
E per tornare a Bernardo dico che nella pittura il medesimo mostrò altresì, fuori dell'aspettazione di molti, che sa non meno fare le figure grandi che le piccole, quando fece quella gran tela, di cui si è ragionato, nell'essequie di Michelagnolo.
Fu anco adoperato Bernardo con suo molto onore nelle nozze del suo e nostro Prencipe, in alcune mascherate, nel Trionfo de' Sogni, come si dirà, negl'intermedii della commedia, che fu recitata in palazzo, come da altri è stato raccontato distesamente.
E se avesse costui quando era giovinetto (se bene non passa anco trenta anni) atteso agli studii dell'arte, sì come attese al modo di fortificare, in che spese assai tempo, egli sarebbe oggi per aventura a tal grado d'eccellenza che altri ne stupirebbe, tuttavia si crede abbia a conseguire per ogni modo il medesimo fine, se bene alquanto più tardi, perciò che è tutto ingegno e virtù.
A che si aggiugne l'essere sempre esercitato et adoperato dal suo signore et in cose onoratissime.
È anco nostro accademico Giovanni della Strada fiammingo, il quale ha buon disegno, bonissimi capricci, molta invenzione e buon modo di colorire.
Et avendo molto acquistato in dieci anni che ha lavorato in palazzo a tempera, a fresco et a olio, con ordine e disegni di Giorgio Vasari, può stare a paragone di quanti pittori ha al suo servizio il detto signor Duca.
Ma oggi la principal cura di costui si è fare cartoni per diversi panni d'arazzo, che fa fare pur con l'ordine del Vasari il Duca et il Principe di diverse sorte, secondo le storie che hanno in alto di pittura le camere e stanze dipinte dal Vasari in palazzo, per ornamento delle quali si fanno, acciò corrisponda il parato da basso d'arazzi con le pitture di sopra.
Per le stanze di Saturno, d'Opi, di Cerere, di Giove e d'Ercole ha fatto vaghissimi cartoni per circa trenta pezzi d'arazzi.
E per le stanze di sopra, dove abita la Principessa, che sono quattro dedicate alla virtù delle donne, con istorie di Romane, Ebree, Greche e Toscane, cioè le Sabine, Ester, Penelope e Gualdrada, ha fatto similmente cartoni per panni bellissimi, e similmente per dieci panni d'un salotto, nei quali è la vita dell'uomo.
Et il simile ha fatto per le cinque stanze di sotto, dove abita il Principe, dedicate a Davit, Salamone, Ciro et altri.
E per venti stanze del palazzo del Poggio a Caiano, che se ne fanno i panni giornalmente, ha fatto con l'invenzione del Duca ne' cartoni le cacce che si fanno di tutti gl'animali et i modi d'uccellare e pescare, con le più strane e belle invenzioni del mondo.
Nelle quali varietà d'animali, d'ucelli, di pesci, di paesi e di vestiri, con cacciatori a piedi et a cavallo, et uccellatori in diversi abiti e pescatori ignudi, ha mostrato e mostra di essere veramente valent'uomo e d'aver bene appreso la maniera italiana con pensiero di vivere e morire a Fiorenza in servigio de' suoi illustrissimi signori, in compagnia del Vasari e degl'altri accademici.
È nella medesima maniera creato del Vasari et accademico Iacopo di maestro Piero Zucca fiorentino, giovane di venticinque o ventisei anni, il quale, avendo aiutato al Vasari fare la maggior parte delle cose di palazzo et in particolare il palco della sala maggiore, ha tanto acquistato nel disegno e nella pratica de' colori, con molta sua fatica, studio et assiduità, che si può oggi annoverare fra i primi giovani pittori della nostra Accademia.
E l'opere che ha fatto da sé solo nell'essequie di Michelagnolo, nelle nozze dell'illustrissimo signor Principe et altre a diversi amici suoi, nelle quali ha mostro intelligenza, fierezza, diligenza, grazia e buon giudizio, l'hanno fatto conoscere per giovane virtuoso e valente dipintore, ma più lo faranno quelle che da lui si possono sperare nell'avenire, con tanto onore della sua patria quanto gli abbia fatto in alcun tempo altro pittore.
Parimente fra gl'altri giovani pittori dell'Accademia si può dire ingegnoso e valente Santi Tidi, il quale, come in altri luoghi s'è detto, dopo essersi molti anni esercitato in Roma, è tornato finalmente a godersi Fiorenza, la quale ha per sua patria, se bene i suoi maggiori sono dal Borgo San Sepolcro et in quella città d'assai orrevole famiglia.
Costui nell'essequie del Buonarruoto, e nelle dette nozze della serenissima Principessa, si portò certo nelle cose che dipinse bene affatto, ma maggiormente e con molta et incredibile fatica nelle storie che dipinse nel teatro, che fece per le medesime nozze all'illustrissimo signor Paol Giordano Orsino, duca di Bracciano, in sulla piazza di San Lorenzo, nel quale dipinse di chiaro scuro in più pezzi di tele grandissime istorie de' fatti d'i più uomini illustri di casa Orsina.
Ma quello che vaglia si può meglio vedere in due tavole che sono fuori di sua mano, una delle quali è in Ogni Santi o vero San Salvadore di Firenze (che così è chiamato oggi) già chiesa de' padri Umiliati et oggi de' Zoccolanti, nella quale è la Madonna in alto et a basso San Giovanni, San Girolamo et altri Santi.
E nell'altra, che è in San Giuseppo dietro a Santa Croce, alla cappella de' Guardi, è una Natività del Signore fatta con molta diligenzia e con molti ritratti di naturale, senza molti quadri di Madonne et altri ritratti, che ha fatto in Roma et in Fiorenza e pitture lavorate in Vaticano, come s'è detto di sopra.
Sono anco della medesima Accademia alcun'altri giovani pittori, che si sono adoperati negl'apparati sopra detti, parte fiorentini e parte dello stato.
Alessandro del Barbiere fiorentino, giovane di venticinque anni, oltre a molte altre cose, dipinse in palazzo per le dette nozze, con disegni et ordine del Vasari, le tele delle facciate della sala grande, dove sono ritratte le piazze di tutte le città del dominio del signor Duca, nelle quali si portò certo molto bene e mostrossi giovane giudizioso e da sperare ogni riuscita.
Hanno similmente aiutato al Vasari in queste et altre opere molti altri suoi creati et amici: Domenico Benci, Alessandro Fortori d'Arezzo, Stefano Veltroni suo cugino et Orazio Porta, amendue dal Monte San Savino, Tomaso del Verrocchio.
Nella medesima Accademia sono anco molti eccellenti artefici forestieri de' quali si è parlato a lungo di sopra in più luoghi; e però basterà che qui si sappino i nomi, acciò siano fra gl'altri accademici in questa parte annoverati.
Sono dunque Federigo Zucchero, Prospero Fontana e Lorenzo Sabatini bolognesi, Marco da Faenza, Tiziano Vecello, Paulo Veronese, Giuseppo Salviati, il Tintoretto, Alessandro Vittoria, il Danese scultori, Batista Farinato veronese pittore, et Andrea Palladio architetto.
Ora per dire similmente alcuna cosa degli scultori accademici e dell'opere loro, nelle quali non intendo molto volere allargarmi, per esser essi vivi e per lo più di chiarissima fama e nomea, dico che Benvenuto Cellini cittadino fiorentino (per cominciarmi dai più vecchi e più onorati), oggi scultore, quando attese all'orefice in sua giovanezza, non ebbe pari, né aveva forse in molti anni in quella professione et in fare bellissime figure di tondo e basso rilievo e tutte altre opere di quel mestiero: legò gioie et adornò di castoni maravigliosi, con figurine tanto ben fatte et alcuna volta tanto bizzarre e capricciose, che non si può, né più, né meglio imaginare.
Le medaglie ancora, che in sua gioventù fece d'oro e d'argento, furono condotte con incredibile diligenza, né si possono tanto lodare che basti.
Fece in Roma a papa Clemente Settimo un bottone da piviale bellissimo accomodandovi ottimamente una punta di diamante intornata da alcuni putti fatti di piastra d'oro et un Dio Padre mirabilmente lavorato, onde oltre al pagamento ebbe in dono da quel Papa l'ufizio d'una mazza.
Essendogli poi dal medesimo Pontefice dato a fare un calice d'oro, la coppa del quale dovea esser retta da figure rappresentanti le Virtù teologiche, lo condusse assai vicino al fine con artifizio maravigliosissimo.
Ne' medesimi tempi non fu chi facesse meglio, fra molti che si provarono, le medaglie di quel Papa di lui, come ben sanno coloro che le videro e n'hanno.
E perché ebbe per queste cagioni cura di fare i conii della Zecca di Roma, non sono mai state vedute più belle monete di quelle che allora furono stampate in Roma.
E perciò dopo la morte di Clemente, tornato Benvenuto a Firenze, fece similmente i conii con la testa del duca Alessandro per le monete per la Zecca di Firenze, così belli e con tanta diligenza, che alcune di esse si serbano oggi come bellissime medaglie antiche e meritamente, perciò che in queste vinse se stesso.
Datosi finalmente Benvenuto alla scultura et al fare di getto, fece in Francia molte cose di bronzo, d'argento e d'oro mentre stette al servizio del re Francesco in quel regno.
Tornato poi alla patria e messosi al servizio del duca Cosimo, fu prima adoperato in alcune cose da orefice, et in ultimo datogli a fare alcune cose di scultura, onde condusse di metallo la statua del Perseo, che ha tagliata la testa a Medusa, la quale è in piazza del Duca vicina alla porta del palazzo del Duca, sopra una basa di marmo con alcune figure di bronzo bellissime alte circa un braccio et un terzo l'una, la quale tutta opera fu condotta veramente con quanto studio e diligenza si può maggiore a perfezzione e posta in detto luogo degnamente a paragone della Iudit di mano di Donato, così famoso e celebrato scultore.
E certo fu maraviglia, che essendosi Benvenuto esercitato tanti anni in far figure piccole, ci condusse poi con tanta eccellenza una statua così grande.
Il medesimo ha fatto un Crucifisso di marmo tutto tondo e grande quanto il vivo, che per simile è la più rara e bella scultura che si possa vedere.
Onde lo tiene il signor Duca, come cosa a sé carissima, nel palazzo de' Pitti, per collocarlo alla cappella o vero chiesetta che fa in detto luogo, la qual chiesetta non poteva a questi tempi avere altra cosa più di sé e di sì gran prencipe; et insomma non si può quest'opera tanto lodare, che basti.
Ora, se bene potrei molto più allargarmi nell'opere di Benvenuto, il quale è stato in tutte le sue cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo, e persona che ha saputo purtroppo dire il fatto suo con i prìncipi, non meno che le mani e l'ingegno adoperare nelle cose dell'arti, non ne dirò qui altro, atteso che egli stesso ha scritto la vita e l'opere sue, et un trattato dell'oreficeria e del fondere e gettar di metallo con altre cose attenenti a tali arti e della scultura con molto più eloquenza et ordine che io qui per aventura non saprei fare.
E però quanto a lui, basti questo breve sommario delle sue più rare opere principali.
Francesco di Giuliano da San Gallo scultore, architetto et accademico, di età oggi di settanta anni, ha condotto, come si è detto nella vita di suo padre et altrove, molte opere di scultura: le tre figure di marmo alquanto maggior del vivo, che sono sopra l'altare della chiesa d'Or San Michele, Santa Anna, la Vergine e Cristo fanciullo, che sono molto lodate figure.
Alcun'altre statue, pur di marmo, alla sepoltura di Piero de' Medici a Monte Casino; la sepoltura, che è nella Nunziata, del vescovo de' Marzi, e quella di monsignor Giovio, scrittore delle storie de' suoi tempi.
Similmente d'architettura ha fatto il medesimo, et in Fiorenza et altrove, molte belle e buon'opere et ha meritato, per le sue buone qualità, di esser sempre stato come loro creatura favorito della casa de' Medici, per la servitù di Giuliano suo padre, onde il duca Cosimo, dopo la morte di Baccio d'Agnolo, gli diede il luogo che colui aveva d'architettore del duomo di Firenze.
Dell'Amannato, che è anch'egli fra i primi de' nostri accademici, essendosi detto a bastanza nella descrizione dell'opere di Iacopo Sansovino, non fa bisogno parlarne qui altrimenti.
Dirò bene che sono suoi creati et accademici Andrea Calamech da Carrara, scultore molto pratico, che ha sotto esso Amannato condotto molte figure et il quale dopo la morte di Martino sopra detto è stato chiamato a Messina nel luogo che là tenne già fra' Giovan Agnolo, nel qual luogo s'è morto.
E Batista di Benedetto, giovane che ha dato saggio di dovere, come farà, riuscire eccellente, avendo già mostro in molte opere che non è meno del detto Andrea, né di qual si vogl'altro de' giovani scultori accademici, di bell'ingegno e giudizio.
Vincenzio de' Rossi da Fiesole scultore, anch'egli architetto et accademico fiorentino, è degno che in questo luogo si faccia di lui alcuna memoria, oltre quello che se n'è detto nella vita di Baccio Bandinelli, di cui fu discepolo.
Poi dunque che si fu partito da lui, diede gran saggio di sé in Roma, ancor che fusse assai giovane, nella statua che fece nella Ritonda d'un S.
Giuseppo con Cristo fanciullo di dieci anni, ambidue figure fatte con buona pratica e bella maniera.
Fece poi nella chiesa di Santa Maria della Pace due sepolture, con i simulacri di coloro che vi son dentro sopra le casse e di fuori nella facciata alcuni Profeti di marmo di mezzo rilievo e grandi quanto il vivo, che gl'acquistarono nome di eccellente scultore, onde gli fu poi allogata dal popolo romano la statua che fece di papa Paulo Quarto, che fu posta in Campidoglio, la quale condusse ottimamente.
Ma ebbe quell'opera poco vita, perciò che, morto quel Papa, fu rovinata e gettata per terra dalla plebaccia, che oggi quegli stessi perseguita fieramente che ieri aveva posti in cielo.
Fece Vincenzio dopo la detta figura, in uno stesso marmo, due statue poco maggiori del vivo, cioè un Teseo re d'Atene, che ha rapito Elena e se la tiene in braccio in atto di conoscerla, con una troia sotto i piedi.
Delle quali figure non è possibile farne altre con più diligenza, studio, fatica e grazia.
Per che andando il duca Cosimo de' Medici a Roma, et andando a vedere non meno le cose moderne degne d'essere vedute, che l'antiche, vide, mostrandogliene Vincenzio, le dette statue, e le lodò sommamente, come meritavano; onde Vincenzio, che è gentile, le donò cortesemente, et insieme gl'offerse in quello potesse l'opera sua.
Ma sua eccellenza avendole condotte indi a non molto a Firenze nel suo palazzo de' Pitti, gliel'ha pagate buon pregio.
Et avendo seco menato esso Vincenzio, gli diede non molto dopo a fare di marmo, in figure maggiori del vivo e tutte tonde, le fatiche d'Ercole, nelle quali va spendendo il tempo, e già n'ha condotte a fine quando egli uccide Cacco e quando combatte con il Centauro.
La quale tutta opera, come è di suggetto altissima e faticosa, così si spera debba essere per artificio et eccellente opera, essendo Vincenzio di bellissimo ingegno, di molto giudizio, et in tutte le sue cose d'importanza molto considerato.
Né tacerò che sotto la costui disciplina attende con sua molta lode alla scultura Illarione Ruspoli, giovane e cittadin fiorentino, il quale non meno degli altri suoi pari accademici ha mostro di sapere et avere disegno e buona pratica in fare statue, quando insieme con gl'altri n'ha avuto occasione nell'essequie di Michelagnolo e nell'apparato delle nozze sopra dette.
Francesco Camilliani, scultore fiorentino et accademico, il quale fu discepolo di Baccio Bandinelli, dopo aver dato in molte cose saggio di essere buono scultore, ha consumato quindici anni negl'ornamenti delle fonti, dove n'è una stupendissima, che ha fatto fare il signor don Luigi di Tolledo al suo giardino di Fiorenza.
I quali ornamenti intorno a ciò sono diverse statue d'uomini e d'animali in diverse maniere, ma tutti ricchi e veramente reali e fatti senza risparmio di spesa.
Ma in fra l'altre statue che ha fatto Francesco in quel luogo, due maggiori del vivo, che rappresentano Arno e Mugnone fiumi, sono di somma bellezza, e particolarmente il Mugnone, che può stare al paragone di qual si voglia statua di maestro eccellente.
Insomma tutta l'architettura et ornamenti di quel giardino sono opera di Francesco il quale l'ha fatto per ricchezza di diverse varie fontane sì fatto, che non ha pari in Fiorenza, né forse in Italia.
E la fonte principale, che si va tuttavia conducendo a fine, sarà la più ricca e sontuosa che si possa in alcun luogo vedere, per tutti quelli ornamenti che più ricchi e maggiori possono immaginarsi e per gran copia d'acque, che vi saranno abbondantissime d'ogni tempo.
È anco accademico, e molto in grazia de' nostri prìncipi per le sue virtù, Giovan Bologna da Douay, scultore fiamingo, giovane veramente rarissimo.
Il quale ha condotto con bellissimi ornamenti di metallo la fonte che nuovamente si è fatta in sulla piazza di San Petronio di Bologna, dinanzi al palazzo de' Signori, nella quale sono, oltre gl'altri ornamenti, quattro Serene in su' canti bellissime, con varii putti attorno a maschere bizzarre e straordinarie; ma quello che più importa, ha condotto sopra e nel mezzo di detta fonte un Nettunno di braccia sei, che è un bellissimo getto, e figura studiata e condotta perfettamente.
Il medesimo, per non dire ora quante opere ha fatto di terra cruda e cotta, di cera e d'altre misture, ha fatto di marmo una bellissima Venere, e quasi condotto a fine al signor Prencipe un Sansone, grande quanto il vivo, il quale combatte a piedi con due Filistei, e di bronzo ha fatto la statua d'un Bacco maggior del vivo e tutta tonda, et un Mercurio in atto di volare, molto ingegnoso, reggendosi tutto sopra una gamba et in punta di piè, che è stata mandata all'imperatore Massimiliano come cosa che certo è rarissima.
Ma se in fin qui ha fatto molte opere e belle, ne farà molto più per l'avenire e bellissime, avendolo ultimamente fatto il signor Prencipe accomodare di stanze in palazzo e datoli a fare una statua di braccia cinque d'una Vittoria con un prigione, che va nella sala grande dirimpetto a un'altra di mano di Michelagnolo.
Farà per quel Principe opere grandi e d'importanza, nelle quali averà largo campo di mostrare la sua molta virtù.
Hanno di mano di costui molte opere e bellissimi modelli di cose diverse Messer Bernardo Vecchietti gentiluomo fiorentino, e maestro Bernardo di monna Mattea muratore ducale, che ha condotto tutte le fabriche disegnate dal Vasari con gran eccellenza.
Ma non meno di costui i suoi amici e d'altri scultori accademici è giovane veramente raro e di bello ingegno Vincenzio Danti perugino, il quale si ha eletto, sotto la protezzione del duca Cosimo, Fiorenza per patria.
Attese costui essendo giovinetto all'orefice, e fece in quella professione cose da non credere.
E poi datosi a fare di getto, gli bastò l'animo, di venti anni, gettare di bronzo la statua di papa Giulio Terzo alta quattro braccia, che sedendo dà la benedizione, la quale statua, che è ragionevolissima, è oggi in sulla piazza di Perugia.
Venuto poi a Fiorenza al servizio del signor duca Cosimo, fece un modello di cera bellissimo maggior del vivo d'un Ercole che fa scoppiare Anteo, per farne una figura di bronzo, da dovere essere posta sopra la fonte principale del giardino di Castello, villa del detto signor Duca; ma fatta la forma addosso al detto modello, nel volere gettarla di bronzo non venne fatta, ancora che due volte si rimetessi, o per mala fortuna, o perché il metallo fusse abruciato, o altra cagione.
Voltosi dunque, per non sottoporre le fatiche al volere della fortuna, a lavorare di marmo, condusse in poco tempo di un pezzo solo di marmo due figure, cioè l'Onore, che ha sotto l'Inganno, con tanta diligenza, che parve non avesse mai fatto altro che maneggiare i scarpelli et il mazzuolo.
Onde alla testa di quell'Onore, che è bella, fece i capegli ricci tanto ben traforati, che paiono naturali e proprii mostrando, oltre ciò, di benissimo intendere gl'ignudi, la quale statua è oggi nel cortile della casa del signore Sforza Almieri, nella via de' Servi.
A Fiesole, per lo medesimo signore Sforza, fece molti ornamenti in un suo giardino et intorno a certe fontane.
Dopo condusse al signor Duca alcuni bassi rilievi di marmo e di bronzo, che furono tenuti bellissimi, per essere egli in questa maniera di sculture per aventura non inferiore a qualunche altro.
Appresso gettò, pur di bronzo, la grata della nuova cappella fatta in palazzo nelle stanze nuove, dipinte da Giorgio Vasari, e con essa un quadro di molte figure di basso rilievo, che serra un armario dove stanno scritture d'importanza del Duca.
Et un altro quadro alto un braccio e mezzo e largo due e mezzo, dentrovi Moisè che per guarire il popolo ebreo dal morso delle serpi, ne pone una sopra il legno.
Le quali tutte cose sono appresso detto signore, di ordine del quale fece la porta della sagrestia della pieve di Prato, e sopra essa una cassa di marmo con una Nostra Donna alta tre braccia e mezzo, col Figliuolo ignudo appresso e due puttini, che mettono in mezzo la testa di basso rilievo di Messer Carlo de' Medici, figliuolo naturale di Cosimo Vecchio e già proposto di Prato, le cui ossa, dopo esser state lungo tempo in un deposito di mattoni, ha fatto porre il duca Cosimo in detta cassa et onoratolo di quel sepolcro.
Ben è vero che la detta Madonna et il basso rilievo di detta testa, che è bellissima, avendo cattivo lume non mostrano a gran pezzo quel che sono.
Il medesimo Vincenzio ha poi fatto per ornarne la fabrica de' magistrati alla Zecca, nella testata sopra la loggia che è sul fiume d'Arno, un'arme del Duca messa in mezzo da due figure nude, maggiori del vivo, l'una fatta per l'Equità e l'altra per lo Rigore.
E d'ora in ora aspetta il marmo per fare la statua di esso signore Duca, maggiore assai del vivo, di cui ha fatto un modello, la quale va posta a sedere sopra detta arme, per compimento di quell'opera, la quale si doverrà murare di corto insieme col resto della facciata, che tuttavia ordina il Vasari che è architetto di quella fabrica.
Ha anco fra mano e condotta a bonissimo termine una Madonna di marmo maggiore del vivo, ritta e col figliuolo Gesù di tre mesi in braccio, che sarà cosa bellissima.
Le quali opere lavora insieme con altre nel monasterio degl'Angeli di Firenze, dove si sta quietamente in compagnia di que' monaci suoi amicissimi, nelle stanze che già quivi tenne Messer Benedetto Varchi, di cui fa esso Vincenzio un ritratto di basso rilievo, che sarà bellissimo.
Ha Vincenzio un suo fratello nell'Ordine de' frati Predicatori, chiamato frate Ignazio Danti quale nelle cose di cosmografia eccellentissimo e di raro ingegno e tanto che il duca Cosimo de' Medici gli fa condurre un'opera che di quella professione non è stato mai per tempo nessuno fatta, né la maggiore, né la più perfetta; e questo è che sua eccellenzia con l'ordine del Vasari, sul secondo piano delle stanze del suo palazzo ducale, ha di nuovo murato a posta et aggiunto alla guardaroba una sala assai grande, et intorno a quella ha accomodata di armari alti braccia sette con ricchi intagli di legnami di noce, per riporvi dentro le più importanti cose e di pregio e di bellezza che abbi sua eccellenzia; questi ha nelle porte di detti armari spartito dentro agl'ornamenti di quegli cinquantasette quadri d'altezza di braccia due incirca e larghi a proporzione, dentro a' quali sono con grandissima diligenzia fatte in sul legname a uso di minii dipinte a olio le tavole di Tolomeo misurate perfettamente tutte, e ricorrette secondo gli autori nuovi e con le carte giuste delle navigazioni, con somma diligenzia fatte le scale loro da misurare, et i gradi dove sono in quelle, e' nomi antichi e moderni.
E la sua divisione di questi quadri sta in questo modo: all'entrata principale di detta sala sono negli sguanci e grossezza degli armarini, in quattro quadri, quattro mezze palle in prospettiva: nelle due da basso son l'universale della terra e nelle due di sopra l'universale del cielo, con le sue imagini e figure celesti; poi come s'entra dentro a man ritta è tutta l'Europa in 14 tavole e quadri, una dreto all'altra fino al mezzo della facciata che è a sommo dirimpetto alla porta principale, nel qual mezzo s'è posto l'oriolo con le ruote e con le spere de' pianeti che giornalmente fanno entrando i lor moti: quest'è quel tanto famoso e nominato oriolo fatto da Lorenzo della Volpaia fiorentino.
Di sopra a queste tavole è l'Affrica in 11 tavole, fino a detto oriolo; séguita poi di là dal detto oriolo l'Asia nell'ordine da basso, e camina parimente in 14 tavole dell'Asia, in altre 14 tavole, seguitano le Indie Occidentali cominciando come le altre dall'oriolo e seguitando fino alla detta porta principale, in tutto tavole 57; è poi ordinato nel basamento da basso in altretanti quadri attorno a torno, che vi saranno a dirittura a piombo di dette tavole tutte l'erbe e tutti gli animali ritratti di naturale secondo la qualità che producano que' paesi.
Sopra la cornice di detti armari, ch'è la fine, vi va sopra alcuni risalti che dividono detti quadri che vi si porranno alcune teste antiche di marmo di quegli imperatori e prìncipi che l'hanno possedute, che sono in essere, e nelle facce piane fino alla cornice del palco, quale tutto di legname intagliato, et in 12 gran quadri dipinto per ciascuno quattro immagini celesti, che farà 48, e grandi poco men del vivo con le loro stelle; sono sotto (come ho detto) in dette facce 300 ritratti naturali di persone segnalate da 500 anni in qua o più dipinte in quadri a olio (come se ne farà nota nella tavola de' ritratti, per non far ora sì lunga storia con i nomi loro) tutti d'una grandezza e con un medesimo ornamento intagliato di legno di noce, cosa rarissima.
Nelli due quadri di mezzo del palco larghi braccia quattro l'uno, dove sono le immagini celesti, e' quali con facilità si aprono senza veder dove si nascondano, in un luogo a uso di cielo saranno riposte due gran palle alte ciascuna braccia tre e mezzo, nell'una delle quali anderà tutta la terra distintamente, e questa si calerà con un arganetto che non vedrà fino a basso e poserà in un piede bilicato che ferma si vedrà ribattere tutte le tavole che sono a torno ne' quadri degli armari et aranno un contrasegno nella palla da poterle ritrovar facilmente.
Nell'altra palla saranno le 48 immagini celesti accomodate in modo che con essa saranno tutte le operazioni dello astrolabio perfettissimamente.
Questo capriccio et invenzione è nata dal duca Cosimo per mettere insieme una volta queste cose del cielo e della terra giustissime e senza errori e da poterle misurare e vedere, et a parte e tutte insieme come piacerà a chi si diletta e studia questa bellissima professione, del che m'è parso debito mio come cosa degna di esser nominata farne in questo luogo per la virtù di frate Ignazio memoria, e per la grandezza di questo Principe che ci fa degni di godere sì onorate fatiche e si sappia per tutto il mondo.
E tornando agl'uomini della nostra Accademia, dico, ancora che nella vita del Tribolo si sia parlato d'Antonio di Gino Lorenzi da Settignano scultore, dico qui con più ordine, come in suo luogo, che egli condusse sotto esso Tribolo suo maestro la detta statua d'Esculapio che è a Castello e quattro putti che sono nella fonte maggiore di detto luogo, e poi ha fatto alcune teste et ornamenti che sono d'intorno al nuovo vivaio di Castello, che è lassù alto in mezzo a diverse sorti d'arbori di perpetua verzura.
Et ultimamente ha fatto, nel bellissimo giardino delle stalle vicino a San Marco, bellissimi ornamenti a una fontana isolata, con molti animali acquatici fatti di marmo e di mischi bellissimi.
Et in Pisa condusse già con ordine del Tribolo sopra detto la sepoltura del Corte filosofo e medico eccellentissimo con la sua statua e due putti di marmo bellissimi.
Et oltre a queste va tuttavia nuove opere facendo per il Duca di animali di mischi et uccelli per fonti, lavori dificilissimi, che lo fanno degnissimo di essere nel numero di questi altri accademici.
Parimente un fratello di costui, detto Stoldo di Gino Lorenzi, giovane di trenta anni, si è portato di maniera infino a ora in molte opere di sculture, che si può con verità oggi annoverare fra i primi giovani della sua professione e porre fra loro ne' luoghi più onorati.
Ha fatto in Pisa di marmo una Madonna annunziata dall'Angelo, che l'ha fatto conoscere per giovane di bello ingegno e giudizio.
Et un'altra bellissima statua gli fece fare Luca Martini in Pisa, che poi dalla signora duchessa Leonora fu donata al signor don Garzia di Tolledo suo fratello, che l'ha posta in Napoli al suo giardino di Chiaia.
Ha fatto il medesimo con ordine di Giorgio Vasari, nel mezzo della facciata del palazzo de' Cavalieri di Santo Stefano in Pisa e sopra la porta principale, un'arme del signor Duca gran Mastro, di marmo, grandissima, messa in mezzo da due statue tutte tonde, la Religione e la Giustizia, che sono veramente bellissime e lodatissime da tutti coloro che se n'intendono.
Gli ha poi fatto fare il medesimo signore, per lo suo giardino de' Pitti, una fontana simile al bellissimo trionfo di Nettunno, che si vide nella superbissima mascherata che fece sua eccellenza nelle dette nozze del signor Principe illustrissimo.
E questo basti quanto a Stoldo Lorenzi, il quale è giovane e va continuamente lavorando et acquistandosi maggiormente, fra' suoi compagni accademici, fama et onore.
Della medesima famiglia de' Lorenzi da Settignano è Batista, detto del Cavaliere, per esser stato discepolo del cavaliere Baccio Bandinelli; il quale ha condotto di marmo tre statue grandi quanto il vivo, le quali gli ha fatto fare Bastiano del Pace cittadin fiorentino, per i Guadagni, che stanno in Francia, e' quali l'hanno poste in un loro giardino, e sono una Primavera ignuda, una State et un Verno, che deono essere accompagnate da un Autunno, le quali statue da molti che l'hanno vedute sono state tenute belle e ben fatte oltre modo.
Onde ha meritato Batista di essere stato eletto dal signor Duca a fare la cassa con gl'ornamenti et una delle tre statue che vanno alla sepoltura di Michelagnolo Buonarruoti, le quali fanno con disegno di Giorgio Vasari sua eccellenza e Lionardo Buonarruoti; la quale opera si vede che Batista va conducendo ottimamente a fine con alcuni putti e la figura di esso Buonarruoto dal mezzo in su.
La seconda delle dette tre figure che vanno al detto sepolcro, che hanno a essere la Pittura, Scultura et Architettura, si è data a fare a Giovanni di Benedetto da Castello, discepolo di Baccio Bandinelli et accademico, il quale lavora per l'Opera di Santa Maria del Fiore l'opere di basso rilievo che vanno d'intorno al coro, che oggimai è vicino alla sua perfezzione, nelle quali va molto imitando il suo maestro e si porta in modo, che di lui spera ottima riuscita; né avverrà altrimenti, perciò che è molto assiduo a lavorare et agli studii della sua professione.
E la terza si è allogata a Valerio Cioli da Settignano, scultore et accademico, perciò che l'altre opere che ha fatto in sin qui sono state tali, che si pensa abbia a riuscire la detta figura sì fatta, che non fia se non degna di essere al sepolcro di tant'uomo collocata.
Valerio, il quale è giovane di ventisei anni, ha in Roma al giardino del cardinale di Ferrara a Monte Cavallo restaurate molte antiche statue di marmo, rifacendo a chi braccia, a chi piedi, et ad altra altre parti, che mancavano.
Et il simile ha fatto poi nel palazzo de' Pitti a molte statue, che v'ha condotto per ornamento d'una gran sala il Duca, il quale ha fatte fare al medesimo di marmo la statua di Morgante nano ignuda, la quale è tanto bella e così simile al vero riuscita, che forse non è mai stato veduto altro mostro così ben fatto, né condotto con tanta diligenza simile al naturale e proprio; e parimente gl'ha fatto condurre la statua di Pietro detto Barbino, nano ingegnoso, letterato e molto gentile, favorito dal Duca nostro.
Per le quali dico tutte cagioni ha meritato Valerio che gli sia stata allogata da sua eccellenza la detta statua che va alla sepoltura del Buonarruoto, unico maestro di tutti questi accademici valent'uomini.
Quanto a Francesco Moschino scultore fiorentino, essendosi di lui in altro luogo favellato a bastanza, basta dir qui che anch'egli è accademico, e che sotto la protezzione del duca Cosimo va continuando di lavorare nel Duomo di Pisa e che nell'apparato delle nozze si portò ottimamente negl'ornamenti della porta principale del palazzo ducale.
Di Domenico Poggini similmente, essendosi detto di sopra che è scultore valent'uomo e che ha fatto una infinità di medaglie molto simili al vero et alcun'opere di marmo e di getto, non dirò qui altro di lui se non che meritamente è de' nostri accademici, che in dette nozze fece alcune statue molto belle, le quali furono poste sopra l'arco della Religione al canto alla Paglia, e che ultimamente ha fatto una nuova medaglia del Duca similissima al naturale e molto bella e continuamente va lavorando.
Giovanni Fancegli, o vero, come altri il chiamano, Giovanni da Stocco, accademico, ha fatto molte cose di marmo e di pietra, che sono riuscite buone sculture, e fra l'altre è molto lodata un'arme di palle con due putti et altri ornamenti, posta in alto sopra le due finestre inginocchiate della facciata di ser Giovanni Conti in Firenze.
Et il medesimo dico di Zanobi Lastricati il quale come buono e valente scultore ha condotto e tuttavia lavora molte opere di marmo e di getto, che l'hanno fatto dignissimo d'essere nell'Accademia in compagnia de' sopradetti.
E fra l'altre sue cose è molto lodato un Mercurio di bronzo, che è nel cortile del palazzo di Messer Lorenzo Ridolfi, per esser figura stata condotta con tutte quell'avvertenze che si richieggiono.
Finalmente sono stati accettati nell'Accademia alcuni giovani scultori, che nell'apparato detto delle nozze di sua altezza hanno fatto opere onorate e lodevoli.
E questi sono stati fra' Giovan Vincenzio de' Servi, discepolo di fra' Giovan Agnolo, Ottaviano del Collettaio, creato di Zanobi Lastricati, e Pompilio Lancia, figliuolo di Baldassarre da Urbino architetto e creato di Girolamo Genga.
Il quale Pompilio nella mascherata detta della Geneologia degli dei, ordinata per lo più e quanto alle machine dal detto Baldassarre suo padre, si portò in alcune cose ottimamente.
DESCRIZIONE DELL'OPERE DI GIORGIO VASARI PITTORE ET ARCHITETTO ARETINO
Avendo io in fin qui ragionato dell'opere altrui, con quella maggior diligenza e sincerità che ha saputo e potuto l'ingegno mio, voglio anco nel fine di queste mie fatiche raccòrre insieme e far note al mondo l'opere che la divina bontà mi ha fatto grazia di condurre; perciò che, se bene elle non sono di quella perfezzione che io vorrei, si vedrà nondimeno da chi vorrà con sano occhio riguardarle, che elle sono state da me con istudio, diligenza et amorevole fatica lavorate, e perciò, se non degne di lode, almeno di scusa; sanzaché, essendo pur fuori e veggendosi, non le posso nascondere.
E però che potrebbono, per aventura, essere scritte da qualcun altro, è pur meglio che io confessi il vero, et accusi da me stesso la mia imperfezzione, la quale conosco da vantaggio; sicuro di questo, che se, come ho detto, in loro non si vedrà eccellenza e perfezzione, vi si scorgerà per lo meno un ardente disiderio di bene operare, et una grande et indefessa fatica, e l'amore grandissimo che io porto alle nostre arti.
Onde averrà secondo le leggi, confessando io apertamente il mio difetto, che me ne sarà una gran parte perdonato.
Per cominciarmi dunque dai miei principii, dico che avendo a bastanza favellato dell'origine della mia famiglia, della mia nascita e fanciullezza, e quanto io fussi da Antonio mio padre con ogni sorte d'amorevolezza incaminato nella via delle virtù, et in particolare del disegno, al quale mi vedeva molto inclinato, nella vita di Luca Signorelli da Cortona, mio parente, in quella di Francesco Salviati et in molti altri luoghi della presente opera, con buone occasioni non starò a replicar le medesime cose.
Dirò bene, che dopo avere io ne' miei primi anni disegnato quante buone pitture sono per le chiese d'Arezzo, mi furono insegnati i primi principii, con qualche ordine, da Guglielmo da Marzilla franzese, di cui avemo di sopra raccontato l'opere e la vita.
Condotto poi l'anno 1524 a Fiorenza da Silvio Passerini cardinale di Cortona, attesi qualche poco al disegno sotto Michelagnolo, Andrea del Sarto et altri.
Ma essendo l'anno 1527 stati cacciati i Medici di Firenze, et in particolare Alessandro et Ippolito, coi quali aveva così fanciullo gran servitù per mezzo di detto Cardinale, mi fece tornare in Arezzo don Antonio mio zio paterno, essendo di poco avanti morto mio padre di peste; il quale don Antonio tenendomi lontano dalla città, perché io non appestassi, fu cagione, che per fuggire l'ozio, mi andai esercitando pel contado d'Arezzo, vicino ai nostri luoghi, in dipignere alcune cose a fresco ai contadini del paese, ancor che io non avessi quasi ancor mai tocco colori; nel che fare m'avvidi che il provarsi e fare da sé aiuta, insegna e fa che altri fa bonissima pratica.
L'anno poi 1528, finita la peste, la prima opera che io feci fu una tavoletta nella chiesa di San Piero d'Arezzo de' frati de' Servi, nella quale, che è appoggiata a un pilastro, sono tre mezze figure: Sant'Agata, San Rocco e San Bastiano.
La qual pittura, vedendola il Rosso, pittore famosissimo, che di que' giorni venne in Arezzo, fu cagione che conoscendovi qualche cosa di buono, cavata dal naturale, mi volle conoscere e che poi m'aiutò di disegni e di consiglio.
Né passò molto che per suo mezzo mi diede Messer Lorenzo Gamurrini a fare una tavola, della quale mi fece il Rosso il disegno, et io poi la condussi con quanto più studio, fatica e diligenza mi fu possibile, per imparare et acquistarmi un poco di nome.
E se il potere avesse agguagliato il volere sarei tosto divenuto pittore ragionevole, cotanto mi affaticava e studiava le cose dell'arte, ma io trovava le difficultà molto maggiori di quello che a principio aveva stimato.
Tuttavia, non perdendomi d'animo, tornai a Fiorenza, dove, veggendo non poter se non con lunghezza di tempo divenir tale che io aiutassi tre sorelle e due fratelli minori di me, statimi lasciati da mio padre, mi posi all'orefice; ma vi stetti poco, perciò che venuto il campo a Fiorenza l'anno 1529, me n'andai con Manno orefice e mio amicissimo a Pisa, dove, lasciato da parte l'esercizio dell'orefice, dipinsi a fresco l'arco che è sopra la porta della Compagnia vecchia de' Fiorentini, et alcuni quadri a olio, che mi furono fatti fare per mezzo di don Miniato Pitti, abbate allora d'Agnano fuor di Pisa, e di Luigi Guicciardini, che in quel tempo era in Pisa.
Crescendo poi più ogni giorno la guerra, mi risolvei tornarmene in Arezzo, ma non potendo per la diritta via et ordinaria, mi condussi per le montagne di Modena a Bologna; dove, trovando che si facevano per la coronazione di Carlo Quinto alcuni archi trionfali di pittura, ebbi così giovinetto da lavorare con mio utile et onore.
E perché io disegnava assai acconciamente, arei trovato da starvi e da lavorare, ma il disiderio che io aveva di riveder la mia famiglia e' parenti, fu cagione che, trovata buona compagnia, me ne tornai in Arezzo, dove, trovato in buono essere le cose mie, per la diligente custodia avutane dal detto don Antonio mio zio, quietai l'animo et attesi al disegno, facendo anco alcune cosette a olio di non molta importanza.
Intanto, essendo il detto don Miniato Pitti fatto non so se abbate o priore di Santa Anna, monasterio di Monte Oliveto in quel di Siena, mandò per me; e così feci a lui et all'Albenga loro generale alcuni quadri et altre pitture.
Poi, essendo il medesimo fatto abbate di San Bernardo d'Arezzo, gli feci nel poggiuolo dell'organo, in due quadri a olio, Iobbe e Moisè.
Per che, piaciuta a que' monaci l'opera, mi feciono fare innanzi alla porta principale della chiesa nella volta e facciate d'un portico alcune pitture a fresco, cioè i quattro Evangelisti con Dio Padre nella volta et alcun'altre figure grandi quanto il vivo, nelle quali se bene, come giovane poco sperto, non feci tutto che arebbe fatto un più pratico, feci nondimeno quello che io seppi e cosa che non dispiacque a que' padri, avuto rispetto alla mia poca età e sperienza.
Ma non sì tosto ebbi compiuta quell'opera, che, passando il cardinale Ipolito de' Medici per Arezzo in poste, mi condusse a Roma a' suoi servigii, come s'è detto nella vita del Salviati, là dove ebbi commodità, per cortesia di quel signore, di attendere molti mesi allo studio del disegno.
E potrei dire con verità questa comodità e lo studio di questo tempo essere stato il mio vero e principal maestro in questa arte, se bene per innanzi mi aveano non poco giovato i sopra nominati, e non mi s'era mai partito del cuore un ardente desiderio d'imparare et uno indefesso studio di sempre disegnare giorno e notte.
Mi furono anco di grande aiuto in que' tempi le concorrenze de' giovani miei eguali e compagni, che poi sono stati per lo più eccellentissimi nella nostra arte.
Non mi fu anco se non assai pungente stimolo il disiderio della gloria et il vedere molti esser riusciti rarissimi e venuti a gradi et onori.
Onde diceva fra me stesso alcuna volta: "Perché non è in mio potere con assidua fatica e studio procacciarmi delle grandezze e gradi che s'hanno acquistato tanti altri? Furono pure anch'essi di carne e d'ossa, come son io".
Cacciato dunque da tanti e sì fieri stimoli e dal bisogno che io vedeva avere di me la mia famiglia, mi disposi a non volere perdonare a niuna fatica, disagio, vigilia e stento per conseguire questo fine.
E così propostomi nell'animo, non rimase cosa notabile allora in Roma, né poi in Fiorenza et altri luoghi ove dimorai, la quale io in mia gioventù non disegnassi: e non solo di pitture, ma anche di sculture et architetture antiche e moderne, et oltre al frutto ch'io feci in disegnando la volta e cappella di Michelagnolo, non restò cosa di Raffaello, Pulidoro e Baldassarre da Siena, che similmente io non disegnassi in compagnia di Francesco Salviati, come già s'è detto nella sua vita.
Et acciò che avesse ciascuno di noi i disegni d'ogni cosa, non disegnava il giorno l'uno quello che l'altro, ma cose diverse; di notte poi ritraevamo le carte l'uno dell'altro, per avanzar tempo e fare più studio, per non dir nulla che le più volte non mangiavamo la mattina se non così ritti, e poche cose.
Dopo la quale incredibile fatica, la prima opera che m'uscisse di mano, come di mia propria fucina, fu un quadro grande di figure quanto il vivo d'una Venere con le Grazie, che la adornavano e facevan bella, la quale mi fece fare il cardinale de' Medici; del qual quadro non accade parlare, perché fu cosa da giovanetto, né io lo toccherei, se non che mi è grato ricordarmi ancor di que' primi principii e molti giovamenti nel principio dell'arti.
Basta che quel signore et altri mi diedero a credere che fusse un non so che di buon principio e di vivace e pronta fierezza.
E perché fra l'altre cose vi avea fatto per mio capriccio un satiro libidinoso, il quale, standosi nascosto fra certe frasche, si rallegrava e godeva in guardare le Grazie e Venere ignude, ciò piacque di maniera al cardinale, che, fattomi tutto di nuovo rivestire, diede ordine che facessi in un quadro maggiore pur a olio la battaglia de' satiri intorno a' fauni, silvani e putti, che quasi facessero una baccanalia; per che, messovi mano, feci il cartone e dopo abbozzai di colori la tela, che era lunga dieci braccia.
Avendo poi a partire il cardinale per la volta d'Ungheria, fattomi conoscere a papa Clemente, mi lasciò in protezione di Sua Santità che mi dette in custodia del signor Ieronimo Montaguto suo maestro di camera, con lettere che volendo io fuggire l'aria di Roma quella state, io fussi ricevuto a Fiorenza dal duca Alessandro, il che sarebbe stato bene che io avessi fatto; perciò che volendo io pure stare in Roma, fra i caldi, l'aria e la fatica, amalai di sorte, che per guarire fui forzato a farmi portare in ceste ad Arezzo.
Pure, finalmente guarito intorno alli dieci del dicembre vegnente, venni a Fiorenza dove fui dal detto Duca ricevuto con buona cera, e poco appresso dato in custodia al magnifico Messer Ottaviano de' Medici, il quale mi prese di maniera in protezzione, che sempre, mentre visse, mi tenne in luogo di figliuolo; la buona memoria del quale io riverirò sempre e ricorderò come d'un mio amorevolissimo padre.
Tornato dunque ai miei soliti studii, ebbi comodo, per mezzo di detto signore, d'entrare a mia posta nella sagrestia nuova di San Lorenzo, dove sono l'opere di Michelagnolo, essendo egli di quei giorni andato a Roma, e così le studiai per alcun tempo con molta diligenza così come erano in terra.
Poi, messomi a lavorare, feci in un quadro di tre braccia un Cristo morto, portato da Niccodemo, Gioseffo et altri alla sepoltura, e dietro le Marie piangendo.
Il quale quadro, finito che fu, l'ebbe il duca Alessandro, con buono e felice principio de' miei lavori; perciò che non solo ne tenne egli conto mentre visse, ma è poi stato sempre in camera del duca Cosimo, et ora è in quella dell'illustrissimo Principe suo figliuolo, et ancora che alcuna volta io abbia voluto rimettervi mano per migliorarlo in qualche parte, non sono stato lasciato.
Veduta dunque questa mia prima opera, il duca Alessandro ordinò che io finissi la camera terrena del palazzo de' Medici, stata lasciata imperfetta, come s'è detto, da Giovanni da Udine.
Onde io vi dipinsi quattro storie de' fatti di Cesare: quando, notando, ha in una mano i suoi comentarii et in bocca la spada; quando fra abruciare i scritti di Pompeo, per non vedere l'opere de' suoi nemici; quando, dalla fortuna in mare travagliato, si dà a conoscere a un nocchieri; e finalmente il suo trionfo, ma questo non fu finito del tutto.
Nel qual tempo, ancor che io non avessi se non poco più di diciotto anni, mi dava il Duca sei scudi il mese di provisione, il piatto a me, et un servitore, e le stanze da abitare, con altre molte commodità.
Et ancor che io conoscessi non meritar tanto a gran pezzo, io facea nondimeno tutto che sapeva con amore e con diligenza; né mi pareva fatica dimandare a' miei maggiori quello che io non sapeva, onde più volte fui d'opera e di consiglio aiutato dal Tribolo, dal Bandinello e da altri.
Feci adunque in un quadro alto tre braccia esso duca Alessandro, armato e ritratto di naturale, con nuova invenzione et un sedere fatto di prigioni legati insieme e con altre fantasie.
E mi ricorda che oltre al ritratto, il quale somigliava, per far il brunito di quell'arme bianco, lucido e proprio, che io vi ebbi poco meno che a perdere il cervello, cotanto mi affaticai in ritrarre dal vero ogni minuzia.
Ma disperato di potere in questa opera accostarmi al vero, menai Iacopo da Puntormo, il quale io per la sua molta virtù osservava, a vedere l'opera e consigliarmi; il quale, veduto il quadro e conosciuta la mia passione, mi disse amorevolmente: "Figliuol mio, insino a che queste arme vere e lustranti stanno a canto a questo quadro, le tue ti parranno sempre dipinte, perciò che se bene la biacca è il più fiero colore che adoperi l'arte, e nondimeno più fiero e lustrante è il ferro.
Togli via le vere e vedrai poi che non sono le tue finte armi così cattiva cosa, come le tieni".
Questo quadro, fornito che fu, diedi al Duca, et il Duca lo donò a Messer Ottaviano de' Medici, nelle cui case è stato insino a oggi, in compagnia del ritratto di Caterina allora giovane sorella del detto Duca e poi Reina di Francia, e di quello del magnifico Lorenzo Vecchio.
Nelle medesime case sono tre quadri pur di mia mano e fatti nella mia giovanezza.
In uno Abramo sacrifica Isac, nel secondo è Cristo nell'orto, e nell'altro la cena che fa con gl'Apostoli.
Intanto, essendo morto Ipolito cardinale, nel quale era la somma collocata di tutte le mie speranze, cominciai a conoscere quanto sono vane, le più volte, le speranze di questo mondo, e che bisogna in se stesso, e nell'essere da qualche cosa, principalmente confidarsi.
Dopo quest'opere, veggendo io che il Duca era tutto dato alle fortificazioni et al fabricare, cominciai, per meglio poterlo servire, a dare opera alle cose d'architettura, e vi spesi molto tempo.
Intanto, avendosi a far l'apparato per ricevere l'anno 1536 in Firenze l'imperatore Carlo Quinto, nel dare a ciò ordine il Duca comise ai deputati sopra quella onoranza, come s'è detto nella vita del Tribolo, che m'avessero seco a disegnare tutti gl'archi et altri ornamenti da farsi per quell'entrata.
Il che fatto, mi fu anco, per beneficarmi, allogato, oltre le bandiere grandi del castello e fortezza, come si disse, la facciata a uso d'arco trionfale, che si fece a San Felice in piazza, alta braccia quaranta e larga venti; et appresso l'ornamento della porta a San Piero Gattolini, opere tutte grandi e sopra le forze mie.
E, che fu peggio, avendomi questi favori tirato addosso mille invidie, circa venti uomini, che m'aiutavano far le bandiere e gl'altri lavori, mi piantarono in sul buono, a persuasione di questo e di quello, acciò io non potessi condurre tante opere e di tanta importanza.
Ma io, che aveva preveduto la malignità di que' tali, ai quali avea sempre cercato di giovare, parte lavorando di mia mano giorno e notte, e parte aiutato da pittori avuti di fuora, che m'aiutavano di nascoso, attendeva al fatto mio et a cercare di superare cotali difficultà e malivoglienze con l'opere stesse.
Il qual mentre Bertoldo Corsini, allora generale proveditore per sua eccellenzia, aveva rapportato al Duca che io aveva preso a far tante cose, che non era mai possibile che io l'avessi condotte a tempo, e massimamente non avendo io uomini et essendo l'opere molto a dietro; per che, mandato il Duca per me e dettomi quello che avea inteso, gli risposi che le mie opere erano a buon termine, come poteva vedere sua eccellenzia a suo piacere, e che il fine loderebbe il tutto; e partitomi da lui, non passò molto che occultamente venne dove io lavorava, e vide il tutto, e conobbe in parte l'invidia e malignità di coloro che sanza averne cagione mi pontavano addosso.
Venuto il tempo che doveva ogni cosa essere a ordine, ebbi finito di tutto punto e posti a' luoghi loro i miei lavori, con molta sodisfazione del Duca e dell'universale.
Là dove quelli di alcuni che più avevano pensato a me, che a loro stessi, furono messi su imperfetti.
Finita la festa, oltre a' quattrocento scudi che mi furono pagati per l'opere, me ne donò il Duca trecento, che si levarono a coloro che non avevano condotto a fine le loro opere al tempo determinato, secondo che si era convenuto d'accordo.
Con i quali avanzi e donativo maritai una delle mie sorelle, e poco dopo ne feci un'altra monaca nelle Murate d'Arezzo, dando al monasterio oltre alla dote, o vero limosina, una tavola d'una Nunziata di mia mano, con un tabernacolo del Sacramento in essa tavola accomodato, la quale fu posta dentro nel loro coro, dove stanno a ufiziare.
Avendomi poi dato a fare la Compagnia del Corpus Domini d'Arezzo la tavola dell'altar maggiore di San Domenico, vi feci dentro un Cristo deposto di croce, e poco appresso per la Compagnia di San Rocco cominciai la tavola della loro chiesa in Firenze.
Ora, mentre andava procacciandomi sotto la protezione del duca Alessandro onore, nome e facultà, fu il povero signore crudelmente ucciso, et a me levato ogni speranza di quello che io mi andava, mediante il suo favore, promettendo dalla fortuna.
Per che mancati, in pochi anni, Clemente, Ipolito et Alessandro, mi risolvei, consigliato da Messer Ottaviano, a non volere più seguitare la fortuna delle corti, ma l'arte sola, se bene facile sarebbe stato accomodarmi col signor Cosimo de' Medici nuovo duca.
E così tirando innanzi in Arezzo la detta tavola, e facciata di San Rocco con l'ornamento, mi andava mettendo a ordine per andare a Roma, quando per mezzo di Messer Giovanni Pollastra, come Dio volle (al quale sempre mi sono raccomandato e del quale riconosco et ho riconosciuto sempre ogni mio bene), fu' chiamato a Camaldoli, capo della congregazione camaldolense, dai padri di quell'eremo a vedere quello che disegnavano di voler fare nella loro chiesa.
Dove giunto, mi piacque sommamente l'alpestre et eterna solitudine e quiete di quel luogo santo, e se bene mi accorsi di prima giunta che que' padri d'aspetto venerando, veggendomi così giovane, stavano sopra di loro, mi feci animo e parlai loro di maniera, che si risolverono a volere servirsi dell'opera mia nelle molte pitture che andavano nella loro chiesa di Camaldoli a olio et in fresco.
Ma dove volevano che io innanzi a ogni altra cosa facessi la tavola dell'altar maggiore, mostrai loro con buone ragioni che era meglio far prima una delle minori, che andavano nel tramezzo, e che finita quella, se fusse loro piaciuta, arei potuto seguitare; oltre ciò non volli fare con essi alcun patto fermo di danari, ma dissi che dove piacesse loro, finita che fusse l'opera mia, me la pagassero a lor modo, e non piacendo me la rendessero, che la terrei per me ben volentieri.
La qual condizione parendo loro troppo onesta et amorevole, furono contenti che io mettessi mano a lavorare.
Dicendomi essi adunque che vi volevano la Nostra Donna col Figlio in collo, San Giovanni Batista e San Ieronimo, i quali ambidue furono eremiti et abitarono i boschi e le selve, mi parti' dall'ermo e scorsi giù alla Badia loro di Camaldoli, dove fattone con prestezza un disegno, che piacque loro, cominciai la tavola, et in due mesi l'ebbi finita del tutto e messa al suo luogo, con molto piacere di que' padri (per quanto mostrarono) e mio; il quale in detto spazio di due mesi, provai quanto molto più giovi agli studii una dolce quiete et onesta solitudine, che i rumori delle piazze e delle corti, conobbi dico l'error mio, d'avere posto per l'addietro le speranze mie negl'uomini e nelle baie e girandole di questo mondo.
Finita dunque la detta tavola, mi allogorono subitamente il resto del tramezzo della chiesa, cioè le storie et altro, che da basso et alto vi andavano di lavoro a fresco, perciò che le facessi la state vegnente, atteso che la vernata non sarebbe quasi possibile lavorare a fresco in quell'alpe e fra que' monti.
Per tanto, tornato in Arezzo fini' la tavola di San Rocco, facendovi la Nostra Donna, sei Santi et un Dio Padre, con certe saette in mano figurate per la peste.
Le quali mentre egli è in atto di fulminare, è pregato da San Rocco et altri Santi per lo popolo.
Nella facciata sono molte figure a fresco, le quali insieme con la tavola sono come sono.
Mandandomi poi a chiamare in val di Caprese fra' Bartolomeo Graziani, frate di Sant'Agostino dal Monte San Savino, mi diede a fare una tavola grande a olio nella chiesa di Santo Agostino del monte detto, per l'altar maggiore.
E così rimaso d'accordo, me ne venni a Firenze a vedere Messer Ottaviano, dove stando alcuni giorni, durai delle fatiche a far sì che non mi rimettesse al servizio delle corti, come aveva in animo; pure io vinsi la pugna con buone ragioni, e risolveimi d'andar per ogni modo, avanti che altro facessi, a Roma.
Ma ciò non mi venne fatto se non poi che ebbi fatto al detto Messer Ottaviano una copia del quadro, nel quale ritrasse già Raffaello da Urbino papa Leone, Giulio cardinale de' Medici et il cardinale de' Rossi, perciò che il Duca rivoleva il proprio, che allora era in potere di esso Messer Ottaviano.
La qual copia che io feci è oggi nelle case degl'eredi di quel signore, il quale nel partirmi per Roma mi fece una lettera di cambio di 500 scudi a Giovanbatista Puccini, che me gli pagasse ad ogni mia richiesta, dicendomi: "Serviti di questi per potere attendere a' tuoi studii; quando poi n'arai il commodo, potrai rendermegli o in opere, o in contanti a tuo piacimento".
Arrivato dunque in Roma di febraio l'anno 1538, vi stei tutto giugno, attendendo, in compagnia di Giovanbatista Cungi dal Borgo mio garzone, a disegnare tutto quello che mi era rimaso indietro l'altre volte che era stato in Roma, et in particolare ciò che era sotto terra nelle grotte.
Né lasciai cosa alcuna d'architettura o scultura che io non disegnassi e non misurassi; in tanto che posso dire con verità che i disegni ch'io feci in quello spazio di tempo furono più di trecento.
De' quali ebbi poi piacere et utile molti anni in rivedergli, e rinfrescare la memoria delle cose di Roma.
Le quali fatiche e studio, quanto mi giovassero, si vide tornato che fui in Toscana nella tavola, che io feci al Monte San Savino, nella quale dipinsi con alquanto miglior maniera un'Assunzione di Nostra Donna, e da basso, oltre agl'Apostoli che sono intorno al sepolcro, Santo Agostino e San Romualdo.
Andato poi a Camaldoli, secondo che avea promesso a que' padri romiti, feci nell'altra tavola del tramezzo la Natività di Gesù Cristo, fingendo una notte alluminata dallo splendore di Cristo nato, circondato da alcuni pastori che l'adorano.
Nel che fare andai imitando con i colori i raggi solari, e ritrassi le figure e tutte l'altre cose di quell'opera dal naturale e col lume, acciò fussero più che si potesse simili al vero.
Poi, perché quel lume non potea passare sopra la capanna, da quivi in su et all'intorno, feci che suplisse un lume che viene dallo splendore degl'Angeli che in aria cantano Gloria in excelsis Deo, senzaché in certi luoghi fanno lume i pastori, che vanno attorno con covoni di paglia accesi, et in parte la luna, la stella e l'Angelo che apparisce a certi pastori.
Quanto poi al casamento, feci alcune anticaglie a mio capriccio con statue rotte, et altre cose somiglianti.
Et insomma condussi quell'opera con tutte le forze e saper mio, e se bene non arrivai con la mano e col pennello al gran disiderio e volontà di ottimamente operare, quella pittura nondimeno a molti è piaciuta.
Onde Messer Fausto Sabeo, uomo letteratissimo et allora custode della libreria del Papa, fece, e dopo lui alcuni altri, molti versi latini in lode di quella pittura, mossi per aventura più da molta affezzione, che dall'eccellenza dell'opera; comunche sia, se cosa vi è di buono, fu dono di Dio.
Finita quella tavola, si risolverono i padroni che io facessi a fresco nella facciata le storie che vi andavano; onde feci sopra la porta il ritratto dell'eremo, da un lato San Romualdo con un doge di Vinezia, che fu sant'uomo, e dall'altro una visione, che ebbe il detto Santo là dove fece poi il suo eremo, con alcune fantasie, grottesche et altre cose che vi si veggiono.
E ciò fatto, mi ordinarono che la state dell'anno a venire io tornassi a fare la tavola dell'altar grande.
Intanto il già detto don Miniato Pitti, che allora era visitator della congregazione di Monte Uliveto, avendo veduta la tavola del Monte S.
Savino e l'opere di Camaldoli, trovò in Bologna don Filippo Serragli fiorentino, abbate di S.
Michele in Bosco, e gli disse che avendosi a dipignere il refettorio di quell'onorato monasterio, gli pareva che a me e non ad altri si dovesse quell'opera allogare; per che fattomi andare a Bologna, ancor che l'opera fusse grande e d'importanza, la tolsi a fare, ma prima volli vedere tutte le più famose opere di pittura che fussero in quella città, di bolognesi e d'altri.
L'opera dunque della testata di quel refettorio fu divisa in tre quadri: in uno aveva ad essere quando Abramo nella valle Mambre apparecchiò da mangiare agl'Angeli; nel secondo Cristo che essendo in casa di Maria Madalena e Marta, parla con essa Marta, dicendogli che Maria ha eletto l'ottima parte; e nella terza aveva da essere dipinto S.
Gregorio a mensa co' dodici poveri, fra i quali conobbe essere Cristo.
Per tanto messo mano all'opera in quest'ultima finsi San Gregorio a tavola in un convento, e servito da monaci bianchi di quell'Ordine, per potervi accomodare que' padri, secondo che essi volevano.
Feci, oltre ciò, nella figura di quel santo Pontefice l'effigie di papa Clemente VII, et intorno, fra molti signori, ambasciadori, principi et altri personaggi che lo stanno a vedere mangiare, ritrassi il duca Alessandro de' Medici per memoria de' beneficii e favori che io aveva da lui ricevuti, e per essere stato chi egli fu, e con esso molti amici miei; e fra coloro che servono a tavola, poveri, ritrassi alcuni frati miei domestici di quel convento, come di forestieri che mi servivano, dispensatore, canovaio, et altri così fatti, e così l'abate Serraglio, il generale don Cipriano da Verona et il Bentivoglio.
Parimente ritrassi il naturale ne' vestimenti di quel Pontefice, contrafacendo velluti, damaschi et altri drappi d'oro e di seta d'ogni sorte.
L'apparecchio poi, vasi, animali et altre cose feci fare a Cristofano dal Borgo, come si disse nella sua vita.
Nella seconda storia cercai fare di maniera le teste, i panni et i casamenti, oltre all'essere diversi dai primi, che facessino più che si può apparire l'affetto di Cristo nell'instituire Madalena, e l'affezione e prontezza di Marta nell'ordinare il convito e dolersi d'essere lasciata sola dalla sorella in tante fatiche e ministerio; per non dir nulla dell'attenzione degl'Apostoli et altre molte cose da essere considerate in questa pittura.
Quanto alla terza storia, dipinsi i tre Angeli (venendomi ciò fatto non so come) in una luce celeste, che mostra partirsi da loro, mentre i raggi d'un sole gli circonda in una nuvola.
De' quali tre Angeli il vecchio Abramo adora uno, se bene sono tre quelli che vede, mentre Sarra si sta ridendo e pensando come possa essere quello che gl'è stato promesso, et Agar con Ismael in braccio si parte dall'ospizio.
Fa anco la medesima luce chiarezza ai servi che apparecchiano, fra i quali alcuni, che non possono sofferire lo splendore, si mettono le mani sopra gl'occhi e cercano di coprirsi; la quale varietà di cose, perché l'ombre crude et i lumi chiari danno più forza alle pitture, fecero a questa aver più rilievo che l'altre due non hanno, e variando di colore, fecero effetto molto diverso.
Ma così avess'io saputo mettere in opera il mio concetto, come sempre con nuove invenzioni e fantasie sono andato, allora e poi, cercando le fatiche et il difficile dell'arte!
Quest'opera dunque, comunche sia, fu da me condotta in otto mesi, insieme con un fregio a fresco et architettura, intagli, spalliere, tavole et altri ornamenti di tutta l'opera e di tutto quel refettorio; et il prezzo di tutto mi contentai che fusse dugento scudi, come quelli che più aspirava alla gloria che al guadagno.
Onde Messer Andrea Alciati mio amicissimo, che allora leggeva in Bologna, vi fece far sotto queste parole: "Octonis mensibus opus ab Aretino Georgio pictum, non tam praecio, quam amicorum obsequio, et honoris voto anno 1539.
Philippus Serralius pon.
curavit".
Feci in questo medesimo tempo due tavolette d'un Cristo morto e d'una Ressurrezzione, le quali furono da don Miniato Pitti abate poste nella chiesa di Santa Maria di Barbiano fuor di San Gimignano di Valdelsa; le quali opere finite, tornai subito a Fiorenza, perciò che il Trevisi, maestro Biagio et altri pittori bolognesi, pensando che io mi volessi acasare in Bologna e torre loro di mano l'opere et i lavori, non cessavano d'inquietarmi, ma più noiavano loro stessi che me, il quale di certe lor passioni e modi mi rideva.
In Firenze adunque copiai da un ritratto grande infino alle ginocchia un cardinale Ipolito a Messer Ottaviano, et altri quadri con i quali mi andai trattenendo in que' caldi insoportabili della state.
I quali venuti, mi tornai alla quiete e fresco di Camaldoli, per fare la detta tavola dell'altar maggiore.
Nella quale feci un Cristo che è deposto di croce, con tutto quello studio e fatica che maggiore mi fu possibile; e perché col fare e col tempo mi pareva pur migliorare qualche cosa, né mi sodisfacendo della prima bozza, gli ridetti di mestica e la rifeci quale la si vede di nuovo tutta.
Et invitato dalla solitudine, feci in quel medesimo luogo dimorando un quadro al detto Messer Ottaviano, nel quale dipinsi un San Giovanni ignudo e giovinetto, fra certi scogli e massi e che io ritrassi dal naturale di que' monti.
Né a pena ebbi finite quest'opere, che capitò a Camaldoli Messer Bindo Altoviti, per fare dalla cella di Santo Alberigo, luogo di que' padri, una condotta a Roma per via del Tevere, di grossi abeti, per la fabrica di San Piero; il quale veggendo tutte l'opere da me state fatte in quel luogo, e per mia buona sorte piacendogli, prima che di lì partisse, si risolvé che io gli facessi per la sua chiesa di Santo Apostolo di Firenze una tavola.
Per che finita quella di Camaldoli con la facciata della cappella in fresco, dove feci esperimento di unire il colorito a olio con quello, e riuscimmi assai acconciamente, me ne venni a Fiorenza e feci la detta tavola.
E perché aveva a dare saggio di me a Fiorenza, non avendovi più fatto somigliante opera, aveva molti concorrenti e desiderio di acquistare nome, mi disposi a volere in quell'opera far il mio sforzo e mettervi quanta diligenza mi fusse mai possibile.
E per potere ciò fare scarico di ogni molesto pensiero, prima maritai la mia terza sorella e comperai una casa principiata in Arezzo, con un sito da fare orti bellissimi nel borgo di San Vito, nella miglior aria di quella città.
D'ottobre adunque l'anno 1540 cominciai la tavola di Messer Bindo, per farvi una storia che dimostrassi la Concezione di Nostra Donna, secondo che era il titolo della cappella.
La qual cosa perché a me era assai malagevole, avutone Messer Bindo et io il parere di molti comuni amici, uomini litterati, la feci finalmente in questa maniera: figurato l'albero del peccato originale nel mezzo della tavola, alle radici di esso come primi trasgressori del comandamento di Dio feci ignudi Adamo et Eva, e dopo agl'altri rami feci legati di mano in mano Abram, Isac, Iacob, Moisè, Aron, Iosuè, Davit, e gl'altri Re successivamente secondo i tempi, tutti dico legati per ambedue le braccia, eccetto Samuel e S.
Giovanni Batista i quali sono legati per un solo braccio, per essere stati santificati nel ventre.
Al tronco dell'albero feci avvolto con la coda l'antico serpente, il quale, avendo dal mezzo in su forma umana, ha le mani legate di dietro; sopra il capo gli ha un piede, calcandogli le corna, la gloriosa Vergine, che l'altro tiene sopra una luna, essendo vestita di sole e coronata di dodici stelle.
La qual Vergine, dico, è sostenuta in aria dentro a uno splendore da molti Angeletti nudi, illuminati dai raggi che vengono da lei, i quali raggi parimente, passando fra le foglie dell'albero, rendono lume ai legati e pare che vadano loro sciogliendo i legami con la virtù e grazia che hanno da colei donde procedono.
In cielo poi, cioè nel più alto della tavola sono due putti che tengono in mano alcune carte, nelle quali sono scritte queste parole: "Quos Evae culpa damnavit, Mariae gratia solvit".
Insomma io non avea fino allora fatto opera, per quello che mi ricorda, né con più studio, né con più amore e fatica di questa, ma tuttavia, se bene satisfeci a altri per aventura, non satisfeci già a me stesso, come che io sappia il tempo, lo studio e l'opera ch'io misi particolarmente negl'ignudi, nelle teste, e finalmente in ogni cosa.
Mi diede Messer Bindo, per le fatiche di questa tavola, trecento scudi d'oro, et inoltre l'anno seguente mi fece tante cortesie et amorevolezze in casa sua in Roma, dove gli feci in un piccol quadro, quasi di minio, la pittura di detta tavola, che io sarò sempre alla sua memoria ubbligato.
Nel medesimo tempo ch'io feci questa tavola che fu posta, come ho detto, in S.
Apostolo, feci a Messer Ottaviano de' Medici una Venere et una Leda con i cartoni di Michelagnolo, et in un gran quadro un San Girolamo, quanto il vivo, in penitenza, il quale contemplando la morte di Cristo, che ha dinanzi in sulla croce, si percuote il petto, per scacciare della mente le cose di Venere e le tentazioni della carne, che alcuna volta il molestavano, ancor che fusse nei boschi e luoghi solinghi e salvatichi, secondo che egli stesso di sé largamente racconta.
Per lo che dimostrare, feci una Venere, che con Amore in braccio fugge da quella contemplazione, avendo per mano il Giuoco et essendogli cascate per terra le frecce et il turcasso; senzaché le saette da Cupido tirate verso quel Santo, tornano rotte verso di lui, et alcune, che cascano, gli sono riportate col becco dalle colombe di essa Venere.
Le quali tutte pitture, ancora che forse allora mi piacessero e da me fussero fatte come seppi il meglio, non so quanto mi piacciano in questa età.
Ma perché l'arte in sé è dificile, bisogna torre da chi fa quel che può.
Dirò ben questo, però che lo posso dire con verità, d'avere sempre fatto le mie pitture, invenzioni e disegni comunche sieno, non dico con grandissima prestezza, ma sì bene con incredibile facilità e senza stento: di che mi sia testimonio, come ho detto in altro luogo, la grandissima tela ch'io dipinsi in San Giovanni di Firenze in sei giorni soli l'anno 1542, per lo battesimo del signor don Francesco Medici, oggi principe di Firenze e di Siena.
Ora se bene io voleva, dopo quest'opere, andare a Roma per satisfare a Messer Bindo Altoviti, non mi venne fatto; perciò che chiamato a Vinezia da Messer Pietro Aretino, poeta allora di chiarissimo nome e mio amicissimo, fui forzato, perché molto disiderava vedermi, andar là; il che feci anco volentieri per vedere l'opere di Tiziano e d'altri pittori in quel viaggio.
La qual cosa mi venne fatta, però che in pochi giorni vidi in Modena et in Parma l'opere del Coreggio, quelle di Giulio Romano in Mantoa, e l'antichità di Verona finalmente.
Giunto in Vinezia con due quadri dipinti di mia mano con i cartoni di Michelagnolo, gli donai a don Diego di Mendozza, che mi mandò dugento scudi d'oro.
Né molto dimorai a Vinezia, che pregato dall'Aretino feci ai signori della Calza l'apparato d'una loro festa, dove ebbi in mia compagnia Batista Cungi, e Cristofano Gherardi dal Borgo S.
Sepolcro, e Bastiano Flori aretino molto valenti e pratichi, di che si è in altro luogo ragionato a bastanza, e gli nove quadri di pittura nel palazzo di Messer Giovanni Cornaro, cioè nel soffittato d'una camera del suo palazzo, che è da San Benedetto.
Dopo queste et altre opere di non piccola importanza che feci allora in Vinezia, me ne partii, ancor che io fussi soprafatto dai lavori che mi venivano per le mani, alli sedici d'agosto l'anno 1542, e tornaimene in Toscana dove, avanti che ad altro volessi por mano, dipinsi nella volta d'una camera, che di mio ordine era stata murata nella già detta mia casa, tutte l'arti che sono sotto il disegno o che da lui dependono; nel mezzo è una Fama, che siede sopra la palla del mondo e suona una tromba d'oro, gettandone via una di fuoco finta per la Maledicenza, et intorno a lei sono con ordine tutte le dette arti con i loro strumenti in mano.
E perché non ebbi tempo a far il tutto, lasciai otto ovati per fare in essi otto ritratti di naturale de' primi delle nostre arti.
Ne' medesimi giorni feci alle monache di Santa Margherita di quella città, in una cappella del loro orto, a fresco una Natività di Cristo di figure grandi quanto il vivo.
E così consumata che ebbi nella patria il resto di quella state e parte dell'autunno, andai a Roma.
Dove essendo dal detto Messer Bindo ricevuto e molto carezzato, gli feci in un quadro a olio un Cristo quanto il vivo levato di croce e posto in terra a' piedi della madre, e nell'aria Febo che oscura la faccia del sole e Diana quella della luna.
Nel paese poi, oscurato da queste tenebre, si veggiono spezzarsi alcuni monti di pietra, mossi dal terremoto che fu nel patir del Salvatore; e certi morti corpi di Santi si veggiono, risorgendo, uscire de' sepolcri in varii modi.
Il quale quadro finito che fu, per sua grazia non dispiacque al maggior pittore, scultore et architetto che sia stato a' tempi nostri e forse de' nostri passati; per mezzo anco di questo quadro, fui, mostrandogliele il Giovio e Messer Bindo, conosciuto dall'illustrissimo cardinale Farnese, al quale feci sì come volle, in una tavola alta otto braccia e larga quattro, una Iustizia che abbraccia uno struzzo, carico delle dodici tavole, e con lo scettro che ha la cicogna in cima; et armata il capo d'una celata di ferro e d'oro, con tre penne, impresa del giusto giudice, di tre variati colori, era nuda tutta dal mezzo in su; alla cintura ha costei legati, come prigioni, con catene d'oro i sette Vizii che a lei sono contrarii: la Corruzione, l'Ignoranza, la Crudeltà, il Timore, il Tradimento, la Bugia e la Maledicenza; sopra le quali è posta in sulle spalle la Verità tutta nuda, offerta dal Tempo alla Iustizia, con un presente di due colombe fatte per l'Innocenza; alla quale Verità mette in capo essa Iustizia una corona di quercia per la Fortezza dell'animo.
La quale tutta opera condussi con ogni accurata diligenza, come seppi il meglio.
Nel medesimo tempo, facendo io gran servitù a Michelagnolo Buonarruoti e pigliando da lui parere in tutte le cose mie, egli mi pose per sua bontà molta più affezione, e fu cagione il suo consigliarmi a ciò, per avere veduto alcuni disegni miei, che io mi diedi di nuovo e con miglior modo allo studio delle cose d'architettura; il che per aventura non arei fatto già mai, se quell'uomo eccellentissimo non mi avesse detto quel che mi disse, che per modestia lo taccio.
Il San Pietro seguente, essendo grandissimi caldi in Roma, et avendo lì consumata tutta quella vernata del 1543, me ne tornai a Fiorenza, dove in casa Messer Ottaviano de' Medici, la quale io poteva dir casa mia, feci a Messer Biagio Mei lucchese suo compare in una tavola il medesimo concetto di quella di Messer Bindo in Santo Apostolo, ma variai dalla invenzione in fuore ogni cosa, e quella finita si mise in Lucca in San Piero Cigoli alla sua cappella.
Feci in un'altra della medesima grandezza, cioè alta sette braccia e larga quattro, la Nostra Donna, San Ieronimo, San Luca, Santa Cecilia, Santa Marta, Santo Agostino e San Guido romito, la quale tavola fu messa nel Duomo di Pisa, dove n'erano molte altre di mano d'uomini eccellenti.
Ma non ebbi sì tosto condotto questa al suo fine, che l'Operaio di detto Duomo mi diede a fare un'altra.
Nella quale perché aveva andare similmente la Nostra Donna, per variare dall'altra, feci essa Madonna con Cristo morto a' piè della croce posato in grembo a lei, i ladroni in alto sopra le croci, e con le Marie e Niccodemo che sono intorno, accomodati i Santi titolari di quelle cappelle che tutti fanno componimento e vaga la storia di quella tavola.
Di nuovo tornato a Roma l'anno 1544, oltre a molti quadri che feci a diversi amici, de' quali non accade far memoria, feci un quadro d'una Venere col disegno di Michelagnolo a Messer Bindo Altoviti che mi tornavo seco in casa, e dipinsi per Galeotto da Girone mercante fiorentino in una tavola a olio Cristo deposto di croce, la quale fu posta nella chiesa di Santo Agostino di Roma alla sua cappella.
Per la quale tavola poter fare con mio commodo, insieme alcun'opere che mi aveva allogato Tiberio Crispo castellano di Castel Sant'Agnolo, mi era ritirato da me in Trastevere, nel palazzo, che già murò il vescovo Adimari, sotto Santo Onofrio, che poi è stato fornito da Salviati il secondo.
Ma sentendomi indisposto e stracco da infinite fatiche, fui forzato tornarmene a Fiorenza, dove feci alcuni quadri, e fra gl'altri uno in cui era Dante, Petrarca, Guido Cavalcanti, il Boccaccio, Cino da Pistoia e Guittone d'Arezzo, il quale fu poi di Luca Martini, cavato dalle teste antiche loro accuratamente, del quale ne sono state fatte poi molte copie.
Il medesimo anno 1544 condotto a Napoli da don Giammateo d'Anversa generale de' monaci di Monte Oliveto, perch'io dipignessi il refettorio d'un loro monasterio fabricato dal re Alfonso Primo, quando giunsi fui per non accettare l'opera, essendo quel refettorio e quel monastero fatto d'architettura antica e con le volte a quarti acuti, e basse, e cieche di lumi, dubitando di non avere ad acquistarvi poco onore.
Pure astretto da don Miniato Pitti e da don Ipolito da Milano miei amicissimi et allora visitatori di quell'Ordine, accettai finalmente l'impresa.
Là dove, conoscendo di non poter fare cosa buona, se non con gran copia d'ornamenti, gl'occhi abagliando di chi avea a vedere quell'opera, con la varietà di molte figure, mi risolvei a fare tutte le volte di esso refettorio lavorate di stucchi per levar via con ricchi partimenti di maniera moderna tutta quella vecchiaia e goffezza di sesti.
Nel che mi furon di grande aiuto le volte e mura, fatte, come si usa in quella città, di pietre di tufo, che si tagliono come fa il legname, o meglio cioè come i mattoni non cotti interamente.
Perciò che io vi ebbi commodità, tagliando, di fare sfondati di quadri, ovali et ottangoli ringrossando con chiodi e rimettendo de' medesimi tufi.
Ridotte adunque quelle volte a buona proporzione con quei stucchi, i quali furono i primi che a Napoli fussero lavorati modernamente, e particolarmente le facciate e teste di quel refettorio, vi feci sei tavole a olio, alte sette braccia, cioè tre per testata.
In tre che sono sopra l'entrata del refettorio è il piovere della manna al popolo ebreo, presenti Moisè et Aron che la ricogliono, nel che mi sforzai di mostrare nelle donne, negl'uomini e ne' putti diversità d'attitudini e vestiti, e l'affetto con che ricogliono e ripongono la manna ringraziandone Dio.
Nella testata che è a sommo è Cristo che desina in casa di Simone, e Maria Madalena, che con le lacrime gli bagna i piedi e gl'asciuga con i capelli, tutta mostrandosi pentita de' suoi peccati.
La quale storia è partita in tre quadri: nel mezzo è la cena, a man ritta una bottiglieria con una credenza piena di vasi in varie forme e stravaganti, et a man sinistra uno scalco che conduce le vivande.
Le volte furono compartite in tre parti: in una si tratta della Fede, nella seconda della Religione e nella terza dell'Eternità.
Ciascuna delle quali, perché erano in mezzo, ha otto Virtù intorno, dimostranti ai monaci che in quel refettorio mangiano quello che alla loro vita e perfezzione è richiesto.
E per arricchire i vani delle volte, gli feci pieni di grottesche, le quali in quarantotto vani fanno ornamento alle quarantotto immagini celesti; et in sei facce per lo lungo di quel refettorio sotto le finestre fatte maggiori e con ricco ornamento, dipinsi sei delle parabole di Gesù Cristo, le quali fanno a proposito di quel luogo.
Alle quali tutte pitture et ornamenti corrisponde l'intaglio delle spalliere fatte riccamente.
Dopo, feci all'altar maggiore di quella chiesa una tavola alta otto braccia dentrovi la Nostra Donna che presenta a Simeone nel tempio Gesù Cristo piccolino, con nova invenzione.
Ma è gran cosa, che dopo Giotto, non era stato insino allora in sì nobile e gran città maestri che in pittura avessino fatto alcuna cosa d'importanza, se ben vi era stato condotto alcuna cosa di fuori di mano del Perugino e di Raffaello, per lo che m'ingegnai fare di maniera, per quanto si estendeva il mio poco sapere, che si avessero a svegliare gl'ingegni di quel paese a cose grandi et onorevoli operare.
E questo o altro che ne sia stato cagione, da quel tempo in qua vi sono state fatte di stucchi e pitture molte bellissime opere.
Oltre alle pitture sopradette, nella volta della foresteria del medesimo monasterio condussi a fresco, di figure grandi quanto il vivo, Gesù Cristo che ha la croce in ispalla, et a imitazione di lui molti de' suoi Santi che l'hanno similmente addosso, per dimostrare che a chi vuole veramente seguitar lui, bisogna portare e con buona pacienza l'avversità che dà il mondo.
Al generale di detto Ordine condussi in un gran quadro Cristo, che aparendo agl'Apostoli travagliati in mare dalla fortuna, prende per un braccio S.
Piero, che a lui era corso per l'acqua, dubitando non affogare.
Et in un altro quadro per l'abate Capeccio feci la Ressurezione; e queste cose condotte a fine, al signor don Pietro di Tolledo viceré di Napoli dipinsi a fresco nel suo giardino di Pozzuolo una cappella et alcuni ornamenti di stucchi sottilissimi.
Per lo medesimo si era dato ordine di far due gran logge, ma la cosa non ebbe effetto per questa cagione.
Essendo stata alcuna differenza fra il viceré e detti monaci, venne il bargello con sua famiglia al monasterio per pigliar l'abate et alcuni monaci, che in processione avevano avuto parole, per conto di precedenza, con i monaci neri.
Ma i monaci facendo difesa, aiutati da circa quindici giovani che meco di stucchi e pitture lavoravano, ferirono alcuni birri, per lo che bisognando di notte cansargli, s'andarono chi qua e là, e così io rimaso quasi solo, non solo non potei fare le logge di Pozzuolo, ma né anco fare ventiquattro quadri di storie del Testamento Vecchio e della vita di S.
Giovanni Batista; i quali, non mi sadisfacendo di restare in Napoli più, portai a fornire a Roma, donde gli mandai, e furono messi intorno alle spalliere e sopra gl'armarii di noce fatti con mia disegni et architettura, nella sagrestia di San Giovanni Carbonaro, convento de' frati eremitani osservanti di Santo Agostino, ai quali poco innanzi avea dipinto in una cappella fuor della chiesa in tavola un Cristo crucifisso, con ricco e vario ornamento di stucco, a richiesta del Seripando lor generale, che fu poi cardinale.
Parimente a mezzo le scale di detto convento feci a fresco San Giovanni Evangelista, che sta mirando la Nostra Donna vestita di sole, con i piedi sopra la luna e coronata di dodici stelle.
Nella medesima città dipinsi a Messer Tommaso Cambi, mercante fiorentino e mio amicissimo, nella sala d'una sua casa, in quattro facciate i tempi e le stagioni dell'anno: il Sogno, il Sonno sopra un terrazzo, dove fece una fontana.
Al duca di Gravina dipinsi in una tavola, che egli condusse al suo Stato, i Magi che adorano Cristo, et ad Orsanca segretario del viceré feci un'altra tavola, con cinque figure intorno a un Crucifisso, e molti quadri.
Ma con tutto ch'io fussi assai ben visto da que' signori, guadagnassi assai e l'opere ogni giorno moltiplicassero, giudicai, poi che i miei uomini s'erano partiti, che fusse ben fatto, avendo in un anno lavorato in quella città opere a bastanza, ch'io me ne tornassi a Roma.
E così fatto, la prima opera che io facessi fu al signor Ranuccio Farnese, allora arcivescovo di Napoli, in tela quattro portegli grandissimi a olio per l'organo del piscopio di Napoli, dentrovi dalla parte dinanzi cinque Santi patroni di quella città, e dentro la Natività di Gesù Cristo, con i pastori, e Davit re, che canta in sul suo salterio: "Dominus dixit ad me", etc.
E così i sopra detti ventiquattro quadri et alcuni di Messer Tommaso Cambi, che tutti furono mandati a Napoli.
E ciò fatto, dipinsi cinque quadri a Raffaello Acciaiuoli che gli portò in Ispagna, della Passione di Cristo.
L'anno medesimo, avendo animo il cardinale Farnese di far dipignere la sala della Cancelleria nel palazzo di San Giorgio, monsignor Giovio, disiderando che ciò si facesse per le mie mani, mi fece fare molti disegni di varie invenzioni, che poi non furono messi in opera.
Nondimeno si risolvé finalmente il cardinale ch'ella si facesse in fresco, e con maggior prestezza che fusse possibile, per servirsene a certo suo tempo determinato.
È la detta sala lunga poco più di palmi cento, larga cinquanta et alta altretanto.
In ciascuna testa adunque larga palmi cinquanta, si fece una storia grande, et in una delle facciate lunghe due, nell'altra per essere impedita dalle finestre, non si poté far istorie, e però vi si fece un ribattimento, simile alla facciata in testa, che è dirimpetto; e per non far basamento, come insino a quel tempo s'era usato dagl'artefici in tutte le storie, alto da terra nove palmi almeno, feci, per variare e far cosa nuova, nascere scale da terra, fatte in varii modi et a ciascuna storia la sua.
E sopra quelle feci poi cominciare a salire le figure a proposito di quel suggetto, a poco a poco, tanto che trovano il piano, dove comincia la storia.
Lunga e forse noiosa cosa sarebbe dire tutti i particolari e le minuzie di queste storie, però toccherò solo e brevemente le cose principali.
Adunque, in tutte sono storie de' fatti di papa Paulo Terzo, et in ciascuna è il suo ritratto di naturale.
Nella prima, dove sono, per dirle così, le spedizioni della corte di Roma, si veggiono sopra il Tevere diverse nazioni e diverse ambascerie, con molti ritratti di naturale, che vengono a chieder grazie et ad offerire diversi tributi al Papa.
Et oltre ciò, in certe nicchione, due figure grandi, poste sopra le porte, che mettono in mezzo la storia, delle quali una è fatta per l'Eloquenza, che ha sopra due Vittorie che tengono la testa di Giulio Cesare, e l'altra per la Iustizia, con due altre Vittorie che tengono la testa di Alessandro Magno, e nell'alto del mezzo è l'arme di detto Papa sostenuta dalla Liberalità e dalla Rimunerazione.
Nella facciata maggiore è il medesimo Papa che rimunera la virtù donando porzioni, cavalierati, benefizii, pensioni, vescovadi e cappelli di cardinali, e fra quei che ricevono sono il Sadoleto, Polo, il Bembo, il Contarino, il Giovio, il Buonarruoto et altri virtuosi tutti ritratti di naturale, et in questa è dentro a un gran nicchione una Grazia con un corno di dovizia pieno di dignità, il quale ella riversa in terra.
E le Vittorie, che ha sopra a somiglianza dell'altre, tengono la testa di Traiano imperatore.
Èvvi anco l'Invidia, che mangia vipere e pare che crepi di veleno.
E di sopra nel fine della storia è l'arme del cardinal Farnese, tenuta dalla Fama e dalla Virtù.
Nell'altra storia, il medesimo papa Paulo si vede tutto intento alle fabriche, e particolarmente a quella di S.
Piero sopra il Vaticano.
E però sono innanzi al Papa ginocchioni la Pittura, la Scultura e l'Architettura, le quali, avendo spiegato un disegno della pianta di esso San Piero, pigliano ordine di essequire e condurre al suo fine quell'opera.
Èvvi, oltre le dette figure, l'Animo, che aprendosi il petto mostra il cuore, la Sollecitudine appresso e la Ricchezza.
E nella nicchia, la Copia con due Vittorie, che tengono l'effigie di Vespasiano.
E nel mezzo è la Religione cristiana in un'altra nicchia che divide l'una storia dall'altra, e sopra le sono due Vittorie, che tengono la testa di Numa Pompilio.
E l'arme che è sopra questa istoria è del cardinal San Giorgio, che già fabricò quel palazzo.
Nell'altra storia, che è dirimpetto alle spedizioni della corte, è la pace universale fatta fra i cristiani per mezzo di esso papa Paulo Terzo, e massimamente fra Carlo Quinto imperatore e Francesco re di Francia che vi son ritratti.
E però vi si vede la Pace abruciar l'arme, chiudersi il tempio di Iano, et il Furor incatenato.
Delle due nicchie grandi, che mettono in mezzo la storia, in una è la Concordia, con due Vittorie sopra, che tengono la testa di Tito imperadore e nell'altra è la Carità con molti putti.
Sopra la nicchia tengono due Vittorie la testa d'Augusto, e nel fine è l'arme di Carlo Quinto tenuta dalla Vittoria e dalla Ilarità, e tutta quest'opera è piena d'inscrizioni e motti bellissimi fatti dal Giovio; et in particolare ve n'ha uno che dice quelle pitture essere state tutte condotte in cento giorni.
Il che io come giovane feci, come quegli che non pensai se non a servire quel signore, che come ho detto desiderava averla finita per un suo servizio, in quel tempo.
E nel vero, se bene io m'affaticai grandemente in far cartoni e studiare quell'opera, io confesso aver fatto errore in metterla poi in mano di garzoni per condurla più presto come mi bisognò fare, perché meglio sarebbe stato aver penato cento mesi et averla fatta di mia mano.
Perciò che se bene io non l'avessi fatta in quel modo che arei voluto per servizio del cardinale et onor mio, arei pure avuto quella satisfazione d'averla condotta di mia mano.
Ma questo errore fu cagione che io mi risolvei a non far più opere, che non fussero da me stesso del tutto finite sopra la bozza di mano degl'aiuti, fatta con i disegni di mia mano.
Si fecero assai pratichi in quest'opera Bizzera e Roviale spagnuoli, che assai vi lavorarono con esso meco, e Batista Bagnacavallo bolognese, Bastian Flori aretino, Giovanpaolo dal Borgo e fra' Salvadore Foschi d'Arezzo, e molti altri miei giovani.
In questo tempo andando io spesso la sera, finita la giornata, a veder cenare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove erano sempre a trattenerlo, con bellissimi et onorati ragionamenti, il Molza, Anibal Caro, Messer Gandolfo, Messer Claudio Tolomei, Messer Romolo Amasseo, monsignor Giovio, et altri molti letterati e galantuomini, de' quali è sempre piena la corte di quel signore, si venne a ragionare una sera fra l'altre del museo del Giovio, e de' ritratti degl'uomini illustri che in quello ha posti con ordine et inscrizioni bellissime.
E passando d'una cosa in altra, come si fa ragionando, disse monsignor Giovio avere avuto sempre gran voglia, et averla ancora, d'aggiugnere al museo et al suo libro degli Elogi un trattato nel quale si ragionasse degl'uomini illustri nell'arte del disegno, stati da Cimabue insino a' tempi nostri.
Dintorno a che allargandosi, mostrò certo aver gran cognizione e giudizio nelle cose delle nostre arti, ma è ben vero che bastandogli fare gran fascio, non la guardava così in sottile e spesso, favellando di detti artefici, o scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, l'opere, e non dicea le cose come stavano a punto, ma così alla grossa.
Finito che ebbe il Giovio quel suo discorso, voltatosi a me disse il cardinale: "Che ne dite voi Giorgio, non sarà questa una bell'opera e fatica?".
"Bella", rispos'io "monsignor illustrissimo, se il Giovio sarà aiutato da chichesia dell'arte a mettere le cose a' luoghi loro, et a dirle come stanno veramente.
Parlo così, perciò che, se bene è stato questo suo discorso maraviglioso, ha scambiato e detto molte cose una per un'altra." "Potrete dunque", soggiunse il cardinale pregato dal Giovio, dal Caro, dal Tolomei e dagl'altri "dargli un sunto voi, et una ordinata notizia di tutti i detti artefici, dell'opere loro secondo l'ordine de' tempi.
E così aranno anco da voi questo benefizio le vostre arti." La qual cosa ancor che io conoscessi essere sopra le mie forze, promisi secondo il poter mio di far ben volentieri; e così messomi giù a ricercare miei ricordi, e scritti fatti intorno a ciò, infin da giovanetto, per un certo mio passatempo e per una affezione che io aveva a la memoria de' nostri artefici, ogni notizia de' quali mi era carissima, misi insieme tutto che intorno a ciò mi parve a proposito.
E lo portai al Giovio, il quale, poi che molto ebbe lodata quella fatica, mi disse: "Giorgio mio, voglio che prendiate voi questa fatica di distendere il tutto in quel modo che ottimamente veggio saprete fare, perciò che a me non dà il cuore, non conoscendo le maniere, né sapendo molti particolari che potrete sapere voi, sanza che quando pure io facessi, farei il più più un trattatetto simile a quello di Plinio; fate quel ch'io vi dico, Vasari, perché veggio che è per riuscirvi bellissimo, ché saggio dato me ne avete in questa narrazione".
Ma parendogli che io a ciò fare non fussi molto risoluto me lo fé dire al Caro, al Molza, al Tolomei et altri miei amicissimi; per che risolutomi finalmente, vi misi mano con intenzione, finita che fusse, di darla a uno di loro, che rivedutola et acconcia, la mandasse fuori sotto altro nome che il mio.
Intanto partito di Roma l'anno 1546 del mese d'ottobre, e venuto a Fiorenza, feci alle monache del famoso monasterio delle Murate, in tavola a olio, un Cenacolo per lo loro refettorio, la quale opera mi fu fatta fare e pagata da papa Paulo Terzo, che aveva monaca in detto monasterio una sua cognata, stata contessa di Pitigliano.
E dopo feci in un'altra tavola la Nostra Donna che ha Cristo fanciullo in collo, il quale sposa Santa Caterina vergine e martire, e due altri Santi; la qual tavola mi fece fare Messer Tomaso Cambi per una sua sorella allora badessa nel monasterio del Bigallo fuor di Fiorenza.
E quella finita feci a monsignor de' Rossi de' conti di San Secondo e vescovo di Pavia due quadri grandi a olio: in uno è San Ieronimo e nell'altro una Pietà, i quali amendue furono mandati in Francia.
L'anno poi 1547, fini' del tutto per lo Duomo di Pisa, ad instanza di Messer Bastiano della Seta Operaio, un'altra tavola che aveva cominciata; e dopo a Simon Corsi mio amicissimo un quadro grande a olio d'una Madonna.
Ora, mentre che io faceva quest'opere, avendo condotto a buon termine il libro delle vite degl'artefici del disegno, non mi restava quasi altro a fare che farlo trascrivere in buona forma, quando a tempo mi venne alle mani don Gian Matteo Faetani da Rimini, monaco di Monte Oliveto, persona di lettere e d'ingegno, perché io gli facessi alcun'opere nella chiesa e monasterio di Santa Maria di Scolca d'Arimini, là dove egli era abate.
Costui dunque, avendomi promesso di farlami trascrivere a un suo monaco eccellente scrittore e di correggerla egli stesso, mi tirò ad Arimini a fare, per questa comodità, la tavola et altar maggiore di detta chiesa, che è lontana dalla città circa tre miglia.
Nella qual tavola feci i Magi che adorano Cristo, con una infinità di figure da me condotte in quel luogo soletario con molto studio, imitando quanto io potei gl'uomini delle corti di tre re, mescolati insieme, ma in modo però che si conosce all'arie de' volti di che regione e soggetto a qual re sia ciascuno.
Conciò sia, che alcuni hanno le carnagioni bianche, i secondi bigie, et altri nere, oltre che la diversità delli abiti e varie portature fa vaghezza e distinzione.
È messa la detta tavola in mezzo da due gran quadri, nei quali è il resto della corte, cavalli, liofanti e giraffe, e per la cappella in varii luoghi sparsi Profeti, Sibille, Evangelisti in atto di scrivere.
Nella cupola o vero tribuna feci quattro gran figure, che trattano delle lodi di Cristo, e della sua stirpe, e della Vergine, e questi sono Orfeo et Omero con alcuni motti greci, Vergilio col motto: "Iam redit et Virgo", etc.
e Dante con questi versi:
Tu sei colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che il suo fattore
non si sdegnò di farsi tua fattura.
Con molte altre figure et invenzioni delle quali non accade altro dire.
Dopo, seguitandosi intanto di scrivere il detto libro e ridurlo a buon termine, feci in S.
Francesco d'Arimini all'altar maggiore una tavola grande a olio, con un S.
Francesco che riceve da Cristo le stimate nel monte della Vernia, ritratto dal vivo; ma perché quel monte è tutto di massi e pietre bigie, e similmente S.
Francesco et il suo compagno si fanno bigi, finsi un sole, dentro al quale è Cristo con buon numero di Serafini, e così fa l'opera variata, et il Santo con altre figure tutto lumeggiato dallo splendore di quel sole, et il paese aombrato dalla varietà d'alcuni colori cangianti, che a molti non dispiacciono, et allora furono molto lodati dal cardinale Capodiferro, legato della Romagna.
Condotto poi da Rimini a Ravenna, feci come in altro luogo s'è detto una tavola nella nuova chiesa della Badia di Classi dell'Ordine di Camaldoli, dipignendovi un Cristo deposto di croce in grembo alla Nostra Donna; e nel medesimo tempo feci per diversi amici molti disegni, quadri, et altre opere minori che sono tante e sì diverse, che a me sarebbe difficile il ricordarmi pur di qualche parte, et a' lettori forse non grato udir tante minuzie.
Intanto essendosi fornita di murare la mia casa d'Arezzo, et io tornatomi a casa, feci i disegni per dipignere la sala, tre camere e la facciata, quasi per mio spasso di quella state.
Nei quali disegni feci fra l'altre cose tutte le provincie e luoghi dove io aveva lavorato, quasi come portassino tributi, per i guadagni che avea fatto con esso loro, a detta mia casa; ma nondimeno per allora non feci altro che il palco della sala, il quale è assai ricco di legnami, con tredici quadri grandi, dove sono gli dei celesti, et in quattro angoli i quattro tempi dell'anno ignudi, i quali stanno a vedere un gran quadro, che è in mezzo, dentro al quale sono in figure grandi quanto il vivo la Virtù, che ha sotto i piedi l'Invidia e, presa la Fortuna per i capegli, bastona l'una e l'altra; e quello che molto allora piacque si fu che in girando la sala attorno, et essendo in mezzo la Fortuna, viene talvolta l'Invidia a esser sopra essa Fortuna e Virtù, e d'altra parte la Virtù sopra l'Invidia e Fortuna, sì come si vede che aviene spesse volte veramente.
Dintorno nelle facciate sono la Copia, la Liberalità, la Sapienza, la Prudenza, la Fatica, l'Onore et altre cose simili, e sotto attorno girano storie di pittori antichi, di Apelle, di Zeusi, Parrasio, Protogene et altri con varii partimenti e minuzie, che lascio per brevità.
Feci ancora nel palco d'una camera di legname intagliato, Abram in un gran tondo, di cui Dio benedice il seme e promette multiplicherà in infinito, et in quattro quadri, che a questo tondo sono intorno, feci la Pace, la Concordia, la Virtù e la Modestia, e perché adorava sempre la memoria e le opere degli antichi, vedendo tralasciare il modo di colorire a tempera, mi venne voglia di risuscitare questo modo di dipignere, e la feci tutta a tempera; il qual modo per certo non merita d'esser affatto dispregiato o tralasciato; et all'entrar della camera feci, quasi burlando, una sposa, che ha in una mano un rastrello, col quale mostra avere rastrellato e portato seco quanto ha mai potuto dalla casa del padre, e nella mano che va innanzi, entrando in casa il marito ha un torchio acceso, mostrando di portare dove va il fuoco, che consuma e distrugge ogni cosa.
Mentre che io mi stava così passando tempo, venuto l'anno 1548, don Giovan Benedetto da Mantoa, abate di Santa Fiore e Lucilla monasterio de' monaci neri cassinensi, dilettandosi infinitamente delle cose di pittura et essendo molto mio amico, mi pregò che io volessi fargli nella testa di uno loro refettorio un Cenacolo, o altra cosa simile.
Onde risolutomi a compiacerli, andai pensando di farvi alcuna cosa fuor dell'uso comune, e così mi risolvei insieme con quel buon padre a farvi le nozze della reina Ester con il re Assuero, et il tutto in una tavola a olio, lunga quindici braccia, ma prima metterla in sul luogo, e quivi poi lavorarla; il qual modo (e lo posso io affermare, che l'ho provato) è quello che si vorrebbe veramente tenere a volere che avessono le pitture i suoi proprii e veri lumi, perciò che infatti il lavorare a basso, o in altro luogo che in sul proprio dove hanno da stare, fa mutare alle pitture i lumi, l'ombre e molte altre proprietà.
In quest'opera adunque mi sforzai di mostrare maestà e grandezza, comeché io non possa far giudizio se mi venne fatto o no; so bene che il tutto disposi in modo, che con assai bell'ordine si conoscono tutte le maniere de' serventi, paggi, scudieri, soldati della guardia, bottiglieria, credenza, musici, et un nano, et ogni altra cosa che a reale e magnifico convito è richiesta.
Vi si vede fra gl'altri lo scalco condurre le vivande in tavola, accompagnato da buon numero di paggi vestiti a livrea, et altri scudieri e serventi.
Nelle teste della tavola, che è aovata, sono signori et altri gran personaggi e cortigiani che in piedi stanno, come s'usa, a vedere il convito.
Il re Assuero stando a mensa come re altero et innamorato sta tutto appoggiato sopra il braccio sinistro, che porge una tazza di vino alla reina, et in atto veramente regio et onorato.
Insomma se io avessi a credere quello che allora sentii dirne al popolo, e sento ancora da chiunche vede quest'opera, potrei credere d'aver fatto qualcosa, ma io so da vantaggio come sta la bisogna, e quello che arei fatto se la mano avesse ubidito a quello che io m'era concetto nell'idea.
Tuttavia vi misi (questo posso confessare liberamente) studio e diligenza.
Sopra l'opera viene nel peduccio d'una volta un Cristo che porge a quella regina una corona di fiori, e questo è fatto in fresco, e vi fu posto per accennare il concetto spirituale della istoria, per la quale si denotava che repudiata l'antica sinagoga Cristo sposava la nuova chiesa de' suoi fedeli cristiani.
Feci in questo medesimo tempo il ritratto di Luigi Guicciardini, fratello di Messer Francesco che scrisse la Storia, per essermi detto Messer Luigi amicissimo et avermi fatto quell'anno, come mio amorevole compare, essendo commensario d'Arezzo, una grandissima tenuta di terre, dette Frassineto in Valdichiana; il che è stata la salute et il maggior bene di casa mia, e sarà de' miei successori, sì come spero, se non mancheranno a loro stessi.
Il quale ritratto, che è appresso gl'eredi di detto Messer Luigi, si dice essere il migliore e più somigliante, d'infiniti che n'ho fatti.
Né de' ritratti fatti da me che pur sono assai farò menzione alcuna, che sarebbe cosa tediosa; e per dire il vero, me ne sono difeso quanto ho potuto di farne.
Questo finito, dipinsi a fra' Mariotto da Castiglioni aretino, per la chiesa di San Francesco di detta terra, in una tavola la Nostra Donna, Santa Anna, San Francesco e San Salvestro.
E nel medesimo tempo disegnai al cardinal di Monte, che poi fu papa Giulio Terzo, molto mio patrone, il quale era allora legato di Bologna, l'ordine e pianta d'una gran coltivazione, che poi fu messa in opera a' piè del Monte San Savino, sua patria, dove fui più volte d'ordine di quel signore, che molto si dilettava di fabricare.
Andato poi, finite che ebbi quest'opere, a Fiorenza, feci quella state, in un segno da portare a processione della Compagnia di San Giovanni de' Peducci d'Arezzo, esso Santo che predica alle turbe da una banda, e dall'altra il medesimo che battezza Cristo, la qual pittura avendo sùbito che fu finita mandata nelle mie case d'Arezzo, perché fusse consegnata agl'uomini di detta Compagnia, avvenne che passando per Arezzo monsignor Giorgio cardinale d'Armignach franzese, vide, nell'andare per altro a vedere la mia casa, il detto segno, o vero stendardo; per che, piacciutogli, fece ogni opera d'averlo, offerendo gran prezzo, per mandarlo al re di Francia, ma io non volli mancar di fede a chi me l'aveva fatto fare, perciò che se bene molti dicevano che n'arei potuto fare un altro, non so se mi fusse venuto fatto così bene e con pari diligenza.
E non molto dopo feci per Messer Anibale Caro, secondo che mi aveva richiesto molto innanzi per una sua lettera che è stampata, in un quadro Adone che muore in grembo a Venere, secondo l'invenzione di Teocrito, la quale opera fu poi, e quasi contra mia voglia, condotta in Francia e data a Messer Albizo del Bene, insieme con una Psiche che sta mirando con una lucerna Amore che dorme, e si sveglia avendolo cotto una favilla di essa lucerna.
Le quali tutte figure ignude e grandi quanto il vivo furono cagione che Alfonso di Tommaso Cambi giovanetto allora bellissimo, letterato, virtuoso e molto cortese e gentile, si fece ritrarre ignudo, e tutto intero, in persona d'uno Endimione cacciatore amato dalla Luna, la cui candidezza, et un paese all'intorno capriccioso, hanno il lume dalla chiarezza della luna, che fa nell'oscuro della notte una veduta assai propria e naturale, perciò che io m'ingegnai con ogni diligenza di contrafare i colori proprii che suol dare il lume di quella bianca giallezza della luna alle cose che percuote.
Dopo questo, dipinsi due quadri per mandare a Raugia: in uno la Nostra Donna e nell'altro una Pietà; et appresso a Francesco Botti in un gran quadro la Nostra Donna col Figliuolo in braccio e Giuseppo, il quale quadro, che io certo feci con quella diligenza che seppi maggiore, si portò seco in Ispagna.
Forniti questi lavori andai l'anno medesimo a vedere il cardinale de' Monti a Bologna, dove era legato, e con esso dimorando alcuni giorni, oltre a molti altri ragionamenti, seppe così ben dire, e ciò con tante buone ragioni persuadermi, che io mi risolvei, stretto da lui, a far quello che insino allora non avea voluto fare, cioè a pigliare moglie, e così tolsi, come egli volle, una figliuola di Francesco Bacci nobile cittadino aretino.
Tornato a Fiorenza feci un gran quadro di Nostra Donna, secondo un mio nuovo capriccio e con più figure, il quale ebbe Messer Bindo Altoviti, che perciò mi donò cento scudi d'oro, e lo condusse a Roma, dove è oggi nelle sue case.
Feci oltre ciò nel medesimo tempo molti altri quadri, come a Messer Bernardetto de' Medici, a Messer Bartolomeo Strada fisico eccellente, et a altri miei amici, che non accade ragionarne.
Di que' giorni, essendo morto Gismondo Martelli in Fiorenza, et avendo lasciato per testamento che in S.
Lorenzo alla cappella di quella nobile famiglia si facesse una tavola con la Nostra Donna et alcuni Santi, Luigi e Pandolfo Martelli, insieme con Messer Cosimo Bartoli, miei amicissimi, mi ricercarono che io facessi la detta tavola.
Et avutone licenza dal signor duca Cosimo patrone e primo Operaio di quella chiesa, fui contento di farla, ma con facultà di potervi fare a mio capriccio alcuna cosa di S.
Gismondo, alludendo al nome di detto testatore.
La quale convenzione fatta, mi ricordai avere inteso che Filippo di ser Brunellesco architetto di quella chiesa avea data quella forma a tutte le cappelle, acciò in ciascuna fusse fatta, non una piccola tavola, ma alcuna storia o pittura grande, che empiesse tutto quel vano.
Per che, disposto a volere in questa parte seguire la volontà et ordine del Brunellesco, più guardando all'onore che al picciol guadagno che di quell'opera destinata a far una tavola piccola e con poche figure potea trarre, feci in una tavola larga braccia dieci et alta tredici la storia, o vero martirio di San Gismondo re, cioè quando egli, la moglie e due figliuoli furono gettati in un pozzo da un altro re, o vero tiranno, e feci che l'ornamento di quella cappella, il quale è mezzo tondo, mi servisse per vano della porta d'un gran palazzo, rustica, per la quale si avesse la veduta del cortile quadro, sostenuto da pilastri e colonne doriche, e finsi che per lo straforo di quella si vedesse nel mezzo un pozzo a otto facce, con salita intorno di gradi, per i quali salendo i ministri, portassono a gettare detti due figliuoli nudi nel pozzo; et intorno nelle logge dipinsi popoli che stanno da una parte a vedere quell'orrendo spettacolo, e nell'altra, che è la sinistra, feci alcuni masnadieri, i quali avendo presa con fierezza la moglie del re, la portano verso il pozzo per farla morire.
Et in sulla porta principale feci un gruppo di soldati che legano San Gismondo, il quale con attitudine relassata e paziente mostra patir ben volentieri quella morte e martirio, e sta mirando in aria quattro Angeli che gli mostrano le palme e corone del martirio, sue, della moglie e de' figliuoli, la qual cosa pare che tutto il riconforti e consoli.
Mi sforzai similmente di mostrare la crudeltà e fierezza dell'empio tiranno, che sta in sul pian del cortile di sopra a vedere quella sua vendetta e la morte di San Gismondo.
Insomma, quanto in me fu, feci ogni opera che in tutte le figure fussero più che si può i proprii affetti e convenienti attitudini e fierezze, e tutto quello si richiedeva; il che quanto mi riuscisse, lascerò ad altri farne giudizio.
Dirò bene che io vi misi quanto potei e seppi di studio, fatica e diligenza.
Intanto disiderando il signor duca Cosimo che il libro delle vite, già condotto quasi al fine, con quella maggior diligenza che a me era stato possibile e con l'aiuto d'alcuni miei amici, si desse fuori et alle stampe, lo diedi a Lorenzo Torrentino impressor ducale, e così fu cominciato a stamparsi.
Ma non erano anche finite le teoriche, quando, essendo morto papa Paulo Terzo, cominciai a dubitare d'avermi a partire di Fiorenza, prima che detto libro fusse finito di stampare.
Perciò che andando io fuor di Fiorenza ad incontrare il cardinal di Monte, che passava per andare al Conclavi, non gli ebbi sì tosto fatto riverenza et alquanto ragionato, che mi disse: "Io vo a Roma, et al sicuro sarò papa.
Spedisciti, se hai che fare, e subito, avuto la nuova, vientene a Roma sanza aspettare altri avvisi o d'essere chiamato".
Né fu vano cotal pronostico, però che essendo quel carnovale in Arezzo, e dandosi ordine a certe feste e mascherate, venne nuova che il detto cardinale era diventato Giulio Terzo, per che montato subito a cavallo venni a Fiorenza, donde, sollecitato dal Duca, andai a Roma per esservi alla coronazione di detto nuovo Pontefice et al fare dell'apparato.
E così giunto in Roma e scavalcato a casa Messer Bindo, andai a far reverenza e baciare il piè a Sua Santità il che fatto, le prime parole che mi disse furono il ricordarmi che quello che mi aveva di sé pronosticato non era stato vano.
Poi dunque che fu coronato e quietato alquanto, la prima cosa che volle si facesse si fu sodisfare a un obligo, che aveva alla memoria di Messer Antonio vecchio e primo cardinal di Monte, d'una sepoltura da farsi a S.
Piero a Montorio.
Della quale fatti i modelli e disegni, fu condotta di marmo, come in altro luogo s'è detto pienamente, et in tanto io feci la tavola di quella cappella, dove dipinsi la conversione di S.
Paulo: ma per variare da quello che avea fatto il Buonarruoto nella Paulina, feci S.
Paulo, come egli scrive, giovane che già cascato da cavallo è condotto dai soldati ad Anania cieco, dal quale per imposizione delle mani riceve il lume degl'occhi perduto et è battezzato.
Nella quale opera, o per la strettezza del luogo, o altro che ne fusse cagione, non sodisfeci interamente a me stesso, se bene forse ad altri non dispiacque, et in particolare a Michelagnolo.
Feci similmente a quel Pontefice un'altra tavola per una cappella del palazzo, ma questa, per le cagioni dette altra volta, fu poi da me condotta in Arezzo e posta in Pieve all'altar maggiore.
Ma quando né in questa, né in quella già detta di S.
Piero a Montorio, io non avessi pienamente sodisfatto né a me, né ad altri, non sarebbe gran fatto, imperò che, bisognandomi essere continuamente alla voglia di quel Pontefice, era sempre in moto, o vero occupato in far disegni d'architettura, e massimamente essendo io stato il primo che disegnasse e facesse tutta l'invenzione della vigna Iulia, che egli fece fare con spesa incredibile, la quale se bene fu poi da altri essequita, io fui nondimeno quegli che misi sempre in disegno i capricci del Papa, che poi si diedero a rivedere e correggere a Michelagnolo; et Iacopo Barozzi da Vignuola finì con molti suoi disegni le stanze, sale et altri molti ornamenti di quel luogo.
Ma la fonte bassa fu d'ordine mio e dell'Amannato, che poi vi restò e fece la loggia che è sopra la fonte.
Ma in quell'opera non si poteva mostrare quello che altri sapesse, né far alcuna cosa pel verso, perciò che venivano di mano in mano a quel Papa nuovi capricci, i quali bisognava metter in essecuzione, secondo che ordinava giornalmente Messer Piergiovanni Aliotti, vescovo di Forlì.
In quel mentre, bisognandomi l'anno 1550 venire per altro a Fiorenza ben due volte, la prima finii la tavola di San Gismondo, la quale venne il Duca a vedere in casa Messer Ottaviano de' Medici dove la lavorai, e gli piacque di sorte, che mi disse, finite le cose di Roma, me ne venissi a Fiorenza al suo servizio, dove mi sarebbe ordinato quello avessi da fare.
Tornato dunque a Roma e dato fine alle dette opere cominciate, e fatta una tavola all'altar maggiore della Compagnia della Misericordia di un San Giovanni decollato, assai diverso dagl'altri che si fanno comunemente, la quale posi su l'anno 1553, me ne volea tornare, ma fui forzato, non potendogli mancare, a fare a Messer Bindo Altoviti due logge grandissime di stucchi et a fresco.
Una delle quali dipinsi alla sua vigna con nuova architettura, perché essendo la loggia tanto grande che non si poteva senza pericolo girarvi le volte, le feci fare con armadure di legname, di stuoie, di canne, sopra le quali si lavorò di stucco, e dipinse a fresco come se fussero di muraglia, e per tale appariscono e son credute da chiunque le vede, e son rette da molti ornamenti di colonne di mischio, antiche e rare; e l'altra nel terreno della sua casa in ponte, piena di storie a fresco.
E dopo per lo palco d'una anticamera quattro quadri grandi a olio delle quattro stagioni dell'anno, e questi finiti fui forzato ritrarre per Andrea della Fonte mio amicissimo una sua donna di naturale, e con esso gli diedi un quadro grande d'un Cristo che porta la croce, con figure naturali, il quale aveva fatto per un parente del Papa, al quale non mi tornò poi bene di donarlo.
Al vescovo di Vasona feci un Cristo morto tenuto da Niccodemo e da due Angeli, et a Pierantonio Bandini una Natività di Cristo col lume della notte e con varia invenzione.
Mentre io faceva quest'opere e stava pure a vedere quello che il Papa disegnasse di fare, vidi finalmente che poco si poteva da lui sperare, e che in vano si faticava in servirlo.
Per che, non ostante che io avessi già fatto i cartoni per dipignere a fresco la loggia che è sopra la fonte di detta vigna, mi risolvei a volere per ogni modo venire a servire il duca di Fiorenza; massimamente, essendo a ciò fare sollecitato da Messer Averardo Serristori e dal vescovo de' Ricasoli, ambasciatori in Roma di sua eccellenza, e con lettere da Messer Sforza Almeni suo coppiere e primo cameriere.
Essendo dunque trasferitomi in Arezzo, per di lì venirmene a Fiorenza, fui forzato fare a monsignor Minerbetti vescovo di quella città, come a mio signore et amicissimo, in un quadro, grande quanto il vivo, la Pacienza, in quel modo che poi se n'è servito per impresa e riverso della sua medaglia il signor Ercole duca di Ferrara.
La quale opera finita, venni a baciar la mano al signor duca Cosimo, dal quale fui per sua benignità veduto ben volentieri; et in tanto che s'andò pensando a che primamente io dovessi por mano, feci fare a Cristofano Gherardi dal Borgo con miei disegni la facciata di Messer Sforza Almeni di chiaro scuro, in quel modo e con quelle invenzioni che si son dette in altro luogo distesamente.
E perché in quel tempo mi trovavo essere de' signori priori della città di Arezzo, ofizio che governa la città, fui con lettere del signor Duca chiamato al suo servizio et assoluto da quello obligo; e venuto a Fiorenza trovai che sua eccellenza aveva cominciato quell'anno a murare quell'appartamento del suo palazzo che è verso la piazza del Grano con ordine del Tasso intagliatore et allora architetto del palazzo; ma era stato posto il tetto tanto basso, che tutte quelle stanze avevano poco sfogo et erano nane affatto, ma perché l'alzare i cavagli et il tetto era cosa lunga, consigliai che si facesse uno spartimento e ricinto di travi con sfondati grandi di braccia due e mezzo fra i cavagli del tetto, e con ordine di mensole per lo ritto che facessono fregiatura circa a due braccia sopra le travi; la qual cosa piacendo molto a sua eccellenza, diede ordine subito che così si facesse, e che il Tasso lavorasse i legnami et i quadri, dentro ai quali si aveva a dipignere la geneologia degli dei, per poi seguitare l'altre stanze.
Mentre dunque che si lavoravano i legnami di detti palchi, avuto licenza dal Duca, andai a starmi due mesi fra Arezzo e Cortona, parte per dar fine ad alcuni miei bisogni e parte per fornire un lavoro in fresco cominciato in Cortona nelle facciate e volta della Compagnia del Gesù.
Nel qual luogo feci tre istorie della vita di Gesù Cristo, e tutti i sacrificii stati fatti a Dio nel Vecchio Testamento da Caino et Abel infino a Nemia profeta, dove anche in quel mentre accomodai di modelli e disegni la fabrica della Madonna Nuova fuor della città.
La quale opera del Gesù finita, tornai a Fiorenza con tutta la famiglia l'anno 1555, al servizio del duca Cosimo; dove cominciai e finii i quadri e le facciate et il palco di detta sala di sopra chiamata degli Elementi, facendo nei quadri, che sono undici, la castrazione di Cielo per l'Aria, et in un terrazzo a canto a detta sala feci nel palco i fatti di Saturno e di Opi, e poi nel palco d'un'altra camera grande tutte le cose di Cerere e Proserpina; in una camera maggiore, che è allato a questa, similmente nel palco, che è ricchissimo, istorie della dea Berecinzia e di Cibele col suo trionfo e le 4 stagioni, e nelle facce tutti e dodici mesi.
Nel palco d'un'altra, non così ricca, il nascimento di Giove, il suo essere nutrito dalla capra Alfea, col rimanente dell'altre cose di lui più segnalate.
In un altro terrazzo a canto alla medesima stanza, molto ornato di pietre e di stucchi, altre cose di Giove e Giunone.
E finalmente nella camera che segue il nascere d'Ercole con tutte le sue fatiche, e quello che non si poté mettere nel palco si mise nelle fregiature di ciascuna stanza, o si è messo ne' panni d'arazzo che il signor Duca ha fatto tessere con mia cartoni a ciascuna stanza, corrispondenti alle pitture delle facciate in alto.
Non dirò delle grottesche, ornamenti e pitture di scale, né altre molte minuzie fatte di mia mano in quello apparato di stanze, perché oltre che spero se n'abbia a fare altra volta più lungo ragionamento, le può vedere ciascuno a sua voglia e darne giudizio.
Mentre di sopra si dipignevano queste stanze, si murarono l'altre che sono in sul piano della sala maggiore e rispondono a queste per dirittura a piombo, con gran comodi di scale publiche e secrete che vanno dalle più alte alle più basse abitazioni del palazzo.
Morto intanto il Tasso, il Duca, che aveva grandissima voglia che quel palazzo, stato murato a caso et in più volte in diversi tempi e più a comodo degl'ufiziali che con alcuno buon ordine, si correggesse, si risolvé a volere che per ogni modo, secondo che possibile era, si rassettasse, e la sala grande col tempo si dipignesse, et il Bandinello seguitasse la cominciata udienza.
Per dunque accordare tutto il palazzo insieme, cioè il fatto con quello che s'aveva da fare, mi ordinò che io facessi più piante e disegni, e finalmente, secondo che alcune gl'erano piaciute, un modello di legname, per meglio potere a suo senno andare accomodando tutti gl'appartamenti, e dirizzare e mutar le scale vecchie che gli parevano erte, mal considerate e cattive.
Alla qual cosa, ancor che impresa difficile e sopra le forze mi paresse, misi mano, e condussi, come seppi il meglio, un grandissimo modello, che è oggi appresso sua eccellenza, più per ubbidirla che con speranza mi avesse da riuscire.
Il quale modello, finito che fu, o fusse sua o mia ventura, o il disiderio grandissimo che io aveva di sodisfare, gli piacque molto; per che, dato mano a murare, a poco a poco si è condotto, facendo ora una cosa e quando un'altra, al termine che si vede.
Et in tanto che si fece il rimanente, condussi con ricchissimo lavoro di stucchi in varii spartimenti le prime otto stanze nuove, che sono in sul piano della gran sala, fra salotti, camere et una cappella, con varie pitture et infiniti ritratti di naturale che vengono nelle istorie, cominciando da Cosimo Vecchio, e chiamando ciascuna stanza dal nome d'alcuno disceso da lui grande e famoso.
In una adunque sono l'azzioni del detto Cosimo più notabili, e quelle virtù che più furono sue proprie, et i suoi maggiori amici e servitori, col ritratto de' figliuoli, tutti di naturale; e così sono insomma quella di Lorenzo Vecchio, quella di papa Leone suo figliuolo, quella di papa Clemente, quella del signor Giovanni padre di sì gran Duca, quella di esso signor duca Cosimo.
Nella cappella è un bellissimo e gran quadro di mano di Raffaello da Urbino, in mezzo a S.
Cosimo e Damiano mie pitture, nei quali è detta cappella intitolata; così delle stanze poi di sopra dipinte alla signora duchessa Leonora, che sono quattro, sono azzioni di donne illustri, greche, ebree, latine e toscane, a ciascuna camera una di queste; perché oltre che altrove n'ho ragionato, se ne dirà pienamente nel Dialogo che tosto daremo in luce, come s'è detto, che il tutto qui raccontare sarebbe stato troppo lungo.
Delle quali mie fatiche ancora che continue, difficili e grandi, ne fui dalla magnanima liberalità di sì gran Duca, oltre alle provisioni, grandemente e largamente rimunerato con donativi, e di case onorate e comode in Fiorenza et in villa, perché io potessi più agiatamente servirlo; oltre che nella patria mia d'Arezzo mi ha onorato del supremo magistrato del Gonfalonieri et altri ufizii con facultà che io possa sostituire in quegli un de' cittadini di quel luogo, senza che a ser Piero mio fratello ha dato in Fiorenza ufizi d'utile, e parimente a' mia parenti d'Arezzo favori eccessivi, là dove io non sarò mai per le tante amorevolezze sazio di confessar l'obligo che io tengo con questo signore.
E tornando all'opere mie dico che pensò questo eccellentissimo signore di mettere ad esecuzione un pensiero avuto già gran tempo, di dipignere la sala grande, concetto degno della altezza e profondità dell'ingegno suo, né so se, come dicea, credo burlando meco, perché pensava certo che io ne caverei le mani, et a' dì suoi la vederebbe finita, o pur fusse qualche altro suo segreto, e, come sono stati tutti e' suoi, prudentissimo giudizio.
L'effetto insomma fu che mi commesse che si alzassi i cavalli et il tetto più di quel che gl'era braccia tredici, e si facessi il palco di legname, e si mettessi d'oro, e dipignessi pien di storie a olio: impresa grandissima, importantissima e se non sopra l'animo forse sopra le forze mie; ma o che la fede di quel gran signore, e la buona fortuna che gl'ha in tutte le cose, mi facessi da più di quel che io sono, o che la speranza e l'occasione di sì bel suggetto mi agevolassi molto di facultà, o che (e questo dovevo preporre a ogn'altra cosa) la grazia di Dio mi somministrassi le forze, io la presi.
E come si è veduto la condussi contra l'openione di molti in molto manco tempo, non solo che io avevo promesso e che meritava l'opera, ma neanche io, o pensassi mai sua eccellenza illustrissima.
Ben mi penso che ne venissi maravigliata e sodisfattissima, perché venne fatta al maggior bisogno et alla più bella occasione che gli potessi occorrere, e questa fu, acciò si sappia la cagione di tanta sollecitudine, che avendo prescritto il maritaggio che si trattava dello illustrissimo Principe nostro con la figliuola del passato Imperatore, e sorella del presente, mi parve debito mio far ogni sforzo che in tempo et occasione di tanta festa, questa che era la principale stanza del palazzo, e dove si avevano a far gli atti più importanti, si potessi godere.
E qui lascerò pensare non solo a chi è dell'arte, ma a chi è fuora ancora pur che abbi veduto la grandezza e varietà di quell'opera, la quale occasione terribilissima e grande, doverrà scusarmi se io non avessi per cotal fretta satisfatto pienamente in una varietà così grande di guerre in terra et in mare, espugnazioni di città, batterie, assalti, scaramuccie, edificazioni di città, consigli publici, cerimonie antiche e moderne, trionfi, e tante altre cose che non che altro gli schizzi, disegni e cartoni di tanta opera richiedevano lunghissimo tempo, per non dir nulla de' corpi ignudi, nei quali consiste la perfezzione delle nostre arti, né de' paesi dove furono fatte le dette cose dipinte, i quali ho tutti avuto a ritrarre di naturale in sul luogo e sito proprio, sì come ancora ho fatto molti capitani generali, soldati et altri capi che furono in quelle imprese che ho dipinto.
Et insomma ardirò dire che ho avuto occasione di fare in detto palco quasi tutto quello che può credere pensiero e concetto d'uomo, varietà di corpi, visi, vestimenti, abigliamenti, celate, elmi, corazze, acconciature di capi diverse, cavalli, fornimenti, barde, artiglierie d'ogni sorte, navigazioni, tempeste, pioggie, nevate, e tante altre cose che io non basto a ricordarmene, ma chi vede quest'opera può agevolmente immaginarsi quante fatiche e quante vigilie abbia sopportato in fare con quanto studio ho potuto maggiore, circa quaranta storie grandi, et alcune di loro in quadri di braccia dieci per ogni verso, con figure grandissime, et in tutte le maniere.
E se bene mi hanno alcuni de' giovani miei creati aiutato, mi hanno alcuna volta fatto commodo et alcuna no.
Perciò che ho avuto tallora, come sanno essi, a rifare ogni cosa di mia mano, e tutta ricoprire la tavola, perché sia d'una medesima maniera.
Le quali storie dico trattano delle cose di Fiorenza, dalla sua edificazione insino a oggi, la divisione in quartieri, le città sottoposte, nemici superati, città soggiogate, et in ultimo il principio e fine della guerra di Pisa, da uno de' lati, e dall'altro il principio similmente e fine di quella di Siena; una dal governo popolare condotta et ottenuta nello spazio di quattordici anni, e l'altra dal Duca in quattordici mesi, come si vedrà; oltre quello che è nel palco, e sarà nelle facciate, che sono ottanta braccia lunghe ciascuna et alte venti, che tuttavia vo dipignendo a fresco, per poi anco di ciò poter ragionare in detto Dialogo.
Il che tutto ho voluto dire in fin qui non per altro che per mostrare con quanta fatica mi sono adoperato et adopero tuttavia nelle cose dell'arte, e con quante giuste cagioni potrei scusarmi, dove in alcuna avessi (che credo avere in molte) mancato.
Aggiugnerò anco, che quasi nel medesimo tempo, ebbi carico di disegnare tutti gl'archi da mostrarsi a sua eccellenza per determinare l'ordine tutto, e poi mettere gran parte in opera, e far finire il già detto grandissimo apparato, fatto in Fiorenza per le nozze del signor principe illustrissimo: di far fare con miei disegni in dieci quadri, alti braccia quattordici l'uno et undici larghi, tutte le piazze delle città principali del dominio, tirate in prospettiva, con i loro primi edificatori et insegne, oltre di far finire la testa di detta sala, cominciata dal Bandinello; di far fare nell'altra una scena, la maggiore e più ricca che fusse da altri fatta mai, e finalmente di condurre le scale principali di quel palazzo, i loro ricetti, et il cortile, e colonne in quel modo che sa ognuno e che si è detto di sopra, con quindici città dell'imperio e del Tiruolo, ritratte di naturale in tanti quadri.
Non è anche stato poco il tempo che ne' medesimi tempi ho messo in tirare innanzi, da che prima la cominciai, la loggia e grandissima fabrica de' magistrati, che volta sul fiume d'Arno, della quale non ho mai fatto murare altra cosa più difficile, né più pericolosa, per essere fondata in sul fiume e quasi in aria.
Ma era necessaria, oltre all'altre cagioni, per appiccarvi, come si è fatto, il gran corridore, che attraversando il fiume, va dal palazzo ducale al palazzo e giardino de' Pitti.
Il quale corridore fu condotto in cinque mesi con mio ordine e disegno ancor che sia opera da pensare che non potesse condursi in meno di cinque anni.
Oltre che anco fu mia cura il far rifare, per le medesime nozze, et accrescere nella tribuna maggiore di Santo Spirito i nuovi ingegni della festa che già si faceva in San Felice in Piazza, il che tutto fu ridotto a quella perfezzione che si poteva maggiore, onde non si corrono più di que' pericoli che già si facevano in detta festa.
È stata similmente mia cura l'opera del palazzo e chiesa de' cavalieri di Santo Stefano in Pisa, e la tribuna, o vero cupola della Madonna dell'Umiltà in Pistoia, che è opera importantissima.
Di che tutto, senza scusare la mia imperfezzione, la quale conosco da vantaggio se cosa ho fatto di buono, rendo infinite grazie a Dio, dal quale spero avere anco tanto d'aiuto che io vedrò quando che sia finita la terribile impresa delle dette facciate della sala, con piena sodisfazione de' miei signori, che già, per ispazio di tredici anni, mi hanno dato occasione di grandissime cose, con mio onore et utile operare, per poi, come stracco, logoro et invecchiato riposarmi.
E se le cose dette, per la più parte, ho fatto con qualche fretta e prestezza, per diverse cagioni, questa spero io di fare con mio commodo, poi che il signor Duca si contenta che io non la corra, ma la faccia con agio, dandomi tutti quei riposi e quelle ricreazioni che io medesimo so disiderare.
Onde l'anno passato, essendo stracco per le molte opere sopra dette, mi diede licenza che io potessi alcuni mesi andare a spasso, per che messomi in viaggio cercai poco meno che tutta Italia, rivedendo infiniti amici, e miei signori, e l'opere di diversi eccellenti artefici, come ho detto di sopra ad altro proposito.
In ultimo essendo in Roma per tornarmene a Fiorenza, nel baciare i piedi al santissimo e beatissimo papa Pio Quinto, mi comise che io gli facessi in Fiorenza una tavola per mandarla al suo convento e chiesa del Bosco, ch'egli faceva tuttavia edificare nella sua patria, vicino ad Alessandria della Paglia.
Tornato dunque a Fiorenza, e per averlomi Sua Santità comandato, e per le molte amorevolezze fattemi, gli feci, sì come avea commessomi, in una tavola l'Adorazione de' Magi, la quale come seppe essere stata da me condotta a fine, mi fece intendere che per sua contentezza e per conferirmi alcuni suoi pensieri, io andassi con la detta tavola a Roma, ma sopra tutto per discorrere sopra la fabrica di San Piero, la quale mostra di avere a cuore sommamente.
Messomi dunque a ordine con cento scudi, che per ciò mi mandò, e mandata innanzi la tavola, andai a Roma.
Dove, poi che fui dimorato un mese, et avuti molti ragionamenti con Sua Santità, e consigliatolo a non permettere che s'alterasse l'ordine del Buonarruoto nella fabrica di San Piero, e fatti alcuni disegni, mi ordinò che io facessi per l'altar maggiore della detta sua chiesa del Bosco, e non una tavola, come s'usa comunemente, ma una machina grandissima quasi a guisa d'arco trionfale, con due tavole grandi, una dinanzi et una di dietro, et in pezzi minori circa trenta storie piene di molte figure che tutte sono a bonissimo termine condotte.
Nel qual tempo ottenni graziosamente da Sua Santità (mandandomi con infinita amorevolezza e favore le bolle espedite gratis) la erezione d'una cappella e decanato nella Pieve d'Arezzo, che è la cappella maggiore di detta Pieve, con mio padronato e della casa mia, dotata da me e di mia mano dipinta, et offerta alla bontà divina per una ricognizione (ancor che minima sia) del grande obligo c'ho con sua maiestà per infinite grazie e benefizii che s'è degnato farmi.
La tavola della quale, nella forma, è molto simile alla detta di sopra; il che è stato anche cagione in parte di ridurlami a memoria, perché è isolata et ha similmente due tavole, una già tocca di sopra nella parte dinanzi, et una della istoria di S.
Giorgio di dietro, messe in mezzo da quadri con certi Santi, e sotto in quadretti minori l'istorie loro che di quanto è sotto l'altare in una bellissima tomba i corpi loro con altre reliquie principali della città.
Nel mezzo viene un tabernacolo assai bene accomodato per il Sacramento, perché corrisponde a l'uno e l'altro altare, abellito di istorie del Vecchio e Nuovo Testamento, tutte approposito di quel misterio, come in parte s'è ragionato altrove.
Mi era anche scordato di dire che l'anno innanzi, quando andai la prima volta a baciargli i piedi, feci la via di Perugia, per mettere a suo luogo tre gran tavole fatte ai monaci neri di San Piero in quella città, per un loro refettorio.
In una cioè quella del mezzo sono le nozze di Cana Galilea, nelle quali Cristo fece il miracolo di convertire