LE VITE DE' PIU' ECCELLENTI PITTORI, SCULTORI, E ARCHITETTORI, di Giorgio Vasari - pagina 241
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Da questo caso del marmo, invitati alcuni, feciono versi toscani e latini ingegnosamente mordendo Baccio, il quale per esser loquacissimo e dir male degli altri artefici e di Michelagnolo, era odiato.
Uno tra gli altri prese questo suggetto ne' suoi versi, dicendo che 'l marmo, poi che era stato provato dalla virtù di Michelagnolo, conoscendo d'avere a essere storpiato dalle mani di Baccio, disperato per sì cattiva sorte, s'era gittato in fiume.
Mentre che 'l marmo si traeva dell'acqua e per la difficultà tardava l'effetto, Baccio misurando trovò che né per altezza, né per grossezza non si poteva cavarne le figure del primo modello, laonde, andato a Roma e portato seco le misure, fece capace il Papa, come era costretto dalla necessità a lasciare il primo e fare altro disegno.
Fatti addunque più modelli, uno più degli altri ne piacque al Papa, dove Ercole aveva Cacco fra le gambe e presolo pe' capelli lo teneva sotto a guisa di prigione.
Questo si risolverono che si mettesse in opera e si facesse.
Tornato Baccio a Firenze, trovò che Piero Rosselli aveva condotto il marmo nell'Opera di Santa Maria del Fiore, il quale avendo posto in terra prima alcuni banconi di noce per lunghezza e spianati in isquadra, i quali andava tramutando secondo che camminava il marmo, sotto il quale poneva alcuni curri tondi e ben ferrati sopra detti banconi, e tirando il marmo con tre argani, a' quali l'aveva attaccato, a poco a poco lo condusse facilmente nell'Opera.
Quivi rizzato il sasso, cominciò Baccio un modello di terra grande quanto il marmo, formato secondo l'ultimo fatto dinanzi in Roma da lui, e con molta diligenza lo finì in pochi mesi, ma con tutto questo non parve a molti artefici che in questo modello fusse quella fierezza e vivacità che ricercava il fatto, né quella che egl'aveva data a quel suo primo modello.
Cominciando di poi a lavorare il marmo, lo scemò Baccio intorno intorno fino al bellico, scoprendo le membra dinanzi, considerando lui tuttavia di cavarne le figure che fussino appunto come quelle del modello grande di terra.
In questo medesimo tempo aveva preso a fare di pittura una tavola assai grande per la chiesa di Cestello e n'aveva fatto un cartone molto bello, dentrovi Cristo morto e le Marie intorno e Niccodemo con altre figure, ma la tavola non dipinse per la cagione che di sotto diremo.
Fece ancora in questo tempo un cartone per fare un quadro, dove era Cristo deposto di croce tenuto in braccio da Niccodemo e la madre sua in piedi che lo piangeva, et un Angelo che teneva in mano i chiodi e la corona delle spine; e subito messosi a colorirlo, lo finì prestamente e lo messe a mostra in Mercato Nuovo su la bottega di Giovanni di Goro orefice, amico suo, per intenderne l'opinione degli uomini e quel che Michelagnolo ne diceva.
Fu menato a vederlo Michelagnolo dal Piloto orefice, il quale considerato che ebbe ogni cosa, disse che si maravigliava che Baccio sì buono disegnatore si lasciasse uscir di mano una pittura sì cruda e senza grazia; che aveva veduto ogni cattivo pittore condurre l'opere sue con miglior modo; e che questa non era arte per Baccio.
Riferì il Piloto il giudizio di Michelagnolo a Baccio il quale, ancor che gli portasse odio, conosceva che diceva il vero.
E certamente i disegni di Baccio erano bellissimi, ma co' colori gli conduceva male e senza grazia, per che egli si risolvé a non dipignere più di sua mano, ma tolse appresso di sé un giovane che maneggiava i colori assai acconciamente, chiamato Agnolo, fratello del Francia Bigio, pittore eccellente, che pochi anni innanzi era morto.
A questo Agnolo disiderava di far condurre la tavola di Cestello, ma ella rimase imperfetta, di che fu cagione la mutazione dello stato in Firenze, la quale seguì l'anno 1527, quando i Medici si partirono di Firenze dopo il Sacco di Roma.
Dove Baccio non si tenendo sicuro, avendo nimicizia particulare con un suo vicino alla villa di Pinzerimonte, il quale era di fazzion popolare, sotterrato che ebbe in detta villa alcuni cammei et altre figurine di bronzo antiche che erano de' Medici, se n'andò a stare a Lucca.
Quivi s'intrattenne fino a tanto che Carlo V imperadore venne a ricevere la corona in Bologna; di poi fattosi vedere al Papa se n'andò seco a Roma, dove ebbe al solito le stanze in Belvedere.
Dimorando quivi Baccio, pensò Sua Santità di satisfare a un voto il quale aveva fatto mentre che stette rinchiuso in Castel Sant'Agnolo; il voto fu di porre sopra la fine del torrione tondo di marmo, che è a fronte al ponte di Castello, sette figure grandi di bronzo di braccia sei l'una, tutte a giacere in diversi atti, come cinte da un Angelo, il quale voleva che posasse nel mezzo di quel torrione sopra una colonna di mischio et egli fusse di bronzo con la spada in mano.
Per questa figura dell'Angelo intendeva l'angelo Michele, custode e guardia del Castello, il quale col suo favore et aiuto l'aveva liberato e tratto di quella prigione, e per le sette figure a giacere poste significava i sette peccati mortali, volendo dire che con l'aiuto dell'Angelo vincitore aveva superati e gittati per terra i suoi nimici, uomini scelerati et empi, i quali si rappresentavano in quelle sette figure de' sette peccati mortali.
Per questa opera fu fatto fare da Sua Santità un modello, il quale essendole piaciuto ordinò che Baccio cominciasse a fare le figure di terra grande quanto avevano a essere, per gittarle poi di bronzo.
Cominciò Baccio e finì in una di quelle stanze di Belvedere una di quelle figure di terra, la quale fu molto lodata.
Insieme ancora, per passarsi tempo e per vedere come gli doveva riuscire il getto, fece molte figurine alte due terzi e tonde come Ercoli, Venere, Apollini, Lede et altre sue fantasie, e fattele gittar di bronzo a maestro Iacopo della Barba fiorentino, riuscirono ottimamente.
Di poi le donò a Sua Santità et a molti signori, delle quali ora ne sono alcune nello scrittoio del duca Cosimo, fra un numero di più di cento antiche, tutte rare, e d'altre moderne.
Aveva Baccio in questo tempo medesimo fatto una storia di figure piccole di basso e mezzo rilievo d'una Deposizione di croce, la quale fu opera rara e la fece con gran diligenza gettare di bronzo: così finita la donò a Carlo Quinto di Genova, il quale la tenne carissima e di ciò fu segno che sua maestà dette a Baccio una commenda di San Iacopo e lo fece cavaliere.
Ebbe ancora dal principe Doria molte cortesie, e dalla republica di Genova gli fu allogato una statua di braccia sei di marmo, la quale doveva essere un Nettunno in forma del principe Doria, per porsi in su la piazza in memoria delle virtù di quel principe e de' benefizii grandissimi e rari, i quali la sua patria Genova aveva ricevuti da lui.
Fu allogata questa statua a Baccio per prezzo di mille fiorini, de' quali ebbe allora cinquecento, e subito andò a Carrara per abbozzarla alla cava del Polvaccio.
Mentre che 'l governo popolare, dopo la partita de' Medici, reggeva Firenze, Michelagnolo Buonarroti fu adoperato per le fortificazioni della città, e fugli mostro il marmo che Baccio aveva scemato insieme col modello d'Ercole e Cacco, con intenzione che se il marmo non era scemato troppo, Michelagnolo lo pigliasse e vi facesse due figure a modo suo.
Michelagnolo, considerato il sasso, pensò un'altra invenzione diversa, e lasciato Ercole e Cacco, prese Sansone che tenesse sotto due Filistei abbattuti da lui, morto l'uno del tutto e l'altro vivo ancora, al quale menando un marrovescio con una mascella di asino, cercasse di farlo morire.
Ma come spesso avviene che gli umani pensieri talora si promettono alcune cose, il contrario delle quali è determinato dalla sapienza d'Iddio, così accade allora perché, venuta la guerra contro alla città di Firenze, convenne a Michelagnolo pensare ad altro che a pulir marmi, et ebbesi per paura de' cittadini a discostare dalla città.
Finita poi la guerra e fatto l'accordo, papa Clemente fece tornare Michelagnolo a Firenze a finire la sagrestia di San Lorenzo e mandò Baccio a dar ordine di finire il gigante, il quale mentre che egli era intorno, aveva preso le stanze nel palazzo de' Medici, e per parere affezzionato scriveva quasi ogni settimana a Sua Santità entrando, oltre alle cose dell'arte, ne' particolari de' cittadini e di chi ministrava il governo, con uffici odiosi e da recarsi più malivolenza addosso che egli non aveva prima.
Là dove al duca Alessandro tornato dalla corte di sua maestà in Firenze furono da' cittadini mostrati i sinistri modi che Baccio verso di loro teneva, onde ne seguì che l'opera sua del gigante gli era da' cittadini impedita e ritardata quanto da loro far si poteva.
In questo tempo, dopo la guerra d'Ungheria, papa Clemente e Carlo imperadore abboccandosi in Bologna dove venne Ippolito de' Medici cardinale et il duca Alessandro, parve a Baccio d'andare a baciare i piedi a Sua Santità, e portò seco un quadro alto un braccio e largo uno e mezzo d'un Cristo battuto alla colonna da due ignudi, il quale era di mezzo rilievo e molto ben lavorato.
Donò questo quadro al Papa, insieme con una medaglia del ritratto di Sua Santità, la quale aveva fatta fare a Francesco dal Prato suo amicissimo; il rovescio della quale medaglia era Cristo flagellato.
Fu accetto il dono a Sua Santità, alla quale espose Baccio gl'impedimenti e le noie avute nel finire il suo Ercole, pregandola che col duca operasse di dargli commodità di condurlo al fine, et aggiugneva che era invidiato et odiato in quella città, et essendo terribile di lingua e d'ingegno, persuase il Papa a fare che 'l duca Alessandro si pigliasse cura che l'opera di Baccio si conducesse a fine e si ponesse al luogo suo in piazza.
Era morto Michelagnolo orefice, padre di Baccio, il quale avendo in vita preso a fare con ordine del Papa, per gli Operai di Santa Maria del Fiore, una croce grandissima d'argento tutta piena di storie di basso rilievo della passione di Cristo, della quale croce Baccio aveva fatto le figure e storie di cera per formarle d'argento, l'aveva Michelagnolo morendo lasciata imperfetta, et avendola Baccio in mano con molte libbre d'argento, cercava che Sua Santità desse a finire questa croce a Francesco dal Prato, che era andato seco a Bologna.
Dove il Papa, considerando che Baccio voleva non solo ritrarsi delle fatture del padre, ma avanzare nelle fatiche di Francesco qualche cosa, ordinò a Baccio che l'argento e le storie abbozzate e le finite si dessino agli Operai e si saldasse il conto e che gli Operai fondessero tutto l'argento di detta croce, per servirsene ne' bisogni della chiesa stata spogliata de' suoi ornamenti nel tempo dell'assedio; et a Baccio fece dare fiorini cento d'oro e lettere di favore acciò tornando a Firenze desse compimento all'opera del gigante.
Mentre che Baccio era in Bologna, il cardinale Doria lo 'ntese che egli era per partirsi di corto: per che trovatolo a posta, con molte grida e con parole ingiuriose lo minacciò, perciò che aveva mancato alla fede sua et al debito, non dando fine alla statua del principe Doria, ma lasciandola a Carrara abbozzata, avendone presi cinquecento scudi, per la qual cosa disse che se Andrea lo potesse avere in mano, gliene farebbe scontare alla galea.
Baccio umilmente e con buone parole si difese, dicendo che aveva avuto giusto impedimento, ma che in Firenze aveva un marmo della medesima altezza, del quale aveva disegnato di cavarne quella figura, e che tosto cavata e fatta, la manderebbe a Genova.
E seppe sì ben dire e raccomandarsi, che ebbe tempo a levarsi dinanzi al cardinale.
Dopo questo, tornato a Firenze e fatto mettere mano allo imbasamento del gigante e lavorando lui di continovo l'anno 1534, lo finì del tutto.
Ma il duca Alessandro, per la mala relazione de' cittadini, non si curava di farlo mettere in piazza.
Era tornato già il Papa a Roma molti mesi innanzi e desiderando lui di fare per papa Leone e per sé nella Minerva due sepolture di marmo, Baccio presa questa occasione andò a Roma, dove il Papa si risolvé che Baccio facesse dette sepolture, dopo che avesse finito di mettere in piazza il gigante; e scrisse al Duca il Papa che desse ogni commodità a Baccio per porre in piazza il suo Ercole.
Laonde fatto uno assito intorno, fu murato l'imbasamento di marmo, nel fondo del quale messono una pietra con lettere in memoria di papa Clemente VII e buon numero di medaglie con la testa di Sua Santità e del duca Alessandro.
Fu cavato di poi il gigante dell'Opera, dove era stato lavorato, e per condurlo commodamente e senza farlo patire, gli feciono una travata intorno di legname, con canapi che l'inforcavano tra le gambe e corde che l'armavano sotto le braccia e per tutto; e così sospeso fra le trave in aria, sì che non toccasse il legname, fu con taglie et argani e da dieci paia di gioghi di buoi tirato a poco a poco fino in piazza.
Dettono grande aiuto due legni grossi mezzi tondi, che per lunghezza erano a piè della travata confitti a guisa di basa, i quali posavano sopra altri legni simili insaponati, e questi erano cavati e rimessi da' manovali di mano in mano, secondo che la macchina camminava.
Con questi ordini et ingegni fu condotto con poca fatica e salvo il gigante in piazza.
Questa cura fu data a Baccio d'Agnolo et Antonio vecchio da San Gallo architettori dell'Opera, i quali di poi con altre travi e con taglie doppie lo messono sicuramente in su la basa.
Non sarebbe facile a dire il concorso e la moltitudine che per due giorni tenne occupata tutta la piazza, venendo a vedere il gigante tosto che fu scoperto; dove si sentivano diversi ragionamenti e pareri d'ogni sorte d'uomini e tutti in biasimo dell'Opera e del maestro.
Furono appiccati ancora intorno alla basa molti versi latini e toscani, ne' quali era piacevole a vedere gl'ingegni de' componitori e l'invenzioni et i detti acuti.
Ma trapassandosi col dir male e con le poesie satiriche e mordaci ogni convenevole segno, il duca Alessandro, parendogli sua indegnità per essere l'opera pubblica, fu forzato a far mettere in prigione alcuni, i quali senza rispetto apertamente andavano appiccando sonetti, la qual cosa chiuse tosto le bocche de' maldicenti.
Considerando Baccio l'opera sua nel luogo proprio, gli parve che l'aria poco la favorisse, facendo apparire i muscoli troppo dolci; però fatto rifare nuova turata d'asse intorno, le ritornò addosso cogli scarpelli et affondando in più luoghi i muscoli, ridusse le figure più crude che prima non erano.
Scoperta finalmente l'opera del tutto, da coloro che possono giudicare è stata sempre tenuta, sì come difficile, così molto bene studiata e ciascuna delle parti attesa e la figura di Cacco ottimamente accomodata.
E nel vero il Davitte di Michelagnolo toglie assai di lode all'Ercole di Baccio, essendogli a canto et essendo il più bel gigante che mai sia stato fatto, nel quale è tutta grazia e bontà, dove la maniera di Baccio è tutta diversa.
Ma veramente considerando l'Ercole di Baccio da sé, non si può se non grandemente lodarlo e tanto più, vedendo che molti scultori di poi hanno tentato di far statue grandi e nessuno è arrivato al segno di Baccio; il quale se dalla natura avesse ricevuta tanta grazia et agevolezza, quanta da sé si prese fatica e studio, egli era nell'arte della scultura perfetto interamente.
Desiderando lui di sapere ciò che dell'opera sua si diceva, mandò in piazza un pedante, il quale teneva in casa, dicendogli che non mancasse di riferirgli il vero di ciò che udiva dire.
Il pedante non udendo altro che male, tornato malinconoso a casa e domandato da Baccio, rispose che tutti per una voce biasimano i giganti e che e' non piacciono loro.
"E tu che ne di'?", disse Baccio.
Rispose: "Dicone bene e che e' mi piacciono per farvi piacere".
"Non vo' ch'e' ti piacciano", disse Baccio "e dì pur male ancora tu, che come tu puoi ricordarti, io non dico mai bene di nessuno.
La cosa va del pari." Dissimulava Baccio il suo dolore e così sempre ebbe per costume di fare, mostrando di non curare del biasimo che l'uomo alle sue cose desse.
Nondimeno egli è verisimile che grande fusse il suo dispiacere, perché coloro che s'affaticano, per l'onore e di poi ne riportano biasimo, è da credere, ancor che indegno sia il biasimo et a torto, che ciò nel cuor segretamente gli affligga e di continovo gli tormenti.
Fu racconsolato il suo dispiacere da una possessione, la quale oltre al pagamento gli fu data per ordine di papa Clemente.
Questo dono doppiamente gli fu caro e per l'utile et entrata e perché era allato alla sua villa di Pinzerimonte, e perché era prima di Rignadori allora fatto ribello e suo mortale nimico, col quale aveva sempre conteso per conto de' confini di questo podere.
In questo tempo fu scritto al duca Alessandro dal principe Doria che operasse con Baccio che la sua statua si finisse, ora che il gigante era del tutto finito, e che era per vendicarsi con Baccio se egli non faceva il suo dovere.
Di che egli impaurito non si fidava d'andare a Carrara, ma pur dal cardinal Cibo e dal duca Alessandro assicurato v'andò, e lavorando con alcuni aiuti tirava innanzi la statua.
Teneva conto giornalmente il principe di quanto Baccio faceva; onde, essendogli riferito che la statua non era di quella eccellenza che gli era stato promesso, fece intendere il principe a Baccio che se egli non lo serviva bene che si vendicherebbe seco.
Baccio sentendo questo, disse molto male del principe, il che tornatogli all'orecchie, era risoluto d'averlo nelle mani per ogni modo e di vendicarsi col fargli gran paura della galea.
Per la qual cosa vedendo Baccio alcuni spiamenti di certi che l'osservavano, entrato di ciò in sospetto, come persona accorta e risoluta, lasciò il lavoro così come era e tornossene a Firenze.
Nacque circa questo tempo a Baccio d'una donna, la quale egli tenne in casa, un figliuolo, al quale, essendo morto in que' medesimi giorni papa Clemente, pose nome Clemente per memoria di quel pontefice che sempre l'aveva amato e favorito.
Dopo la morte del quale intese che Ippolito cardinale de' Medici, et Innocenzio cardinale Cibo, e Giovanni cardinale Salviati, e Niccolò cardinale Ridolfi, insieme con Messer Baldassarre Turini da Pescia, erano essecutori del testamento di papa Clemente e dovevano allogare le due sepolture di marmo di Leone e di Clemente da porsi nella Minerva, delle quali egli aveva già per addietro fatto i modelli.
Queste sepolture erano state nuovamente promesse ad Alfonso Lombardi scultore ferrarese, per favore del cardinale de' Medici, del quale egli era servitore.
Costui per consiglio di Michelagnolo avendo mutato invenzione, di già ne aveva fatto i modelli, ma senza contratto alcuno dell'allogagione e solo alla fede standosi, aspettava d'andare di giorno in giorno a Carrara per cavare i marmi.
Così consumando il tempo, avvenne che il cardinale Ippolito nell'andare a trovare Carlo V, per viaggio morì di veleno.
Baccio inteso questo, e senza metter tempo in mezzo andato a Roma, fu prima da madonna Lucrezia Salviata de' Medici, sorella di papa Leone, alla quale si sforzò di mostrare che nessuno poteva fare maggiore onore all'ossa di que' gran pontefici che la virtù sua, et aggiunse che Alfonso scultore era senza disegno e senza pratica e giudicio ne' marmi, e che egli non poteva se non con l'aiuto d'altri condurre sì onorata impresa.
Fece ancora molte altre pratiche e per diversi mezzi e vie operò tanto, che gli venne fatto di rivolgere l'animo di que' signori, i quali finalmente dettono il carico al cardinale Salviati di convenire con Baccio.
Era in questo tempo arrivato a Napoli Carlo V imperadore et in Roma Filippo Strozzi, Antonfrancesco degli Albizi e gli altri fuorusciti trattavano col cardinale Salviati d'andare a trovare sua maestà contro al duca Alessandro, et erano col cardinale a tutte l'ore nelle sale e nelle camere del quale stava Baccio tutto il giorno aspettando di fare il contratto delle sepolture, né poteva venire a capo per gl'impedimenti del cardinale nella spedizione de' fuorusciti.
Costoro vedendo Baccio tutto il giorno e la sera in quelle stanze, insospettiti di ciò e dubitando ch'egli stesse quivi per ispiare ciò che essi facevano per darne avviso al duca, s'accordorono alcuni de' loro giovani a codiarlo una sera e levarnelo dinanzi.
Ma la fortuna soccorrendo in tempo, fece che gli altri due cardinali con Messer Baldassarre da Pescia presono a finire il negozio di Baccio.
I quali conoscendo che nell'architettura Baccio valeva poco, avevano fatto fare a Antonio da S.
Gallo un disegno che piaceva loro, et ordinato che tutto il lavoro di quadro da farsi di marmo lo dovesse far condurre Lorenzetto scultore, e che le statue di marmo e le storie s'allogassino a Baccio.
Convenuti addunque in questo modo, feciono finalmente il contratto con Baccio, il quale non comparendo più intorno al cardinal Salviati e levatosene a tempo, i fuorusciti, passata quell'occasione, non pensorono ad altro del fatto suo.
Dopo queste cose, fece Baccio due modelli di legno con le statue e storie di cera, i quali avevano i basamenti sodi senza risalti, sopra ciascuno de' quali erano quattro colonne ioniche storiate, le quali spartivano tre vani, uno grande nel mezzo, dove sopra un piedistallo era per ciascuna un papa a sedere in pontificale che dava la benedizzione e ne' vani minori una nicchia con una figura tonda in piè, per ciascuna alta quattro braccia, e dentro alcuni Santi che mettono in mezzo detti papi.
L'ordine della composizione aveva forma d'arco trionfale, e sopra le colonne che reggevano la cornice era un quadro alto braccia tre e largo quattro e mezzo, entro al quale era una storia di mezzo rilievo in marmo, nella quale era l'abboccamento del re Francesco a Bologna, sopra la statua di papa Leone, la quale statua era messa in mezzo nelle due nicchie da S.
Piero e da S.
Paulo, e di sopra accompagnavano la storia del mezzo di Leone due altre storie minori, delle quali una era sopra S.
Piero e quando egli risuscita un morto, e l'altra sopra S.
Paulo, quando e' predica a' popoli.
Ne l'istoria di papa Clemente, che rispondeva a questa, era quando egli incorona Carlo imperadore a Bologna e la mettono in mezzo due storie minori, in una è S.
Giovanni Batista che predica a' popoli, nell'altra S.
Giovanni Evangelista che risuscita Drusiana, et hanno sotto nelle nicchie i medesimi Santi alti braccia quattro, che mettono in mezzo la statua di papa Clemente simile a quella di Leone.
Mostrò in questa fabbrica Baccio o poca religione, o troppa adulazione, o l'uno e l'altro insieme, mentre che gli uomini deificati et i primi fondatori della nostra religione, dopo Cristo et i più grati a Dio, vuole che cedino a' nostri papi e gli pone in luogo a loro indegno, a Leone e Clemente inferiori.
E certo sì come da dispiacere a' Santi et a Dio, così da non piacere a' papi et agli altri, fu questo suo disegno.
Perciò che a me pare che la religione, e voglio dire la nostra sendo vera religione, debba esser dagli uomini a tutte l'altre cose e rispetti preposta.
E dall'altra parte volendo lodare et onorare qualunche persona, giudico che bisogni raffrenarsi e temperarsi e talmente dentro a certi termini contenersi, che la lode e l'onore non diventi un'altra cosa, dico imprudenza et adulazione, la quale prima il lodator vituperi e poi al lodato, se egli ha sentimento, non piaccia tutta il contrario.
Facendo Baccio di questo che io dico, fece conoscere a ciascuno che egli aveva assai affezzione sì bene e buona volontà verso i papi, ma poco giudicio nell'esaltargli et onorargli ne' loro sepolcri.
Furono i sopra detti modelli portati da Baccio a Monte Cavallo a Sant'Agata, al giardino del cardinale Ridolfi, dove sua signoria dava desinare a Cibo et a Salviati et a Messer Baldassarre da Pescia, ritirati quivi insieme per dar fine a quanto bisognava per le sepolture.
Mentre addunque che erano a tavola, giunse il Solosmeo scultore, persona ardita e piacevole, e che diceva male d'ognuno volentieri et era poco amico di Baccio.
Fu fatto l'imbasciata a que' signori che il Solosmeo chiedeva d'entrare, Ridolfi disse che gli si aprisse e volto a Baccio: "Io voglio", disse, "che noi sentiamo ciò che dice il Solosmeo dell'allogagione di queste sepolture; alza Baccio quella portiera e stavvi sotto".
Subito ubbidì Baccio, et arrivato il Solosmeo e fattogli dare da bere, entrorono dipoi nelle sepolture allogate a Baccio, dove il Solosmeo riprendendo i cardinali che male l'avevano allogate, seguitò dicendo ogni male di Baccio, tassandolo d'ignoranza nell'arte e d'avarizia e d'arroganza, et a molti particulari venendo de' biasimi suoi.
Non poté Baccio, che stava nascosto dietro alla portiera, sofferir tanto che 'l Solosmeo finisse, et uscito fuori in còllora e con mal viso, disse al Solosmeo: "Che t'ho io fatto, che tu parli di me con sì poco rispetto?".
Ammutolì all'apparire di Baccio il Solosmeo e volto a Ridolfi disse: "Che baie son queste, monsignore? Io non voglio più pratica di preti", et andossi con Dio.
Ma i cardinali ebbero da ridere assai dell'uno e dell'altro, dove Salviati disse a Baccio: "Tu senti il giudicio degli uomini dell'arte; fa tu con l'operar tuo sì che tu gli faccia dire le bugie".
Cominciò poi Baccio l'opera delle statue e delle storie, ma già non riuscirono i fatti secondo le promesse e l'obbligo suo con que' papi, perché nelle figure e nelle storie usò poca diligenza e mal finite le lasciò e con molti difetti, sollecitando più il riscuotere l'argento che il lavorare il marmo.
Ma poiché que' signori s'avveddono del procedere di Baccio, pentendosi di quel che avevano fatto, essendo rimasti due pezzi di marmi maggiori delle due statue che mancavano a farsi, una di Leone a sedere e l'altra di Clemente, pregandolo che si portasse meglio, ordinorono che le finisse; ma avendo Baccio levata già tutta la somma de' danari, fece pratica con Messer Giovambattista da Ricasoli, vescovo di Cortona, il quale era in Roma per negozii del duca Cosimo, di partirsi di Roma per andare a Firenze a servire il duca Cosimo nelle fonte di Castello sua villa, e nella sepoltura del signor Giovanni suo padre.
Il duca avendo risposto che Baccio venisse, egli se n'andò a Firenze lasciando senza dir altro l'opera delle sepolture imperfetta e le statue in mano di due garzoni.
I cardinali vedendo questo feciono allogagione di quelle due statue de' papi che erano rimaste a due scultori: l'uno fu Raffaello da Montelupo, che ebbe la statua di papa Leone, l'altro Giovanni di Baccio, al quale fu data la statua di Clemente.
Dato di poi ordine che si murasse il lavoro di quadro e tutto quel che era fatto, si messe su l'opera, dove le statue e le storie non erano in molti luoghi né impomiciate né pulite, sì che dettono a Baccio più carico che nome.
Arrivato Baccio a Firenze, e trovato che 'l Duca aveva mandato il Tribolo scultore a Carrara per cavar marmi per le fonti di Castello e per la sepoltura del signor Giovanni, fece tanto Baccio col Duca, che levò la sepoltura del signor Giovanni delle mani del Tribolo, mostrando a sua eccellenza che i marmi per tale opera erano gran parte in Firenze; così a poco a poco si fece famigliare di sua eccellenza, sì che per questo e per la sua alterigia ognuno di lui temeva.
Messe di poi innanzi al Duca che la sepoltura del signor Giovanni si facesse in San Lorenzo nella cappella de' Neroni, luogo stretto, affogato e meschino, non sapendo o non volendo proporre (sì come si conveniva) a un principe sì grande che facesse una cappella di nuovo a posta.
Fece ancora sì che 'l Duca chiese a Michelagnolo per ordine di Baccio molti marmi, i quali egli aveva in Firenze, et ottenutigli il Duca da Michelagnolo e Baccio dal Duca, tra' quali marmi erano alcune bozze di figure et una statua assai tirata innanzi da Michelagnolo, Baccio preso ogni cosa, tagliò e tritò in pezzi ciò che trovò, parendogli in questo modo vendicarsi e fare a Michelagnolo dispiacere.
Trovò ancora nella stanza medesima di San Lorenzo, dove Michelagnolo lavorava, dua statue in un marmo d'un Ercole che strigneva Anteo, le quali il Duca faceva fare a fra' Giovannagnolo scultore, et erano assai innanzi, e dicendo Baccio al Duca che il frate aveva guasto quel marmo, ne fece molti pezzi.
In ultimo della sepoltura murò tutto l'imbasamento, il quale è un dado isolato di braccia quattro incirca per ogni verso, et ha da piè un zoccolo con una modanatura a uso di basa che gira intorno intorno e con una cimasa nella sua sommità, come si fa ordinariamente a' piedistalli, e sopra una gola alta tre quarti, che va in dentro sgusciata a rovescio a uso di fregio, nella quale sono intagliate alcune ossature di teste di cavalli legate con panni l'una all'altra, dove in cima andava un altro dado minore, con una statua a sedere armata all'antica di braccia quattro e mezzo con un bastone in mano da condottieri d'eserciti, la quale doveva essere fatta per la persona dell'invitto signor Giovanni de' Medici.
Questa statua fu cominciata da lui in un marmo et assai condotta innanzi, ma non mai poi finita, né posta sopra il basamento murato.
Vero è che nella facciata dinanzi finì del tutto una storia di mezzo rilievo di marmo, dove di figure alte due braccia incirca fece il signor Giovanni a sedere, al quale sono menati molti prigioni intorno e soldati e femmine scapigliate et ignudi, ma senza invenzione e senza mostrare affetto alcuno.
Ma pur nel fine della storia è una figura che ha un porco in su la spalla e dicono essere stata fatta da Baccio per Messer Baldassarre da Pescia in suo dispregio, il quale Baccio teneva per nimico, avendo Messer Baldassarre in questo tempo fatto l'allogagione (come s'è detto di sopra) delle due statue di Leone e Clemente ad altri scultori, e di più avendo di maniera operato in Roma, che Baccio ebbe per forza a rendere con suo disagio i danari, i quali aveva soprappresi per quelle statue e figure.
In questo mezzo non aveva Baccio atteso mai ad altro che a mostrare al duca Cosimo quanto fusse la gloria degli antichi vissuta per le statue e per le fabbriche, dicendo che sua eccellenza doveva pe' tempi a venire procacciarsi la memoria perpetua di se stesso e delle sue azzioni.
Avendo poi già condotto la sepoltura del signor Giovanni vicino al fine, andò pensando di fare cominciare al Duca un'opera grande e di molta spesa e di lunghissimo tempo.
Aveva il duca Cosimo lasciato d'abitare il palazzo de' Medici et era tornato ad abitare con la corte nel palazzo di piazza, dove già abitava la signoria, e quello ogni giorno andava accomodando et ornando, et avendo detto a Baccio che farebbe volentieri un'udienza pubblica, sì per gli ambasciadori forestieri come pe' suoi cittadini e sudditi dello stato, Baccio andò, insieme con Giuliano di Baccio d'Agnolo, pensando di mettergli innanzi da far un ornamento di pietre del Fossato e di marmi, di braccia trenta otto largo et alto diciotto.
Questo ornamento volevano che servisse per l'udienza e fusse nella sala grande del palazzo in quella testa che è volta a tramontana.
Questa udienza doveva avere un piano di quattordici braccia largo e salire sette scaglioni et essere nella parte dinanzi chiusa da balaustri, eccetto l'entrata del mezzo, e doveva avere tre archi grandi nella testa della sala, de' quali due servissino per finestre e fussino tramezzati drento da quattro colonne per ciascuno, due della pietra del Fossato e due di marmo, con un arco sopra con fregiatura di mensole che girasse in tondo: queste avevano a fare l'ornamento di fuori nella facciata del palazzo e di dentro ornare nel medesimo modo la facciata della sala.
Ma l'arco del mezzo, che faceva non finestra ma nicchia, doveva essere accompagnato da due altre nicchie simili, che fussino nelle teste dell'udienza, una a levante e l'altra a ponente, ornate da quattro colonne tonde corinzie, che fussino braccia dieci alte e facessino risalto nelle teste.
Nella facciata del mezzo avevano a essere quattro pilastri, che fra l'uno arco e l'altro facessino reggimento allo architrave e fregio e cornice, che rigirava intorno intorno e sopra loro e sopra le colonne.
Questi pilastri avevano avere fra l'uno e l'altro un vano di braccia tre incirca, nel quale per ciascuno fusse una nicchia alta braccia quattro e mezzo da mettervi statue per accompagnare quella grande del mezzo nella faccia e le due dalle bande, nelle quali nicchie egli voleva mettere per ciacuna tre statue.
Avevano in animo Baccio e Giuliano, oltre allo ornamento della facciata di dentro, un altro maggiore ornamento di grandezza e di terribile spesa per la facciata di fuora, il quale per lo sbieco della sala, che non è in squadra, dovesse mettere in squadra dalla banda di fuora; e fece un risalto di braccia sei intorno intorno alle facciate del palazzo vecchio, con un ordine di colonne di quattordici braccia alte, che reggessino altre colonne, fra le quale fussino archi e di sotto intorno intorno facesse loggia, dove è la ringhiera et i giganti, e di sopra avesse poi un altro spartimento di pilastri, fra' quali fussino archi nel medesimo modo e venisse attorno attorno le finestre del palazzo vecchio a far facciata intorno intorno al palazzo, e sopra questi pilastri fare a uso di teatro, con un altro ordine d'archi e di pilastri, tanto che il ballatoio di quel palazzo facesse cornice ultima a tutto questo edifizio.
Conoscendo Baccio e Giuliano che questa era opera di grandissima spesa, consultorono insieme di non dovere aprire al Duca il lor concetto, se non dell'ornamento della udienza dentro alla sala e della facciata di pietre del Fossato di verso la piazza, per la lunghezza di ventiquattro braccia, che tanto è la larghezza della sala.
Furono fatti di questa opera disegni e piante da Giuliano, e Baccio poi parlò, con essi in mano, al Duca: al quale mostrò che nelle nicchie maggiori dalle bande voleva fare statue di braccia quattro di marmo a sedere sopra alcuni basamenti, cioè Leone Decimo che mostrasse mettere la pace in Italia e Clemente Settimo che incoronasse Carlo Quinto, con due statue in nicchie minori drento alle grandi intorno a' papi, le quali significassino le loro virtù adoperate e messe in atto da loro.
Nella facciata del mezzo, nelle nicchie di braccia quattro, fra i pilastri voleva fare statue ritte del signor Giovanni, del duca Alessandro e del duca Cosimo, con molti ornamenti di varie fantasie d'intagli et uno pavimento tutto di marmi di diversi colori mischiati.
Piacque molto al Duca questo ornamento, pensando che con questa occasione si dovesse col tempo (come s'è fatto poi) ridurre a fine tutto il corpo di quella sala, col resto degli ornamenti e del palco, per farla la più bella stanza d'Italia.
E fu tanto il desiderio di sua eccellenza che questa opera si facesse, che assegnò per condurla ogni settimana quella somma di danari che Baccio voleva e chiedeva; e fu dato principio che le pietre del Fossato si cavassino e si lavorassino, per farne l'ornamento del basamento e colonne e cornici, e tutto volle Baccio che si facesse e conducesse dagli scarpellini dell'Opera di Santa Maria del Fiore.
Fu certamente questa opera da que' maestri lavorata con diligenza, e se Baccio e Giuliano l'avessino sollecitata, arebbono tutto l'ornamento delle pietre finito e murato presto; ma perché Baccio non attendeva se non a fare abbozzare statue e finire poche del tutto, et a riscuotere la sua provvisione che ogni mese gli dava il Duca e gli pagava gli aiuti et ogni minima spesa che per ciò faceva, con dargli scudi cinquecento dell'una delle statue di marmo finite, perciò non si vedde mai di questa opera il fine.
Ma se con tutto questo Baccio e Giuliano, in un lavoro di tanta importanza, avessino messo la testa di quella sala in isquadra come si poteva, che delle otto braccia che aveva di bieco si ritirorono appunto alla metà, et èvvi in qualche parte mala proporzione come la nicchia del mezzo e le due dalle bande maggiori che son nane, et i membri delle cornici gentili a sì gran corpo, e se, come potevano, si fussino tenuti più alti con le colonne, con dar maggior grandezza e maniera et altra invenzione a quella opera, e se pur con la cornice ultima andavano a trovare il piano del primo palco vecchio di sopra, eglino arebbono mostro maggior virtù e giudizio né si sarebbe tanta fatica spesa invano, fatta così inconsideratamente, come hanno visto poi coloro a chi è tocco a rassettarla, come si dirà, et a finirla, perché con tutte le fatiche e studii adoperati dappoi vi sono molti disordini et errori nella entrata della porta e nelle corrispondenze delle nicchie delle facce, dove poi a molte cose è bisognato mutare forma.
Ma non s'è già potuto mai, se non si disfaceva il tutto, rimediare che ella non sia fuor di scquadra e non lo mostri nel pavimento e nel palco.
Vero è che nel modo che essi la posono, così come ella si truova, vi è gran fattura e fatica e merita lode assai per molte pietre lavorate col calandrino che sfuggono a quartabuono per cagione dello sbiecare della sala; ma di diligenza e d'essere bene murate, commesse e lavorate non si può fare né veder meglio.
Ma molto meglio sarebbe riuscito il tutto se Baccio, che non tenne mai conto dell'architettura, si fusse servito di qualche migliore giudizio che di Giuliano, il quale, se bene era buono maestro di legname et intendeva d'architettura, non era però tale che a sì fatta opera, come quella sera, egli fusse atto, come ha dimostrato l'esperienza.
Imperò tutta questa opera s'andò per ispazio di molti anni lavorando e murando poco più che la metà, e Baccio finì e messe nelle nicchie minori la statua del signor Giovanni e quella del duca Alessandro nella facciata dinanzi amendue e nella nicchia maggiore, sopra un basamento di mattoni, la statua di papa Clemente e tirò al fine ancora la statua del duca Cosimo, dove egli s'affaticò assai sopra la testa, ma con tutto ciò il Duca e gli uomini di corte dicevano che ella non lo somigliava punto.
Onde avendone Baccio già prima fatto una di marmo, la quale è oggi nel medesimo palazzo nelle camere di sopra, e fu la migliore testa che facesse mai, e stette benissimo, egli difendeva e ricuopriva l'errore e la cattività della presente testa con la bontà della passata.
Ma sentendo da ognuno biasimare quella testa, un giorno in còllora la spiccò, con animo di farne un'altra e commetterla nel luogo di quella, ma non la fece poi altrimenti.
Et aveva Baccio per costume nelle statue ch'e' faceva di mettere de' pezzi piccoli e grandi di marmo, non gli dando noia il fare ciò e ridendosene, il che egli fece nell'Orfeo a una delle teste di Cerbero, et a San Piero che è in Santa Maria del Fiore rimesse un pezzo di panno; nel gigante di piazza, come si vede, rimesse a Cacco et appiccò due pezzi, cioè una spalla et una gamba, et in molti altri suoi lavori fece il medesimo, tenendo cotali modi i quali sogliono grandemente dannare gli scultori.
Finite queste statue, messe mano alla statua di papa Leone per questa opera e la tirò forte innanzi.
Vedendo poi Baccio che questa opera riusciva lunga e che e' non era per condursi oramai al fine di quel suo primo disegno per le facciate attorno attorno al palazzo e che e' s'era speso gran somma di danari e passato molto tempo, e che quella opera con tutto ciò non era mezza finita e piaceva poco all'universale, andò pensando nuova fantasia et andava provando di levare il Duca dal pensiero del palazzo, parendogli che sua eccellenza ancora fusse di questa opera infastidita.
Avendo egli addunque, nell'Opera di Santa Maria del Fiore che la comandava, fatto nimicizia co' provveditori e con tutti gli scarpellini, e poiché tutte le statue che andavan nell'udienza erano a suo modo quali finite e poste in opera e quali abbozzate e lo ornamento murato in gran parte, per occultare molti difetti che v'erano, et a poco a poco abbandonare quell'opera, messe innanzi Baccio al Duca che l'Opera di Santa Maria del Fiore gittava via i danari, né faceva più cosa di momento.
Onde disse avere pensato che sua eccellenza farebbe bene a far voltare tutte quelle spese dell'opera inutili a fare il coro a otto facce della chiesa e l'ornamento dello altare, scale, residenze del Duca e magistrati, e delle sedie del coro pe' canonici e cappellani e clerici, secondo che a sì onorata chiesa si conveniva.
Del quale coro Filippo di ser Brunellesco aveva lasciato il modello in quel semplice telaio di legno, che prima serviva per coro in chiesa, con intenzione di farlo col tempo di marmo con la medesima forma, ma con maggiore ornamento.
Considerava Baccio, oltre alle cose sopra dette, che egli arebbe occasione in questo coro di fare molte statue e storie di marmo e di bronzo nell'altare maggiore et intorno al coro, et ancora in due pergami che dovevano essere di marmo nel coro, e che le otto facce nelle parti di fuora si potevano nel basamento ornare di molte storie di bronzo commesse nello ornamento di marmo.
Sopra questo pensava di fare un ordine di colonne e di pilastri che reggessino attorno attorno le cornice e quattro archi; de' quali archi divisati secondo la crocera della chiesa, uno facesse l'entrata principale, col quale si riscontrasse l'arco dell'altare maggiore posto sopra esso altare, e gli altri due fussino da' lati, da man destra uno e l'altro da man sinistra, sotto i quali due da' lati dovevano essere posti i pergami; sopra la cornice uno ordine di balaustri in cima, che girassino le otto facce, e sopra i balaustri una grillanda di candelieri, per quasi incoronare di lumi il coro secondo i tempi, come sempre s'era costumato innanzi, mentre che vi fu il modello di legno del Brunellesco.
Tutte queste cose mostrando Baccio al Duca, diceva che sua eccellenza con l'entrata dell'Opera, cioè di S.
Maria del Fiore e delli Operai di quella, e con quello che ella per sua liberalità aggiugnerebbe, in poco tempo addornerebbe quel tempio e gli acquisterebbe molta grandezza e magnificenza e conseguentemente a tutta la città, per essere lui di quella il principale tempio e lascerebbe di sé in cotal fabbrica eterna et onorata memoria; et oltre a tutto questo (diceva) che sua eccellenza darebbe occasione a lui d'affaticarsi e di fare molte buone opere e belle, e mostrando la sua virtù, d'acquistarsi nome e fama ne' posteri, il che doveva essere caro a sua eccellenza, per essere lui suo servitore et allevato della casa de' Medici.
Con questi disegni e parole mosse Baccio il Duca, sì che gl'impose che egli facesse un modello di tutto il coro, consentendo che cotal fabbrica si facesse.
Partito Baccio dal Duca, fu con Giuliano di Baccio d'Agnolo suo architetto e, conferito il tutto seco, andorono in sul luogo, et esaminata ogni cosa diligentemente, si risolverono di non uscire della forma del modello di Filippo, ma di seguitare quello, aggiugnendogli solamente altri ornamenti di colonne e di risalti e d'arricchirlo quanto potevano più, mantenendogli il disegno e la figura di prima.
Ma non le cose assai et i molti ornamenti son quelli che abbelliscono et arricchiscono le fabbriche, ma le buone, quantunque sieno poche, se sono ancora poste ne' luoghi loro e con la debita proporzione composte insieme; queste piacciono e sono ammirate e fatte con giudizio dall'artefice, ricevono di poi lode da tutti gli altri.
Questo non pare che Giuliano e Baccio considerassino, né osservassino, perché presono un suggetto di molta opera e lunga fatica, ma di poca grazia, come ha l'esperienza dimostro.
Il disegno di Giuliano (come si vede) fu di fare nelle cantonate di tutte le otto facce pilastri che piegavano in su gli angoli, e l'opera tutta di componimento ionico, e questi pilastri, perché nella pianta venivano insieme con tutta l'opera a diminuire verso il centro del coro e non erano uguali, venivano necessariamente a essere larghi dalla parte di fuora e stretti di dentro, il che è sproporzione di misura.
E ripiegando il pilastro secondo l'angolo delle otto facce di dentro, le linee del centro lo diminuivano tanto, che le due colonne, le quali mettevono in mezzo il pilastro da' canti, lo facevano parere sottile et accompagnavano con disgrazia lui e tutta quell'opera, sì nella parte di fuora e simile in quella di dentro, ancora che vi fosse la misura.
Fece Giuliano parimente tutto il modello dello altare, discosto un braccio e mezzo dall'ornamento del coro, sopra il quale Baccio fece poi di cera un Cristo morto a giacere con due Angeli, de' quali uno gli teneva il braccio destro e con un ginocchio gli reggeva la testa, e l'altro teneva i misteri della Passione, et occupava la statua di Cristo quasi tutto lo altare, sì che appena celebrare vi si sarebbe potuto, e pensava di fare questa statua di circa quattro braccia e mezzo.
Fece ancora un risalto d'uno piedistallo dietro all'altare appiccato con esso nel mezzo con un sedere, sopra il quale pose poi un Dio Padre a sedere, di braccia sei, che dava la benedizzione e veniva accompagnato da due altri Angeli di braccia quattro l'uno, che posavano ginocchione in su' canti e fine della predella dell'altare, al pari dove Dio Padre posava i piedi.
Questa predella era alta più d'un braccio, nella quale erano molte storie della Passione di Gesù Cristo, che tutte dovevano essere di bronzo; in su' canti di questa predella erano gli Angeli sopra detti, tutti e due ginocchione e tenevano ciascuno in mano un candelliere, i quali candellieri delli Angeli accompagnavano otto candellieri grandi alti braccia tre e mezzo, che ornavano quello altare, posti fra gli Angeli, e Dio Padre era nel mezzo di loro; rimaneva un vano d'un mezzo braccio dietro al Dio Padre, per potere salire e accendere i lumi.
Sotto l'arco, che faceva riscontro all'entrata principale del coro, sul basamento che girava intorno, dalla banda di fuora aveva posto nel mezzo sotto detto arco l'albero del peccato, al tronco del quale era avvolto l'antico serpente con la faccia umana in cima e due figure ignude erano intorno all'albero, che una era Adamo e l'altra Eva.
Dalla banda di fuora del coro, dove dette figure voltavano le facce, era per lunghezza nell'imbasamento un vano lungo circa tre braccia, per farvi una storia o di marmo o di bronzo della loro creazione; per seguitare nelle facce de' basamenti di tutta quell'opera insino al numero di ventuno storie tutte del Testamento Vecchio, e per maggiore ricchezza di questo basamento ne' zoccoli, dove posavano le colonne et i pilastri, aveva per ciascuno fatto una figura o vestita o nuda per alcuni Profeti per farli poi di marmo: opera certo et occasione grandissima e da poter mostrare tutto l'ingegno e l'arte d'un perfetto maestro, del quale non dovesse mai per tempo alcuno spegnersi la memoria.
Fu mostro al Duca questo modello et ancora doppi disegni fatti da Baccio, i quali sì per la varietà e quantità, come ancora per la loro bellezza, perciò che Baccio lavorava di cera fieramente e disegnava bene, piacquero a sua eccellenza, et ordinò che si mettesse subito mano al lavoro di quadro, voltandovi tutte le spese che faceva l'Opera et ordinando che gran quantità di marmi si conducessino da Carrara.
Baccio ancora egli cominciò a dare principio alle statue, e le prime furono uno Adamo che alzava un braccio et era grande quattro braccia in circa.
Questa figura fu finita da Baccio, ma perché gli riuscì stretta ne' fianchi et in altre parti con qualche difetto, la mutò in uno Bacco, il quale dette poi al Duca et egli lo tenne in camera molti anni nel suo palazzo, e fu posto poi, non è molto, nelle stanze terrene, dove abita il principe la state, dentro a una nicchia.
Aveva parimente fatto della medesima grandezza un'Eva che sedeva, la quale condusse fino alla metà e restò indietro per cagione dello Adamo, il quale ella doveva accompagnare.
Et avendo dato principio a un altro Adamo di diversa forma et attitudine, gli bisognò mutare ancora Eva; e la prima che sedeva fu convertita da lui in una Cerere e la dette all'illustrissima duchessa Leonora in compagnia d'uno Appollo, che era un altro ignudo che egli aveva fatto, e sua eccellenza lo fece mettere nella facciata del vivaio che è nel giardino de' Pitti col disegno et architettura di Giorgio Vasari.
Seguitò Baccio queste due figure di Adamo e d'Eva con grandissima volontà, pensando di satisfare all'universale et agli artefici, avendo satisfatto a se stesso, e le finì e lustrò con tutta la sua diligenza et affezzione; messe di poi queste figure d'Adamo e d'Eva nel luogo loro e scoperte ebbero la medesima fortuna che l'altre sue cose e furono con sonetti e con versi latini troppo crudelmente lacerate: avvenga che il senso di uno diceva che sì come Adamo et Eva, avendo con la loro disubbidienza vituperato il paradiso, meritorono d'essere cacciati, così queste figure vituperando la terra, meritano d'essere cacciate fuora di chiesa.
Nondimeno le statue sono proporzionate et hanno molte belle parti, e se non è in loro quella grazia che altre volte s'è detto e che egli non poteva dare alle cose sue, hanno però arte e disegno tale, che meritano lode assai.
Fu domandata una gentildonna, la quale s'era posta a guardare queste statue, da alcuni gentiluomini, quello che le paresse di questi corpi ignudi.
Rispose: "Degli uomini non posso dare giudizio", et essendo pregata che della donna dicesse il parer suo, rispose che le pareva che quella Eva avesse due buone parti da essere commendata assai, perciò che ella è bianca e soda; ingegnosamente mostrando di lodare, biasimò copertamente e morse l'artefice e l'artifizio suo, dando alla statua quelle lode proprie de' corpi femminili, le quali è necessario intendere della materia del marmo e di lui son vere, ma dell'opera e dell'artifizio no, perciò che l'artifizio quelle lode non lodano.
Mostrò addunque quella valente donna che altro non si poteva secondo lei lodare in quella statua se non il marmo.
Messe di poi mano Baccio alla statua di Cristo morto, il quale ancora non gli riuscendo come se l'era proposto, essendo già innanzi assai, lo lasciò stare, e preso un altro marmo ne cominciò un altro con attitudine diversa dal primo, et insieme con l'Angelo che con una gamba sostiene a Cristo la testa e con la mano un braccio, e' non restò che l'una e l'altra figura finì del tutto, e dato ordine di porlo sopra l'altare, riuscì grande di maniera che, occupando troppo del piano, non avanzava spazio all'operazioni del sacerdote.
Et ancora che questa statua fusse ragionevole e delle migliori di Baccio, nondimeno non si poteva saziare il popolo di dirne male e di levarne i pezzi, non meno tutta l'altra gente che i preti.
Conoscendo Baccio che lo scoprire l'opere imperfette nuoce alla fama degli artefici nel giudizio di tutti coloro i quali o non sono della professione, o non se n'intendono, o non hanno veduto i modelli, per accompagnare la statua di Cristo e finire l'altare, si risolvé a fare la statua di Dio Padre, per la quale era venuto un marmo da Carrara bellissimo.
Già l'aveva condotto assai innanzi, e fatto mezzo ignudo a uso di Giove, quando non piacendo al Duca, et a Baccio parendo ancora che egli avesse qualche difetto, lo lasciò così come s'era e così ancora si truova nell'Opera.
Non si curava del dire delle genti, ma attendeva a farsi ricco et a comprare possessioni.
Nel poggio di Fiesole comperò un bellissimo podere chiamato lo Spinello, e nel piano sopra San Salvi sul fiume d'Affrico un altro con bellissimo casamento, chiamato il Cantone, e nella via de' Ginori una gran casa, la quale il Duca con danari e favori gli fece avere; ma Baccio avendo acconcio lo stato suo, poco si curava oramai di fare, d'affaticarsi, et essendo la sepoltura del signor Giovanni imperfetta, e l'udienza della sala cominciata, et il coro, e l'altare addietro, poco si curava del dire altrui e del biasimo che per ciò gli fusse dato.
Ma pure avendo murato l'altare e posto l'imbasamento di marmo dove doveva stare la statua di Dio Padre, avendone fatto un modello, finalmente la cominciò, e tenendovi scarpellini andava lentamente seguitando.
Venne in que' giorni di Francia Benvenuto Cellini, il quale aveva servito il re Francesco nelle cose dell'orefice, di che egli era ne' suoi tempi il più famoso, e nel getto di bronzo aveva a quel re fatto alcune cose; et egli fu introdotto al duca Cosimo, il quale desiderando d'ornare la città, fece a lui ancora molte carezze e favori.
Dettegli a fare una statua di bronzo di cinque braccia incirca di uno Perseo ignudo, il quale posava sopra una femmina ignuda fatta per Medusa, alla quale aveva tagliato la testa, per porlo sotto uno degli archi della loggia di piazza.
Benvenuto mentre che faceva il Perseo, ancora dell'altre cose faceva al Duca.
Ma come avviene che il figulo sempre invidia e noia il figulo, e lo scultore l'altro scultore, non potette Baccio sopportare i favori varii fatti a Benvenuto.
Parevagli ancora strana cosa che egli fusse così in un tratto di orefice riuscito scultore, né gli capiva nell'animo che egli, che soleva fare medaglie e figure piccole, potesse condur colossi ora e giganti.
Né potette il suo animo occultare Baccio, ma lo scoperse del tutto e trovò chi gli rispose; perché dicendo Baccio a Benvenuto in presenza del Duca molte parole delle sue mordaci, Benvenuto, che non era manco fiero di lui, voleva che la cosa andasse del pari.
E spesso ragionando delle cose dell'arte e delle loro proprie, notando i difetti di quelle, si dicevano l'uno all'altro parole vituperosissime in presenza del Duca; il quale, perché ne pigliava piacere, conoscendo ne' lor detti mordaci ingegno veramente et acutezza, gli aveva dato campo franco e licenza che ciascuno dicesse all'altro ciò che egli voleva dinanzi a lui, ma fuora non se ne tenesse conto.
Questa gara, o più tosto nimicizia, fu cagione che Baccio sollecitò lo Dio Padre, ma non aveva egli già dal Duca que' favori che prima soleva, ma s'aiutava per ciò corteggiando e servendo la Duchessa.
Un giorno fra gli altri, mordendosi al solito e scoprendo molte cose de' fatti loro, Benvenuto guardando e minacciando Baccio, disse: "Provvediti Baccio d'un altro mondo, che di questo ti voglio cavare io".
Rispose Baccio: "Fa che io lo sappia un dì innanzi, sì ch'io mi confessi e faccia testamento e non muoia come una bestia, come sei tu".
Per la qual cosa il Duca, perché molti mesi ebbe preso spasso del fatto loro, gli pose silenzio, temendo di qualche mal fine, e fece far loro un ritratto grande della sua testa fino alla cintura, che l'uno e l'altro si gettassi di bronzo, acciò che chi facesse meglio avesse l'onore.
In questi travagli et emulazioni finì Baccio il suo Dio Padre, il quale ordinò che si mettesse in chiesa sopra la basa a canto all'altare.
Questa figura era vestita et è braccia sei alta e la murò e finì del tutto.
Ma per non la lasciare scompagnata, fatto venire da Roma Vincenzio de' Rossi scultore suo creato, volendo nell'altare tutto quello che mancava di marmo farlo di terra, si fece aiutare da Vincenzio a finire i due Angeli che tengono i candelieri in su' canti, e la maggior parte delle storie della predella e basamento; messo di poi ogni cosa sopra l'altare, acciò si vedesse come aveva a stare il fine del suo lavoro, si sforzava che 'l Duca lo venisse a vedere, innanzi che egli lo scoprisse.
Ma il Duca non volle mai andare, et essendone pregato dalla Duchessa, la quale in ciò favoriva Baccio, non si lasciò però mai piegare il Duca, e non andò a vederlo, adirato perché di tanti lavori Baccio non aveva mai finitone alcuno, et egli pure l'aveva fatto ricco e gli aveva con odio de' cittadini fatto molte grazie et onoratolo molto.
Con tutto questo andava sua eccellenza pensando d'aiutare Clemente figliuolo naturale di Baccio e giovane valente, il quale aveva acquistato assai nel disegno, perché e' dovesse toccare a lui col tempo a finire l'opere del padre.
In questo medesimo tempo, che fu l'anno 1554, venne da Roma, dove serviva papa Giulio Terzo, Giorgio Vasari aretino per servire sua eccellenza in molte cose che l'aveva in animo di fare e particularmente innovare di fabbriche et ornare il palazzo di piazza e fare la sala grande, come s'è di poi veduto.
Giorgio Vasari di poi l'anno seguente condusse da Roma, et acconciò col Duca, Bartolommeo Ammannati scultore per fare l'altra facciata dirimpetto all'udienza cominciata da Baccio in detta sala et una fonte nel mezzo di detta facciata, e subito fu dato principio a fare una parte delle statue che vi andavano.
Conobbe Baccio che 'l Duca non voleva servirsi più di lui, poi che adoperava altri, di che egli avendo grande dispiacere e dolore era diventato sì strano e fastidioso, che né in casa né fuora non poteva alcuno conversare con lui, et a Clemente suo figliuolo usava molte stranezze e lo faceva patire d'ogni cosa.
Per questo Clemente avendo fatto di terra una testa grande di sua eccellenza per farla di marmo per la statua dell'udienza, chiese licenza al Duca di partirsi per andare a Roma per le stranezze del padre; il Duca disse che non gli mancherebbe.
Baccio nella partita di Clemente, che gli chiese licenza, non gli volle dar nulla, benché egli fusse in Firenze di grande aiuto, che era quel giovane le braccia di Baccio in ogni bisogno, nondimeno non si curò che si gli levasse dinanzi.
Arrivato il giovane a Roma contro a tempo, sì per gli studi e sì pe' disordini, il medesimo anno si morì, lasciando in Firenze di suo quasi finita una testa del duca Cosimo di marmo, la quale Baccio poi pose sopra la porta principale di casa sua nella via de' Ginori, et è bellissima.
Lasciò ancora Clemente molto innanzi un Cristo morto, che è retto da Niccodemo, il quale Niccodemo è Baccio ritratto di naturale: le quali statue, che sono assai buone, Baccio pose nella chiesa de' Servi, come al suo luogo diremo.
Fu di grandissima perdita la morte di Clemente a Baccio et all'arte, et egli lo conobbe poi che fu morto.
Scoperse Baccio l'altare di Santa Maria del Fiore e la statua di Dio Padre fu biasimata; l'altare s'è restato con quello che s'è racconto di sopra, né vi si è fatto poi altro, ma s'è atteso a seguitare il coro.
Erasi molti anni innanzi cavato a Carrara un gran pezzo di marmo alto braccia dieci e mezzo e largo braccia cinque, del quale avuto Baccio l'avviso, cavalcò a Carrara e dette al padrone di chi egli era scudi cinquanta per arra, e fattone contratto tornò a Firenze, e fu tanto intorno al Duca, che per mezzo della Duchessa ottenne di farne un gigante, il quale dovesse mettersi in piazza sul canto dove era il lione, nel quale luogo si facesse una gran fonte che gittasse acqua, nel mezzo della quale fusse Nettunno sopra il suo carro tirato da cavagli marini e dovesse cavarsi questa figura di questo marmo.
Di questa figura fece Baccio più d'uno modello e mostratigli a sua eccellenza, stettesi la cosa senza fare altro fino all'anno 1559, nel quale tempo il padrone del marmo venuto da Carrara, chiedeva d'essere pagato del restante o che renderebbe gli scudi 50 per romperlo in più pezzi e farne danari, perché aveva molte chieste.
Fu ordinato dal Duca a Giorgio Vasari che facesse pagare il marmo.
Il che intesosi per l'arte e che il Duca non aveva ancora dato libero il marmo a Baccio, si risentì Benvenuto e parimente l'Ammannato, pregando ciascheduno di loro il Duca di fare un modello a concorrenza di Baccio e che sua eccellenza si degnasse di dare il marmo a colui che nel modello mostrasse maggior virtù.
Non negò il Duca a nessuno il fare il modello, né tolse la speranza che chi si portava meglio non potesse esserne il facitore.
Conosceva il Duca che la virtù e 'l giudicio e 'l disegno di Baccio era ancora meglio di nessuno scultore di quelli che lo servivano, pure che egli avesse voluto durare fatica, et aveva cara questa concorrenza per incitare Baccio a portarsi meglio e fare quel che egli poteva.
Il quale vedutasi addosso questa concorrenza ne ebbe grandissimo travaglio, dubitando più della disgrazia del Duca che d'altra cosa, e di nuovo si messe a fare modelli.
Era intorno alla Duchessa assiduo, con la quale operò tanto Baccio, che ottenne d'andare a Carrara per dare ordine che il marmo si conducesse a Firenze.
Arrivato a Carrara, fece scemare il marmo tanto, secondo che egli aveva disegnato di fare, che lo ridusse molto meschino e tolse l'occasione a sé et agli altri et il poter farne omai opera molto bella e magnifica.
Ritornato a Firenze fu lungo combattimento tra Benvenuto e lui, dicendo Benvenuto al Duca che Baccio aveva guasto il marmo innanzi che egli l'avesse tocco.
Finalmente la Duchessa operò tanto, che 'l marmo fu suo, e di già s'era ordinato che egli fusse condotto da Carrara alla marina e preparato gli ordini della barca che lo condusse su per Arno fino a Signa.
Fece ancora Baccio murare nella loggia di piazza una stanza per lavorarvi dentro il marmo, et in questo mezzo aveva messo mano a fare cartoni, per fare dipignere alcuni quadri che dovevano ornare le stanze del palazzo de' Pitti.
Questi quadri furono dipinti da un giovane chiamato Andrea del Minga, il quale maneggiava assai acconciamente i colori.
Le storie dipinte ne' quadri furono la creazione d'Adamo e d'Eva e l'esser cacciati dall'Angelo di Paradiso; un Noè et un Moisè con le tavole, i quali finiti gli donò poi alla Duchessa cercando il favore di lei nelle sue difficultà e controversie.
E nel vero se non fusse stata quella signora, che lo tenne in piè e lo amava per la virtù sua, Baccio sarebbe cascato affatto et arebbe persa interamente la grazia del Duca.
Servivasi ancora la Duchessa assai di Baccio nel giardino de' Pitti, dove ella aveva fatto fare una grotta piena di tartari e di spugne congelate dall'acqua, dentrovi una fontana, dove Baccio aveva fatto condurre di marmo a Giovanni Fancelli suo creato un pilo grande et alcune capre quanto il vivo, che gettano acqua, e parimente col modello fatto da se stesso per un vivaio un villano che vota un barile pieno d'acqua.
Per queste cose la Duchessa di continovo aiutava e favoriva Baccio appresso al Duca, il quale aveva dato licenzia finalmente a Baccio che cominciasse il modello grande del Nettunno: per lo che egli mandò di nuovo a Roma per Vincenzio de' Rossi, che già s'era partito di Firenze, con intenzione che gli aiutasse condurlo.
Mentre che queste cose si andavano preparando, venne volontà a Baccio di finire quella statua di Cristo morto tenuto da Niccodemo, il quale Clemente suo figliolo aveva tirato innanzi: perciò che aveva inteso che a Roma il Buonarroto ne finiva uno, il quale aveva cominciato in un marmo grande, dove erano cinque figure, per metterlo in S.
Maria Maggiore alla sua sepoltura.
A questa concorrenza Baccio si messe a lavorare il suo con ogni accuratezza e con aiuti, tanto che lo finì.
Et andava cercando in questo mezzo per le chiese principali di Firenze d'un luogo dove egli potesse collocarlo e farvi per sé una sepoltura, ma non trovando luogo che lo contentasse per sepoltura, si risolvé a una cappella nella chiesa de' Servi, la quale è della famiglia de' Pazzi.
I padroni di questa cappella pregati dalla Duchessa concessono il luogo a Baccio, senza spodestarsi del padronato e delle insegne che v'erano di casa loro e solamente gli concessono che egli facesse uno altare di marmo e sopra quello mettesse le dette statue e vi facesse la sepoltura a' piedi.
Convenne ancora poi co' frati di quel convento dell'altre cose appartenenti allo ufiziarla.
In questo mezzo faceva Baccio murare l'altare et il basamento di marmo, per mettervi su queste statue, e finitolo disegnò mettere in quella sepoltura, dove voleva esser messo egli e la sua moglie, l'ossa di Michelagnolo suo padre, le quali aveva nella medesima chiesa fatto porre, quando e' morì, in uno deposito; queste ossa di suo padre egli di sua mano volle pietosamente mettere in detta sepoltura, dove avvenne che Baccio, o che egli pigliasse dispiacere et alterazione d'animo nel maneggiar l'ossa di suo padre, o che troppo s'affaticasse nel tramutare quell'ossa con le proprie mani e nel murare i marmi, o l'uno o l'altro insieme, si travagliò di maniera, che sentendosi male et andatosene a casa et ogni dì più aggravando il male, in otto giorni si morì, essendo d'età d'anni settantadue, essendo stato fino allora robusto e fiero, senza aver mai provato molti mali mentre ch'e' visse.
Fu sepolto con onorate essequie e posto allato all'ossa del padre nella sopra detta sepoltura da lui medesimo lavorata, nella quale è questo epitaffio:
D.O.M.
BACCIUS BANDINELLUS DIVI IACOBI EQUES
SUB HAC SERVATORIS IMAGINE,
A SE EXPRESSA, CUM IACOBA DONIA
UXORE QUIESCIT.
ANNO SALUTIS MDLIX.
Lasciò figliuoli maschi e femmine, i quali furono eredi di molte facultà, di terreni, di case e di danari, le quali egli lasciò loro, et al mondo lasciò l'opere da noi descritte di scultura e molti disegni in gran numero, i quali sono appresso i figliuoli, e nel nostro libro ne sono di penna e di matita alcuni che non si può certamente far meglio.
Rimase il marmo del gigante in maggior contesa che mai, perché Benvenuto era sempre intorno al Duca e per virtù d'un modello piccolo, che egli aveva fatto, voleva che 'l Duca glielo desse; dall'altra parte l'Ammannato, come quello era scultore di marmi e sperimentato in quelli più che Benvenuto, per molte cagioni giudicava che a lui s'appartenesse questa opera.
Avvenne che a Giorgio bisognò andare a Roma col cardinale figliuolo del Duca, quando prese il cappello, al quale avendo l'Ammannato dato un modelletto di cera, secondo che egli desiderava di cavare del marmo quella figura et uno legno, come era appunto grosso e lungo e largo e bieco quel marmo, acciò che Giorgio lo mostrasse a Roma a Michelagnolo Buonarroti perché egli ne dicesse il parere suo, e così movesse il Duca a dargli il marmo, il che tutto fece Giorgio volentieri, questo fu cagione che 'l Duca dette commessione che e' si turasse un arco della loggia di piazza e che l'Ammannato facesse un modello grande quanto aveva a essere il gigante.
Inteso ciò Benvenuto, tutto in furia cavalcò a Pisa, dove era il Duca, dove dicendo lui che non poteva comportare che la virtù sua fusse conculcata da chi era da manco di lui e che desiderava di fare a concorrenza dell'Ammannato un modello grande nel medesimo luogo, volle il Duca contentarlo e gli concesse ch'e' si turasse l'altro arco della loggia, e fece dar a Benvenuto le materie, acciò facesse come egli voleva il modello grande a concorrenza dell'Ammannato.
Mentre che questi maestri attendevano a fare questi modelli e che avevano serrato le loro stanze, sì che né l'uno né l'altro poteva vedere ciò che il compagno faceva, benché fussino appiccate insieme le stanze, si destò maestro Giovan Bologna fiammingo scultore, giovane di virtù e di fierezza non meno che alcuno degli altri.
Costui stando col signor don Francesco principe di Firenze, chiese a sua eccellenza di poter fare un gigante, che servisse per modello, della medesima grandezza del marmo et il principe ciò gli concesse.
Non pensava già maestro Giovan Bologna d'avere a fare il gigante di marmo, ma voleva almeno mostrare la sua virtù e farsi tenere quello che egli era; avuta la licenza dal principe, cominciò ancora egli il suo modello nel convento di S.
Croce.
Non volle mancare di concorrere con questi tre Vincenzio Danti perugino, scultore giovane di minore età di tutti, non per ottenere il marmo, ma per mostrare l'animosità e l'ingegno suo.
Così messosi a lavorare di suo nelle case di Messer Alessandro di Messer Ottaviano de' Medici, condusse un modello con molte buone parti grande come gli altri.
Finiti i modelli, andò il Duca a vedere quello dell'Ammannato e quello di Benvenuto, e piaciutogli più quello dell'Ammannato che quello di Benvenuto, si risolvé che l'Ammannato avesse il marmo e facesse il gigante, perché era più giovane di Benvenuto e più pratico né marmi di lui.
Aggiunse all'inclinazione del Duca Giorgio Vasari, il quale con sua eccellenza fece molti buoni ufizi per l'Ammannato, vedendolo oltre al saper suo pronto a durare ogni fatica e sperando che per le sue mani si vedrebbe un'opera eccellente finita in breve tempo.
Non volle il Duca allora vedere il modello di maestro Giovan Bologna, perché non avendo veduto di suo lavoro alcuno di marmo, non gli pareva che si gli potesse per la prima fidare, così grande impresa, ancora che da molti artefici e da altri uomini di giudicio intendesse che 'l modello di costui era in molte parti migliore che gli altri.
Ma se Baccio fusse stato vivo, non sarebbono state tra que' maestri tante contese, perché a lui senza dubbio sarebbe tocco a fare il modello di terra et il gigante di marmo.
Questa opera addunque tolse a lui la morte, ma la medesima gli dette non piccola gloria, perché fece vedere in que' quattro modelli, de' quali fu cagione il non essere vivo Baccio ch'e' si facessino, quanto era migliore il disegno e 'l giudicio e la virtù di colui che pose Ercole e Cacco quasi vivi nel marmo in piazza; la bontà della quale opera molto più hanno scoperta et illustrata l'opere, le quali dopo la morte di Baccio hanno fatte questi altri, i quali benché si sieno portati laudabilmente, non però hanno potuto aggiugnere al buono et al bello che pose egli nell'opera sua.
Il duca Cosimo poi nelle nozze della reina Giovanna d'Austria sua nuora, dopo la morte di Baccio sette anni, ha fatto nella sala grande finire l'udienza della quale abbiamo ragionato di sopra, cominciata da Baccio, e di tal finimento ha voluto che sia capo Giorgio Vasari, il quale ha cerco con ogni diligenza di rimediare a molti difetti che sarebbero stati in lei, se ella si seguitava e si finiva secondo il principio e primo ordine suo.
Così quell'opera imperfetta con l'aiuto d'Iddio s'è condotta ora al fine et èssi arricchita nelle sue rivolte con l'aggiunta di nicchie e di pilastri e di statue poste ne' luoghi loro, dove ancora, perché era messa bieca e fuor di squadra, siamo andati pareggiandola quanto è stato possibile e l'abbiamo alzata assai con un corridore sopra di colonne toscane; e la statua di Leone, cominciata da Baccio, Vincenzio de' Rossi suo creato l'ha finita.
Oltre a ciò è stata quell'opera ornata di fregiature piene di stucchi, con molte figure grandi e piccole e con imprese et altri ornamenti di varie sorti, e sotto le nicchie ne' partimenti delle volte si sono fatti molti spartimenti varii di stucchi e molte belle invenzioni d'intagli, le quali cose tutte hanno di maniera arricchita quell'opera, che ha mutato forma et acquistato più grazia e bellezza assai.
Imperò che dove secondo il disegno di prima, essendo il tetto della sala alto braccia ventuno, l'udienza non s'alzava più che diciotto braccia, sì che tra lei e 'l tetto vecchio era un vano in mezzo di braccia tre, ora secondo l'ordine nostro il tetto della sala s'è alzato tanto, che sopra il tetto vecchio è ito dodici braccia e sopra l'udienza di Baccio e di Giuliano braccia quindici: così trentatré braccia è alto il tetto ora della sala.
E fu certamente grande animo quello del duca Cosimo a risolversi di fare finire per le nozze sopra dette tutta questa opera in tempo di cinque mesi, alla quale mancava più del terzo, volendola condurre a perfezzione, et insino a quel termine, dove ella era allora, era arrivata in più di quindici anni.
Ma non solo sua eccellenza fece finire del tutto l'opera di Baccio, ma il resto ancora di quel che aveva ordinato Giorgio Vasari, ripigliando dal basamento, che ricorre sopra tutta quell'opera, con un ricinto di balaustri ne' vani che fa un corridore che passa sopra questo lavoro della sala e vede di fuori la piazza e di dentro tutta la sala; così potranno i principi e' signori stare a vedere senza essere veduti tutte le feste che vi si faranno con molto commodo loro e piacere, e ritirarsi poi nelle camere e camminare per le scale segrete e pubbliche per tutte le stanze del palazzo.
Nondimeno a molti è dispiaciuto il non avere in un'opera sì bella e sì grande messo in isquadra quel lavoro, e molti arebbono voluto smurarlo e rimurarlo poi in isquadra, ma è stato giudicato ch'e' sia meglio il seguitare così quel lavoro, per non parere maligno contro a Baccio e prosuntuoso, et aremo dimostro che e' non ci bastasse l'animo di correggere gli errori e mancamenti trovati e fatti da altri.
Ma tornando a Baccio, diciamo che le virtù sue sono state sempre conosciute in vita, ma molto più saranno conosciute e desiderate dopo la morte.
E molto più ancora sarebbe egli stato vivendo conosciuto quello che era et amato, se dalla natura avesse avuto grazia d'essere più piacevole e più cortese: perché l'essere il contrario e molto villano di parole gli toglieva la grazia delle persone et oscurava le sue virtù, e faceva che dalla gente erano con malanimo et occhio bieco guardate l'opere sue, e perciò non potevano mai piacere.
Et ancora che egli servisse questo e quel signore e sapesse servire per la sua virtù, faceva nondimeno i servizii con tanta mala grazia, che niuno era che grado di ciò gli sapesse.
Ancora il dire sempre male e biasimare le cose d'altri era cagione che nessuno lo poteva patire, e dove altri gli poteva rendere il cambio, gli era reso addoppio, e ne' magistrati senza rispetto a' cittadini diceva villania, e da loro ne ricevé parimente.
Piativa e litigava d'ogni cosa volentieri e continovamente visse in piati, e di ciò pareva che trionfasse.
Ma perché il suo disegnare, al che si vede che egli più che ad altro attese, fu tale e di tanta bontà, che supera ogni suo difetto di natura e lo fa conoscere per uomo raro di questa arte, noi perciò non solamente lo annoveriamo tra i maggiori, ma sempre abbiamo avuto rispetto all'opere sue e cerco abbiamo non di guastarle, ma di finirle e di fare loro onore: imperò che ci pare che Baccio veramente sia di quelli uno che onorata lode meritono e fama eterna.
Abbiamo riservato nell'ultimo di far menzione del suo cognome, perciò che egli non fu sempre uno, ma variò: ora de' Brandini, ora de' Bandinelli facendosi lui chiamare; prima il cognome de' Brandini si vede intagliato nelle stampe dopo il nome di Baccio; di poi più gli piacque questo de' Bandinelli, il quale insino al fine ha tenuto e tiene, dicendo che i suoi maggiori furono de' Bandinelli di Siena i quali già vennono a Gaiuole e da Gaiuole a Firenze.
IL FINE DELLA VITA DI BACCIO BANDINELLI, SCULTORE FIORENTINO
VITA DI GIULIANO BUGIARDINI PITTORE FIORENTINO
Erano innanzi all'assedio di Fiorenza in sì gran numero multiplicati gl'uomini, che i borghi lunghissimi che erano fuori di ciascuna porta, insieme con le chiese, munisteri e spedali, erano quasi un'altra città abitata da molte orrevoli persone, e da buoni artefici di tutte le sorti, come che per lo più fussero meno agiati che quelli della città e là si stessero con manco spese di gabelle e d'altro.
In uno di questi sobborghi adunque fuori della porta a Faenza nacque Giuliano Bugiardini, e sì come avevano fatto i suoi passati, vi abitò all'anno 1529, che tutti furono rovinati.
Ma innanzi, essendo giovinetto, il principio de' suoi studii fu nel giardino de' Medici in sulla piazza di San Marco, nel quale seguitando d'imparare l'arte sotto Bertoldo scultore, prese amicizia e tanta stretta familiarità con Michelagnolo Buonarroti, che poi fu sempre da lui molto amato.
Il che fece Michelagnolo non tanto perché vedesse in Giuliano una profonda maniera di disegnare, quanto una grandissima diligenza et amore che portava all'arte.
Era in Giuliano oltre ciò una certa bontà naturale et un certo semplice modo di vivere senza malignità o invidia che infinitamente piaceva al Buonarroto, né alcun notabile difetto fu in costui se non che troppo amava l'opere che egli stesso faceva.
E se bene in questo peccano comunemente tutti gl'uomini, egli nel vero passava il segno, o la molta fatica e diligenza che metteva in lavorarle o altra qual si fusse di ciò la cagione, onde Michelagnolo usava di chiamarlo beato, poi che pareva si contentasse di quello che sapeva, e se stesso infelice, che mai di niuna sua opera pienamente si sodisfaceva.
Dopo che ebbe un pezzo atteso al disegno Giuliano nel detto giardino, stette pur insieme col Buonarruoti e col Granacci, con Domenico Grillandai quando faceva la cappella di Santa Maria Novella.
Dopo, cresciuto e fatto assai ragionevole maestro, si ridusse a lavorare in compagnia di Mariotto Albertinelli in Gualfonda, nel qual luogo finì una tavola che oggi è all'entrata della porta di Santa Maria Maggiore di Firenze, dentro la quale è un Santo Alberto frate carmelitano, che ha sotto i piedi il diavolo in forma di donna, che fu opera molto lodata.
Solevasi in Firenze avanti l'assedio del 1530, nel sepellire i morti che erano nobili e di parentado, portare innanzi al cataletto, appiccati intorno a una tavola la quale portava in capo un facchino, una filza di drapelloni, i quali poi rimanevano alla chiesa per memoria del defunto e della famiglia.
Quando dunque morì Cosimo Rucellai il vecchio, Bernardo e Palla suoi figliuoli pensarono per far cosa nuova di non far drapelloni, ma in quel cambio una bandiera quadra di quattro braccia larga e cinque alta, con alcuni drapelloni ai piedi con l'arme de' Rucellai.
Dando essi addunque a fare quest'opera a Giuliano, egli fece nel corpo di detta bandiera quattro figuroni grandi, molto ben fatti, cioè San Cosimo e Damiano e San Piero e San Paulo, le quali furono pitture veramente bellissime e fatte con più diligenza che mai fusse stata fatta altra opera in drappo.
Queste et altre opere di Giuliano avendo veduto Mariotto Albertinelli e conosciuto quanto fusse diligente in osservare i disegni che se gli mettevano innanzi, senza uscirne un pelo, in que' giorni che si dispose abbandonare l'arte, gli lasciò a finire una tavola che già fra' Bartolomeo di S.
Marco suo compagno et amico avea lasciata solamente disegnata et aombrata con l'acquerello in sul gesso della tavola, sì come era di suo costume.
Giuliano addunque messovi mano, con estrema diligenza e fatica condusse quest'opera, la quale fu allora posta nella chiesa di San Gallo fuor della porta, la quale chiesa e convento fu poi rovinato per l'assedio, e la tavola portata dentro e posta nello spedal de' preti in via di San Gallo; di lì poi nel convento di San Marco et ultimamente in San Iacopo tra' Fossi al canto agl'Alberti, dove al presente è collocata all'altare maggiore.
In questa tavola è Cristo morto, la Madalena che gl'abbraccia i piedi e San Giovanni Evangelista che gli tiene la testa e lo sostiene sopra un ginocchio; èvvi similmente San Piero che piagne e San Paulo che aprendo le braccia contempla il suo signore morto.
E per vero dire, condusse Giuliano questa tavola con tanto amore e con tanta avvertenza e giudizio, che come ne fu allora, così ne sarà sempre et a ragione sommamente lodato.
E dopo questa finì a Cristofano Rinieri il rapimento di Dina in un quadro, stato lasciato similmente imperfetto dal detto fra' Bartolomeo, al quale quadro ne fece un altro simile che fu mandato in Francia.
Non molto dopo, essendo tirato a Bologna da certi amici suoi, fece alcuni ritratti di naturale et in San Francesco dentro al coro nuovo in una capella una tavola a olio, dentrovi la Nostra Donna e due Santi, che fu allora tenuta in Bologna, per non esservi molti maestri, buona e lodevole opera.
E dopo, tornato a Fiorenza, fece per non so chi cinque quadri della vita di Nostra Donna, i quali sono oggi in casa di maestro Andrea Pasquali medico di sua eccellenza et uomo singolarissimo.
Avendogli dato Messer Palla Rucellai a fare una tavola, che dovea porsi al suo altare in Santa Maria Novella, Giuliano incominciò a farvi entro il martirio di Santa Caterina vergine, ma è gran cosa, la tenne dodici anni fra mano, né mai la condusse in detto tempo a fine, per non avere invenzione, né sapere come farsi le tante varie cose che in quel martirio intervenivono; e se bene andava ghiribizzando sempre come potevono stare quelle ruote e come doveva fare la saetta et incendio che le abbruciò, tuttavia mutando quello che un giorno aveva fatto l'altro, in tanto tempo non le diede mai fine.
Ben è vero che in quel mentre fece molte cose, e fra l'altre a Messer Francesco Guicciardini che allora, essendo tornato da Bologna, si stava in villa a Montici scrivendo la sua storia, il ritratto di lui, che somigliò assai ragionevolmente e piacque molto.
Similmente ritrasse la signora Angela de' Rossi, sorella del conte di San Secondo, per lo signor Alessandro Vitelli suo marito, che allora era alla guardia di Firenze.
E per Messer Ottaviano de' Medici, ricavandolo da uno di fra' Bastiano del Piombo, ritrasse in un quadro grande et in due figure intere papa Clemente a sedere e fra' Niccolò della Magna in piede.
In un altro quadro ritrasse similmente papa Clemente a sedere et innanzi a lui inginocchioni Bartolomeo Valori che gli parla, con fatica e pazienza incredibile.
Avendo poi segretamente il detto Messer Ottaviano pregato Giuliano che gli ritraesse Michelagnolo Buonarroti, egli messovi mano, poi che ebbe tenuto due ore fermo Michelagnolo, che si pigliava piacere de' ragionamenti di colui, gli disse Giuliano: "Michelagnolo, se volete vedervi state su, che già ho fermo l'aria del viso".
Michelagnolo, rizzatosi e veduto il ritratto, disse ridendo a Giuliano: "Che diavolo avete voi fatto! Voi mi avete dipinto con uno degl'occhi in una tempia, avertitevi un poco".
Ciò udito poi che fu alquanto stato sopra di sé Giuliano et ebbe molte volte guardato il ritratto et il vivo, rispose sul saldo: "A me non pare, ma ponetevi a sedere et io vedrò un poco meglio dal vivo s'egli è così".
Il Buonarruoto, che conosceva onde veniva il difetto et il poco giudizio del Bugiardino, si rimisse subito a sedere ghignando, e Giuliano riguardò molte volte ora Michelagnolo et ora il quadro, e poi levato finalmente in piede, disse: "A me pare che la cosa stia sì come io l'ho disegnata e che il vivo mi mostri così".
"Questo è dunque" soggiunse il Buonarruoto "difetto di natura: seguitate e non perdonate al pennello, né all'arte." E così finito questo quadro, Giuliano lo diede a esso Messer Ottaviano, insieme col ritratto di papa Clemente di mano di fra' Bastiano, sì come volle il Buonarruoto che l'aveva fatto venire da Roma.
Fece poi Giuliano per Innocenzio cardinal Cibo un ritratto del quadro nel quale già aveva Raffaello da Urbino ritratto papa Leone, Giulio cardinal de' Medici et il cardinale de' Rossi.
Ma in cambio del detto cardinale de' Rossi fece la testa di esso cardinale Cibo, nella quale si portò molto bene e condusse il quadro tutto con molta fatica e diligenza.
Ritrasse similmente allora Cencio Guasconi, giovane in quel tempo bellissimo.
E dopo fece all'Olmo a Castello un tabernacolo a fresco, alla villa di Baccio Pedoni, che non ebbe molto disegno, ma fu ben lavorato con estrema diligenza.
Intanto, sollecitandolo Palla Rucellai a finire la sua tavola, della quale si è di sopra ragionato, si risolvé a menare un giorno Michelagnolo a vederla, e così condottolo dove egli l'aveva, poi che gli ebbe raccontato con quanta fatica avea fatto il lampo che venendo dal cielo spezza le ruote et uccide coloro che le girano, et un sole che uscendo d'una nuvola libera Santa Caterina dalla morte, pregò liberamente Michelagnolo, il quale non poteva tenere le risa udendo le sciagure del povero Bugiardino, che volesse dirgli come farebbe otto o dieci figure principali dinanzi a questa tavola, di soldati che stessino in fila a uso di guardia et in atto di fuggire, cascati, feriti e morti, perciò che non sapeva egli come fargli scortare in modo che tutti potessero capire in sì stretto luogo, nella maniera che si era imaginato, per fila.
Il Buonarruoti addunque, per compiacergli, avendo compassione a quel povero uomo, accostatosi con un carbone alla tavola contornò de' primi segni, schizzati solamente, una fila di figure ignude maravigliose, le quali in diversi gesti scortando, variamente cascavano chi in dietro e chi innanzi, con alcuni morti e feriti fatti con quel giudizio et eccellenza che fu propria di Michelagnolo.
E ciò fatto si partì ringraziato da Giuliano, il quale non molto dopo menò il Tribolo suo amicissimo a vedere quello che il Buonarruoto aveva fatto, raccontandogli il tutto.
E perché come si è detto aveva fatto il Buonarruoto le sue figure solamente contornate, non poteva il Bugiardino metterle in opera, per non vi essere né ombre, né altro; quando si risolvé il Tribolo ad aiutarlo, per che, fatti alcuni modelli in bozze di terra, i quali condusse eccellentemente, dando loro quella fierezza e maniera che aveva dato Michelagnolo al disegno, con la gradina - che è un ferro intaccato - le gradinò acciò fussero crudette et avessino più forza, e così fatte le diede a Giuliano.
Ma perché quella maniera non piaceva alla pulitezza e fantasia del Bugiardino, partito che fu il Tribolo, egli con un pennello, intignendolo di mano in mano nell'acqua, le lisciò tanto che, levatone via le gradine, le pulì tutte, di maniera che, dove i lumi avevano a servire per ritratto e fare l'ombre più crude, si venne a levare via quel buono che faceva l'opera perfetta.
Il che avendo poi inteso il Tribolo dallo stesso Giuliano, si rise della dapoca semplicità di quell'uomo, il quale finalmente diede finita l'opera in modo che non si conosce che Michelagnolo la guardasse mai.
In ultimo Giuliano, essendo vecchio e povero e facendo pochissimi lavori, si messe a una strana et incredibile fatica per fare una Pietà in un tabernacolo che aveva a ire in Ispagna, di figure non molto grandi, e la condusse con tanta diligenza, che pare cosa strana a vedere che un vecchio di quell'età avesse tanta pazienza in fare una sì fatta opera, per l'amore che all'arte portava.
Ne' portelli del detto tabernacolo, per mostrare le tenebre che furono nella morte del Salvatore, fece una Notte in campo nero ritratta da quella che è nella sagrestia di San Lorenzo, di mano di Michelagnolo.
Ma perché non ha quella statua altro segno che un barbagianni, Giuliano, scherzando intorno alla sua pittura della Notte con l'invenzione de' suoi concetti, vi fece un frugnuolo da uccellare a tordi la notte, con la lanterna, un pentolino di quei che si portano la notte con una candela o moccolo, con altre cose simili e che hanno che fare con le tenebre e col buio, come dire berrettini, cuffie, guanciali e pipistregli.
Onde il Buonarruoto quando vide quest'opera ebbe a smascellare delle risa, considerando con che strani capricci aveva il Bugiardino arricchita la sua Notte.
Finalmente essendo sempre stato Giuliano un uomo così fatto, d'età d'anni settantacinque si morì e fu seppellito nella chiesa di San Marco di Firenze l'anno 1556.
Raccondando una volta Giuliano al Bronzino d'avere veduta una bellissima donna, poi che l'ebbe infinitamente lodata, disse il Bronzino: "Conoscetela voi?".
"Non", rispose "ma è bellissima; fate conto ch'ella sia una pittura di mia mano, e basta."
IL FINE DELLA VITA DI GIULIANO BUGIARDINI, PITTORE
VITA DI CRISTOFANO GHERARDI DETTO DOCENO DAL BORGO SAN SEPOLCRO, PITTORE
Mentre che Raffaello dal Colle del Borgo San Sepolcro, il quale fu discepolo di Giulio Romano e gli aiutò lavorare a fresco la sala di Gostantino nel palazzo del Papa in Roma et in Mantoa le stanze del T, dipigneva, essendo tornato al Borgo, la tavola della cappella di San Gilio et Arcanio, nella quale fece, imitando esso Giulio e Raffaello da Urbino, la ressurrezzione di Cristo, che fu opera molto lodata, et un'altra tavola d'un'Assunta ai frati de' Servi a Città di Castello; mentre (dico) Raffaello queste et altre opere lavorava nel Borgo sua patria, acquistandosi ricchezze e nome, un giovane d'anni sedici, chiamato Cristofano e per sopranome Doceno, figliuolo di Guido Gherardi, uomo d'orrevole famiglia in quella città, attendendo per naturale inclinazione con molto profitto alla pittura, disegnava e coloriva così bene e con tanta grazia, che era una maraviglia.
Per che, avendo il sopra detto Raffaello veduto di mano di costui alcuni animali come cani, lupi, lepri e varie sorti d'uccelli e pesci molto ben fatti, e vedutolo di dolcissima conversazione e tanto faceto e motteggevole, come che fusse astratto nel vivere e vivesse quasi alla filosofica, fu molto contento d'avere sua amistà e che gli praticasse per imparare in bottega.
Avendo dunque sotto la disciplina di Raffaello disegnato Cristofano alcun tempo, capitò al Borgo il Rosso, con quale avendo fatto amicizia et avuto de' suoi disegni, studiò Doceno sopra quelli con molta diligenza, parendogli (come quelli che non aveva veduto altri che di mano di Raffaello) che fussino, come erano in vero, bellissimi.
Ma cotale studio fu da lui interrotto perché, andando Giovanni de' Turrini dal Borgo allora capitano de' fiorentini con una banda di soldati borghesi e da Città di Castello alla guardia di Firenze, assediata dall'esercito imperiale e di papa Clemente, vi andò fra gl'altri soldati Cristofano, essendo stato da molti amici suoi sviato; ben è vero che vi andò non meno con animo d'avere a studiare con qualche commodo le cose di Fiorenza che di militare, ma non gli venne fatto, perché Giovanni suo capitano ebbe in guardia non alcun luogo della città, ma i bastioni del monte di fuora.
Finita quella guerra, essendo non molto dopo alla guardia di Firenze il signor Alessandro Vitelli da Città di Castello, Cristofano tirato dagl'amici e dal disiderio di vedere le pitture e sculture di quella città, si mise come soldato in detta guardia, nella quale mentre dimorava avendo inteso il signor Alessandro da Battista della Bilia, pittore e soldato da Città di Castello, che Cristofano attendeva alla pittura et avuto un bel quadro di sua mano, avea disegnato mandarlo con detto Battista della Bilia e con un altro Battista similmente da Città di Castello, a lavorare di sgraffito e di pitture un giardino e loggia che a Città di Castello avea cominciato.
Ma essendosi mentre si murava il detto giardino morto quello et in suo luogo entrato l'altro Battista, per allora, che se ne fusse cagione, non se ne fece altro.
Intanto essendo Giorgio Vasari tornato da Roma, e trattenendosi in Fiorenza col duca Alessandro insino a che il cardinale Ipolito suo signore tornasse d'Ungheria, aveva avuto le stanze nel convento de' Servi, per dar principio a fare certe storie in fresco de' fatti di Cesare nella camera del canto del palazzo de' Medici, dove Giovanni da Udine avea di stucchi e pitture fatta la volta, quando Cristofano, avendo conosciuto Giorgio Vasari nel Borgo l'anno 1528 quando andò a vedere colà il Rosso dove l'avea molto carezzato, si risolvé di volere ripararsi con esso lui, e con sì fatta comodità attendere all'arte molto più che non aveva fatto per lo passato.
Giorgio dunque, avendo praticato con lui un anno che li stette seco e trovatolo suggetto da farsi valent'uomo e che era di dolce e piacevole conversazione e secondo il suo gusto, gli pose grandissimo amore.
Onde avendo a ire non molto dopo, di commessione del duca Alessandro, a Città di Castello in compagnia d'Antonio da San Gallo e di Pier Francesco da Viterbo, i quali erano stati a Fiorenza per fare il castello, o vero cittadella, e tornandosene facevano la via di Città di Castello, per riparare le mura del detto giardino del Vitelli, che minacciavano rovina, menò seco Cristofano; acciò, disegnato che esso Vasari avesse e spartito gl'ordini de' fregi, che s'avevano a fare in alcune stanze e similmente le storie e partimenti d'una stufa et altri schizzi per le facciate delle loggie, egli e Battista sopra detto il tutto conducessero a perfezzione.
Il che tutto fecero tanto bene e con tanta grazia, e massimamente Cristofano, che un ben pratico e nell'arte consumato maestro non arebbe fatto tanto; e, che è più, sperimentandosi in quell'opera, si fece pratico oltre modo e valente nel disegnare e colorire.
L'anno poi 1536 venendo Carlo V imperadore in Italia et in Fiorenza, come altre volte si è detto, si ordinò un onoratissimo apparato, nel quale al Vasari per ordine del duca Alessandro fu dato carico dell'ornamento della porta a S.
Piero Gattolini, della facciata in testa di via Maggio a S.
Felice in piazza e del frontone che si fece sopra la porta di S.
Maria del Fiore, et oltre ciò d'uno stendardo di drappo per il castello alto braccia 15 e lungo 40, nella doratura del quale andorono 50 migliaia di pezzi d'oro.
Ora, parendo ai pittori fiorentini et altri che in questo apparato s'adoperavano, che esso Vasari fusse in troppo favore del duca Alessandro, per farlo rimanere con vergogna nella parte che gli toccava di quello apparato, grande nel vero e faticosa, fecero di maniera che non si poté servire d'alcun maestro di mazzonerie, né di giovani o d'altri che gl'aiutassero in alcuna cosa, di quelli che erano nella città.
Di che accortosi il Vasari, mandò per Cristofano, Raffaello dal Colle e per Stefano Veltroni dal Monte San Savino suo parente, e con il costoro aiuto e d'altri pittori d'Arezzo e d'altri luoghi, condusse le sopra dette opere; nelle quali si portò Cristofano di maniera, che fece stupire ognuno, facendo onore a sé et al Vasari, che fu nelle dette opere molto lodato; le quali finite dimorò Cristofano in Firenze molti giorni, aiutando al medesimo nell'apparato che si fece per le nozze del duca Alessandro nel palazzo di Messer Ottaviano de' Medici, dove fra l'altre cose condusse Cristofano un'arme della duchessa Margherita d'Austria con le palle abbracciate da un'aquila bellissima, e con alcuni putti molto ben fatti.
Non molto dopo, essendo stato ammazzato il duca Alessandro, fu fatto nel Borgo un trattato di dare una porta della città a Piero Strozzi, quando venne a Sestino, e fu perciò scritto da alcuni soldati borghesi fuorusciti a Cristofano, pregandolo che in ciò volesse essere in aiuto loro.
Le quali lettere ricevute, se ben Cristofano non acconsentì al volere di coloro, volle nondimeno per non far lor male più tosto stracciare, come fece, le dette lettere, che palesarle, come secondo le leggi e bandi doveva, a Gherardo Gherardi allora commessario per il signor duca Cosimo nel Borgo.
Cessati dunque i rumori e risaputasi la cosa, fu dato a molti borghesi, et in fra gl'altri a Doceno, bando di ribello.
Et il signor Alessandro Vitelli, che sapendo come il fatto stava arebbe potuto aiutarlo, nol fece perché fusse Cristofano quasi forzato a servirlo nell'opera del suo giardino a Città di Castello, del quale avemo di sopra ragionato.
Nella qual servitù avendo consumato molto tempo senza utile e senza profitto, finalmente, come disperato, si ridusse con altri fuorusciti nella villa di San Iustino, lontana dal Borgo un miglio e mezzo, nel dominio della Chiesa, e pochissimo lontana dal confino de' fiorentini.
Nel qual luogo, come che vi stesse un pericolo, dipinse all'abate Bufolini da Città di Castello, che vi ha bellissime e commode stanze, una camera in una torre con uno spartimento di putti e figure che scortano al di sotto in su molto bene e con grottesche, festoni e maschere bellissime e più bizzarre che si possino imaginare.
La qual camera fornita, perché piacque all'abate, gliene fece fare un'altra, alla quale desiderando di fare alcuni ornamenti di stucco e non avendo marmo da fare polvere per mescolarla, gli servirono a ciò molto bene alcuni sassi di fiume, venati di bianco, la polvere de' quali fece buona e durissima presa; dentro ai quali ornamenti di stucchi fece poi Cristofano alcune storie de' fatti de' romani, così ben lavorate a fresco, che fu una maraviglia.
In que' tempi lavorando Giorgio il tramezzo della badia di Camaldoli a fresco di sopra e per da basso due tavole, e volendo far loro un ornamento in fresco pieno di storie, arebbe voluto Cristofano appresso di sé, non meno per farlo tornare in grazia del Duca che per servirsene.
Ma non fu possibile, ancora che Messer Ottaviano de' Medici molto se n'adoperasse col Duca, farlo tornare, sì brutta informazione gli era stata data de' portamenti di Cristofano.
Non essendo dunque ciò riuscito al Vasari, come quello che amava Cristofano, si mise a far opera di levarlo almeno da S.
Iustino, dove egli con altri fuoriusciti stava in grandissimo pericolo.
Onde avendo l'anno 1539 a fare per i monaci di Monte Oliveto nel monasterio di San Michele in Bosco, fuor di Bologna, in testa d'un refettorio grande tre tavole a olio, con tre storie lunghe braccia quattro l'una et un fregio intorno a fresco alto braccia tre con venti storie dell'Apocalisse di figure piccole, e tutti i monasterii di quella congregazione ritratti di naturale, con un partimento di grottesche et intorno a ciascuna finestra braccia quattordici di festoni con frutte ritratte di naturale, scrisse subito a Cristofano che da San Iustino andasse a Bologna insieme con Battista Cungii borghese e suo compatriota, il quale aveva anch'egli servito il Vasari sette anni.
Costoro dunque arrivati a Bologna, dove non era ancora Giorgio arrivato per essere ancora a Camaldoli, dove fornito il tramezzo faceva il cartone d'un Deposto di croce, che poi fece e fu in quello stesso luogo messo all'altare maggiore, si misono a ingessare le dette tre tavole et a dar di mestica, insino a che arivasse Giorgio, il quale avea dato commessione a Dattero ebreo, amico di Messer Ottaviano de' Medici, il quale faceva banco in Bologna, che provedesse Cristofano e Battista di quanto facea lor bisogno.
E perché esso Dattero era gentilissimo e cortese molto, facea loro mille commodità e cortesie, per che andando alcuna volta costoro in compagnia di lui per Bologna assai dimesticamente et avendo Cristofano una gran maglia in un occhio e Battista gl'occhi grossi, erano così loro creduti ebrei, come era Dattero veramente.
Onde avendo una mattina un calzaiuolo a portare di commessione del detto ebreo un paio di calze nuove a Cristofano, giunto al monasterio disse a esso Cristofano il quale si stava alla porta a vedere far le limosine: "Messere, sapresti voi insegnare le stanze di que' due ebrei dipintori, che qua entro lavorano?".
"Che ebrei e non ebrei", disse Cristofano "che hai da fare con esso loro?".
"Ho a dare", rispose colui, "queste calze a uno di loro chiamato Cristofano." "Io sono uomo da bene e migliore cristiano che non sei tu." "Sia come volete voi", replicò il calzolaio, "io diceva così perciò che, oltre che voi sete tenuti e conosciuti per ebrei da ognuno, queste vostre arie, che non sono del paese, mel raffermavano." "Non più", disse Cristofano, "ti parrà che noi facciamo opere da cristiani." Ma per tornare all'opera, arrivato il Vasari in Bologna, non passò un mese che egli disegnando e Cristofano e Battista abbozzando le tavole con i colori, elle furono tutte e tre fornite d'abbozzare con molta lode di Cristofano, che in ciò si portò benissimo.
Finite di abbozzare le tavole, si mise mano al fregio, il quale se bene doveva tutto da sé lavorare Cristofano, ebbe compagnia: perciò che, venuto da Camaldoli a Bologna Stefano Veltroni dal Monte San Savino, cugino del Vasari, che avea abbozzata la tavola del Deposto, fecero ambidue quell'opera insieme e tanto bene, che riuscì maravigliosa.
Lavorava Cristofano le grottesche tanto bene, che non si poteva veder meglio, ma non dava loro una certa fine che avesse perfezzione.
E per contrario Stefano mancava d'una certa finezza e grazia, perciò che le pennellate non facevano a un tratto restare le cose ai luoghi loro, onde perché era molto paziente, se ben durava più fatica, conduceva finalmente le sue grottesche con più diligenza e finezza.
Lavorando dunque costoro a concorrenza l'opera di questo fregio, tanto faticarono l'uno e l'altro, che Cristofano imparò a finire da Stefano e Stefano imparò da lui a essere più fino e lavorare da maestro.
Mettendosi poi mano ai festoni grossi, che andavano a mazzi intorno alle finestre, il Vasari ne fece uno di sua mano, tenendo innanzi frutte naturali per ritrarle dal vivo, e ciò fatto, ordinò che tenendo il medesimo modo, Cristofano e Stefano seguitassono il rimanente, uno da una banda e l'altro dall'altra della finestra; e così a una a una l'andassono finendo tutte, promettendo a chi di loro meglio si portasse nel fine dell'opera un paio di calze di scarlatto.
Per che, gareggiando amorevolmente costoro per l'utile e per l'onore, si misero dalle cose grande a ritrarre insino alle minutissime, come migli, panichi, ciocche di finocchio et altre simili, di maniera che furono que' festoni bellissimi et ambidue ebbero il premio delle calze di scarlatto dal Vasari, il quale si affaticò molto perché Cristofano facesse da sé parte di disegni delle storie, che andarono nel fregio, ma egli non volle mai.
Onde mentre che Giorgio gli faceva da sé, condusse i casamenti di due tavole con grazia e bella maniera, a tanta perfezzione, che un maestro di gran iudizio, ancor che avesse avuto i cartoni innanzi, non arebbe fatto quello che fece Cristofano, e di vero, non fu mai pittore che facesse da sé, e senza studio, le cose che a costui venivano fatte.
Avendo poi finito di tirare innanzi i casamenti delle due tavole, mentre che il Vasari conduceva a fine le venti storie dell'Apocalisse per lo detto fregio, Cristofano nella tavola dove San Gregorio (la cui testa è il ritratto di papa Clemente VII) mangia con que' dodici poveri, fece Cristofano tutto l'apparecchio del mangiare molto vivamente e naturalissimo.
Essendosi poi messo mano alla terza tavola, mentre Stefano facea mettere d'oro l'ornamento delle altre due, si fece sopra due capre di legno un ponte in sul quale, mentre il Vasari lavorava da una banda in un sole i tre Angeli che apparvero ad Abraam nella valle Mambre, faceva dall'altra banda Cristofano certi casamenti.
Ma perché egli faceva sempre qualche trabiccola di predelle, deschi e tal volta di catinelle a rovescio e pentole, sopra le quali saliva, come uomo a caso che egli era, avvenne che, volendo una volta discostarsi per vedere quello che avea fatto, che mancatogli sotto un piede et andate sotto sopra le trabiccole, cascò d'alto cinque braccia e si pestò in modo, che bisognò trargli sangue e curarlo da dovero altrimenti si sarebbe morto.
E, che fu peggio, essendo egli un uomo così fatto e trascurato, se gli sciolsero una notte le fasce del braccio, per lo quale si era tratto sangue, con tanto suo pericolo che, se di ciò non s'accorgeva Stefano che era a dormire seco, era spacciato; e con tutto ciò si ebbe che fare a rinvenirlo, avendo fatto un lago di sangue nel letto e se stesso condotto quasi all'estremo.
Il Vasari, dunque, presone particulare cura, come se gli fusse stato fratello, lo fece curare con estrema diligenza e nel vero non bisognava meno, e con tutto ciò non fu prima guarito che fu finita del tutto quell'opera.
Per che tornato Cristofano a San Giustino, finì alcuna delle stanze di quell'abate lasciate imperfette, e dopo fece a Città di Castello una tavola, che era stata allogata a Battista suo amicissimo, tutta di sua mano, et un mezzo tondo, che è sopra la porta del fianco di San Fiorido, con tre figure in fresco.
Essendo poi, per mezzo di Messer Pietro Aretino, chiamato Giorgio a Vinezia a ordinare e fare per i gentiluomini e signori della Compagnia della Calza l'apparato d'una sontuosissima e molto magnifica festa e la scena d'una commedia, fatta dal detto Messer Pietro Aretino per i detti signori, egli, come quello che non potea da sé solo condurre una tanta opera, mandò per Cristofano e Battista Cungii sopra detti, i quali arrivati finalmente a Vinezia dopo essere stati trasportati dalla fortuna del mare in Schiavonia, trovarono che il Vasari non solo era là innanzi a loro arrivato, ma avea già disegnato ogni cosa, e non ci aveva se non a por mano a dipignere.
Avendo dunque i detti signori della Calza presa nel fine di Canareio una casa grande che non era finita, anzi non aveva se non le mura principali et il tetto, nello spazio d'una stanza lunga settanta braccia e larga sedici, fece fare Giorgio due ordini di gradi di legname, alti braccia quattro da terra, sopra i quali avevano a stare le gentildonne a sedere.
E le facciate delle bande divise ciascuna in quattro quadri di braccia dieci l'uno, distinti con nicchie di quattro braccia l'una per larghezza, dentro le quali erano figure, le quali nicchie erano in mezzo ciascuna a due termini di rilievo alti braccia nove, di maniera che le nicchie erano per ciascuna banda cinque et i termini dieci, che in tutta la stanza venivano a essere dieci nicchie, venti termini et otto quadri di storie.
Nel primo de' quali quadri a man ritta a canto alla scena, che tutti erano di chiaro scuro, era figurata per Vinezia Adria finta bellissima in mezzo al mare e sedente sopra uno scoglio con un ramo di corallo in mano, et intorno a essa stavano Nettunno, Teti, Proteo, Nereo, Glauco, Palemone et altri dii e ninfe marine, che le presentavano gioie, perle et oro et altre ricchezze del mare.
Et oltre ciò vi erano alcuni amori che tiravano saette, et altri che in aria volando spargevano fiori, et il resto del campo del quadro era tutto di bellissime palme; nel secondo quadro era il fiume della Drava e della Sava ignudi con i loro vasi; nel terzo era il Po finto grosso e curpulento con sette figliuoli fatti per i sette rami che di lui uscendo mettono, come fusse ciascuno di loro fiume regio, in mare.
Nel [quarto] quadro era la Brenta, con altri fiumi del Friuli.
Nell'altra faccia dirimpetto all'Adria era l'isola di Candia, dove si vedeva Giove essere allattato dalla capra, con molte ninfe intorno; a canto a questo, cioè dirimpetto alla Drava, era il fiume del Tagliamento et i monti di Cadoro, e sotto a questo, dirimpetto al Po, era il lago Benaco et il Mincio che entravano in Po; allato a questo e dirimpetto alla Brenta era l'Adice et il Tesino entranti in mare.
I quadri dalla banda ritta erano tramezzati da queste virtù collocate nelle nicchie: Liberalità, Concordia, Pietà, Pace e Religione.
Dirimpetto nell'altra faccia erano: la Fortezza, la Prudenza Civile, la Iustizia, una Vettoria con la guerra sotto et in ultimo una Carità.
Sopra poi erano cornicione architrave et un fregio pieno di lumi e di palle di vetro piene d'acque stillate, acciò avendo dietro lumi rendessono tutta la stanza luminosa.
Il cielo poi era partito in quattro quadri, larghi ciascuno dieci braccia per un verso e per l'altro otto, e tanto quanto teneva la larghezza delle nicchie di quattro braccia, era un fregio che rigirava intorno intorno alla cornice et alla dirittura delle nicchie, veniva nel mezzo di tutti vani un quadro di braccia tre per ogni verso.
I quali quadri erano in tutto ventitré, senza uno che n'era doppio sopra la scena, che faceva il numero di ventiquattro.
Et in quest'erano l'Ore, cioè dodici della notte e dodici del giorno.
Nel primo de' quadri grandi dieci braccia, il quale era sopra la scena, era il Tempo che dispensava l'Ore ai luoghi loro, accompagnato da Eolo dio de' Venti, da Giunone e da Iride; in un altro quadro era all'entrare della porta il carro dell'Aurora, che uscendo delle braccia a Titone andava spargendo rose, mentre esso carro era da alcuni galli tirato; nell'altro era il carro del Sole, e nel quarto era il carro della Notte, tirato da barbagianni, la qual Notte aveva la luna in testa, alcune nottole innanzi e d'ogni intorno tenebre.
De' quali quadri fece la maggior parte Cristofano, e si portò tanto bene, che ne restò ognuno maravigliato, e massimamente nel carro della Notte, dove fece di bozze a olio quello che in un certo modo non era possibile.
Similmente nel quadro d'Adria fece que' mostri marini con tanta varietà e bellezza, che chi gli mirava rimanea stupito come un par suo avesse saputo tanto.
Insomma, in tutta quest'opera si portò oltre ogni credenza da valente e molto pratico dipintore, e massimamente nelle grottesche e fogliami.
Finito l'apparato di quella festa, stettono in Vinezia il Vasari e Cristofano alcuni mesi, dipignendo al Magnifico Messer Giovanni Cornaro il palco o vero soffittato d'una camera, nella quale andarono nove quadri grandi a olio.
Essendo poi pregato il Vasari da Michele San Michele architettore veronese di fermarsi in Vinezia, si sarebbe forse volto a starvi qualche anno, ma Cristofano ne lo dissuase sempre, dicendo che non era bene fermarsi in Vinezia, dove non si tenea conto del disegno, né i pittori in quel luogo l'usavano, senzaché i pittori sono cagione che non vi s'attende alle fatiche dell'arti, e che era meglio tornare a Roma, che è la vera scuola dell'arti nobili e vi è molto più riconosciuta la virtù che a Vinezia.
Aggiunte adunque alla poca voglia che il Vasari aveva di starvi le disuasioni di Cristofano, si partirono amendue.
Ma perché Cristofano, essendo ribello dello stato di Firenze, non poteva seguitare Giorgio, se ne tornò a San Giustino dove non fu stato molto, facendo sempre qualcosa per lo già detto abbate, che andò a Perugia la prima volta che vi andò papa Paulo Terzo, dopo le guerre fatte con i perugini, dove nell'apparato che si fece per ricevere Sua Santità, si portò in alcune cose molto bene, e particolarmente al portone detto di frate Rinieri, dove fece Cristofano, come volle monsignor della Barba allora quivi governatore, un Giove grande irato et un altro placato, che sono due bellissime figure, e dall'altra banda fece un Atlante col mondo addosso et in mezzo a due femine, che avevano una la spada e l'altra le bilance in mano.
Le quali opere, con molte altre che fece in quelle feste Cristofano, furono cagione che fatta poi murare dal medesimo pontefice in Perugia la cittadella, Messer Tiberio Crispo, che allora era governatore e castellano, nel fare dipignere molte stanze volle che Cristofano, oltre quello che vi avea lavorato Lattanzio pittore marchigiano insin allora, vi lavorasse anch'egli.
Onde Cristofano non solo aiutò al detto Lattanzio, ma fece poi di sua mano la maggior parte delle cose migliori, che sono nelle stanze di quella fortezza dipinte.
Nella quale lavorò anco Raffaello dal Colle et Adone Doni d'Ascesi, pittore molto pratico e valente, che ha fatto molte cose nella sua patria et in altri luoghi.
Vi lavorò anco Tommaso del Papa Celio pittore cortonese; ma il meglio che fusse fra loro e vi acquistasse più lode, fu Cristofano, onde messo in grazia da Lattanzio del detto Crispo, fu poi sempre molto adoperato da lui.
Intanto avendo il detto Crispo fatto una nuova chiesetta in Perugia, detta Santa Maria del Popolo, e prima del Mercato, et avendovi cominciata Lattanzio una tavola a olio, vi fece Cristofano di sua mano tutta la parte di sopra, che invero è bellissima e molto da lodare.
Essendo poi fatto Lattanzio, di pittore bargello di Perugia, Cristofano se ne tornò a San Giustino, vi si stette molti mesi pur lavorando per lo detto signor abate Bufolini.
Venuto poi l'anno 1543 avendo Giorgio a fare per lo illustrissimo cardinal Farnese una tavola a olio per la Cancelleria grande et un'altra chiesa di Santo Agostino, per Galeotto da Girone, mandò per Cristofano, il quale andato ben volentieri, come quello che avea voglia di veder Roma, vi stette molti mesi facendo poco altro che andar veggendo, ma nondimeno acquistò tanto, che tornato di nuovo a S.
Iustino fece per capriccio in una sala alcune figure tanto belle, che pareva che l'avesse studiate venti anni.
Dovendo poi andare il Vasari l'anno 1545 a Napoli a fare ai frati di Monte Uliveto un refettorio di molto maggior opera che non fu quella di San Michele in Bosco di Bologna, mandò per Cristofano, Raffaello dal Colle e Stefano sopra detti, suoi amici e creati, i quali tutti si trovarono al tempo determinato in Napoli, eccetto Cristofano, che restò per essere ammalato.
Tuttavia essendo sollecitato dal Vasari si condusse in Roma per andare a Napoli, ma ritenuto da Borgognone suo fratello, che era anch'egli fuoruscito, et il quale lo voleva condurre in Francia, si perdé quell'occasione; ma ritornando il Vasari l'anno 1546 da Napoli a Roma per fare ventiquattro quadri che poi furono mandati a Napoli e posti nella sagrestia di San Giovanni Carbonaro, nei quali dipinse in figure d'un braccio o poco più storie del Testamento Vecchio e della vita di San Giovanni Battista, e per dipignere similmente i portelli dell'organo del piscopio che erano alti braccia sei, si servì di Cristofano, che gli fu di grandissimo aiuto e condusse figure e paesi in quell'opere molto eccellentemente.
Similmente aveva disegnato Giorgio servirsi di lui nella sala della Cancelleria, la quale fu dipinta con i cartoni di sua mano e del tutto finita in cento giorni, per lo cardinal Farnese, ma non gli venne fatto, perché amalatosi Cristofano, se ne tornò a San Giustino subito che fu cominciato a migliorare, et il Vasari senza lui finì la sala, aiutato da Raffaello dal Colle, da Gianbatista Bagna Cavallo bolognese, da Roviale e Bizzera spagnuoli, e da molti altri suoi amici e creati.
Da Roma tornato Giorgio a Fiorenza e di lì dovendo andare a Rimini, per fare all'abate Gian Matteo Faettani nella chiesa de' monaci di Monte Oliveto una cappella a fresco et una tavola, passò da San Giustino per menar seco Cristofano, ma l'abate Buffolino, al quale dipigneva una sala, non volle per allora lasciarlo partire, promettendo a Giorgio che presto gliela manderebbe fino in Romagna.
Ma non ostanti cotali promesse stette tanto a mandarlo, che quando Cristofano andò trovò esso Vasari non solo aver finito l'opere di quell'abbate, ma aveva anco fatto una tavola all'altar maggiore di San Francesco d'Arimini per Messer Niccolò Marcheselli, et a Ravenna nella chiesa di Classi de' monaci di Camaldoli un'altra tavola al padre don Romualdo da Verona, abbate di quella badia.
Aveva apunto Giorgio l'anno 1550 non molto innanzi fatto in Arezzo nella badia di Santa Fiore de' monaci Neri, cioè nel refettorio, la storia delle nozze d'Ester, et in Fiorenza nella chiesa di San Lorenzo alla cappella de' Martelli la tavola di San Gismondo quando, essendo creato papa Giulio Terzo, fu condotto a Roma al servigio di Sua Santità, là dove pensò al sicuro, col mezzo del cardinal Farnese che in quel tempo andò a stare a Fiorenza, di rimettere Cristofano nella patria e tornarlo in grazia del duca Cosimo.
Ma non fu possibile, onde bisognò che il povero Cristofano si stesse così infino al 1554, nel qual tempo essendo chiamato il Vasari al servizio del duca Cosimo, se gli porse occasione di liberare Cristofano.
Aveva il vescovo de' Ricasoli, perché sapeva di farne cosa grata a sua eccellenza, messo mano a fare dipignere di chiaro scuro le tre facciate del suo palazzo, che è posto in sulla coscia del ponte alla Carraia, quando Messer Sforza Almeni, coppiere e primo e più favorito cameriere del Duca, si risolvé di voler far anch'egli dipignere di chiaro scuro a concorrenza del vescovo la sua casa della via de' Servi.
Ma non avendo trovato pittori a Firenze secondo il suo capriccio, scrisse a Giorgio Vasari, il quale non era anco venuto a Fiorenza, che pensasse all'invenzione e gli mandasse disegnato quello che gli pareva si dovesse dipignere in detta sua facciata.
Per che Giorgio, il quale era suo amicissimo e si conoscevano insino quando ambidue stavano col duca Alessandro, pensato al tutto, secondo le misure della facciata, gli mandò un disegno di bellissima invenzione: il quale a dirittura da capo a piedi con ornamento vario rilegava et abelliva le finestre e riempieva con ricche storie tutti i vani della facciata.
Il qual disegno, dico, che conteneva per dirlo brevemente tutta la vita dell'uomo dalla nascita per infino alla morte, mandato dal Vasari a Messer Sforza, gli piacque tanto, e parimente al Duca, che per fare egli avesse la sua perfezzione, si risolverono a non volere che vi si mettesse mano fino a tanto che esso Vasari non fusse venuto a Fiorenza.
Il quale Vasari finalmente venuto e ricevuto da sua eccellenza illustrissima e dal detto Messer Sforza con molte carezze, si cominciò a ragionare di chi potesse essere il caso a condurre la detta facciata.
Per che, non lasciando Giorgio fuggire l'occasione, disse a Messer Sforza che niuno era più atto a condurre quell'opera che Cristofano e che né in quella, né parimente nell'opere che si avevano a fare in palazzo, potea fare senza l'aiuto di lui.
Laonde, avendo di ciò parlato Messer Sforza al Duca, dopo molte informazioni trovatosi che il peccato di Cristofano non era sì grave come era stato dipinto, fu da sua eccellenza il cattivello finalmente ribenedetto.
La qual nuova avendo avuta il Vasari, che era in Arezzo a rivedere la patria e gl'amici, mandò subito uno a posta a Cristofano, che di ciò niente sapeva, a dargli sì fatta nuova.
All'avuta della quale fu per allegrezza quasi per venir meno; tutto lieto adunque, confessando niuno avergli mai voluto meglio del Vasari, se n'andò la mattina vegnente da Città di Castello al Borgo, dove, presentate le lettere della sua liberazione al commessario, se n'andò a casa del padre, dove la madre, et il fratello che molto innanzi si era ribandito, stupirono.
Passati poi due giorni se n'andò ad Arezzo, dove fu ricevuto da Giorgio con più festa che se fusse stato suo fratello, come quelli che da lui si conoscea tanto amato, che era risoluto voler fare il rimanente della vita con esso lui.
D'Arezzo poi venuti ambidue a Firenze, andò Cristofano a baciar le mani al Duca, il quale lo vide volentieri e restò maravigliato, perciò che, dove avea pensato veder qualche gran bravo, vide un omicciatto il migliore del mondo.
Similmente essendo molto stato carezzato da Messer Sforza, che gli pose amor grandissimo, mise mano Cristofano alla detta facciata, nella quale, perché non si poteva ancor lavorare in palazzo, gl'aiutò Giorgio, pregato da lui, a fare per le facciate alcuni disegni delle storie, disegnando anco tal volta nell'opera sopra la calcina di quelle figure che vi sono.
Ma se bene vi sono molte cose ritocche dal Vasari, tutta la facciata nondimeno e la maggior parte delle figure e tutti gl'ornamenti, festoni et ovati grandi, sono di mano di Cristofano, il quale, nel vero, come si vede, valeva tanto nel maneggiar i colori in fresco che si può dire, e lo confessa il Vasari, che ne sapesse più di lui.
E se si fusse Cristofano, quando era giovanetto, essercitato continovamente negli studii dell'arte (perciò che non disegnava mai, se non quando aveva a mettere in opera) et avesse seguitato animosamente le cose dell'arte, non arebbe avuto pari, veggendosi che la pratica, il giudizio e la memoria gli facevano in modo condurre le cose senza altro studio, che egli superava molti che invero ne sapevano più di lui.
Né si può credere con quanta pratica e prestezza egli conducesse i suoi lavori, e quando si piantava a lavorare e fusse di che tempo si volesse, sì gli dilettava, che non levava mai capo dal lavoro, onde altri si poteva di lui promettere ogni gran cosa.
Era oltre ciò tanto grazioso nel conversare e burlare mentre che lavorava, che il Vasari stava tal volta dalla mattina fino alla sera in sua compagnia lavorando, senza che gli venisse mai a fastidio.
Condusse Cristofano questa facciata in pochi mesi, senzaché tal volta stette alcune settimane senza lavorarvi, andando al Borgo a vedere e godere le cose sue.
Né voglio che mi paia fatica raccontare gli spartimenti e figure di quest'opera, la quale potrebbe non aver lunghissima vita, per esser all'aria e molto sottoposta ai tempi fortunosi: né era a fatica fornita, che da una terribile pioggia e grossissima grandine fu molto offesa, et in alcuni luoghi scalcinato il muro.
Sono adunque in questa facciata tre spartimenti: il primo è, per cominciarmi, da basso, dove sono la porta principale e le due finestre; il secondo è dal detto davanzale insino a quello del secondo finestrato, et il terzo è dalle dette ultime finestre insino alla cornice del tetto.
E sono oltre ciò in ciascun finestrato sei finestre, che fanno sette spazii, e secondo quest'ordine fu divisa tutta l'opera per dirittura dalla cornice del tetto infino a terra.
A canto dunque alla cornice del tetto è in prospettiva un cornicione con mensole che risaltano sopra un fregio di putti, sei de' quali per la larghezza della facciata stanno ritti, cioè sopra il mezzo dell'arco di ciascuna finestra uno, e sostengono con le spalle festoni bellissimi di frutti, frondi e fiori che vanno da l'uno all'altro, i quali fiori e frutti sono di mano in mano secondo le stagioni e secondo l'età della vita nostra, quivi dipinta.
Similmente in sul mezzo de' festoni, dove pendono, sono altri puttini in diverse attitudini.
Finita questa fregiatura, in fra i vani delle dette finestre di sopra in sette spazii che vi sono si feciono i sette pianeti con i sette segni celesti sopra loro per finimento et ornamento; sotto il davanzale di queste finestre, nel parapetto è una fregiatura in virtù che a due a due tengono sette ovati grandi, dentro ai quali ovati sono distinte in istorie le sette età dell'uomo.
E ciascuna età accompagnata da due virtù a lei convenienti in modo, che sotto gl'ovati, fra gli spazii delle finestre di sotto, sono le tre virtù teologiche e le quattro morali; e sotto, nella fregiatura, che è sopra la porta e finestre inginocchiate, sono le sette arti liberali e ciascuna è alla dirittura dell'ovato in cui è la storia dell'età a quella virtù conveniente; et appresso nella medesima dirittura le virtù morale, pianeti, segni et altri corrispondenti.
Fra le finestre inginocchiate poi è la vita attiva e la contemplativa con istorie e statue per insino alla morte, inferno et ultima resurrezzione nostra.
E per dir tutto, condusse Cristofano quasi solo tutta la cornice, festoni e putti et i sette segni de' pianeti.
Cominciando poi da un lato fece primieramente la luna e per lei fece una Diana che ha il grembo pieno di fiori, simili a Proserpina, con una luna in capo et il segno di Cancro sopra.
Sotto nell'ovato, dove è la storia dell'infanzia, a la nascita dell'uomo sono alcune balie che lattano putti e donne di parto nel letto, condotte da Cristofano con molta grazia.
E questo ovato è sostenuto dalla Volontà sola, che è una giovane vaga e bella, mezza nuda, la quale è retta dalla Carità, che anch'ella allatta putti.
E sotto l'ovato, nel parapetto, è la Grammatica, che insegna leggere ad alcuni putti; segue, tornando da capo, Mercurio col caduceo e col suo segno, il quale ha nell'ovato la Puerizia con alcuni putti, parte de' quali vanno alla scuola e parte giuocano.
E questo è sostenuto dalla Verità, che è una fanciulletta ignuda tutta pura e semplice, la quale ha da una parte un maschio per la Falsità con varii socinti, e viso bellissimo, ma con gl'occhi cavati in dentro.
E sotto l'ovato [tra] le finestre [è] la Fede, che con la destra battezza un putto in una conca piena d'acqua e con la sinistra mano tiene una croce, e sotto è la Loica nel parapetto con un serpente e coperta da un velo; séguita poi il sole figurato in un Apollo che ha la testa in mano et il suo segno nell'ornamento di sopra.
Nell'ovato è l'Adolescenza in due giovinetti che andando a paro, l'uno saglie con un ramo d'oliva un monte illuminato dal sole, e l'altro fermandosi a mezzo il camino a mirare le bellezze che ha la Fraude dal mezzo in su, senza accorgersi che le cuopre il viso bruttissimo una bella e pulita maschera, è da lei e dalle sue lusinghe fatto cadere in un precipizio.
Regge questo ovato l'Ozio, che è un uomo grasso e corpolento, il quale si sta tutto sonnacchioso e nudo a guisa d'un sileno, e la Fatica, in persona d'un robusto e faticante villano, che ha d'attorno gl'instrumenti da lavorar la terra.
E questi sono retti da quella parte dell'ornamento ch'è fra le finestre dove è la Speranza che ha l'ancore a' piedi, e nel parapetto di sotto è la Musica con varii strumenti musicali attorno; séguita in ordine Venere la quale, avendo abbracciato Amore, lo bacia et ha anch'ella sopra il suo segno.
Nell'ovato che ha sotto è la storia della Gioventù: cioè un giovane nel mezzo a sedere con libri, strumenti da misurare et altre cose appartenenti al disegno, et oltre ciò, apamondi, palle di cosmografia e sfere.
Dietro a lui è una loggia, nella quale sono giovani che cantando, danzando e sonando si danno buon tempo; et un convito di giovani tutti dati a' piaceri.
Dall'uno de' lati è sostenuto questo ovato dalla Cognizione di se stesso, la quale ha intorno seste, armille, quadrati e libri e si guarda in uno specchio, e dall'altro dalla Fraude, bruttissima vecchia magra e sdentata, la quale si ride di essa Cognizione, e con bella e pulita maschera si va ricoprendo il viso.
Sotto l'ovato è la Temperanza con un freno da cavallo in mano, e sotto nel parapetto la Rettorica che è in fila con l'altre.
Segue a canto questi Marte armato con molti trofei attorno col segno sopra del leone.
Nel suo ovato, che è sotto, è la Virilità finta in un uomo maturo, messo in mezzo dalla Memoria e dalla Volontà che gli porgono innanzi un bacino d'oro dentrovi due ale, e gli mostrano la via della salute verso un monte.
E questo ovato è sostenuto dall'Innocenza, che è una giovane con uno agnello a lato e dalla Ilarità, che tuta letiziante e ridente si mostra quello che è veramente.
Sotto l'ovato tra le finestre è la Prudenza, che si fa bella allo specchio et ha sotto nel parapetto la Filosofia; séguita Giove con il fulmine e con l'aquila suo uccello e col suo segno sopra.
Nell'ovato è la Vecchiezza, la quale è figurata in un vecchio vestito da sacerdote e ginocchioni dinanzi a un altare, sopra il quale pone il bacino d'oro con le due ale.
E questo ovato è retto dalla Pietà, che ricuopre certi putti nudi, e dalla Religione ammantata di vesti sacerdotali.
Sotto è la Fortezza armata, la quale posando con atto fiero l'una delle gambe sopra un rocchio di colonna, mette in bocca a un leone certe palle et ha nel parapetto di sotto l'Astrologia.
L'ultimo de' sette pianeti è Saturno finto in un vecchio tutto malinconico che si mangia i figliuoli et un serpente grande che prende con i denti la coda, il quale Saturno ha sopra il segno del Capricorno.
Nell'ovato è la Decrepità, nella quale è finto Giove in cielo ricevere un vecchio decrepito ignudo e ginocchioni, il quale è guardato dalla Felicità e dalla Immortalità, che gettano nel mondo le vestimenta.
È questo ovato sostenuto dalla Beatitudine, la quale è retta sotto nell'ornamento dalla Iustizia, la quale è a sedere et ha in mano lo scetro e la cicogna, sopra le palle con l'arme e le leggi attorno, e di sotto nel parapetto è la Geometria.
Nell'ultima parte da basso, che è intorno alle finestre inginocchiate et alla porta, è Lia in una nicchia per la Vita attiva e dall'altra banda del medesimo luogo l'Industria che ha un corno di dovizia e due stimoli in mano.
Di verso la porta è una storia, dove molti fabricanti, architetti e scarpellini hanno innanzi la porta di Cosmopoli, città edificata dal signor duca Cosimo nell'isola dell'Elba, col ritratto di Porto Ferrai.
Fra questa storia et il fregio, dove sono l'Arti liberali, è il lago Trasimeno, al quale sono intorno ninfe ch'escono dell'acqua, con tinche, lucci, anguille e lasche, et allato al lago è Perugia in una figura ignuda, avendo un cane in mano lo mostra a una Fiorenza ch'è dall'altra banda che corrisponde a questa, con un Arno a canto che l'abbraccia e gli fa festa.
E sotto questa è la Vita contemplativa in un'altra storia, dove molti filosofi et astrologhi misurano il cielo e mostrano di fare la natività del Duca, et a canto, nella nicchia che è rincontro a Lia, è Rachel sua sorella, figliuola di Laban, figurata per essa Vita contemplativa.
L'ultima storia, la quale anch'essa è in mezzo a due nicchie e chiude il fine di tutta l'invenzione, è la Morte, la quale sopra un caval secco e con la falce in mano, avendo seco la guerra, la peste e la fame, corre addosso ad ogni sorte di gente.
In una nicchia è lo dio Plutone et a basso Cerbero cane infernale, e nell'altra è una figura grande che resuscita il dì novissimo d'un sepolcro.
Dopo le quali tutte cose fece Cristofano, sopra i frontespizii delle finestre inginocchiate, alcuni ignudi che tengono l'imprese di sua eccellenza, e sopra la porta un'arme ducale, le cui sei palle sono sostenute da certi putti ignudi, che volando s'intrecciano per aria.
E per ultimo nei basamenti da basso, sotto tutte le storie, fece il medesimo Cristofano l'impresa di esso Messer Sforza, cioè alcune aguglie o vero piramidi triangolari che posano sopra tre palle, con un motto intorno che dice: "Inmobilis".
La quale opera finita fu infinitamente lodata da sua eccellenza e da esso Messer Sforza, il quale come gentilissimo e cortese, voleva con un donativo d'importanza ristorare la virtù e fatica di Cristofano, ma egli nol sostenne, contentandosi e bastandogli la grazia di quel signore, che sempre l'amò quanto più non saprei dire.
Mentre che quest'opera si fece, il Vasari, sì come sempre avea fatto per l'adietro, tenne con esso seco Cristofano in casa del signor Bernardetto de' Medici al quale, perciò che vedeva quanto si dilettava della pittura, fece esso Cristofano in un canto del giardino due storie di chiaro scuro: l'una fu il rapimento di Proserpina e l'altra Vertunno e Pomona dèi dell'agricoltura, et oltre ciò fece in quest'opera Cristofano alcuni ornamenti di termini e putti tanto belli e varii, che non si può veder meglio.
Intanto essendosi dato ordine in palazzo di cominciare a dipignere, la prima cosa a che si mise mano fu una sala delle stanze nuove, la quale, essendo larga braccia venti e non avendo disfogo, secondo che l'aveva fatta il Tasso, più di nove braccia, con bella invenzione fu alzata tre, cioè insino a dodici in tutto, dal Vasari senza muovere il tetto, che era la metà a padiglione.
Ma perché in ciò fare, prima che si potesse dipignere andava molto tempo in rifare i palchi et altri lavori di quella e d'altre stanze, ebbe licenza esso Vasari d'andare a starsi in Arezzo due mesi insieme con Cristofano, ma non gli venne fatto di potere in detto tempo riposarsi, conciò sia che non poté mancare di non andare in detto tempo a Cortona, dove nella Compagnia del Gesù dipinse la volta e le facciate in fresco insieme con Cristofano, che si portò molto bene, e massimamente in dodici sacrificii variati del Testamento Vecchio, i quali fecero nelle lunette fra i peducci delle volte.
Anzi per meglio dire fu quasi tutta questa opera di mano di Cristofano, non avendovi fatto il Vasari che certi schizzi, disegnato alcune cose sopra la calcina e poi ritocco tal volta alcuni luoghi, secondo che bisognava.
Fornita quest'opera che non è se non grande, lodevole e molto ben condotta, per la molta varietà delle cose che vi sono, se ne tornarono amendue a Fiorenza del mese di gennaio, l'anno 1555, dove, messo mano a dipignere la sala degl'Elementi, mentre il Vasari dipigneva i quadri del palco, Cristofano fece alcune imprese che rilegano i fregi delle travi per lo ritto, nelle quali sono teste di capricorno e testuggini con la vela, imprese di sua eccellenza.
Ma quello in che si mostrò costui maraviglioso furono alcuni festoni di frutte, che sono nella fregiatura della trave dalla parte di sotto, i quali sono tanto belli, che non si può veder cosa meglio colorita né più naturale, essendo massimamente tramezzati da certe maschere, che tengono in bocca le legature di essi festoni, delle quali non si possono veder né le più varie né le più bizzarre; nella qual maniera di lavori si può dire che fusse Cristofano superiore a qualunque altro n'ha fatto maggiore e particulare professione.
Ciò fatto, dipinse nelle facciate, ma con i cartoni del Vasari, dove è il nascimento di Venere, alcune figure grandi et in un paese molte figurine piccole, che furono molto ben condotte.
Similmente nella facciata dove gl'amori, piccioli fanciulletti, fabbricano le saette a Cupido, fece i tre Ciclopi che battono i fulmini per Giove; e sopra sei porte condusse a fresco sei ovati grandi con ornamenti di chiaro scuro, e dentro storie di bronzo che furono bellissimi.
E nella medesima sala colorì un Mercurio et un Plutone fra le finestre, che sono parimente bellissimi.
Lavorandosi poi a canto a questa sala la camera della dea Opi, fece nel palco in fresco le quattro stagioni, et oltre alle figure alcuni festoni che per la loro varietà e bellezza furono maravigliosi; conciò sia che come erano quelli della Primavera pieni di mille sorti fiori, così quelli della State erano fatti con una infinità di frutti e biade; quelli dell'Autunno erano d'uve e pampani, e quei del Verno di cipolle, rape, radici, carote, pastinache e foglie secche, senza che egli colorì a olio nel quadro di mezzo, dove è il carro d'Opi, quattro leoni che lo tirano, tanto belli, che non si può far meglio, et invero nel fare animali non aveva paragone.
Nella camera poi di Cerere, che è a lato a questa, fece in certi angoli alcuni putti e festoni belli affatto, e nel quadro del mezzo, dove il Vasari aveva fatto Cerere cercante Proserpina con una face di pino accesa e sopra un carro tirato da due serpenti, condusse molte cose a fine Cristofano di sua mano, per esser in quel tempo il Vasari amalato et aver lasciato fra l'altre cose quel quadro imperfetto.
Finalmente venendosi a fare un terrazzo, che è dopo la camera di Giove et allato a quella di Opi, si ordinò di farvi tutte le cose di Giunone, e così fornito tutto l'ornamento di stucchi con ricchissimi intagli e varii componimenti di figure, fatti secondo i cartoni del Vasari, ordinò esso Vasari che Cristofano conducesse da sé solo in fresco quell'opera, disiderando, per esser cosa che aveva a vedersi da presso e di figure non più grandi che un braccio, che facesse qualche cosa di bello in quello che era sua propria professione.
Condusse dunque Cristofano in un ovato della volta uno sposalizio con Iunone in aria e dall'uno de' lati in un quadro Ebe, dea della gioventù, e nell'altro Iride, la quale mostra in cielo l'arco celeste.
Nella medesima volta fece tre altri quadri, due per riscontro et un altro maggiore alla dirittura dell'ovato, dove è lo sposalizio, nel quale è Giunone sopra il carro a sedere tirato dai pavoni.
In uno degl'altri due che mettono in mezzo questo è la dea della Potestà e nell'altro l'Abondanza col corno della copia a' piedi; sotto sono nelle faccie in due quadri, sopra l'entrare di due porte, due altre storie di Giunone: quando converte la figliuola d'Inaco fiume in vacca e Calisto in orsa.
Nel fare della quale opera pose sua eccellenza grandissima affezzione a Cristofano veggendolo diligente e sollecito oltre modo a lavorare, perciò che non era la mattina a fatica giorno, che Cristofano era comparso in sul lavoro, del quale avea tanta cura e tanto gli dilettava, che molte volte non si forniva di vestire per andar via, e tal volta, anzi spesso, avvenne che si mise per la fretta un paio di scarpe (le quali tutte teneva sotto il letto) che non erano compagne, ma di due ragioni, et il più delle volte aveva la cappa a rovescio e la caperuccia dentro.
Onde una mattina comparendo a buon'ora in sull'opera, dove il signor Duca e la signora Duchessa si stavano guardando et apparecchiandosi d'andare a caccia, mentre le dame e gli altri si mettevano a ordine, s'avvidero che Cristofano al suo solito aveva la cappa a rovescio et il cappuccio di dentro, per che ridendo ambidue, disse il Duca: "Cristofano, che vuol dir questo portar sempre la cappa a rovescio?".
Rispose Cristofano: "Signore, io nol so, ma voglio un dì trovare una foggia di cappe che non abbino né diritto né rovescio, e siano da ogni banda a un modo, perché non mi basta l'animo di portarla altrimenti, vestendomi et uscendo di casa la mattina le più volte al buio, senza che io ho un occhio in modo impedito, che non ne veggio punto.
Ma guardi vostra eccellenza a quel che io dipingo e non a come io vesto".
Non rispose altro il signor Duca, ma di lì a pochi giorni gli fece fare una cappa di panno finissimo e cucire e rimendare i pezzi in modo, che non si vedeva né ritto né rovescio, et il collare da capo era lavorato di passamani nel medesimo modo dentro che di fuori e così il finimento che aveva intorno.
E quella finita, la mandò per uno staffieri a Cristofano, imponendo che gliela desse da sua parte.
Avendo dunque una mattina di buon'ora ricevuta costui la cappa, senza entrare in altre cirimonie, provata che se la fu, disse allo staffieri: "Il Duca ha ingegno, digli che la sta bene".
E perché era Cristofano della persona sua trascurato e non aveva alcuna cosa più in odio che avere a mettersi panni nuovi o andare troppo stringato e stretto, il Vasari, che conosceva quell'umore, quando conoscea che egli aveva d'alcuna sorte di panni bisogno, glieli facea fare di nascosto e poi una mattina di buon'ora porglieli in camera e levare i vecchi, e così era forzato Cristofano a vestirsi quelli che vi trovava.
Ma era un sollazzo maraviglioso starlo a udire mentre era in còllora e si vestiva i panni nuovi: "Guarda", diceva egli, "che assassinamenti son questi, non si può in questo mondo vivere a suo modo; può fare il diavolo che questi nimici delle commodità si dieno tanti pensieri?".
Una mattina fra l'altre essendosi messo un paio di calze bianche, Domenico Benci pittore, che lavorava anch'egli in palazzo col Vasari, fece tanto che in compagnia d'altri giovani menò Cristofano con esso seco alla Madonna dell'Impruneta, e così avendo tutto il giorno caminato, saltato e fatto buon tempo, se ne tornarono la sera dopo cena.
Onde Cristofano, che era stracco, se n'andò subito per dormire in camera, ma essendosi messo a trarsi le calze, fra perché erano nuove et egli era sudato, non fu mai possibile che se ne cavasse se non una, per che, andato la sera il Vasari a vedere come stava, trovò che s'era adormentato con una gamba calzata e l'altra scalza, onde fece tanto, che tenendogli un servidore la gamba e l'altro tirando la calza, pur gliela trassero, mentre che egli malediva i panni, Giorgio, e chi trovò certe usanze che tengono (diceva egli) gl'uomini schiavi in catena.
Che è più, egli gridava che voleva andarsi con Dio e per ogni modo tornarsene a S.
Giustino, dove era lasciato vivere a suo modo, e dove non avea tante servitù.
E fu una passione racconsolarlo.
Piacevagli il ragionar poco et amava che altri in favellando fusse breve, in tanto che non che altro arebbe voluto i nomi proprii degl'uomini brevissimi, come quello d'uno schiavo che aveva Messer Sforza, il quale si chiamava M...
"Oh questi", dicea Cristofano, "son be' nomi, e non Giovan Francesco e Giovan Antonio, che si pena un'ora a pronunziarli." E perché era grazioso di natura e diceva queste cose in quel suo linguaggio borghese, arebbe fatto ridere il pianto.
Si dilettava d'andare il dì delle feste dove si vendevono leggende e pitture stampate et ivi si stava tutto il giorno; e, se ne comperava alcuna, mentre andava l'altre guardando le più volte le lasciava in qualche luogo, dove si fusse appoggiato.
Non volle mai, se non forzato, andare a cavallo ancor che fusse nato nella sua patria nobilmente e fusse assai ricco.
Finalmente essendo morto Borgognone suo fratello e dovendo egli andare al Borgo, il Vasari, che aveva riscosso molti danari delle sue provisioni e serbatigli, gli disse: "Io ho tanti danari di vostro: è bene che gli portiate con esso voi, per servirvene ne' vostri bisogni".
Rispose Cristofano: "Io non vo' danari, pigliategli per voi, che a me basta la grazia di starvi appresso e di vivere e morire con esso voi".
"Io non uso", replicò il Vasari, "servirmi delle fatiche altrui; se non gli volete, gli manderò a Guido vostro padre." "Cotesto non fate voi", disse Cristofano "perciò che gli manderebbe male, come è il solito suo." In ultimo avendogli presi se n'andò al Borgo indisposto e con mala contenteza d'animo, dove giunto, il dolore della morte del fratello, il quale amava infinitamente, et una crudele scolatura di rene, in pochi giorni, avuti tutti i Sacramenti della chiesa, si morì, avendo dispensato a' suoi di casa et a molti poveri que' danari che aveva portato, affermando poco anzi la morte che ella per altro non gli doleva se non perché lasciava il Vasari in troppo grandi impacci e fatiche, quanti erano quelli a che aveva messo mano nel palazzo del Duca.
Non molto dopo avendo sua eccellenza intesa la morte di Cristofano, e certo con dispiacere, fece fare in marmo la testa di lui e con l'infrascritto epitaffio la mandò da Fiorenza al Borgo dove fu posta in San Francesco.
D.O.M.
CHRISTOPHORO GHERARDO BURGENSI PINGENDI
ARTE PRAESTANTISSIMO
QUOD GEORGIUS VASARIUS ARETINUS HUIUS
ARTIS FACILE PRINCEPS IN EXORNANDO
COSMI FLORENTINORUM DUCIS PALATIO
ILLIUS OPERAM QUAM MAXIME
PROBAVERIT
PICTORES HETRUSCI POSUERE
OBIIT A.
D.
MDLVI.
VIXIT AN.
LVI.
M.
III.
D.
VI
VITA DI IACOPO DA PUNTORMO PITTORE FIORENTINO
Gl'antichi, o vero maggiori di Bartolomeo di Iacopo di Martino, padre di Iacopo da Puntormo del quale al presente scriviamo la vita, ebbono, secondo che alcuni affermano, origine dall'Ancisa, castello del Valdarno di sopra, assai famoso per avere di lì tratta similmente la prima origine gl'antichi di Messer Francesco Petrarca.
Ma o di lì o d'altronde che fussero stati i suoi maggiori, Bartolomeo sopra detto, il quale fu fiorentino e secondo che mi vien detto della famiglia de' Carucci, si dice che fu discepolo di Domenico del Ghirlandaio, e che avendo molte cose lavorato in Valdarno come pittore secondo que' tempi ragionevole, condottosi finalmente a Empoli a fare alcuni lavori e quivi e ne' luoghi vicini dimorando, prese moglie in Puntormo una molto virtuosa e da ben fanciulla, chiamata Alessandra, figliuola di Pasquale di Zanobi e di monna Brigida sua donna.
Di questo Bartolomeo adunque nacque l'anno 1493 Iacopo, ma essendogli morto il padre l'anno 1499, la madre l'anno 1504 e l'avolo l'anno 1506, et egli rimaso al governo di monna Brigida sua avola, la quale lo tenne parecchi anni in Puntormo, e gli fece insegnare leggere e scrivere et i primi principii della grammatica latina, fu finalmente dalla medesima condotto di tredici anni in Firenze e messo ne' pupilli, acciò da quel magistrato, secondo che si costuma, fussero le sue poche facultà custodite e conservate, e lui posto che ebbe in casa d'un Battista calzolaio, un poco suo parente, si tornò monna Brigida a Puntormo e menò seco una sorella di esso Iacopo.
Ma indi a non molto essendo anco essa monna Brigida morta, fu forzato Iacopo a ritirarsi la detta sorella in Fiorenza e metterla in casa d'un suo parente chiamato Nicolaio, il quale stava nella via de' Servi.
Ma anche questa fanciulla, seguitando gl'altri suoi, avanti fusse maritata si morì l'anno 1512.
Ma per tornare a Iacopo, non era anco stato molti mesi in Fiorenza, quando fu messo da Bernardo Vettori a stare con Lionardo da Vinci, e poco dopo con Mariotto Albertinelli, con Piero di Cosimo, e finalmente, l'anno 1512, con Andrea del Sarto, col quale similmente non stette molto perciò che, fatti che ebbe Iacopo i cartoni dell'archetto de' Servi, del quale si parlerà di sotto, non parve che mai dopo lo vedesse Andrea ben volentieri, qualunche di ciò fusse la cagione.
La prima opera dunque che facesse Iacopo in detto tempo, fu una Nunziata piccoletta per un suo amico sarto, ma essendo morto il sarto prima che fusse finita l'opera, si rimase in mano di Iacopo, che allora stava con Mariotto, il quale n'aveva vanagloria e la mostrava per cosa rara a chiunche gli capitava a bottega.
Onde venendo di que' giorni a Firenze Raffaello da Urbino, vide l'opera et il giovinetto che l'avea fatta, con infinita maraviglia, profetando di Iacopo quello che poi si è veduto riuscire.
Non molto dopo essendo Mariotto partito di Firenze et andato a lavorare a Viterbo la tavola che fra' Bartolomeo vi aveva cominciata, Iacopo, il quale era giovane malinconico e soletario, rimaso senza maestro andò da per sé a stare con Andrea del Sarto, quando a punto egli avea fornito nel cortile de' Servi le storie di San Filippo, le quale piacevano infinitamente a Iacopo, sì come tutte l'altre cose e la maniera e disegno d'Andrea.
Datosi dunque Iacopo a far ogni opera d'immitarlo, non passò molto che si vide aver fatto acquisto maraviglioso nel disegnare e nel colorire, in tanto che alla pratica parve che fusse stato molti anni all'arte.
Ora avendo Andrea di que' giorni finita una tavola d'una Nunziata per la chiesa de' frati di San Gallo oggi rovinata, come si è detto nella sua vita, egli diede a fare la predella di quella tavola a olio a Iacopo, il quale vi fece un Cristo morto con due Angioletti che gli fanno lume con due torce e lo piangono, e dalle bande in due tondi, due Profeti, i quali furono così praticamente lavorati, che non paiono fatti da giovinetto, ma da un pratico maestro.
Ma può anco essere, come dice il Bronzino ricordarsi avere udito da esso Iacopo Puntormo, che in questa predella lavorasse anco il Rosso.
Ma sì come a fare questa predella fu Andrea da Iacopo aiutato, così fu similmente in fornire molti quadri et opere che continuamente faceva Andrea.
In quel mentre, essendo stato fatto sommo pontefice il cardinale Giovanni de' Medici e chiamato Leone Decimo, si facevano per tutta Fiorenza dagl'amici e divoti di quella casa molte armi del Pontefice, in pietre, in marmi, in tele et in fresco.
Per che volendo i frati de' Servi fare alcun segno della divozione e servitù loro verso la detta casa e Pontefice, fecero fare di pietra l'arme di esso Leone e porla in mezzo all'arco del primo portico della Nunziata, che è in sulla piazza, e poco appresso diedero ordine che ella fusse da Andrea di Cosimo pittore messa d'oro et adornata di grottesche, delle quali era egli maestro eccellente, e dell'imprese di casa Medici, et oltre ciò messa in mezzo da una Fede e da una Carità.
Ma conoscendo Andrea di Cosimo che da sé non poteva condurre tante cose, pensò di dare a fare le due figure ad altri; e così chiamato Iacopo, che allora non aveva più che dicianove anni, gli diede a fare le dette due figure ancor che durasse non piccola fatica a disporlo a volere fare, come quello che essendo giovinetto non voleva per la prima mettersi a sì gran risico, né lavorare in luogo di tanta importanza; pure fattosi Iacopo animo ancor che non fusse così pratico a lavorare in fresco come a olio, tolse a fare le dette due figure.
E ritirato (perché stava ancora con Andrea del Sarto) a fare i cartoni in Santo Antonio alla porta a Faenza, dove egli stava, gli condusse in poco tempo a fine.
E ciò fatto menò un giorno Andrea del Sarto suo maestro a vederli, il quale Andrea vedutigli con infinita maraviglia e stupore gli lodò infinitamente; ma poi, come si è detto, che se ne fusse o l'invidia o altra cagione, non vide mai più Iacopo con buon viso.
Anzi andando alcuna volta Iacopo a bottega di lui o non gl'era aperto o era uccellato dai garzoni, di maniera che egli si ritirò affatto e cominciò a fare sottilissime spese, perché era poverino, e studiare con grandissima assiduità.
Finito dunque che ebbe Andrea di Cosimo di metter d'oro l'arme e tutta la gronda, si mise Iacopo da sé solo a finire il resto, e trasportato dal disio d'acquistare nome, dalla voglia del fare e dalla natura che l'avea dotato d'una grazia e fertilità d'ingegno grandissimo, condusse quel lavoro con prestezza incredibile a tanta perfezzione, quanta più non arebbe potuto fare un ben vecchio e pratico maestro eccellente; per che, cresciutogli per quella sperienza l'animo, pensando di poter fare molto miglior opera, aveva fatto pensiero, senza dirlo altrimenti a niuno, di gettar in terra quel lavoro e rifarlo di nuovo secondo un altro suo disegno, che egli aveva in fantasia.
Ma in questo mentre avendo i frati veduta l'opera finita e che Iacopo non andava più al lavoro, trovato Andrea lo stimolarono tanto, che si risolvé di scoprirla.
Onde, cercato di Iacopo per domandare se voleva farvi altro e non lo trovando, perciò che stava rinchiuso intorno al nuovo disegno e non rispondeva a niuno, fece levare la turata et il palco e scoprire l'opera; e la sera medesima, essendo uscito Iacopo di casa per andare ai Servi, e come fusse notte mandar giù il lavoro che aveva fatto e mettere in opera il nuovo disegno, trovò levato i ponti e scoperto ogni cosa con infiniti popoli attorno che guardavano.
Per che, tutto in còllora, trovato Andrea si dolse che senza lui avesse scoperto, aggiugnendo quello che avea in animo di fare.
A cui Andrea ridendo rispose: "Tu hai il torto a dolerti perciò che il lavoro che tu hai fatto sta tanto bene che se tu l'avessi a rifare, tengo per fermo che non potresti far meglio, e perché non ti mancherà da lavorare, serba cotesti disegni ad altre occasioni".
Quest'opera fu tale, come si vede, e di tanta bellezza, sì per la maniera nuova e sì per la dolcezza delle teste che sono in quelle due femine e per la bellezza de' putti vivi e graziosi, ch'ella fu la più bella in fresco che insino allora fusse stata veduta già mai; perché oltre ai putti della Carità, ve ne sono due altri in aria, i quali tengono all'arme del Papa un panno, tanto begli che non si può far meglio, sanza che tutte le figure hanno rilievo grandissimo e son fatte per colorito e per ogni altra cosa tali, che non si possono lodare a bastanza.
E Michelagnolo Buonarroti, veggendo un giorno quest'opera e considerando che l'avea fatta un giovane d'anni 19, disse: "Questo giovane sarà anco tale per quanto si vede, che se vive e seguita porrà quest'arte in cielo".
Questo grido e questa fama sentendo gl'uomini di Puntormo, mandato per Iacopo gli fecero fare dentro nel castello sopra una porta, posta in sulla strada maestra, un'arme di papa Leone, con due putti, bellissima, come che dall'acqua sia già stata poco meno che guasta.
Il carnovale del medesimo anno, essendo tutta Fiorenza in festa ed in allegrezza per la creazione del detto Leone Decimo, furono ordinate molte feste e fra l'altre due bellissime e di grandissima spesa da due Compagnie di signori e gentiluomini della città, d'una delle quali, che era chiamata il Diamante, era capo il signor Giuliano de' Medici, fratello del Papa, il quale l'aveva intitolata così per essere stato il diamante impresa di Lorenzo il Vecchio suo padre, e dell'altra, che aveva per nome e per insegna il Broncone, era capo il signor Lorenzo figliuolo di Piero de' Medici, il quale dico aveva per impresa un broncone, cioè un tronco di lauro secco che rinverdiva le foglie, quasi per mostrare che rinfrescava e risurgeva il nome dell'avolo.
Dalla compagnia dunque del Diamante fu dato carico a Messer Andrea Dazzi, che allora leggeva lettere greche e latine nello studio di Fiorenza, di pensare all'invenzione d'un trionfo.
Onde egli ne ordinò uno simile a quelli che facevano i Romani trionfando, di tre carri bellissimi e lavorati di legname dipinti con bello e ricco artificio.
Nel primo era la Puerizia con un ordine bellissimo di fanciulli, nel secondo era la Virilità con molte persone che nell'età loro virile avevano fatto gran cose, e nel terzo era la Senettù con molti chiari uomini che nella loro vecchiezza avevano gran cose operato, i quali tutti personaggi erano ricchissimamente adobati, in tanto che non si pensava potersi far meglio.
Gl'architetti di questi carri furono Raffaello delle Vivuole, il Carota intagliatore, Andrea di Cosimo pittore et Andrea del Sarto, e quelli che feciono et ordinarono gl'abiti delle figure furono ser Piero da Vinci, padre di Lionardo, e Bernardino di Giordano, bellissimi ingegni.
Et a Iacopo Puntormo solo toccò a dipignere tutti e tre i carri, nei quali fece in diverse storie di chiaro scuro molte transformazioni degli dii in varie forme, le quali oggi sono in mano di Pietro Paulo Galeotti orefice eccellente.
Portava scritto il primo carro in note chiarissime "Erimus", il secondo "Sumus", et il terzo "Fuimus", cioè "Saremo", "Siamo", "Fummo".
La canzone cominciava: "Volano gl'anni", etc.
Avendo questi trionfi veduto il signor Lorenzo, capo della compagnia del Broncone, e disiderando che fussero superati, dato del tutto carico a Iacopo Nardi gentiluomo nobile e literatissimo al quale, per quello che fu poi, è molto obligata la sua patria Fiorenza, esso Iacopo ordinò sei trionfi per radoppiare quelli stati fatti dal Diamante.
Il primo, tirato da un par di buoi vestiti d'erba, rappresentava l'età di Saturno e di Iano, chiamata dell'oro, et aveva in cima del carro Saturno con la falce et Iano con le due teste e con la chiave del tempio della pace in mano e sotto i piedi legato il Furore, con infinite cose attorno pertinenti a Saturno, fatte bellissime e di diversi colori dall'ingegno del Puntormo.
Accompagnavano questo trionfo sei coppie di pastori ignudi, ricoperti in alcune parti con pelle di martore e zibellini, con stivaletti all'antica di varie sorte e con i loro zaini e ghirlande in capo di molte sorti frondi.
I cavalli sopra i quali erano questi pastori erano senza selle, ma coperti di pelle di leoni, di tigri e di lupi cervieri; le zampe de' quali, messe d'oro, pendevano dagli lati con bella grazia.
Gl'ornamenti delle groppe e staffieri erano di corde d'oro; le staffe teste di montoni, di cane e d'altri simili animali, et i freni e redine fatti di diverse verzure e di corde d'argento.
Aveva ciascun pastore quattro staffieri in abito di pastorelli, vestiti più semplicemente d'altre pelli e con torce fatte a guisa di bronconi secchi e di rami di pino che facevano bellissimo vedere.
Sopra il secondo carro tirato da due paia di buoi vestiti di drappo ricchissimo, con ghirlande in capo e con paternostri grossi che loro pendevano dalle dorate corne, era Numa Pompilio secondo re de' Romani con i libri della Religione e con tutti gl'ordini sacerdotali e cose appartenenti a' sacrifici, perciò che egli fu, appresso i Romani, autore e primo ordinatore della Relligione e de' sacrifizii.
Era questo carro accompagnato da sei sacerdoti sopra bellissime mule, coperti il capo con manti di tela ricamati d'oro e d'argento a foglie d'ellera maestrevolmente lavorati; in dosso avevano vesti sacerdotali all'antica, con balzane e fregi d'oro attorno ricchissimi et in mano chi un turibolo e chi un vaso d'oro e chi altra cosa somigliante.
Alle staffe avevano ministri a uso di leviti e le torce che questi avevano in mano erano a uso di candellieri antichi e fatti con bello artifizio.
Il terzo carro rappresentava il consolato di Tito Manlio Torquato, il quale fu consolo dopo il fine della prima guerra cartaginese e governò di maniera che al tempo suo fiorirono in Roma tutte le virtù e prosperità.
Il detto carro, sopra il quale era esso Tito con molti ornamenti fatti dal Puntormo, era tirato da otto bellissimi cavalli et innanzi gl'andavano sei coppie di senatori togati sopra cavalli coperti di teletta d'oro, accompagnati da gran numero di staffieri rappresentanti littori con fasci, securi et altre cose pertinenti al ministerio della iustizia.
Il quarto carro tirato da quattro bufali, acconci a guisa d'elefanti, rappresentava Giulio Cesare trionfante per la vittoria avuta di Cleopatra, sopra il carro tutto dipinto dal Puntormo dei fatti di quello più famosi, il quale carro accompagnavano sei coppie d'uomini d'arme vestiti di lucentissime armi e ricche, tutte fregiate d'oro, con le lance in sulla coscia; e le torce, che portavano li staffieri mezzi armati, avevano forma di trofei in varii modi accomodati.
Il quinto carro tirato da cavalli alati, che avevano forma di grifii, aveva sopra Cesare Augusto dominatore dell'universo, accompagnato da sei coppie di poeti a cavallo, tutti coronati, sì come anco Cesare, di lauro e vestiti in varii abiti, secondo le loro provincie; e questi, perciò che furono i poeti sempre molto favoriti da Cesare Augusto il quale essi posero con le loro opere in cielo.
Et acciò fussero conosciuti, aveva ciascun di loro una scritta a traverso a uso di banda, nella quale erano i loro nomi.
Sopra il sesto carro tirato da quattro paia di giovenchi vestiti riccamente era Traiano imperatore giustissimo, dinanzi al quale, sedente sopra il carro molto bene dipinto dal Puntormo, andavano, sopra belli e ben guerniti cavalli, sei coppie di dottori legisti con toghe infino ai piedi e con mozzette di vai, secondo che anticamente costumavano i dottori di vestire; i staffieri che portavano le torce in gran numero erano scrivani, copisti e notai con libri e scritture in mano.
Dopo questi sei veniva il carro, o vero trionfo dell'età e secol d'oro, fatto con bellissimo e ricchissimo artifizio, con molte figure di rilievo fatte da Baccio Bandinelli, e con bellissime pitture di mano del Puntormo, fra le quali di rilievo furono molto lodate le quattro virtù cardinali.
Nel mezzo del carro surgeva una gran palla in forma d'apamondo, sopra la quale stava prostrato bocconi un uomo come morto, armato d'arme tutte ruginose, il quale avendo le schiene aperte e fesse, della fessura usciva un fanciullo tutto nudo e dorato, il quale rappresentava l'età dell'oro resurgente e la fine di quella del ferro, della quale egli usciva e rinasceva per la creazione di quel Pontefice.
E questo medesimo significava il broncone secco, rimettente le nuove foglie, come che alcuni dicessero che la cosa del broncone alludeva a Lorenzo de' Medici, che fu duca d'Urbino.
Non tacerò che il putto dorato, il quale era ragazzo d'un fornaio, per lo disagio che patì per guadagnare dieci scudi, poco appresso si morì.
La canzone che si cantava da quella mascherata, secondo che si costuma, fu composizione del detto Iacopo Nardi, e la prima stanza diceva così:
Colui che dà le leggi alla natura,
e i varii stati, e secoli dispone,
d'ogni bene è cagione:
e il mal, quanto permette, al mondo dura:
onde questa figura,
contemplando, si vede
come con certo piede
l'un secol dopo l'altro al mondo viene
e muta il bene in male, e il male in bene.
Riportò dell'opere che fece in questa festa il Puntormo, oltre l'utile, tanta lode che forse pochi giovani della sua età n'ebbero mai altre tanta in quella città, onde, venendo poi esso papa Leone a Fiorenza, fu negl'apparati che si fecero molto adoperato, perciò che accompagnatosi con Baccio da Monte Lupo, scultore d'età, il quale fece un arco di legname in testa della via del Palagio dalle scalee di Badia, lo dipinse tutto di bellissime storie, le quali poi per la poca diligenza di chi n'ebbe cura, andarono male; solo ne rimase una nella qual Pallade accorda uno strumento in sulla lira d'Apollo, con bellissima grazia; dalla quale storia si può giudicare di quanta bontà e perfezzione fussero l'altre opere e figure.
Avendo nel medesimo apparato avuto cura Ridolfo Ghirlandaio di acconciare e d'abbellire la sala del papa, che è congiunta al convento di Santa Maria Novella ed è antica residenza de' pontefici in quella città, stretto dal tempo, fu forzato a servirsi in alcune cose dell'altrui opera, per che, avendo l'altre stanze tutte adornate, diede cura a Iacopo Puntormo di fare nella cappella, dove aveva ogni mattina a udir messa Sua Santità, alcune pitture in fresco.
Laonde, mettendo mano Iacopo all'opera vi fece un Dio Padre con molti putti et una Veronica che nel sudario aveva l'effigie di Gesù Cristo, la quale opera da Iacopo fatta in tanta strettezza di tempo, gli fu molto lodata.
Dipinse poi dietro all'Arcivescovo di Fiorenza, nella chiesa di San Ruffello, in una cappella, in fresco la Nostra Donna col Figliuolo in braccio in mezzo a San Michelagnolo e Santa Lucia e due altri Santi inginocchioni, e nel mezzo tondo della cappella un Dio Padre con alcuni Serafini intorno.
Essendogli poi, secondo che aveva molto disiderato, stato allogato da maestro Iacopo frate de' Servi a dipignere una parte del cortile de' Servi, per esserne andato Andrea del Sarto in Francia e lasciato l'opere di quel cortile imperfette, si mise con molto studio a fare i cartoni, ma perciò che era male agiato di roba e gli bisognava, mentre studiava per acquistarsi onore, aver da vivere, fece sopra la porta dello spedale delle donne, dietro la chiesa dello spedal de' preti, fra la piazza di San Marco e via di San Gallo, dirimpetto a punto al muro delle suore di Santa Caterina da Siena, due figure di chiaro scuro bellissime: cioè Cristo in forma di pellegrino che aspetta alcune donne ospiti per alloggiarle, la quale opera fu meritamente molto in que' tempi et è ancora oggi dagl'uomini intendenti lodata.
In questo medesimo tempo dipinse alcuni quadri e storiette a olio per i maestri di Zecca, nel carro della moneta che va ogni anno per S.
Giovanni a processione; l'opera del qual carro fu di mano di Marco del Tasso.
Et in sul poggio di Fiesole sopra la porta della Compagnia della Cecilia una Santa Cecilia colorita in fresco con alcune rose in mano, tanto belle, e tanto bene in quel luogo accomodata, che per quanto ell'è, delle buone opere che si possano vedere in fresco.
Queste opere avendo veduto il già detto maestro Iacopo frate de' Servi et acceso maggiormente nel suo disiderio, pensò di fargli finire a ogni modo l'opera del detto cortile de' Servi, pensando che a concorrenza degl'altri maestri che vi avevano lavorato, dovesse fare in quello che restava a dipignersi qualche cosa straordinariamente bella.
Iacopo, dunque, messovi mano, fece non meno per disiderio di gloria e d'onore, che di guadagno, la storia della visitazione della Madonna con maniera un poco più ariosa e desta che insino allora non era stato suo solito, la qual cosa accrebbe, oltre all'altre infinite bellezze, bontà all'opera infinitamente, perciò che le donne, i putti, i giovani et i vecchi sono fatti in fresco tanto morbidamente e con tanta unione di colorito, che è cosa maravigliosa; onde le carni d'un putto che siede in su certe scalee, anzi pur quelle insiememente di tutte l'altre figure, son tali, che non si possono in fresco far meglio né con più dolcezza, perché quest'opera, appresso l'altre che Iacopo avea fatto, diede certezza a gl'artefici della sua perfezzione, paragonandole con quelle d'Andrea del Sarto e del Francia Bigio.
Diede Iacopo finita quest'opera l'anno 1516 e n'ebbe per pagamento scudi sedici e non più.
Essendogli poi allogata da Francesco Pucci, se ben mi ricorda, la tavola d'una cappella che egli avea fatto fare in San Michele Bisdomini della via de' Servi, condusse Iacopo quell'opera con tanta bella maniera e con un colorito sì vivo, che par quasi impossibile a crederlo.
In questa tavola la Nostra Donna che siede porge il putto Gesù a San Giuseppo, il quale ha una testa che ride con tanta vivacità e prontezza, che è uno stupore; è bellissimo similmente un putto fatto per San Giovanni Battista e due altri fanciulli nudi che tengono un padiglione; vi si vede ancora un San Giovanni Evangelista, bellissimo vecchio, et un San Francesco inginocchioni che è vivo, però che intrecciate le dita delle mani l'una con l'altra e stando intentissimo a contemplare con gl'occhi e con la mente fissi la Vergine et il figliuolo, par che spiri.
Né è men bello il S.
Iacopo che a canto agli altri si vede, onde non è maraviglia se questa è la più bella tavola che mai facesse questo rarissimo pittore.
Io credeva che dopo quest'opera e non prima avesse fatto il medesimo a Bartolomeo Lanfredini, lung'Arno fra il ponte Santa Trinita e la Carraia, dentro a un andito sopra una porta, due bellissimi e graziosissimi putti in fresco che sostengono un'arme; ma poi che il Bronzino, il quale si può credere che di queste cose sappia il vero, afferma che furono delle prime cose che Iacopo facesse, si dee credere che così sia indubitatamente e lodarne molto maggiormente il Puntormo, poiché son tanto belli, che non si possono paragonare, e furono delle prime cose che facesse.
Ma seguitando l'ordine della storia, dopo le dette fece Iacopo agl'uomini di Puntormo una tavola, che fu posta in Sant'Agnolo lor chiesa principale alla capella della Madonna, nella quale sono un S.
Michelagnolo et un San Giovanni Evangelista.
In questo tempo l'uno di due giovani che stavano con Iacopo, cioè Giovanmaria Pichi dal Borgo a San Sepolcro, che si portava assai bene et il quale fu poi frate de' Servi, e nel Borgo e nella pieve a Santo Stefano fece alcune opere, dipinse, stando dico ancora con Iacopo, per mandarlo al Borgo, in un quadro grande un San Quintino ignudo e martirizzato, ma perché disiderava Iacopo, come amorevole di quel suo discepolo, che egli acquistasse onore e lode, si mise a ritoccarlo, e così non sapendone levare le mani e ritoccando oggi la testa, domani le braccia, l'altro il torso, il ritoccamento fu tale, che si può quasi dire che sia tutto di sua mano; onde non è maraviglia se è bellissimo questo quadro che è oggi al Borgo nella chiesa de' frati osservanti di San Francesco.
L'altro dei due, Giovanni, il quale fu Giovan Antonio Lappoli aretino, di cui si è in altro luogo favellato, avendo come vano ritratto se stesso nello specchio, mentre anch'egli ancora si stava con Iacopo, parendo al maestro che quel ritratto poco somigliasse, vi mise mano e lo ritrasse egli stesso tanto bene, che par vivissimo; il quale ritratto è oggi in Arezzo in casa gl'eredi di detto Giovan Antonio.
Il Puntormo similmente ritrasse in uno stesso quadro due suoi amicissimi: l'uno fu il genero di Becuccio Bichieraio, et un altro, del quale parimente non so il nome; basta, che i ritratti son di mano del Puntormo.
Dopo fece a Bartolomeo Ginori, per dopo la morte di lui, una filza di drapelloni, secondo che usano i fiorentini, et in tutti dalla parte di sopra fece una Nostra Donna col Figliuolo nel taffetà bianco, e di sotto nella balzana di colorito fece l'arme di quella famiglia secondo che usa.
Nel mezzo della filza, che è di ventiquattro drapelloni, ne fece due, tutti di taffetà bianco senza balzana, nei quali fece due San Bartolomei alti due braccia l'uno, la quale grandezza di tutti questi drappelloni e quasi nuova maniera, fece parere meschini e poveri tutti gl'altri stati fatti insino allora; e fu cagione che si cominciarono a fare della grandezza che si fanno oggi, leggiadra molto e di manco spesa d'oro.
In testa all'orto e vigna de' frati di S.
Gallo, fuor della porta che si chiama dal detto Santo, fece in una cappella, che era a dirittura dell'entrata nel mezzo, un Cristo morto, una Nostra Donna che piagneva e duo putti in aria, uno de' quali teneva il calice della Passione in mano e l'altro sosteneva la testa del Cristo cadente.
Dalle bande erano da un lato San Giovanni Evangelista lacrimoso e con le braccia aperte e dall'altro Santo Agostino in abito episcopale, il quale apoggiatosi con la man manca al pastorale, si stava in atto veramente mesto e contemplante la morte del Salvatore.
Fece anco a Messer...
Spina, familiare di Giovanni Salviati, in un suo cortile dirimpetto alla porta principale di casa, l'arme di esso Giovanni stato fatto di que' giorni cardinale da papa Leone, col cappello rosso sopra e con due putti ritti, che per cosa in fresco sono bellissimi e molto stimati da Messer Filippo Spina, per esser di mano del Puntormo.
Lavorò anco Iacopo nell'ornamento di legname che già fu magnificamente fatto, come si è detto altra volta, in alcune stanze di Pierfrancesco Borgherini, a concorrenza d'altri maestri, et in particulare vi dipinse di sua mano in due cassoni alcune storie de' fatti di Ioseffo in figure piccole, veramente bellissime.
Ma chi vuol veder quanto egli facesse di meglio nella sua vita, per considerare l'ingegno e la virtù di Iacopo nella vivacità delle teste, nel compartimento delle figure, nella varietà dell'attitudini e nella bellezza dell'invenzione, guardi in questa camera del Borgherini, gentiluomo di Firenze, all'entrare della porta nel canto a man manca, un'istoria assai grande pur di figure piccole, nella quale è quando Iosef in Egitto, quasi re e principe, riceve Iacob suo padre con tutti i suoi fratelli e figliuoli di esso Iacob con amorevolezze incredibili; fra le quali figure ritrasse a' piedi della storia a sedere sopra certe scale Bronzino, allora fanciullo e suo discepolo, con una sporta, che è una figura viva e bella a maraviglia.
E se questa storia fusse nella sua grandezza (come è piccola) o in tavola grande o in muro, io ardirei di dire che non fusse possibile vedere altra pittura fatta con tanta grazia, perfezzione e bontà, con quanta fu questa condotta da Iacopo, onde meritamente è stimata da tutti gl'artefici la più bella pittura che il Puntormo facesse mai.
Né è maraviglia che il Borgherino la tenesse quanto faceva in pregio, né che fusse ricerco da grand'uomini di venderla per donarla a grandissimi signori e principi.
Per l'assedio di Firenze, essendosi Pierfrancesco ritirato a Lucca, Giovanbattista della Palla, il quale disiderava con altre cose che conduceva in Francia d'aver gl'ornamenti di questa camera e che si presentassero al re Francesco a nome della Signoria, ebbe tanti favori e tanto seppe fare e dire, che il gonfalonieri et i signori diedero commessione si togliesse e si pagasse alla moglie di Pierfrancesco.
Per che, andando con Giovambattista alcuni ad essequire in ciò la volontà de' signori, arivati a casa di Pierfrancesco, la moglie di lui che era in casa, disse a Giovambattista la maggior villania che mai fusse detta ad altro uomo: "Adunque", diss'ella, "vuoi essere ardito tu Giovambattista, vilissimo rigattiere, mercatantuzzo di quattro danari, di sconficcare gl'ornamenti delle camere de' gentiluomini e questa città delle sue più ricche et onorevoli cose spogliare, come tu hai fatto e fai tuttavia, per abbellirne le contrade straniere et i nimici nostri? Io di te non mi maraviglio, uomo plebeo e nimico della tua patria, ma dei magistrati di questa città, che ti comportano queste scelerità abominevoli.
Questo letto, che tu vai cercando per lo tuo particolare interesse et ingordigia di danari, come che tu vada il tuo malanimo con finta pietà ricoprendo, è il letto delle mie nozze, per onor delle quali Salvi mio suocero fece tutto questo magnifico e regio apparato, il quale io riverisco per memoria di lui e per amore di mio marito, et il quale io intendo col proprio sangue e colla stessa vita difendere.
Esci di questa casa con questi tuoi masnadieri, Giovambattista, e vadi a chi qua ti ha mandato comandando che queste cose si lievino dai luoghi loro, che io son quella che di qua entro non voglio che si muova alcuna cosa; e se essi, i quali credono a te uomo dappoco e vile, vogliono il re Francesco di Francia presentare, vadano e si gli mandino, spogliandone le proprie case, gl'ornamenti e letti delle camere loro; e se tu sei più tanto ardito che tu venghi per ciò a questa casa, quanto rispetto si debba dai tuoi pari avere alle case de' gentiluomini, ti farò con tuo gravissimo danno conoscere".
Queste parole adunque di madonna Margherita, moglie di Pierfrancesco Borgherini e figliuola di Ruberto Acciaiuoli nobilissimo e prudentissimo cittadino, donna nel vero valorosa e degna figliuola di tanto padre, col suo nobil ardire et ingegno fu cagione che ancor si serbano queste gioie nelle lor case.
Giovanmaria Benintendi, avendo quasi ne' medesimi tempi adorna una sua anticamera di molti quadri di mano di diversi valentuomini, si fece fare dopo l'opera del Borgherini, da Iacopo Puntormo, stimolato dal sentirlo infinitamente lodare, in un quadro l'adorazione de' Magi che andarono a Cristo in Betelem.
Nella quale opera, avendo Iacopo messo molto studio e diligenza, riuscì nelle teste et in tutte l'altre parti varia, bella e d'ogni lode dignissima.
E dopo fece a Messer Goro da Pistoia, allora segretario de' Medici, in un quadro la testa del Magnifico Cosimo vecchio de' Medici dalle ginocchia in su, che è veramente lodevole, e questa è oggi nelle case di Messer Ottaviano de' Medici nelle mani di Messer Alessandro suo figliuolo, giovane, oltre la nobiltà e chiarezza del sangue, di santissimi costumi, letterato e degno figliuolo del Magnifico Ottaviano e di madonna Francesca, figliuola di Iacopo Salviati e zia materna del signor duca Cosimo.
Mediante quest'opera, e particolarmente questa testa di Cosimo, fatto il Puntormo amico di Messer Ottaviano, avendosi a dipignere al Poggio a Caiano la sala grande, gli furono date a dipignere le due teste, dove sono gl'occhi che danno lume - cioè le finestre - dalla volta infino al pavimento; per che Iacopo, disiderando più del solito farsi onore, sì per rispetto del luogo e sì per la concorrenza degl'altri pittori che vi lavoravano, si mise con tanta diligenza a studiare, che fu troppa; perciò che guastando e rifacendo oggi quello che avea fatto ieri, si travagliava di maniera il cervello, che era una compassione, ma tuttavia andava sempre facendo nuovi trovati con onor suo e bellezza dell'opera.
Onde, avendo a fare un Vertunno con i suoi agricultori, fece un villano che siede con un pennato in mano, tanto bello e ben fatto, che è cosa rarissima, come anco sono certi putti che vi sono, oltre ogni credenza vivi e naturali.
Dall'altra banda, facendo Pomona e Diana con altre dee, le aviluppò di panni forse troppo pienamente, nondimeno tutta l'opera è bella e molto lodata.
Ma mentre che si lavorava quest'opera, venendo a morte Leone, così rimase questa imperfetta, come molte altre simili a Roma, a Firenze, a Loreto et in altri luoghi; anzi povero il mondo e senza il vero mecenate degl'uomini virtuosi.
Tornato Iacopo a Firenze, fece in un quadro a sedere Santo Agostino vescovo che dà la benedizione, con due putti nudi che volano per aria molto belli, il qual quadro è nella piccola chiesa delle suore di San Clemente in via di San Gallo, sopra un altare.
Diede similmente fine a un quadro d'una pietà con certi Angeli nudi, che fu molto bell'opera e carissima a certi mercanti Raugei, per i quali egli la fece.
Ma sopra tutto vi era un bellissimo paese, tolto per la maggior parte da una stampa d'Alberto Duro.
Fece similmente un quadro di Nostra Donna col Figliuolo in collo e con alcuni putti intorno, la quale è oggi in casa d'Alessandro Neroni, et un altro simile, cioè d'una Madonna, ma diversa dalla sopra detta e d'altra maniera, ne fece a certi spagnuoli, il quale quadro essendo a vendersi a un rigattiere di lì a molti anni lo fece il Bronzino comperare a Messer Bartolomeo Panciatichi.
L'anno poi 1522 essendo in Firenze un poco di peste e però partendosi molti per fuggire quel morbo contagiosissimo e salvarsi, si porse occasione a Iacopo d'alontanarsi alquanto e fuggire la città; per che, avendo un priore della Certosa, luogo stato edificato dagl'Acciaiuoli fuor di Firenze tre miglia, a far fare alcune pitture a fresco ne' canti d'un bellissimo e grandissimo chiostro che circonda un prato, gli fu messo per le mani Iacopo, per che, avendolo fatto ricercare et egli avendo molto volentieri in quel tempo accettata l'opera, se n'andò a Certosa menando seco il Bronzino solamente.
E gustato quel modo di vivere, quella quiete, quel silenzio e quella solitudine (tutte cose secondo il genio e natura di Iacopo) pensò con quella occasione fare nelle cose dell'arti uno sforzo di studio e mostrare al mondo avere acquistato maggior perfezione e variata maniera da quelle cose che avea fatto prima.
Et essendo non molto inanzi dell'Alemagna venuto a Firenze un gran numero di carte stampate e molto sottilmente state intagliate col bulino da Alberto Duro, eccellentissimo pittore tedesco e raro intagliatore di stampe in rame e legno, e fra l'altre molte storie grandi e piccole della Passione di Gesù Cristo, nelle quali era tutta quella perfezzione e bontà nell'intaglio di bulino, che è possibile far mai, per bellezza, varietà d'abiti et invenzione, pensò Iacopo, avendo a fare ne' canti di que' chiostri istorie della Passione del Salvatore, di servirsi dell'invenzioni sopra dette d'Alberto Duro, con ferma credenza d'avere non solo a sodisfare a se stesso, ma alla maggior parte degl'artefici di Firenze, i quali tutti a una voce, di comune giudizio e consenso, predicavano la bellezza di queste stampe e l'eccellenza d'Alberto.
Messosi dunque Iacopo a imitare quella maniera, cercando dare alle figure sue, nell'aria delle teste, quella prontezza e varietà che avea dato loro Alberto, la prese tanto gagliardamente, che la vaghezza della sua prima maniera, la quale gli era stata data dalla natura tutta piena di dolcezza e di grazia, venne alterata da quel nuovo studio e fatica e cotanto offesa dall'accidente di quella tedesca, che non si conosce in tutte quest'opere, come che tutte sien belle, se non poco di quel buono e grazia che egli aveva insino allora dato a tutte le sue figure.
Fece dunque all'entrare del chiostro in un canto Cristo nell'orto, fingendo l'oscurità della notte illuminata dal lume della luna tanto bene, che par quasi di giorno; e mentre Cristo ora, poco lontano si stanno dormendo Pietro, Iacopo e Giovanni, fatti di maniera tanto simile a quella del Duro, che è una maraviglia; non lungi è Giuda che conduce i giudei, di viso così strano anch'egli, sì come sono le cere di tutti que' soldati fatti alla tedesca, con arie stravaganti, ch'elle muovono a compassione chi le mira della semplicità di quell'uomo che cercò con tanta pacienza e fatica di sapere quello che dagl'altri si fugge e si cerca di perdere per lasciar quella maniera che di bontà avanzata tutte l'altre e piaceva ad ognuno infinitamente.
Or non sapeva il Puntormo che i tedeschi e' fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d'abandonare? A lato a questa, nella quale è Cristo menato dai giudei inanzi a Pilato, dipinse nel Salvatore tutta quell'umiltà che veramente si può immaginare nella stessa innocenza tradita dagl'uomini malvagi, e nella moglie di Pilato la compassione e temenza che hanno di se stessi coloro che temono il giudizio divino; la qual donna, mentre raccomanda la causa di Cristo al marito, contempla lui nel volto con pietosa maraviglia.
Intorno a Pilato sono alcuni soldati tanto propriamente nell'arie de' volti e negl'abiti tedeschi, che chi non sapesse di cui mano fusse quell'opera, la crederebbe veramente fatta da oltramontani.
Bene è vero che nel lontano di questa storia è un coppieri di Pilato, il quale scende certe scale con un bacino et un bocale in mano, portando da lavarsi le mani al padrone, è bellissimo e vivo, avendo in sé un certo che della vecchia maniera di Iacopo.
Avendo a far poi in uno degl'altri cantoni la ressurrezione di Cristo, venne capriccio a Iacopo, come quello che non avendo fermezza nel cervello andava sempre nuove cose ghiribizzando, di mutar colorito, e così fece quell'opera d'un colorito in fresco tanto dolce e tanto buono, che se egli avesse con altra maniera che con quella medesima tedesca condotta quell'opera, ella sarebbe stata certamente bellissima, vedendosi nelle teste di que' soldati, quasi morti e pieni di sonno in varie attitudini, tanta bontà, che non pare che sia possibile far meglio.
Seguitando poi in uno degl'altri canti le storie della Passione, fece Cristo che va con la croce in spalla al monte Calvario e dietro a lui il popolo di Gierusalem che l'accompagna, et innanzi sono i due ladroni ignudi, in mezzo ai ministri della giustizia, che sono parte a piedi e parte a cavallo, con le scale, col titolo della croce, con martelli, chiodi, funi et altri sì fatti instrumenti; et al sommo, dietro a un monticello, è la Nostra Donna con le Marie che piangendo aspettano Cristo, il quale essendo in terra cascato nel mezzo della storia, ha intorno molti giudei che lo percuotono, mentre Veronica gli porge il sudario accompagnata da alcune femine vecchie e giovani, piangenti lo strazio che far veggiono del Salvatore.
Questa storia, o fusse perché ne fusse avertito dagl'amici, o vero che pure una volta si accorgesse Iacopo, benché tardi, del danno che alla sua dolce maniera avea fatto lo studio della tedesca, riuscì molto migliore che l'altre fatte nel medesimo luogo.
Conciò sia che certi giudei nudi et alcune teste di vecchi sono tanto ben condotte a fresco, che non si può far più; se bene nel tutto si vede sempre servata la detta maniera tedesca.
Aveva dopo queste a seguitare negl'altri canti la crucifissione e deposizione di croce, ma lasciandole per allora con animo di farle in ultimo, fece al suo luogo Cristo deposto di croce, usando la medesima maniera, ma con molta unione di colori.
Et in questa, oltre che la Madalena, la quale bacia i pie' di Cristo, è bellissima, vi sono due vecchi fatti per Ioseffo da Baramazia e Nicodemo, che se bene sono della maniera tedesca, hanno le più bell'arie e teste di vecchi, con barbe piumose e colorite con dolcezza maravigliosa che si possano vedere.
E perché, oltre all'essere Iacopo per ordinario lungo ne' suoi lavori, gli piaceva quella solitudine della Certosa, egli spese in questi lavori parecchi anni, e poi che fu finita la peste et egli tornatosene a Firenze, non lasciò per questo di frequentare assai quel luogo et andare e venire continuamente dalla Certosa alla città.
E così seguitando sodisfece in molte cose a que' padri, e fra l'altre fece in chiesa, sopra una delle porte che entrano nelle capelle, in una figura dal mezzo in su, il ritratto d'un frate converso di quel monasterio, il quale allora era vivo et aveva centoventi anni, tanto bene e pulitamente fatta, con vivacità e prontezza, ch'ella merita che per lei sola si scusi il Puntormo della stranezza e nuova ghiribizzosa maniera che gli pose adosso quella solitudine e lo star lontano dal comerzio degl'uomini.
Fece oltre ciò, per la camera del priore di quel luogo, in un quadro la Natività di Cristo, fingendo che Giuseppo nelle tenebre di quella notte faccia lume a Gesù Cristo con una lanterna, e questo per stare in sulle medesime invenzioni e capricci che gli mettevano in animo le stampe tedesche; né creda niuno che Iacopo sia da biasimare perché egli imitasse Alberto Duro nell'invenzioni, perciò che questo non è errore e l'hanno fatto e fanno continuamente molti pittori, ma perché egli tolse la maniera stietta tedesca in ogni cosa, ne' panni, nell'aria delle teste e l'attitudini, il che doveva fuggire e servirsi solo dell'invenzioni, avendo egli interamente con grazia e bellezza la maniera moderna.
Per la forestiera de' medesimi padri fece in un gran quadro di tela colorita a olio, senza punto affaticare o sforzare la natura, Cristo a tavola con Cleofas e Luca grandi quanto il naturale, e perciò che in quest'opera seguitò il genio suo, ella riuscì veramente maravigliosa, avendo massimamente, fra coloro che servono a quella mensa, ritratto alcuni conversi di que' frati, i quali ho conosciuto io, in modo che non possono essere né più vivi né più pronti di quel che sono.
Bronzino intanto, cioè mentre il suo maestro faceva le sopra dette opere nella Certosa, seguitando animosamente i studi della pittura e tuttavia dal Puntormo, che era de' suoi discepoli amorevole, inanimito, fece, senza aver mai più veduto colorire a olio, in sul muro sopra la porta del chiostro che va in chiesa, dentro sopra un arco, un S.
Lorenzo ignudo in sulla grata, in modo bello, che si cominciò a vedere alcun segno di quell'eccellenza nella quale è poi venuto, come si dirà a suo luogo; la qual cosa a Iacopo, che già vedeva dove quell'ingegno doveva riuscire, piacque infinitamente.
Non molto dopo, essendo tornato da Roma Lodovico di Gino Capponi, il quale aveva compero in Santa Felicita la cappella che già i Barbadori feciono fare a Filippo di ser Brunellesco, all'entrare in chiesa a man ritta, si risolvé di far dipignere tutta la volta e poi farvi una tavola con ricco ornamento.
Onde, avendo ciò conferito con Messer Niccolò Vespucci cavaliere di Rodi, in quale era suo amicissimo, il cavaliere, come quelli che era amico anco di Iacopo e da vantaggio conosceva la virtù e valore di quel valentuomo, fece e disse tanto, che Lodovico allogò quell'opera al Puntormo.
E così, fatta una turata che tenne chiusa quella cappella tre anni, mise mano all'opera.
Nel cielo della volta fece un Dio Padre che ha intorno quattro Patriarchi molto belli, e nei quattro tondi degl'angoli fece i quattro Evangelisti, cioè tre ne fece di sua mano et uno il Bronzino tutto da sé.
Né tacerò con questa occasione che non usò quasi mai il Puntormo di farsi aiutare ai suoi giovani, né lasciò che ponessero mano in su quello che egli di sua mano intendeva di lavorare; e quando pur voleva servirsi d'alcun di loro, massimamente perché imparassero, gli lasciava fare il tutto da sé, come qui fece fare a Bronzino.
Nelle quali opere che in sin qui fece Iacopo in detta cappella, parve quasi che fusse tornato alla sua maniera di prima, ma non seguitò il medesimo nel fare la tavola, perciò che, pensando a nuove cose, la condusse senz'ombre e con un colorito chiaro e tanto unito, che a pena si conosce il lume dal mezzo et il mezzo da gli scuri.
In questa tavola è un Cristo morto, deposto di croce, il quale è portato alla sepoltura; èvvi la Nostra Donna che si vien meno e l'altre Marie fatte con modo tanto diverso dalle prime, che si vede apertamente che quel cervello andava sempre investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare, non si contentando e non si fermando in alcuno.
Insomma il componimento di questa tavola è diverso affatto dalle figure delle volte e simile il colorito, et i quattro Evangelisti che sono nei tondi de' peducci delle volte sono molto migliori e d'un'altra maniera.
Nella facciata dove è la finestra sono due figure a fresco, cioè da un lato la Vergine, dall'altro l'Agnolo che l'anunzia, ma in modo l'una e l'altra stravolte, che si conosce, come ho detto, che la bizzarra stravaganza di quel cervello di niuna cosa si contentava già mai.
E per potere in ciò fare a suo modo, acciò non gli fusse da niuno rotta la testa, non volle mai, mentre fece quest'opera, che neanche il padrone stesso la vedesse.
Di maniera, che avendola fatta a suo modo, senza che niuno de' suoi amici l'avesse potuto d'alcuna cosa avertire, ella fu finalmente con maraviglia di tutto Firenze scoperta e veduta.
Al medesimo Lodovico fece un quadro di Nostra Donna per la sua camera della medesima maniera, e nella testa d'una Santa Maria Madalena ritrasse una figliuola di esso Lodovico, che era bellissima giovane.
Vicino al monasterio di Boldrone, in sulla strada che va di lì a Castello et in sul canto d'un'altra che saglie al poggio e va a Cercina, cioè due miglia lontano da Fiorenza, fece in un tabernacolo a fresco un Crucifisso, la Nostra Donna che piange, San Giovanni Evangelista, Santo Agostino e San Giuliano, le qual tutte figure non essendo ancora sfogato quel capriccio e piacendogli la maniera tedesca, non sono gran fatto dissimili da quelle che fece alla Certosa.
Il che fece ancora in una tavola che dipinse alle monache di Santa Anna, alla porta a S.
Friano, nella qual tavola è la Nostra Donna col Putto in collo e Sant'Anna dietro, San Piero e San Benedetto con altri Santi, e nella predella è una storietta di figure piccole, che rappresentano la signoria di Firenze quando andava a processione con trombetti, pifferi, mazzieri, comandatori e tavolaccini e col rimanente della famiglia.
E questo fece però che la detta tavola gli fu fatta fare dal capitano e famiglia di palazzo.
Mentre che Iacopo faceva quest'opera, essendo stati mandati in Firenze da papa Clemente Settimo, sotto la custodia del legato Silvio Passerini cardinale di Cortona, Alessandro et Ipolito de' Medici, ambi giovinetti, il Magnifico Ottaviano, al quale il Papa gli aveva molto raccomandati, gli fece ritrarre amendue dal Puntormo, il quale lo servì benissimo e gli fece molto somigliare, come che non molto si partisse da quella sua maniera appresa dalla tedesca.
In quel d'Ipolito ritrasse insieme un cane molto favorito di quel signore, chiamato Rodon, e lo fece così proprio e naturale che pare vivissimo; ritrasse similmente il vescovo Ardinghelli che poi fu cardinale, et a Filippo del Migliore suo amicissimo dipinse a fresco nella sua casa di via Larga, al riscontro della porta principale in una nicchia, una femina figurata per Pomona, nella quale parve che cominciasse a cercare di volere uscire in parte di quella sua maniera tedesca.
Ora, vedendo per molte opere Giovambattista della Palla farsi ogni giorno più celebre il nome di Iacopo, poiché non gl'era riuscito mandare le pitture dal medesimo e da altri state fatte al Borgherini, al re Francesco, si risolvé, sapendo che il re n'aveva disiderio, di mandargli a ogni modo alcuna cosa di mano del Puntormo, per che si adoperò tanto, che finalmente gli fece fare in un bellissimo quadro la ressurezzione di Lazzaro, che riuscì una delle migliori opere che mai facesse e che mai fusse da costui mandata (fra infinite che ne mandò) al detto re Francesco di Francia.
E oltre che le teste erano bellissime, la figura di Lazzaro, il quale ritornando in vita ripigliava i spiriti nella carne morta, non poteva essere più maravigliosa, avendo anco il fradiciccio intorno a gl'occhi e le carni morte affatto nell'estremità de' piedi e delle mani là dove non era ancora lo spirito arrivato.
In un quadro d'un braccio e mezzo fece alle donne dello spedale degl'Innocenti in uno numero infinito di figure piccole l'istoria degl'undicimila martiri stati da Diocleziano condennati alla morte e tutti fatti crucifiggere in un bosco, dentro al quale finse Iacopo una battaglia di cavalli e d'ignudi molto bella et alcuni putti bellissimi, che volando in aria aventano saette sopra i crucifissori.
Similmente intorno all'imperadore che gli condanna sono alcuni ignudi che vanno alla morte bellissimi.
Il qual quadro, che è in tutte le parti da lodare, è oggi tenuto in gran pregio da don Vincenzio Borghini, spedalingo di quel luogo e già amicissimo di Iacopo.
Un altro quadro simile al sopra detto fece a Carlo Neroni, ma con la battaglia de' martiri sola e l'Angelo che gli battezza, et appresso il ritratto di esso Carlo.
Ritrasse similmente nel tempo dell'assedio di Fiorenza Francesco Guardi in abito di soldato, che fu opera bellissima, e nel coperchio poi di questo quadro dipinse Bronzino Pigmalione che fa orazione a Venere, perché la sua statua ricevendo lo spirito s'aviva e divenga (come fece secondo le favole di poeti) di carne e d'ossa.
In questo tempo, dopo molte fatiche, venne fatto a Iacopo quello che egli aveva lungo tempo disiderato: perciò che avendo sempre avuto voglia d'avere una casa che fusse sua propria e non avere a stare a pigione, per potere abitare e vivere a suo modo, finalmente ne comperò una nella via della Colonna, dirimpetto alle monache di Santa Maria degl'Angeli.
Finito l'assedio, ordinò papa Clemente a Messer Ottaviano de' Medici che facesse finire la sala del Poggio a Caiano.
Per che, essendo morto il Francia Bigio et Andrea del Sarto, ne fu data interamente la cura al Puntormo, il quale fatti fare i palchi e le turate, cominciò a fare i cartoni; ma perciò che se n'andava in ghiribizzi e considerazioni, non mise mai mano altrimenti all'opera.
Il che non sarebbe forse avvenuto se fusse stato in paese il Bronzino, che allora lavorava all'imperiale luogo del duca d'Urbino vicino a Pesero; il quale Bronzino, se bene era ogni giorno mandato a chiamare da Iacopo, non però si poteva a sua posta partire, però che avendo fatto nel peduccio d'una volta all'imperiale un Cupido ignudo molto bello et i cartoni per gl'altri, ordinò il prencipe Guidobaldo, conosciuta la virtù di quel giovane, d'essere ritratto da lui.
Ma perciò che voleva essere fatto con alcune arme che aspettava di Lombardia, il Bronzino fu forzato trattenersi più che non arebbe voluto con quel prencipe e dipignergli in quel mentre una cassa d'arpicordo, che molto piacque a quel prencipe; il ritratto del quale finalmente fece il Bronzino, che fu bellissimo e molto piacque a quel prencipe.
Iacopo dunque scrisse tante volte e tanti mezzi adoperò, che finalmente fece tornare il Bronzino; ma non pertanto, non si poté mai indurre quest'uomo a fare di quest'opera altro che i cartoni, come che ne fusse dal Magnifico Ottavio e dal duca Alessandro sollecitato.
In uno de' quali cartoni, che sono oggi per la maggior parte in casa di Lodovico Capponi, è un Ercole che fa scoppiare Anteo, in un altro una Venere et Adone, et in una carta una storia d'ignudi che giuocano al calcio.
In questo mezzo, avendo il signor Alfonso Davalo marchese del Guasto ottenuto, per mezzo di fra' Niccolò della Magna, di Michelagnolo Buonarroti un cartone d'un Cristo che appare alla Madalena nell'orto, fece ogni opera d'avere il Puntormo, che glielo conducesse di pittura, avendogli detto il Buonarroto che niuno poteva meglio servirlo di costui.
Avendo dunque condotta Iacopo questa opera a perfezzione, ella fu stimata pittura rara per la grandezza del disegno di Michelagnolo e per lo colorito di Iacopo, onde avendola veduta il signor Alessandro Vitelli, il quale era allora in Fiorenza capitano della guardia de' soldati, si fece fare da Iacopo un quadro del medesimo cartone, il quale mandò e fé porre nelle sue case a Città di Castello.
Veggendosi adunque quanta stima facesse Michelagnolo del Puntormo e con quanta diligenza esso Puntormo conducesse a perfezzione e ponesse ottimamente in pittura i disegni e cartoni di Michelagnolo, fece tanto Bartolomeo Bettini, che il Buonarruoti suo amicissimo gli fece un cartone d'una Venere ignuda con un Cupido che la bacia, per farla fare di pittura al Pontormo e metterla in mezzo a una sua camera, nelle lunette della quale aveva cominciato a fare dipignere dal Bronzino Dante, Petrarca e Boccaccio, con animo di farvi gl'altri poeti che hanno con versi e prose toscane cantato d'amore.
Avendo dunque Iacopo avuto questo cartone, lo condusse, come si dirà, a suo agio a perfezzione in quella maniera che sa tutto il mondo senza che io lo lodi altrimenti.
I quali disegni di Michelagnolo furono cagione che considerando il Puntormo la maniera di quello artefice nobilissimo, se gli destasse l'animo e si risolvesse per ogni modo a volere secondo il suo sapere imitarla e seguitarla.
Et allora conobbe Iacopo quanto avesse mal fatto a lasciarsi uscir di mano l'opera del Poggio a Caiano, come che egli ne incolpasse in gran parte una sua lunga e molto fastidiosa infermità, et in ultimo la morte di papa Clemente, che ruppe al tutto quella pratica.
Avendo Iacopo, dopo le già dette opere, ritratto di naturale in un quadro Amerigo Antinori, giovane allora molto favorito in Fiorenza, et essendo quel ritratto molto lodato da ognuno, il duca Alessandro avendo fatto intendere a Iacopo che voleva da lui essere ritratto in un quadro grande, Iacopo per più commodità lo ritrasse per allora in un quadretto grande quanto un foglio di carta mezzana con tanta diligenza e studio, che l'opere de' miniatori non hanno che fare alcuna cosa con questa; perciò che, oltre al somigliare benissimo, è in quella testa tutto quello che si può disiderare in una rarissima pittura.
Dal quale quadretto, che è oggi in guardaroba del duca Cosimo, ritrasse poi Iacopo il medesimo Duca in un quadro grande con uno stile in mano disegnando la testa d'una femina, il quale ritratto maggiore donò poi esso duca Alessandro alla signora Taddea Malespina sorella della marchesa di Massa.
Per quest'opere disegnando il Duca di volere ad ogni modo riconoscere liberamente la virtù di Iacopo, gli fece dire da Niccolò da Montaguto suo servitore che dimandasse quello che voleva che sarebbe compiaciuto.
Ma fu tanta, non so se io mi debba dire la pusillanimità o il troppo rispetto e modestia di quest'uomo, che non chiese se non tanti danari quanto gli bastassero a riscuotere una cappa che egl'aveva al presto impegnata.
Il che avendo udito il Duca, non senza ridersi di quell'uomo così fatto, gli fece dare cinquanta scudi d'oro et offerire provisione, et anche durò fatica Niccolò a fare che gl'accettasse.
Avendo in tanto finito Iacopo di dipignere la Venere dal cartone del Bettino, la quale riuscì cosa miracolosa, ella non fu data a esso Bettino per quel pregio che Iacopo gliela avea promessa, ma da certi furagrazie, per far male a Bettino, levata di mano a Iacopo quasi per forza e data al duca Alessandro, rendendo il suo cartone al Bettino.
La qual cosa avendo intesa Michelagnolo n'ebbe dispiacere per amor dell'amico a cui avea fatto il cartone, e ne volle male a Iacopo, il quale se bene n'ebbe dal Duca cinquanta scudi, non però si può dire che facesse fraude al Bettino, avendo dato la Venere per comandamento di chi gl'era signore, ma di tutto dicono alcuni, che fu in gran parte cagione, per volerne troppo, l'istesso Bettino.
Venuta dunque occasione al Puntormo, mediante questi danari, di mettere mano ad acconciare la sua casa, diede principio a murare, ma non fece cosa di molta importanza.
Anzi, se bene alcuni affermano che egli aveva animo di spendervi secondo lo stato suo grossamente e fare una abitazione comoda e che avesse qualche disegno, si vede nondimeno che quello che fece, o venisse ciò dal non avere il modo da spendere o da altra cagione, ha più tosto cera di casamento da uomo fantastico e soletario che di ben considerata abitura: conciò sia che alla stanza dove stava a dormire e tal volta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò niuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa.
Ma quello che più in lui dispiaceva agl'uomini si era che non voleva lavorare se non quando et a chi gli piaceva, et a suo capriccio; onde essendo ricerco molte volte da gentiluomini che disideravano avere dell'opere sue, et una volta particolarmente dal Magnifico Ottaviano de' Medici, non gli volle servire, e poi si sarebbe messo a fare ogni cosa per un uomo vile e plebeo e per vilissimo prezzo.
Onde il Rossino muratore, persona assai ingegnosa secondo il suo mestiere, facendo il goffo, ebbe da lui per pagamento d'avergli mattonato alcune stanze e fatto altri muramenti, un bellissimo quadro di Nostra Donna, il quale facendo Iacopo, tanto sollecitava e lavorava in esso, quanto il muratore faceva nel murare.
E seppe tanto ben fare il prelibato Rossino, che oltre il detto quadro cavò di mano a Iacopo un ritratto bellissimo di Giulio cardinal de' Medici, tolto da uno di mano di Raffaello, e da vantaggio un quadretto d'un Crucifisso molto bello, il quale, se bene comperò il detto Magnifico Ottaviano dal Rossino muratore per cosa di mano di Iacopo, nondimeno si sa certo che egli è di mano di Bronzino, il quale lo fece tutto da per sé, mentre stava con Iacopo alla Certosa, ancor che rimanesse poi, non so perché, appresso al Puntormo.
Le quali tutte tre pitture cavate dall'industria del muratore di mano a Iacopo sono oggi in casa Messer Alessandro de' Medici figliuolo di detto Ottaviano.
Ma ancor che questo procedere del Puntormo, e questo suo vivere soletario et a suo modo fusse poco lodato, non è però se chi che sia volesse scusarlo, che non si potesse.
Conciò sia che di quell'opere che fece se gli deve avere obligo; e di quelle che non gli piacque di fare, non l'incolpare e biasimare.
Già non è niuno artefice obligato a lavorare se non quando e per chi gli pare; e se egli ne pativa, suo danno.
Quanto alla solitudine, io ho sempre udito dire ch'ell'è amicissima degli studi.
Ma quando anco così non fusse, io non credo che si debba gran fatto biasimare chi senza offesa di Dio e del prossimo vive a suo modo, et abita e pratica secondo che meglio aggrada alla sua natura.
Ma per tornare (lasciando queste cose da canto) all'opere di Iacopo, avendo il duca Alessandro fatto in qualche parte racconciare la villa di Careggi, stata già edificata da Cosimo Vecchio de' Medici, lontana due miglia da Firenze, e condotto l'ornamento della fontana et il laberinto che girava nel mezzo d'uno cortile scoperto, in sul quale rispondono due logge, ordinò sua eccellenza che le dette logge si facessero dipignere da Iacopo, ma se gli desse compagnia acciò che le finisse più presto e la conversazione, tenendolo allegro, fusse cagione di farlo, senza tanto andare ghiribizzando e stillandosi il cervello, lavorare.
Anzi il Duca stesso, mandato per Iacopo, lo pregò che volesse dar quell'opera quanto prima del tutto finita.
Avendo dunque Iacopo chiamato il Bronzino, gli fece fare in cinque piedi della volta una figura per ciascuno, che furono la Fortuna, la Iustizia, la Vittoria, la Pace e la Fama.
E nell'altro piede, che in tutto son sei, fece Iacopo di sua mano un amore.
Dopo, fatto il disegno d'alcuni putti che andavano nell'ovato della volta, con diversi animali in mano che scortano al di sotto in su, gli fece tutti, da uno in fuori, colorire dal Bronzino, che si portò molto bene.
E perché mentre Iacopo et il Bronzino facevano queste figure, fecero gl'ornamenti intorno Iacone, Pierfrancesco di Iacopo et altri, restò in poco tempo tutta finita quell'opera con molta sodisfazione del signor Duca, il quale voleva far dipignere l'altra loggia, ma non fu a tempo, perciò che essendosi fornito questo lavoro a dì 13 di dicembre 1536, alli sei di gennaio seguente fu quel signore illustrissimo ucciso dal suo parente Lorenzino, e così questa et altre opere rimasono senza la loro perfezzione.
Essendo poi creato il signor duca Cosimo, passata felicemente la cosa di Monte Murlo e messosi mano all'opera di Castello, secondo che si è detto nella vita del Tribolo, sua eccellenza illustrissima per compiacere la signora donna Maria sua madre, ordinò che Iacopo dipignesse la prima loggia, che si truova entrando nel palazzo di Castello a man manca.
Per che, messovi mano, primieramente disegnò tutti gl'ornamenti che v'andavano, e gli fece fare al Bronzino per la maggior parte et [a] coloro che avevano fatto quei di Careggi.
Di poi rinchiusosi dentro da sé solo, andò facendo quell'opera a sua fantasia et a suo bell'agio, studiando con ogni diligenza, acciò ch'ella fusse molto migliore di quella di Careggi, la quale non avea lavorata tutta di sua mano, il che potea fare commodamente, avendo per ciò otto scudi il mese da sua eccellenza, la quale ritrasse così giovinetta come era nel principio di quel lavoro, e parimente la signora donna Maria sua madre.
Finalmente essendo stata turata la detta loggia cinque anni, e non si potendo anco vedere quello che Iacopo avesse fatto, adiratasi la detta signora un giorno con esso lui, comandò che i palchi e la turata fusse gettata in terra.
Ma Iacopo essendosi raccomandato et avendo ottenuto che si stesse anco alcuni giorni a scoprirla, la ritoccò prima dove gli parea che n'avesse di bisogno, e poi fatta fare una tela a suo modo, che tenesse quella loggia (quando que' signori non v'erano) coperta, acciò l'aria, come avea fatto a Careggi, non si divorasse quelle pitture lavorate a olio in sulla calcina secca, la scoperse con grande aspettazione d'ognuno, pensandosi che Iacopo avesse in quell'opera avanzato se stesso e fatto alcuna cosa stupendissima.
Ma gl'effetti non corrisposero interamente all'opinione.
Perciò che, se bene sono in questa molte parti buone, tutta la proporzione delle figure pare molto difforme, e certi stravolgimenti et attitudini che vi sono pare che siano senza misura e molto strane.
Ma Iacopo si scusava con dire che non avea mai ben volentieri lavorato in quel luogo, perciò che essendo fuor di città par molto sottoposto alle furie de' soldati et ad altri simili accidenti.
Ma non accadeva che egli temesse di questo, perché l'aria et il tempo (per essere lavorate nel modo che si è detto) le van consumando a poco a poco.
Vi fece dunque nel mezzo della volta un Saturno col segno del Capricorno e Marte ermafrodito nel segno del Leone e della Vergine et alcuni putti in aria che volano come quei di Careggi.
Vi fece poi in certe feminone grandi, e quasi tutte ignude, la Filosofia, l'Astrologia, la Geometria, la Musica, l'Aritmetica et una Cerere et alcune medaglie di storiette fatte con varie tinte di colori et apropriate alle figure.
Ma con tutto che questo lavoro faticoso e stentato non molto sodisfacesse, e se pur assai, molto meno che non s'aspettava, mostrò sua eccellenza che gli piacesse e si servì di Iacopo in ogni occorrenza, essendo massimamente questo pittore in molta venerazione appresso i popoli, per le molto belle e buon'opere che avea fatto per lo passato.
Avendo poi condotto il signor Duca in Fiorenza maestro Giovanni Rosso e maestro Niccolò fiamminghi, maestri eccellenti di panni d'arazzo, perché quell'arte si esercitasse et imparasse dai fiorentini, ordinò che si facessero panni d'oro e di seta per la sala del consiglio de' Dugento, con spesa di sessantamila scudi, e che Iacopo e Bronzino facessero nei cartoni le storie di Ioseffo.
Ma avendone fatte Iacopo due, in uno de' quali è quando a Iacob è annunziata la morte di Ioseffo e mostratogli i panni sanguinosi e nell'altro il fuggire di Ioseffo, lasciando la veste, dalla moglie di Putifaro, non piacquero né al Duca, né a que' maestri che gl'avevano a mettere in opera, parendo loro cosa strana e da non dover riuscire ne' panni tessuti et in opera.
E così Iacopo non seguitò di fare più cartoni altrimenti.
Ma tornando a' suoi soliti lavori, fece un quadro di Nostra Donna che fu dal Duca donato al signor Don...
che lo portò in Ispagna.
E perché sua eccellenza seguitando le vestigia de' suoi maggiori ha sempre cercato di abellire et adornare la sua città, essendole ciò venuto in considerazione, si risolvé di fare dipignere tutta la capella maggiore del magnifico tempio di San Lorenzo, fatta già dal gran Cosimo Vecchio de' Medici.
Per che, datone il carico a Iacopo Puntormo, o di sua propria volontà o per mezzo (come si disse) di Messer Pierfrancesco Ricci maiorduomo, esso Iacopo fu molto lieto di quel favore, perciò che se bene la grandezza dell'opera essendo egli assai bene in là con gl'anni gli dava che pensare, e forse lo sgomentava, considerava dall'altro lato quanto avesse il campo largo nella grandezza di tant'opera di mostrare il valore e la virtù sua.
Dicono alcuni che veggendo Iacopo essere stata allogata a sé quell'opera, nonostante che Francesco Salviati pittore di gran nome fusse in Firenze et avesse felicemente condotta e di pittura la sala di palazzo, dove già era l'udienza della Signoria, ebbe a dire, che mostrarebbe come si disegnava e dipigneva, e come si lavora in fresco, et oltre ciò, che gl'altri pittori non erano se non persone da dozzina et altre simili parole altiere e troppo insolenti.
Ma perché io conobbi sempre Iacopo persona modesta e che parlava d'ognuno onoratamente et in quel modo che dee fare un costumato e virtuoso artefice, come egli era, credo che queste cose gli fussero aposte e che non mai si lasciasse uscir di bocca sì fatti vantamenti, che sono per lo più cose d'uomini vani e che troppo di sé presumono; con la qual maniera di persone non ha luogo la virtù né la buona creanza.
E se io arei potuto tacere queste cose, non l'ho voluto fare; però che il procedere come ho fatto mi pare ufficio di fedele e verace scrittore.
Basta che se bene questi ragionamenti andarono attorno, e massimamente fra gl'artefici nostri, porto nondimeno ferma opinione che fussero parole d'uomini maligni, essendo sempre stato Iacopo nelle sue azzioni, per quello che appariva, modesto e costumato.
Avendo egli adunque con muri, assiti e tende turata quella capella e datosi tutto alla solitudine, la tenne per ispazio d'undici anni in modo serrata che da lui infuori mai non vi entrò anima vivente, né amici né nessuno.
Bene è vero che disegnando alcuni giovinetti nella sagrestia di Michelagnolo, come fanno i giovani, salirono per le chiocciole di quella in sul tetto della chiesa e levati i tegoli e l'asse del rosone di quelli che vi sono dorati, videro ogni cosa.
Di che accortosi Iacopo l'ebbe molto per male, ma non ne fece altra dimostrazione che di turare con più diligenza ogni cosa, se bene dicono alcuni che egli perseguitò molto que' giovani, e cercò di fare loro poco piacere.
Immaginandosi dunque in quest'opera di dovere avanzare tutti i pittori e forse, per quel che si disse, Michelagnolo, fece nella parte di sopra in più istorie la creazione di Adamo et Eva, il loro mangiare del pomo vietato e l'essere scacciati di Paradiso, il zappare la terra, il sacrifizio d'Abel, la morte di Caino, la benedizione del seme di Noè e quando egli disegna la pianta e misure dell'Arca.
In una poi delle facciate di sotto, ciascuna delle quali è braccia quindici per ogni verso, fece la inondazione del Diluvio, nella quale sono una massa di corpi morti et affogati, e Noè che parla con Dio.
Nell'altra faccia è dipinta la Ressurezione Universale de' morti, che ha da essere nell'ultimo e novissimo giorno, con tanta e varia confusione, ch'ella non sarà maggiore da dovero per aventura, né così viva, per modo di dire, come l'ha dipinta il Pontormo.
Dirimpetto all'altare fra le finestre, cioè nella faccia del mezzo, da ogni banda è una fila d'ignudi che presi per mano et aggrappatisi su per le gambe e busti l'uno dell'altro, si fanno scala per salire in Paradiso, uscendo di terra, dove sono molti morti che gl'accompagnano; e fanno fine da ogni banda due morti vestiti, eccetto le gambe e le braccia, con le quali tengono due torce accese.
A sommo del mezzo della facciata, sopra le finestre fece nel mezzo in alto Cristo nella sua maestà, il quale circondato da molti Angeli tutti nudi fa resuscitare que' morti per giudicare.
Ma io non ho mai potuto intendere la dottrina di questa storia, se ben so che Iacopo aveva ingegno da sé e praticava con persone dotte e letterate, cioè quello volesse significare in quella parte dove è Cristo in alto, che risuscita i morti, e sotto i piedi ha Dio padre che crea Adamo et Eva.
Oltre ciò in uno de' canti dove sono i quattro Evangelisti nudi con libri in mano, non mi pare, anzi in niun luogo, osservato né ordine di storia, né misura, né tempo, né varietà di teste, non cangiamento di colori di carni, et insimma non alcuna regola, né proporzione, né alcun ordine di prospettiva: ma pieno ogni cosa d'ignudi, con un ordine, disegno, invenzione, componimento, colorito e pittura fatta a suo modo, con tanta malinconia e con tanto poco piacere di chi guarda quell'opera, ch'io mi risolvo, per non l'intendere ancor io, se ben son pittore, di lasciarne far giudizio a coloro che la vedranno; perciò che io crederei impazzarvi dentro et avvilupparmi, come mi pare, che in undici anni di tempo che egli ebbe, cercass'egli di avviluppare sé e chiunque vede questa pittura con quelle così fatte figure.
E se bene si vede in questa opera qualche pezzo di torso che volta le spalle o il dinanzi et alcune apiccature di fianchi, fatte con maraviglioso studio e molta fatica da Iacopo, che quasi di tutte fece i modelli di terra tondi e finiti, il tutto nondimeno è fuori della maniera sua, e come pare quasi a ognuno, senza misura, essendo nella più parte i torsi grandi e le gambe e braccia piccole, per non dir nulla delle teste, nelle quali non si vede punto punto di quella bontà e grazia singolare che soleva dar loro con pienissima sodisfazione di chi mira l'altre sue pitture.
Onde pare che in questa non abbia stimato se non certe parti, e dell'altre più importanti non abbia tenuto conto niuno.
Et insomma, dove egli aveva pensato di trapassare in questa tutte le pitture dell'arte, non arrivò a gran pezzo alle cose sue proprie fatte ne' tempi a dietro.
Onde si vede che chi vuol strafare e quasi sforzare la natura, rovina il buono che da quella gli era stato largamente donato.
Ma che si può o deve se non avergli compassione, essendo così gl'uomini delle nostre arti sottoposti all'errare come gl'altri? Et il buon Omero, come si dice, anch'egli tal volta s'adormenta.
Né sarà mai che in tutte l'opere di Iacopo (sforzasse quanto volesse la natura) non sia del buono e del lodevole.
E perché se morì poco avanti che al fine dell'opera, affermano alcuni che fu morto dal dolore, restando in ultimo malissimo sodisfatto di se stesso.
Ma la verità che essendo vecchio e molto affaticato dal far ritratti, modelli di terra e lavorare tanto in fresco, diede in una idropisia che finalmente l'uccise d'anni 65.
Furono dopo la costui morte trovati in casa sua molti disegni, cartoni e modelli di terra bellissimi, et un quadro di Nostra Donna stato da lui molto ben condotto, per quello che si vide, e con bella maniera molti anni inanzi, il quale fu venduto poi dagl'eredi suoi a Piero Salviati.
Fu sepolto Iacopo nel primo chiostro della chiesa de' frati de' Servi, sotto la storia che egli già fece della Visitazione, e fu onoratamente accompagnato da tutti i pittori, scultori et architettori.
Fu Iacopo molto parco e costumato uomo, e fu nel vivere e vestire suo più tosto misero che assegnato, e quasi sempre stette da sé solo, senza volere che alcuno lo servisse o gli cucinasse.
Pure negl'ultimi anni tenne come per allevarselo Battista Naldini, giovane di buono spirito, il quale ebbe quel poco di cura della vita di Iacopo che egli stesso volle che se n'avesse, et il quale sotto la disciplina di lui fece non piccol frutto nel disegno, anzi tale che se ne spera ottima riuscita.
Furono amici del Puntormo in particulare in questo ultimo della sua vita Pierfrancesco Vernacci, e don Vincenzio Borghini col quale si ricreava alcuna volta, ma di rado, mangiando con esso loro.
Ma sopra ogni altro fu da lui sempre sommamente amato il Bronzino che amò lui parimente come grato e conoscente del benefizio da lui ricevuto.
Ebbe il Puntormo di bellissimi tratti, e fu tanto pauroso della morte, che non voleva, non che altro, udirne ragionare, e fuggiva l'avere a incontrare morti.
Non andò mai a feste, né in altri luoghi dove si ragunassero genti, per non essere stretto nella calca e fu oltre ogni credenza solitario.
Alcuna volta, andando per lavorare, si mise così profondamente a pensare quello che volesse fare, che se ne partì senz'avere fatto altro in tutto quel giorno che stare in pensiero.
E che questo gl'avvenisse infinite volte nell'opera di San Lorenzo, si può credere agevolmente, perciò che quando era risoluto, come pratico e valente, non istentava punto a far quello che voleva, o aveva deliberato di mettere in opera.
IL FINE DELLA VITA DI IACOPO DA PUNTORMO, PITTOR FIORENTINO
VITA DI SIMONE MOSCA SCULTORE ET ARCHITETTO
Dagli scultori antichi greci e romani in qua, niuno intagliatore moderno ha paragonato l'opere belle e difficili che essi feciono nelle base, capitegli, fregiature, cornici, festoni, trofei, maschere, candellieri, uccelli, grottesche o altro corniciame intagliato, salvo che Simone Mosca da Settignano, il quale ne' tempi nostri ha operato in questa sorte di lavori talmente, che egli ha fatto conoscere con l'ingegno e virtù sua che la diligenza, e studio degl'intagliatori moderni, stati innanzi a lui, non aveva insino a lui saputo imitare il buono dei detti antichi, né preso il buon modo negl'intagli.
Conciò sia che l'opere loro tengono del secco et il girare de' loro fogliami dello spinoso e del crudo, là dove gli ha fatti egli con gagliardezza et abondanti e ricchi di nuovi andari con foglie in varie maniere intagliate, con belle intaccature e con i più bei semi, fiori e vilucchi che si possano vedere, senza gl'uccegli che in fra i festoni e fogliame ha saputo graziosamente in varie guise intagliare.
In tanto che si può dire che Simone solo (sia detto con pace degl'altri) abbia saputo cavar del marmo quella durezza che suol dar l'arte spesse volte alle sculture, e ridotte le sue cose con l'oprare dello scarpello a tal termine, ch'elle paiono palpabili e vere; et il medesimo si dice delle cornici et altri somiglianti lavori da lui condotti con bellissima grazia e giudizio.
Costui avendo nella sua fanciullezza atteso al disegno con molto frutto e poi fattosi pratico nell'intagliare, fu da maestro Antonio da San Gallo, il quale conobbe l'ingegno e buono spirito di lui, condotto a Roma, dove e' gli fece fare, per le prime opere, alcuni capitegli e base e qualche fregio di fogliami, per la chiesa di San Giovanni de' Fiorentini, et alcuni lavori per lo palazzo d'Alessandro, primo cardinal Farnese.
Attendendo in tanto Simone, e massimamente i giorni delle feste e quando poteva rubar tempo, a disegnare le cose antiche di quella città, non passò molto che disegnava e faceva piante con più grazia e nettezza che non faceva Antonio stesso; di maniera che, datosi tutto a studiare disegnando i fogliami della maniera antica et a girare gagliardo le foglie et a traforare le cose per condurle a perfezzione, togliendo dalle cose migliori il migliore, e da chi una cosa e da chi un'altra, fece in pochi anni una bella composizione di maniera e tanto universale, che faceva poi bene ogni cosa et insieme e da per sé, come si vede in alcun'armi che dovevano andare nella detta chiesa di San Giovanni in strada Giulia.
In una delle quali armi facendo un giglio grande, antica insegna del comune di Firenze, gli fece addosso alcuni girari di foglie con vilucchi e semi così ben fatti, che fece stupefare ognuno.
Né passò molto che, guidando Antonio da San Gallo per Messer Agnolo Cesis l'ornamento di marmo d'una cappella e sepoltura di lui e di sua famiglia, che fu murata poi l'anno 1550 nella chiesa di Santa Maria della Pace, fece fare parte d'alcuni pilastri e zoccoli pieni di fregiature che andavano in quell'opera a Simone, il quale gli condusse sì bene e sì begli, che senza ch'io dica quali sono, si fanno conoscere alla grazia e perfezzione loro in fra gl'altri.
Né è possibile veder più belli e capricciosi altari da fare sacrifizii all'usanza antica di quelli che costui fece nel basamento di quell'opera.
Dopo, il medesimo San Gallo, che facea condurre nel chiostro di San Pietro in Vincola la bocca di quel pozzo, fece fare al Mosca le sponde con alcuni mascheroni bellissimi.
Non molto dopo, essendo una state tornato a Firenze et avendo buon nome fra gl'artefici, Baccio Bandinelli che faceva l'Orfeo di marmo, che fu posto nel cortile del palazzo de' Medici, fatta condurre la basa di quell'opera da Benedetto da Rovezzano, fece condurre a Simone i festoni et altri intagli bellissimi che vi sono, ancor che un festone vi sia imperfetto e solamente gradinato.
Avendo poi fatto molte cose di macigno, delle quali non accade far memoria, disegnava tornare a Roma, ma seguendo in quel mentre il Sacco non andò altrimenti, ma preso donna, si stava a Firenze con poche faccende, perché, avendo bisogno d'aiutare la famiglia e non avendo entrate, si andava trattenendo con ogni cosa.
Capitando adunque in que' giorni a Fiorenza Pietro di Subisso, maestro di scarpello aretino, il quale teneva di continuo sotto di sé buon numero di lavoranti, però che tutte le fabriche d'Arezzo passavano per le sue mani, condusse fra molti altri Simone in Arezzo, dove gli diede a fare per la casa degl'eredi di Pellegrino da Fossombrone, cittadino aretino, la qual casa avea già fatta fare Messer Piero Geri, astrologo eccellente, col disegno d'Andrea Sansovino, e dai nepoti era stata venduta, per una sala un camino di macigno et un acquaio di non molta spesa.
Messovi dunque mano e cominciato Simone il cammino lo pose sopra due pilastri, facendo due nicchie nella grossezza di verso il fuoco e mettendo sopra i detti pilastri architrave, fregio e cornicione et un frontone di sopra con festoni e con l'arme di quella famiglia.
E così continuando, lo condusse con tanti e sì diversi intagli e sottile magistero, che ancor che quell'opera fusse di macigno, diventò nelle sue mani più bella che se fusse di marmo e più stupenda, il che gli venne anco fatto più agevolmente, però che quella pietra non è tanto dura quanto il marmo e più tosto renosiccia che no.
Mettendo dunque in questo lavoro un'estrema diligenza, condusse ne' pilastri alcuni trofei, di mezzo tondo e basso rilievo, più belli e più bizzarri che si possano fare; con celate, calzari, targhe, turcassi et altre diverse armadure; vi fece similmente maschere, mostri marini et altre graziose fantasie, tutte in modo ritratte e traforate, che paiono d'argento.
Il fregio poi, che è fra l'architrave et il cornicione, fece con un bellissimo girare di fogliami, tutto traforato e pien d'uccelli, tanto ben fatti, che paiano in aria volanti, onde è cosa maravigliosa vedere le piccole gambe di quelli, non maggiori del naturale, essere tutte tonde e staccate dalla pietra, in modo che pare impossibile.
E nel vero, quest'opera pare più tosto miracolo che artifizio.
Vi fece oltre ciò in un festone alcune foglie e frutte, così spiccate e fatte con tanta diligenza sottili, che vincono in un certo modo le naturali.
Il fine poi di quest'opera sono alcune mascherone e candellieri veramente bellissimi; e se bene non dovea Simone in un'opera simile mettere tanto studio, dovendone essere scarsamente pagato da coloro che molto non potevano, nondimeno, tirato dall'amore che portava all'arte e dal piacere che si ha in bene operando, volle così fare; ma non fece già il medesimo nell'acquaio de' medesimi, però che lo fece assai bello, ma ordinario.
Nel medesimo tempo aiutò fare a Piero di Sobisso, che molto non sapea, molti disegni di fabriche, di piante di case, porte, finestre et altre cose attenenti a quel mestiero.
In sulla cantonata degl'Albergotti, sotto la scuola e studio del comune, è una finestra fatta col disegno di costui assai bella.
Et in Pelliceria ne son due nella casa di ser Bernardino Serragli, et in sulla cantonata del palazzo de' Priori è di mano del medesimo un'arme grande di macigno di papa Clemente Settimo.
Fu condotta ancora di suo ordine e parte da lui medesimo una cappella di macigno d'ordine corinto, per Bernardino di Cristofano da Giuovi, che fu posta nella Badia di Santa Fiore, monasterio assai bello in Arezzo di monaci Neri.
In questa cappella voleva il padrone far fare la tavola ad Andrea del Sarto e poi al Rosso, ma non gli venne fatto perché, quando da una cosa e quando da altra impediti, non lo poterono servire.
Finalmente voltosi a Giorgio Vasari ebbe anco con esso lui delle difficultà e si durò fatica a trovar modo che la cosa si accomodasse.
Perciò che, essendo quella cappella intitolata in San Iacopo et in San Cristofani, vi voleva colui la Nostra Donna col Figliuolo in collo e poi al San Cristofano gigante un altro Cristo piccolo sopra la spalla, la quale cosa, oltre che parea mostruosa, non si poteva accomodare né fare un gigante di sei in una tavola di quattro braccia.
Giorgio adunque, disideroso di servire Bernardino, gli fece un disegno di questa maniera: pose sopra le nuvole la Nostra Donna con un sole dietro le spalle et in terra fece San Cristofano ginocchioni, con una gamba nell'acqua da uno de' lati della tavola, e l'altra in atto di moverla per rizzarsi, mentre la Nostra Donna gli pone sopra le spalle Cristo fanciullo con la palla del mondo in mano; nel resto della tavola poi aveva da essere accomodato in modo San Iacopo e gl'altri Santi, che non si sarebbono dati noia.
Il quale disegno piacendo a Bernardino, si sarebbe messo in opera, ma perché in quello si morì, la cappella si rimase a quel modo agl'eredi, che non hanno fatto altro.
Mentre dunque che Simone lavorava la detta cappella, passando per Arezzo Antonio da San Gallo, il quale tornava dalla fortificazione di Parma et andava a Loreto a finire l'opera della cappella della Madonna, dove aveva aviati il Tribolo, Raffaello Monte Lupo, Francesco giovane da San Gallo, Girolamo da Ferrara e Simon Cioli et altri intagliatori, squadratori e scarpellini, per finire quello che alla sua morte aveva lasciato Andrea Sansovino imperfetto, fece tanto che condusse là Simone a lavorare, dove gl'ordinò che non solo avesse cura agl'intagli, ma all'architettura ancora et altri ornamenti di quell'opera.
Nelle quali commessioni si portò il Mosca molto bene, e, che fu più, condusse di sua mano perfettamente molte cose et in particolare alcuni putti tondi di marmo che sono in sui frontespizii delle porte, e, se bene ve ne sono anco di mano di Simon Cioli, i migliori, che sono rarissimi, son tutti del Mosca.
Fece similmente tutti i festoni di marmo che sono a torno a tutta quell'opera, con bellissimo artifizio e con graziosissimi intagli e degni di ogni lode.
Onde non è maraviglia se sono amirati et in modo stimati questi lavori, che molti artefici da' luoghi lontani si sono partiti per andargli a vedere.
Antonio da San Gallo adunque, conoscendo quanto il Mosca valesse in tutte le cose importanti, se ne serviva con animo.
Un giorno, porgendosegli l'occasione di remunerarlo e fargli conoscere quanto amasse la virtù di lui, perché essendo, dopo la morte di papa Clemente, creato sommo pontefice Paulo Terzo Farnese, il quale ordinò, essendo rimasa la bocca del pozzo d'Orvieto imperfetta, che Antonio n'avesse cura, esso Antonio vi condusse il Mosca acciò desse fine a quell'opera, la quale aveva qualche difficultà et in particulare nell'ornamento delle porte, perciò che, essendo tondo il giro della bocca, colmo di fuori e dentro voto, que' due circoli contendevano insieme e facevano difficoltà nell'accomodare le porte quadre con l'ornamento di pietra.
Ma la virtù di quell'ingegno pellegrino di Simone accomodò ogni cosa e condusse il tutto con tanta grazia e perfezzione, che niuno s'avede che mai vi fusse difficultà.
Fece dunque il finimento di questa bocca e l'orlo di macigno et il ripieno di mattoni, con alcuni epitaffi di pietra bianca bellissimi et altri ornamenti, riscontrando le porte del pari; vi fece anco l'arme di detto papa Paulo Farnese di marmo, anzi, dove prima erano fatte di palle per papa Clemente che aveva fatto quell'opera, fu forzato il Mosca, e gli riuscì benissimo, a fare delle palle di rilievo, gigli, e così a mutare l'arme de' Medici in quella di casa Farnese, non ostante, come ho detto (così vanno le cose del mondo), che di cotanto magnifica opera e regia fusse stato autore papa Clemente Settimo, del quale non si fece, in quest'ultima parte e più importante, alcuna menzione.
Mentre che Simone attendeva a finire questo pozzo, gl'Operai di Santa Maria del Duomo d'Orvieto, disiderando far fine alla cappella di marmo, la quale con ordine di Michele San Michele veronese s'era condotta infino al basamento con alcuni intagli, ricercorno Simone che volesse attendere a quella, avendolo conosciuto veramente eccellente: per che, rimasi d'accordo e piacendo a Simone la conversazione degl'orvietani, vi condusse, per stare più comodamente, la famiglia, e poi si mise con animo quieto e posato a lavorare, essendo in quel luogo da ognuno grandemente onorato.
Poi dunque che ebbe dato principio, quasi per saggio, ad alcuni pilastri e fregiature, essendo conosciuta da quegl'uomini l'eccellenza e virtù di Simone, gli fu ordinata una provisione di dugento scudi d'oro l'anno, con la quale continuando di lavorare condusse quell'opera a buon termine.
Perché nel mezzo andava, per ripieno di questi ornamenti, una storia di marmo, cioè l'adorazione de' Magi di mezzo rilievo, vi fu condotto, avendolo proposto Simone suo amicissimo, Raffaello da Monte Lupo scultore fiorentino, che condusse quella storia, come si è detto, infino a mezzo bellissima.
L'ornamento dunque di questa cappella sono certi basamenti che mettono in mezzo l'altare di larghezza braccia dua e mezzo l'uno, sopra i quali sono due pilastri per banda alti cinque e questi mettono in mezzo la storia de' Magi.
E nei due pilastri di verso la storia, che se ne veggiono due faccie, sono intagliati alcuni candellieri con fregiature di grottesche, maschere, figurine e fogliami, che sono cosa divina.
E da basso nella predella che va ricignendo sopra l'altare fra l'uno e l'altro pilastro, è un mezzo Angioletto che con le mani tiene un'inscrizione con festoni sopra, e fra i capitegli de' pilastri, dove risalta l'architrave, il fregio e cornicione tanto quanto sono larghi i pilastri.
E sopra quelli del mezzo, tanto quanto son larghi, gira un arco che fa ornamento alla storia detta de' Magi, nella quale, cioè in quel mezzo tondo, sono molti Angeli.
Sopra l'arco è una cornice che viene da un pilastro all'altro, cioè da quegl'ultimi di fuori che fanno frontespizio a tutta l'opera, et in questa parte è un Dio Padre di mezzo rilievo; e dalle bande dove gira l'arco sopra i pilastri, sono due Vettorie di mezzo rilievo.
Tutta quest'opera adunque è tanto ben composta e fatta con tanta ricchezza d'intaglio, che non si può fornire di vedere le minuzie degli strafori, l'eccellenza di tutte le cose che sono in capitelli, cornici, maschere, festoni e ne' candellieri tondi, che fanno il fine di quella certo degno di essere come cosa rara amirato.
Dimorando adunque Simone Mosca in Orvieto, un suo figliuolo di quindici anni, chiamato Francesco e per sopranome il Moschino, essendo stato dalla natura prodotto quasi con gli scarpelli in mano e di sì bell'ingegno, che qualunque cosa voleva facea con somma grazia, condusse sotto la disciplina del padre in quest'opera, quasi miracolosamente, gl'Angeli che fra i pilastri tengono l'inscrizioni, poi il Dio Padre del frontespizio e finalmente gl'Angeli che sono nel mezzo tondo dell'opera, sopra l'Adorazione de' Magi fatta da Raffaello, et ultimamente le Vittorie dalle bande del mezzo tondo, nelle quali cose fé stupire e maravigliare ognuno.
Il che fu cagione che finita quella cappella, a Simone fu dagl'Operai del Duomo dato a farne un'altra a similitudine di questa, dall'altra banda, acciò meglio fusse accompagnato il vano della cappella dell'altare maggiore, con ordine che, senza variare l'architettura, si variassono le figure, e nel mezzo fusse la visitazione di Nostra Donna, la quale fu allogata al detto Moschino.
Convenuti dunque del tutto, misero il padre et il figliuolo mano all'opera, nella quale, mentre si adoperarono, fu il Mosca di molto giovamento et utile a quella città, facendo a molti disegni d'architettura per case et altri edifizii.
E fra l'altre cose fece in quella città la pianta e la facciata della casa di Messer Raffaello Gualtieri, padre del vescovo di Viterbo, e di Messer Felice, ambi gentiluomini e signori onorati e virtuosissimi; et alli signori conti della Cervara similmente le piante d'alcune case.
Il medesimo fece in molti de' luoghi a Orvieto vicini et in particolare il signor Pirro Colonna da Stripicciano, i modelli di molte fabriche e muraglie.
Facendo poi fare il Papa in Perugia la fortezza dove erano state le case de' Baglioni, Antonio San Gallo, mandato per il Mosca, gli diede carico di fare gl'ornamenti, onde furono con suo disegno condotte tutte le porte, finestre, camini et altre sì fatte cose, et in particolare due grandi e bellissime armi di Sua Santità.
Nella quale opera avendo Simone fatto servitù con Messer Tiberio Crispo che vi era castellano, fu da lui mandato a Bolsena dove, nel più alto luogo di quel castello riguardante il lago, accomodò parte in sul vecchio e parte fondando di nuovo, una grande e bella abitazione con una salita di scale bellissima e con molti ornamenti di pietra.
Né passò molto che, essendo detto Messer Tiberio fatto castellano di Castel Santo Agnolo, fece andare il Mosca a Roma, dove si servì di lui in molte cose nella rinovazione delle stanze di quel castello.
E fra l'altre cose gli fé fare sopra gl'archi che imboccano la loggia nuova, la quale volta verso i prati, due armi del detto Papa di marmo, tanto ben lavorate e traforate nella mitra o vero regno, nelle chiavi et in certi festoni e mascherine, ch'elle sono maravigliose.
Tornato poi ad Orvieto per finire l'opera della cappella, vi lavorò continuamente tutto il tempo che visse papa Paulo, conducendola di sorte, ch'ella riuscì, come si vede, non meno eccellente che la prima e forse molto più.
Perciò che portava il Mosca, come s'è detto, tanto amore all'arte e tanto si compiaceva nel lavorare, che non si faticava mai di fare, cercando quasi l'impossibile, e ciò per disiderio di gloria che d'accumulare oro, contentandosi più di bene operare nella sua professione che d'acquistare roba.
Finalmente, essendo l'anno 1550 creato papa Giulio Terzo, pensandosi che dovesse metter mano da dovero alla fabrica di San Piero, se ne venne il Mosca a Roma e tentò con i deputati della fabrica di S.
Piero di pigliare in somma alcuni capitelli di marmo, più per accomodare Giandomenico suo genero che per altro.
Avendo dunque Giorgio Vasari, che portò sempre amore al Mosca, trovatolo in Roma dove anch'egli era stato chiamato al servizio del Papa, pensò ad ogni modo d'avergli a dare da lavorare, perciò che avendo il cardinal vecchio di Monte, quando morì, lasciato agl'eredi che se gli dovesse fare in San Piero a Montorio una sepoltura di marmo, et avendo il detto papa Giulio suo erede e nipote ordinato che si facesse e datone cura al Vasari, egli voleva che in detta sepoltura facesse il Mosca qualche cosa d'intaglio straordinaria.
Ma avendo Giorgio fatti alcuni modelli per detta sepoltura, il Papa conferì il tutto con Michelagnolo Buonarruoti prima che volessi risolversi; onde, avendo detto Michelagnolo a Sua Santità che non s'impacciasse con intagli perché, se bene aricchiscono l'opere, confondono le figure, là dove il lavoro di quadro, quando è fatto bene, è molto più bello che l'intaglio e meglio accompagna le statue, perciò che le figure non amano altri intagli attorno, così ordinò Sua Santità che si facesse.
Per che il Vasari non potendo dare che fare al Mosca in quell'opera, fu licenziato e si finì senza intagli la sepoltura che tornò molto meglio che con essi non arebbe fatto.
Tornato dunque Simone a Orvieto, fu dato ordine col suo disegno di fare nella crocera a sommo della chiesa due tabernacoli grandi di marmo, e certo con bella grazia e proporzione; in uno de' quali fece in una nicchia Raffaello Monte Lupo un Cristo ignudo di marmo con la croce in ispalla e nell'altro fece il Moschino un S.
Bastiano similmente ignudo.
Seguitandosi poi da far per la chiesa gl'Apostoli, il Moschino fece della medesima grandezza S.
Piero e S.
Paulo, che furono tenute ragionevoli statue.
Intanto non si lasciando l'opera della detta cappella della Visitazione, fu condotta tanto inanzi vivendo il Mosca, che non mancava a farvi se non due uccelli, et anco questi non sarebbono mancati, ma Messer Bastiano Gualtieri, vescovo di Viterbo, come s'è detto, tenne occupato Simone in un ornamento di marmo di quattro pezzi, il quale finito mandò in Francia al cardinale di Loreno che l'ebbe carissimo, essendo bello a maraviglia e tutto pieno di fogliami e lavorato con tanta diligenza, che si crede questa essere stata delle migliori che mai facesse Simone; il quale non molto dopo che ebbe fatto questo si morì, l'anno 1554, d'anni 58, con danno non piccolo di quella chiesa d'Orvieto, nella quale fu onorevolmente sotterrato.
Dopo, essendo Francesco Moschino dagl'Operai di quel medesimo Duomo eletto in luogo del padre, non se ne curando, lo lasciò a Raffaello Monte Lupo e, andato a Roma, finì a Messer Ruberto Strozzi due molto graziose figure di marmo, cioè il Marte e la Venere che sono nel cortile della sua casa in Banchi.
Dopo, fatta una storia di figurine piccole, quasi di tondo rilievo, nella quale è Diana che con le sue ninfe si bagna e converte Atteon in cervio, il quale è mangiato da' suoi proprii cani, se ne venne a Firenze e la diede al signor duca Cosimo, il quale molto disiderava di servire, onde sua eccellenza avendo accettata e molto commendata l'opera, non mancò al disiderio del Moschino, come non ha mai mancato a chi ha voluto in alcuna cosa virtuosamente operare.
Per che, messolo nell'Opera del Duomo di Pisa, ha insino a ora con sua molta lode fatto nella cappella della Nunziata, stata fatta da Stagio da Pietrasanta, con gl'intagli et ogni altra cosa l'Angelo e la Madonna in figure di quattro braccia; nel mezzo Adamo ed Eva che hanno in mezzo il pomo et un Dio Padre grande con certi putti nella volta della detta cappella tutta di marmo, come sono anco le due statue che al Moschino hanno acquistato assai nome et onore.
E perché la detta cappella è poco meno che finita, ha dato ordine sua eccellenza che si metta mano alla cappella [che] è dirimpetto a questa, detta dell'Incoronata, cioè subito all'entrare di chiesa a man manca.
Il medesimo Moschino, nell'apparato della serenissima reina Giovanna e dell'illustrissimo prencipe di Firenze, si è portato molto bene in quell'opere che gli furono date a fare.
IL FINE DELLA VITA DI SIMONE DETTO IL MOSCA DA SETTIGNANO
VITA DI GIROLAMO E DI BARTOLOMEO GENGA E DI GIOVAMBATTISTA SAN MARINO GENERO DI GIROLAMO PITTORI FIORENTINI
Girolamo Genga, il quale fu da Urbino, essendo da suo padre di dieci anni messo all'Arte della Lana, perché l'essercitava malissimo volentieri, come gli era dato luogo e tempo di nascosto con carboni e con penne da scrivere andava disegnando.
La qual cosa vedendo alcuni amici di suo padre, l'essortarono a levarlo da quell'arte e metterlo alla pittura, onde lo mise in Urbino appresso di certi maestri di poco nome, ma veduta la bella maniera che avea e ch'era per far frutto, come'egli fu di quindici anni lo accomodò con maestro Luca Signorelli da Cortona, in quel tempo nella pittura maestro eccellente, col quale stette molti anni e lo seguitò nella Marca d'Ancona in Cortona et in molti altri luoghi, dove fece opere e particolarmente ad Orvieto, nel Duomo della qual città fece, come s'è detto, una cappella di Nostra Donna con infinito numero di figure, nella quale continuamente lavorò detto Girolamo e fu sempre de' migliori discepoli ch'egli avesse.
Partitosi poi da lui, si mise con Pietro Perugino, pittore molto stimato, col quale stette tre anni circa et attese assai alla prospettiva, che da lui fu tanto ben capita e bene intesa, che si può dire che ne divenisse eccellentissimo, sì come per le sue opere di pittura e di architettura si vede, e fu nel medesimo tempo che con il detto Pietro stava il divino Raffaello da Urbino, che di lui era molto amico.
Partitosi poi da Pietro se n'andò da sé a stare in Fiorenza, dove studiò tempo assai; dopo, andato a Siena vi stette appresso di Pandolfo Petrucci anni e mesi, in casa del quale dipinse molte stanze, che per essere benissimo disegnate e vagamente colorite meritorno essere viste e lodate da tutti i senesi e particolarmente dal detto Pandolfo, dal quale fu sempre benissimo veduto et infinitamente accarezzato.
Morto poi Pandolfo, se ne tornò a Urbino, dove Guidobaldo duca Secondo lo trattenne assai tempo, facendogli dipignere barde da cavallo che si usavano in que' tempi, in compagnia di Timoteo da Urbino pittore di assai buon nome e di molta esperienzia, insieme col quale fece una cappella di S.
Martino nel Vescovado per Messer Giovampiero Arivabene mantovano, allora vescovo d'Urbino, nella quale l'uno e l'altro di loro riuscì di bellissimo ingegno sì come l'opera istessa dimostra, nella qual è ritratto il detto Vescovo che pare vivo.
Fu anco particolarmente trattenuto il Genga da detto Duca, per far scene et apparati di commedie, le quali perché aveva bonissima intelligenza di prospettiva e gran principio di architettura, faceva molto mirabili e belli.
Partitosi poi da Urbino, se n'andò a Roma, dove in strada Giulia, in Santa Caterina da Siena, fece di pittura una Resurrezzione di Cristo, nella quale si fece cognoscere per raro et eccellente maestro, avendola fatta con disegno, bell'attitudine di figure, scorti e ben colorita, sì come quelli che sono della professione che l'hanno veduta ne possono far bonissima testimonianza.
E stando in Roma attese molto a misurare di quelle anticaglie, sì come ne sono scritti appresso de' suoi eredi.
In questo tempo, morto il duca Guido e successo Francesco Maria duca Terzo d'Urbino, fu da lui richiamato da Roma e constretto a ritornare a Urbino in quel tempo che 'l predetto Duca tolse per moglie e menò nel stato Leonora Gonzaga, figliuola del marchese di Mantova, e da sua eccellenza fu adoperato in far archi trionfali, apparati e scene di commedie, che tutto fu da lui tanto ben ordinato e mezzo in opera, che Urbino si poteva assimigliare a una Roma trionfante; onde ne riportò fama et onore grandissimo.
Essendo poi col tempo il Duca cacciato di stato, da l'ultima volta che se ne andò a Mantova, Girolamo lo seguitò sì come prima avea fatto nelli altri esilii, correndo una medesima fortuna e riducendosi con la sua famiglia in Cesena, dove fece in Sant'Agostino all'altare maggiore una tavola a olio, in cima della quale è una Annunziata e poi di sotto un Dio Padre e più a basso una Madonna con un Putto in braccio in mezzo ai quattro Dottori della Chiesa, opera veramente bellissima e da essere stimata.
Fece poi in Forlì a fresco, in San Francesco, una cappella a man dritta, dentrovi l'Assunzione della Madonna con molti Angeli e figure a torno, cioè Profeti et Apostoli, che in questa anco si cognosce in quanto mirabile ingegno fusse, perché l'opera fu giudicata bellissima.
Fecevi anco la storia dello Spirito Santo per Messer Francesco Lombardi, medico, che fu l'anno 1512 ed egli la finì, et altre opere per la Romagna, delle quali ne riportò onore e premio.
Essendo poi ritornato il Duca nello stato, se ne tornò anco Girolamo e da esso fu trattenuto ed adoperato per architetto e nel restaurare un palazzo vecchio e farli giunta d'altra torre nel monte dell'Imperiale sopra Pesaro.
Il qual palazzo per ordine e disegno del Genga fu ornato di pittura d'istorie e fatti del Duca, da Francesco da Forlì, da Raffael dal Borgo, pittori di buona fama, e da Cammillo Mantovano, in far paesi e verdure rarissimo, e fra li altri vi lavorò anco Bronzino fiorentino giovinetto, come si è detto nella vita del Puntormo.
Essendovi anco condotti i Dossi ferraresi, fu allogata loro una stanza a dipignere; ma perché finita che l'ebbero non piacque al Duca, fu gittata a terra e fatta rifare dalli sopra nominati.
Fecevi poi la torre alta 120 piedi con 13 scale di legno da salirvi sopra, accomodate tanto bene e nascoste nelle mura che si ritirano di solaro in solaro agevolmente, il che rende quella torre fortissima e maravigliosa.
Venendo poi voglia al Duca di voler fortificare Pesaro et avendo fatto chiamare Pierfrancesco da Viterbo, architetto molto eccellente, nelle dispute che si facevano sopra la fortificazione, sempre Girolamo v'intervenne et il suo discorso e parere fu tenuto buono e pieno di giudizio.
Onde, se m'è lecito così dire, il disegno di quella fortezza fu più di Girolamo che d'alcun altro, se bene questa sorte di architettura da lui fu sempre stimata poco, parendoli di poco pregio e dignità.
Vedendo dunque il Duca di aver un così raro ingegno, deliberò di fare al detto luogo dell'Imperiale vicino al palazzo vecchio un altro palazzo nuovo, e così fece quello che oggi vi si vede, che per esser fabrica bellissima e bene intesa, piena di camere, di colonnati e di cortili, di logge, di fontane e di amenissimi giardini, da quella banda non passano prencipi che non la vadino a vedere; onde meritò che papa Paulo Terzo, andando a Bologna con tutta la sua corte, l'andasse a vedere e ne restasse pienamente sodisfatto.
Col disegno del medesimo il Duca fece restaurare la corte di Pesaro et il Barchetto facendovi dentro una casa che, rappresentando una ruina, è cosa molto bella a vedere; e fra le altre cose vi è una scala, simile a quella di Belvedere di Roma, che è bellissima.
Mediante [lui] fece restaurare la rocca di Gradara e la corte di Castel Durante in modo che tutto quello che vi è di buono venne da questo mirabile ingegno.
Fece similmente il corridore della corte d'Urbino, sopra il giardino, et un altro cortile ricinse da una banda con pietre traforate con molta diligenza.
Fu anco cominciato col disegno di costui il convento de' Zoccolanti a Monte Baroccio e Santa Maria delle Grazie a Senigaglia, che poi restarono imperfette per la morte del Duca.
Fu ne' medesimi tempi con suo onore ordine e disegno cominciato il Vescovado di Sinigaglia, che se ne vede anco il modello fatto da lui.
Fece anco alcune opere di scultura e figure tonde di terra e di cera, che sono in casa de' nipoti in Urbino, assai bene.
All'Imperiale fece alcuni Angeli di terra, i quali fece poi gettar di gesso e mettergli sopra le porte delle stanze lavorate di stucco nel palazzo nuovo, che sono molto belli.
Fece al vescovo di Sinigaglia alcune bizzarrie di vasi di cera da bere per farli poi d'argento, e con più diligenzia ne fece al Duca per la sua credenza alcuni altri bellissimi.
Fu bellissimo inventore di mascherate e d'abiti, come si vidde al tempo del detto Duca, dal quale meritò per le sue rare virtù e buone qualità essere assai remunerato.
Essendo poi successo il duca Guidobaldo suo figliuolo, che regge oggi, fece principiare dal detto Genga la chiesa di San Giovambattista in Pesaro, che essendo stata condotta secondo quel modello da Bartolomeo suo figliuolo, è di bellissima architettura in tutte le parti, per avere assai immitato l'antico e fattala in modo ch'ell'è il più bel tempio che sia in quelle parti, sì come l'opera stessa apertamente dimostra, potendo stare al pari di quelle di Roma più lodate.
Fu similmente per suo disegno et opera fatto da Bartolomeo Ammannati fiorentino scultore, allora molto giovane, la sepoltura del duca Francesco Maria in Santa Chiara d'Urbino, che per cosa semplice e di poca spesa riuscì molto bella.
Medesimamente fu condotto da lui Battista Franco, pittore veniziano, a dipignere la cappella grande del Duomo d'Urbino, quando per suo disegno si fece l'ornamento dell'organo del detto Duomo che ancor non è finito.
E poco dappoi, avendo scritto il cardinale di Mantova al Duca che gli dovesse mandare Girolamo perché voleva rassettare il suo Vescovado di quella città, egli vi andò e rassettollo molto bene di lumi e di quanto disiderava quel signore; il quale oltre ciò, volendo fare una facciata bella al detto Duomo, gliene fece fare un modello che da lui fu condotto di tal maniera, che si può dire che avanzasse tutte l'architetture del suo tempo; perciò che si vede in quello grandezza, proporzione, grazia e composizione bellissima.
Essendo poi ritornato da Mantova già vecchio, se n'andò a stare a una sua villa nel territorio d'Urbino, detta la Valle, per riposarsi e godersi le sue fatiche; nel qual luogo, per non stare in ozio fece di matita una conversione di San Paolo con figure e cavalli assai ben grandi e con bellissime attitudini, la quale da lui con tanta pazienza e diligenza fu condotta, che non si può dire né vedere la maggiore, sì come appresso delli suoi eredi si vede, da' quali è tenuta per cosa preziosa e carissima.
Nel qual luogo stando con l'animo riposato, oppresso da una terribile febbre, ricevuti ch'egli ebbe tutti i sacramenti della chiesa, con infinito dolore di sua moglie e de' suoi figliuoli finì il corso di sua vita nel 1551, agli 11 di luglio, di età d'anni 75 incirca, dal qual luogo essendo portato a Urbino fu sepolto onoratamente nel Vescovado innanzi alla cappella di San Martino già stata dipinta da lui, con incredibile dispiacere de' suoi parenti e di tutti i cittadini.
Fu Girolamo uomo sempre da bene, in tanto che mai di lui non si sentì cosa mal fatta; fu non solo pittore, scultore et architettore, ma ancora buon musico.
Fu bellissimo ragionatore et ebbe ottimo trattenimento; fu pieno di cortesia e di amorevolezza verso i parenti et amici, e quello di che merita non piccola lode, egli diede principio alla casa dei Genghi in Urbino con onore, nome e facultà.
Lasciò due figliuoli, uno de' quali seguitò le sue vestigia et attese alla architettura nella quale, se da la morte non fusse stato impedito, veniva eccellentissimo, sì come dimostravano li suoi principii, e l'altro, che attese alla cura famigliare, ancor oggi vive.
Fu, come s'è detto, suo discepolo Francesco Menzochi da Furlì, il quale prima cominciò, essendo fanciulletto, a disegnare da sé, immitando e ritraendo in Furlì nel Duomo una tavola di mano di Marco Parmigiano da Forlì, che vi fé dentro una Nostra Donna, San Ieronimo et altri Santi, tenuta allora, delle pitture moderne, la migliore, e parimente andava immitando l'opere di Rondinino da Ravenna, pittore più eccellente di Marco, il quale aveva poco innanzi messo allo altar maggiore il detto Duomo una bellissima tavola, dipintovi dentro Cristo che comunica gli Apostoli et in un mezzo tondo sopra un Cristo morto, e nella predella di detta tavola storie di figure piccole de' fatti di Santa Elena, molto graziose, le quali lo ridussono in maniera, che venuto come abbiàn detto Girolamo Genga a dipignere la cappella di S.
Francesco di Furlì per Messer Bartolomeo Lombardino, andò Francesco allora a star col Genga e da quella comodità d'imparare; e non restò di servirlo mentre che visse; dove, et a Urbino et a Pesero nell'opera dell'Imperiale, lavorò come s'è detto continuamente, stimato et amato dal Genga, perché si portava benissimo come ne fa fede molte tavole di sua mano in Furlì, sparse per quella città e particolarmente tre, che ne sono in San Francesco, oltre che in palazzo nella sala v'è alcune storie a fresco di suo.
Dipinse per la Romagna molte opere; lavorò ancora in Vinezia per il reverendissimo patriarca Grimani quattro quadri grandi a olio posti in un palco d'un salotto in casa sua, attorno a uno ottangolo che fece Francesco Salviati, ne' quali sono le storie di Psiche tenuti molto belli.
Ma dove egli si sforzò di fare ogni diligenza e poter suo, fu nella chiesa di Loreto, alla cappella del Santissimo Sagramento, nella quale fece intorno a un tabernacolo di marmo, dove sta il corpo di Cristo, alcuni Angeli e nelle facciate di detta cappella dua storie, una di Melchisedec, l'altra quando piove la manna, lavorate a fresco, e nella volta spartì con varii ornamenti di stucco quindici storiette della Passione di Gesù Cristo, che ne fé di pittura nove, e sei ne fece di mezzo rilievo, cosa ricca e bene intesa, e ne riportò tale onore, che non si partì altrimenti che nel medesimo luogo fece una altra cappella della medesima grandezza di rincontro a quella intitolata nella Concezione, con la volta tutta di bellissimi stucchi, con ricco lavoro, nella quale insegnò a Pietro Paulo suo figliuolo a lavorargli, che gli ha poi fatto onore e di quel mestiero è diventato pratichissimo.
Francesco adunque nella facciate fece a fresco la natività e la presentazione di Nostra Donna, e sopra lo altare fece Santa Anna e la Vergine con Figliuolo in collo e dua Angeli che l'ancoronano, e nel vero l'opere sue sono lodate dagl'artefici e parimente i costumi e la vita sua; molto cristianamente è vissuto con quiete, godutosi quel ch'egli ha provisto con le sue fatiche.
Fu ancora creato del Genga Baldassarri Lancia da Urbino, il quale avendo egli atteso a molte cose d'ingegno, s'è poi essercitato nelle fortificazioni, dove e per la Signoria di Lucca provisionato da loro, nel qual luogo sté alcun tempo, e poi è coll'illustrissimo duca Cosimo de' Medici venuto a servirlo nelle sue fortificazioni dello stato di Fiorenza e di Siena, e l'ha adoperato et adopera a molte cose ingegnose, et affaticatosi onoratamente e virtuosamente Baldassarri, dove n'ha riportato grate remunerazioni da quel signore.
Molti altri servirono Girolamo Genga, de' quali per non essere venuti in molta grande eccellenza, non iscade ragionarne.
Di Girolamo sopra detto essendo nato in Cesana l'anno 1518 Bartolomeo mentre che il padre seguitava nell'esilio il Duca suo signore, fu da lui molto costumatamente allevato e posto poi, essendo già fatto grandicello, ad apprendere gramatica, nella quale fece più che mediocre profitto.
Dopo, essendo all'età di 18 anni pervenuto, vedendolo il padre più inclinato al disegno che alle lettere, lo fece attendere al disegno appresso di sé circa due anni, i quali finiti lo mandò a studiare il disegno e la pittura a Fiorenza, là dove sapeva che è il vero studio di quest'arte per l'infinite opere che vi sono di maestri eccellenti così antichi come moderni.
Nel qual luogo dimorando Bartolomeo et attendendo al disegno et all'architettura fece amicizia con Giorgio Vasari pittore et architetto aretino e con Bartolomeo Amannati scultore, da' quali imparò molte cose appartenenti all'arte.
Finalmente, essendo stato tre anni in Fiorenza, tornò al padre che allora attendeva in Pesaro alla fabrica di S.
Giovanni Battista, là dove il padre, veduti i disegni di Bartolomeo, gli parve che si portasse molto meglio nell'architettura che nella pittura, [e] che vi avesse molto buona inclinazione; per che, trattenendolo appresso di sé alcuni mesi, gl'insegnò i modi della prospettiva, e dopo lo mandò a Roma, acciò che là vedesse le mirabili fabriche che vi sono antiche e moderne, delle quali tutte in quattro anni che vi stette, prese le misure e vi fece grandissimo frutto.
Nel tornarsene poi a Urbino, passando per Firenze per vedere Francesco San Marino suo cognato, il quale stava per ingegnero col signor duca Cosimo, il signor Stefano Colonna da Palestina, allora generale di quel signore, cercò, avendo inteso il suo valore, di tenerlo appresso di sé con buona provisione, ma egli, che era molto ubligato al duca d'Urbino, non volle mettersi con altri.
Ma tornato a Urbino, fu da quel Duca ricevuto al suo servizio e poi sempre avuto molto caro, né molto dopo, avendo quel Duca presa per donna la signora Vettoria Farnese, Bartolomeo ebbe carico dal Duca di fare gl'apparati di quelle nozze, i quali egli fece veramente magnifici et onorati.
E fra l'altre cose fece un arco trionfale nel borgo di Valbuona tanto bello e ben fatto, che non si può vedere né il più bello, né il maggiore, onde fu conosciuto quanto nelle cose d'architettura avesse acquistato in Roma.
Dovendo poi il Duca, come generale della Signoria di Vinezia, andare in Lombardia a rivedere le fortezze di quel dominio, menò seco Bartolomeo, del quale si servì molto in fare siti e disegni di fortezze e particolarmente in Verona, alla porta S.
Felice.
Ora, mentre che era in Lombardia, passando per quella provincia il re di Boemia che tornava di Spagna al suo regno, et essendo dal Duca onorevolmente ricevuto in Verona, vide quelle fortezze, e perché gli piacquero, avuta cognizione di Bartolomeo lo volle condurre al suo regno per servirsene con buona provisione in fortificare le sue terre, ma non volendogli dare il Duca licenza, la cosa non ebbe altrimenti effetto.
Tornati poi a Urbino, non passò molto che Girolamo, suo padre, venne a morte; onde Bartolomeo fu dal Duca messo in luogo del padre sopra tutte le fabriche dello stato e mandato a Pesero, dove seguitò la fabrica di S.
Giovanni Battista col modello di Girolamo.
Et in quel mentre fece nella corte di Pesero un apartamento di stanze sopra la strada de' Mercanti, dove ora abita il Duca, molto bello, con bellissimi ornamenti di porte, di scale e di camini, delle qual cose fu eccellente architetto; il che avendo veduto il Duca volle che anco nella corte d'Urbino facesse un altro appartamento di camere, quasi tutto nella facciata che è volta verso San Domenico, il quale finito riuscì il più bello alloggiamento di quella corte, o vero palazzo, et il più ornato che vi sia.
Non molto dopo, avendolo chiesto i signori bolognesi per alcuni giorni al Duca, sua eccellenza lo concedette loro molto volentieri, et egli andato, gli servì in quello volevano di maniera che restarono sodisfattissimi et a lui fecero infinite cortesie.
Avendo poi fatto al Duca, che disiderava di fare un porto di mare a Pesero, un modello bellissimo, fu portato a Vinezia in casa il conte Giovan Iacomo Leonardi, allora ambasciadore in quel luogo del Duca, acciò fusse veduto da molti della professione, che si riducevano spesso con altri begl'ingegni a disputare e far discorsi sopra diverse cose in casa il detto conte, che fu veramente uomo rarissimo.
Quivi dunque essendo veduto il detto modello et uditi i bei discorsi del Genga, fu da tutti senza contrasto tenuto il modello artifizioso e bello et il maestro che l'aveva fatto di rarissimo ingegno.
Ma tornato a Pesero non fu messo il modello altrimenti in opera perché nuove occasioni di molta importanza levarono quel pensiero al Duca.
Fece in quel tempo il Genga il disegno della chiesa di Monte l'Abbate e quello della chiesa di S.
Piero in Mondavio, che fu condotta a fine da don Pier Antonio Genga in modo che per cosa piccola non credo si possa veder meglio.
Fatte queste cose, non passò molto che essendo creato papa Giulio Terzo e da lui fatto il duca d'Urbino capitan generale di Santa Chiesa, andò sua eccellenza a Roma e con essa il Genga, dove volendo Sua Santità fortificar borgo, fece il Genga a richiesta del Duca alcuni disegni bellissimi che con altri assai sono appresso di sua eccellenza in Urbino.
Per le quali cose divolgandosi la fama di Bartolomeo, i genovesi, mentre che egli dimorava col Duca in Roma, glielo chiesero per servirsene in alcune loro fortificazioni, ma il Duca non lo volle mai concedere loro, né allora, né altra volta che di nuovo ne lo ricercarono, essendo tornato a Urbino.
All'ultimo, essendo vicino il termine di sua vita, furono mandati a Pesero dal gran mastro di Rodi due cavalieri della loro Religione ierosolimitana a pregare sua eccellenza che volesse concedere loro Bartolomeo, acciò lo potessero condurre nell'isola di Malta, nella quale volevano fare non pure fortificazioni grandissime, per potere difendersi da' Turchi, ma anche due città, per ridurre molti villaggi che vi erano in uno o due luoghi; onde il Duca, il quale non avevano in due mesi potuto piegare i detti cavalieri a voler compiacere loro del detto Bartolomeo, ancor che si fussero serviti del mezzo della Duchessa e d'altri, ne gli compiacque finalmente per alcun tempo determinato a preghiera d'un buon padre capuccino, al quale sua eccellenza portava grandissima affezzione e non negava cosa che volesse; e l'arte che usò quel sant'uomo, il quale di ciò fece coscienza al Duca, essendo quello interesse della repubblica cristiana, non fu se non da molto lodare e comendare.
Bartolomeo adunque, il quale non ebbe mai di questa la maggior grazia, si partì con in detti cavalieri di Pesero a dì 20 di genaio 1558, ma trattenendosi in Sicilia, dalla fortuna del mar impediti, non giunsero a Malta se non a undici di marzo, dove furono lietamente raccolti dal gran mastro.
Essendogli poi mostrato quello che egli avesse da fare, si portò tanto bene in quelle fortificazioni, che più non si può dire, in tanto che al gran mastro e tutto que' signori cavalieri pareva d'avere avuto un altro Archimede, e ne fecero fede con fargli presenti onoratissimi e tenerlo, come raro, in somma venerazione.
Avendo poi fatto il modello d'una città, d'alcune chiese e del palazzo e residenza di detto gran mastro, con bellissime invenzioni et ordine, si amalò dell'ultimo male, perciò che, essendosi messo un giorno del mese di luglio, per essere in quell'isola grandissimi caldi, a pigliar fresco fra due porte, non vi stette molto che fu assalito da insoportabili dolori di corpo e da un flusso crudele che in diciassette giorni l'uccisero con grandissimo dispiacere del gran mastro e di tutti quegl'onoratissimi e valorosi cavalieri ai quali pareva aver trovato un uomo secondo il loro cuore, quando gli fu dalla morte rapito.
Della quale trista novella essendo avvisato il signor duca d'Urbino, n'ebbe incredibile dispiacere e pianse la morte del povero Genga; e poi risoltosi a dimostrare l'amore che gli portava a' cinque figliuoli che di lui erano rimasi, ne prese particolare et amorevole protezzione.
Fu Bartolomeo bellissimo inventore di mascherate e rarissimo in fare apparati di commedie e scene; dilettossi di fare sonetti et altri componimenti di rime e di prose, ma niuno meglio gli riusciva che l'ottava rima, nella qual maniera di scrivere fu assai lodato componitore.
Morì d'anni quaranta, nel 1558.
Essendo stato Giovambatista Bellucci da San Marino genero di Girolamo Genga, ho giudicato che sia ben fatto non tacere quello che io debbo di lui dire, dopo le vite di Girolamo e Bartolomeo Genghi, e massimamente per mostrare che [ai] belli ingegni (solo che vogliano) riesce ogni cosa, ancora che tardi si mettono ad imprese difficili et onorate, imperò che si è veduto avere lo studio, aggiunto all'inclinazioni di natura, aver molte volte cose maravigliose adoperato.
Nacque adunque Giovambatista in San Marino a dì 27 di settembre 1506 di Bartolomeo Bellucci, persona in quella terra assai nobile, et imparato che ebbe le prime lettere d'umanità, essendo d'anni diciotto, fu dal detto Bartolomeo suo padre mandato a Bologna ad attendere alle cose della mercatura appresso Bastiano di Ronco, mercante d'arte di lana, dove, essendo stato circa due anni, se ne tornò a San Marino amalato d'una quartana che gli durò due anni.
Dalla quale finalmente guarito, ricominciò da sé un'arte di lana, la quale andò continuando infino all'anno 1535.
Nel qual tempo vedendo il padre Giovambatista bene avviato, gli diede moglie in Cagli una figliuola di Guido Peruzzi, persona assai onorata in quella città; ma essendosi ella non molto dopo morta, Giovambatista andò a Roma a trovare Domenico Peruzzi suo cognato, il quale era cavalerizzo del signor Ascanio Colonna.
Col qual mezzo, essendo stato Giovambatista appresso quel signore due anni come gentiluomo, se ne tornò a casa; onde avvenne che, praticando a Pesero Girolamo Genga, conosciutolo virtuoso e costumato giovane, gli diede una figliuola per moglie e se lo tirò in casa.
Laonde, essendo Giovambatista molto inclinato all'architettura et attendendo con molta diligenza a quell'opere che di essa faceva il suo suocero, cominciò a possedere molto bene le maniere del fabricare et a studiare Vetruvio, onde a poco a poco, fra quello che acquistato da se stesso e che gl'insegnò il Genga, si fece buono architettore e massimamente nelle cose delle fortificazioni et altre cose appartenenti alla guerra.
Essendogli poi morta la moglie l'anno 1541 e lasciatogli due figliuoli, si stette insino al 1543 senza pigliare di sé altro partito, nel qual tempo capitando del mese di settembre a San Marino un signor Gustamante spagnuolo, mandato dalla maestà cesarea a quella repubblica per alcuni negozii, fu Giovambatista da colui conosciuto per eccellente architetto, onde per mezzo del medesimo venne non molto dopo al servizio dell'illustrissimo signor duca Cosimo per ingegneri, e così giunto a Fiorenza se ne servì sua eccellenza in tutte le fortificazioni del suo dominio, secondo i bisogni che giornalmente accadevano.
E fra l'altre cose, essendo stata molti anni innanzi cominciata la fortezza della città di Pistoia, il San Marino, come volle il Duca, la finì del tutto con molta sua lode, ancor che non sia cosa molto grande.
Si murò poi, con ordine del medesimo, un molto forte baluardo a Pisa.
Per che, piacendo il modo del fare di costui al Duca, gli fece fare, dove si era murato come s'è detto al poggio di San Miniato, fuor di Fiorenza, il muro che gira dalla porta San Niccolò alla porta San Miniato, la Forbiciaia che mette con due baluardi una porta in mezzo e serra la chiesa e monasterio di San Miniato, facendo nella sommità di quel monte una fortezza che domina tutta la città e guarda il difuori di verso levante e mezzogiorno; la quale opera fu lodata infinitamente.
Fece il medesimo molti disegni e piante per luoghi dello stato di sua eccellenza per diverse fortificazioni, e così diverse bozze di terra e modelli che sono appresso il signor Duca.
E perciò che era il San Marino di bello ingegno e molto studioso, scrisse un'operetta del modo di fortificare, la quale opera, che è bella et utile, è oggi appresso Messer Bernardo Puccini gentiluomo fiorentino, il quale imparò molte cose d'intorno alle cose d'architettura e fortificazione da esso San Marino suo amicissimo.
Avendo poi Giovambatista l'anno 1554 disegnato molti baluardi da farsi intorno alle mura della città di Fiorenza, alcuni de' quali furono cominciati di terra, andò con l'illustrissimo signor don Grazia di Tolledo a Mont'Alcino dove, fatte alcune trincee, entrò sotto un baluardo e lo ruppe di sorte che gli levò il parapetto, ma nell'andare quello a terra toccò il San Marino un'archibusata in una coscia.
Non molto dopo, essendo guarito, andato segretamente a Siena, levò la pianta di quella città e della fortificazione di terra che i sanesi avevano fatto a porta Camolia, la qual pianta di fortificazione mostrando egli poi al signor Duca et al marchese di Marignano, fece loro toccar con mano che ella non era difficile a pigliarsi né a serrarla poi dalla banda di verso Siena; il che esser vero dimostrò il fatto la notte ch'ella fu presa dal detto Marchese, col quale era andato Giovambatista, d'ordine e commessione del Duca.
Perciò dunque, avendogli posto amore il Marchese e conoscendo aver bisogno del suo giudizio e virtù in campo, cioè nella guerra di Siena, operò di maniera col Duca, che sua eccellenza lo spedì capitano d'una grossa compagnia di fanti, onde servì da indi in poi in campo come soldato di valore et ingegnoso architetto.
Finalmente essendo mandato dal Marchese all'Aiuola, fortezza nel Chianti, nel piantare l'artiglieria fu ferito d'una archibusata nella testa.
Per che, essendo portato dai soldati alla pieve di San Polo del vescovo da Ricasoli, in pochi giorni si morì e fu portato a San Marino, dove ebbe dai figliuoli onorata sepoltura.
Merita Giovambatista di essere molto lodato, perciò che oltre all'essere stato eccellente nella sua professione, è cosa maravigliosa che, essendosi messo a dare opera a quella tardi, cioè d'anni trentacinque, egli vi facessi il profitto che fece, e si può credere, se avesse cominciato più giovane, che sarebbe stato rarissimo.
Fu Giovambatista alquanto di sua testa, onde era dura impresa voler levarlo di sua openione; si dilettò fuor di modo di leggere storie e ne faceva grandissimo capitale, scrivendo con sua molta fatica le cose di quelle più notabili.
Dolse molto la sua morte al Duca et ad infiniti amici suoi, onde venendo a baciar le mani a sua eccellenza Giannandrea suo figliuolo, fu da lei benignamente raccolto e veduto molto volentieri, e con grandissime offerte per la virtù e fedeltà del padre, il quale morì d'anni quarantotto.
VITA DI MICHELE SAN MICHELE ARCHITETTORE VERONESE
Essendo Michele San Michele nato l'anno 1484 in Verona et avendo imparato i primi principii dell'architettura da Giovanni suo padre e da Bartolomeo suo zio, ambi architettori eccellenti, se n'andò di sedici anni a Roma, lasciando il padre e due suoi fratelli di bell'ingegno, l'uno de' quali, che fu chiamato Iacomo, attese alle lettere e l'altro, detto don Camillo, fu canonico regolare e generale di quell'Ordine; e giunto quivi studiò di maniera le cose d'architettura antiche e con tanta diligenza, misurando e considerando minutamente ogni cosa, che in poco tempo divenne, non pure in Roma, ma per tutti i luoghi che sono all'intorno, nominato e famoso.
Dalla quale fama mossi, lo condussero gl'orvietani con onorati stipendi per architettore di quel loro tanto nominato tempio.
In servigio de' quali mentre si adoperava, fu per la medesima cagione condotto a Monte Fiascone, cioè per la fabrica del loro tempio principale, e così servendo all'uno e l'altro di questi luoghi, fece quanto si vede in quelle due città di buona architettura.
Et noltre all'altre cose in San Domenico di Orvieto fu fatta con suo disegno una bellissima sepoltura, credo per uno de' Petrucci nobile sanese, la quale costò grossa somma di danari e riuscì maravigliosa.
Fece oltre ciò ne' detti luoghi infinito numero di disegni per case private e si fece conoscere per di molto giudizio et eccellente, onde papa Clemente pontefice Settimo, disegnando servirsi di lui nelle cose importantissime di guerra che allora bollivano per tutta Italia, lo diede con bonissima provisione per compagno ad Antonio San Gallo, acciò insieme andassero a vedere tutti i luoghi di più importanza dello stato ecclesiastico e dove fusse bisogno dessero ordine di fortificare, ma sopra tutte Parma e Piacenza, per essere quelle due città più lontane da Roma e più vicine et esposte ai pericoli delle guerre.
La qual cosa avendo essequito Michele et Antonio con molta sodisfazione del Pontefice, venne disiderio a Michele dopo tanti anni di rivedere la patria et i parenti e gl'amici, ma molto più le fortezze de' viniziani.
Poi dunque che fu stato alcuni giorni in Verona, andando a Trevisi per vedere quella fortezza e di lì a Padova pel medesimo conto, furono di ciò avvertiti i signori viniziani e messi in sospetto non forse il San Michele andasse a loro danno rivedendo quelle fortezze.
Per che, essendo di loro commessione stato preso in Padova e messo in carcere, fu lungamente essaminato, ma trovandosi lui essere uomo da bene, fu da loro non pure liberato, ma pregato che volesse con onorata provisione e grado andare al servigio di detti signori viniziani.
Ma scusandosi egli di non potere per allora ciò fare, per essere ubligato a Sua Santità, diede buone promesse e si partì da loro; ma non istette molto (in guisa, per averlo, adoperarono detti signori) che fu forzato a partirsi da Roma e con buona grazia del Pontefice, al qual prima in tutto sodisfece, andare a servire i detti illustrissimi signori suoi naturali.
Appresso de' quali dimorando, diede assai tosto saggio del giudizio e saper suo nel fare in Verona, dopo molte difficultà che parea che avesse l'opera, un bellissimo e fortissimo bastione, che infinitamente piacque a quei signori et al signor duca d'Urbino loro capitano generale.
Dopo le quali cose avendo i medesimi deliberato di fortificare Lignago e Porto, luoghi importantissimi al loro dominio e posti sopra il fiume dell'Adice, cioè uno da uno e l'altro dall'altro lato, ma congiunti da un ponte, comisero al San Michele che dovesse mostrare loro, mediante un modello, come a lui pareva che si potessero e dovessero detti luoghi fortificare.
Il che essendo da lui stato fatto, piacque infinitamente il suo disegno a que' signori et al duca d'Urbino.
Per che, dato ordine di quanto s'avesse a fare, condusse il San Michele le fortificazioni di que' due luoghi di maniera, che per simil opera non si può veder meglio, né più bella, né più considerata, né più forte, come ben sa chi l'ha veduta.
Ciò fatto, fortificò nel bresciano, quasi da' fondamenti, Orzinuovo, castello e porto simile a Legnago.
Essendo poi con molta instanza chiesto il San Michele dal signor Francesco Sforza ultimo duca di Milano, furono contenti que' signori dargli licenza, ma per tre mesi soli; laonde, andato a Milano, vide tutte le fortezze di quello stato et ordinò in ciascun luogo quanto gli parve che si dovesse fare, e ciò con tanta sua lode e sodisfazione del Duca, che quel signore oltre al ringraziarne i signori viniziani, donò cinquecento scudi al San Michele, il quale con quella occasione, prima che tornasse a Vinezia, andò a Casale di Monferrato per vedere quella bella e fortissima città e castello, stati fatti per opera e con l'architettura di Matteo San Michele, eccellente architetto e suo cugino, et una onorata e bellissima sepoltura di marmo fatta in San Francesco della medesima città pur con ordine di Matteo.
Dopo tornatosene a casa non fu sì tosto giunto che fu mandato col detto signor duca d'Urbino a vedere la Chiusa, fortezza e passo molto importante sopra Verona, e dopo tutti i luoghi del Friuli, Bergamo, Vicenza, Peschera et altri luoghi, de' quali tutti e di quanto gli parve bisognasse, diede ai suoi signori in iscritto minutamente notizia.
Mandato poi dai medesimi in Dalmazia per fortificare le città e luoghi di quella provincia, vide ogni cosa e restaurò con molta diligenza dove vide il bisogno esser maggiore, e perché non potette egli spedirsi del tutto vi lasciò Gian Girolamo suo nipote, il quale avendo ottimamente fortificata Zara, fece dai fondamenti la maravigliosa fortezza di San Niccolò, sopra la bocca del porto di Sebenico.
Michele in tanto, essendo stato con molta fretta mandato a Corfù, ristaurò in molti luoghi quella fortezza et il simigliante fece in tutti i luoghi di Cipri e di Candia, se bene indi a non molto gli fu forza, temendosi di non perdere quell'isola per le guerre turchesche che soprastavano, tornarvi, dopo avere rivedute in Italia le fortezze del dominio vinisiano, a fortificare con incredibile prestezza la Cania, Candia, Retimo e Settia, ma particolarmente la Cania e Candia, la quale riedificò dai fondamenti e fece inespugnabile.
Essendo poi assediata dal turco Napoli di Romania, fra per diligenza del San Michele in fortificarla e bastionarla et il valore d'Agostino Clusoni veronese, capitano valorosissimo, in difenderla con l'arme, non fu altrimenti presa dai nemici, né superata; le quali guerre finite, andato che fu il San Michele col Magnifico Messer Tomaso Monzenigo, capitan generale di mare, a fortificare di nuovo Corfù, tornarono a Sebenico, dove molto fu comendata la diligenza di Giangirolamo, usata nel fare la detta fortezza di San Niccolò.
Ritornato poi il San Michele a Vinezia, dove fu molto lodato per l'opere fatte in levante in servigio di quella republica, deliberarono di fare una fortezza sopra il Lito, cioè alla bocca del porto di Vinezia.
Per che, dandone cura al San Michele, gli dissero che se tanto aveva operato lontano di Vinezia, che egli pensasse quanto era suo debito di fare in cosa di tanta importanza e che in eterno aveva da essere in su gl'occhi del senato e di tanti signori; e che oltre ciò si aspettava da lui, oltre alla bellezza e fortezza dell'opera, singolare industria nel fondare sì veramente in luogo paludoso, fasciato d'ogni intorno dal mare e bersaglio de' flussi e riflussi, una machina di tanta importanza.
Avendo dunque il San Michele non pure fatto un bellissimo e sicurissimo modello, ma anco pensato il modo da porlo in effetto e fondarlo, gli fu commesso che senz'indugio si mettesse mano a lavorare, onde egli, avendo avuto da que' signori tutto quello che bisognava e preparata la materia e ripieno de' fondamenti e fatto oltre ciò molti pali ficcati con doppio ordine, si mise con grandissimo numero di persone perite in quell'acque a fare le cavazioni et a fare che con trombe et altri instrumenti si tenessero cavate l'acque che si vedevano sempre di sotto risorgere per essere il luogo in mare.
Una mattina poi, per fare ogni sforzo di dar principio al fondare, avendo quanti uomini a ciò atti si potettono avere e tutti i facchini di Vinezia e presenti molti de' signori, in un sùbito con prestezza e sollecitudine incredibile si vinsero per un poco l'acque di maniera, che in un tratto si gettarono le prime pietre de' fondamenti sopra le palificcate fatte, le quali pietre essendo grandissime pigliarono gran spazio e fecero ottimo fondamento; e così continuandosi senza perder tempo a tenere l'acque cavate, si fecero quasi in un punto que' fondamenti contra l'openione di molti che avevano quella per opera del tutto impossibile.
I quali fondamenti fatti, poi che furono lasciati riposare abastanza, edificò Michele sopra quelli una terribile fortezza e maravigliosa, murandola tutta di fuori alla rustica con grandissime pietre d'Istria, che sono d'estrema durezza e reggono ai venti, al gielo et a tutti i cattivi tempi, onde la detta fortezza, oltre all'essere maravigliosa rispetto al sito nel quale è edificata, è anco, per bellezza di muraglia e per la incredibile spesa, delle più stupende che oggi siano in Europa e rappresenta la maestà e grandezza delle più famose fabriche fatte dalla grandezza de' romani.
Imperò che oltre all'altre cose, ella pare tutta fatta d'un sasso e che intagliatosi un monte di pietra viva, se gli sia data quella forma, cotanto sono grandi i massi di che è murata e tanto bene uniti e commessi insieme, per non dire nulla degl'altri ornamenti, né dell'altre cose che vi sono, essendo che non mai se ne potrebbe dir tanto che bastasse.
Dentro poi vi fece Michele una piazza con partimenti di pilastri et archi d'ordine rustico, che sarebbe riuscita cosa rarissima se non fusse rimasa imperfetta.
Essendo questa grandissima machina condotta al termine che si è detto, alcuni maligni et invidiosi dissero alla Signoria che ancor che ella fusse bellissima e fatta con tutte le considerazioni, ella sarebbe nondimeno in ogni bisogno inutile e forse anco dannosa; perciò che nello scaricare dell'artiglieria, per la gran quantità e di quella grossezza che il luogo richiedeva, non poteva quasi essere che non s'aprisse tutta e rovinasse.
Onde, parendo alla prudenza di que' signori che fusse ben fatto di ciò chiarirsi, come di cosa che molto importava, fecero condurvi grandissima quantità d'artiglieria e delle più smisurate che fussero nell'arsenale, et empiute tutte le canoniere di sotto e di sopra e caricatole anco più che l'ordinario, furono scaricate tutte in un tempo; onde fu tanto il rumore, il tuono et il terremoto che si sentì, che parve che fusse rovinato il mondo, e la fortezza con tanti fuochi pareva un Mongibello et un inferno, ma non per tanto, rimase la fabrica nella sua medesima sodezza e stabilità, il senato chiarissimo del molto valore del San Michele, et i maligni scornati e senza giudizio, i quali avevano tanta paura messa in ognuno, che le gentildonne gravide, temendo di qualche gran cosa, s'erano allontanate da Vinezia.
Non molto dopo, essendo ritornato sotto il dominio viniziano un luogo detto Marano di non piccola importanza ne' liti vicini a Vinezia, fu rassettato e fortificato con ordine del San Michele con prestezza e diligenza.
E quasi ne' medesimi tempi, divolgandosi tuttavia più la fama di Michele e di Giovan Girolamo suo nipote, furono ricerchi più volte l'uno e l'altro d'andare a stare con l'imperatore Carlo Quinto e con Francesco re di Francia, ma eglino non vollono mai, anco che fussero chiamati con onoratissime condizioni, lasciare i loro proprii signori per andare a servire gli stranieri, anzi, continuando nel loro uffizio, andavano rivedendo ogni anno e rassettando dove bisognava tutte le città e fortezze dello stato viniziano.
Ma più di tutti gl'altri fortificò Michele et adornò la sua patria Verona: facendovi, oltre all'altre cose, quelle bellissime porte della città che non hanno in altro luogo pari: cioè la Porta Nuova, tutta di opera dorica rustica, la quale nella sua sodezza e nell'essere gagliarda e massiccia corrisponde alla fortezza del luogo, essendo tutta murata di tufo e pietra viva, et avendo dentro stanze per i soldati che stanno alla guardia et altri molti commodi, non più stati fatti in simile maniera di fabriche.
Questo edifizio, che è quadro e di sopra scoperto e con le sue canoniere, servendo per cavaliere difende due gran bastioni, o vero torrioni, che con proporzionata distanza tengono nel mezzo la porta; et il tutto è fatto con tanto giudizio, spesa e magnificenza, che niuno pensava potersi fare per l'avenire, come non si era veduto per l'adietro, già mai altr'opera di maggior grandezza né meglio intesa, quando di lì a pochi anni il medesimo San Michele fondò e tirò in alto la porta detta volgarmente dal Palio, la quale non è punto inferiore alla già detta, ma anch'ella parimente o più bella, grande, maravigliosa et intesa ottimamente.
E di vero in queste due porte si vede i signori viniziani, mediante l'ingegno di questo architetto, avere pareggiato gl'edifizii e fabriche degl'antichi romani.
Questa ultima porta adunque è dalla parte di fuori d'ordine dorico, con colonne smisurate che risaltano, striate tutte secondo l'uso di quell'ordine, le quali colonne dico, che sono otto in tutto, sono poste a due a due: quattro tengono la porta in mezzo con l'arme de' rettori della città, fra l'una e l'altra da ogni parte, e l'altre quattro similmente a due a due, fanno finimento negl'angoli della porta, la quale è di facciata larghissima e tutta di bozze, o vero bugne, non rozze ma pulite e con bellissimi ornamenti; et il foro, o vero vano della porta, riman quadro, ma l'architettura nuova, bizzarra e bellissima.
Sopra è un cornicione dorico ricchissimo con sue apartenenze, sopra cui doveva andare, come si vede nel modello, un frontespizio con suoi fornimenti, il quale faceva parapetto all'artiglieria, dovendo questa porta, come l'altra, servire per cavaliero.
Dentro poi sono stanze grandissime per i soldati con altri commodi et appartamenti.
Dalla banda che è volta verso la città, vi fece il San Michele una bellissima loggia, tutta di fuori d'ordine dorico e rustico e di dentro tutta lavorata alla rustica, con pilastri grandissimi, che hanno per ornamento colonne di fuori tonde e dentro quadre e con mezzo risalto, lavorate di pezzi alla rustica e con capitelli dorici senza base, e nella cima un cornicione pur dorico et intagliato che gira tutta la loggia, che è lunghissima, dentro e fuori.
Insomma quest'opera è maravigliosa, onde ben disse il vero l'illustrissimo signor Sforza Pallavicino, governatore generale degl'esserciti viniziani, quando disse non potersi in Europa trovare fabrica alcuna che a questa possa in niun modo aguagliarsi; la quale fu l'ultimo miracolo di Michele, imperò che, avendo a pena fatto tutto questo primo ordine descritto, finì il corso di sua vita.
Onde rimase imperfetta quest'opera, che non si finirà mai altrimenti, non mancando alcuni maligni (come quasi sempre nelle gran cose adiviene) che la biasimano, sforzandosi di sminuire l'altrui lodi con la malignità e maladicenza, poi che non possono con l'ingegno pari cose a gran pezzo operare.
Fece il medesimo un'altra porta in Verona, detta di San Zeno, la quale è bellissima, anzi in ogni altro luogo sarebbe maravigliosa, ma in Verona è la sua bellezza et artifizio dall'altre due sopra dette offuscata.
È similmente opera di Michele il bastione, o vero baluardo, che è vicino a questa porta, e similmente quello che è più a basso riscontro a S.
Bernardino, et un altro mezzo che è riscontro al Campo Marzio, detto dell'Acquaio, e quello che di grandezza avanza tutti gl'altri, il quale è posto alla catena dove l'Adice entra nella città.
Fece in Padova il bastione detto il Cornaro e quello parimente di Santa Croce, i quali amendue sono di maravigliosa grandezza e fabricati alla moderna, secondo l'ordine stato trovato da lui.
Imperò che il modo di fare i bastioni a cantoni fu invenzione di Michele, per ciò che prima si facevano tondi.
E dove quella sorte di bastioni erano molto difficili a guardarsi, oggi, avendo questi dalla parte di fuori un angolo ottuso, possono facilmente esser diffesi, o dal cavaliero edificato vicino fra due bastioni, o vero dall'altro bastione se sarà vicino e la fossa larga.
Fu anco sua invenzione il modo di fare i bastioni con le tre piazze, però che le due dalle bande guardano e difendono la fossa e le cortine con le canoniere aperte et il molone del mezzo si difende et offende il nemico dinanzi.
Il qual modo di fare è poi stato imitato da ognuno e si è lasciata quell'usanza antica delle canoniere sotterranee, chiamate case matte, nelle quali, per il fumo et altri impedimenti, non si potevano maneggiare l'artiglierie, senzaché indebolivano molte volte il fondamento de' torrioni e delle muraglie.
Fece il medesimo due molto belle porte a Legnago, fece lavorare in Peschiera nel primo fondare di quella fortezza e similmente molte cose in Brescia.
E tutto fece sempre con tanta diligenza e con sì buon fondamento, che niuna delle sue fabriche mostrò mai un pelo.
Ultimamente rassettò la fortezza della Chiusa sopra Verona, facendo commodo ai passeggeri di passare senza entrare per la fortezza, ma in tal modo però che levandosi un ponte da coloro che sono di dentro, non può passare contra lor voglia nessuno, né anco appresentarsi alla strada che è strettissima e tagliata nel sasso.
Fece parimente in Verona, quando prima tornò da Roma, il bellissimo ponte sopra l'Adice, detto il Ponte nuovo, che gli fu fatto fare da Messer Giovanni Emo allora podestà di quella città, che fu ed è cosa maravigliosa per la sua gagliardezza.
Fu eccellente Michele non pure nelle fortificazioni, ma ancora nelle fabriche private, ne' tempii, chiese e monasterii, come si può vedere in Verona et altrove in molte fabriche, particolarmente nella bellissima et ornatissima cappella de' Guareschi in San Bernardino, fatta tonda a uso di tempio e d'ordine corinzio, con tutti quegli ornamenti di che è capace quella maniera.
La quale cappella, dico, fece tutta di quella pietra viva e bianca che per lo suono che rende quando si lavora è in quella città chiamata bronzo, e nel vero questa è la più bella sorte di pietra che dopo il marmo fino sia stata trovata insino a' tempi nostri, essendo tutta soda e senza buchi o macchie che la guastino.
Per essere adunque di dentro la detta cappella di questa bellissima pietra e lavorata da eccellenti maestri d'intaglio e benissimo commessa, si tiene che per opera simile non sia oggi altra più bella in Italia, avendo fatto Michele girare tutta l'opera tonda in tal modo, che tre altari che vi sono dentro con i loro frontespizii e cornici, e similmente il vano della porta, tutti girano a tondo perfetto, quasi a somiglianza degl'usci che Filippo Brunelleschi fece nelle cappelle del tempio degl'Angeli in Firenze, il che è cosa molto difficile a fare.
Vi fece poi Michele dentro un ballatoio sopra il primo ordine che gira tutta la cappella, dove si veggiono bellissimi intagli di colonne, capitelli, fogliami, grottesche, pilastrelli et altri lavori intagliati con incredibile diligenza.
La porta di questa cappella fece di fuori quadra, corinzia, bellissima e simile ad una antica che egli vide in un luogo, secondo che egli diceva, di Roma.
Ben è vero che essendo quest'opera stata lasciata imperfetta da Michele, non so per qual cagione, ella fu o per avarizia, o per giudizio fatta finire a certi altri che la guastarono, con infinito dispiacere di esso Michele, che vivendo se la vide storpiare in su gl'occhi senza potervi riparare.
Onde alcuna volta si doleva con gl'amici solo per questo, di non avere migliaia di ducati per comperarla dall'avarizia d'una donna, che per spendere men che poteva vilmente la guastava.
Fu opera di Michele il disegno del tempio ritondo della Madonna di Campagna vicino a Verona, che fu bellissimo, ancor che la miseria, debolezza e pochissimo giudizio dei deputati sopra quella fabrica l'abbiano poi in molti luoghi storpiata, e peggio averebbono fatto, se non avesse avutone cura Bernardino Brugnuoli, parente di Michele, e fattone un compiuto modello, col quale va oggi inanzi la fabrica di questo tempio e molte altre.
Ai frati di Santa Maria in Organa, anzi monaci di Monte Oliveto in Verona, fece un disegno che fu bellissimo della facciata della loro chiesa di ordine corinzio, la quale facciata essendo stata tirata un pezzo in alto da Paulo San Michele, si rimase, non ha molto, a quel modo, per molte spese che furono fatte da que' monaci in altre cose, ma molto più per la morte di don Cipriano veronese, uomo di santa vita e di molta autorità in quella Religione, della quale fu due volte generale, il quale l'aveva cominciata.
Fece anco il medesimo in San Giorgio di Verona, convento de' preti regolari di San Giorgio in Alega, murare la cupola di quella chiesa, che fu opera bellissima e riuscì contra l'openione di molti, i quali non pensarono che mai quella fabrica dovesse reggersi in piedi per la debolezza delle spalle che avea: le quali poi furono in guisa da Michele fortificate, che non si ha più di che temere.
Nel medesimo convento fece il disegno e fondò un bellissimo campanile di pietre lavorate, parte vive e parte di tufo, che fu assai bene da lui tirato inanzi, et oggi si seguita dal detto Bernardino suo nipote, che lo va conducendo a fine.
Essendosi monsignor Luigi Lippomani, vescovo di Verona, risoluto di condurre a fine il campanile della sua chiesa, stato cominciato cento anni inanzi, ne fece fare un disegno a Michele, il quale lo fece bellissimo, avendo considerazione a conservare il vecchio et alla spesa che il vescovo vi potea fare, ma un certo Messer Domenico Porzio romano, suo vicario, persona poco intendente del fabricare, ancor che per altro uomo da bene, lasciatosi imbarcare da uno che ne sapea poco, gli diede cura di tirare inanzi quella fabrica.
Onde colui murandola di pietre di monte non lavorate e facendo nella grossezza delle mura le scale, le fece di maniera, che ogni persona anco mediocremente intendente d'architettura indovinò quello che poi successe, cioè che quella fabrica non istarebbe in piedi.
E fra gl'altri il molto reverendo fra' Marco de' Medici veronese, che oltre alli altri suoi studii più gravi, si è dilettato sempre, come ancor fa, della architettura, predisse quello che di cotal fabrica avverrebbe, ma gli fu risposto: "Fra' Marco vale assai nella professione delle sue lettere di filosofia e teologia, essendo lettor publico, ma nell'architettura non pesca in modo a fondo, che se gli possa credere".
Finalmente arrivato quel campanile al piano delle campane, s'aperse in quattro parti di maniera, che dopo avere speso molte migliaia di scudi in farlo, bisognò dare trecento scudi a' smuratori che lo gettassono a terra, acciò cadendo da per sé, come in pochi giorni arebbe fatto, non rovinasse all'intorno ogni cosa.
E così sta bene che avvenga a chi, lasciando i maestri buoni et eccellenti, s'impaccia con ciabattoni.
Essendo poi il detto monsignor Luigi stato eletto vescovo di Bergamo et in suo luogo vescovo di Verona monsignor Agostino Lippomano, questi fece rifare a Michele il modello del detto campanile e cominciarlo; e dopo lui, secondo il medesimo, ha fatto seguitare quell'opera, che oggi camina assai lentamente, monsignor Girolamo Trivisani, frate di San Domenico, il quale nel Vescovado sucedette all'ultimo Lippomano.
Il quale modello è bellissimo e le scale vengono in modo accomodate dentro, che la fabrica resta stabile e gagliardissima.
Fece Michele ai signori conti della Torre veronesi una bellissima cappella a uso di tempio tondo con l'altare in mezzo, nella lor villa di Fumane.
E nella chiesa del Santo in Padoa fu con suo ordine fabricata una sepoltura bellissima per Messer Alessandro Contarini procuratore di San Marco e stato proveditore dell'armata viniziana; nella quale sepoltura pare che Michele volesse mostrare in che maniera si deono fare simil opere, uscendo d'un certo modo ordinario, che a suo giudizio ha più tosto dell'altare e cappella che di sepolcro.
Questa dico, che è molto ricca per ornamenti e di composizione soda et ha proprio del militare, ha per ornamento una Tetis e due prigioni di mano di Alessandro Vittoria, che sono tenute buone figure, et una testa o vero ritratto di naturale del detto signore, col petto armato, stata fatta di marmo dal Danese da Carrara.
Vi sono oltre ciò altri ornamenti assai di prigioni, di trofei e di spoglie militari et altri de' quali non accade far menzione.
In Vinezia fece il modello del monasterio delle monache di San Biagio Catoldo, che fu molto lodato.
Essendosi poi deliberato in Verona di rifare il lazzaretto, stanza o vero spedale che serve agl'amorbati nel tempo di peste, essendo stato rovinato il vecchio con altri edifizii che erono nei sobborghi, ne fu fatto fare un disegno a Michele, che riuscì oltre ogni credenza bellissimo, acciò fusse messo in opera in luogo vicino al fiume, lontano un pezzo e fuori della spianata.
Ma questo disegno veramente bellissimo, et ottimamente in tutte le parti considerato, il quale è oggi appresso gl'eredi di Luigi Brugnuoli nipote di Michele, non fu da alcuni, per il loro poco giudizio e meschinità d'animo, posto interamente in essecuzione, ma molto ristretto, ritirato e ridotto al meschino da coloro i quali spesero l'autorità, che intorno a ciò avevano avuta dal publico, in storpiare quell'opera, essendo morti anzitempo alcuni gentiluomini che erano da principio sopra ciò et avevano la grandezza dell'animo pari alla nobiltà.
Fu similmente opera di Michele il bellissimo palazzo che hanno in Verona i signori conti di Canossa, il quale fu fatto edificare da monsignor reverendissimo di Baius, che fu il conte Lodovico Canossa, uomo tanto celebrato da tutti gli scrittori de' suoi tempi.
Al medesimo monsignore edificò Michele un altro magnifico palazzo nella villa di Grezano sul veronese; di ordine del medesimo fu rifatta la facciata de' conti Bevilacqua, e rassettate tutte le stanze del castello di detti signori, detto la Bevilacqua.
Similmente fece in Verona la casa e facciata de' Lavezoli, che fu molto lodata.
Et in Vinezia murò dai fondamenti il magnifico e ricchissimo palazzo de' Cornari, vicino a San Polo, e rassettò un altro palazzo, pur di casa Cornara, che è a San Benedetto al Albore per Messer Giovanni Cornari, del quale era Michele amicissimo e fu cagione che in questo dipignesse Giorgio Vasari nove quadri a olio per lo palco d'una magnifica camera tutta di legnami intagliati e messi d'oro riccamente.
Rassettò medesimamente la casa de' Bragadini riscontro a Santa Marina e la fece comodissima et ornatissima, e nella medesima città fondò e tirò sopra terra, secondo un suo modello e con spesa incredibile, il maraviglioso palazzo del nobilissimo Messer Girolamo Grimani, vicino a San Luca sopra il canal grande, ma non poté Michele, sopragiunto dalla morte, condurlo egli stesso a fine, e gl'altri architetti presi in suo luogo da quel gentiluomo in molte parti alterarono il disegno e modello del San Michele.
Vicino a Castel Franco, ne' confini fra il trivisano [e il] padovano, fu murato d'ordine dell'istesso Michele il famosissimo palazzo de' Soranzi, dalla detta famiglia detto la Soranza, il quale palazzo è tenuto, per abitura di villa, il più bello e più comodo che insino allora fusse stato fatto in quelle parti.
Et a Piombino, in contado, fece la casa Cornara e tante altre fabriche private, che troppo lunga storia sarebbe volere di tutte ragionare; basta aver fatto menzione delle principali.
Non tacerò già che fece le bellissime porte di due palazzi: l'una fu quella de' rettori e del capitano e l'altra quella del palazzo del podestà, amendue in Verona e lodatissime, se bene quest'ultima, che è d'ordine ionico con doppie colonne et intercolonnii ornatissimi et alcune Vittorie negl'angoli, pare per la bassezza del luogo dove è posta alquanto nana, essendo massimamente senza piedistallo e molto larga per la doppiezza delle colonne, ma così volle Messer Giovanni Delfini che la fé fare.
Mentre che Michele si godeva nella patria un tranquill'ozio e l'onore e riputazione che le sue onorate fatiche gl'avevano acquistate, gli sopravenne una nuova che l'accorò di maniera, che finì il corso della sua vita.
Ma perché meglio s'intenda il tutto e si sappiano in questa vita tutte le bell'opere de' San Micheli, dirò alcune cose di Giangirolamo nipote di Michele.
Costui adunque, il quale nacque di Paulo, fratello cugino di Michele, essendo giovane di bellissimo spirito, fu nelle cose d'architettura con tanta diligenza instrutto da Michele e tanto amato, che in tutte l'imprese d'importanza e massimamente di fortificazione lo volea sempre seco.
Per che, divenuto in brieve tempo con l'aiuto di tanto maestro in modo eccellente che si potea commettergli ogni difficile impresa di fortificazione, della quale maniera d'architettura si dilettò in particolare, fu dai signori viniziani conosciuta la sua virtù et egli messo nel numero dei loro architetti, ancor che fusse molto giovane, con buona provisione; e dopo mandato ora in un luogo et ora in altro a rivedere e rassettare le fortezze del loro dominio, e tallora a mettere in essecuzione i disegni di Michele suo zio.
Ma oltre agl'altri luoghi si adoperò con molto giudizio e fatica nella fortificazione di Zara e nella maravigliosa fortezza di S.
Niccolò, in Sebenico, come s'è detto, posta in sulla bocca del porto; la qual fortezza, che da lui fu tirata su dai fondamenti, è tenuta, per fortezza privata, una delle più forti e meglio intesa che si possa vedere.
Riformò ancora con suo disegno e giudizio del zio la gran fortezza di Corfù, riputata la chiave d'Italia da quella parte.
In questa, dico, rifece Giangirolamo i due torrioni che guardano verso terra, facendogli molto maggiori e più forti che non erano prima e con le canoniere e piazze scoperte che fiancheggiano la fossa alla moderna, secondo l'invenzione del zio.
Fatte poi allargare le fosse molto più che non erano, fece abbassare un colle che essendo vicino alla fortezza parea che la soprafacesse.
Ma oltre a molte altre cose che vi fece con molta considerazione, questa piacque estremamente, che in un cantone della fortezza fece un luogo assai grande e forte, nel quale in tempo d'assedio possono stare in sicuro i popoli di quell'isola, senza pericolo di essere presi da' nemici.
Per le quali opere venne Giangirolamo in tanto credito appresso detti signori, che gli ordinarono una provisione equale a quella del zio, non lo giudicando inferiore a lui anzi, in questa pratica delle fortezze, superiore; il che era di somma contentezza a Michele, il quale vedeva la propria virtù avere tanto accrescimento nel nipote, quanto a lui toglieva la vecchiezza di poter più oltre caminare.
Ebbe Giangirolamo, oltre al gran giudizio di conoscere la qualità de' siti, molta industria in sapergli rappresentare con disegni e modelli di rilievo, onde faceva vedere ai suoi signori insino alle menomissime cose delle sue fortificazioni in bellissimi modelli di legname che facea fare, la qual diligenza piaceva loro infinitamente, vedendo essi, senza partirsi di Vinezia, giornalmente come le cose passavano ne' più lontani luoghi di quello stato; et a fine che meglio fussero veduti da ognuno, gli tenevano nel palazzo del principe in luogo dove que' signori potevano vedergli a lor posta.
E perché così andasse Giangirolamo seguitando di fare, non pure gli rifacevano le spese fatte in condurre detti modelli, ma anco molte altre cortesie.
Potette esso Giangirolamo andare a servire molti signori con grosse provisioni, ma non volle mai partirsi dai suo' signori viniziani, anzi, per consiglio del padre e del zio tolse moglie in Verona una nobile giovanetta de' Fracastori con animo di sempre starsi in quelle parti, ma non essendo anco con la sua amata sposa, chiamata madonna Ortensia, dimorato se non pochi giorni, fu dai suoi signori chiamato a Vinezia e di lì con molta fretta mandato in Cipri a vedere tutti i luoghi di quell'isola, con dar commessione a tutti gli ufficiali che lo provedessino di quanto gli facesse bisogno in ogni cosa.
Arivato dunque Giangirolamo in quell'isola, in tre mesi la girò e vide tutta diligentemente, mettendo ogni cosa in disegno e scrittura per potere di tutto dar ragguaglio a' suoi signori.
Ma mentre che attendeva con troppa cura e sollecitudine al suo ufficio, tenendo poco conto della sua vita negl'ardentissimi caldi che allora erano in quell'isola, infermò d'una febre pestilente che in sei giorni gli levò la vita, se bene dissero alcuni che egli era stato avelenato; ma comunche si fusse, morì contento, essendo ne' servigi de' suoi signori et adoperato in cose importanti da loro, che più avevano creduto alla sua fede e professione di fortificare che a quella di qualunche altro.
Subito che fu amalato, conoscendosi mortale, diede tutti i disegni e scritti che avea fatto delle cose di quell'isola in mano di Luigi Brugnuoli suo cognato et architetto, che allora attendeva alla fortificazione di Famagosta, che è la chiave di quel regno, acciò gli portasse a' suoi signori.
Arivata in Vinezia la nuova della morte di Giangirolamo non fu niuno di quel senato che non sentisse incredibile dolore della perdita d'un sì fatt'uomo e tanto affezionato a quella repubblica.
Morì Giangirolamo di età di 45 anni et ebbe onorata sepoltura in S.
Niccolò di Famagosta dal detto suo cognato, il quale poi tornato a Vinezia presentando i disegni e scritti di Giangirolamo, il che fatto fu mandato a dar compimento alla fortificazione di Legnago, là dove era stato molti anni ad essequire i disegni e modelli del suo zio Michele.
Nel qual luogo non andò molto che si morì, lasciando due figliuoli che sono assai valenti uomini nel disegno e nella pratica d'architettura; con ciò sia che Bernardino, il maggiore, ha ora molte imprese alle mani, come la fabrica del campanile del Duomo e di quello di San Giorgio; la Madonna detta di Campagna, nelle quali et altre opere che fa in Verona et altrove riesce eccellente, e massimamente nell'ornamento e cappella maggiore di S.
Giorgio di Verona, la quale è d'ordine composito e tale che per grandezza, disegno e lavoro affermano i veronesi non credere che si truovi altra a questa pari in Italia; quest'opera dico, la quale va girando secondo che fa la nicchia, è d'ordine corinzio con capitelli composti, colonne doppie di tutto rilievo e con i suoi pilastri dietro; similmente il frontespizio, che la ricuopre tutta, gira anch'egli con gran maestria secondo che fa la nicchia et ha tutti gl'ornamenti che cape quell'ordine, onde monsignor Barbaro, eletto patriarca d'Aquileia, uomo di queste professioni intendentissimo e che n'ha scritto, nel ritornare dal Concilio di Trento, vide non senza maraviglia quello che di quell'opera era fatto e quello che giornalmente si lavorava; et avendola più volte considerata, ebbe a dire non aver mai veduta simile e non potersi far meglio.
E questo basti per saggio di quello che si può dall'ingegno di Bernardino, nato per madre de' San Micheli, sperare.
Ma per tornare a Michele, da cui ci partimo non senza cagione poco fa, gl'arrecò tanto dolore la morte di Giangirolamo, in cui vide mancare la casa de' San Micheli, non essendo del nipote rimasi figliuoli, ancor che si sforzasse di vincerlo e ricoprirlo, che in pochi giorni fu da una maligna febre ucciso, con incredibile dolore della patria e de' suoi illustrissimi signori.
Morì Michele l'anno 1559 e fu sepolto in San Tommaso de' frati carmelitani, dove è la sepoltura antica de' suoi maggiori; et oggi Messer Niccolò San Michele medico ha messo mano a fargli un sepolcro onorato, che si va tuttavia mettendo in opera.
Fu Michele di costumatissima vita et in tutte le sue cose molto onorevole; fu persona allegra, ma però mescolato col grave; fu timorato di Dio e molto religioso, in tanto che non si sarebbe mai messo a fare la mattina alcuna cosa, che prima non avesse udito messa divotamente e fatte sue orazioni.
E nel principio dell'imprese d'importanza faceva sempre la mattina innanzi ad ogni altra cosa cantar solennemente la messa dello Spirito Santo o della Madonna; fu liberalissimo e tanto cortese con gli amici, che così erano eglino delle cose di lui signori, come egli stesso.
Né tacerò qui un segno della sua lealissima bontà, il quale credo che pochi altri sappiano, fuor che io.
Quando Giorgio Vasari, del quale, come si è detto, fu amicissimo, partì ultimamente da lui in Vinezia, gli disse Michele: "Io voglio che voi sappiate, Messer Giorgio, che quando io stetti in mia giovanezza a Monte Fiascone, essendo innamorato della moglie d'uno scarpellino, come volle la sorte ebbi da lei cortesemente, senza che mai niuno da me lo risapesse, tutto quello che io desiderava.
Ora, avendo io inteso che quella povera donna è rimasa vedova e con una figliuola da marito, la quale dice avere di me conceputa, voglio, ancor che possa agevolmente essere che ciò, come io credo, non sia vero, portatele questi cinquanta scudi d'oro e dategliele da mia parte per amor di Dio, acciò possa aiutarsi et accomodare secondo il grado suo la figliuola".
Andando dunque Giorgio a Roma, giunto in Monte Fiascone, ancor che la buona donna gli confessasse liberamente quella sua putta non essere figliuola di Michele, ad ogni modo, sì come egli avea commesso, gli pagò i detti danari, che a quella povera femina furono così grati come ad un altro sarebbono stati cinquecento.
Fu dunque Michele cortese sopra quanti uomini furono mai, con ciò fusse che non sì tosto sapeva il bisogno e desiderio degl'amici, che cercava di compiacergli se avesse dovuto spendere la vita; né mai alcuno gli fece servizio che non ne fusse in molti doppii ristorato.
Avendogli fatto Giorgio Vasari in Vinezia un disegno grande con quella diligenza che seppe maggiore, nel quale si vedeva il superbissimo Lucifero con i suo' seguaci vinti dall'Angelo Michele piovere rovinosamente di cielo in un orribile inferno, non fece altro per allora che ringraziarne Giorgio quando prese licenza da lui; ma non molti giorni dopo, tornando Giorgio in Arezzo, trovò il San Michele aver molto innanzi mandato a sua madre, che si stava in Arezzo, una soma di robe così belle et onorate come se fusse stato un ricchissimo signore, e con una lettera nella quale molto l'onorava per amore del figliuolo.
Gli volleno molte volte i signori viniziani accrescere la provisione et egli ciò ricusando, pregava sempre che in suo cambio l'accrescessero ai nipoti.
Insomma fu Michele in tutte le sue azzioni tanto gentile, cortese et amorevole, che meritò essere amato da infiniti signori: dal cardinal de' Medici, che fu papa Clemente Settimo, mentre che stette a Roma, dal cardinale Alessandro Farnese, che fu Paulo Terzo, dal divino Michelagnolo Buonarroti, dal signor Francesco Maria duca d'Urbino, e da infiniti gentiluomini e senatori viniziani.
In Verona fu suo amicissimo fra' Marco de' Medici, uomo di letteratura e bontà infinita, e molti altri de' quali non accade al presente far menzione.
Ora, per non avere a tornare di qui a poco a parlare de' veronesi, con questa occasione dei sopra detti farò in questo luogo menzione d'alcuni pittori di quella patria che oggi vivono e sono degni di essere nominati, e non passati in niun modo con silenzio.
Il primo de' quali è Domenico del Riccio, il quale in fresco ha fatto di chiaro scuro, et alcune cose colorite, tre facciate nella casa di Fiorio della Seta in Verona, sopra il ponte nuovo, cioè le tre che non rispondono sopra il ponte, essendo la casa isolata; in una sopra il fiume sono battaglie di mostri marini; in un'altra le battaglie de' centauri e molti fiumi; nella terza sono due quadri coloriti.
Nel primo, che è sopra la porta, è la mensa degli dei, e nell'altro, sopra il fiume, sono le nozze finte fra il Benaco, detto il lago di Garda, e Caride, ninfa finta per Garda, de' quali nasce il Mincio fiume, il quale veramente esce del detto lago.
Nella medesima casa è un fregio grande, dove sono alcuni trionfi coloriti e fatti con bella pratica e maniera.
In casa Messer Pellegrino Ridolfi, pur in Verona, dipinse il medesimo la incoronazione di Carlo Quinto imperadore, e quando dopo essere coronato in Bologna cavalca con il Papa per la città con grandissima pompa.
A olio ha dipinto la tavola principale della chiesa, che ha novamente edificata il duca di Mantoa vicina al castello, nella quale è la decollazione e martirio di Santa Barbara, con molta diligenza e giudizio lavorata.
E quello che mosse il Duca a far fare quella tavola a Domenico, si fu l'aver veduta et essergli molto piaciuta la sua maniera in una tavola, che molto prima avea fatta Domenico nel Duomo di Mantoa, nella cappella di Santa Margherita, a concorrenza di Paulino, che fece quella di Santo Antonio, di Paulo Farinato, che dipinse quella di San Martino, e di Battista del Moro, che fece quella della Madalena.
I quali tutti quattro veronesi furono là condotti da Ercole cardinale di Mantova per ornare quella chiesa da lui stata rifatta col disegno di Giulio Romano.
Altre opere ha fatto Domenico in Verona, Vicenza, Vinezia, ma basti aver detto di queste.
È costui costumato e virtuoso artefice, perciò che oltre la pittura è ottimo musico e de' primi dell'accademia nobilissima de' filarmonici di Verona; né sarà a lui inferiore Felice suo figliuolo, il quale, ancor che giovane, si è mostro più che ragionevole pittore in una tavola che ha fatto nella chiesa della Trinità, dentro la quale è la Madonna e sei altri Santi grandi quanto il naturale.
Né è di ciò maraviglia avendo questo giovane imparato l'arte in Firenze, dimorando in casa Bernardo Canigiani, gentiluomo fiorentino e compare di Domenico suo padre.
Vive anco nella medesima Verona Bernardino detto l'India, il quale, oltre a molte altre opere, ha dipinto in casa del conte Marcantonio del Tiene nella volta d'una camera in bellissime figure la favola di Psiche; et un'altra camera ha con belle invenzioni e maniera di pitture dipinta al conte Girolamo da Canossa.
È anco molto lodato pittore Elliodoro Forbicini, giovane di bellissimo ingegno et assai pratico in tutte le maniere di pitture, ma particolarmente nel far grottesche, come si può vedere nelle dette due camere et altri luoghi dove ha lavorato.
Similmente Battista da Verona, il quale è così e non altrimenti fuor della patria chiamato, avendo avuto i primi principii della pittura da un suo zio in Verona, si pose con l'eccellente Tiziano in Vinezia, appresso il quale è divenuto eccellente pittore.
Dipinse costui essendo giovane in compagnia di Paulino una sala a Tiene, sul vicentino, nel palazzo del Collaterale Portesco, dove fecero un infinito numero di figure che acquistarono all'uno e l'altro credito e riputazione.
Col medesimo lavorò molte cose a fresco nel palazzo della Soranza a Castel Franco, essendovi amendue mandati a lavorare da Michele San Michele, che gl'amava come figliuoli.
Col medesimo dipinse ancora la facciata della casa di Messer Antonio Cappello, che è in Vinezia sopra il canal grande.
E dopo, pur insieme, il palco o vero soffittato della sala del consiglio de' Dieci dividendo i quadri fra loro.
Non molto dopo, essendo Batista chiamato a Vicenza, vi fece molte opere dentro e fuori, et in ultimo ha dipinto la facciata del Monte della Pietà, dove ha fatto un numero infinito di figure nude maggiori del naturale, in diverse attitudini, con bonissimo disegno et in tanti pochi mesi, che è stato una maraviglia.
E se tanto ha fatto in sì poca età, che non passa trenta anni, pensi ognuno quello che di lui si può nel processo della vita sperare.
È similmente veronese un Paulino pittore che oggi è in Vinezia in bonissimo credito, conciò sia che non avendo ancora più di trenta anni, ha fatto molte opere lodevoli.
Costui essendo in Verona nato d'uno scarpellino o, come dicono in que' paesi, d'un tagliapietre, et avendo imparato i principii della pittura da Giovanni Caroto veronese, dipinse in compagnia di Battista sopra detto, in fresco, la sala del Collaterale Portesco a Tiene nel vicentino; e dopo col medesimo alla Soranza molte opere fatte con disegno, giudizio e bella maniera.
A Masiera, vicino ad Asolo nel trivisano, ha dipinto la bellissima casa del signor Daniello Barbaro, eletto patriarca d'Aquileia; in Verona nel refettorio di San Nazzaro, monasterio de' monaci Neri, ha fatto in un gran quadro di tela la cena che fece Simon lebroso al Signore quando la peccatrice se gli gettò a' piedi, con molte figure, ritratti di naturale e prospettive rarissime, e sotto la mensa sono due cani tanto belli che paiono vivi e naturali, e più lontano certi storpiati, ottimamente lavorati.
E di mano di Paulino in Vinezia, nella sala del consiglio de' Dieci, è in un ovato, che è maggiore d'alcuni altri che vi sono e nel mezzo del palco come principale, un Giove che scaccia i vizii per significare che quel supremo magistrato et assoluto scaccia i vizii e castiga i cattivi e viziosi uomini.
Dipinse il medesimo il soffittato o vero palco della chiesa di San Sebastiano, che è opera rarissima, e la tavola della cappella maggiore con alcuni quadri che a quella fanno ornamento, e similmente le portelle dell'organo, che tutte sono pitture veramente lodevolissime.
Nella sala del gran consiglio dipinse in un quadro grande Federigo Barbarossa che s'appresenta al Papa, con buon numero di figure varie d'abiti e di vestiti e tutte bellissime e veramente rappresentanti la corte d'un papa e d'un imperatore et un senato viniziano, con molti gentiluomini e senatori di quella republica ritratti di naturale; et insomma quest'opera è per grandezza, disegno e belle e varie attitudini tale che è meritamente lodata da ognuno.
Dopo questa storia dipinse Paulino in alcune camere, che servono al detto consiglio de' Dieci, i palchi di figure a olio, che scortano molto e sono rarissime; similmente dipinse per andare a San Maurizio, da San Moise, la facciata a fresco della casa d'un mercatante, che fu opera bellissima, ma il marino la va consumando a poco a poco.
A Camillo Trivisani in Murano dipinse a fresco una loggia et una camera, che fu molto lodata; et in San Giorgio Maggiore di Vinezia fece in testa d'una gran stanza le nozze di Cana Galilea a olio, che fu opera maravigliosa per grandezza, per numero di figure e per varietà d'abiti e per invenzione, e se bene mi ricorda, vi si veggiono più di centocinquanta teste tutte variate e fatte con gran diligenza.
Al medesimo fu fatto dipignere dai procuratori di San Marco certi tondi angulari, che sono nel palco della libreria Nicena, che alla signoria fu lasciata dal cardinale Bessarione con un tesoro grandissimo di libri greci.
E perché detti signori, quando cominciarono a fare dipignere la detta libreria, promisero a chi meglio in dipignendola operasse un premio d'onore, oltre al prezzo ordinario, furono divisi i quadri fra i migliori pittori che allora fussero in Vinezia; finita l'opera, dopo essere state molto ben considerate le pitture de' detti quadri, fu posta una collana d'oro al collo a Paulino, come a colui che fu giudicato meglio di tutti gl'altri aver operato.
Et il quadro che diede la vittoria et il premio dell'onore fu quello dove è dipinta la Musica, nel quale sono dipinte tre bellissime donne giovani: una delle quali, che è la più bella, suona un gran lirone da gamba, guardando a basso il manico dello strumento e stando con l'orecchio et attitudine della persona e con la voce attentissima al suono; dell'altre due, una suona un liuto e l'altra canta a libro; appresso alle donne è un Cupido senz'ale che suona un gravecembolo, dimostrando che dalla Musica nasce Amore, o vero che Amore è sempre in compagnia della Musica, e perché mai non se ne parte lo fece senz'ale.
Nel medesimo dipinse Pan, dio - secondo i poeti - de' pastori, con certi flauti di scorze d'albori a lui, quasi voti, consecrati da' pastori stati vittoriosi nel sonare.
Altri due quadri fece Paulino nel medesimo luogo: in uno è l'Aritmetica con certi filosofi vestiti alla antica e nell'altro l'Onore, al quale, essendo in sedia, si offeriscono sacrificii e si porgono corone reali.
Ma perciò che questo giovane è a punto in sul bello dell'operare, e non arriva a trentadue anni, non ne dirò altro per ora.
È similmente veronese Paulo Farinato, valente dipintore, il quale essendo stato discepolo di Nicola Ursino ha fatto molte opere in Verona, ma le principali sono una sala, nella casa de' Fumanelli, colorita a fresco e piena di varie storie, secondo che volle Messer Antonio gentiluomo di quella famiglia e famosissimo medico in tutta Europa, e due quadri grandissimi in Santa Maria in Organi nella cappella maggiore, in uno de' quali è la storia degl'innocenti e nell'altro è quando Gostantino imperatore si fa portare molti fanciugli innanzi per uccidergli, e bagnarsi del sangue loro, per guarir della lebbra.
Nella nicchia poi della detta cappella sono due gran quadri, ma però minori de' primi; in uno è Cristo che riceve San Piero, che verso lui camina sopra l'acque, e nell'altro il desinare che fa San Gregorio a certi poveri.
Nelle quali tutte opere, che molto sono da lodare, è un numero grandissimo di figure, fatte con disegno, studio e diligenza.
Di mano del medesimo è una tavola di San Martino, che fu posta nel Duomo di Mantoa, la quale egli lavorò a concorrenza degl'altri suo' compatrioti, come s'è detto pur ora.
E questo sia il fine della vita dell'eccellente Michele San Michele e degl'altri valentuomini veronesi, degni certo d'ogni lode, per l'eccellenza dell'arti e per la molta virtù loro.
FINE DELLA VITA DI MICHELE S.
MICHELE ARCHITETTO E D'ALTRI VERONESI
VITA DI GIOVANNANTONIO DETTO IL SODDOMA DA VERZELLI PITTORE
Se gl'uomini conoscesseno il loro stato quando la fortuna porge loro occasione di farsi ricchi, favorendoli appresso gl'uomini grandi, e se nella giovanezza s'affaticassino per accompagnare la virtù con la fortuna, si vedrebbono maravigliosi effetti uscire dalle loro azzioni, là dove spesse volte si vede il contrario avenire; perciò che, sì come è vero che chi si fida interamente della fortuna sola resta le più volte ingannato, così è chiarissimo, per quello che ne mostra ogni giorno la sperienza, che anco la virtù sola non fa gran cose se non accompagnata dalla fortuna.
Se Giovannantonio da Verzelli, come ebbe buona fortuna avesse avuto, come se avesse studiato poteva, pari virtù, non si sarebbe al fine della vita sua, che fu sempre stratta e bestiale, condotto pazzamente nella vecchiezza a stentare miseramente.
Essendo adunque Giovannantonio condotto a Siena da alcuni mercatanti agenti degli Spannocchi, volle la sua buona sorte, e forse cattiva, che non trovando concorrenza per un pezzo in quella città, vi lavorasse solo, il che se bene gli fu di qualche utile, gli fu alla fine di danno, perciò che quasi adormentandosi, non istudiò mai, ma lavorò le più delle sue cose per pratica; e se pur studiò un poco, fu solamente in disegnare le cose di Iacopo dalla Fonte, ché erano in pregio, e poco altro.
Nel principio facendo molti ritratti di naturale con quella sua maniera di colorito acceso che egli avea recato di Lombardia, fece molte amicizie in Siena più per essere quel sangue amorevolissimo de' forestieri, che perché fusse buon pittore.
Era oltre ciò uomo allegro, licenzioso, e teneva altrui in piacere e spasso, con vivere poco onestamente; nel che fare, però che aveva sempre attorno fanciulli e giovani sbarbati, i quali amava fuor di modo, si acquistò il sopranome di Soddoma, del quale, non che si prendesse noia o sdegno, se ne gloriava, facendo sopra esso stanze e capitoli e cantandogli in sul liuto assai commodamente.
Dilettossi, oltre ciò, d'aver per casa di più sorte stravaganti animali: tassi, scoiattoli, bertucce, gatti mammoni, asini nani, cavalli barbari da correre palii, cavallini piccoli dell'Elba, ghiandaie, galline nane, tortole indiane et altri sì fatti animali, quanti gliene potevano venire alle mani, ma oltre tutte queste bestiacce aveva un corbo che da lui aveva così bene imparato a favellare, che contrafaceva in molte cose la voce di Giovannantonio, e particolarmente in rispondendo a chi picchiava la porta, tanto bene che pareva Giovannantonio stesso, come benissimo sanno tutti i sanesi.
Similmente gl'altri animali erano tanto domestichi, che sempre stavano intorno altrui per casa, facendo i più strani giuochi et i più pazzi versi del mondo, di maniera che la casa di costui pareva proprio l'arca di Noè.
Questo vivere adunque, la strattezza della vita e l'opere e pitture, che pur faceva qualcosa di buono, gli facevano avere tanto nome fra' sanesi, cioè nella plebe e nel volgo, perché i gentiluomini lo conoscevano da vantaggio, che egli era tenuto appresso di molti grand'uomo.
Per che, essendo fatto generale de' monaci di Monte Oliveto fra' Domenico da Lecco lombardo, et andandolo il Soddoma a visitare a Monte Oliveto di Chiusuri, luogo principale di quella Relligione, lontano da Siena quindici miglia, seppe tanto dire e persuadere, che gli fu dato a finire le storie della vita di San Benedetto, delle quali aveva fatto parte in una facciata Luca Signorelli da Cortona.
La quale opera egli finì per assai piccol prezzo e per le spese che ebbe egli et alcuni garzoni e pestacolori che gl'aiutarono, né si potrebbe dire lo spasso che mentre lavorò in quel luogo ebbero di lui que' padri, che lo chiamavano il Mattaccio, né le pazzie che vi fece.
Ma tornando all'opera, avendovi fatte alcune storie tirate via di pratica senza diligenza e dolendosene il generale, disse il Mattaccio che lavorava a capricci e che il suo pennello ballava secondo il suono de' danari e che, se voleva spender più, gli bastava l'animo di far molto meglio; per che, avendogli promesso quel generale di meglio volerlo pagare per l'avenire, fece Giovannantonio tre storie che restavano a farsi ne' cantoni, con tanto più studio e diligenza che non avea fatto l'altre, che riuscirono molto migliori.
In una di queste è quando S.
Benedetto si parte da Norcia e dal padre e dalla madre per andare a studiare a Roma: nella seconda, quando San Mauro e S.
Placido fanciulli gli sono dati et offerti a Dio dai padri loro, e nella terza quando i Gotti ardono Monte Casino.
In ultimo fece costui, per far dispetto al generale et ai monaci, quando Fiorenzo prete e nimico di San Benedetto condusse intorno al monasterio di quel sant'uomo molte meretrici a ballare e cantare, per tentare la bontà di que' padri, nella quale storia il Soddoma, che era così nel dipignere come nell'altre sue azzioni disonesto, fece un ballo di femine ignude disonesto e brutto affatto; e perché non gli sarebbe stato lasciato fare, mentre lo lavorò non volle mai che niuno de' monaci vedesse.
Scoperta dunque che fu questa storia, la voleva il generale gettar per ogni modo a terra e levarla via, ma il Mattaccio, dopo molte ciance, vedendo quel padre in collora, rivestì tutte le femine ignude di quell'opera che è delle migliori che vi siano.
Sotto le quali storie fece per ciascuna due tondi, et in ciascuno un frate, per farvi il numero de' generali che aveva avuto quella congregazione.
E perché non aveva i ritratti naturali, fece il Mattaccio il più delle teste a caso, et in alcune ritrasse de' frati vecchi che allora erano in quel monasterio: tanto che venne a fare quella del detto fra' Domenico da Lecco, che era allora generale come s'è detto, et il quale gli faceva fare quell'opera.
Ma perché ad alcune di queste teste erano stati cavati gl'occhi, altre erano state sfregiate, frate Antonio Bentivogli bolognese le fece tutte levar via per buone cagioni.
Mentre dunque che il Mattaccio faceva queste storie, essendo andato a vestirsi lì monaco, un gentiluomo milanese che aveva una cappa gialla con fornimenti di cordoni neri, come si usava in quel tempo, vestito che colui fu da monaco, il generale donò la detta cappa al Mattaccio et egli con essa indosso si ritrasse dallo specchio in una di quelle storie dove S.
Benedetto, quasi ancor fanciullo, miracolosamente racconcia e reintegra il capisterio o vero vassoio della sua balia, ch'ella avea rotto; et a' piè del ritratto vi fece il corbo, una bertuccia et altri suoi animali.
Finita quest'opera dipinse nel refettorio del monasterio di Sant'Anna, luogo del medesimo Ordine e lontano a Monte Oliveto cinque miglia, la storia de' cinque pani e due pesci et altre figure.
La qual opera fornita, se ne tornò a Siena, dove alla postierla dipinse a fresco la facciata della casa di Messer Agostino de' Bardi sanese, nella quale erano alcune cose lodevoli, ma per lo più sono state consumate dall'aria e dal tempo.
In quel mentre capitando a Siena Agostin Chigi, ricchissimo e famoso mercatante sanese, gli venne conosciuto, e per le sue pazzie e perché aveva nome di buon dipintore, Giovan Antonio.
Per che, menatolo seco a Roma, dove allora faceva papa Giulio II dipigner nel palazzo di Vaticano le camere papali che già aveva fatto murare papa Niccolò V, si adoperò di maniera col Papa che anco a lui fu dato da lavorare.
E perché Pietro Perugino che dipigneva la volta d'una camera, che è allato a torre Borgia, lavorava, come vecchio che egli era, adagio e non poteva, come era stato ordinato da prima, metter mano ad altro, fu data a dipignere a Giovan Antonio un'altra camera che è a canto a quella che dipigneva il Perugino.
Messovi dunque mano, fece l'ornamento di quella volta di cornici e fogliami e fregii, e dopo in alcuni tondi grandi fece alcune storie in fresco assai ragionevoli.
Ma perciò che questo animale, attendendo alle sue bestiuole et alle baie, non tirava il lavoro inanzi, essendo condotto Raffaello da Urbino a Roma da Bramante architetto e dal Papa conosciuto quanto gl'altri avanzasse, comandò Sua Santità che nelle dette camere non lavorasse più né il Perugino né Giovan Antonio, anzi che si buttasse in terra ogni cosa.
Ma Raffaello, che era la stessa bontà e modestia, lasciò in piedi tutto quello che avea fatto il Perugino, stato già suo maestro, e del Mattaccio non guastò se non il ripieno e le figure de' tondi, e de' quadri lasciando le fregiature e gl'altri ornamenti che ancor sono intorno alle figure che vi fece Raffaello, le quali furno la Iustizia, la Cognizione delle cose, la Poesia e la Teologia.
Ma Agostino, che era galantuomo, senza aver rispetto alla vergogna che Giovan Antonio avea ricevuto, gli diede a dipignere nel suo palazzo di Trastevere in una sua camera principale, che risponde nella sala grande, la storia d'Alessandro quando va a dormire con Rosana; nella quale opera, oltre all'altre figure, vi fece un buon numero d'Amori, alcuni de' quali dislacciano ad Alessandro la corazza, altri gli traggono gli stivali o vero calzari, altri gli lievano l'elmo e la veste e le rassettano, altri spargono fiori sopra il letto et altri fanno altri ufficii così fatti; e vicino al camino fece un Vulcano, il quale fabbrica saette, che allora fu tenuta assai buona e lodata opera.
E se il Mattaccio, il quale aveva di bonissimi tratti et era molto aiutato dalla natura, avesse atteso in quella disdetta di fortuna, come averebbe fatto ogni altro, agli studii, averebbe fatto grandissimo frutto.
Ma egli ebbe sempre l'animo alle baie e lavorò a capricci, di niuna cosa maggiormente curandosi che di vestire pomposamente, portando giuboni di brocato, cappe tutte fregiate di tela d'oro, cuffioni ricchissimi, collane et altre simili bagattelle e cose da buffoni e cantanbanchi, delle quali cose Agostino, al quale piaceva quell'umore, n'aveva il maggiore spasso del mondo.
Venuto poi a morte Giulio Secondo e creato Leon X, al quale piacevano certe figure stratte e senza pensieri come era costui, n'ebbe il Mattaccio la maggior allegrezza del mondo e massimamente volendo male a Giulio che gl'aveva fatto quella vergogna.
Per che, messosi a lavorare per farsi cognoscere al nuovo Pontefice, fece in un quadro una Lucrezia romana ignuda che si dava con un pugnale; e perché la fortuna ha cura de' matti et aiuta alcuna volta gli spensierati, gli venne fatto un bellissimo corpo di femina et una testa che spirava.
La quale opera finita, per mezzo d'Agostin Chigi che aveva stretta servitù col Papa, la donò a Sua Santità, dalla quale fu fatto cavaliere e rimunerato di così bella pittura.
Onde Giovan Antonio, parendoli essere fatto grand'uomo, cominciò a non volere più lavorare, se non quando era cacciato dalla necessità.
Ma essendo andato Agostino per alcuni suo' negozii a Siena et avendovi menato Giovan Antonio, nel dimorare là fu forzato, essendo cavaliere senza entrate, mettersi a dipignere, e così fece una tavola, dentrovi un Cristo deposto di croce, in terra la Nostra Donna tramortita, et un uomo armato, che voltando le spalle, mostra il dinanzi nel lustro d'una celata che è in terra, lucida come uno specchio; la quale opera, che fu tenuta et è delle migliori che mai facesse costui, fu posta in San Francesco a man destra entrando in chiesa.
Nel chiostro poi che è allato alla detta chiesa, fece in fresco Cristo battuto alla colonna, con molti giudei d'intorno a Pilato e con un ordine di colonne tirate in prospettiva a uso di cortine.
Nella qual opera ritrasse Giovan Antonio se stesso senza barba, cioè raso e con i capelli lunghi, come si portavano allora.
Fece non molto dopo al signor Iacopo Sesto di Piombino alcuni quadri, e standosi con esso lui in detto luogo alcun'altre cose in tele, onde col mezzo suo, oltre a molti presenti e cortesie che ebbe da lui, cavò della sua isola dell'Elba molti animali piccoli di quelli che produce quell'isola, i quali tutti condusse a Siena.
Capitando poi a Firenze un monaco de' Brandolini, abbate del monasterio di Monte Oliveto che è fuor della porta San Friano, gli fece dipignere a fresco nella facciata del refettorio alcune pitture; ma perché, come stracurato, le fece senza studio, riuscirono sì fatte, che fu uccellato e fatto beffe delle sue pazzie da coloro che aspettavano che dovesse fare qualche opera straordinaria.
Mentre dunque che faceva quell'opera, avendo menato seco a Fiorenza un caval barbero, lo messe a correre il palio di San Bernaba, e come volle la sorte corse tanto meglio degl'altri, che lo guadagnò.
Onde, avendo i fanciulli a gridare come si costuma dietro al palio et alle trombe il nome o cognome del padrone del cavallo che ha vinto, fu dimandato Giovan Antonio che nome si aveva gridare, et avendo egli risposto Soddoma, Soddoma, i fanciulli così gridavano.
Ma avendo udito così sporco nome certi vecchi da bene, cominciarono a farne rumore et a dire: "Che porca cosa, che ribalderia è questa, che si gridi per la nostra città così vituperoso nome?".
Di maniera, che mancò poco, levandosi il rumore, che non fu dai fanciulli e dalla plebe lapidato il povero Soddoma, et il cavallo e la bertuccia che avea in groppa con esso lui.
Costui, avendo nello spazio di molti anni raccozzati molti palii stati a questo modo vinti dai suoi cavalli, n'aveva una vanagloria, la maggior del mondo, et a chiunche gli capitava a casa, gli mostrava, e spesso spesso ne faceva mostra alle finestre.
Ma per tornare alle sue opere, dipinse per la Compagnia di San Bastiano in Camollia, dopo la chiesa degl'Umiliati, in tela a olio in un gonfalone che si porta a processione, un San Bastiano ignudo, legato a un albero, che si posa in sulla gamba destra e scortando con la sinistra, alza la testa verso un Angelo che gli mette una corona in capo.
La quale opera è veramente bella e molto da lodare; nel rovescio è la Nostra Donna col Figliuolo in braccio, et a basso San Gismondo, San Rocco et alcuni battuti con le ginocchia in terra.
Dicesi che alcuni mercatanti lucchesi vollono dare agl'uomini di quella Compagnia, per avere quest'opera, trecento scudi d'oro e non l'ebbono, perché coloro non vollono privare la loro Compagnia e la città di sì rara pittura.
E nel vero in certe cose, o fusse lo studio, o la fortuna, o il caso, si portò il Soddoma molto bene, ma di sì fatte ne fece pochissime.
Nella sagrestia de' frati del Carmine è un quadro di mano del medesimo, nel quale è una natività di Nostra Donna con alcune balie, molto bella, et in sul canto, vicino alla piazza de' Tolomei, fece a fresco per l'arte de' Calzolai una Madonna col Figliuolo in braccio, San Giovanni, San Francesco, San Rocco e San Crespino, avvocato degl'uomini di quell'arte, il quale ha una scarpa in mano; nelle teste delle quali figure e nel resto si portò Giovan Antonio benissimo.
Nella Compagnia di San Bernardino da Siena, a canto alla chiesa di San Francesco, fece costui a concorrenza di Girolamo del Pacchia pittore sanese e di Domenico Beccafumi, alcune storie a fresco: cioè la presentazione della Madonna al tempio, quando ella va a visitare Santa Lisabetta, la sua assunzione e quando è coronata in cielo.
Nei canti della medesima Compagnia fece un Santo in abito episcopale, San Lodovico e Santo Antonio da Padoa; ma la meglio figura di tutte è un San Francesco, che stando in piedi alza la testa in alto, guardando un Angioletto, il quale pare che faccia sembiante di parlargli, la testa del qual San Francesco è veramente maravigliosa.
Nel palazzo de' Signori dipinse similmente in Siena in un salotto alcuni tabernacolini pieni di colonne e di puttini, con altri ornamenti, dentro ai quali tabernacoli sono diverse figure: in uno è San Vettorio armato all'antica con la spada in mano e vicino a lui è nel medesimo modo Sant'Ansano che battezza alcuni et in un altro è San Benedetto, che tutti sono molto belli.
Da basso in detto palazzo, dove si vende il sale, dipinse un Cristo che risuscita con alcuni soldati intorno al sepolcro e due Angioletti, tenuti nelle teste assai belli.
Passando più oltre, sopra una porta è una Madonna col Figliuolo in braccio dipinta da lui a fresco e due Santi.
A Santo Spirito dipinse la cappella di San Iacopo, la quale gli feciono fare gl'uomini della nazione spagnuola che vi hanno la loro sepoltura; facendovi una imagine di Nostra Donna antica, da man destra San Nicola da Tolentino e dalla sinistra San Michele Arcangelo che uccide Lucifero; e sopra questi, in un mezzo tondo, fece la Nostra Donna che mette in dosso l'abito sacerdotale a un Santo, con alcuni Angeli a torno.
E sopra tutte queste figure, le quali sono a olio in tavola, è nel mezzo circolo della volta dipinto in fresco San Iacopo armato sopra un cavallo che corre, e tutto fiero ha impugnato la spada, e sotto esso sono molti turchi morti e feriti.
Da basso poi, ne' fianchi dell'altare, sono dipinti a fresco Sant'Antonio abate et un S.
Bastiano ignudo alla colonna, che sono tenute assai buon'opere.
Nel Duomo della medesima città, entrando in chiesa a man destra è di sua mano a un altare un quadro a olio, nel quale è la Nostra Donna col Figliuolo in sul ginocchio, San Giuseppo da un lato e dall'altro S.
Calisto, la qual opera è tenuta anch'essa molto bella perché si vede che il Soddoma nel colorirla usò molto più diligenza che non soleva nelle sue cose.
Dipinse ancora per la Compagnia della Trinita una bara da portar morti alla sepoltura, che fu bellissima.
Et un'altra ne fece alla Compagnia della Morte, che è tenuta la più bella di Siena, et io credo ch'ella sia la più bella che si possa trovare, perché oltre all'essere veramente molto da lodare, rade volte si fanno fare simili cose con spesa o molta diligenza.
Nella chiesa di S.
Domenico, alla cappella di Santa Caterina da Siena, dove in un tabernacolo è la testa di quella Santa lavorata d'argento, dipinse Giovan Antonio due storie che mettono in mezzo detto tabernacolo: in una è a man destra quando detta Santa, avendo ricevuto le stimate da Gesù Cristo che è in aria, si sta tramortita in braccio a due delle sue suore che la sostengono, la quale opera considerando, Baldassarre Petrucci pittore sanese disse che non aveva mai veduto niuno esprimer meglio gl'affetti di persone tramortite e svenute, né più simili al vero di quello che avea saputo fare Giovan Antonio.
E nel vero è così, come oltre all'opera stessa si può vedere nel disegno che n'ho io di mano del Soddoma proprio, nel nostro libro de' disegni.
A man sinistra nell'altra storia è quando l'Angelo di Dio porta alla detta Santa l'ostia della Santissima Comunione, et ella che, alzando la testa in aria, vede Gesù Cristo e Maria Vergine, mentre due suore sue compagne le stanno dietro.
In un'altra storia che è nella facciata a man ritta, è dipinto un scelerato, che andando a essere decapitato, non si voleva convertire né raccomandarsi a Dio, disperando della misericordia di quello: quando, pregando per lui quella Santa in ginocchioni, furono di maniera accetti i suoi prieghi alla bontà di Dio, che tagliata la testa al reo si vide l'anima sua salire in cielo, cotanto possono appresso la bontà di Dio le preghiere di quelle sante persone che sono in sua grazia.
Nella quale storia, dico, è un molto gran numero di figure, le quali niuno dee maravigliarsi se non sono d'intera perfezzione, imperò che ho inteso per cosa certa che Giovan Antonio si era ridotto a tale per infingardagine e pigrizia, che non faceva né disegni, né cartoni, quando aveva alcuna cosa simile a lavorare, ma si riduceva in sull'opera a disegnare col pennello sopra la calcina, che era cosa strana: nel qual modo si vede essere stata da lui fatta questa storia.
Il medesimo dipinse ancora l'arco dinanzi di detta cappella, dove fece un Dio Padre; l'altre storie della detta cappella non furono da lui finite, parte per suo difetto, che non voleva lavorare se non a capricci, e parte per non essere stato pagato da chi faceva fare quella cappella.
Sotto a questa è un Dio Padre che ha sotto una Vergine antica in tavola, con San Domenico, San Gismondo, San Bastiano e Santa Caterina.
In Santo Agostino dipinse in una tavola, che è nell'entrare in chiesa a man ritta, l'adorazione de' Magi, che fu tenuta et è buon'opera; perciò che, oltre la Nostra Donna che è lodata molto et il primo de' tre Magi e certi cavalli, vi è una testa d'un pastore fra due arbori che pare veramente viva.
Sopra una porta della città, detta di S.
Vienno, fece a fresco in un tabernacolo grande la natività di Gesù Cristo et in aria alcuni Angeli, e nell'arco di quella un putto in iscorto bellissimo e con gran rilievo, il quale vuole mostrare che il Verbo è fatto carne.
In quest'opera si ritrasse il Soddoma con la barba, essendo già vecchio, e con un pennello in mano, il quale è volto verso un brieve che dice: "Feci".
Dipinse similmente a fresco in piazza a' piedi del palazzo la cappella del Comune, facendovi la Nostra Donna col Figliuolo in collo sostenuta da alcuni putti, Santo Ansano, San Vettorio, Sant'Agostino e San Iacopo; e sopra in un mezzo circolo piramidale fece un Dio Padre con alcuni Angeli a torno; nella quale opera si vede che costui quando la fece cominciava quasi a non aver più amore all'arte, avendo perduto un certo che di buono che soleva avere nell'età migliori, mediante il quale dava una certa bell'aria alle teste, che le faceva esser belle e graziose.
E che ciò sia vero, hanno altra grazia et altra maniera alcun'opere che fece molto innanzi a questa, come si può vedere sopra la postierla in un muro a fresco, sopra la porta del capitan Lorenzo Mariscotti, dove un Cristo morto, che è in grembo alla madre, ha una grazia e divinità maravigliosa.
Similmente un quadro a olio di Nostra Donna, che egli dipinse a Messer Enea Savini dalla Costerella, è molto lodato, et una tela che fece per Assuero Rettori da S.
Martino, nella quale è una Lucrezia romana che si ferisce mentre è tenuta dal padre e dal marito, fatti con bell'attitudini e bella grazia di teste.
Finalmente vedendo Giovan Antonio la divozione de' sanesi era tutta volta alla virtù et opere eccellenti di Domenico Beccafumi e non avendo in Siena né casa, né entrate, et avendo già quasi consumato ogni cosa e divenuto vecchio e povero, quasi disperato si partì da Siena e se n'andò a Volterra.
E come volle la sua ventura, trovando quivi Messer Lorenzo di Galeotto de' Medici, gentiluomo ricco et onorato, si cominciò a riparare appresso di lui con animo di starvi lungamente.
E così dimorando in casa di lui, fece a quel signore in una tela il carro del sole, il quale essendo mal guidato da Faetonte cade nel Po, ma si vede bene che fece quell'opera per suo passatempo e che la tirò di pratica senza pensare a cosa nessuna, in modo è ordinaria da dovero e poco considerata.
Venutogli poi annoia lo stare a Volterra et in casa quel gentiluomo, come colui che era avezo a essere libero, si partì et andossene a Pisa, dove per mezzo di Battista del Cervelliera fece a Messer Bastiano della Seta, Operaio del Duomo, due quadri che furono posti nella nicchia dietro all'altare maggiore del Duomo a canto a quegli del Sogliano e del Beccafumi.
In uno è Cristo morto con la Nostra Donna e con l'altre Marie e nell'altro il sacrifizio d'Abramo e d'Isac suo figliuolo.
Ma perché questi quadri non riuscirono molto buoni, il detto Operaio, che aveva disegnato fargli fare alcune tavole per la chiesa, lo licenziò, conoscendo che gl'uomini che non studiano, perduto che hanno in vecchiezza un certo che di buono che in giovanezza avevano da natura, si rimangono con una pratica e maniera le più volte poco da lodare.
Nel medesimo tempo finì Giovan Antonio una tavola che egli avea già cominciata a olio per Santa Maria della Spina, facendovi la Nostra Donna col Figliuolo e Santa Caterina, e ritti dagli lati San Giovanni, San Bastiano e San Giuseppo; nelle quali tutte figure si portò molto meglio che ne' due quadri del Duomo.
Dopo, non avendo più che fare a Pisa, si condusse a Lucca, dove in San Ponziano, luogo de' frati di Monte Oliveto, gli fece fare un abate suo conoscente una Nostra Donna al salire di certe scale che vanno in dormentorio; la quale finita, stracco, povero e vecchio se ne tornò a Siena, dove non visse poi molto: perché amalato, per non avere né chi lo governasse, né di che essere governato, se n'andò allo spedal grande e quivi finì in poche settimane il corso di sua vita.
Tolse Giovan Antonio essendo giovane et in buon credito moglie in Siena una fanciulla nata di bonissime genti e n'ebbe il primo anno una figliuola, ma poi venutagli a noia, perché egli era una bestia, non la volle mai più vedere.
Onde ella ritiratasi da sé visse sempre delle sue fatiche e dell'entrate della sua dote, portando con lunga e molta pacienza le bestialità e le pazzie di quel suo uomo, degno veramente del nome di Mattaccio, che gli posero come s'è detto que' padri di Monte Oliveto.
Il Riccio sanese, discepolo di Giovan Antonio e pittore assai pratico e valente, avendo presa per moglie la figliuola del suo maestro, stata molto bene e costumatamente dalla madre allevata, fu erede di tutte le cose del suocero attenenti all'arte.
Questo Riccio dico, il quale ha lavorato molte opere belle e lodevoli in Siena et altrove, e nel Duomo di quella città, entrando in chiesa a man manca, una cappella lavorata di stucchi e di pitture a fresco, si sta oggi in Lucca, dove ha fatto e fa tuttavia molte opere belle e lodevoli.
Fu similmente creato di Giovan Antonio un giovane che si chiamava Giomo del Soddoma, ma perché morì giovane, né potette dar se non piccol saggio del suo ingegno e sapere, non accade dirne altro.
Visse il Soddoma anni settantacinque e morì l'anno 1554.
FINE DELLA VITA DEL SODDOMA, PITTORE
VITA DI BASTIANO DETTO ARISTOTILE DA SAN GALLO PITTORE ET ARCHITETTO FIORENTINO
Quando Pietro Perugino, già vecchio, dipigneva la tavola dell'altare maggiore de' Servi in Fiorenza, un nipote di Giuliano e d'Antonio da San Gallo, chiamato Bastiano, fu acconcio seco a imparare l'arte della pittura, ma non fu il giovanetto stato molto col Perugino, che veduta in casa Medici la maniera di Michelagnolo nel cartone della sala, di cui si è già tante volte favellato, ne restò sì amirato, che non volle più tornare a bottega con Piero parendoli che la maniera di colui a petto a quella del Buonarruoti fusse secca, minuta e da non dovere in niun modo essere imitata.
E perché di coloro che andavano a dipignere il detto cartone, che fu un tempo la scuola di chi volle attendere alla pittura, il più valente di tutti era tenuto Ridolfo Grillandai, Bastiano se lo elesse per amico, per imparare da lui a colorire, e così divennero amicissimi.
Ma non lasciando perciò Bastiano di attendere al detto cartone e fare di quelli ignudi, ritrasse in un cartonetto tutta insieme l'invenzione di quel gruppo di figure, la quale niuno di tanti che vi avevano lavorato aveva mai disegnato interamente.
E perché vi attese con quanto studio gli fu mai possibile, ne seguì che poi ad ogni proposito seppe render conto delle forze, attitudini e muscoli di quelle figure e quali erano state le cagioni che avevano mosso il Buonarruoto a fare alcune positure difficili.
Nel che fare, parlando egli con gravità, adagio e sentenziosamente gli fu da una schiera di virtuosi artefici posto il sopranome d'Aristotile, il quale gli stette anco tanto meglio, quanto pareva che secondo un antico ritratto di quel grandissimo filosofo e secretario della natura, egli molto il somigliasse.
Ma per tornare al cartonetto ritratto da Aristotile, egli il tenne poi sempre così caro che essendo andato male l'originale del Buonarruoto, nol volle mai dare né per prezzo, né per altra cagione, né lasciarlo ritrarre, anzi nol mostrava se non come le cose preziose si fanno ai più cari amici e per favore.
Questo disegno poi l'anno 1542 fu da Aristotile a persuasione di Giorgio Vasari suo amicissimo ritratto in un quadro a olio di chiaro scuro che fu mandato per mezzo di monsignor Giovio al re Francesco di Francia, che l'ebbe carissimo e ne diede premio onorato al San Gallo.
E ciò fece il Vasari, perché si conservasse la memoria di quell'opera, atteso che le carte agevolmente vanno male.
E perché si dilettò dunque Aristotile nella sua giovanezza, come hanno fatto gl'altri di casa sua, delle cose d'architettura, attese a misurar piante di edifizii e con molta diligenza alle cose di prospettiva, nel che fare gli fu di gran comodo un suo fratello chiamato Giovan Francesco, il quale come architettore attendeva alla fabrica di S.
Piero, sotto Giuliano Leni proveditore.
Giovan Francesco dunque, avendo tirato a Roma Aristotile e servendosene a tener conti in un gran maneggio che avea di fornaci, di calcine, di lavori, pozzolane e tufi che gl'apportavano grandissimo guadagno, si stette un tempo a quel modo Bastiano senza far altro che disegnare nella cappella di Michelagnolo et andarsi trattenendo per mezzo di Messer Giannozzo Pandolfini vescovo di Troia, in casa di Raffaello da Urbino.
Onde, avendo poi Raffaello fatto al detto Vescovo il disegno per un palazzo che volea fare in via di S.
Gallo in Fiorenza, fu il detto Giovan Francesco mandato a metterlo in opera, sì come fece con quanta diligenza è possibile che un'opera così fatta si conduca.
Ma l'anno 1530, essendo morto Giovan Francesco e stato posto l'assedio intorno a Fiorenza, si rimase come diremo imperfetta quell'opera; all'esecuzione della quale fu messo poi Aristotile suo fratello, che se n'era molti e molti anni innanzi tornato come si dirà a Fiorenza, avendo sotto Giuliano Leni sopra detto, avanzato grossa somma di danari nell'aviamento che gli aveva lasciato in Roma il fratello; con una parte de' quali danari comperò Aristotile, a persuasione di Luigi Alamanni e Zanobi Buondelmonti suoi amicissimi, un sito di casa dietro al convento de' Servi, vicino ad Andrea del Sarto, dove poi, con animo di tòr donna e riposarsi, murò un'assai commoda casetta.
Tornato dunque a Fiorenza Aristotile, perché era molto inclinato alla prospettiva, alla quale aveva atteso in Roma sotto Bramante, non pareva che quasi si dilettasse d'altro, ma nondimeno, oltre al fare qualche ritratto di naturale, colorì a olio in due tele grandi il mangiare il pomo di Adamo e d'Eva, quando sono cacciati di paradiso.
Il che fece secondo che avea ritratto dall'opere di Michelagnolo dipinte nella volta della cappella di Roma.
Le quali due tele d'Aristotile gli furono, per averle tolte di peso dal detto luogo, poco lodate; ma all'incontro gli fu ben lodato tutto quello che fece in Fiorenza nella venuta di papa Leone, facendo in compagnia di Francesco Granacci un arco trionfale dirimpetto alla porta di Badia, con molte storie, che fu bellissimo.
Parimente nelle nozze del duca Lorenzo de' Medici fu di grande aiuto in tutti gl'apparati e massimamente in alcune prospettive per comedie al Francia Bigio e Ridolfo Grillandaio, che avevan cura d'ogni cosa, Fece dopo molti quadri di Nostre Donne a olio, parte di sua fantasia e parte ritratte da opere d'altri, e fra l'altre ne fece una simile a quella che Raffaello dipinse al Popolo in Roma, dove la Madonna cuopre [il] putto con un velo, la quale ha oggi Filippo dell'Antella; un'altra ne hanno gl'eredi di Messer Ottaviano de' Medici insieme col ritratto del detto Lorenzo, il quale Aristotile ricavò da quello che avea fatto Raffaello.
Molti altri quadri fece ne' medesimi tempi, che furono mandati in Inghilterra.
Ma conoscendo Aristotile di non avere invenzione, e quanto la pittura richieggia studio e buon fondamento di disegno, e che per mancar di queste parti non poteva gran fatto divenire eccellente, si risolvé di volere che il suo esercizio fusse l'architettura e la prospettiva facendo scene da comedie a tutte l'occasioni che se gli porgessero, alle quali aveva molta inclinazione.
Onde avendo il già detto vescovo di Troia rimesso mano al suo palazzo in via di San Gallo, n'ebbe cura Aristotile, il quale col tempo lo condusse con molta sua lode al termine che si vede.
Intanto avendo fatto Aristotile grande amicizia con Andrea del Sarto suo vicino, dal quale imparò a fare molte cose perfettamente, attendendo con molto studio alla prospettiva, onde poi fu adoperato in molte feste che si fecero da alcune Compagnie di gentiluomini, che in quella tranquillità di vivere erano allora in Firenze.
Onde avendosi a fare recitare dalla Compagnia della Cazzuola in casa di Bernardino di Giordano, al canto a Monteloro, la Mandragola, piacevolissima comedia, fecero la prospettiva, che fu bellissima, Andrea del Sarto et Aristotile.
E non molto dopo alla porta San Friano fece Aristotile un'altra prospettiva in casa Iacopo Fornaciaio, per un'altra comedia del medesimo autore.
Nelle quali prospettive e scene, che molto piacquero all'universale, et in particolare al signor Alessandro et Ipolito de' Medici, che allora erano in Fiorenza sotto la cura di Silvio Passerini cardinale di Cortona, acquistò di maniera nome Aristotile, che di quella fu poi sempre la sua principale professione, anzi come vogliono alcuni, gli fu posto quel sopranome parendo che veramente nella prospettiva fusse quello che Aristotile nella filosofia.
Ma come spesso adiviene, che da una somma pace e tranquillità si viene alle guerre e discordie, venuto l'anno 1527, si mutò in Fiorenza ogni letizia e pace in dispiacere e travagli, perché, essendo allora cacciati i Medici e dopo venuta la peste e l'assedio, si visse molti anni poco lietamente; onde non si facendo allora dagl'artefici alcun bene, si stette Aristotile in que' tempi sempre a casa, attendendo a' suoi studii e capricci.
Ma venuto poi al governo di Fiorenza il duca Alessandro, e cominciando alquanto a rischiarare ogni cosa, i giovani della Compagnia de' Fanciulli della Purificazione, dirimpetto a San Marco, ordinarono di fare una tragicomedia, cavata dei libri de' Re, delle tribolazioni che furono per la violazione di Tamar, la quale avea composta Giovan Maria Primerani.
Per che, dato cura della scena e prospettiva ad Aristotile, egli fece una scena, la più bella (per quanto capeva il luogo) che fusse stata fatta già mai.
E perché oltre al bell'apparato, la tragicomedia fu bella per sé e ben recitata, e molto piacque al duca Alessandro et alla sorella che l'udirono, fecero loro eccellenze liberare l'autore di essa, che era in carcere, con questo che dovesse fare un'altra comedia a sua fantasia.
Il che avendo fatto, Aristotile fece nella loggia del giardino de' Medici in sulla piazza di San Marco una bellissima scena e prospettiva, piena di colonnati, di nicchie, di tabernacoli, statue e molte altre cose capricciose, che in sin'allora in simili apparati non erano state usate, le quali tutte piacquero infinitamente et hanno molto arrichito quella maniera di pitture.
Il soggetto della comedia fu Ioseffo accusato falsamente d'avere voluto violare la sua padrona, e per ciò incarcerato e poi liberato per l'interpretazione del sogno del re.
Essendo dunque anco questa scena molto piaciuta al Duca, ordinò quando fu el tempo, che nelle sue nozze e di madama Margherita d'Austria si facesse una comedia e la scena da Aristotile in via di San Gallo nella Compagnia de' Tessitori congiunta alle case del Magnifico Ottaviano de' Medici.
Al che avendo messo mano Aristotile con quanto studio, diligenza e fatica gli fu mai possibile, condusse tutto quell'apparato a perfezione.
E perché Lorenzo di Pier Francesco de' Medici, avendo egli composta la comedia che si aveva da recitare, avea cura di tutto l'apparato e delle musiche, come quegli che andava sempre pensando in che modo potesse uccidere il Duca, dal quale era cotanto amato e favorito, pensò di farlo capitar male nell'apparato di quella comedia.
Costui dunque, là dove terminavano le scale della prospettiva et il palco della scena, fece da ogni banda delle cortine delle mura gettate in terra diciotto braccia di muro per altezza, per rimurare dentro una stanza a uso di scarsella che fusse assai capace et un palco alto quanto quello della scena, il quale servisse per la musica di voci; e sopra il primo volea fare un altro palco per gravicemboli, organi et altri simili instrumenti, che non si possono così facilmente muovere, né mutare; et il vano dove avea rovinato le mura dinanzi volea che fusse coperto di tele dipinte in prospettiva e di casamenti.
Il che tutto piaceva ad Aristotile, perché arrichiva la scena e lasciava libero il palco di quella dagl'uomini della musica; ma non piaceva già ad esso Aristotile che il cavallo che sosteneva il tetto, il quale era rimaso senza le mura di sotto che il reggevano, si accomodasse altrimenti che con un arco grande e doppio che fusse gagliardissimo, là dove voleva Lorenzo che fusse retto da certi puntelli e non da altro che potesse in niun modo impedire la musica.
Ma conoscendo Aristotile che quella era una trappola da rovinare addosso a una infinità di persone, non si voleva in questo accordare in modo veruno con Lorenzo, il quale in verità non aveva altro animo che d'uccidere in quella rovina il Duca.
Per che, vedendo Aristotile di non poter mettere nel capo a Lorenzo le sue buone ragioni, avea deliberato di volere andarsi con Dio, quando Giorgio Vasari, il quale allora benché giovanetto stava al servizio del duca Alessandro et era creatura d'Ottaviano de' Medici, sentendo mentre dipigneva in quella scena le dispute e dispiaceri che erano fra Lorenzo et Aristotile, si mise destramente di mezzo, et udito l'uno e l'altro et il pericolo che seco portava il modo di Lorenzo, mostrò che senza fare l'arco o impedire in altra guisa il palco delle musiche, si poteva il detto cavallo del tetto assai facilmente accomodare, mettendo due legni doppii di quindici braccia l'uno per la lunghezza del muro; e quelli bene allacciati con spranghe di ferro allato agl'altri cavalli, sopra essi posare sicuramente il cavallo di mezzo, perciò che vi stava sicurissimo come sopra l'arco arebbe fatto né più né meno.
Ma non volendo Lorenzo credere né ad Aristotile, che l'approvava, né a Giorgio che il proponeva, non faceva altro che contraporsi con sue cavillazioni che facevano conoscere il suo cattivo animo ad ognuno, per che, veduto Giorgio che disordine grandissimo poteva di ciò seguire e che questo non era altro che un volere amazzare trecento persone, disse che volea per ogni modo dirlo al Duca, acciò mandasse a vedere e provedere al tutto.
La qual cosa sentendo Lorenzo e dubitando di non scoprirsi, dopo molte parole diede licenzia ad Aristotile che seguisse il parere di Giorgio e così fu fatto.
Questa scena dunque fu la più bella che non solo insino allora avesse fatto Aristotile, ma che fusse stata fatta da altri già mai, avendo in essa fatto molte cantonate di rilievo e contrafatto nel mezzo del foro un bellissimo arco trionfale, finto di marmo, pieno di storie e di statue; senza le strade che sfuggivano e molte altre cose fatte con bellissime invenzioni et incredibile studio e diligenza.
Essendo poi stato morto dal detto Lorenzo il duca Alessandro e creato il duca Cosimo l'anno 1536, quando venne a marito la signora donna Leonora di Tolledo, donna nel vero rarissima e di cioè sì grande et incomparabile valore, che può a qual sia più celebre e famosa nell'antiche storie senza contrasto aguagliarsi e per aventura preporsi, nelle nozze che si fecero a dì 27 di giugno l'anno 1539, fece Aristotile nel cortile grande del palazzo de' Medici, dove è la fonte, un'altra scena che rappresentò Pisa, nella quale vinse se stesso, sempre migliorando e variando.
Onde non è possibile mettere insieme mai né la più variata sorte di finestre e porte, né facciate di palazzi più bizzarre e capricciose, né strade o lontani che meglio sfuggano e facciano tutto quello che l'ordine vuole della prospettiva.
Vi fece oltra di questo il campanile torto del Duomo, la cupola et il tempio tondo di S.
Giovanni con altre cose di quella città.
Delle scale che fece in questa non dirò altro, né quanto rimanessero ingannati, per non parere di dire il medesimo che s'è detto altre volte; dirò bene che questa, la quale mostrava salire da terra in su quel piano, era nel mezzo a otto facce e dalle bande quadra, con artifizio nella sua semplicità grandissimo, perché diede tanta grazia alla prospettiva di sopra, che non è possibile in quel genere veder meglio.
Appresso ordinò con molto ingegno una lanterna di legname a uso d'arco, dietro a tutti i casamenti, con un sole alto un braccio fatto con una palla di cristallo piena d'acqua stillata, dietro la quale erano due torchi accesi che la facevano in modo risplendere, che ella rendeva luminoso il cielo della scena e la prospettiva in guisa che pareva veramente il sole vivo e naturale.
E questo sole dico, avendo intorno un ornamento di razzi d'oro che coprivano la cortina, era di mano in mano per via d'un arganetto, che era tirato con sì fatt'ordine, che a principio della comedia pareva che si levasse il sole, e che salito infino al mezzo dell'arco, scendesse in guisa, che al fine della comedia entrasse sotto e tramontasse.
Compositore della comedia fu Anton Landi gentiluomo fiorentino, e sopra gl'intermedii e la musica fu Giovan Batista Strozzi allora giovane e di bellissimo ingegno.
Ma perché dell'altre cose che adornarono questa comedia, gl'intermedii e le musiche, fu scritto allora a bastanza, non dirò altro se non chi furono coloro che fecero alcune pitture, bastando per ora sapere che l'altre cose condussero il detto Giovan Batista Strozzi, il Tribolo et Aristotile.
Erano sotto la scena della comedia le facciate dalle bande spartite in sei quadri dipinti e grandi braccia otto l'uno e larghi cinque, ciascuno de' quali aveva intorno un ornamento largo un braccio e due terzi, il quale faceva fregiatura intorno et era scorniciato verso le pitture, facendo quattro tondi in croce con due motti latini per ciascuna storia, e nel resto erano imprese a proposito; sopra girava un fregio di rovesci azzurri a torno a torno, salvo che dove era la prospettiva, e sopra questo era un cielo pur di rovesci, che copriva tutto il cortile, nel quale fregio di rovesci, sopra ogni quadro di storia era l'arme d'alcuna delle famiglie più illustri, con le quali avevano avuto parentado la casa de' Medici.
Cominciandomi dunque dalle parte di levante, a canto alla scena nella prima storia, la quale era di mano di Francesco Ubertini detto il Bachiacca, era la tornata d'esilio del Magnifico Cosimo de' Medici, l'impresa erano due colombe sopra un ramo d'oro, e l'arme che era nel fregio era quella del duca Cosimo; nell'altro, il quale era di mano del medesimo, era l'andata a Napoli del Magnifico Lorenzo, l'impresa un pellicano, e l'arme quella del duca Lorenzo, cioè Medici e Savoia; nel terzo quadro, stato dipinto da Pierfrancesco di Iacopo di Sandro, era la venuta di papa Leone X a Fiorenza, portato dai suoi cittadini sotto il baldacchino: l'impresa era un braccio ritto, e l'arme quella del duca Giuliano, cioè Medici e Savoia; nel quarto quadro, di mano del medesimo, era Biegrassa presa dal signor Giovanni, che di quella si vedeva uscire vettorioso: l'impresa era il fulmine di Giove, e l'arme del fregio era quella del duca Alessandro, cioè Austria e Medici; nel quinto, papa Clemente coronava in Bologna Carlo V: l'impresa era un serpe che si mordeva la coda, e l'arme era di Francia e Medici, e questa era di mano di Domenico Conti, discepolo d'Andrea del Sarto, il quale mostrò non valere molto, mancatogli l'aiuto d'alcuni giovani de' quali pensava servirsi, perché tutti i buoni e cattivi erano in opera.
Onde fu riso di lui, che molto presumendosi, si era altre volte con poco giudizio riso d'altri.
Nella sesta storia et ultima da quella banda era di mano del Bronzino la disputa che ebbono tra loro in Napoli et innanzi all'imperatore, il duca Alessandro et i fuoriusciti fiorentini, col fiume Sebeto e molte figure, e questo fu bellissimo quadro e migliore di tutti gl'altri: l'impresa era una palma, e l'arme quella di Spagna.
Dirimpetto alla tornata del Magnifico Cosimo, cioè dall'altra banda, era il felicissimo natale del duca Cosimo: l'impresa era una fenice, e l'arme quella della città di Fiorenza, cioè un giglio rosso.
A canto a questo era la creazione o vero elezzione del medesimo alla degnità del ducato: l'impresa il caduceo di Mercurio, e nel fregio l'arme del castellano della fortezza.
E questa storia, essendo stata disegnata da Francesco Salviati, perché ebbe a partirsi in que' giorni di Fiorenza, fu finita eccellentemente da Carlo Portelli da Loro.
Nella terza erano i tre superbi oratori campani cacciati del senato romano per la loro temeraria dimanda, secondo che racconta Tito Livio nel ventesimo libro della sua storia, i quali in questo luogo significavano tre cardinali venuti invano al duca Cosimo con animo di levarlo del governo: l'impresa era un cavallo alato, e l'arme quella de' Salviati e Medici.
Nell'altro era la presa di Monte Murlo: l'impresa un assiuolo egizzio sopra la testa di Pirro, e l'arme quella di casa Sforza e Medici, nella quale storia, che fu dipinta da Antonio di [Donnino di] Domenico pittore fiero nelle movenze, si vedeva nel lontano una scaramuccia di cavalli tanto bella, che quel quadro, di mano di persona riputata debole, riuscì molto migliore che l'opere d'alcuni altri che erano valentuomini solamente in openione.
Nell'altro si vedeva il duca Cosimo essere investito dalla maestà cesarea di tutte l'insegne et imprese ducali: l'impresa era una pica con foglie d'alloro in bocca, e nel fregio era l'arme de' Medici e di Tolledo, e questa era di mano di Battista Franco viniziano.
Nell'ultimo di tutti questi quadri erano le nozze del medesimo duca Cosimo fatte in Napoli: l'impresa erano due cornici, simbolo antico delle nozze, e nel fregio era l'arme di don Petro di Tolledo viceré di Napoli, e questa, che era di mano del Bronzino, era fatta con tanta grazia, che superò come la prima tutte l'altre storie.
Fu similmente ordinato dal medesimo Aristotile, sopra la loggia, un fregio con altre storiette et arme che fu molto lodato e piacque a sua eccellenza che di tutto il remunerò largamente.
E dopo, quasi ogni anno, fece qualche scena e prospettiva per le comedie che si facevano per carnovale, avendo in quella maniera di pitture tanta pratica et aiuto dalla natura, che aveva disegnato volere scriverne et insegnare, ma perché la cosa gli riuscì più difficile che non s'aveva pensato, se ne tolse giù, e massimamente essendo poi stato da altri che governarono il palazzo fatto fare prospettive dal Bronzino e Francesco Salviati, come si dirà a suo luogo.
Vedendo adunque Aristotile essere passati molti anni, ne' quali non era stato adoperato, se n'andò a Roma a trovare Antonio da San Gallo suo cugino, il quale subito che fu arivato, dopo averlo ricevuto e veduto ben volentieri, lo mise a sollecitare alcune fabriche con provisione di scudi dieci il mese, e dopo lo mandò a Castro, dove stette alcuni mesi di commessione di papa Paulo Terzo a condurre gran parte di quelle muraglie secondo il disegno et ordine d'Antonio.
E conciò fusse che Aristotile, essendosi alevato con Antonio da piccolo et avezzatosi a procedere seco troppo familiarmente, dicono che Antonio lo teneva lontano, perché non si era mai potuto avezare a dirgli voi, di maniera che gli dava del tu, se ben fussero stati dinanzi al Papa non che in un cerchio di signori e gentiluomini, nella maniera che ancor fanno altri fiorentini avezzi all'antica et a dar del tu ad ognuno, come fussero da Norcia, senza sapersi accomodare al vivere moderno secondo che fanno gl'altri, e con l'usanza portano di mano in mano.
La qual cosa quanto paresse strana ad Antonio, avezzo a essere onorato da cardinali et altri grand'uomini, ognuno se lo pensi.
Venuta dunque a fastidio ad Aristotile la stanza di Castro, pregò Antonio che lo facesse tornare a Roma, di che lo compiacque Antonio molto volentieri, ma gli disse che procedesse seco con altra maniera e miglior creanza, massimamente là dove fussero in presenza di gran personaggi.
Un anno di carnovale, facendo in Roma Ruberto Strozzi banchetto a certi signori suoi amici, et avendosi a recitare una comedia nelle sue case, gli fece Aristotile nella sala maggiore una prospettiva (per quanto si poteva in stretto luogo) bellissima e tanto vaga e graziosa, che fra gl'altri il cardinal Farnese, non pure ne restò maravigliato, ma gliene fece fare una nel suo palazzo di San Giorgio, dove è la cancelleria, in una di quelle sale mezzane che rispondono in sul giardino, ma in modo, che vi stesse ferma, per poter ad ogni sua voglia e bisogno servirsene.
Questa dunque fu da Aristotile condotta con quello studio che seppe e poté maggiore, di maniera, che sodisfece al cardinale e gl'uomini dell'arte infinitamente.
Il quale cardinale avendo commesso a Messer Curzio Frangipane che sodisfacesse Aristotile, e colui volendo come discreto, fargli il dovere, et anco non soprapagare, disse a Perino del Vaga et a Giorgio Vasari che stimassero quell'opera.
La qual cosa fu molto cara a Perino, perché portando odio ad Aristotile et avendo per male che avesse fatto quella prospettiva, la quale gli pareva dovere che avesse dovuto toccare a lui come a servitore del cardinale, stava tutto pieno di timore e gelosia, e massimamente essendosi, non pure d'Aristotile, ma anco del Vasari servito in que' giorni il cardinale e donatogli mille scudi per avere dipinto a fresco in cento giorni la sala di Parco Maiori nella cancelleria.
Disegnava dunque Perino per queste cagioni di stimare tanto poco la detta prospettiva d'Aristotile, che s'avesse a pentire d'averla fatta; ma Aristotile avendo inteso chi erano coloro che avevano a stimare la sua prospettiva, andato a trovare Perino, alla bella prima gli cominciò secondo il suo costume a dare per lo capo del tu, per essergli colui stato amico in giovanezza.
Laonde Perino, che già era di mal animo, venne in collera, e quasi scoperse non se n'aveggendo quello che in animo aveva malignamente di fare.
Per che, avendo il tutto raccontato Aristotile al Vasari, gli disse Giorgio che non dubitasse, ma stesse di buona voglia, che non gli sarebbe fatto torto.
Dopo trovandosi insieme per terminare quel negozio Perino e Giorgio, cominciando Perino, come più vecchio, a dire, si diede a biasimare quella prospettiva et a dire ch'ell'era un lavoro di pochi baiocchi, e che avendo Aristotile avuto danari a buon conto e statogli pagati coloro che l'avevano aiutato, egli era più che soprapagato, aggiugnendo: "S'io l'avessi avuta a far io, l'arei fatta d'altra maniera e con altre storie et ornamenti che non ha fatto costui, ma il cardinal toglie sempre a favorire qualcuno che gli fa poco onore".
Delle quali parole et altre conoscendo Giorgio che Perino voleva più tosto vendicarsi dello sdegno, che avea col cardinale, con Aristotile, che con amorevole pietà far riconoscere le fatiche e la virtù d'un buono artefice, con dolci parole disse a Perino: "Ancor ch'io non m'intenda di sì fatte opere più che tanto, avendone nondimeno vista alcuna di mano di chi sa farle, mi pare che questa sia molto ben condotta e degna d'essere stimata molti scudi, e non pochi, come voi dite, baiocchi; e non mi pare onesto che chi sta per gli scrittoi a tirare in su le carte, per poi ridurre in grand'opere tante cose variate in prospettiva, debba essere pagato delle fatiche della notte e da vantaggio del lavoro di molte settimane, nella maniera che si pagano le giornate di coloro che non vi hanno fatica d'animo e di mane e poca di corpo, bastando imitare, senza stillarsi altrimenti il cervello come ha fatto Aristotile.
E quando l'aveste fatta voi, Perino, con più storie et ornamenti, come dite, non l'areste forse tirata con quella grazia che ha fatto Aristotile, il quale in questo genere di pittura è con molto giudizio stato giudicato dal cardinale miglior maestro di voi.
Ma considerate che alla fine non si fa danno, giudicando male e non dirittamente, ad Aristotile, ma all'arte, alla virtù e molto più all'anima, e se vi partirete dall'onesto per alcun vostro sdegno particolare, senza che chi la conosce per buona non biasimerà l'opera, ma il nostro debole giudizio e forse la malignità e nostra cattiva natura.
E chi cerca di gratuirsi ad alcuno, d'aggrandire le sue cose o vendicarsi d'alcuna ingiuria col biasimare o meno stimare di quel che sono le buone opere altrui, è finalmente da Dio e dagl'uomini conosciuto per quello che egli è, cioè per maligno, ignorante, cattivo.
Considerate, voi che fate tutti i lavori di Roma, quello che vi parrebbe se altri stimasse le cose vostre quanto voi fate l'altrui, mettetevi di grazia ne' piè di questo povero vecchio, e vedrete quanto lontano siete dall'onesto e ragionevole".
Furono di tanta forza queste et altre parole che disse Giorgio amorevolmente a Perino, che si venne a una stima onesta e fu sodisfatto Aristotile, il quale con que' danari, con quelli del quadro mandato, come a principio si disse, in Franzia, e con gl'avanzi delle sue provisioni, se ne tornò lieto a Firenze, non ostante che Michelagnolo, il quale gl'era amico, avesse disegnato servirsene nella fabrica che i romani disegnavano di fare in Campidoglio.
Tornato dunque a Firenze Aristotile l'anno 1547, nell'andare a baciar le mani al signor duca Cosimo, pregò sua eccellenza che volesse, avendo messo mano a molte fabriche, servirsi dell'opera sua et aiutarlo; il qual signore, avendolo benignamente ricevuto come ha fatto sempre gli uomini virtuosi, ordinò che gli fusse dato di provisione dieci scudi il mese, et a lui disse che sarebbe adoperato secondo l'occorrenze che venissero; con la quale provisione senza fare altro visse alcuni anni quietamente, e poi si morì d'anni settanta l'anno 1551, l'ultimo dì di maggio, e fu sepolto nella chiesa de' Servi.
Nel nostro libro sono alcuni disegni di mano d'Aristotile, et alcuni ne sono appresso Antonio Particini, fra i quali sono alcune carte tirate in prospettiva bellissime.
Vissero ne' medesimi tempi che Aristotile e furono suoi amici, due pittori, de' quali farò qui menzione brievemente, però che furono tali che fra questi rari ingegni meritano d'aver luogo per alcune opere che fecero, degne veramente d'essere lodate.
L'uno fu Iacone e l'altro Francesco Ubertini cognominato il Bacchiacca.
Iacone adunque non fece molte opere, come quegli che se n'andava in ragionamenti e baie, e si contentò di quel poco che la sua fortuna e pigrizia gli providero, che fu molto meno di quello che arebbe avuto di bisogno.
Ma perché praticò assai con Andrea del Sarto, disegnò benissimo e con fierezza, e fu molto bizzarro e fantastico nella positura delle sue figure, stravolgendole e cercando di farle variate, diferenziate dagl'altri in tutti i suoi componimenti: e nel vero ebbe assai disegno, e quando volle imitò il buono.
In Fiorenza fece molti quadri di Nostre Donne, essendo anco giovane, che molti ne furono mandati in Francia da mercatanti fiorentini; in Santa Lucia della via de' Bardi fece in una tavola Dio Padre, Cristo e la Nostra Donna con altre figure, et a Montici in sul canto della casa di Lodovico Capponi due figure di chiaro scuro intorno a un tabernacolo; in San Romeo dipinse in una tavola la Nostra Donna e due Santi.
Sentendo poi una volta molto lodare le facciate di Pulidoro e Maturino fatte in Roma e dove fece alcuni ritratti, senza che niuno il sapesse, se n'andò a Roma dove stette alcuni mesi acquistando nelle cose dell'arte in modo che riuscì poi in molte cose ragionevole dipintore.
Onde il cavaliere Buondelmonti gli diede a dipignere di chiaro scuro una sua casa, che avea murata dirimpetto a Santa Trinita al principio di borgo Santo Apostolo, nella quale fece Iacone istorie della vita d'Alessandro Magno, in alcune cose molto belle e condotte con tanta grazia e disegno, che molti credono che di tutto gli fussero fatti i disegni da Andrea del Sarto.
E per vero dire, al saggio che di sé diede Iacone in quest'opera, si pensò che avesse a fare qualche gran frutto, ma perché ebbe sempre più il capo a darsi buon tempo et altre baie et a stare in cene e feste con gl'amici che a studiare e lavorare, più tosto andò disamparando sempre che acquistando.
Ma quello che era cosa non so se degna di riso, o di compassione, egli era d'una compagnia d'amici, o più tosto masnada, che sotto nome di vivere alla filosofica, viveano come porci e come bestie, non si lavavano mai né mani, né viso, né capo, né barba, non spazzavano la casa e non rifacevano il letto se non ogni due mesi una volta, apparecchiavano con i cartoni delle pitture le tavole e non beevano se non al fiasco et al boccale, e questa loro meschinità e vivere, come si dice, alla carlona, era da loro tenuta la più bella vita del mondo.
Ma perché il di fuori suole essere indizio di quello di dentro, e dimostrare quali sieno gl'animi nostri, crederò, come s'è detto altra volta, che così fussero costoro lordi e brutti nell'animo come di fuori apparivano.
Nella festa di San Felice in Piazza (cioè rappresentazione della Madonna quando fu anunziata, della quale si è ragionato in altro luogo) la quale fece la Compagnia dell'Orciuolo l'anno 1525, fece Iacone nell'apparato di fuori, secondo che allora si costumava, un bellissimo arco trionfale, tutto isolato, grande e doppio con otto colonne e pilastri, frontespizio molto alto, il quale fece condurre a perfezzione da Piero da Sesto, maestro di legname molto pratico, e dopo vi fece nove storie, parte delle quali dipinse egli, che furono le migliori, e l'altre Francesco Ubertini Bacchiacca; le quali storie furono tutte del Testamento Vecchio e per la maggior parte de' fatti di Moisè.
Essendo poi condotto Iacone da un frate scopetino suo parente a Cortona, dipinse nella chiesa della Madonna, la quale è fuori della città, due tavole a olio: in una è la Nostra Donna con San Rocco, Santo Agostino et altri Santi, e nell'altra un Dio Padre che incorona la Nostra Donna con dua Santi da piè, e nel mezzo è San Francesco che riceve le stimate; le qual due opere furono molte belle.
Tornatosene poi a Firenze, fece a Bongianni Caponi una stanza in volta in Fiorenza, et al medesimo ne accomodò nella villa di Montici alcun'altre; e finalmente, quando Iacopo Puntormo dipinse al duca Alessandro nella villa di Careggi quella loggia di cui si è nella sua vita favellato, gl'aiutò fare la maggior parte di quegl'ornamenti di grottesche et altre cose, dopo le quali si adoperò in certe cose minute, delle quali non accade far menzione.
La somma è che Iacone spese il miglior tempo di sua vita in baie, andandosene in considerazioni et in dir male di questo e di quello, essendo in que' tempi ridotta in Fiorenza l'arte del disegno in una compagnia di persone che più attendevano a far baie et a godere che a lavorare, e lo studio de' quali era ragunarsi per le botteghe et in altri luoghi e quivi malignamente e con loro gerghi attendere a biasimare l'opere d'alcuni che erano eccellenti e vivevano civilmente e come uomini onorati.
Capi di questi erano Iacone, il Piloto orefice et il Tasso legnaiuolo, ma il peggiore di tutti era Iacone, perciò che fra l'altre sue buone parti, sempre nel suo dire mordeva qualcuno di malasorte, onde non fu gran fatto che da cotal compagnia avessero poi col tempo, come si dirà, origine molti mali, né che fusse il Piloto, per la sua mala lingua, ucciso da un giovane; e perché le costoro operazioni e costumi non piacevano agl'uomini da bene, erano, non dico tutti, ma una parte di loro, sempre come i battilani et altri simili a fare alle piastrelle lungo le mura, o per le taverne a godere.
Tornando un giorno Giorgio Vasari da Monte Oliveto, luogo fuor di Firenze, da vedere il reverendo e molto virtuoso don Miniato Pitti, abate allora di quel luogo, trovò Iacone con una gran parte di sua brigata in sul canto de' Medici, il quale pensò, per quanto intesi poi, di volere con qualche sua cantafavola, mezzo burlando e mezzo dicendo da dovero, dire qualche parola ingiuriosa al detto Giorgio.
Per che, entrato egli così a cavallo fra loro gli disse Iacone: "Orbè, Giorgio", disse, "come va ella?".
"Va bene, Iacone mio", rispose Giorgio; "io era già povero come tutti voi et ora mi truovo tre mila scudi o meglio: ero tenuto da voi goffo, et i frati e preti mi tengono valentuomo; io già serviva voialtri, et ora questo famiglio, che è qui, serve me e governa questo cavallo; vestiva di que' panni che vestono i dipintori che son poveri, et ora son vestito di velluto; andava già a piedi et ora vo a cavallo, sì che, Iacon mio, ella va bene affatto; rimanti con Dio." Quando il povero Iacone sentì a un tratto tante cose, perdé ogni invenzione e si rimase senza dir altro tutto stordito, quasi considerando la sua miseria, e che le più volte rimane l'ingannatore a' piè dell'ingannato.
Finalmente essendo stato Iacone da una infermità mal condotto, essendo povero, senza governo e rattrappato delle gambe senza potere aiutarsi, si morì di stento in una sua casipola che aveva in una piccola strada o vero chiasso, detto Coda rimessa, l'anno 1553.
Francesco d'Ubertino detto Bacchiacca, fu diligente dipintore, et ancor che fusse amico di Iacone, visse sempre assai costumatamente e da uomo da bene; fu similmente amico d'Andrea del Sarto e da lui molto aiutato e favorito nelle cose dell'arte.
Fu, dico, Francesco diligente pittore, e particolarmente in fare figure piccole, le quali conduceva perfette e con molta pacienza, come si vede in S.
Lorenzo di Fiorenza, in una predella della storia de' Martiri, sotto la tavola di Giovan Antonio Sogliani, e nella cappella del Crucifisso, in un'altra predella molto ben fatta.
Nella camera di Pier Francesco Borgherini, della quale si è già tante volte fatto menzione, fece il Bacchiacca in compagnia degl'altri molte figurine ne' cassoni e nelle spalliere, che alla maniera sono conosciute come differenti dall'altre; similmente nella già detta anticamera di Giovan Maria Benintendi, fece due quadri molto belli di figure piccole, in uno de' quali, che è il più bello e più copioso di figure, è il Battista che battezza Gesù Cristo nel Giordano.
Ne fece anco molti altri per diversi, che furono mandati in Francia et in Inghilterra.
Finalmente il Bacchiacca andato al servizio del duca Cosimo, perché era ottimo pittore in ritrarre tutte le sorti d'animali, fece a sua eccellenza uno scrittoio tutto pieno d'uccelli di diverse maniere e d'erbe rare, che tutto condusse a olio divinamente.
Fece poi di figure piccole i cartoni di tutti i mesi dell'anno, che furono infinite messe in opera, di bellissimi panni d'arazzo di seta e d'oro, con tanta industria e diligenza, che in quel genere non si può veder meglio da Marco di maestro Giovanni Rosto fiamingo.
Dopo le quali opere condusse il Bacchiacca a fresco la grotta d'una fontana d'acqua che è a Pitti, et in ultimo fece i disegni per un letto che fu fatto di ricami, tutto pieno di storie e di figure piccole che fu la più ricca cosa di letto che di simile opera possa vedersi, essendo stati condotti i ricami pieni di perle e d'altre cose di pregio da Antonio Bacchiacca fratello di Francesco, il quale è ottimo ricamatore.
E perché Francesco morì avanti che fusse finito il detto letto, che ha servito per le felicissime nozze dell'illustrissimo signor principe di Firenze, don Francesco Medici, e della serenissima reina Giovanna d'Austria, egli fu finito in ultimo con ordine e disegno di Giorgio Vasari.
Morì Francesco l'anno 1557 in Firenze.
VITA DI BENVENUTO GAROFALO E DI GIROLAMO DA CARPI PITTORI FERRARESI E D'ALTRI LOMBARDI
In questa parte delle Vite, che noi ora scriviamo, si farà brievemente un raccolto di tutti i migliori e più eccellenti pittori, scultori et architetti che sono stati a' tempi nostri in Lombardia, dopo il Mantegna, il Costa, Boccaccino da Cremona et il Francia bolognese, non potendo fare la vita di ciascuno in particolare, e parendomi a bastanza raccontare l'opere loro; la qual cosa io non mi sarei messo a fare, né a dar di quelle giudizio se io non l'avessi prima vedute.
E perché dall'anno 1542 insino a questo presente 1566 io non aveva, come già feci, scorsa quasi tutta l'Italia, né veduto le dette et altre opere, che in questo spazio di ventiquattro anni sono molto cresciute, io ho voluto, essendo quasi al fine di questa mia fatica, prima che io le scriva, vederle e con l'occhio farne giudizio.
Per che, finite le già dette nozze dell'illustrissimo signor don Francesco Medici, prencipe di Fiorenza e di Siena, mio signore, e della serenissima reina Giovanna d'Austria, per le quali io era stato due anni occupatissimo nel palco della principale sala del loro palazzo, ho voluto senza perdonare a spesa o fatica veruna, rivedere Roma, la Toscana, parte della Marca, l'Umbria, la Romagna, la Lombardia e Vinezia, con tutto il suo dominio, per rivedere le cose vecchie e molte che sono state fatte dal detto anno 1542 in poi.
Avendo io dunque fatto memoria delle cose più notabili e degne d'esser poste in iscrittura, per non far torto alla virtù di molti, né a quella sincera verità che si aspetta a coloro che scrivono istorie di qualunche maniera, senza passione d'animo verrò scrivendo quelle cose che in alcuna parte mancano alle già dette, senza partirmi dall'ordine della storia, e poi darò notizia dell'opere d'alcuni che ancora son vivi e che hanno cose eccellenti operato et operano, parendomi che così richieggia il merito di molti rari e nobili artefici.
Cominciandomi dunque dai ferraresi, nacque Benvenuto Garofalo in Ferrara l'anno 1481 di Piero Tisi, i cui maggiori erano stati per origine padoani.
Nacque, dico, di maniera inclinato alla pittura, che ancor piccolo fanciulletto, mentre andava alla scuola di leggere, non faceva altro che disegnare, dal quale esercizio, ancor che crescesse, il padre, che avea la pittura per una baia, di distorlo non fu mai possibile.
Per che, veduto il padre che bisognava secondare la natura di questo suo figliuolo, il quale non faceva altro giorno e notte che disegnare, finalmente l'acconciò in Ferrara con Domenico Laneto, pittore in quel tempo di qualche nome, se bene avea la maniera secca e stentata; col quale Domenico, essendo stato Benvenuto alcun tempo, nell'andare una volta a Cremona gli venne veduto nella cappella maggiore del Duomo di quella città, fra l'altre cose di mano di Boccaccino Boccacci pittore cremonese, che avea lavorata quella tribuna a fresco, un Cristo, che sedendo in trono et in mezzo a quattro Santi, dà la benedizione.
Per che, piaciutagli quell'opera, si acconciò, per mezzo d'alcuni amici, con esso Boccaccino, il quale allora lavorava nella medesima chiesa pur a fresco alcune storie della Madonna, come si è detto nella sua vita, a concorrenza di Altobello pittore, il quale lavorava nella medesima chiesa dirimpetto a Boccaccino alcune storie di Gesù Cristo, che sono molto belle e veramente degne di essere lodate.
Essendo dunque Benvenuto stato due anni in Cremona et avendo molto acquistato sotto la disciplina di Boccaccino, se n'andò d'anni diciannove a Roma l'anno 1500, dove postosi con Giovanni Baldini pittor fiorentino, assai pratico, et il quale aveva molti bellissimi disegni di diversi maestri eccellenti, sopra quelli, quando tempo gl'avanzava e massimamente la notte, si andava continuamente esercitando.
Dopo, essendo stato con costui quindici mesi et avendo veduto con molto suo piacere le cose di Roma, scorso che ebbe un pezzo per molti luoghi d'Italia, si condusse finalmente a Mantova, dove appresso Lorenzo Costa pittore stette due anni, servendolo con tanta amorevolezza, che colui per rimunerarlo lo acconciò in capo a due anni con Francesco Gonzaga marchese di Mantoa, col quale anco stava esso Lorenzo.
Ma non vi fu stato molto Benvenuto, che amalando Piero suo padre in Ferrara, fu forzato tornarsene là, dove stette poi del continuo quattro anni lavorando molte cose da sé solo et alcune in compagnia de' Dossi.
Mandando poi l'anno 1505 per lui Messer Ieronimo Sagrato, gentiluomo ferrarese, il quale stava in Roma, Benvenuto vi tornò di bonissima voglia e massimamente per vedere i miracoli che si predicavano di Raffaello da Urbino e della cappella di Giulio stata dipinta dal Buonarroto.
Ma giunto Benvenuto in Roma, restò quasi disperato, non che stupito nel vedere la grazia e la vivezza che avevano le pitture di Raffaello e la profondità del disegno di Michelagnolo, onde malediva le maniere di Lombardia e quella che avea con tanto studio e stento imparato in Mantoa, e volentieri, se avesse potuto, se ne sarebbe smorbato.
Ma poi che altro non si poteva, si risolvé a volere disimparare e, dopo la perdita di tanti anni, di maestro divenire discepolo.
Per che, cominciato a disegnare di quelle cose che erano migliori e più difficili, et a studiare con ogni possibile diligenza quelle maniere tanto lodate, non attese quasi ad altro per ispazio di due anni continui.
Per lo che mutò in tanto la pratica e la maniera cattiva in buona, che n'era tenuto dagl'artefici conto; e, che fu più, tanto adoperò col sottomettersi e con ogni qualità d'amorevole ufficio, che divenne amico di Raffaello da Urbino, il quale, come gentilissimo e non ingrato, insegnò molte cose, aiutò e favorì sempre Benvenuto; il quale, se avesse seguitato la pratica di Roma, senz'alcun dubbio arebbe fatto cose degne del bell'ingegno suo.
Ma perché fu costretto, non so per qual accidente, tornare alla patria, nel pigliare licenza da Raffaello gli promise, secondo che egli il consigliava, di tornare a Roma, dove l'assicurava Raffaello che gli darebbe più che non volesse da lavorare et in opere onorevoli.
Arrivato dunque Benvenuto in Ferrara, assettato che egli ebbe le cose e spedito la bisogna che ve l'aveva fatto venire, si metteva in ordine per tornarsene a Roma, quando il signor Alfonso duca di Ferrara lo mise a lavorare nel castello, in compagnia d'altri pittori ferraresi, una cappelletta; la quale finita gli fu di nuovo interrotto il partirsi dalla molta cortesia di Messer Antonio Costabili, gentiluomo ferrarese di molta autorità, il quale gli diede a dipignere nella chiesa di Santo Andrea all'altar maggiore una tavola a olio.
La quale finita, fu forzato farne un'altra in San Bertolo, convento de' monaci cistercensi, nella quale fece l'adorazione de' Magi, che fu bella e molto lodata.
Dopo ne fece un'altra in Duomo piena di varie e molte figure, e due altre, che furono poste nella chiesa di Santo Spirito, in una delle quali è la Vergine in aria col Figliuolo in collo e di sotto alcun'altre figure, e nell'altra la Natività di Gesù Cristo.
Nel fare delle quali opere, ricordandosi alcuna volta d'avere lasciato Roma, ne sentiva dolore estremo et era risoluto per ogni modo di tornarvi, quando sopravenendo la morte di Piero suo padre, gli fu rotto ogni disegno.
Perciò che, trovandosi alle spalle una sorella da marito et un fratello di quattordici anni e le sue cose in disordine, fu forzato a posare l'animo et accomodarsi ad abitare la patria.
E così, avendo partita la compagnia con i Dossi, i quali avevano insino allora con esso lui lavorato, dipinse da sé nella chiesa di San Francesco in una cappella la ressurezione di Lazzero, piena di varie e buone figure, colorita vagamente e con attitudini proprie e vivaci che molto gli furono comendate.
In un'altra cappella della medesima chiesa dipinse l'uccisione de' fanciulli innocenti fatti crudelmente morire da Erode, tanto bene e con sì fiere movenze de' soldati e d'altre figure, che fu una maraviglia.
Vi sono oltre ciò molto bene espressi nella varietà delle teste diversi affetti, come nelle madre e balie la paura, ne' fanciulli la morte, negl'uccisori la crudeltà et altre cose molte che piacquero infinitamente; ma egli è ben vero che in facendo quest'opera, fece Benvenuto quello che insin allora non era mai stato usato in Lombardia: cioè fece modelli di terra per veder meglio l'ombre et i lumi e si servì d'un modello di figura fatto di legname, gangherato in modo che si snodava per tutte le bande et il quale accomodava a suo modo, con panni addosso et in varie attitudini.
Ma quello che importa più, ritrasse dal vivo e naturale ogni minuzia, come quelli che conosceva la diritta essere imitare et osservare il naturale.
Finì per la medesima chiesa la tavola d'una cappella, et in una facciata dipinse a fresco Cristo preso dalle turbe nell'orto.
In S.
Domenico della medesima città dipinse a olio due tavole: in una è il miracolo della croce e Santa Elena, e nell'altra è San Piero martire con buon numero di bellissime figure; et in questa pare che Benvenuto variasse assai dalla sua prima maniera, essendo più fiera e fatta con manco affettazione.
Fece alle monache di S.
Salvestro in una tavola Cristo che in sul monte ora al Padre mentre i tre Apostoli più abbasso si stanno dormendo.
Alle monache di San Gabriello fece una Nunziata, et a quelle di Santo Antonio, nella tavola dell'altare maggiore, la Ressurezione di Cristo.
Ai frati ingesuati, nella chiesa di San Girolamo all'altare maggiore, Gesù Cristo nel presepio con un coro d'Angeli in una nuvola, tenuto bellissimo.
In Santa Maria del Vado è di mano del medesimo, in una tavola molto bene intesa e colorita, Cristo ascendente in cielo e gli Apostoli che lo stanno mirando; nella chiesa di San Giorgio, luogo fuor della città de' monaci di Monte Oliveto, dipinse in una tavola a olio i Magi che adorano Cristo e gl'offeriscono mirra, incenso et oro.
E questa è delle migliori opere che facesse costui in tutta sua vita, le quali tutte cose molto piacquero ai ferraresi e furono cagione che lavorò quadri per le case loro quasi senza numero e molti altri a' monasterii e fuori della città, per le castella e ville all'intorno, e fra l'altre al Bondeno dipinse in una tavola la Ressurezione di Cristo.
E finalmente lavorò a fresco nel refettorio di Santo Andrea, con bella e capricciosa invenzione, molte figure che accordano le cose del Vecchio Testamento col Nuovo; ma perché l'opere di costui furono infinite, basti avere favellato di queste, che sono le migliori.
Avendo da Benvenuto avuto i primi principii della pittura Girolamo da Carpi, come si dirà nella sua vita, dipinsero insieme la facciata della casa de' Muzzarelli nel borgo nuovo, parte di chiaro scuro, parte di colori, con alcune cose finte di bronzo; dipinsero parimente insieme fuori e dentro il palazzo di Copara, luogo da diporto del Duca di Ferrara, al quale signore fece molte altre cose Benvenuto e solo et in compagnia d'altri pittori.
Essendo poi stato lungo tempo in proposito di non voler pigliar donna, per essersi in ultimo diviso dal fratello e venutogli a fastidio lo star solo, la prese di quarantotto anni, né l'ebbe affatica tenuta un anno, che amalatosi gravemente perdé la vista dell'occhio ritto e venne in dubbio e pericolo dell'altro.
Pure, raccomandandosi a Dio, e fatto voto di vestire, come poi fece sempre, di bigio, si conservò per la grazia di Dio in modo la vista dell'altr'occhio, che l'opere sue fatte nell'età di sessantacinque anni erano tanto ben fatte e con pulitezza e diligenza, che è una maraviglia; di maniera che mostrando una volta il Duca di Ferrara a papa Paulo Terzo un trionfo di Bacco a olio lungo cinque braccia e la calunnia d'Apelle, fatti da Benvenuto in detta età con i disegni di Raffaello da Urbino, i quali quadri sono sopra certi camini di sua eccellenza, restò stupefatto quel Pontefice che un vecchio di quell'età con un occhio solo avesse condotti lavori così grandi e così begli.
Lavorò Benvenuto venti anni continui, tutti i giorni di festa, per l'amor di Dio, nel monasterio delle monache di San Bernardino, dove fece molti lavori d'importanza a olio, a tempera et a fresco; il che fu certo maraviglia e gran segno della sincera e sua buona natura, non avendo in quel luogo concorrenza et avendovi nondimeno messo non manco studio e diligenza di quello che arebbe fatto in qualsivoglia altro più frequentato luogo.
Sono le dette opere di ragionevole componimento, con bell'arie di teste, non intrigate e fatte certo con dolce e buona maniera.
A molti discepoli che ebbe Benvenuto, ancor che insegnasse tutto quello che sapeva più che volentieri per farne alcuno eccellente, non fece mai in loro frutto veruno, et in cambio di essere da loro della sua amorevolezza ristorato, almeno con gratitudine d'animo, non ebbe mai da essi se non dispiaceri, onde usava dire non avere mai avuto altri nemici che i suoi discepoli e garzoni.
L'anno 1550, essendo già vecchio, ritornatogli il suo male degli occhi, rimase cieco del tutto, e così visse nove anni, la quale disaventura sopportò con paziente animo, rimettendosi al tutto nella volontà di Dio.
Finalmente pervenuto all'età di 78 anni, parendogli pur troppo essere in quelle tenebre vivuto, e rallegrandosi della morte con speranza d'aver a godere la luce eterna, finì il corso della vita l'anno 1559, a dì 6 di settembre, laciando un figliuolo maschio chiamato Girolamo, che è persona molto gentile, et una femmina.
Fu Benvenuto persona molto da bene, burlevole, dolce nella conversazione e paziente e quieto in tutte le sue avversità; si dilettò in giovanezza della scherma e di sonare il liuto, e fu nell'amicizie ufficiosissimo et amorevole oltre misura; fu amico di Giorgione da Castel Franco pittore, di Tiziano da Cador e di Giulio Romano, et in generale affezionatissimo a tutti gl'uomini dell'arte, et io ne posso far fede, il quale due volte ch'io fui al suo tempo a Ferrara, ricevei da lui infinite amorevolezze e cortesie.
Fu sepolto onorevolmente nella chiesa di Santa Maria del Vado, e da molti virtuosi con versi e prose, quanto la sua virtù meritava, onorato; e perché non si è potuto avere il ritratto di esso Benvenuto, si è messo nel principio di queste vite di pittori lombardi quello di Girolamo da Carpi, la cui vita sotto questa scriveremo.
Girolamo dunque, detto da Carpi, il quale fu ferrarese e discepolo di Benvenuto, fu a principio da Tommaso suo padre, il quale era pittore di scuderia, adoperato in bottega a dipignere forzieri, scabelli, cornicioni et altri sì fatti lavori di dozzina.
Avendo poi Girolamo sotto la disciplina di Benvenuto fatto alcun frutto, pensava d'avere dal padre essere levato da que' lavori meccanici, ma non ne facendo Tommaso altro, come quegli che aveva bisogno di guadagnare, si risolvé Girolamo partirsi da lui ad ogni modo.
E così, andato a Bologna, ebbe appresso i gentiluomini di quella città assai buona grazia, perciò che, avendo fatto alcuni ritratti che somigliarono assai, si acquistò tanto credito, che guadagnando bene, aiutava più il padre stando in Bologna che non avea fatto dimorando a Ferrara.
In quel tempo, essendo stato portato a Bologna in casa de' signori conti Ercolani un quadro di man d'Antonio da Coreggio, nel quale Cristo in forma d'ortolano appare a Maria Maddalena, lavorato tanto bene e morbidamente quanto più non si può credere, entrò di modo nel cuore a Girolamo quella maniera, che non bastandogli avere ritratto quel quadro, andò a Modana per vedere l'altre opere di mano del Coreggio, là dove arrivato, oltre all'essere restato nel vederle tutto pieno di maraviglia, una fra l'altre lo fece rimanere stupefatto, e questa fu quel gran quadro, che è cosa divina, nel quale è una Nostra Donna che ha un Putto in collo, il quale sposa Santa Caterina, un San Bastiano, et altre figure con arie di teste tanto belle, che paiono fatte in paradiso; né è possibile vedere i più bei capegli, né le più belle mani o altro colorito più vago e naturale.
Essendo stato dunque da Messer Francesco Grilenzoni dottore e padrone del quadro, il quale fu amicissimo del Coreggio, conceduto a Girolamo poterlo ritrarre, egli il ritrasse con tutta quella diligenza che maggiore si può imaginare; dopo fece il simile della tavola di San Piero martire, la quale avea dipinta il Coreggio a una compagnia di secolari che la tengono, sì come ella merita, in pregio grandissimo, essendo massimamente in quella, oltre all'altre figure, un Cristo fanciullo in grembo alla madre che pare che spiri, et un S.
Piero martire bellissimo et un'altra tavoletta di mano del medesimo fatta alla Compagnia di San Bastiano, non men bella di questa.
Le quali tutte opere essendo state ritratte da Girolamo, furono cagione che egli migliorò tanto la sua prima maniera, ch'ella non pareva più dessa, né quella di prima.
Da Modana andato Girolamo a Parma, dove avea inteso esser alcune opere del medesimo Coreggio, ritrasse alcuna delle pitture della tribuna del Duomo, parendogli lavoro straordinario, cioè il bellissimo scorto d'una Madonna che saglie in cielo circondata da una multitudine d'Angeli, gl'Apostoli che stanno a vederla salire, e quattro Santi protettori di quella città che sono nelle nicchie: San Giovanni Battista che ha un agnello in mano, San Ioseffo sposo della Nostra Donna, San Bernardo degl'Uberti fiorentino, cardinale e vescovo di quella città, et un altro vescovo.
Studiò similmente Girolamo in San Giovanni Evangelista le figure della cappella maggiore nella nicchia di mano del medesimo Coreggio, cioè la incoronazione di Nostra Donna, San Giovanni Evangelista, il Battista, San Benedetto, San Placido et una moltitudine d'Angeli che a questi sono intorno, e le maravigliose figure che sono nella chiesa di San Sepolcro, alla cappella di San Ioseffo, tavola di pittura divina.
E perché è forza che coloro ai quali piace fare alcuna maniera e la studiano con amore, la imparino, almeno in qualche parte, onde aviene ancora che molti divengono più eccellenti che i loro maestri non sono stati, Girolamo prese assai della maniera del Coreggio.
Onde, tornato a Bologna, l'imitò sempre, non studiando altro che quella e la tavola, che in quella città dicemo essere di mano di Raffaello da Urbino.
E tutti questi particolari seppi io dallo stesso Girolamo, che fu molto mio amico, l'anno 1550 in Roma et il quale meco si dolse più volte d'aver consumato la sua giovanezza et i migliori anni in Ferrara e Bologna e non in Roma o altro luogo, dove averebbe fatto senza dubbio molto maggiore acquisto.
Fece anco non piccol danno a Girolamo nelle cose dell'arte l'avere atteso troppo a' suoi amorosi et a sonare il liuto in quel tempo che arebbe potuto fare acquisto nella pittura.
Tornato dunque a Bologna, oltre a molti altri, ritrasse Messer Onofrio Bartolini fiorentino che allora era in quella città a studio, et il quale fu poi arcivescovo di Pisa, la quale testa, che è oggi appresso gli eredi di detto Messer Noferi, è molto bella e di graziosa maniera.
Lavorando in quel tempo a Bologna un maestro Biagio pittore, cominciò costui, vedendo Girolamo venire in buon credito, a temere che non gli passasse inanzi e gli levasse tutto il guadagno.
Per che, fatto seco amicizia con buona occasione, per ritardarlo dall'operare, gli divenne compagno e dimestico di maniera, che cominciarono a lavorare di compagnia e così continuarono un pezzo.
La qual cosa, come fu di danno a Girolamo nel guadagno, così gli fu parimente nelle cose dell'arte: perciò che seguitando le pedate di maestro Biagio che lavorava di pratica e cavava ogni cosa dai disegni di questo e di quello, non metteva anch'egli più alcuna diligenza nelle sue pitture.
Ora, avendo nel monasterio di San Michele in Bosco, fuor di Bologna, un frate Antonio, monaco di quel luogo, fatto un San Bastiano grande quanto il vivo, a Scaricalasino in un convento del medesimo ordine di Monte Oliveto una tavola a olio et a Monte Oliveto Maggiore alcune figure in fresco nella cappella dell'Orto di Santa Scolastica, voleva l'abate Ghiaccino, che l'aveva fatto fermare quell'anno in Bologna, che egli dipignesse la sagrestia nuova di quella lor chiesa.
Ma frate Antonio, che non si sentiva da fare sì grande opera et al quale forse non molto piaceva durare tanta fatica, come bene spesso fanno certi di così fatti uomini, operò di maniera, che quell'opera fu allogata a Girolamo et a maestro Biagio, i quali la dipinsero tutta a fresco, facendo negli spartimenti della volta alcuni putti et Angeli e nella testa, di figure grandi, la storia della Trasfigurazione di Cristo, servendosi del disegno di quella che fece in Roma a S.
Pietro a Montorio Raffaello da Urbino, e nelle facciate feciono alcuni Santi, nei quali è pur qualche cosa di buono.
Ma Girolamo, accortosi che lo stare in compagnia di maestro Biagio non faceva per lui, anzi, che era la sua espressa rovina, finita quell'opera disfece la compagnia e cominciò a far da sé.
E la prima opera che fece da sé solo fu nella chiesa di San Salvadore, nella cappella di S.
Bastiano, una tavola nella quale si portò molto bene; ma dopo, intesa da Girolamo la morte del padre, se ne tornò a Ferrara, dove per allora non fece altro che alcuni ritratti et opere di poca importanza.
Intanto venendo Tiziano Vecellio a Ferrara a lavorare, come si dirà nella sua vita, alcune cose al duca Alfonso, in uno stanzino o vero studio, dove avea prima lavorato Gian Bellino alcune cose et il Dosso una baccanaria d'uomini tanto buona, che quando non avesse mai fatto altro, per questa merita lode e nome di pittore eccellente; Girolamo, mediante Tiziano et altri, cominciò a praticare in corte del Duca, dove ricavò, quasi per dar saggio di sé prima che altro facesse, la testa del duca Ercole di Ferrara da una di mano di Tiziano, e questa contrafece tanto bene, ch'ella pareva la medesima che l'originale, onde fu mandata come opera lodevole in Francia.
Dopo, avendo Girolamo tolto moglie et avuto figliuoli, forse troppo prima che non doveva, dipinse in S.
Francesco di Ferrara negl'angoli delle volte a fresco i quattro Evangelisti, che furono assai buone figure.
Nel medesimo luogo fece un fregio intorno intorno alla chiesa, che fu copiosa e molto grande opera, essendo pieno di mezze figure e di puttini intrecciati insieme assai vagamente.
Nella medesima chiesa fece in una tavola un Santo Antonio in Padoa con altre figure et in un'altra la Nostra Donna in aria con due Angeli, che fu posta all'altare della signora Giulia Muzzerella, che fu ritratta in essa da Girolamo molto bene.
In Rovigo nella chiesa di S.
Francesco dipinse il medesimo l'apparizione dello Spirito Santo in lingue di fuoco, che fu opera lodevole per lo componimento e bellezza delle teste; et in Bologna dipinse nella chiesa di S.
Martino in una tavola i tre Magi con bellissime teste e figure, et a Ferrara, in compagnia di Benvenuto Garofalo, come si è detto, la facciata della casa del signor Battista Muzzarelli, e parimente il palazzo di Coppara, villa del Duca, appresso a Ferrara dodici miglia, et in Ferrara similmente la facciata di Piero Soncini nella piazza di verso le pescherie, facendovi la presa della Goletta da Carlo Quinto imperadore.
Dipinse il medesimo Girolamo in San Polo, chiesa de' frati Carmelitani nella medesima città, in una tavoletta a olio un San Girolamo con due altri Santi grandi quanto il naturale, e nel palazzo del Duca un quadro grande con una figura quanto il vivo, finta, per una Occasione, con bella vivezza, movenza, grazia e buon rilievo.
Fece anco una Venere ignuda a giacere e grande quanto il vivo, con Amore appresso, la quale fu mandata al re Francesco di Francia a Parigi, et io, che la vidi in Ferrara l'anno 1540, posso con verità affermare ch'ella fusse bellissima.
Diede anco principio, e ne fece gran parte, agl'ornamenti del reffettorio di San Giorgio, luogo in Ferrara de' monaci di Monte Oliveto; ma perché lasciò imperfetta quell'opera, l'ha oggi finita Pellegrino Pellegrini, dipintore bolognese.
Ma chi volesse far menzione di quadri particolari che Girolamo fece a molti signori e gentiluomini, farebbe troppo maggiore di quello che è il disiderio nostro la storia, però dico di due solamente, che sono bellissimi: da uno dunque che n'ha il cavalier Boiardo in Parma, bello a maraviglia, di mano del Correggio, nel quale la Nostra Donna mette una camicia indosso a Cristo fanciulletto, ne ritrasse Girolamo uno a quello tanto simile che pare desso veramente, et un altro ne ritrasse da uno del Parmigiano, il quale è nella Certosa di Pavia, nella cella del vicario, così bene e con tanta diligenza, che non si può veder minio più sottilmente lavorato et altri infiniti lavorati con molta diligenza.
E perché si dilettò Girolamo e diede anco opera all'architettura, oltre molti disegni di fabriche che fece per servigio di molti privati, servì in questo particolarmente Ippolito cardinale di Ferrara, il quale avendo comperato in Roma a Monte Cavallo il giardino che fu già del cardinale di Napoli, con molte vigne di particolari all'intorno, condusse Girolamo a Roma, acciò lo servisse non solo nelle fabriche, ma negl'acconcimi di legname veramente regii del detto giardino.
Nel che si portò tanto bene che ne restò ognuno stupefatto, e nel vero non so chi altri si fusse potuto portare meglio di lui in fare di legnami (che poi sono stati coperti di bellissime verzure) tante bell'opere e sì vagamente ridotte in diverse forme et in diverse maniere di tempii, nei quali si veggiono oggi accommodate le più belle e ricche statue antiche che sieno in Roma: parte intere e parte state restaurate da Valerio Cioli scultore fiorentino e da altri.
Per le quali opere essendo in Roma venuto Girolamo in bonissimo credito, fu dal detto cardinale suo signore, che molto l'amava, messo l'anno 1550 al servizio di papa Giulio III, il quale lo fece architetto sopra le cose di Belvedere, dandogli stanze in quel luogo e buona provisione.
Ma perché quel Pontefice non si poteva mai in simili cose contentare, e massimamente quando a principio s'intendeva pochissimo del disegno e non voleva la sera quello che gl'era piacciuto la mattina, e perché Girolamo avea sempre a contrastare con certi architetti vecchi, ai quali parea strano vedere un uomo nuovo e di poca fama essere stato preposto a loro, si risolvé, conosciuta l'invidia e forse malignità di quelli, essendo anco di natura più tosto freddo che altrimenti, a ritirarsi; e così per lo meglio se ne tornò a Monte Cavallo al servizio del cardinale.
Della qual cosa fu Girolamo da molti lodato, essendo vita troppo disperata aver tutto il giorno e per ogni minima cosa a star a contendere con questo e quello; e come diceva egli, è tal volta meglio godere la quiete dell'animo con l'acqua e col pane, che stentare nelle grandezze e negl'onori.
Fatto dunque che ebbe Girolamo al cardinale suo signore un molto bel quadro che a me, il quale il vidi, piacque sommamente, essendo già stracco se ne tornò con esso lui a Ferrara a godersi la quiete di casa sua con la moglie e con i figliuoli, lasciando le speranze e le cose della fortuna nelle mani de' suoi avversarii, che da quel Papa cavarono il medesimo che egli e non altro.
Dimorandosi dunque in Ferrara, per non so che accidente essendo abruciata una parte del castello, il duca Ercole diede cura di rifarlo a Girolamo, il quale l'accomodò molto bene e l'adornò secondo che si può in quel paese, che ha gran mancamento di pietre da far conci et ornamenti, onde meritò esser sempre caro a quel signore, che liberalmente riconobbe le sue fatiche.
Finalmente dopo aver fatto Girolamo queste e molte altre opere si morì d'anni 55 l'anno 1556 e fu sepolto nella chiesa degl'Angeli a canto alla sua donna.
Lasciò due figliuole femine e tre maschi, cioè Giulio, Annibale et un altro.
Fu Girolamo lieto uomo e nella conversazione molto dolce e piacevole, nel lavorare alquanto agiato e lungo; fu di mezzana statura e si dilettò oltre modo della musica e de' piaceri amorosi più forse che non conviene.
Ha seguitato dopo lui le fabriche di que' signori Galasso ferrarese architetto, uomo di bellissimo ingegno, e di tanto giudizio nelle cose d'architettura, che per quanto si vede nell'ordine de' suoi disegni averebbe mostro molto più che non ha il suo valore, se in cose grandi fusse stato adoperato.
È stato parimente ferrarese e scultore eccellente, maestro Girolamo, il quale abitando in Ricanati ha, dopo Andrea Contucci suo maestro, lavorato molte cose di marmo a Loreto e fatti molti ornamenti intorno a quella cappella e casa della Madonna.
Costui dico, dopo che di là si partì il Tribolo che fu l'ultimo, avendo finito la maggiore storia di marmo, che è dietro alla detta cappella, dove gl'Angeli portano di Schiavonia quella casa nella selva di Loreto, ha in quel luogo continuamente dal 1534 insino all'anno 1560 lavorato, e vi ha fatto di molte opere; la prima delle quali fu un profeta di braccia tre e mezzo a sedere, il quale fu messo, essendo bella e buona figura, in una nicchia che è volta verso ponente; la quale statua essendo piaciuta, fu cagione che egli fece poi tutti gl'altri profeti, da uno in fuori che è verso levante e dalla banda di fuori verso l'altare, il quale è di mano di Simone Cioli da Settignano, discepolo anch'egli d'Andrea Sansovino.
Il restante dico de' detti profeti sono di mano di maestro Girolamo e sono fatti con molta diligenza, studio e buona pratica.
Alla cappella del Sagramento ha fatto il medesimo li candelieri di bronzo, alti tre braccia in circa, pieni di fogliami, figure tonde di getto, tanto ben fatte che sono cosa maravigliosa.
Et un suo fratello, che in simili cose di getto è valentuomo, ha fatto in compagnia di maestro Girolamo in Roma molte altre cose, e particolarmente un tabernacolo grandissimo di bronzo per papa Paulo Terzo, il quale doveva essere posto nella cappella del palazzo di Vaticano, detta la Paulina.
Fra i modanesi ancora sono stati in ogni tempo artefici eccellenti nelle nostre arti, come si è detto in altri luoghi e come si vede in quattro tavole, delle quali non si è fatto al suo luogo menzione per non sapersi il maestro, le quali, cento anni sono, furono fatte a tempera in quella città e sono secondo que' tempi bellissime e lavorate con diligenza; la prima è all'altare maggiore di San Domenico, e l'altre alle cappelle, che sono nel tramezzo di quella chiesa.
Et oggi vive della medesima patria un pittore chiamato Niccolò, il quale fece in sua giovanezza molti lavori a fresco intorno alle beccherie, che sono assai belli, et in S.
Piero luogo de' monaci Neri, all'altar maggiore in una tavola, la decollazione di San Piero e San Paulo, imitando nel soldato che taglia loro la testa una figura simile che è in Parma di mano d'Antonio da Coreggio, in San Giovanni Evangelista, lodatissima.
E perché Niccolò è stato più raro nelle cose a fresco che nell'altre maniere di pittura, oltre a molte opere che ha fatto in Modana et in Bologna, intendo che ha fatto in Francia, dove ancora vive, pitture rarissime, sotto Messer Francesco Primaticcio abbate di San Martino, con i disegni del quale ha fatto Niccolò in quelle parti molte opere, come si dirà nella vita di esso Primaticcio.
Giovambattista, parimente emulo di detto Niccolò, ha molte cose lavorato in Roma et altrove, ma particolarmente in Perugia, dove ha fatto in San Francesco, alla cappella del signor Ascanio della Cornia, molte pitture della vita di Santo Andrea Apostolo, nelle quali si è portato benissimo.
A concorrenza del quale Niccolò, Arrigo fiamingo, maestro di finestre di vetro, ha fatto nel medesimo luogo una tavola a olio, dentrovi la storia de' Magi, che sarebbe assai bella se non fusse alquanto confusa e troppo carica di colori, che s'azuffano insieme e non la fanno sfuggire; ma meglio si è portato costui in una finestra di vetro disegnata e dipinta, da lui fatta in San Lorenzo della medesima città alla cappella di San Bernardino.
Ma tornando a Battista, essendo ritornato dopo queste opere a Modana, ha fatto nel medesimo San Piero, dove Niccolò fece la tavola, due grandi storie dalle bande de' fatti di San Piero e San Paulo, nelle quali si è portato bene oltre modo.
Nella medesima città di Modana sono anco stati alcuni scultori degni d'essere fra i buoni artefici annoverati, perciò che oltre al Modanino, del quale si è in altro luogo ragionato, vi è stato un maestro chiamato il Modana, il quale in figure di terra cotta, grandi quanto il vivo e maggiori, ha fatto bellissime opere e fra l'altre una cappella in San Domenico di Modana, et in mezzo del dormentorio di San Piero a' monaci Neri pure in Modana, una Nostra Donna, San Benedetto, Santa Iustina et un altro Santo, alle quali tutte figure ha dato tanto bene il colore di marmo, che paiono proprio di quella pietra, senzaché tutte hanno bell'aria di teste, bei panni et una proporzione mirabile.
Il medesimo ha fatto in San Giovanni Vangelista di Parma nel dormentorio le medesime figure, et in San Benedetto di Mantova ha fatto buon numero di figure tutte tonde e grandi quanto il naturale, fuor della chiesa, per la facciata e sotto il portico in molte nicchie, tanto belle, che paiono di marmo.
Similmente Prospero Clemente, scultore modanese, è stato ed è valentuomo nel suo esercizio, come si può vedere nel Duomo di Reggio nella sepoltura del vescovo Rangone di mano di costui, nella quale è la statua di quel prelato, grande quanto il naturale, a sedere con due putti molto ben condotti, la quale sepoltura gli fece fare il signor Ercole Rangone.
Parimente in Parma nel Duomo sotto le volte è di mano di Prospero la sepoltura del beato Bernardo degl'Uberti fiorentino, cardinale e vescovo di quella città, che fu finita l'anno 1548 e molto lodata.
Parma similmente ha avuto in diversi tempi molti eccellenti artefici e begl'ingegni come si è detto di sopra, perciò che oltre a un Cristofano Castelli, il quale fece una bellissima tavola in Duomo l'anno 1499, et oltre a Francesco Mazzuoli del quale si è scritto la vita, vi sono stati molti altri valentuomini.
Il quale avendo fatto come si è detto alcune cose nella Madonna della Steccata e lasciato alla morte sua quell'opera imperfetta, Giulio Romano, fatto un disegno colorito in carta, il quale in quel luogo si vede per ognuno, ordinò che un Michelagnolo Anselmi sanese per origine, ma fatto parmigiano, essendo buon pittore, mettesse in opera quel cartone, nel quale è la coronazione di Nostra Donna: il che fece colui certo ottimamente, onde meritò che gli fusse allogata una nicchia grande di quattro grandissime che ne sono in quel tempio, dirimpetto a quella dove avea fatto la sopra detta opera col disegno di Giulio; per che, messovi mano, vi condusse a buon termine l'adorazione de' Magi con buon numero di belle figure, facendo nel medesimo arco piano, come si disse nella vita del Mazzuoli, e le vergini prudenti e lo spartimento de' rosoni di rame.
Ma restandogli anche a fare quasi un terzo di quel lavoro, si morì, onde fu fornito da Bernardo Soiaro cremonese, come diremo poco appresso.
Di mano del detto Michelagnolo è nella medesima città in San Francesco la capella della Concezzione, et in San Pier martire alla capella della croce una gloria celeste.
Ieronimo Mazzuoli, cugino di Francesco, come s'è detto, seguitando l'opera nella detta chiesa della Madonna, stata lasciata dal suo parente imperfetta, dipinse un arco con le vergini prudenti e l'ornamento de' rosoni; e dopo nella nicchia di testa, dirimpetto alla porta principale, dipinse lo Spirito Santo discendente in lingue di fuoco sopra gl'Apostoli, e nell'altro arco piano et ultimo la Natività di Gesù Cristo, la quale, non essendo ancor scoperta, ha mostrata a noi questo anno 1566 con molto nostro piacere, essendo per opera a fresco bellissima veramente.
La tribuna grande di mezzo della medesima Madonna della Steccata, la quale dipigne Bernardo Soiaro pittore cremonese, sarà anch'ella, quando sarà finita, opera rara e da poter star con l'altre che sono in quel luogo; delle quali non si può dire che altri sia stato cagione, che Francesco Mazzuola, il quale fu il primo che cominciasse con bel giudizio il magnifico ornamento di quella chiesa stata fatta, come si dice, con disegno et ordine di Bramante.
Quanto agl'artefici delle nostre arti mantoani, oltre quello che se n'è detto insino a Giulio Romano, dico che egli seminò in guisa la sua virtù in Mantoa e per tutta Lombardia, che sempre poi vi sono stati di valentuomini e l'opere sue sono più l'un giorno che l'altro conosciute per buone e laudabili.
E se bene Giovambattista Bertano, principale architetto delle fabriche del Duca di Mantoa, ha fabricato nel castello, sopra dove son l'acque et il corridore molti appartamenti magnifici e molto ornati di stucchi e di pitture, fatte per la maggior parte da Fermo Guisoni, discepolo di Giulio e da altri, come si dirà, non però paragonano quelle fatte da esso Giulio.
Il medesimo Giovambattista in Santa Barbara, chiesa del castello del Duca, ha fatto fare col suo disegno a Domenico Brusasorzi una tavola a olio nella quale, che è veramente da essere lodata, è il martirio di quella Santa; costui, oltre ciò, avendo studiato Vitruvio, ha sopra la voluta ionica, secondo quell'autore, scritta e mandata fuori un'opera come ella si volta; et alla casa sua di Mantoa nella porta principale ha fatto una colonna di pietra intera, et il modano dell'altra in piano con tutte le misure segnate di detto ordine ionico, e così il palmo, l'once, il piede et il braccio antichi, acciò chi vuole possa vedere se le dette misure son giuste o no.
Il medesimo, nella chiesa di San Piero, Duomo di Mantoa, che fu opera et architettura di detto Giulio Romano, perché rinovandolo gli diede forma nuova e moderna, ha fatto fare una tavola per ciascuna capella di mano di diversi pittori, e due n'ha fatte fare con suo disegno al detto Fermo Guisoni: cioè una a Santa Lucia, dentrovi la detta Santa con due putti, et un'altra a San Giovanni Evangelista.
Un'altra simile ne fece fare a Ippolito Costa mantoano, nella quale è Sant'Agata con le mani legate et in mezzo a due soldati che le tagliano e lievano le mammelle.
Battista d'Agnolo del Moro veronese fece, come s'è detto, nel medesimo Duomo la tavola che è all'altare di Santa Maria Maddalena; e Ieronimo parmigiano quella di Santa Tecla.
A Paulo Farinato veronese fece fare quella di San Martino, et al detto Domenico Brusasorzi quella di Santa Margherita; Giulio Campo cremonese fece quella di San Ieronimo.
Et una, che fu la migliore dell'altre, come che tutte siano bellissime, nella quale è Santo Antonio abbate battuto dal demonio in vece di femina che lo tenta, è di mano di Paulo Veronese.
Ma quanto ai mantovani, non ha mai avuto quella città il più valentuomo nella pittura di Rinaldo, il quale fu discepolo di Giulio, di mano del quale è una tavola in Santa Agnese di quella città, nella quale è una Nostra Donna in aria, Sant'Agostino e San Girolamo, che sono bonissime figure, il quale troppo presto la morte lo levò del mondo.
In un bellissimo antiquario e studio, che ha fatto il signore Cesare Gonzaga, pieno di statue e di teste antiche di marmo, ha fatto dipignere per onorarlo a Fermo Guiscioni la geneologia di casa Gonzaga, che si è portato benissimo in ogni cosa e specialmente nell'aria delle teste; vi ha messo, oltre di questo il detto signore, alcuni quadri che certo son rari: come quello della Madonna, dove è la gatta che già fece Raffaello da Urbino, et un altro, nel quale la Nostra Donna con grazia maravigliosa lava Gesù putto.
In un altro studiuolo fatto per le medaglie, il quale ha ottimamente d'ebano e d'avorio lavorato un Francesco da Volterra, che in simili opere non ha pari, ha alcune figure di bronzo antiche, che non potrieno essere più belle di quel che sono.
Insomma, da che io vidi altra volta Mantoa a questo anno 1566 che l'ho riveduta, ell'è tanto più adornata e più bella, che se io non l'avessi veduta nol crederei; e, che è più, vi sono multiplicati gl'artefici e vi vanno tuttavia multiplicando.
Conciò sia che di Giovambattista mantoano, intagliator di stampe e scultore eccellente, del quale abbiam favellato nella vita di Giulio Romano et in quella di Marcantonio Bolognese, sono nati due figliuoli che intagliano stampe di rame divinamente; e, che è cosa più maravigliosa, una figliuola, chiamata Diana, intaglia anch'ella tanto bene, che è cosa maravigliosa, et io che ho veduto lei, che è molto gentile e graziosa fanciulla, e l'opere sue che sono bellissime, ne sono restato stupefatto.
Non tacerò ancora che in San Benedetto di Mantoa, celebratissimo monasterio de' monaci Neri, stato rinovato da Giulio Romano con bellissimo ordine, hanno fatto molte opere i sopra detti artefici mantoani et altri lombardi; oltre quello che si è detto nella vita del detto Giulio.
Vi sono adunque opere di Fermo Guiscioni, cioè una Natività di Cristo, due tavole di Girolamo Mazzuola, tre di Latanzio Gambaro da Brescia et altre tre di Paulo Veronese, che sono le migliori.
Nel medesimo luogo è di mano d'un frate Girolamo, converso di S.
Domenico, nel reffetorio in testa, come altrove s'è ragionato, in un quadro a olio ritratto il bellissimo cenacolo che fece in Milano a Santa Maria delle Grazie Lionardo da Vinci, ritratto dico tanto bene, che io ne stupii; della qual cosa fo volentieri di nuovo memoria avendo veduto questo anno 1566 in Milano l'originale di Lionardo tanto male condotto, che non si scorge più se non una macchia abbagliata; onde la pietà di questo buon padre rendea sempre testimonianza di questa parte della virtù di Lionardo.
Di mano del medesimo frate ho veduto nella medesima casa della Zecca di Milano un quadro ritratto da un di Lionardo, nel quale è una femina che ride et un San Giovanni Battista giovinetto molto bene imitato.
Cremona altresì, come si disse nella vita di Lorenzo di Credi et in altri luoghi, ha avuto in diversi tempi uomini che hanno fatto nella pittura opere lodatissime; e già abbiam detto che quando Boccaccino Boccacci dipigneva la nicchia del Duomo di Cremona e per la chiesa le storie di Nostra Donna, che Bonifazio Bembi fu buon pittore e che Altobello fece molte storie a fresco di Gesù Cristo con molto più disegno che non sono quelle del Boccaccino.
Dopo le quali dipinse Altobello in Santo Agostino della medesima città una cappella a fresco con graziosa e bella maniera, come si può vedere da ognuno.
In Milano in corte vecchia, cioè nel cortile o vero piazza del palazzo, fece una figura in piedi armata all'antica, migliore di tutte l'altre che da molti vi furono fatte quasi ne' medesimi tempi.
Morto Bonifazio, il quale lasciò imperfette nel Duomo di Cremona le dette storie di Cristo, Giovan Antonio Licino da Pordenone, detto in Cremona de' Sacchi, finì le dette storie state cominciate da Bonifazio, facendovi in fresco cinque storie della Passione di Cristo, con una maniera di figure grandi, colorito terribile e scorti che hanno forza e vivacità, le quali tutte cose insegnarono il buon modo di dipignere ai cremonesi, e non solo in fresco, ma a olio parimente, conciò sia che nel medesimo Duomo appoggiata a un pilastro è una tavola a mezzo la chiesa di mano del Pordenone, bellissima.
La quale maniera imitando poi Cammillo figliuolo del Boccaccino nel fare in San Gismondo fuori della città la cappella maggiore in fresco et altre opere, riuscì da molto più che non era stato suo padre; ma perché fu costui largo et alquanto agiato nel lavorare, non fece molte opere, se non piccole e di poca importanza.
Ma quegli che più imitò le buone maniere et a cui più giovarono le concorrenze di costoro, fu Bernardo de' Gatti, cognominato di Soiaro, di chi s'è ragionato, di Parma, il quale dicono alcuni esser stato da Verzelli et altri cremonese; ma sia stato donde si voglia, egli dipinse una tavola molto bella all'altare maggiore di San Piero, chiesa de' canonici regolari e nel refettorio la storia o vero miracolo che fé Gesù Cristo de' cinque pani e due pesci, saziando moltitudine infinita; ma egli la ritoccò tanto a secco, ch'ell'ha poi perduta tutta la sua bellezza.
Fece anco costui in San Gismondo fuor di Cremona sotto una volta, l'Ascensione di Gesù Cristo in cielo, che fu cosa vaga e di molto bel colorito.
In Piacenza nella chiesa di Santa Maria di Campagna, a concorrenza del Pordenone e dirimpetto al Sant'Agostino che s'è detto, dipinse a fresco un San Giorgio armato a cavallo che ammazza il serpente, con prontezza, movenza et ottimo rilievo.
E ciò fatto, gli fu dato a finire la tribuna di quella chiesa che avea lasciata imperfetta il Pordenone, dove dipinse a fresco tutta la vita della Madonna.
E se bene i profeti e le sibille che vi fece il Pordenone con alcuni putti son belli a maraviglia, si è portato nondimeno tanto bene il Soiaro, che pare tutta quell'opera d'una stessa mano.
Similmente alcune tavolette d'altari che ha fatte in Vigevano sono da essere per la bontà loro assai lodate.
Finalmente ridottosi in Parma a lavorare nella Madonna della Steccata, [fu] finita la nicchia e l'arco, che lassò imperfetta per la morte Michelagnolo sanese, per le mani del Soiaro; al quale, per essersi portato bene, hanno poi dato a dipignere i parmigiani la tribuna maggiore che è in mezzo di detta chiesa, nella quale egli va tuttavia lavorando a fresco l'Assunzione di Nostra Donna, che si spera debba essere opera lodatissima.
Essendo anco vivo Roccaccino, ma vecchio, ebbe Cremona un altro pittore, chiamato Galeazzo Campo, il quale nella chiesa di San Domenico, in una cappella grande dipinse il rosario della Madonna e la facciata di dietro di San Francesco con altre tavole, opere che sono di mano di costui in Cremona ragionevoli.
Di costui nacquero tre figliuoli, Giulio, Antonio e Vincenzio; ma Giulio, se bene imparò i primi principi dell'arte di Galeazzo suo padre, seguitò poi, nondimeno, come migliore, la maniera del Soiaro e studiò assai alcune tele colorite fatte in Roma di mano di Francesco Salviati, che furono dipinte per fare arazzi e mandate a Piacenza al duca Pier Luigi Farnese.
Le prime opere che costui fece in sua giovanezza in Cremona furono nel coro della chiesa di Santa Agata quattro storie grandi del martirio di quella vergine, che riuscirono tali, che sì fatte non l'arebbe per aventura fatte un maestro ben pratico.
Dopo, fatte alcune cose in Santa Margherita, dipinse molte facciate di palazzi di chiaro scuro con buon disegno.
Nella chiesa di San Gismondo fuor di Cremona fece la tavola dell'altar maggiore a olio, che fu molto bella per la moltitudine e diversità delle figure, che vi dipinse a paragone di tanti pittori che innanzi a lui avevano in quel luogo lavorato.
Dopo la tavola vi lavorò in fresco molte cose nelle volte, e particolarmente la venuta dello Spirito Santo sopra gl'Apostoli, i quali scortano al di sotto in su con buona grazia e molto artifizio.
In Milano dipinse nella chiesa della Passione, convento de' canonici regolari, un Crucifisso in tavola a olio con certi Angeli, la Madonna, San Giovanni Evangelista e l'altre Marie.
Nelle monache di San Paulo converso, pur di Milano, fece in quattro storie la conversione et altri fatti di quel Santo, nella quale opera fu aiutato da Antonio Campo suo fratello, il quale dipinse similmente in Milano alle monache di Santa Caterina alla porta Ticinese, in una capella della chiesa nuova, la quale è architettura del Lombardino, Santa Elena, a olio che fa cercare la croce di Cristo, che è assai buon'opera.
E Vincenzio anch'egli, terzo dei detti tre fratelli, avendo assai imparato da Giulio, come anco ha fatto Antonio, è giovane d'ottima aspettazione.
Del medesimo Giulio Campo sono stati discepoli non solo i detti suoi due fratelli, ma ancora Latanzio Gambaro bresciano et altri.
Ma sopra tutti gli ha fatto onore et è stata eccellentissima nella pittura Sofonisba Angusciola cremonese con tre sue sorelle, le quali virtuosissime giovani sono nate del signor Amilcare Angusciola e della signora Bianca Punzona, ambe nobilissime famiglie in Cremona.
Parlando dunque di essa signora Sofonisba, della quale dicemmo alcune poche cose nella vita di Properzia bolognese, per non saperne allora più oltre, dico aver veduto quest'anno in Cremona di mano di lei in casa di suo padre, et in un quadro fatto con molta diligenza, ritratte tre sue sorelle in atto di giocare a scacchi, e con esso loro una vecchia donna di casa, con tanta diligenza e prontezza, che paiono veramente vive e che non manchi loro altro che la parola.
In un altro quadro si vede ritratto dalla medesima Sofonisba il signor Amilcare suo padre, che ha da un lato una figliuola di lui, sua sorella, chiamata Minerva, che in pitture et in lettere fu rara, e dall'altro Asdrubale figliuolo del medesimo et a loro fratello, et anche questi sono tanto ben fatti, che pare che spirino e sieno vivissimi.
In Piacenza sono di mano della medesima in casa del signor Arcidiacono della chiesa maggiore, due quadri bellissimi: in uno è ritratto esso signore e nell'altro Sofonisba; l'una e l'altra delle quali figure non hanno se non a favellare.
Costei essendo poi stata condotta, come si disse di sopra, dal signor duca d'Alva al servigio della reina di Spagna, dove si truova al presente con bonissima provisione e molto onorata, ha fatto assai ritratti e pitture che sono cosa maravigliosa.
Dalla fama delle quali opere mosso papa Pio IIII, fece sapere a Sofonisba che disiderava avere di sua mano il ritratto della detta serenissima reina di Spagna.
Per che, avendolo ella fatto con tutta quella diligenza che maggiore le fu possibile, glielo mandò a presentare in Roma, scrivendo a Sua Santità una lettera di questo preciso tenore:
"Padre Santo, dal reverendissimo Nunzio di Vostra Santità intesi ch'ella disiderava un ritratto di mia mano della maestà della reina mia signora.
E come che io accettassi questa impresa in singolare grazia e favore, avendo a servire alla Beatitudine Vostra, ne dimandai licenza a sua maestà, la quale se ne contentò molto volentieri, riconoscendo in ciò la paterna affezione che Vostra Santità le dimostra, et io con l'occasione di questo cavaliero gliene mando.
E se in questo averò sodisfatto al disiderio di Vostra Santità, io ne riceverò infinita consolazione, non restando però di dirle che se col pennello si potesse così rappresentare agl'occhi di Vostra Beatitudine le bellezze dell'animo di questa serenissima reina, non potria veder cosa più maravigliosa.
Ma in quelle parti, le quali con l'arte si sono potute figurare, non ho mancato di usare tutta quella diligenza che ho saputo maggiore, per rappresentare alla Santità Vostra il vero.
E con questo fine, con ogni reverenza et umiltà le bacio i santissimi piedi.
Di Madrid, alli XVI di settembre 1561.
Di Vostra Beatitudine umilissima serva, Sofonisba Angosciola".
Alla quale lettera rispose Sua Santità con l'infrascritta, la quale, essendogli paruto il ritratto bellissimo e maraviglioso, accompagnò con doni degni della molta virtù di Sofonisba.
"Pius papa III.
Dilecta in Cristo filia, avemo ricevuto il ritratto della serenissima reina di Spagna, nostra carissima figliuola, che ci avete mandato e ci è stato gratissimo, sì per la persona che si rappresenta, la quale noi amiamo paternamente, oltre agl'altri rispetti, per la buona religione et altre bellissime parti dell'animo suo, e sì ancora per essere fatto di man vostra molto bene e diligentemente.
Ve ne ringraziamo, certificandovi che lo terremo fra le nostre cose più care, comendando questa vostra virtù, la quale ancora che sia maravigliosa, intendiamo però ch'ell'è la più piccola tra molte che sono in voi.
E con tal fine vi mandiano di nuovo la nostra benedizione.
Che Nostro Signore Dio vi conservi.
Data Romae, die XV octobris 1561."
E questa testimonianza basti a mostrare quanta sia la virtù di Sofonisba.
Una sorella della quale, chiamata Lucia, morendo ha lasciato di sé non minor fama che si sia quella di Sofonisba, mediante alcune pitture di sua mano, non men belle e pregiate che le già dette della sorella, come si può vedere in Cremona in un ritratto ch'ella fece del signor Pietro Maria, medico eccellente, ma molto più in un altro ritratto, fatto da questa virtuosa vergine, del duca di Sessa, da lei stato tanto ben contrafatto, che pare che non si possa far meglio, né fare che con maggior vivacità alcun ritratto rassomigli.
La terza sorella Angosciola, chiamata Europa, che ancora è in età puerile et alla quale, che è tutta grazia e virtù, ho parlato questo anno, non sarà, per quello che si vede nelle sue opere e disegni, inferiore né a Sofonisba, né a Lucia sue sorelle.
Ha costei fatto molti ritratti di gentiluomini in Cremona, che sono naturali e belli affatto, et uno ne mandò in Ispagna della signora Bianca sua madre, che piacque sommamente a Sofonisba et a chiunche lo vide di quella corte.
E perché Anna, quarta sorella, ancora piccola fanciulletta, attende anch'ella con molto profitto al disegno, non so che altro mi dire, se non che bisogna avere da natura inclinazione alla virtù, e poi a quella aggiugnere l'esercizio e lo studio come hanno fatto queste quattro nobili e virtuose sorelle, tanto innamorate d'ogni più rara virtù et in particolare delle cose del disegno, che la casa del signor Amilcare Angosciuola (perciò felicissimo padre d'onesta et onorata famiglia) mi parve l'albergo della pittura, anzi di tutte le virtù.
Ma se le donne sì bene sanno fare gl'uomini vivi, che maraviglia che quelle che vogliono sappiano anco fargli sì bene dipinti?
Ma tornando a Giulio Campo, del quale ho detto che queste giovani donne sono discepole, oltre all'altre cose, una tela che ha fatto per coprimento dell'organo della chiesa cattedrale, è lavorata con molto studio e gran numero di figure a tempera delle storie d'Ester e Assuero, con la crocifissione d'Aman.
E nella medesima chiesa è di sua mano all'altare di San Michele una graziosa tavola; ma perché esso Giulio ancor vive, non dirò al presente altro dell'opere sue.
Furono cremonesi parimente Geremia scultore, del quale facemmo menzione nella vita del Filareto, et il quale ha fatto una grande opera di marmo in San Lorenzo, luogo de' monaci di Monte Oliveto, e Giovanni Pedoni, che ha fatto molte cose in Cremona et in Brescia, e particolarmente, in casa del signor Eliseo Raimondo, molte cose che sono belle e laudabili.
In Brescia ancora sono stati e sono persone eccellentissime nelle cose del disegno, e fra gl'altri Ieronimo Romanino ha fatte in quella città infinite opere e la tavola che è in San Francesco all'altar maggiore che, assai buona pittura, è di sua mano; e parimente i portegli che la chiudono, i quali sono dipinti a tempera di dentro e di fuori.
È similmente sua opera un'altra tavola lavorata a olio, che è molto bella e vi si veggiono forte imitate le cose naturali.
Ma più valente di costui fu Alessandro Moretto, il quale dipinse a fresco, sotto l'arco di porta Brusciata, la traslazione de' corpi di San Faustino et Iuvita con alcune macchie di figure, che accompagnano que' corpi molto bene.
In San Nazzaro pur di Brescia fece alcun'opere et altre in San Celso, che sono ragionevoli, et una tavola in San Piero in Oliveto, che è molto vaga; in Milano nelle case della Zecca è di mano del detto Alessandro in un quadro la conversione di San Paulo, et altre teste molto naturali e molto bene abbigliati di drappi e vestimenti; perciò che si dilettò molto costui di contrafare drappi d'oro, i quali usò di porre con molta diligenza addosso alle figure.
Le teste di mano di costui sono vivissime e tengono della maniera di Raffaello da Urbino, e più ne terrebbono, se non fusse da lui stato tanto lontano.
Fu genero d'Alessandro, Lattanzio Gambaro pittore bresciano, il quale avendo imparato, come s'è detto, l'arte sotto Giulio Campo veronese, è oggi il miglior pittore che sia in Brescia.
È di sua mano ne' monaci Neri di San Faustino la tavola dell'altar maggiore e la volta e le facce lavorate a fresco, con altre pitture che sono in detta chiesa.
Nella chiesa ancora di San Lorenzo è di sua mano la tavola dell'altar maggiore, due storie che sono nelle facciate e la volta, dipinte a fresco quasi tutte di maniera.
Ha dipinta ancora oltre a molte altre, la facciata della sua casa con bellissime invenzioni, e similmente il didentro; nella qual casa, che è da San Benedetto al Vescovado, vidi, quando fui ultimamente a Brescia, due bellissimi ritratti di sua mano, cioè quello d'Alessandro Moretto suo suocero, che è una bellissima testa di vecchio, e quello della figliuola di detto Alessandro, sua moglie.
E se simili a questi ritratti fussero l'altre opere di Lattanzio, egli potrebbe andar al pari de' maggiori di quest'arte; ma perché infinite son l'opere di man di costui, essendo ancor vivo basti per ora aver di queste fatto menzione.
Di mano di Giangirolamo bresciano si veggiono molte opere in Vinezia et in Milano, e nelle dette case della Zecca sono quattro quadri di notte e di fuochi, molto belli.
Et in casa Tomaso da Empoli in Vinezia è una Natività di Cristo finta di notte molto bella, e sono alcune altre cose di simili fantasie delle quali era maestro.
Ma perché costui si adoperò solamente in simili cose e non fece cose grandi, non si può dire altro di lui, se non che fu capriccioso e sofistico, e che quello che fece merita di essere molto comendato.
Girolamo Mosciano da Brescia, avendo consumato la sua giovanezza in Roma, ha fatto di molte bell'opere di figure e paesi, et in Orvieto nella principal chiesa di Santa Maria ha fatto due tavole a olio et alcuni Profeti a fresco, che son buon'opere; e le carte, che son fuori di sua mano stampate, son fatte con buon disegno.
E perché anco costui vive e serve il cardinale Ippolito da Este nelle sue fabriche et acconcimmi che fa a Roma, a Tigoli et in altri luoghi, non dirò in questo luogo altro di lui.
Ultimamente è tornato di Lamagna Francesco Richino, anch'egli pittor bresciano, il quale, oltre a molte altre pitture fatte in diversi luoghi, ha lavorato alcune cose di pittura a olio nel detto San Piero Oliveto di Brescia, che sono fatte con studio e molta diligenza.
Cristofano e Stefano fratelli e pittori bresciani hanno appresso gl'artefici gran nome nella facilità del tirare di prospettiva, avendo fra l'altre cose in Vinezia, nel palco piano di Santa Maria dell'Orto, finto di pittura un corridore di colonne doppie atorte e simili a quelle della porta santa di Roma in San Piero, le quali, posando sopra certi mensoloni che sportano in fuori, vanno facendo in quella chiesa un superbo corridore con volte a crocera intorno intorno, et ha quest'opera la sua veduta nel mezzo della chiesa con bellissimi scorti, che fanno restar chiunche la vede maravigliato e parere che il palco, che è piano, sia sfondato, essendo massimamente accompagnata con bella varietà di cornici, maschere, festoni et alcuna figura, che fanno ricchissimo ornamento a tutta l'opera, che merita d'essere da ognuno infinitamente lodata per la novità e per essere stata condotta con molta diligenza ottimamente a fine.
E perché questo modo piacque assai a quel serenissimo senato, fu dato a fare ai medesimi un altro palco simile, ma piccolo, nella libreria di San Marco, che per opera di simili andari fu lodatissimo; et i medesimi finalmente sono stati chiamati alla patria loro Brescia a fare il medesimo a una magnifica sala, che già molti anni sono fu cominciata in piazza con grandissima spesa e fatta condurre sopra un teatro di colonne grandi, sotto il quale si passeggia.
È lunga questa sala a sessantadue passi andanti, larga trentacinque et alta similmente nel colmo della sua maggiore altezza braccia trentacinque, ancor ch'ella paia molto maggiore, essendo per tutti i versi isolata e senza alcuna stanza o altro edifizio intorno.
Nel palco adunque di questa magnifica et onoratissima sala si sono i detti due fratelli molto adoperati e con loro grandissima lode, avendo a' cavagli di legname che son di pezzi con spranghe di ferri i quali sono grandissimi e bene armati, e fatto centina al tetto che è coperto di piombo, e fatto tornare il palco con bell'artifizio a uso di volta a schifo, che è opera ricca; ma è ben vero che in sì gran spazio non vanno se non tre quadri di pitture a olio di braccia dieci l'uno, i quali dipigné Tiziano vecchio, dove ne sarebbono potuti andar molti più con più bello e proporzionato e ricco spartimento, che arebbono fatto molto più bella, ricca e lieta la detta sala, che è in tutte l'altre parti stata fatta con molto giudizio.
Ora, essendosi in questa parte favellato insin qui degl'artefici del disegno delle città di Lombardia, non fia se non bene, ancor che se ne sia in molti altri luoghi di questa nostr'opera favellato, dire alcuna cosa di quelli della città di Milano, capo di quella provincia, de' quali non si è fatta menzione.
Adunque, per cominciarmi da Bramantino, del quale si è ragionato nella vita di Piero della Francesca dal Borgo, io truovo che egli ha molte più cose lavorato di quelle che abbiamo raccontato di sopra; e nel vero, non mi pareva possibile che un artefice tanto nominato et il quale mise in Milano il buon disegno, avesse fatto sì poche opere quante quelle erano che mi erano venute a notizia.
Poi, dunque, che ebbe dipinto in Roma, come s'è detto, per papa Nicola Quinto alcune camere e finito in Milano sopra la porta di San Sepolcro il Cristo in iscorto, la Nostra Donna che l'ha in grembo, la Maddalena e San Giovanni, che fu opera rarissima, dipinse nel cortile della Zecca di Milano a fresco in una facciata la Natività di Cristo nostro Salvatore e nella chiesa di Santa Maria di Bara, nel tramezzo, la natività della Madonna et alcuni Profeti negli sportelli dell'organo che scortano al di sotto in su molto bene, et una prospettiva che sfugge con bell'ordine ottimamente; di che non mi fo maraviglia, essendosi costui dilettato et avendo sempre molto ben posseduto le cose d'architettura.
Onde mi ricordo aver già veduto in mano di Valerio Vicentino un molto bel libro d'antichità, disegnato e misurato di mano di Bramantino, nel quale erano le cose di Lombardia e le piante di molti edifizii notabili, le quali io disegnai da quel libro essendo giovinetto.
Eravi il tempio di Santo Ambrogio di Milano, fatto da' longobardi e tutto pieno di sculture e pitture di maniera greca, con una tribuna tonda assai grande, ma non bene intesa quanto all'architettura, il qual tempio fu poi al tempo di Bramantino rifatto col suo disegno con un portico di pietra da un de' lati e con colonne a tronconi a uso d'alberi tagliati che hanno del nuovo e del vario.
Vi era parimente disegnato il portico antico della chiesa di San Lorenzo della medesima città, stato fatto dai romani, che è grand'opera, bella e molto notabile, ma il tempio che vi è della detta chiesa è della maniera de' Gotti.
Nel medesimo libro era disegnato il tempio di Santo Ercolino, che è antichissimo e pieno d'incrostature di marmi e di stucchi molto ben conservatisi, et alcune sepolture grandi di granito.
Similmente il tempio di San Piero in Ciel d'Oro di Pavia, nel qual luogo è il corpo di Santo Agostino in una sepoltura che è in sagrestia piena di figure piccole, la quale è di mano, secondo che a me pare, d'Agnolo e d'Agostino scultori sanesi.
Vi era similmente disegnata la torre di pietre cotte, fatta dai Gotti, che è cosa bella, veggendosi in quella, oltre l'altre cose, formate di terra cotta e dall'antico, alcune figure di sei braccia l'una che si sono insino a oggi assai bene mantenute.
Et in questa torre si dice che morì Boezio, il quale fu sotterrato in detto San Piero in Ciel d'Oro, chiamato oggi Santo Agostino, dove si vede insino a oggi la sepoltura di quel sant'uomo con la inscrizione che vi fece Aliprando, il quale la riedificò e restaurò l'anno 1222.
Et oltre questi, nel detto libro era disegnato di mano dell'istesso Bramantino l'antichissimo tempio di Santa Maria in Pertica, di forma tonda e fatto di spoglie dai longobardi, nel qual sono oggi l'ossa della mortalità de' franzesi e d'altri che furono rotti e morti sotto Pavia, quando vi fu preso il re Francesco Primo di Francia dagl'eserciti di Carlo Quinto imperatore.
Lasciando ora da parte i disegni, dipinse Bramantino in Milano la facciata della casa del signor Giovambattista Latuate, con una bellissima Madonna, messa in mezzo da' duoi Profeti, e nella facciata del signor Bernardo Scacalarozzo dipinse quattro giganti che son finti di bronzo e sono ragionevoli, con altre opere che sono in Milano, le quali gl'apportarono lode per essere stato egli il primo lume della pittura che si vedesse di buona maniera in Milano e cagione che dopo lui Bramante divenisse, per la buona maniera che diede a' suoi casamenti e prospettive, eccellente nelle cose d'architettura, essendo che le prime cose che studiò Bramante furono quelle di Bramantino.
Con ordine del quale fu fatto il tempio di San Satiro, che a me piace sommamente per essere opera ricchissima e dentro e fuori ornata di colonne, corridori doppii et altri ornamenti et accompagnata da una bellissima sagrestia tutta piena di statue.
Ma sopratutto merita lode la tribuna del mezzo di questo luogo, la bellezza della quale fu cagione, come s'è detto nella vita di Bramante, che Bernardino da Trevio seguitasse quel modo di fare nel Duomo di Milano et attendesse all'architettura, se bene la sua prima e principal arte fu la pittura, avendo fatto, come s'è detto, a fresco nel monasterio delle Grazie quattro storie della Passione in un chiostro et alcun'altre di chiaro scuro.
Da costui fu tirato innanzi e molto aiutato Agostino Busto scultore, cognominato Bambaia, del quale si è favellato nella vita di Baccio da Monte Lupo, et il quale ha fatto alcun'opere in Santa Marta, monasterio di donne in Milano.
Fra le quali ho veduto io, ancor che si abbia con difficultà licenza d'entrare in quel luogo, la sepoltura di monsignor di Fois, che morì a Pavia, in più pezzi di marmo; nei quali sono da dieci storie di figure piccole sculpite con molta diligenza de' fatti, battaglie, vittorie et espugnazioni di torre, fatte da quel signore, e finalmente la morte e sepoltura sua.
E per dirlo brevemente, ell'è tale quest'opera che mirandola con stupore stetti un pezzo pensando se è possibile che si facciano con mano e con ferri sì sottili e maravigliose opere, veggendosi in questa sepoltura, fatti con stupendissimo intaglio, fregiature di trofei, d'arme di tutte le sorti, carri, artiglierie e molti altri instrumenti da guerra, e finalmente il corpo di quel signore armato e grande quanto il vivo, quasi tutto lieto nel sembiante così morto, per le vittorie avute.
E certo è un peccato che quest'opera, la quale è degnissima di essere annoverata fra le più stupende dell'arte, sia imperfetta e lasciata stare per terra in pezzi, senza essere in alcun luogo murata, onde non mi maraviglio che ne siano state rubate alcune figure e poi vendute e poste in altri luoghi.
E pur è vero che tanta poca umanità o più tosto pietà oggi fra gl'uomini si ritruova che a niun, di tanti che furono da lui beneficati et amati, è mai incresciuto della memoria di Fois, né della bontà et eccellenza dell'opera.
Di mano del medesimo Agostino Busto sono alcun'opere nel Duomo, et in San Francesco, come si disse, la sepoltura de' Biraghi, et alla Certosa di Pavia molte altre che son bellissime.
Concorrente di costui fu un Cristofano Gobbo, che lavorò anch'egli molte cose nella facciata della detta Certosa et in chiesa tanto bene, che si può mettere fra i migliori architettori che fussero in quel tempo in Lombardia.
E l'Adamo et Eva che sono nella facciata del Duomo di Milano verso levante, che sono di mano di costui, sono tenute opere rare e tali che possono stare a paragone di quante ne sieno state fatte in quelle parti da altri maestri.
Quasi ne' medesimi tempi fu in Milano un altro scultore, chiamato Angelo e per sopranome il Ciciliano, il quale fece dalla medesima banda e della medesima grandezza, una Santa Maria Maddalena elevata in aria da quattro putti, che è opera bellissima e non punto meno che quelle di Cristofano, il quale attese anco all'architettura e fece fra l'altre cose il portico di San Celso in Milano, che dopo la morte sua fu finito da Tofano detto il Lombardino, il quale come si disse nella vita di Giulio Romano, fece molte chiese e palazzi per tutto Milano et in particolare il monasterio, facciata e chiesa delle monache di Santa Caterina alla porta Ticinese, e molte altre fabriche a queste somiglianti.
Per opera di costui, lavorando Silvio da Fiesole nell'opera di quel Duomo, fece nell'ornamento d'una porta che è volta fra ponente e tramontana, dove sono più storie della vita di Nostra Donna, quella dove ell'è sposata, che è molto bella, e dirimpetto a questa, quella di simile grandezza, in cui sono le nozze di Cana Galilea, è di mano di Marco da Gra assai pratico scultore.
Nelle quali storie seguita ora di lavorare un molto studioso giovane, chiamato Francesco Brambilari, il quale ne ha quasi che a fine condotta una, nella quale gl'Apostoli ricevono lo Spirito Santo, che è cosa bellissima.
Ha oltre ciò fatto una gocciola di marmo tutta traforata e con un gruppo di putti e fogliami stupendi, sopra la quale (che ha da essere posta in Duomo) va una statua di marmo di papa Pio IIII de' Medici milanese.
Ma se in quel luogo fusse lo studio di quest'arti che è in Roma et in Firenze, arebbono fatto e farebbono tuttavia questi valentuomini cose stupende.
E nel vero hanno al presente grand'obligo al cavaliere Leone Leoni aretino, il quale, come si dirà, ha speso assai danari a tempo in condurre a Milano molte cose antiche, formate di gesso per servizio suo e degl'altri artefici.
Ma tornando ai pittori milanesi, poiché Lionardo da Vinci vi ebbe lavorato il cenacolo sopra detto, molti cercarono d'imitarlo, e questi furono Marco Uggioni et altri, de' quali si è ragionato nella vita di lui.
Et oltre quelli lo imitò molto bene Cesare da Sesto, anch'egli milanese, e fece, più di quel che s'è detto nella vita di Dosso, un gran quadro che è nelle case della Zecca di Milano, dentro al quale, che è veramente copioso e bellissimo, Cristo è battezzato da Giovanni.
È anco di mano del medesimo del detto luogo una testa d'una Erodiade con quella di San Giovanni Battista in un bacino fatte con bellissimo artificio; e finalmente dipinse costui in San Rocco fuor di porta Romana una tavola, dentrovi quel santo, molto giovane, et alcuni quadri che son molto lodati.
Gaudenzio pittor milanese, il quale mentre visse si tenne valentuomo, dipinse in San Celso la tavola dell'altar maggiore, et a fresco, in Santa Maria delle Grazie in una capella, la Passione di Gesù Cristo in figure quanto il vivo, con strane attitudini, e dopo fece sotto questa capella una tavola a concorrenza di Tiziano, nella quale, ancor che egli molto si persuadesse, non passò l'opere degl'altri che avevano in quel luogo lavorato.
Bernardino del Lupino, di cui si disse alcuna cosa poco di sopra, dipinse già in Milano vicino a San Sepolcro la casa del signor Gianfrancesco Rabbia, cioè la facciata, le loge, sale e camere, facendovi molte trasformazioni d'Ovidio et altre favole con belle e buone figure e lavorate dilicatamente; et al munisterio maggiore dipinse tutta la facciata grande dell'altare con diverse storie, e similmente in una capella Cristo battuto alla colonna e molte altre opere che tutte sono ragionevoli.
E questo sia il fine delle sopradette vite di diversi artefici lombardi.
VITA DI RIDOLFO, DAVIT E BENEDETTO GRILLANDAI PITTORI FIORENTINI
Ancor che non paia in un certo modo possibile che chi va imitando e seguita le vestigia d'alcun uomo eccellente nelle nostre arti, non debba divenire in gran parte a colui simile, si vede nondimeno che molte volte i frategli e' figliuoli delle persone singolari non seguitano in ciò i loro parenti e stranamente tralignano da loro; la qual cosa non penso già io che avenga perché non vi sia, mediante il sangue, la medesima prontezza di spirito et il medesimo ingegno, ma sì bene da altra cagione: cioè dai troppi agi e commodi e dall'abondanza delle facultà, che non lascia divenir molte volte gl'uomini solleciti agli studii et industriosi.
Ma non però questa regola è così ferma che anco non avenga alcuna volta il contrario.
Davit e Benedetto Ghirlandai, se bene ebbono bonissimo ingegno et arebbono potuto farlo, non però seguitarono nelle cose dell'arte Domenico lor fratello, perciò che dopo la morte di detto lor fratello si sviarono dal bene operare; conciò sia che l'uno, cioè Benedetto, andò lungo tempo vagabondo e l'altro s'andò stillando il cervello vanamente dietro al musaico.
Davit adunque, il quale era stato molto amato da Domenico e lui amò parimente e vivo e morto, finì dopo lui, in compagnia di Benedetto suo fratello, molte cose cominciate da esso Domenico e particolarmente la tavola di Santa Maria Novella all'altar maggiore, cioè la parte di dietro, che oggi è verso il coro; et alcuni creati del medesimo Domenico finirono la predella di figure piccole, cioè Nicolaio, sotto la figura di Santo Stefano, fece una disputa di quel Santo con molta diligenza; e Francesco Granacci, Iacopo del Tedesco e Benedetto fecero la figura di Santo Antonino arcivescovo di Fiorenza e Santa Caterina da Siena, et in chiesa in una tavola Santa Lucia con la testa d'un frate, vicino al mezzo della chiesa, con molte altre pitture e quadri che sono per le case de' particolari.
Essendo poi stato Benedetto parecchi anni in Francia, dove lavorò, guadagnò assai e se ne tornò a Firenze con molti privilegii e doni avuti da quel re in testimonio della sua virtù, e finalmente avendo atteso non solo alla pittura, ma anco alla milizia, si morì d'anni 50.
E Davitte, ancora che molto disegnasse e lavorasse, non però passò di molto Benedetto, e ciò potette avenire, dallo star troppo bene e dal non tenere fermo il pensiero all'arte, la quale non è trovata se non da chi la cerca, e trovata non vuole essere abbandonata, perché si fugge.
Sono di mano di Davitte nell'orto de' monaci degl'Angeli di Firenze, in testa della viottola, che è dirimpetto alla porta che va in detto orto, due figure a fresco a' piè d'un Crucifisso, cioè San Benedetto e San Romualdo, et alcun'altre cose simili poco degne che di loro si faccia alcuna memoria.
Ma non fu poco, poiché non volle Davitte attendere all'arte, che vi facesse attendere con ogni studio e per quella incaminasse Ridolfo, figliuolo di Domenico e suo nipote; conciò fusse che, essendo costui, il quale era a custodia di Davitte, giovinetto di bell'ingegno, fugli messo a esercitare la pittura e datogli ogni commodità di studiare dal zio, il quale si pentì tardi di non avere egli studiatola, ma consumato il tempo dietro al musaico.
Fece Davit sopra un grosso quadro di noce, per mandarla al re di Francia, una Madonna di musaico con alcuni Angeli attorno, che fu molto lodata; e dimorando a Montaione, castello di Valdelsa, per aver quivi commodità di vetri, di legnami e di fornaci, vi fece molte cose di vetri e musaici, e particolarmente alcuni vasi che furono donati al Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici, e tre teste, cioè di San Piero e San Lorenzo e quella di Giuliano de' Medici in una tegghia di rame, le quali son oggi in guardaroba del Duca.
Rifoldo intanto, disegnando al cartone di Michelagnolo, era tenuto de' migliori disegnatori che vi fussero e perciò molto amato da ognuno, e particolarmente da Raffaello Sanzio da Urbino, che in quel tempo, essendo anch'egli giovane di gran nome, dimorava in Fiorenza, come s'è detto, per imparare l'arte.
Dopo aver Ridolfo studiato al detto cartone, fatto che ebbe buona pratica nella pittura sotto fra' Bartolomeo di San Marco, ne sapea già tanto, a giudizio de' migliori, che dovendo Raffaello andare a Roma, chiamato da papa Giulio Secondo, gli lasciò a finire il panno azzurro et altre poche cose che mancavano al quadro d'una Madonna che egli avea fatta per alcuni gentiluomini sanesi, il qual quadro, finito che ebbe Ridolfo con molta diligenza, lo mandò a Siena.
E non fu molto dimorato Raffaello a Roma, che cercò per molte vie di condurre là Ridolfo, ma non avendo mai perduta colui la cupola di veduta (come si dice), né sapendosi arrecare a vivere fuor di Fiorenza, non accettò mai partito che diverso o contrario al suo vivere di Firenze gli fusse proposto.
Dipinse Ridolfo nel monasterio delle monache di Ripoli due tavole a olio: in una la coronazione di Nostra Donna e nell'altra una Madonna in mezzo a certi Santi; nella chiesa di San Gallo fece in una tavola Cristo che porta la croce, con buon numero di soldati e la Madonna et altre Marie che piangono insieme con Giovanni, mentre Veronica porge il sudario a esso Cristo, con prontezza e vivacità.
La quale opera, in cui sono molte teste bellissime, ritratte dal vivo e fatte con amore, acquistò gran nome a Ridolfo: vi è ritratto suo padre et alcuni garzoni che stavano seco, e de' suoi amici il Poggino, lo Scheggia et il Nunziata che è una testa vivissima.
Il quale Nunziata, se bene era dipintore di fantocci, era in alcune cose persona rara e massimamente nel fare fuochi lavorati e le girandole che si facevano ogni anno per San Giovanni; e perché era costui persona burlevole e faceta, aveva ognuno gran piacere in conversando con esso lui.
Dicendogli una volta un cittadino che gli dispiacevano certi dipintori che non sapevano fare se non cose lascive e che perciò desiderava, che gli facesse un quadro di Madonna che avesse l'onesto, fusse attempata e non movesse a lascivia, il Nunziata gliene dipinse una con la barba; un altro volendogli chiedere un Crucifisso per una camera terrena, dove abitava la state, e non sapendo dire se non: "Io vorrei un Crucifisso per la state", il Nunziata, che lo scorse per un goffo, gliene fece uno in calzoni.
Ma tornando a Ridolfo, essendogli dato a fare per il monasterio di Cestello in una tavola la Natività di Cristo, affaticandosi assai per superare gl'emuli suoi, condusse quell'opera con quella maggior fatica e diligenza che gli fu possibile, facendovi la Madonna che adora Cristo fanciullo, San Giuseppo e due figure in ginocchioni, cioè San Francesco e San Ieronimo; fecevi ancora un bellissimo paese molto simile al Sasso della Vernia, dove San Francesco ebbe le stimmate, e sopra la capanna alcuni Angeli che cantano, e tutta l'opera fu di colorito molto bello e che ha assai rilievo.
Nel medesimo tempo, fatta una tavola che andò a Pistoia, mise mano a due altre per la Compagnia di S.
Zanobi, che è a canto alla canonica di Santa Maria del Fiore, le quali avevano a mettere in mezzo la Nunziata che già vi fece, come si disse nella sua vita, Mariotto Albertinelli.
Condusse dunque Ridolfo a fine con molta sodisfazione degl'uomini di quella Compagnia le due tavole, facendo in una San Zanobi che risuscita nel borgo degl'Albizi di Fiorenza un fanciullo, che è storia molto pronta e vivace, per esservi teste assai ritratte di naturale et alcune donne che mostrano vivamente allegrezza e stupor nel vedere risuscitare il putto e tornargli lo spirito, e nell'altra è quando da sei vescovi è portato il detto San Zanobi morto da San Lorenzo, dove era prima sotterrato, a Santa Maria del Fiore e che, passando per la piazza di San Giovanni, un olmo che vi era secco, dove è oggi per memoria del miracolo una colonna di marmo con una croce sopra, rimise subito, che fu per voler di Dio tocco dalla cassa dove era il corpo santo, le frondi e fece fiori.
La quale pittura non fu men bella che l'altre sopra dette di Ridolfo; e perché queste opere furono da questo pittore fatte vivendo ancor Davit suo zio, n'aveva quel buon vecchio grandissimo contento e ringraziava Dio d'esser tanto vivuto, che vedea la virtù di Domenico quasi risorgere in Ridolfo.
Ma finalmente essendo d'anni settantaquattro, mentre si apparecchiava così vecchio per andare a Roma a prendere il santo giubileo, s'ammalò e morì l'anno 1525, e da Ridolfo ebbe sepoltura in Santa Maria Novella, dove gl'altri Ghirlandai.
Avendo Ridolfo un suo fratello negl'Angeli di Firenze, luogo de' monaci di Camaldoli, chiamato don Bartolomeo, il quale fu religioso veramente costumato e da bene, Ridolfo, che molto l'amava, gli dipinse nel chiostro che risponde in sull'orto, cioè nella loggia dove sono di mano di Paulo Ucello dipinte di verdaccio le storie di San Benedetto, entrando per la porta dell'orto a man ritta, una storia dove il medesimo santo sedendo a tavola con due Angeli a torno, aspetta che da Romano gli sia mandato il pane nella grotta, et il diavolo ha spezzato la corda co' sassi; et il medesimo che mette l'abito a un giovane.
Ma la miglior figura di tutte quelle che sono in quell'archetto è il ritratto d'un nano, che allora stava alla porta di quel monastero; nel medesimo luogo, sopra la pila dell'acqua santa, all'entrare in chiesa, dipinse a fresco di colori una Nostra Donna col Figliuolo in collo et alcuni Angioletti a torno bellissimi.
E nel chiostro, che è dinanzi al capitolo, sopra la porta d'una capelletta dipinse a fresco in un mezzo tondo San Romualdo con la chiesa dell'eremo di Camaldoli in mano, e non molto dopo, un molto bel cenacolo che è in testa del refettorio dei medesimi monaci, e questo gli fece fare don Andrea Doffi abbate, il quale era stato monaco di quel monasterio e vi si fece ritrarre da basso in un canto.
Dipinse anco Ridolfo nella chiesina della Misericordia in sulla piazza di San Giovanni in una predella tre bellissime storie della Nostra Donna, che paiono miniate, et a Matio Cini in sull'angolo della sua casa, vicino alla piazza di Santa Maria Novella in un tabernacoletto la Nostra Donna, San Matia apostolo, San Domenico e due piccioli figliuoli di esso Matio ginocchioni, ritratti di naturale; la qual opera, ancor che piccola, è molto bella e graziosa.
Alle monache di San Girolamo dell'Ordine di San Francesco de' zoccoli, sopra la costa di San Giorgio, dipinse due tavole: in una è San Girolamo in penitenza molto bello, e sopra nel mezzo tondo una Natività di Gesù Cristo, e nell'altra, che è dirimpetto a questa, è una Nunziata, e sopra nel mezzo tondo Santa Maria Madalena che si comunica.
Nel palazzo che è oggi del Duca, dipinse la capella dove udivano messa i signori, facendo nel mezzo della volta la Santissima Trinità e negl'altri spartimenti alcuni putti che tengono i misterii della Passione et alcune teste fatte per i dodici Apostoli; nei quattro canti fece gl'Evangelisti di figure intere et in testa l'Angelo Gabriello che annunzia la Vergine, figurando in certi paesi la piazza della Nunziata di Firenze fino alla chiesa di San Marco, la quale tutta opera è ottimamente condotta e con molti e belli ornamenti.
E questa finita, dipinse in una tavola, che fu posta nella Pieve di Prato, la Nostra Donna che porge la cintola a San Tomaso, che è insieme con gl'altri Apostoli; et in Ognisanti fece per monsignor de' Bonafé, spedalingo di Santa Maria Nuova e vescovo di Cortona, in una tavola la Nostra Donna, San Giovanni Battista e San Romualdo, et al medesimo, avendolo ben servito, fece alcun'altr'opere, delle quali non accade far menzione.
Ritrasse poi le tre forze d'Ercole, che già dipinse nel palazzo de' Medici Anton Pollaiolo, per Giovambattista della Palla che le mandò in Francia.
Avendo fatto Ridolfo queste e molte altre pitture e trovandosi in casa tutte le masserizie da lavorare il musaico, che furono di Davit suo zio e di Domenico suo padre, et avendo anco da lui imparato alquanto a lavorare, deliberò voler provarsi a far alcuna cosa di musaico di sua mano; e così fatto, veduto che gli riusciva, tolse a far l'arco che è sopra la porta della chiesa della Nunziata, nel quale fece l'Angelo che annunzia la Madonna; ma perché non poteva aver pacienza a commettere que' pezzuoli, non fece mai più altro di quel mestiere.
Alla Compagnia de' Battilani a sommo il Campaccio, a una loro chiesetta, fece in una tavola l'Assunzione di Nostra Donna con un coro d'Angeli e gl'Apostoli intorno al sepolcro; ma essendo per disaventura la stanza dove ell'era, stata piena di scope verdi da far bastioni l'anno dell'assedio, quell'umidità rintenerì il gesso e la scortecciò tutta, onde Ridolfo l'ebbe a rifare e vi si ritrasse dentro.
Alla pieve di Giogoli, in un tabernacolo che è in sulla strada, fece la Nostra Donna con due Angeli, e dirimpetto a un mulino de' padri romiti di Camaldoli, che è di là dalla Certosa in sull'Ema, dipinse in un altro tabernacolo a fresco molte figure, per le quali cose veggendosi Ridolfo essere adoperato a bastanza e standosi bene e con buone entrate, non volle altrimenti stillarsi il cervello a fare tutto quello che arebbe potuto nella pittura, anzi andò pensando di vivere da galantuomo e pigliarsela come veniva.
Nella venuta di papa Leone a Firenze, fece in compagnia di suoi amici e garzoni quasi tutto l'apparato di casa Medici, acconciò la sala del papa e l'altre stanze, facendo dipignere al Puntormo, come si è detto, la capella.
Similmente nelle nozze del duca Giuliano e del duca Lorenzo fece gl'apparati delle nozze et alcune prospettive di comedie, e perché fu da que' signori per la sua bontà molto amato, ebbe molti ufficii per mezzo loro e fu fatto di collegio come cittadino onorato.
Non si sdegnò anco Ridolfo di far drapelloni, stendardi et altre cose simili assai, e mi ricorda avergli sentito dire che tre volte fece le bandiere delle potenze che solevano ogni anno armeggiare e tenere in festa la città.
Et insomma si lavorava in bottega sua di tutte le cose, onde molti giovani la frequentavano, imparando ciascuno quello che più gli piaceva.
Onde Antonio del Ceraiolo, essendo stato con Lorenzo di Credi e poi con Ridolfo, ritiratosi da per sé fece molte opere e ritratti di naturale.
In San Iacopo tra' Fossi è di mano di questo Antonio in una tavola San Francesco e Santa Madalena a' piè d'un crucifisso, e ne' Servi, dietro all'altar maggiore, un San Michelagnolo ritratto dal Ghirlandaio nell'ossa di Santa Maria Nuova.
Fu anche discepolo di Ridolfo, e si portò benissimo, Mariano da Pescia, di mano del quale è un quadro di Nostra Donna con Cristo fanciullo, Santa Lisabeta e San Giovanni, molto ben fatti, nella detta cappella di palazzo, che già dipinse Ridolfo alla signoria.
Il medesimo dipinse di chiaro scuro tutta la casa di Carlo Ginori nella strada che ha da quella famiglia il nome, facendovi storie de' fatti di Sansone, con bellissima maniera; e se costui avesse avuto più lunga vita che non ebbe, sarebbe riuscito eccellente.
Discepolo parimente di Ridolfo fu Toto del Nunziata, il quale fece in S.
Piero Scheraggio con Ridolfo una tavola di Nostra Donna col Figliuolo in braccio e due Santi; ma sopra tutti gl'altri, fu carissimo a Ridolfo un discepolo di Lorenzo di Credi, il quale stette anco con Antonio del Ceraiolo, chiamato Michele, per essere d'ottima natura e giovane che conduc[ev]a le sue opere con fierezza e senza stento.
Costui dunque, seguitando la maniera di Ridolfo, lo ragiunse di maniera, che dove avea da lui a principio il terzo dell'utile, si condussero a fare insieme l'opere a metà del guadagno.
Osservò sempre Michele Ridolfo come padre e l'amò e fu da lui amato di maniera, che come cosa di lui è stato sempre et è ancora, non per altro cognome conosciuto, che per Michele di Ridolfo.
Costoro dico, che s'amarono come padre e figliuolo, lavorarono infinite opere insieme e di compagnia; e prima per la chiesa di S.
Felice in Piazza, luogo allora de' monaci di Camaldoli, dipinsero in una tavola Cristo e la Nostra Donna in aria, che pregano Dio Padre per il popolo da basso, dove sono ginocchioni alcuni Santi.
In Santa Felicita fecero due capelle a fresco, tirate via praticamente: in una è Cristo morto con le Marie e nell'altra l'Assunta con alcuni Santi.
Nella chiesa delle monache di San Iacopo dalle Murate feciono un tavola per il vescovo di Cortona de' Bonafé; e dentro al monasterio delle donne di Ripoli, in un'altra tavola la Nostra Donna e certi Santi; alla capella de' Segni sotto l'organo, nella chiesa di Santo Spirito, fecero similmente in una tavola la Nostra Donna, Sant'Anna e molti altri Santi.
Alla Compagnia de' Neri, in un quadro, la decollazione di S.
Giovanni Battista, et in borgo S.
Friano alle monachine, in una tavola, la Nunziata.
A Prato in S.
Rocco, in un'altra, dipinsero S.
Rocco, San Bastiano e la Nostra Donna in mezzo.
Parimente nella Compagnia di S.
Bastiano, a lato a S.
Iacopo sopr'Arno, fecero una tavola, dentrovi la Nostra Donna, S.
Bastiano e S.
Iacopo; et a S.
Martino alla Palma un'altra, e finalmente al signor Alessandro Vitelli, in un quadro che fu mandato a Città di Castello, una Sant'Anna che fu posta in San Fiordo alla capella di quel signore.
Ma perché furono infinite l'opere et i quadri che uscirono dalla bottega di Ridolfo e molto più i ritratti di naturale, dirò solo che da lui fu ritratto il signor Cosimo de' Medici quando era giovinetto, che fu bellissima opera e molto somigliante al vero; il qual quadro si serba ancor oggi nella guardaroba di sua eccellenza.
Fu Ridolfo spedito e presto dipintore in certe cose e particolarmente in apparati di feste; onde fece nella venuta di Carlo V imperadore a Fiorenza, in dieci giorni, un arco al canto alla Cuculia, et un altro arco in brevissimo tempo alla porta al Prato nella venuta dell'illustrissima signora duchessa Leonora, come si dirà nella vita di Battista Franco.
Alla Madonna di Vertigli, luogo de' monaci di Camaldoli fuor della terra del Monte San Savino, fece Ridolfo, avendo seco il detto Battista Franco e Michele, in un chiostretto tutte le storie della vita di Giosef di chiaro scuro; in chiesa le tavole dell'altar maggiore et a fresco una visitazione di Nostra Donna che è bella quanto altra opera in fresco che mai facesse Ridolfo.
Ma sopra tutto fu bellissima figura nell'aspetto venerando del volto il San Romualdo che è al detto altar maggiore; vi fecero anco altre pitture, ma basti avere di queste ragionato.
Dipinse Ridolfo nel palazzo del duca Cosimo nella camera verde una volta di grottesche e nelle facciate alcuni paesi, che molto piacquero al Duca.
Finalmente invecchiato Ridolfo si viveva assai lieto avendo le figliuole maritate e veggendo i maschi assai bene aviati nelle cose della mercatura in Francia et in Ferrara.
E se bene si trovò poi in guisa oppresso dalle gotte, che e' stava sempre in casa o si facea portare sopra una seggiola, nondimeno portò sempre con molta pacienza quella indisposizione et alcune disaventure de' figliuoli.
E portando così vecchio grande amore alle cose dell'arte, voleva intendere et alcuna volta vedere quelle cose che sentiva molto lodare di fabbriche, di pitture et altre cose simili che giornalmente si facevano.
Et un giorno che il signor Duca era fuor di Fiorenza, fattosi portare sopra la sua seggiola in palazzo, vi desinò e stette tutto quel giorno a guardare quel palazzo tanto avolto e rimutato da quello che già era, che egli non lo riconosceva; e la sera nel partirsi disse: "Io moro contento però che potrò portar nuova di là ai nostri artefici d'avere veduto risuscitare un morto, un brutto divenir bello et un vecchio ringiovenito".
Visse Ridolfo anni settantacinque e morì l'anno 1560, e fu sepolto, dove i suoi maggiori, in Santa Maria Novella.
E Michele suo creato, il quale come ho detto, non è chiamato altrimenti che Michele di Ridolfo, ha fatto dopo che Ridolfo lasciò l'arte, tre grandi archi a fresco sopra alcune porte della città di Firenze, a S.
Gallo la Nostra Donna, S.
Giovanni Battista e San Cosimo, che son fatte con bellissima pratica; alla porta al Prato altre figure simili, et alla porta alla Croce la Nostra Donna, S.
Giovanni Battista e Santo Ambrogio, e tavole e quadri senza fine, fatti con buona pratica.
Et io per la sua bontà e sufficienza l'ho adoperato più volte, insieme con altri, nell'opere di palazzo, con mia molta sodisfazione e d'ognuno; ma quello che in lui mi piace sommamente, oltre all'essere egli veramente uomo da bene, costumato e timorato di Dio, si è che ha sempre in bottega buon numero di giovinetti ai quali insegna con incredibile amorevolezza.
Fu anco discepolo di Ridolfo Carlo Portegli da Loro di Valdarno disopra, di mano del quale sono in Fiorenza alcune tavole et infiniti quadri: in Santa Maria Maggiore, in Santa Felicita, nelle monache di Monticelli et in Cestello la tavola della capella de' Baldesi a man ritta all'entrare in chiesa, nella quale è il martirio di Santo Romolo vescovo di Fiesole.
IL FINE DELLA VITA DI RIDOLFO GRILLANDAI, PITTORE FIORENTINO
VITA DI GIOVANNI DA UDINE PITTORE
In Udine, città del Friuli, un cittadino chiamato Giovanni, della famiglia di Nani, fu il primo che di loro attendesse all'esercizio del ricamare, nel quale il seguitarono poi i suoi discendenti con tanta eccellenza, che non più de' Nani fu detta la loro casata, ma de' Ricamatori.
Di costoro dunque un Francesco che visse sempre da onorato cittadino, attendendo alle cacce et altri somiglianti esercizii, ebbe un figliuolo l'anno 1494 al quale pose nome Giovanni, il quale, essendo ancor putto, si mostrò tanto inclinato al disegno, che era cosa maravigliosa; perciò che seguitando la caccia e l'ucellare dietro al padre, quando avea tempo ritraeva sempre cani, lepri, capri et insomma tutte le sorti d'animali e d'uccelli che gli venivano alle mani.
Il che faceva per sì fatto modo che ognuno ne stupiva.
Questa inclinazione veggendo Francesco suo padre, lo condusse a Vinezia e lo pose a imparare l'arte del disegno con Giorgione da Castelfranco, col quale dimorando il giovane, sentì tanto lodare le cose di Michelagnolo e Raffaello, che si risolvé d'andare a Roma ad ogni modo.
E così, avuto lettere di favore da Domenico Grimano amicissimo di suo padre a Baldassarri Castiglioni segretario del Duca di Mantoa et amicissimo di Raffaello da Urbino, se n'andò là dove da esso Castiglioni essendo accommodato nella scuola de' giovani di Raffaello, apprese ottimamente i principii dell'arte, il che è di grande importanza, perciò che quando altri nel cominciare piglia cattiva maniera, rade volte adiviene ch'ella si lasci senza difficultà per apprenderne una migliore.
Giovanni adunque, essendo stato pochissimo in Vinezia sotto la disciplina di Giorgione, veduto l'andar dolce, bello e grazioso di Raffaello, si dispose come giovane di bell'ingegno a volere a quella maniera attenersi per ogni modo; onde, alla buona intenzione corrispondendo l'ingegno e la mano, fece tal frutto, che in brevissimo tempo seppe tanto bene disegnare e colorire con grazia e facilità, che gli riusciva contrafare benissimo, per dirlo in una parola, tutte le cose naturali, d'animali, di drappi, d'instrumenti, vasi, paesi, casamenti e verdure, in tanto che niun de' giovani di quella scuola il superava.
Ma sopratutto si dilettò sommamente di fare uccelli di tutte le sorti, di maniera, che in poco tempo ne condusse un libro tanto vario e bello, che egli era lo spasso et il trastullo di Raffaello.
Appresso il quale dimorando un fiamingo chiamato Giovanni, il quale era maestro eccellente di far vagamente frutti, foglie e fiori similissimi al naturale, se bene in maniera un poco secca e stentata, da lui imparò Giovanni da Udine a fargli belli come il maestro, e, che è più, con una certa maniera morbida e pastosa, la quale il fece in alcune cose, come si dirà, riuscire eccellentissimo.
Imparò anco a far paesi con edifizii rotti, pezzi d'anticaglie e così a colorire in tele, paesi e verzure, nella maniera che si è dopo lui usato non pur dai fiaminghi, ma ancora da tutti i pittori italiani;
Raffaello adunque, che molto amò la virtù di Giovanni, nel fare la tavola della Santa Cecilia, che è in Bologna, fece fare a Giovanni un organo che ha in mano quella Santa, il quale lo contrafé tanto bene dal vero, che pare di rilievo, et ancora tutti gli strumenti musicali che sono a' piedi di quella Santa, e, quello che importò molto più, fece il suo dipinto così simile a quello di Raffaello, che pare d'una medesima mano.
Non molto dopo cavandosi da San Piero in Vincola fra le ruine et anticaglie del palazzo di Tito per trovar figure, furono ritrovate alcune stanze sotterra, ricoperte tutte e piene di grotteschine, di figure piccole e di storie con alcuni ornamenti di stucchi bassi.
Per che, andando Giovanni con Raffaello, che fu menato a vederle, restarono l'uno e l'altro stupefatti della freschezza, bellezza e bontà di quell'opere, parendo loro gran cosa ch'elle si fussero sì lungo tempo conservate; ma non era gran fatto non essendo state tocche né vedute dall'aria, la quale col tempo suole consumare, mediante la varietà delle stagioni, ogni cosa.
Queste grottesche adunque (che grottesche furono dette dell'essere state entro alle grotte ritrovate) fatte con tanto disegno, con sì varii e bizzarri capricci e con quegli ornamenti di stucchi sottili, tramezzati di varii campi di colori, con quelle storiettine così belle e leggiadre, entrarono di maniera nel cuore e nella mente a Giovanni, che datosi a questo studio, non si contentò d'una sola volta o due disegnarle e ritrarle.
E riuscendogli il farle con facilità e con grazia, non gli mancava se non avere il modo di fare quelli stucchi sopra i quali le grottesche erano lavorate, et ancor che molti innanzi a lui, come s'è detto, avessono ghiribizzatovi sopra, senza aver altro trovato che il modo di fare al fuoco lo stucco con gesso, calcina, pece greca, cera e matton pesto et a metterlo d'oro, non però avevano trovato il vero modo di fare gli stucchi simili a quelli che si erano in quelle grotte e stanze antiche ritrovati.
Ma facendosi allora in S.
Piero gl'archi e la tribuna di dietro, come si disse nella vita di Bramante, di calcina e pozzolana, gettando ne' cavi di terra tutti gl'intagli de' fogliami, degl'uovoli et altre membra, cominciò Giovanni, dal considerare quel modo di fare con calcina e pozzolana, a provare se gli riusciva il far figure di basso rilievo, e così provandosi gli vennero fatte a suo modo in tutte le parti, eccetto che la pelle ultima non veniva con quella gentilezza e finezza che mostravano l'antiche, né anco così bianca.
Per lo che andò pensando dovere essere necessario mescolare con la calcina di trevertino bianca, in cambio di pozzolana, alcuna cosa che fusse di color bianco, per che, dopo aver provato alcun'altre cose, fatto pestare scaglie di trevertino, trovò che facevano assai bene: ma tuttavia era il lavoro livido e non bianco, e ruvido e granelloso.
Ma finalmente fatto pestare scaglie del più bianco marmo che si trovasse, ridottolo in polvere sottile e stacciatolo, lo mescolò con calcina di trevertino bianco, e trovò che così veniva fatto senza dubbio niuno il vero stucco antico con tutte quelle parti che in quello aveva disiderato.
Della qual cosa molto rallegratosi, mostrò a Raffaello quello che avea fatto; onde egli, che allora facea, come s'è detto, per ordine di papa Leone X le logge del palazzo papale, vi fece fare a Giovanni tutte quelle volte di stucchi, con bellissimi ornamenti, ricinti di grottesche simili all'antiche, e con vaghissime e capricciose invenzioni, piene delle più varie e stravaganti cose che si possano imaginare.
E condotto di mezzo e basso rilievo tutto quell'ornamento, lo tramezzò poi di storiette, di paesi, di fogliami e varie fregiature, nelle quali fece lo sforzo quasi di tutto quello che può far l'arte in quel genere; nella qual cosa egli non solo paragonò gl'antichi, ma per quanto si può giudicare dalle cose che si son vedute, gli superò.
Perciò che quest'opere di Giovanni, per bellezza di disegno, invenzione di figure e colorito, o lavorate di stucco o dipinte, sono senza comparazione migliori che quell'antiche, le quali si veggiono nel Colosseo e dipinte alle Terme di Diocleziano et in altri luoghi.
Ma dove si possono in altro luogo vedere uccelli dipinti che più sieno, per dir così, al colorito, alle piume et in tutte l'altre parti, vivi e veri, di quelli che sono nelle fregiature e pilastri di quelle logge? I quali vi sono di tante sorti di quante ha saputo fare la natura: alcuni in un modo et altri in altro, e molti posti sopra mazzi, ma di tutte le maniere biade, legumi e frutti che ha per bisogno e nutrimento degl'uccelli in tutti i tempi prodotti la terra.
Similmente de' pesci e tutti animali dell'acqua e mostri marini che Giovanni fece nel medesimo luogo, per non potersi dir tanto che non sia poco, fia meglio passarla con silenzio, che mettersi a volere tentare l'impossibile.
Ma che dirò delle varie sorti di frutti e di fiori che vi sono senza fine e di tutte le maniere, qualità e colori, che in tutte le parti del mondo sa produrre la natura in tutte le stagioni dell'anno? E che parimente di varii instrumenti musicali, che vi sono naturalissimi? E chi non sa, come cosa notissima, che avendo Giovanni in testa di questa loggia, dove anco non era risoluto il Papa che fare vi si dovesse, di muraglia, dipinto, per accompagnare i veri della loggia, alcuni balaustri e sopra quelli un tapeto, chi non sa, dico, bisognandone un giorno uno in fretta per il Papa che andava in Belvedere, che un palafreniero, il quale non sapeva il fatto, corse da lontano per levare uno di detti tapeti dipinti e rimase ingannato? Insomma si può dire, con pace di tutti gl'altri artifici, che per opera così fatta, questa sia la più bella, la più rara e più eccellente pittura che mai sia stata veduta da occhio mortale; et ardirò oltre ciò d'affermare questa essere stata cagione che non pure Roma, ma ancora tutte l'altre parti del mondo si sieno ripiene di questa sorte pitture.
Perciò che, oltre all'essere stato Giovanni rinnovatore e quasi inventore degli stucchi e dell'altre grottesche, da questa sua opera, che è bellissima, hanno preso l'esempio chi n'ha voluto lavorare, senza che i giovani che aiutarono a Giovanni, i quali furono molti, anzi infiniti in diversi tempi, l'impararono dal vero maestro e ne riempierono tutte le provincie.
Seguitando poi Giovanni di fare sotto queste logge il primo ordine da basso, fece con altro e diverso mo' gli spartimenti de' stucchi e delle pitture nelle facciate e volte dell'altre loggie, ma nondimeno anco quelle furon bellissime per la vaga invenzione de' pergolati finti di canne in varii spartimenti e tutti pieni di viti cariche d'uve, di vitalbe, di gelsomini, di rosai e di diverse sorti animali et uccelli.
Volendo poi papa Leone far dipignere la sala dove sta la guardia de' Lanzi al piano di dette logge, Giovanni, oltre alle fregiature che sono intorno a quella sala, di putti, leoni, armi papali e grotesche, fece per le facce alcuni spartimenti di pietre mischie finte di varie sorti e simili all'incrostature antiche che usarono di fare i romani alle loro terme, tempi et altri luoghi, come si vede nella Ritonda e nel portico di S.
Piero.
In un altro salotto a canto a questo, dove stavano i cubicularii, fece Raffaello da Urbino in certi tabernacoli alcuni Apostoli di chiaro scuro grandi quanto il vivo e bellissimi, e Giovanni sopra le cornici di quell'opera ritrasse di naturale molti papagalli di diversi colori, i quali allora aveva Sua Santità, e così anco babuini, gatti mamoni, zibetti et altri bizzarri animali.
Ma quest'opera ebbe poca vita, perciò che papa Paulo IV per fare certi suoi stanzini e busigattoli da ritirarsi, guastò quella stanza e privò quel palazzo d'un'opera singolare; il che non arebbe fatto quel sant'uomo, s'egli avesse avuto gusto nell'arti del disegno.
Dipinse Giovanni i cartoni di quelle spalliere e panni da camere che poi furono tessuti di seta e d'oro in Fiandra, nei quali sono certi putti che scherzano intorno varii festoni adorni dell'imprese di papa Leone e di diversi animali ritratti dal naturale, i quali panni, che sono cosa rarissima, sono ancora oggi in palazzo; fece similmente i cartoni di certi arazzi pieni di grottesche, che stanno nelle prime stanze del concistoro.
Mentre che Giovanni s'affaticava in quest'opere, essendo stato fabricato in testa di Borgo Nuovo, vicino alla piazza di S.
Piero, il palazzo di Messer Giovambattista dall'Aquila, fu lavorata di stucchi la maggior parte della facciata, per mano di Giovanni, che fu tenuta cosa singolare.
Dipinse il medesimo e lavorò tutti gli stucchi che sono alla loggia della vigna, che fece fare Giulio cardinale de' Medici, sotto Monte Mario, dove sono animali, grottesche, festoni e fregiature tanto belle, che pare in questa Giovanni aver voluto vincere e superare se medesimo.
Onde meritò da quel cardinale, che molto amò la virtù sua, oltre molti benefizii avuti per suoi parenti, d'aver per sé un canonicato di Civitale nel Friuli, che da Giovanni fu poi dato a un suo fratello.
Avendo poi a fare al medesimo cardinale, pur in quella vigna, una fonte dove getta in una testa di liofante di marmo per il niffolo, imitò in tutto e per tutto il tempio di Nettunno (stanza poco avanti stata trovata fra l'antiche ruine di palazzo maggiore, adorna tutta di cose naturali marine, fatti ottimamente poi varii ornamenti di stucco) anzi superò di gran lunga l'artifizio di quella stanza antica col fare sì belli e bene accommodati quegl'animali, conchiglie et altre infinite cose somiglianti.
E dopo questa fece un'altra fonte, ma selvatica, nella concavità d'un fossato circondato da un bosco, facendo cascare con bello artifizio da tartari e pietre di colature d'acqua, gocciole e zampilli che parevano veramente cosa naturale; e nel più alto di quelle caverne e di que' sassi spugnosi, avendo composta una gran testa di leone a cui facevano ghirlanda intorno fila di capelvenere et altre erbe artifiziosamente quivi accommodate, non si potria credere quanta grazia dessono a quel salvatico in tutte le parti bellissimo et oltre ad ogni credenza piacevole.
Finita quest'opera, poi che ebbe donato il cardinale a Giovanni un cavalierato di S.
Piero, lo mandò a Fiorenza, acciò che, fatta nel palazzo de' Medici una camera, cioè in sul canto dove già Cosimo vecchio edificator di quello avea fatta una loggia per commodo e ragunanza de' cittadini, secondo che allora costumavano le famiglie più nobili, la dipignesse tutta di grottesche e di stucchi.
Essendo stata adunque chiusa questa loggia con disegno di Michelagnolo Buonarroti e datole forma di camera, con due finestre inginocchiate, che furono le prime di quella maniera fuora de' palazzi ferrate, Giovanni lavorò di stucchi e pitture tutta la volta, facendo in un tondo le sei palle, arme di casa Medici, sostenute da tre putti di rilievo con bellissima grazia et attitudine.
Oltra di questo vi fece molti bellissimi animali e molte bell'imprese degl'uomini e signori di quella casa illustrissima, con alcune storie di mezzo rilievo fatte di stucco; e nel campo fece il resto di pitture, fingendole di bianco e nero a uso di camei, tanto bene, che non si può meglio imaginare.
Rimase sotto la volta quattro archi di braccia dodici l'uno et alti sei, che non furono per allora dipinti, ma molti anni poi da Giorgio Vasari, giovinetto di diciotto anni, quando serviva il duca Alessandro de' Medici suo primo signore l'anno 1535; il qual Giorgio vi fece storie de' fatti di Giulio Cesare, alludendo a Giulio cardinale sopra detto, che l'aveva fatta fare.
Dopo fece Giovanni a canto a questa camera in una volta piccola a mezza botte alcune cose di stucco, basse basse, e similmente alcune pitture che sono rarissime.
Le quali ancor che piacessero a que' pittori che allora erano a Fiorenza, come fatte con fierezza e pratica maravigliosa e piene d'invenzioni terribili e capricciose, però che erano avezzi a una loro maniera stentata et a fare ogni cosa che mettevano in opera con ritratti tolti dal vivo, come non risoluti non le lodavano interamente, né si mettevano, non ne bastando per aventura loro l'animo, ad imitarle.
Essendo poi tornato Giovanni a Roma, fece nella loggia d'Agostino Chigii, la quale avea dipinta Raffaello e l'andava tuttavia conducendo a fine, un ricinto di festoni grossi a torno a torno agli spigoli e quadrature di quella volta, facendovi stagione per istagione di tutte le sorti frutte, fiori e foglie con tanto artifizio lavorate, che ogni cosa vi si vede viva e staccata dal muro e naturalissima.
E sono tante le varie maniere di frutte e biade che in quell'opera si veggiono, che per non raccontarle a una a una, dirò solo che vi sono tutte quelle che in queste nostre parti ha mai prodotto la natura.
Sopra la figura d'un Mercurio che vola ha finto per Priapo una zucca, attraversata da vilucchi, che ha per testicoli due petronciani, e vicino al fiore di quella ha finto una ciocca di fichi brugiotti grossi dentro a uno de' quali, aperto e troppo fatto, entra la punta della zucca col fiore; il quale capriccio è espresso con tanta grazia, che più non si può alcuno imaginare.
Ma che più? per finirla, ardisco d'affermare che Giovanni in questo genere di pitture ha passato tutti coloro che in simili cose hanno meglio imitata la natura, perciò che oltre all'altre cose, insino i fiori del sambuco, del finocchio e dell'altre cose minori vi sono veramente stupendissimi.
Vi si vede similmente gran copia d'animali fatti nelle lunette che sono circondate da questi festoni, et alcuni putti che tengono in mano i segni degli dèi, ma fra gl'altri un leone et un cavallo marino, per essere bellissimi scorti, sono tenuti cosa divina.
Finita quest'opera veramente singolare fece Giovanni in Castel Sant'Agnolo una stufa bellissima, e nel palazzo del papa, oltre alle già dette, molte altre minuzie che per brevità si lasciano.
Morto poi Raffaello, la cui perdita dolse molto a Giovanni, e così anco mancato papa Leone, per non avere più luogo in Roma l'arti del disegno, né altra virtù, si trattenne esso Giovanni molti mesi alla vigna del detto cardinale de' Medici in alcune cose di poco valore, e nella venuta a Roma di papa Adriano non fece altro che le bandiere minori del castello, le quali egli al tempo di papa Leone avea due volte rinovate, insieme con lo stendardo grande che sta in cima dell'ultimo torrione.
Fece anco quattro bandiere quadre quando dal detto papa Adriano fu canonizzato santo il beato Antonino arcivescovo di Fiorenza e Sant'Uberto stato vescovo di non so quale città di Fiandra; de' quali stendardi, uno, nel quale è la figura di detto Santo Antonino, fu dato alla chiesa di San Marco di Firenze, dove riposa il corpo di quel Santo; un altro, dentro al quale è il detto Sant'Uberto, fu posto in Santa Maria de Anima, chiesa de' tedeschi in Roma, e gl'altri due furono mandati in Fiandra.
Essendo poi creato sommo pontefice Clemente Settimo, col quale aveva Giovanni molta servitù, egli, che se n'era andato a Udine per fuggire la peste, tornò subito a Roma, dove giunto gli fu fatto fare nella coronazione di quel Papa un ricco e bell'ornamento sopra le scale di San Piero; e dopo fu ordinato che egli e Perino del Vaga facessero nella volta della sala vecchia, dinanzi alle stanze da basso che vanno dalle logge che già egli dipinse alle stanze di torre Borgia, alcune pitture.
Onde Giovanni vi fece un bellissimo partimento di stucchi con molte grottesche e diversi animali, e Perino i carri de' sette pianeti.
Avevano anco a dipignere le facciate della medesima sala, nelle quali già dipinse Giotto, secondo che scrive il Platina nelle vite de' pontefici, alcuni papi che erano stati uccisi per la fede di Cristo, onde fu detta un tempo quella stanza la sala de' Martiri; ma non fu a pena finita la volta, che succedendo l'infelicissimo Sacco di Roma, non si poté più oltre seguitare, per che Giovanni, avendo assai patito nella persona e nella roba, tornò di nuovo a Udine con animo di starvi lungamente, ma non gli venne fatto, perciò che tornato papa Clemente da Bologna, dove avea coronato Carlo Quinto, a Roma, fatto quivi tornare Giovanni, dopo avergli fatto di nuovo fare i stendardi di Castel Sant'Agnolo, gli fece dipignere il palco della capella maggiore e principale di San Piero, dove è l'altare di quel Santo.
Intanto, essendo morto fra' Mariano, che aveva l'uffizio del Piombo, fu dato il suo luogo a Bastiano viniziano, pittore di gran nome, et a Giovanni sopra quello una pensione di ducati ottanta di camera.
Dopo, essendo cessati in gran parte i travagli del Pontefice e quietate le cose di Roma, fu da Sua Santità mandato Giovanni con molte promesse a Firenze a fare nella sagrestia nuova di San Lorenzo, stata adorna d'eccellentissime sculture da Michelagnolo, gl'ornamenti della tribuna piena di quadri sfondati che diminuiscono a poco a poco verso il punto del mezzo.
Messovi dunque mano Giovanni, la condusse, con l'aiuto di molti suoi uomini, ottimamente a fine con bellissimi fogliami, rosoni et altri ornamenti di stucco e d'oro.
Ma in una cosa mancò di giudizio: conciò sia che nelle fregiature piane che fanno le costole della volta et in quelle che vanno a traverso rigirando i quadri, fece alcuni fogliami, ucelli, maschere e figure che non si scorgono punto dal piano per la distanza del luogo, tuttoché siano bellissime, e perché sono tramezzate di colori; là dove, se l'avesse fatte colorite senz'altro, si sarebbono vedute e tutta l'opera stata più allegra e più ricca.
Non restava a farsi di quest'opera se non quanto arebbe potuto finire in quindici giorni, riandandola in certi luoghi, quando venuta la nuova della morte di papa Clemente, venne manco a Giovanni ogni speranza, e di quello in particolare che da quel Pontefice aspettava per guiderdone di quest'opera.
Onde accortosi, benché tardi, quanto siano le più volte fallaci le speranze delle corti e come restino ingannati coloro che si fidano nelle vite di certi prìncipi, se ne tornò a Roma, dove, se bene arebbe potuto vivere d'uffici e d'entrate e servire il cardinale Ippolito de' Medici et il nuovo pontefice Paulo Terzo, si risolvé a rimpatriarsi e tornare a Udine.
Il quale pensiero avendo messo ad effetto, si tornò a stare nella patria con quel suo fratello a cui avea dato il canonicato, con proposito di più non voler adoperare pennelli.
Ma neanche questo gli venne fatto, però che, avendo preso donna et avuto figliuoli, fu quasi forzato dall'istinto che si ha naturalmente d'allevare e lasciare benestanti i figliuoli, a rimettersi a lavorare.
Dipinse dunque a' prieghi del padre del cavalier Giovan Francesco di Spilimbergo un fregio d'una sala pieno di festoni, di putti, di frutte et altre fantasie, e dopo adornò di vaghi stucchi e pitture la capella di Santa Maria di Civitale, et ai canonici del Duomo di quel luogo fece due bellissimi stendardi, et alla Fraternita di Santa Maria di Castello in Udine dipinse in un ricco gonfalone la Nostra Donna col Figliuolo in braccio et un Angelo graziosissimo che gli porge il castello, che è sopra un monte nel mezzo della città.
In Vinezia fece nel palazzo del patriarca d'Aquileia, Grimani, una bellissima camera di stucchi e pitture, dove sono alcune storiette bellissime di mano di Francesco Salviati.
Finalmente l'anno millecinquecento e cinquanta, andato Giovanni a Roma a pigliare il Santissimo Giubileo a piedi e vestito da pellegrino poveramente et in compagnia di gente bassa, vi stette molti giorni senz'essere conosciuto da niuno.
Ma un giorno andando a San Paulo, fu riconosciuto da Giorgio Vasari, che in cocchio andava al medesimo perdono in compagnia di Messer Bindo Altoviti suo amicissimo.
Negò a principio Giovanni di esser desso, ma finalmente fu forzato a scoprirsi et a dirgli che avea gran bisogno del suo aiuto appresso al Papa per conto della sua pensione che aveva in sul Piombo, la quale gli veniva negata da un fra' Guglielmo scultore genovese, che aveva quell'ufficio avuto dopo la morte di fra' Bastiano.
Della qual cosa parlando Giorgio al Papa, fu cagione che l'obligo si rinovò e poi si trattò di farne permuta in un canonicato d'Udine per un figliuolo di Giovanni; ma essendo poi di nuovo aggirato da quel fra' Guglielmo, se ne venne Giovanni da Udine a Firenze, creato che fu papa Pio, per essere da sua eccellenza appresso quel Pontefice, col mezzo del Vasari, aiutato e favorito.
Arrivato dunque a Firenze fu da Giorgio fatto conoscere a sua eccellenza illustrissima, con la quale andando a Siena e poi di lì a Roma, dove andò anco la signora duchessa Leonora, fu in guisa dalla benignità del Duca aiutato, che non solo fu di tutto quello disiderava consolato, ma dal Pontefice messo in opera con buona provisione a dar perfezione e fine all'ultima loggia, la quale è sopra quella che gli avea già fatta fare papa Leone.
E quella finita, gli fece il medesimo Papa ritoccare tutta la detta loggia prima, il che fu errore e cosa poco considerata, perciò che il ritoccarla a secco le fece perdere tutti que' colpi maestrevoli che erano stati tirati dal pennello di Giovanni nell'eccellenza della sua migliore età a perdere quella freschezza e fierezza che la facea nel suo primo essere cosa rarissima.
Finita quest'opera, essendo Giovanni di settanta anni, finì anco il corso della sua vita l'anno 1564, rendendo lo spirito a Dio in quella nobilissima città che l'avea molti anni fatto vivere con tanta eccellenza e sì gran nome.
Fu Giovanni sempre, ma molto più negl'ultimi suoi anni, timorato di Dio e buon cristiano, e nella sua giovanezza si prese pochi altri piaceri che di cacciare et uccellare, et il suo ordinario era, quando era giovane, andarsene il giorno delle feste con un suo fante a caccia, allontanandosi tal volta da Roma dieci miglia per quelle campagne; e perché tirava benissimo lo scoppio e la balestra, rade volte tornava a casa che non fusse il suo fante carico d'oche selvatiche, colombacci, germani e di quell'altre bestiacce che si trovano in que' paduli.
E fu Giovanni inventore, secondo che molti affermano, del bue di tela dipinto che si fa per addopparsi a quello e tirar senza essere dalle fiere veduto lo scoppio; e per questi esercizii d'ucellare e cacciare si dilettò di tener sempre cani et allevarne da se stesso.
Volle Giovanni, il quale merita di esser lodato fra i maggiori della sua professione, essere sepolto nella Ritonda, vicino al suo maestro Raffaello da Urbino, per non star, morto, diviso da colui dal quale vivendo non si separò il suo animo già mai.
E perché l'uno e l'altro, come si è detto, fu ottimo cristiano, si può credere che anco insieme siano nell'eterna beatitudine.
IL FINE DELLA VITA DI GIOVANNI DA UDINE
VITA DI BATTISTA FRANCO PITTORE VINIZIANO
Battista Franco viniziano, avendo nella sua prima fanciullezza atteso al disegno come colui che tendeva alla perfezione di quell'arte, se n'andò di venti anni a Roma dove, poiché per alcun tempo con molto studio ebbe atteso al disegno e vedute le maniere di diversi, si risolvé non volere altre cose studiare, né cercare d'imitare, che i disegni, pitture e sculture di Michelagnolo; per che, datosi a cercare, non rimase schizzo, bozza o cosa non che altro stata ritratta da Michelagnolo, che egli non disegnasse.
Onde non passò molto che fu de' primi disegnatori che frequentassino la capella di Michelagnolo, e, che fu più, stette un tempo senza volere dipignere o fare altra cosa che disegnare.
Ma venuto l'anno 1536, mettendosi a ordine un grandissimo e sontuoso apparato da Antonio da San Gallo per la venuta di Carlo Quinto imperatore, nel quale furono adoperati tutti gl'artefici buoni e cattivi, come in altro luogo s'è detto, Raffaello da Monte Lupo, che avea a fare l'ornamento di ponte Sant'Agnolo e le dieci statue che sopra vi furono poste, disegnò di far sì che Battista fusse adoperato anch'egli, avendolo visto fino disegnatore e giovane di bell'ingegno e di fargli dare da lavorare ad ogni modo; e così parlatone col San Gallo, fece tanto, che a Battista furono date a fare quattro storie grandi a fresco di chiaro scuro nella facciata della porta Capena, oggi detta di San Bastiano, per la quale aveva ad entrare l'imperatore; nelle quali Battista, senz'avere mai più tocco colori, fece sopra la porta l'arme di papa Paulo Terzo e quella di esso Carlo imperatore et un Romulo che metteva sopra quella del Pontefice un regno papale e sopra quella di Cesare una corona imperiale; il quale Romulo, che era una figura di cinque braccia, vestita all'antica e con la corona in testa, aveva dalla destra Numa Pompilio e dalla sinistra Tullo Ostilio, e sopra queste parole: "Quirinus Pater".
In una delle storie, che erano nelle facciate de' torrioni che mettono in mezzo la porta, era il maggior Scipione che trionfava di Cartagine, la quale avea fatta tributaria del popolo romano, e nell'altra a man ritta era il trionfo di Scipione minore, che la medesima avea rovinata e disfatta.
In uno di due quadri che erano fuori de' torrioni nella faccia dinanzi, si vedeva Annibale sotto le mura di Roma essere ributtato dalla tempesta, e nell'altro a sinistra Flacco entrare per quella porta al soccorso di Roma contra il detto Annibale.
Le quali tutte storie e pitture, essendo le prime di Battista, e rispetto a quelle degl'altri furono assai buone e molto lodate; e se Battista avesse prima cominciato a dipignere et andare praticando tal volta i colori e maneggiare i pennegli, non ha dubbio che averebbe passato molti; ma lo stare ostinato in una certa openione che hanno molti, i quali si fanno a credere che il disegno basti a chi vuol dipignere, gli fece non piccolo danno.
Ma con tutto ciò egli si portò molto meglio che non fecero alcuni di coloro che fecero le storie dell'arco di San Marco, nel quale furono otto storie, cioè quattro per banda, che le migliori di tutte furono parte fatte da Francesco Salviati e parte da un Martino et altri giovani tedeschi, che pur allora erano venuti a Roma per imparare; né lascerò di dire a questo proposito che il detto Martino, il quale molto valse nelle cose di chiaro scuro, fece alcune battaglie con tanta fierezza e sì belle invenzioni in certi affronti e fatti d'arme fra cristiani e turchi, che non si può far meglio.
E, quello che fu cosa maravigliosa, fece il detto Martino e' suoi uomini quelle tele con tanta sollecitudine e prestezza, perché l'opera fusse finita a tempo, che non si partivano mai dal lavoro, e perché era portato loro continuamente da bere e di buon greco, fra lo stare sempre ubriachi e riscaldati dal furor del vino e la pratica del fare, feciono cose stupende.
Quando dunque videro l'opera di costoro il Salviati e Battista et il Calavrese, confessarono esser necessario che chi vuole esser pittore cominci ad adoperare i pennegli a buon'ora; la qual cosa avendo poi meglio discorsa da sé, Battista cominciò a non mettere tanto studio in finire i disegni, ma a colorire alcuna volta.
Venendo poi il Monte Lupo a Fiorenza, dove si faceva similmente grandissimo apparato per ricevere il detto imperatore, Battista venne seco, et arrivati trovarono il detto apparato condotto a buon termine.
Pure, essendo Battista messo in opera, fece un basamento tutto pieno di figure e trofei, sotto la statua che al canto de' Carnesecchi avea fatta fra' Giovann'Agnolo Montorsoli.
Per che, conosciuto fra gl'artefici per giovane ingegnoso e valente, fu poi molto adoperato nella venuta di madama Margherita d'Austria, moglie del duca Alessandro, e particolarmente nell'apparato che fece Giorgio Vasari nel palazzo di Messer Ottaviano de' Medici, dove avea la detta signora ad abitare.
Finite queste feste, si mise Battista a disegnare con grandissimo studio le statue di Michelagnolo che sono nella sagrestia nuova di San Lorenzo; dove allora essendo volti a disegnare e fare di rilievo tutti i scultori e pittori di Firenze, fra essi acquistò assai Battista, ma fu nondimeno conosciuto l'error suo, di non aver mai voluto ritrarre dal vivo o colorire, né altro fare che imitare statue e poche altre cose, che gli avevano fatto in tal modo indurare et insecchire la maniera, che non se la potea levar da dosso, né fare che le sue cose non avessono del duro e del tagliente, come si vide in una tela dove fece con molta fatica e diligenza Lucrezia romana violata da Tarquinio.
Dimorando dunque Battista in fra gli altri e frequentando la detta sagrestia, fece amicizia con Bartolomeo Amannati scultore, che in compagnia di molti altri là studiavano le cose del Buonarroto; e fu sì fatta l'amicizia, che il detto Amanati si tirò in casa Battista et il Genga da Urbino, e di compagnia vissero alcun tempo insieme et attesero con molto frutto agli studii dell'arte.
Essendo poi stato morto l'anno 1536 il duca Alessandro e creato in suo luogo il signor Cosimo de' Medici, molti de' servitori del Duca morto rimasero a' servigii del nuovo et altri no, e fra quelli che si partirono fu il detto Giorgio Vasari, il quale tornandosi ad Arezzo con animo di non più seguitare le corti, essendogli mancato il cardinale Ippolito de' Medici, suo primo signore, e poi il duca Alessandro, fu cagione che Battista fu messo al servizio del duca Cosimo et a lavorare in guardaroba, dove dipinse in un quadro grande, ritraendogli da uno di fra' Bastiano e da uno di Tiziano, papa Clemente et il cardinale Ippolito, e da un del Puntormo il duca Alessandro.
Et ancor che questo quadro non fusse di quella perfezione che si aspettava, avendo nella medesima guardaroba veduto il cartone di Michelagnolo del Noli me tangere che aveva già colorito il Puntormo, si mise a far un cartone simile, ma di figure maggiori, e ciò fatto ne dipinse un quadro nel quale si portò molto meglio quanto al colorito; et il cartone che ritrasse, come stava apunto quel del Buonarroto, fu bellissimo e fatto con molta pacienza.
Essendo poi seguita la cosa di Monte Murlo, dove furono rotti e presi i fuorusciti e rebelli del Duca, con bella invenzione fece Battista una storia della battaglia seguita, mescolata di poesia a suo capriccio, che fu molto lodata, ancor che in essa si riconoscessino nel fatto d'arme e far de' prigioni molte cose state tolte di peso dall'opere e disegni del Buonarroto; perciò che essendo nel lontano il fatto d'arme, nel dinanzi erano i cacciatori di Ganimede che stavano a mirar l'uccello di Giove che se ne portava il giovinetto in cielo; la quale parte tolse Battista dal disegno di Michelagnolo, per servirsene e mostrare che il Duca giovinetto, nel mezzo de' suoi amici, era per virtù di Dio salito in cielo, o altra cosa somigliante.
Questa storia dico, fu prima fatta da Battista in cartone e poi dipinta in un quadro con estrema diligenza, et oggi è con l'altre dette opere sue nelle sale di sopra del palazzo de' Pitti, che ha fatto ora finire del tutto sua eccellenza illustrissima.
Essendosi dunque Battista con queste et alcun'altre opere trattenuto al servizio del Duca, insino a che egli ebbe presa per donna la signora donna Leonora di Tolledo, fu poi nell'apparato di quelle nozze adoperato all'arco trionfale della porta al Prato, dove gli fece fare Ridolfo Ghirlandaio alcune storie de' fatti del signor Giovanni padre del duca Cosimo.
In una delle quali si vedeva quel signore passare i fiumi del Po e dell'Adda, presente il cardinale Giulio de' Medici che fu papa Clemente Settimo, il signor Prospero Colonna et altri signori, e nell'altro la storia del riscatto di San Secondo.
Dall'altra banda fece Battista in un'altra storia la città di Milano et intorno a quella il campo della lega, che partendosi vi lascia il detto signor Giovanni; nel destro fianco dell'arco fece in un'altra da un lato l'Occasione, che avendo i capegli sciolti, con una mano gli porge al signor Giovanni, e dall'altro Marte che similmente gli porgeva la spada.
In un'altra storia sotto l'arco era di mano di Battista il signor Giovanni che combatteva fra il Tesino e Biegrassa, sopra ponte Rozzo, difendendolo, quasi un altro Orazio, con incredibile bravura.
Dirimpetto a questa era la presa di Caravaggio et in mezzo alla battaglia il signor Giovanni che passava fra ferro e fuoco per mezzo l'esercito nimico senza timore; fra le colonne a man ritta era in un ovato Garlasso preso dal medesimo con una sola compagnia di soldati, et a man manca fra l'altre due colonne il bastione di Milano tolto a' nemici.
Nel frontone che rimaneva alle spalle di chi entrava era il detto signore Giovanni a cavallo sotto le mura di Milano, che giostrando a singolar battaglia con un cavaliere, lo passava da banda a banda con la lancia; sopra la cornice maggiore, che va a trovare il fine dell'altra cornice, dove posa il frontespizio, in un'altra storia grande fatta da Battista con molta diligenza, era nel mezzo Carlo Quinto imperadore, che coronato di lauro sedeva sopra uno scoglio con lo scetro in mano, et a' piedi gli giaceva il fiume Betis con un vaso che versava da due bocche, et a canto a questo era il fiume Danubio che con sette bocche versava le sue acque nel mare.
Io non farò qui menzione d'un infinito numero di statue che in questo arco accompagnavano le dette et altre pitture, perciò che bastandovi dire al presente quello che appartiene a Battista Franco, non è mio ufficio quello raccontare che da altri nell'apparato di quelle nozze fu scritto lungamente senza che, essendosi parlato dove facea bisogno de' maestri delle dette statue, superfluo sarebbe qualunche cosa qui se ne dicessi, e massimamente non essendo le dette statue in piedi, onde possano esser vedute e considerate.
Ma tornando a Battista, la migliore cosa che facesse in quelle nozze fu uno dei dieci sopra detti quadri che erano nell'apparato del maggior cortile del palazzo de' Medici, nel quale fece di chiaro scuro il duca Cosimo investito di tutte le ducali insegne.
Ma con tutto che vi usasse diligenza, fu superato, dal Bronzino e da altri che avevano manco disegno di lui, nell'invenzione, nella fierezza e nel maneggiare il chiaro scuro, atteso (come s'è detto altra volta) che le pitture vogliono essere condotte facili e poste le cose a' luoghi loro con giudizio e senza uno certo stento e fatica che fa le cose parere dure e crude; oltra che il troppo ricercarle le fa molte volte venir tinte e le guasta.
Perciò che lo star loro tanto a torno toglie tutto quel buono che suole fare la facilità e la grazia e la fierezza; le quali cose, ancor che in gran parte vengano e s'abbiano da natura, si possono anco in parte acquistare dallo studio e dall'arte.
Essendo poi Battista condotto da Ridolfo Ghirlandaio alla Madonna di Vertigli in Valdichiana, il qual luogo era già membro del monasterio degl'Angeli di Firenze dell'Ordine di Camaldoli et oggi è capo da sé in cambio del monasterio di San Benedetto, che fu per l'assedio di Firenze rovinato fuor della porta a Pinti, vi fece le già dette storie del chiostro, mentre Ridolfo faceva la tavola e gl'ornamenti dell'altar maggiore.
E quelle finite, come s'è detto nella vita di Ridolfo, adornarno d'altre pitture quel santo luogo, che è molto celebre e nominato per i molti miracoli che vi fa la Vergine madre del Figliuol di Dio.
Dopo, tornato Battista a Roma, quando a punto s'era scoperto il Giudizio di Michelagnolo, come quelli che era studioso della maniera e delle cose di quell'uomo, il vide volentieri e con infinita maraviglia il disegnò tutto; e poi risolutosi a stare in Roma, a Francesco cardinale Cornaro, il quale aveva rifatto a canto a San Piero il palazzo che abitava e risponde nel portico verso Camposanto, dipinse sopra gli stucchi una loggia che guarda verso la piazza, facendovi una sorte di grottesche tutte piene di storiette e di figure; la qual opera, che fu fatta con molta fatica e diligenza, fu tenuta molto bella.
Quasi ne' medesimi giorni, che fu l'anno 1538, avendo fatto Francesco Salviati una storia in fresco nella Compagnia della Misericordia, e dovendo dargli l'ultimo fine e mettere mano ad altre, ché molti particolari disegnavano farvi, per la concorrenza che fu fra lui et Iacopo del Conte, non si fece altro; la qual cosa intendendo Battista, andò cercando, con questo mezzo, occasione di mostrarsi da più di Francesco et il migliore maestro di Roma; perciò che adoperando amici e mezzi fece tanto, che monsignor della Casa, veduto un suo disegno, gliene allogò.
Per che, messovi mano, vi fece a fresco San Giovanni Battista fatto pigliare da Erode e mettere in prigione.
Ma con tutto che questa pittura fusse condotta con molta fatica, non fu a gran pezzo tenuta pari a quella del Salviati, per essere fatta con stento grandissimo e d'una maniera cruda e malinconica, che non aveva ordine nel componimento, né in parte alcuna punto di quella grazia e vaghezza di colorito che aveva quella di Francesco.
E da questo si può fare giudizio, che coloro i quali seguitando quest'arte si fondano in far bene un torso, un braccio et una gamba o altro membro ben ricerco di muscoli, e che l'intendere bene quella parte sia il tutto, sono ingannati; perciò che una parte non è il tutto dell'opera, e quegli la conduce interamente perfetta e con bella e buona maniera, che fatte bene le parti sa farle proporzionatamente corrispondere al tutto, e che oltre ciò fa che la composizione delle figure esprime e fa bene quell'effetto che dee fare senza confusione.
E sopra tutto si vuole avvertire che le teste siano vivaci, pronte, graziose e con bell'arte, e che la maniera non sia cruda, ma sia negl'ignudi tinta talmente di nero, ch'ell'abbiano rilievo, sfugghino e si allontanino secondo che fa bisogno, per non dir nulla delle prospettive de' paesi e dell'altre parti che le buone pitture richieggiono; né che nel servirsi delle cose d'altri si dee fare per sì fatta maniera, che non si conosca così agevolmente.
Si accorse dunque tardi Battista d'aver perduto tempo fuor di bisogno dietro alle minuzie di muscoli et al disegnare con troppa diligenza, non tenendo conto dell'altre parti dell'arte.
Finita quest'opera, che gli fu poco lodata, si condusse Battista, per mezzo di Bartolomeo Genga, a' servigi del duca d'Urbino, per dipignere nella chiesa e capella, che è unita col palazzo d'Urbino, una grandissima volta.
E là giunto, si diede subito senza pensare altro a fare i disegni secondo l'invenzione di quell'opera e senza fare altro spartimento.
E così a imitazione del Giudizio del Buonarroto, figurò in un cielo la gloria de' Santi, sparsi per quella volta sopra certe nuvole, e con tutti i cori degl'angeli intorno a una Nostra Donna, la quale, essendo assunta in cielo, è aspettata da Cristo in atto di coronarla, mentre stanno partiti in diversi mucchi i patriarchi, i profeti, le sibille, gl'apostoli, i martiri, i confessori e le vergini, le quali figure in diverse attitudini mostrano rallegrarsi della venuta di essa Vergine gloriosa.
La quale invenzione sarebbe stata certamente grande occasione a Battista di mostrarsi valentuomo, se egli avesse preso miglior via, non solo di farsi pratico ne' colori a fresco, ma di governarsi con miglior ordine e giudizio in tutte le cose, che egli non fece.
Ma egli usò in quest'opera il medesimo modo di fare che nell'altre sue, perciò che fece sempre le medesime figure, le medesime effigie, i medesimi panni e le medesime membra; oltreché il colorito fu senza vaghezza alcuna et ogni cosa fatta con difficultà e stentata.
Laonde, finita del tutto, rimasero poco sodisfatti il duca Guidobaldo, il Genga e tutti gl'altri che da costui aspettavano gran cose e simili al bel disegno che egli mostrò loro da principio.
E nel vero per fare un bel disegno Battista non avea pari e si potea dir valente uomo.
La qual cosa conoscendo quel Duca e pensando che i suoi disegni, messi in opera da coloro che lavoravano eccellentemente vasi di terra a Castel Durante, i quali si erano molto serviti delle stampe di Raffaello da Urbino e di quelle d'altri valentuomini, riuscirebbono benissimo, fece fare a Battista infiniti disegni, che messi in opera in quella sorte di terra gentilissima sopra tutte l'altre d'Italia, riuscirono cosa rara.
Onde ne furono fatti tanti e di tante sorte vasi, quanti sarebbono bastati e stati orrevoli in una credenza reale, e le pitture che in essi furono fatte non sarebbono state migliori, quando fussero state fatte a olio da eccellentissimi maestri.
Di questi vasi adunque, che molto rassomigliano, quanto alla qualità della terra, quell'antica che in Arezzo si lavorava anticamente al tempo di Porsena re di Toscana, mandò il detto duca Guidobaldo una credenza doppia a Carlo Quinto imperadore et una al cardinal Farnese, fratello della signora Vettoria sua consorte.
E devemo sapere che di questa sorte pitture in vasi non ebbono, per quanto si può giudicare, i romani; perciò che i vasi che si sono trovati di que' tempi pieni delle ceneri de' loro morti o in altro modo sono pieni di figure graffiate e campite d'un colore solo in qualche parte, o nero, o rosso, o bianco e non mai con lustro d'invetriato, né con quella vaghezza e varietà di pitture che si sono vedute e veggiono a' tempi nostri; né si può dire che se forse l'avevano, sono state consumate le pitture dal tempo e dallo stare sotterrate, però che veggiamo queste nostre diffendersi da tutte le malignità del tempo e da ogni cosa; onde starebbono per modo di dire quattromil'anni sotto terra, che non si guasterebbono le pitture.
Ma ancora che di sì fatti vasi e pitture si lavori per tutta Italia, le migliori terre e più belle nondimeno sono quelle che si fanno, come ho detto, a Castel Durante, terra dello stato d'Urbino, e quelle di Faenza, che per lo più che migliori, sono bianchissime e con poche pitture e quelle nel mezzo o intorno, ma vaghe e gentili affatto.
Ma tornando a Battista, nelle nozze che poi si fecero in Urbino del detto signor Duca e signora Vettoria Farnese, egli, aiutato da' suoi giovani, fece negl'archi ordinati dal Genga, il quale fu capo di quell'apparato, tutte le storie di pitture che vi andarono, ma perché il Duca dubitava che Battista non avesse finito a tempo, essendo l'impresa grande, mandò per Giorgio Vasari, che allora faceva in Arimini ai monaci bianchi di Scolca olivetani una capella grande a fresco e la tavola dell'altare maggiore a olio, acciò che andasse ad aiutare in quell'apparato il Genga e Battista.
Ma sentendosi il Vasari indisposto, fece sua scusa con sua eccellenza e le scrisse che non dubitasse, perciò che era la virtù e sapere di Battista tale, che arebbe, come poi fu vero, a tempo finito ogni cosa.
Et andando poi, finite l'opere d'Arimini, in persona a fare scusa et a visitare quel Duca, sua eccellenza gli fece vedere, perché la stimasse, la detta capella stata dipinta da Battista, la quale molto lodò il Vasari e raccomandò la virtù di colui che fu largamente sodisfatto dalla molta benignità di quel signore.
Ma è ben vero che Battista allora non era in Urbino, ma in Roma, dove attendeva a disegnare non solo le statue, ma tutte le cose antiche di quella città per farne, come fece, un gran libro che fu opera lodevole.
Mentre adunque che attendeva Battista a disegnare in Roma, Messer Giovann'Andrea dall'Anguillara, uomo in alcuna sorte di poesie veramente raro, avea fatto una compagnia di diversi begl'ingegni e facea fare nella maggior sala di Santo Apostolo una ricchissima scena et apparato per recitare comedie di diversi autori a gentiluomini, signori e gran personaggi, et aveva fatti fare gradi per diverse sorti di spettatori, e per i cardinali et altri gran prelati, accommodate alcune stanze donde per gelosie potevano senza esser veduti, vedere et udire.
E perché nella detta compagnia erano pittori, architetti, scultori et uomini che avevano a recitare e fare altri ufficii, a Battista et all'Amannato fu dato cura, essendo fatti di quella brigata, di far la scena et alcune storie et ornamenti di pitture, le quali condusse Battista, con alcune statue che fece l'Amannato, tanto bene, che ne fu sommamente lodato.
Ma perché la molta spesa in quel luogo superava l'entrata, furono forzati Messer Giovann'Andrea e gl'altri levare la prospettiva e gl'altri ornamenti di Santo Apostolo e condurgli in strada Giulia nel tempio nuovo di S.
Biagio, dove avendo Battista di nuovo accommodato ogni cosa, si recitarono molte comedie con incredibile sodisfazione del popolo e cortigiani di Roma, e di qui poi ebbono origine i comedianti che vanno attorno chiamati i Zanni.
Dopo queste cose venuto l'anno 1550, fece Battista insieme con Girolamo Seciolante da Sermoneta, al cardinale di Cesis nella facciata del suo palazzo, un'arme di papa Giulio III stato creato allora nuovo pontefice, con tre figure et alcuni putti che furono molto lodate.
E quella finita, dipinse nella Minerva, in una capella stata fabricata da un canonico di S.
Piero e tutta ornata di stucchi, alcune storie della Nostra Donna e di Gesù Cristo in uno spartimento della volta, che furono la miglior cosa che insino allora avesse mai fatto.
In una delle due facciate dipinse la Natività di Gesù Cristo con alcuni pastori et Angeli che cantano sopra la capanna, e nell'altra la Resurrezione di Cristo con molti soldati in diverse attitudini d'intorno al sepolcro, e sopra ciascuna delle dette storie in certi mezzi tondi fece alcuni profeti grandi e finalmente, nella facciata dell'altare, Cristo crucifisso, la Nostra Donna, S.
Giovanni, S.
Domenico et alcun'altri Santi nelle nicchie, ne' quali tutti si portò molto bene e da maestro eccellente.
Ma perché i suoi guadagni erano scarsi e le spese di Roma sono grandissime, dopo aver fatto alcune cose in tela, che non ebbono molto spaccio, se ne tornò, pensando nel mutar paese anco fortuna, a Vinezia sua patria, dove mediante quel suo bel mo' di disegnare fu giudicato valentuomo; e pochi giorni dopo datogli a fare per la chiesa di S.
Francesco della Vigna, nella capella di Monsignor Barbaro, eletto patriarca d'Aquileia, una tavola a olio, nella quale dipinse S.
Giovanni che battezza Cristo nel Giordano, in aria Dio Padre, a basso due putti che tengono le vestimenta di esso Cristo, e negli angoli la Nunziata, et a' piè di queste figure finse una tela sopraposta con buon numero di figure piccole et ignude, cioè d'angeli, demonii et anime in purgatorio, e con un motto che dice: "In nomine Iesu omne genuflectatur".
La qual opera, che certo fu tenuta molto buona, gl'acquistò gran nome e credito, anzi fu cagione che i frati de' zoccoli, i quali stanno in quel luogo et hanno cura della chiesa di S.
Iobbe in Canareio, gli facessero fare in detto S.
Iobbe, alla capella di Ca' Foscari, una Nostra Donna che siede col Figliuolo in collo, un S.
Marco da un lato, una Santa dall'altro et in aria alcuni Angeli che spargono fiori.
In S.
Bartolomeo alla sepoltura di Cristofano Fuccheri mercatante todesco fece in un quadro l'Abondanza, Mercurio et una Fama; a Messer Antonio della Vecchia viniziano dipinse in un quadro di figure grandi quanto il vivo e bellissime Cristo coronato di spine et alcuni farisei intorno che lo scherniscono.
Intanto essendo stata col disegno di Iacopo Sansovino condotta nel palazzo di S.
Marco (come a suo luogo si dirà) di muraglia la scala che va dal terzo piano in su et adorna con varii partimenti di stucchi da Alessandro scultore e creato del Sansovino, dipinse Battista per tutto grotteschine minute et in certi vani maggiori buon numero di figure a fresco, che assai sono state lodate dagli artefici; e dopo fece il palco del ricetto di detta scala.
Non molto di poi quando furono dati, come s'è detto di sopra, a fare tre quadri per uno ai migliori e più reputati pittori di Vinezia, per la libreria di San Marco, con patto che chi meglio si portasse a giudizio di que' magnifici senatori guadagnasse, oltre al premio ordinario, una collana d'oro, Battista fece in detto luogo tre storie con due filosofi fra le finestre e si portò benissimo, ancor che non guadagnasse il premio dell'onore, come dicemmo di sopra.
Dopo le quali opere, essendogli allogato dal patriarca Grimani una capella in San Francesco dalla Vigna, che è la prima a man manca entrando in chiesa, Battista vi mise mano e cominciò a fare per tutta la volta ricchissimi spartimenti di stucchi e di storie in figure a fresco, lavorandovi con diligenza incredibile.
Ma o fusse la trascuraggine sua, o l'aver lavorato alcune cose a fresco per le ville d'alcuni gentiluomini e forse sopra mura freschissime, come intesi, prima che avesse la detta capella finita, si morì; et ella, rimasa imperfetta, fu poi finita da Federigo Zucchero da Sant'Agnolo in Vado, giovane e pittore eccellente tenuto in Roma de' migliori, il quale fece a fresco nelle faccie dalle bande Maria Madalena che si converte alla predicazione di Cristo e la ressurezione di Lazzero suo fratello, che sono molto graziose pitture.
E finite le facciate, fece il medesimo nella tavola dell'altare l'adorazione de' Magi, che fu molto lodata.
Hanno dato nome e credito grandissimo a Battista, il quale morì l'anno 1561, molti suoi disegni stampati, che sono veramente da essere lodati.
Nella medesima città di Vinezia e quasi ne' medesimi tempi è stato, ed è vivo ancora, un pittore chiamato Iacopo Tintoretto, il quale si è dilettato di tutte le virtù e particolarmente di sonare di musica e diversi strumenti, et oltre ciò piacevole in tutte le sue azzioni, ma nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto et il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne' componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell'uso degl'altri pittori; anzi ha superata la stravaganza, con le nuove e capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del suo intelletto che ha lavorato a caso e senza disegno, quasi mostrando che quest'arte è una baia.
Ha costui alcuna volta lasciato le bozze per finire, tanto a fatica sgrossate, che si veggiono i colpi de' pennegli fatti dal caso e dalla fierezza, più tosto che dal disegno e dal giudizio.
Ha dipinto quasi di tutte le sorti pitture a fresco, a olio, ritratti di naturale et ad ogni pregio, di maniera, che con questi suoi modi ha fatto e fa la maggior parte delle pitture che si fanno in Vinezia.
E perché nella sua giovanezza si mostrò in molte bell'opere di gran giudizio, se egli avesse conosciuto il gran principio che aveva dalla natura et aiutatolo con lo studio e col giudizio, come hanno fatto coloro che hanno seguitato le belle maniere de' suoi maggiori e non avesse come ha fatto tirato via di pratica, sarebbe stato uno de' maggiori pittori che avesse avuto mai Vinezia.
Non che per questo si toglia che non sia fiero e buon pittore e di spirito svegliato, capriccioso e gentile.
Essendo dunque stato ordinato dal senato che Iacopo Tintoretto e Paulo Veronese, allora giovani di grande speranza, facessero una storia per uno nella sala del gran consiglio, et una Orazio figliuolo di Tiziano, il Tintoretto dipinse nella sua Federigo Barbarossa coronato dal Papa, figurandovi un bellissimo casamento et intorno al Pontefice gran numero di cardinali e di gentiluomini viniziani, tutti ritratti di naturale, e da basso la musica del Papa, nel che tutto si portò di maniera, che questa pittura può stare a canto a quella di tutti e d'Orazio detto, nella quale è una battaglia fatta a Roma fra i todeschi del detto Federigo et i romani, vicina a Castel Sant'Agnolo et al Tevere; et in questa è fra l'altre cose un cavallo in iscorto che salta sopra un soldato armato, che è bellissimo; ma vogliono alcuni che in quest'opera Orazio fusse aiutato da Tiziano suo padre.
Appresso a queste Paulo Veronese, del quale si è parlato nella vita di Michele San Michele, fece nella sua il detto Federigo Barbarossa che apprestatosi alla corte bacia la mano a papa Ottaviano in pregiudizio di papa Alessandro Terzo, et oltre a questa storia, che fu bellissima, dipinse Paulo sopra una finestra quattro gran figure: il Tempo, l'Unione con un fascio di bacchette, la Pacienza e la Fede, nelle quali si portò bene quanto più non saprei dire.
Non molto dopo, mancando un'altra storia in detta sala, fece tanto il Tintoretto con mezzi e con amici, ch'ella gli fu data a fare, onde la condusse di maniera, che fu una maraviglia e che ella merita di essere fra le migliori cose, che mai facesse, annoverata: tanto poté in lui il disporsi di voler paragonare, se non vincere e superare, i suoi concorrenti che avevano lavorato in quel luogo.
E la storia che egli vi dipinse, acciò anco da quei che non sono dell'arte sia conosciuta, fu papa Alessandro che scomunica et interdice Barbarossa, et il detto Federigo che per ciò fa che i suoi non rendono più ubidienza al Pontefice.
E fra l'altre cose capricciose che sono in questa storia, quella è bellissima dove il Papa et i cardinali, gettando da un luogo alto le torce e candele, come si fa quando si scomunica alcuno, è da basso una baruffa d'ignudi che s'azzuffano per quelle torce e candele, la più bella e più vaga del mondo.
Oltre ciò, alcuni basamenti, anticaglie e ritratti di gentiluomini, che sono sparsi per questa storia, sono molto ben fatti e gl'acquistarono grazia e nome appresso d'ognuno, onde in S.
Rocco, nella capella maggiore, sotto l'opera del Pordenone, fece duoi quadri a olio grandi quanto è larga tutta la capella, cioè circa braccia dodici l'uno.
In uno finse una prospettiva come d'uno spedale pieno di letta e d'infermi in varie attitudini, i quali sono molto medicati da Santo Rocco, e fra questi sono alcuni ignudi molto bene intesi et un morto in iscorto che è bellissimo; nell'altro è una storia parimente di Santo Rocco piena di molto belle e graziose figure et insomma tale ch'ell'è tenuta delle migliori opere che abbia fatto questo pittore; a mezza la chiesa in una storia della medesima grandezza fece Gesù Cristo che alla probatica piscina sana l'infermo, che è opera similmente tenuta ragionevole.
Nella chiesa di Santa Maria dell'Orto, dove si è detto di sopra che dipinsero il palco Cristofano et il fratello, pittori bresciani, ha dipinto il Tintoretto le due facciate, cioè a olio sopra tele, della capella maggiore, alte dalla volta insino alla cornice del sedere braccia ventidue.
In quella che è a man destra ha fatto Moisè, il quale tornando dal monte dove da Dio aveva avuta la legge, truova il popolo che adora il vitel d'oro, e dirimpetto a questa, nell'altra, è il Giudizio Universale del novissimo giorno, con una stravagante invenzione che ha veramente dello spaventevole e del terribile per la diversità delle figure che vi sono di ogni età e d'ogni sesso, con strafori e lontani d'anime beate e dannate.
Vi si vede anco la barca di Caronte, ma d'una maniera tanto diversa dall'altre, che è cosa bella e strana, e se quella capricciosa invenzione fusse stata condotta con disegno corretto e regolato et avesse il pittore atteso con diligenza alle parti et ai particolari, come ha fatto al tutto, esprimendo la confusione, il garbuglio e lo spavento di quel dì, ella sarebbe pittura stupendissima.
E chi la mira così a un tratto resta maravigliato, ma considerandola poi minutamente ella pare dipinta da burla.
Ha fatto il medesimo in questa chiesa, cioè nei portegli dell'organo a olio la Nostra Donna che saglie i gradi del tempio, che è un'opera finita e la meglio condotta e più lieta pittura che sia in quel luogo.
Similmente nei portegli dell'organo di Santa Maria Zebenigo fece la conversione di San Paulo, ma con non molto studio; nella Carità una tavola con Cristo deposto di croce, e nella sagrestia di San Sebastiano, a concorrenza di Paulo da Verona, che in quel luogo lavorò molte pitture nel palco e nelle facciate, fece sopra gl'armarii Moisè nel deserto et altre storie che furono poi seguitate da Natalino pittore viniziano e da altri.
Fece poi il medesimo Tintoretto in San Iobbe all'altare della Pietà tre Marie, San Francesco, San Bastiano, San Giovanni et un pezzo di paese, e nei portegli dell'organo della chiesa de' Servi, Santo Agostino e San Filippo, e di sotto Caino ch'uccide Abel suo fratello.
In San Felice all'altare del Sacramento, cioè nel cielo della tribuna, dipinse i quattro Evangelisti e nella lunetta sopra l'altare una Nunziata, nell'altra Cristo che ora in sul Monte Oliveto, e nella facciata l'ultima cena che fece con gl'Apostoli.
In San Francesco della Vigna è di mano del medesimo, all'altare del Deposto di croce, la Nostra Donna svenuta con altre Marie et alcuni Profeti, e nella scuola di San Marco da San Giovanni e Polo sono quattro storie grandi, in una delle quali è San Marco, che aparendo in aria, libera un suo divoto da molti tormenti, che se gli veggiono apparecchiati con diversi ferri da tormentare, i quali rompendosi, non gli poté mai adoperare il manigoldo contra quel devoto, et in questa è gran copia di figure, di scorti, d'armature, casamenti, ritratti et altre cose simili, che rendono molto ornata quell'opera.
In un'altra è una tempesta di mare e San Marco similmente in aria che libera un altro suo divoto; ma non è già questa fatta con quella diligenza che la già detta.
Nella terza è una pioggia et il corpo morto d'un altro divoto di San Marco e l'anima che se ne va in cielo; et in questa ancora è un componimento d'assai ragionevoli figure.
Nella quarta, dove uno spiritato si scongiura, ha finto in prospettiva una gran loggia et in fine di quella un fuoco che la illumina con molti rinverberi; et oltre alle dette storie è all'altare un San Marco di mano del medesimo, che è ragionevole pittura.
Queste opere adunque, e molte altre che si lasciano, bastando avere fatto menzione delle migliori, sono state fatte dal Tintoretto con tanta prestezza, che quando altri non ha pensato a pena che egli abbia cominciato, egli ha finito, et è gran cosa che con i più stravaganti tratti del mondo ha sempre da lavorare.
Perciò che quando non bastano i mezzi e l'amicizie a fargli avere alcun lavoro, se dovesse farlo non che per piccolo prezzo, in dono e per forza, vuol farlo ad ogni modo.
E non ha molto che avendo egli fatto nella scuola di San Rocco a olio in un gran quadro di tela la Passione di Cristo, si risolverono gl'uomini di quella Compagnia di fare di sopra dipignere nel palco qualche cosa magnifica et onorata, e perciò di allogare quell'opera a quello de' pittori che erano in Vinezia il quale facesse migliore e più bel disegno.
Chiamati adunque Iosef Salviati, Federico Zucchero, che allora era in Vinezia, Paulo da Verona et Iacopo Tintoretto, ordinarono che ciascuno di loro facesse un disegno, promettendo a colui l'opera, che in quello meglio si portasse.
Mentre adunque gl'altri attendevano a fare con ogni diligenza i loro disegni, il Tintoretto tolta la misura della grandezza che aveva ad essere l'opera e tirata una gran tela, la dipinse senza che altro se ne sapesse con la solita sua prestezza e la pose dove aveva da stare.
Onde ragunatasi una mattina la compagnia per vedere i detti disegni e risolversi, trovando il Tintoretto avere finita l'opera del tutto e postala al luogo suo.
Per che adirandosi con esso lui e dicendo che avevano chiesto disegni e non datogli a far l'opera, rispose loro che quello era il suo modo di disegnare, che non sapeva far altrimenti e che i disegni e modelli dell'opere avevano a essere a quel modo per non ingannare nessuno; e finalmente, che se non volevano pagargli l'opera e le sue fatiche, che le donava loro.
E così dicendo, ancor che avesse molte contrarietà, fece tanto, che l'opera è ancora nel medesimo luogo.
In questa tela adunque è dipinto in un cielo Dio Padre che scende con molti Angeli ad abracciare San Rocco, e nel più basso sono molte figure che significano o vero rappresentano l'altre scuole maggiori di Vinezia, come la Carità, S.
Giovanni Evangelista, la Misericordia, S.
Marco e S.
Teodoro, fatte tutte secondo la sua solita maniera.
Ma perciò che troppo sarebbe lunga opera raccontare tutte le pitture del Tintoretto, basti avere queste cose ragionato di lui, che è veramente valente uomo e pittore da essere lodato.
Essendo ne' medesimi tempi in Vinezia un pittore chiamato Brazacco, creato di casa Grimani, il quale era stato in Roma molti anni, gli fu per favori dato a dipignere il palco della sala maggiore de' Cavi de' dieci.
Ma conoscendo costui non poter far da sé et avere bisogno d'aiuto, prese per compagni Paulo da Verona e Battista Farinato, compartendo fra sé e loro nove quadri di pitture a olio che andavano in quel luogo: cioè quattro ovati ne' canti, quattro quadri bislunghi et un ovato maggiore nel mezzo, e questo con tre de' quadri dato a Paulo Veronese, il quale vi fece un Giove che fulmina i vizii et altre figure.
Prese per sé due degl'altri ovati minori con un quadro, e due ne diede a Battista.
In uno è Nettunno dio del mare e, ne gl'altri, due figure per ciascuno, dimostranti la grandezza e stato pacifico e quieto di Vinezia; et ancora che tutti e tre costoro si portassono bene, meglio di tutti si portò Paulo Veronese, onde meritò che da que' signori gli fusse poi allogato l'altro palco ch'è a canto a detta sala, dove fece a olio, insieme con Battista Farinato, un S.
Marco in aria sostenuto da certi Angeli, e da basso una Vinezia in mezzo alla Fede, Speranza e Carità, la quale opera ancor che fusse bella, non fu in bontà pari alla prima.
Fece poi Paulo solo nella Umiltà, in un ovato grande d'un palco, un'assunzione di Nostra Donna con altre figure, che fu una lieta, bella e ben intesa pittura.
È stato similmente a' dì nostri buon pittore in quella città Andrea Schiavone, dico buono perché ha pur fatto tal volta per disgrazia alcuna buon'opera e perché ha imitato sempre, come ha saputo il meglio, le maniere de' buoni.
Ma perché la maggior parte delle sue cose sono stati quadri, che sono per le case de' gentiluomini, dirò solo d'alcune che sono publiche: nella chiesa di San Sebastiano in Vinezia, alla capella di quegli da Ca' Pellegrini, ha fatto un San Iacopo con due pellegrini; nella chiesa del Carmine, nel cielo d'un coro ha fatto un'Assunta con molti Angeli e Santi, e nella medesima chiesa, alla capella della Presentazione, ha dipinto Cristo puttino, dalla Madre presentato al tempio, con molti ritratti di naturale; ma la migliore figura che vi sia è una donna che allatta un putto et ha addosso un panno giallo, la quale è fatta con una certa pratica che s'usa a Vinezia, di macchie o vero bozze, senza esser finita punto.
A costui fece fare Giorgio Vasari l'anno millecinquecento e quaranta in una gran tela a olio, la battaglia che poco innanzi era stata fra Carlo Quinto e Barbarossa, la quale opera, che fu delle migliori che Andrea Schiavone facesse mai e veramente bellissima, è oggi in Fiorenza in casa gl'eredi del Magnifico Messer Ottaviano de' Medici, al quale fu mandata a donare dal Vasari.
FINE DELLA VITA DI BATTISTA FRANCO, PITTORE VINIZIANO
VITA DI GIOVANFRANCESCO RUSTICHI SCULTORE ET ARCHITETTO FIORENTINO
È gran cosa ad ogni modo che tutti coloro i quali furono della scuola del giardino di Medici, e favoriti del Magnifico Lorenzo Vecchio, furono tutti eccellentissimi.
La qual cosa d'altronde non può essere avenuta se non dal molto anzi infinito giudizio di quel nobilissimo signore, vero mecenate degl'uomini virtuosi, il quale come sapeva conoscere gl'ingegni e spiriti elevati, così poteva ancora e sapeva riconoscergli e premiargli.
Portandosi dunque benissimo Giovanfrancesco Rustici, cittadin fiorentino, nel disegnare e fare di terra mentre era giovinetto, fu da esso Magnifico Lorenzo, il quale lo conobbe spiritoso e di bello e buono ingegno, messo a stare, perché imparasse, con Andrea del Verocchio, appresso al quale stava similmente Lionardo da Vinci, giovane raro e dotato d'infinite virtù; per che piacendo al Rustico la bella maniera et i modi di Lionardo, e parendogli che l'aria delle sue teste e le movenze delle figure fussono più graziose e fiere che quelle d'altri le quali avesse vedute già mai, si accostò a lui, imparato che ebbe a gettare di bronzo, tirare di prospettiva e lavorare di marmo, e dopo che Andrea fu andato a lavorare a Vinezia.
Stando adunque il Rustico con Lionardo e servendolo con ogni amorevole sommessione, gli pose tanto amore esso Lionardo, conoscendo quel giovane di buono e sincero animo e liberale e diligente e paziente nelle fatiche dell'arte, che non faceva né più qua né più là di quello voleva Giovanfrancesco.
Il quale, perciò che oltre all'essere di famiglia nobile, aveva da vivere onestamente, faceva l'arte più per suo diletto e disiderio d'onore, che per guadagnare.
E per dirne il vero quegl'artefici che hanno per ultimo e principale fine il guadagno e l'utile e non la gloria e l'onore, rade volte, ancor che siano di bello e buono ingegno, riescono eccellentissimi; senzaché il lavorare per vivere, come fanno infiniti aggravati di povertà e di famiglia et il fare non a capricci e quando a ciò sono volti gli animi e la volontà, ma per bisogno dalla mattina alla sera, è cosa non da uomini che abbiano per fine la gloria e l'onore, ma da opere, come si dice, e da manovali, perciò che l'opere buone non vengono fatte senza essere prima state lungamente considerate.
E per questo usava di dire il Rustico, nell'età sua più matura, che si deve prima pensare, poi fare gli schizzi et appresso i disegni, e quelli fatti, lasciargli stare settimane e mesi senza vedergli e poi, scelti i migliori, mettergli in opera; la qual cosa non può fare ognuno, né coloro l'usano che lavorano per guadagno solamente.
Diceva ancora che l'opere non si deono così mostrare a ognuno prima che sieno finite, per poter mutarle quante volte et in quanti modi altri vuole, senza rispetto niuno.
Imparò Giovanfrancesco da Lionardo molte cose, ma particolarmente a fare cavalli, de' quali si dilettò tanto, che ne fece di terra, di cera e di tondo e basso rilievo in quante maniere possono imaginarsi, et alcuni se ne veggiono nel nostro libro tanto bene disegnati, che fanno fede della virtù e sapere di Giovanfrancesco, il quale seppe anco maneggiare i colori e fece alcune pitture ragionevoli, ancor che la sua principale professione fusse la scultura.
E perché abitò un tempo nella via de' Martegli, fu amicissimo di tutti gl'uomini di quella famiglia, che ha sempre avuto uomini virtuosissimi e di valore, e particolarmente di Piero, al quale fece (come a suo più intrinseco) alcune figurette di tondo rilievo, e fra l'altre una Nostra Donna col Figlio in collo a sedere sopra certe nuvole piene di Cherubini, simile alla quale ne dipinse poi col tempo un'altra in un gran quadro a olio, con una ghirlanda di Cherubini che intorno alla testa le fa diadema.
Essendo poi tornata in Fiorenza la famiglia de' Medici, il Rustico si fece conoscere al cardinale Giovanni per creatura di Lorenzo suo padre e fu ricevuto con molte carezze, ma perché i modi della corte non gli piacevano et erano contrarii alla sua natura tutta sincera e quieta e non piena d'invidia et ambizione, si volle star sempre da sé e far vita quasi da filosofo, godendosi una tranquilla pace e riposo.
E quando pure alcuna volta volea ricrearsi o si trovava con suoi amici dell'arte, o con alcuni cittadini suoi dimestici, non restando per questo di lavorare quando voglia gliene veniva o glien'era porta occasione.
Onde nella venuta l'anno millecinquecento e quindici di papa Leone a Fiorenza, a richiesta d'Andrea del Sarto, suo amicissimo, fece alcune statue che furono tenute bellissime, le quali, perché piacquero a Giulio cardinale de' Medici, furono cagione che gli fece fare, sopra il finimento della fontana che è nel cortile grande del palazzo de' Medici, il Mercurio di bronzo alto circa un braccio, che è nudo sopra una palla, in atto di volare, al quale mise fra le mani un instrumento che è fatto, dall'acqua che egli versa in alto, girare; imperò che, essendo bucata una gamba, passa la canna per quella e per il torso onde, giunta l'acqua alla bocca della figura, percuote in quello strumento bilicato con quattro piastre sottili saldate a uso di farfalla e lo fa girare.
Questa figura dico, per cosa piccola, fu molto lodata.
Non molto dopo fece Giovanfrancesco per lo medesimo cardinale il modello per fare un Davit di bronzo simile a quello di Donato fatto al Magnifico Cosimo Vecchio, come s'è detto, per metterlo nel primo cortile, onde era stato levato quello.
Il quale modello piacque assai, ma per una certa lunghezza di Giovanfrancesco non si gettò mai di bronzo, onde vi fu messo l'Orfeo di marmo del Bandinello; et il Davit di terra fatto dal Rustico, che era cosa rarissima, andò male, che fu grandissimo danno.
Fece Giovanfrancesco in un gran tondo di mezzo rilievo una Nunziata, con una prospettiva bellissima, nella quale gli aiutò Raffaello Bello pittore e Niccolò Soggi, che gettata di bronzo riuscì di sì rara bellezza, che non si poteva vedere più bell'opera di quella, la quale fu mandata al re di Spagna.
Condusse poi di marmo in un altro tondo simile una Nostra Donna col Figliuolo in collo e San Giovanni Battista fanciulletto, che fu messo nella prima sala del magistrato de' Consoli dell'arte di Por Santa Maria.
Per quest'opere essendo venuto in molto credito Giovanfrancesco, i consoli dell'arte de' Mercatanti avendo fatto levare certe figuracce di marmo che erano sopra le tre porte del tempio di San Giovanni, già state fatte, come s'è detto, nel milledugento e quaranta, et allogate al Contucci Sansovino quelle che si avevano in luogo delle vecchie a mettere sopra la porta che è verso la Misericordia, allogarono al Rustico quelle che si avevano a porre sopra la porta che è volta verso la canonica di quel tempio, acciò facesse tre figure di bronzo di braccia quattro l'una e quelle stesse che vi erano vecchie, cioè un San Giovanni che predicasse e fusse in mezzo a un fariseo et a un levite.
La quale opera fu molto conforme al gusto di Giovanfrancesco, avendo a essere posta in luogo sì celebre e di tanta importanza, et oltre ciò per la concorrenza d'Andrea Contucci.
Messovi dunque subitamente mano e fatto un modelletto piccolo, il quale superò con l'eccellenza dell'opera, ebbe tutte quelle considerazioni e diligenza che una sì fatta opera richiedeva.
La quale finita, fu tenuta in tutte le parti la più composta e meglio intesa che per simile fusse stata fatta insino allora, essendo quelle figure d'intera perfezione e fatte nell'aspetto con grazia e bravura terribile.
Similmente le bracce ignude e le gambe sono benissimo intese et appiccate alle congiunture tanto bene, che non è possibile far più.
E, per non dir nulla delle mani e de' piedi, che graziose attitudini e che gravità eroica hanno quelle teste? Non volle Giovanfrancesco mentre conduceva di terra quest'opera altri a torno che Lionardo da Vinci, il quale nel fare le forme, armarle di ferri et insomma sempre insino a che non furono gettate le statue, non l'abbandonò mai, onde credono alcuni, ma però non ne sanno altro, che Lionardo vi lavorasse di sua mano, o almeno aiutasse Giovanfrancesco col consiglio e buon giudizio suo.
Queste statue, le quali sono le più perfette e meglio intese che siano state mai fatte di bronzo da maestro moderno, furono gettate in tre volte e rinette nella detta casa dove abitava Giovanfrancesco nella via de' Martelli, e così gl'ornamenti di marmo che sono intorno al San Giovanni, con le due colonne, cornici et insegna dell'arte de' Mercatanti.
Oltre al San Giovanni, che è una figura pronta e vivace, vi è un zuccone grassotto, che è bellissimo; il quale, posato il braccio destro sopra un fianco, con un pezzo di spalla nuda, e tenendo con la sinistra mano una carta dinanzi agl'occhi, ha sopraposta la gamba sinistra alla destra, e sta in atto consideratissimo per rispondere a San Giovanni, con due sorti di panni vestito: uno sottile, che scherza intorno alle parti ignude della figura, et un manto di sopra più grosso, condotto con un andar di pieghe che è molto facile et artifizioso.
Simile a questo è il fariseo perciò che, postasi la man destra alla barba, con atto grave, si tira alquanto a dietro, mostrando stupirsi delle parole di Giovanni.
Mentre che il Rustici faceva quest'opera, essendogli venuto a noia l'avere a chiedere ogni dì danari ai detti consoli o loro ministri, che non erano sempre que' medesimi e sono le più volte persone che poco stimano virtù o alcun'opera di pregio, vendé (per finire l'opera) un podere di suo patrimonio che avea poco fuor di Firenze a San Marco vecchio.
E non ostanti tante fatiche, spese e diligenze, ne fu male dai consoli e dai suoi cittadini remunerato; perciò che uno de' Ridolfi, capo di quell'uffizio, per alcun sdegno particolare e perché forse non l'aveva il Rustico così onorato, né lasciatogli vedere a suo commodo le figure, gli fu sempre in ogni cosa contrario.
E quello che a Giovanfrancesco dovea risultare in onore, faceva il contrario e storto, però che dove meritava d'essere stimato non solo come nobile e cittadino, ma anco come virtuoso, l'essere eccellentissimo artefice gli toglieva appresso gl'ignoranti et idioti di quello che per nobiltà se gli doveva.
Avendosi dunque a stimar l'opera di Giovanfrancesco, et avendo egli chiamato per la parte sua Michelagnolo Buonarroti, il magistrato, a persuasione del Ridolfi, chiamò Baccio d'Agnolo, di che dolendosi il Rustico e dicendo agl'uomini del magistrato, nell'udienza, che era pur cosa troppo strana che un artefice legnaiuolo avesse a stimare le fatiche d'uno statuario, e quasi che egli erano un monte di buoi, il Ridolfi rispondeva che anzi ciò era ben fatto e che Giovanfrancesco era un superbaccio et un arrogante.
Ma quello che fu peggio, quell'opera che non meritava meno di duemila scudi, gli fu stimata dal magistrato cinquecento, che anco non gli furono mai pagati interamente, ma solamente quattrocento per mezzo di Giulio cardinale de' Medici.
Veggendo dunque Giovanfrancesco tanta malignità, quasi disperato si ritirò con proposito di mai più non volere far opere per magistrati, né dove avesse a dependere più che da un cittadino o altr'uomo solo.
E così standosi da sé e menando vita soletaria nelle stanze della Sapienza a canto ai frati de' Servi, andava lavorando alcune cose per non istare in ozio e passarsi tempo.
Consumandosi oltre ciò la vita et i danari dietro a cercare di congelare mercurio in compagnia d'un altro cervello così fatto chiamato Raffaello Baglioni, dipinse Giovanfrancesco in un quadro lungo tre braccia et alto due una conversione di San Paulo a olio piena di diverse sorti cavalli sotto i soldati di esso Santo, in varie e belle attitudini e scorti.
La quale pittura insieme con molte altre cose di mano del medesimo è appresso gli eredi del già detto Piero Martelli, a cui la diede.
In un quadretto dipinse una caccia piena di diversi animali, che è molto bizzarra e vaga pittura, la quale ha oggi Lorenzo Borghini, che la tien cara come quegli che molto si diletta delle cose delle nostre arti.
Lavorò di mezzo rilievo di terra per le monache di San Luca in via di San Gallo un Cristo nell'orto che appare a Maria Madalena, il quale fu poi invetriato da Giovanni della Robbia e posto a un altare nella chiesa delle dette suore dentro a un ornamento di macigno.
A Iacopo Salviati il vecchio, del quale fu amicissimo, fece in un suo palazzo sopra al ponte alla badia un tondo di marmo bellissimo per la cappella, dentrovi una Nostra Donna, et intorno al cortile molti tondi pieni di figure di terra cotta, con altri ornamenti bellissimi, che furono la maggior parte, anzi quasi tutti, rovinati dai soldati l'anno dell'assedio e messo fuoco nel palazzo dalla parte contraria a' Medici.
E perché aveva Giovanfrancesco grande affezzione a questo luogo, si partiva per andarvi alcuna volta a Firenze così in lucco, et uscito dalla città se lo metteva in ispalla e pian piano, fantasticando, se n'andava tutto solo insin lassù; et una volta fra l'altre, essendo per questa gita e facendogli caldo, nascose il lucco in una macchia fra certi pruni e condottosi al palazzo vi stette due giorni prima che se ne ricordasse; finalmente mandando un suo uomo a cercarlo, quando vide colui averlo trovato, disse: "Il mondo è troppo buono, durerà poco".
Era uomo Giovanfrancesco di somma bontà et amorevolissimo de' poveri, onde non lasciava mai partire da sé niuno sconsolato, anzi tenendo i danari in un paniere, o pochi o assai che n'avesse, ne dava secondo il poter suo a chiunche gliene chiedeva; per che, veggendolo un povero, che spesso andava a lui per la limosina, andar sempre a quel paniere, disse, pensando non essere udito: "O Dio, se io avessi in camera quello che è dentro a quel paniere, acconcerei pure i fatti miei".
Giovanfrancesco, udendolo, poi che l'ebbe alquanto guardato fiso, disse: "Vien qua, i' vo' contentarti".
E così, votatogli in un lembo della cappa il paniere, disse: "Va, che sii benedetto".
E poco appresso mandò a Niccolò Buoni suo amicissimo, il quale faceva tutti i fatti suoi, per danari; il quale Niccolò, che teneva conto di sue ricolte de' danari di monte e vendeva le robe a' tempi, aveva per costume, secondo che esso Rustico voleva, dargli ogni settimana tanti danari, i quali tenendo poi Giovanfrancesco nella cassetta del calamaio senza chiave, ne toglieva di mano in mano chi voleva, per spendergli ne' bisogni di casa secondo che occorreva.
Ma tornando alle sue opere, fece Giovanfrancesco un bellissimo Crucifisso di legno grande quanto il vivo per mandarlo in Francia, ma rimase a Niccolò Buoni insieme con altre cose di bassi rilievi e disegni che son oggi appresso di lui, quando disegnò partirsi di Firenze, parendogli che la stanza non facesse per lui e pensando di mutare, insieme col paese, fortuna.
Al duca Giuliano, dal quale fu sempre molto favorito, fece la testa di lui in profilo di mezzo rilievo e la gettò di bronzo, che fu tenuta cosa singolare, la quale è oggi in casa Messer Alessandro di Messer Ottaviano de' Medici.
A Ruberto di Filippo Lippi pittore, il quale fu suo discepolo, diede Giovanfrancesco molte opere di sua mano di bassi rilievi, e modelli e disegni, e fra l'altre in più quadri una Leda, un'Europa, un Nettunno et un bellissimo Vulcano, et un altro quadretto di basso rilievo dove è un uomo nudo a cavallo, che è bellissimo, il quale quadro è oggi nello scrittoio di don Silvano Razzi negl'Angeli.
Fece il medesimo una bellissima femina di bronzo alta due braccia finta per una Grazia, che si premeva una poppa, ma questa non si sa dove capitasse, né in mano di cui si truovi.
De' suoi cavalli di terra con uomini sopra e sotto, simili ai già detti, ne sono molti per le case de' cittadini, i quali furono da lui, che era cortesissimo e non come il più di simili uomini avaro e scortese, a diversi suoi amici donati.
E Dionigi da Diaceto, gentiluomo onorato e da bene, che tenne ancor egli, sì come Niccolò Buoni, i conti di Giovanfrancesco e gli fu amico, ebbe da lui molti bassi rilievi.
Non fu mai il più piacevole e capriccioso uomo di Giovanfrancesco, né chi più si dilettasse d'animali: si aveva fatto così domestico un istrice, che stava sotto la tavola com'un cane et urtava alcuna volta nelle gambe in modo, che ben presto altri le tirava a sé; aveva un'aquila et un corbo che dicea infinite cose sì schiettamente, che pareva una persona.
Attese anco alle cose di negromanzia, e mediante quella, intendo che fece di strane paure ai suoi garzoni e familiari, e così viveva senza pensieri.
Avendo murata una stanza quasi a uso di vivaio et in quella tenendo molte serpi o vero biscie che non potevano uscire, si prendeva grandissimo piacere di stare a vedere, e massimamente di state, i pazzi giuochi ch'elle facevano e la fierezza loro.
Si ragunava nelle sue stanze della Sapienza una brigata di galantuomini, che si chiamavano la Compagnia del Paiuolo, e non potevano essere più che dodici: e questi erano esso Giovanfrancesco, Andrea del Sarto, Spillo pittore, Domenico Puligo, il Robetta orafo, Aristotile da San Gallo, Francesco di Pellegrino, Niccolò Boni, Domenico Baccelli, che sonava e cantava ottimamente, il Solosmeo scultore, Lorenzo detto Guazzetto e Ruberto di Filippo Lippi pittore, il quale era loro proveditore.
Ciascuno de' quali dodici a certe loro cene e passatempi poteva menare quattro e non più.
E l'ordine delle cene era questo (il che racconto volentieri perché è quasi del tutto dismesso l'uso di queste Compagnie) che ciascuno si portasse alcuna cosa da cena, fatta con qualche bella invenzione, la quale, giunto al luogo, presentava al signore, che sempre era un di loro, il quale la dava a chi più gli piaceva, scambiando la cena d'uno con quella dell'altro.
Quando erano poi a tavola, presentandosi l'un l'altro, ciascuno avea d'ogni cosa, e chi si fusse riscontrato nell'invenzione della sua cena con un altro, e fatto una cosa medesima, era condennato.
Una sera dunque che Giovanfrancesco diede da cena a questa sua Compagnia del Paiuolo, ordinò che servisse per tavola un grandissimo paiuolo fatto d'un tino, dentro al quale stavano tutti, e parea che fussino nell'acqua della caldaia: di mezzo alla quale venivono le vivande intorno intorno, et il manico del paiuolo, che era alla volta, faceva bellissima lumiera nel mezzo, onde si vedevano tutti in viso guardando intorno.
Quando furono adunque posti a tavola dentro al paiuolo benissimo accomodato, uscì del mezzo un albero con molti rami, che mettevono innanzi la cena, cioè le vivande a due per piatto; e ciò fatto, tornando a basso, dove erano persone che sonavano, di lì a poco risurgeva di sopra e porgeva le seconde vivande e dopo le terze e così di mano in mano, mentre attorno erano serventi che mescevano preziosissimi vini.
La quale invenzione del paiuolo, che con tele e pitture era accomodato benissimo, fu molto lodata da quegl'uomini della Compagnia.
In questa tornata il presente del Rustico fu una caldaia fatta di pasticcio, dentro alla quale Ulisse tuffava il padre per farlo ringiovanire, le quali due figure erano capponi lessi che avevano forma d'uomini, sì bene erano acconci le membra et il tutto con diverse cose tutte buone a mangiare; Andrea del Sarto presentò un tempio a otto faccie, simile a quello di San Giovanni, ma posto sopra colonne; il pavimento era un grandissimo piatto di gelatina con spartimenti di varii colori di musaico; le colonne, che parevano di porfido, erano grandi e grossi salsicciotti, le base et i capitegli erano di cacio parmigiano, i cornicioni di paste di zuccheri e la tribuna era di quarti di marzapane, nel mezzo era posto un leggio da coro fatto di vitella fredda con un libro di lasagne che aveva le lettere e le note da cantare di granella di pepe e quelli che cantavano al leggio erano tordi cotti col becco aperto e ritti con certe camiciuole a uso di cotte, fatte di rete di porco sottile, e dietro a questi per contrabasso erano due pippioni grossi, con sei ortolani che facevano il sovrano; Spillo presentò per la sua cena un magnano, il quale avea fatto d'una grande oca, o altro uccello simile, con tutti gl'instrumenti da potere racconciare, bisognando, il paiuolo; Domenico Puligo d'una porchetta cotta fece una fante con la rocca da filare allato, la quale guardava una covata di pulcini et aveva a servire per rigovernare il paiuolo; il Robetta per conservare il paiuolo fece d'una testa di vitella, con acconcime d'altri untumi, un'incudine, che fu molto bello e buono, come anche furono gl'altri presenti, per non dire di tutti a uno a uno di quella cena e di molte altre che ne feciono.
La Compagnia poi della Cazzuola, che fu simile a questa e della quale fu Giovanfrancesco, ebbe principio in questo modo: essendo l'anno 1512 una sera a cena, nell'orto che aveva nel campaccio Feo d'Agnolo gobbo, sonatore di pifferi e persona molto piacevole, esso Feo, ser Bastiano Sagginati, ser Raffaello del Beccaio, ser Cecchino de' Profumi, Girolamo del Giocondo et il Baia, venne veduto, mentre che si mangiavano le ricotte, al Baia in un canto dell'orto appresso alla tavola un monticello di calcina, dentrovi la cazzuola, secondo che il giorno innanzi l'aveva quivi lasciata un muratore; per che prese con quella mestola o vero cazzuola alquanto di quella calcina, la cacciò tutta in bocca a Feo, che da un altro aspettava a bocca aperta un gran boccone di ricotta, il che vedendo la brigata, si cominciò a gridare: "Cazzuola, cazzuola!".
Creandosi dunque per questo accidente la detta Compagnia, fu ordinato che in tutto gl'uomini di quella fussero ventiquattro, dodici di quelli che andavano, come in que' tempi si diceva, per la maggiore, e dodici per la minore, e che l'insegna di quella fusse una cazzuola, alla quale aggiunsero poi quelle botticine nere che hanno il capo grosso e la coda, le quali si chiamano in Toscana cazzuole.
Il loro avvocato era Santo Andrea, il giorno della cui festa celebravano solennemente, facendo una cena e convito, secondo i loro capitoli, bellissimo.
I primi di questa Compagnia, che andavano per la maggiore, furono Iacopo Bottegai, Francesco Rucellai, Domenico suo fratello, Giovambatista Ginori, Girolamo del Giocondo, Giovanni Miniati, Niccolò del Barbigia, Mezzabotte suo fratello, Cosimo da Panzano, Matteo suo fratello, Marco Iacopi, Pieraccino Bartoli; e per la minore, ser Bastiano Sagginotti, ser Raffaello del Beccaio, ser Cecchino de' Profumi, Giuliano Bugiardini pittore, Francesco Granacci pittore, Giovanfrancesco Rustici, Feo gobbo, il Talina sonatore suo compagno, Pierino Piffero, Giovanni Trombone et il Baia bombardiere.
Gl'aderenti furono Bernardino di Giordano, il Talano, il Caiano, maestro Iacopo del Bientina e Messer Giovambatista di Cristofano ottonaio, araldi ambedue della signoria, Buon Pocci e Domenico Barlacchi.
E non passarono molti anni (tanto andò crescendo in nome) facendo feste e buon tempi, che furono fatti di essa Compagnia della Cazzuola il signor Giuliano de' Medici, Ottangolo Benvenuti, Giovanni Canigiani, Giovanni Serristori, Giovanni Gaddi, Giovanni Bandini, Luigi Martelli, Paulo da Romena e Filippo Pandolfini gobbo.
E con questi in una medesima mano, come aderenti, Andrea del Sarto dipintore, Bartolomeo Trombone musico, ser Bernardo Pisanello, Piero cimatore, il Gemma merciaio et ultimamente maestro Manente da San Giovanni medico.
Le feste che costoro feciono in diversi tempi furono infinite, ma ne dirò solo alcune poche per chi non sa l'uso di queste Compagnie che oggi sono, come si è detto, quasi del tutto dismesse.
La prima della Cazzuola, la quale fu ordinata da Giuliano Bugiardini, si fece in un luogo detto l'Aia, da Santa Maria Nuova, dove dicemo disopra, che furono gettate di bronzo le porte di San Giovanni.
Quivi dico, avendo il signor della Compagnia comandato che ognuno dovesse trovarsi vestito in che abito gli piaceva, con questo che coloro che si scontrassero nella maniera del vestire et avessero una medesima foggia fussero condennati, comparsero all'ora deputata le più belle e più bizzarre stravaganze d'abiti che si possano imaginare; venuta poi l'ora di cena, furon posti a tavola secondo le qualità de' vestimenti.
Chi aveva abiti da principi ne' primi luoghi, i ricchi e gentiluomini appresso, et i vestiti da poveri negl'ultimi e più bassi gradi, ma se dopo cena si fecero delle feste e de' giuochi, meglio è lasciare che altri se lo pensi, che dirne alcuna cosa.
A un altro pasto che fu ordinato dal detto Bugiardino e da Giovanfrancesco Rustici, comparsero gl'uomini della Compagnia, sì come avea il signor ordinato, tutti in abito di muratori e manovali: cioè quelli che andavano per la maggiore con la cazzuola che tagliasse et il martello a cintola, e quegli che per la minore vestiti da manovali col vassoio e manovelle da far lieva e la cazzuola sola a cintola.
Et arrivati tutti nella prima stanza, avendo loro mostrato il signore la pianta d'uno edifizio che si aveva da murare per la Compagnia, e dintorno a quello messo a tavola i maestri, i manovali cominciarono a portare le materie per fare il fondamento: cioè vassoi pieni di lasagne cotte per calcina e ricotte acconce col zucchero, rena fatta di cacio, spezie e pepe mescolati, e per ghiaia confetti grossi e spicchi di berlingozzi, i quadrucci, mezzane e pianelle che erano portate ne' corbelli e con le barelle, erano pane e stiacciate.
Venuto poi uno imbasamento, perché non pareva dagli scarpellini stato così ben condotto e lavorato, fu giudicato che fusse ben fatto spezzarlo e romperlo, per che, datovi dentro e trovatolo tutto composto di torte, fegategli et altre cose simili, se le goderono essendo loro poste innanzi dai manovali.
Dopo, venuti i medesimi in campo con una gran colonna fasciata di trippe di vitella cotte e quella disfatta e dato il lesso di vitella e caponi et altro di che era composta, si mangiarono la basa di cacio parmigiano et il capitello acconcio maravigliosamente con intagli di caponi arrosto, fette di vitella e con la cimasa di lingue.
Ma perché sto io a contare tutti i particolari? Dopo la colonna fu portato sopra un carro un pezzo di molto artifizioso architrave con fregio e cornicione, in simile maniera tanto bene e di tante diverse vivande composto, che troppo lunga storia sarebbe voler dirne l'intero; basta che quando fu tempo di svegliare, venendo una pioggia fitta dopo molti tuoni, tutti lasciarono il lavoro e si sfuggirono et andò ciascuno a casa sua.
Un'altra volta essendo nella medesima Compagnia signore Matteo da Panzano, il convito fu ordinato in questa maniera: Cerere cercando Proserpina sua figliuola, la quale avea rapita Plutone, entrata dove erano ragunati gli uomini della Cazzuola dinanzi al loro signore, gli pregò che volessino accompagnarla all'inferno, alla quale dimanda dopo molte dispute essi acconsentendo, le andarono dietro.
E così entrati in una stanza alquanto oscura, videro in cambio d'una porta una grandissima bocca di serpente, la cui testa teneva tutta la facciata; alla quale porta d'intorno accostandosi tutti, mentre Cerbero abaiava, dimandò Cerere se là entro fusse la perduta figliuola, et essendole risposto di sì, ella soggiunse che disiderava di riaverla.
Ma avendo risposto Plutone non voler renderla et invitatale con tutta la Compagnia alla nozze che s'apparecchiavano, fu accettato l'invito; per che, entrati tutti per quella bocca piena di denti, che essendo gangherata s'apriva a ciascuna coppia d'uomini che entrava e poi si chiudeva, si trovarono in ultimo in una gran stanza di forma tonda, la quale non aveva altro che un assai piccolo lumicino nel mezzo, il quale sì poco risplendeva, che a fatica si scorgevano.
Quivi essendo da un bruttissimo diavolo, che era nel mezzo con un forcone, messi a sedere dove erano le tavole apparecchiate di nero, comandò Plutone che per onore di quelle sue nozze cessassero, per insino a che quivi dimoravano, le pene dell'inferno; e così fu fatto.
E perché erano in quella stanza tutte dipinte le bolgie del regno de' dannati e le loro pene e tormenti, dato fuoco a uno stopino in un baleno fu acceso a ciascuna bolgia un lume che mostrava nella sua pittura in che modo e con quali pene fussero quelli che erano in essa tormentati.
Le vivande di quella infernal cena furono tutti animali schifi e bruttissimi in apparenza, ma però dentro, sotto la forma del pasticcio e coperta abominevole, erano cibi delicatissimi e di più sorti.
La scorza dico, et il difuori mostrava che fussero serpenti, biscie, ramarri, lucertole, tarantole, botte, ranocchi, scorpioni, pipistrelli et altri simili animali, et il didentro era composizione d'ottime vivande.
E queste furono poste in tavola con una pala, e dinanzi a ciascuno e con ordine, dal diavolo che era nel mezzo, un compagno del quale mesceva con un corno di vetro, ma di fuori brutto e spiacevole, preziosi vini in coreggiuoli da fondere invetriati, che servivano per bicchieri.
Finite queste prime vivande, che furono quasi un antipasto, furono messe per frutte, fingendo che la cena (affatica non cominciata) fusse finita, in cambio di frutte e confezzioni, ossa di morti giù giù per tutta la tavola, le quali frutte e reliquie erano di zucchero.
Ciò fatto, comandando Plutone, che disse voler andare a riposarsi con Proserpina sua, che le pene tornassero a tormentare i dannati, furono da certi venti in un attimo spenti tutti i già detti lumi et uditi infiniti romori, grida e voci orribili e spaventose e fu veduta nel mezzo di quelle tenebre, con un lumicino, l'imagine del Baia bombardiere, che era uno de' circostanti, come s'è detto, condannato da Plutone all'inferno, per avere nelle sue girandole e machine di fuoco avuto sempre per suggetto et invenzione i sette peccati mortali e cose d'inferno.
Mentre che a vedere ciò et a udire diverse lamentevoli voci s'attendeva, fu levato via il doloroso e funesto apparato, e venendo i lumi, veduto in cambio di quello un apparecchio reale e ricchissimo e con orrevoli serventi che portarono il rimanente della cena, che fu magnifica et onorata; al fine della quale venendo una nave piena di varie confezioni, i padroni di quella, mostrando di levar mercanzie, condussero a poco a poco gl'uomini della Compagnia nelle stanze di sopra, dove essendo una scena et apparato ricchissimo, fu recitata una comedia intitolata Filogenia, che fu molto lodata; e quella finita all'alba ognuno si tornò lietissimo a casa.
In capo a due anni, toccando dopo molte feste e comedie al medesimo a essere un'altra volta signore, per tassare alcuni della Compagnia che troppo avevano speso in certe feste e conviti (per essere mangiati, come si dice, vivi) fece ordinare il convito suo in questa maniera.
All'Aia, dove erano soliti ragunarsi, furono primieramente fuori della porta nella facciata, dipinte alcune figure di quelle che ordinariamente si fanno nelle facciate e ne' portici degli spedali, cioè lo spedalingo che in atti tutti pieni di carità invita e riceve i poveri e peregrini; la quale pittura scopertasi la sera della festa al tardi, cominciarono a comparire gl'uomini della Compagnia, i quali bussando, poi che all'entrare erano dallo spedalingo stati ricevuti, pervenivano a una gran stanza acconcia a uso di spedale con le sue letta dagli lati et altre cose simiglianti; nel mezzo della quale dintorno a un gran fuoco erano vestiti a uso di poltronieri, furfanti e poveracci, il Bientina, Battista dell'Ottonaio, il Barlacchi, il Baia et altri così fatti uomini piacevoli, i quali fingendo di non esser veduti da coloro che di mano in mano entravano e facevano cerchio e discorrendo sopra gl'uomini della Compagnia e sopra loro stessi, dicevano le più ladre cose del mondo di coloro che avevano gettato via il loro e speso in cene et in feste troppo più che non conviene.
Il quale discorso finito, poi che si videro esser giunti tutti quelli che vi avevono a essere, venne santo Andrea loro avvocato, il quale, cavandogli dello spedale, gli condusse in un'altra stanza magnificamente apparecchiata, dove messi a tavola, cenarono allegramente, e dopo il santo comandò loro piacevolmente che per non soprabondare in spese superflue et avere a stare lontano dagli spedali, si contentassero d'una festa l'anno, principale e solenne, e si partì.
Et essi l'ubidirono facendo per ispazio di molti anni ogni anno una bellissima cena e comedia, onde recitarono in diversi tempi, come si disse nella vita d'Aristotile da San Gallo, la Calandra di Messer Bernardo cardinale di Bibbiena, i Suppositi e la Cassaria dell'Ariosto, e la Clizia e Mandragola del Machiavello, con altre molte.
Francesco e Domenico Rucellai nella festa che toccò a far loro quando furono signori, fecero una volta l'Arpie di Fineo e l'altra, dopo una disputa di filosofi sopra la Trinità, fecero mostrare da santo Andrea un cielo aperto con tutti i cori degl'angeli, che fu cosa veramente rarissima; e Giovanni Gaddi con l'aiuto di Iacopo Sansovino, d'Andrea del Sarto e di Giovanfrancesco Rustici, rappresentò un Tantalo nell'inferno che diede mangiare a tutti gl'uomini della Compagnia, vestiti in abiti di diversi dii, con tutto il rimanente della favola e con molte capricciose invenzioni di giardini, paradisi, fuochi lavorati et altre cose che troppo, raccontandole, farebbono lunga la nostra storia.
Fu anche bellissima invenzione quella di Luigi Martelli, quando essendo signor della Compagnia, le diede cena in casa di Giuliano Scali alla porta Pinti; perciò che rappresentò Marte per la crudeltà tutto di sangue imbrattato, in una stanza piena di membra umane sanguinose, in un'altra stanza mostrò Marte e Venere nudi in un letto, e poco appresso Vulcano, che avendogli coperti sotto la rete, chiama tutti gli dii a vedere l'oltraggio fattogli da Marte e dalla trista moglie.
Ma è tempo oggimai dopo questa, che parrà forse ad alcuno troppo lunga digressione, che non del tutto a me pare fuor di proposito per molte cagioni stata raccontata, che io torni alla vita del Rustico.
Giovanfrancesco adunque, non molto sodisfacendogli, dopo la cacciata de' Medici l'anno 1528, il vivere di Firenze, lasciato d'ogni sua cosa cura a Niccolò Boni, con Lorenzo Naldini cognominato Guazzetto, suo giovane, se n'andò in Francia; dove, essendo fatto conoscere al re Francesco da Giovambatista della Palla, che allora là si trovava, e da Francesco di Pellegrino suo amicissimo che v'era andato poco innanzi, fu veduto ben volentieri et ordinatogli una provisione di cinquecento scudi l'anno.
Dal qual Re, a cui fece Giovanfrancesco alcune cose, delle quali non si ha particolarmente notizia, gli fu dato a fare ultimamente un cavallo di bronzo due volte grande quanto il naturale, sopra il quale doveva esser posto esso Re.
Laonde, avendo messo mano all'opera, dopo alcuni modelli, che molto erano al Re piaciuti, andò continuando di lavorare il modello grande et il cavo per gettarlo, in un gran palazzo statogli dato a godere dal Re.
Ma che che se ne fusse cagione, il Re si morì prima che l'opera fusse finita; ma perché nel principio del regno d'Enrico, furono levate le provisioni a molti e ristrette le spese della corte, si dice che Giovanfrancesco, trovandosi vecchio e non molto agiato, si viveva, non avendo altro, del frutto che traeva del fitto di quel gran palagio e casamento che aveva avuto a godersi dalla liberalità del re Francesco; ma la fortuna, non contenta di quanto aveva insino allora quell'uomo sopportato, gli diede, oltre all'altre, un'altra grandissima percossa; perché avendo donato il re Enrico quel palagio al signor Piero Strozzi, si sarebbe trovato Giovanfrancesco a pessimo termine; ma la pietà di quel signore, al quale increbbe molto della fortuna del Rustico che se gli diede a conoscere, gli venne nel maggior bisogno a tempo, imperò che il signor Piero mandandolo a una badia, o altro luogo che si fusse, del fratello, non solamente sovvenne la povera vecchiezza di Giovanfrancesco, ma lo fece servire e governare, secondo che la sua molta virtù meritava, insino all'ultimo della vita.
Morì Giovanfrancesco d'anni ottanta, e le sue cose rimasero per la maggior parte al detto signore Piero Strozzi.
Non tacerò essermi venuto a notizia che mentre Antonio Mini, discepolo del Buonarroti, dimorò in Francia e fu da Giovanfrancesco trattenuto et accarezzato in Parigi, che vennero in mano di esso Rustichi alcuni cartoni, disegni e modelli di mano di Michelagnolo, de' quali una parte ebbe Benvenuto Cellini scultore mentre stette in Francia, il quale gli ha condotti a Fiorenza.
Fu Giovanfrancesco, come si è detto, non pure senza pari nelle cose di getto, ma costumatissimo, di somma bontà e molto amatore de' poveri, onde non è maraviglia se fu con molta liberalità sovvenuto nel suo maggior bisogno di danari e d'ogni altra cosa dal detto signor Piero; però che è sopra ogni verità verissimo che in mille doppi, eziandio in questa vita, sono ristorate le cose che al prossimo ci fanno per Dio.
Disegnò il Rustico benissimo come, oltre al nostro libro, si può vedere in quello de' disegni del molto reverendo don Vincenzio Borghini.
Il sopra detto Lorenzo Naldini, cognominato Guazzetto, discepolo del Rustico, ha in Francia molte cose lavorato ottimamente di scultura, ma non ho potuto sapere i particolari, come né anco dal suo maestro, il quale si può credere che non stesse tanti anni in Francia quasi ozioso, né sempre intorno a quel suo cavallo.
Aveva il detto Lorenzo alcune case fuor della porta a San Gallo ne' borghi, che furono per l'assedio di Firenze rovinati, che gli furono insieme con l'altre dal popolo gettate per terra, la qual cosa gli dolse tanto, che tornando egli a rivedere la patria l'anno 1540, quando fu vicino a Fiorenza un quarto di miglio si mise la capperuccia d'una sua cappa in capo e si coprì gl'occhi per non vedere disfatto quel borgo e la sua casa nell'entrare per la detta porta; onde, veggendolo così incarruffato le guardie della porta e dimandando che ciò volesse dire, intesero da lui perché si fusse così coperto e se ne risero.
Costui essendo stato pochi mesi in Firenze, se ne tornò in Francia e vi menò la madre, dove ancora vive e lavora.
IL FINE DELLA VITA DI GIOVANFRANCESCO RUSTICHI FIORENTINO
VITA DI FRA' GIOVANN'AGNOLO MONTORSOLI SCULTORE
Nascendo a un Michele d'Agnolo da Poggibonzi, nella villa chiamata Montorsoli, lontana da Firenze tre miglia in sulla strada di Bologna, dove aveva un suo podere assai grande e buono, un figliuolo maschio, gli pose il nome di suo padre cioè Angelo.
Il quale fanciullo crescendo et avendo, per quello che si vedeva, inclinazione al disegno, fu posto dal padre, essendo a così fare consigliato dagl'amici, allo scarpellino con alcuni maestri che stavano nelle cave di Fiesole, quasi dirimpetto a Montorsoli, appresso ai quali continuando Angelo di scarpellare in compagnia di Francesco del Tadda, allora giovinetto, e d'altri, non passarono molti mesi che seppe benissimo maneggiare i ferri e lavorare molte cose di quello esercizio.
Avendo poi per mezzo del Tadda fatto amicizia con maestro Andrea scultore da Fiesole, piacque a quello uomo in modo l'ingegno del fanciullo, che postogli affezione, gli cominciò a insegnare, e così lo tenne appresso di sé tre anni.
Dopo il quale tempo, essendo morto Michele suo padre, se n'andò Angelo in compagnia di altri giovani scarpellini alla volta di Roma, dove essendosi messo a lavorare nella fabrica di San Piero, intagliò alcuni di que' rosoni che sono nella maggior cornice che gira dentro a quel tempio, con suo molto utile e buona provisione.
Partitosi poi di Roma, non so perché, si acconciò in Perugia con un maestro di scarpello, che in capo a un anno gli lasciò tutto il carico de' suoi lavori.
Ma conoscendo Agnolo che lo stare a Perugia non faceva per lui e che non imparava, portasegli occasione di partire se n'andò a lavorare a Volterra nella sepoltura di Messer Raffaello Maffei detto il Volaterranno, nella quale, che si faceva di marmo, intagliò alcune cose, che mostrarono quell'ingegno dovere fare un giorno qualche buona riuscita.
La quale opera finita, intendendo che Michelagnolo Buonarroti metteva allora in opera i migliori intagliatori e scarpellini che si trovassero, nelle fabriche della sagrestia e libreria di San Lorenzo, se n'andò a Firenze dove messo a lavorare, nelle prime cose che fece conobbe Michelagnolo in alcuni ornamenti che quel giovinetto era di bellissimo ingegno e risoluto e che più conduceva egli solo in un giorno che in due non facevono i maestri più pratichi e vecchi.
Onde fece dare a lui fanciullo il medesimo salario che essi attempati tiravano.
Fermandosi poi quelle fabriche l'anno 1527 per la peste e per altre ragioni, Agnolo non sapendo che altro farsi, se n'andò a Poggibonzi, là onde avevano avuto origine i suoi, padre et avolo, e quivi con Messer Giovanni Norchiati suo zio, persona religiosa e di buone lettere, si trattenne un pezzo, non facendo altro che disegnare e studiare.
Ma venutagli poi volontà, veggendo il mondo sotto sopra, d'essere religioso e d'attendere alla quiete e salute dell'anima sua, se n'andò a l'eremo di Camaldoli, dove provando quella vita e non patendo que' disagi e digiuni et astinenze di vita, non si fermò altrimenti.
Ma tuttavia nel tempo che vi dimorò, fu molto grato a que' padri perché era di buona condizione, et in detto tempo il suo trattenimento fu intagliare in capo d'alcune mazze, o vero bastoni, che que' santi padri portano quando vanno da Camaldoli all'ermo, o altrimenti a diporto per la selva quando si dispensa il silenzio, teste d'uomini e di diversi animali, con belle e capricciose fantasie.
Partito dall'eremo con licenzia e buona grazia del maggiore et andatosene alla Vernia, come quelli che ad ogni modo era tirato a essere religioso, vi stette un pezzo, seguitando il coro e conversando con que' padri.
Ma né anco quella vita piacendogli, dopo avere avuto informazioni del vivere di molte religioni in Fiorenza et in Arezzo, dove andò partendosi dalla Vernia, et in niun'altra potendosi accomodare in modo, che gli fusse comodo attendere al disegno et alla salute dell'anima, si fece finalmente frate negl'Ingesuati di Firenze, fuor della porta Pinti, e fu da loro molto volentieri ricevuto con speranza, attendendo essi alle finestre di vetro, che egli dovesse in ciò essere loro di molto aiuto e comodo.
Ma non dicendo que' padri messa secondo l'uso del vivere e Regola loro, e tenendo per ciò un prete che la dica ogni mattina, avevano allora per capellano un fra' Martino dell'Ordine de' Servi, persona d'assai buon giudizio e costumi.
Costui dunque, avendo conosciuto l'ingegno del giovane e considerato che poco poteva esercitarlo fra que' padri che non fanno altro che dire paternostri, fare finestre di vetro, stillare acqua, acconciare orti et altri somiglianti esercizii, e non istudiano, né attendono alle lettere, seppe tanto fare e dire, che il giovane, uscito degl'Ingesuati, si vestì ne' frati de' Servi della Nunziata di Firenze a' dì sette d'ottobre l'anno 1530 e fu chiamato fra' Giovann'Agnolo.
L'anno poi 1531, avendo in quel mentre apparato le cerimonie et ufficii di quell'Ordine e studiato l'opere d'Andrea del Sarto che sono in quel luogo, fece, come dicono essi, professione; e l'anno seguente, con piena sodisfazione di quei padri e contentezza de' suoi parenti, cantò la sua prima messa, con molta pompa et onore.
Dopo essendo state da giovani più tosto pazzi che valorosi nella cacciata de' Medici guaste l'imagini di cera di Leone, Clemente e d'altri di quella famiglia nobilissima, che vi erano posti per voto, deliberando i frati che si rifacessero, fra' Giovann'Agnolo con l'aiuto d'alcuni di loro, che attendevano a sì fatte opere d'imagini, rinovò alcune che v'erano vecchie e consumate dal tempo e di nuovo fece il papa Leone e Clemente, che ancor vi si veggiono; e poco dopo il re di Bossina et il signor Vecchio di Piombino; nelle quali opere acquistò fra' Giovann'Agnolo assai.
Intanto essendo Michelagnolo a Roma appresso papa Clemente, il qual voleva che l'opera di San Lorenzo si seguitasse e perciò l'avea fatto chiamare, gli chiese Sua Santità un giovane che restaurasse alcune statue antiche di Belvedere, che erano rotte.
Per che ricordatosi il Buonarroto di fra' Giovann'Agnolo, lo propose al Papa e Sua Santità per un suo breve lo chiese al generale dell'Ordine de' Servi, che gliel concedette, per non poter far altro e mal volentieri.
Giunto dunque il frate a Roma, nelle stanze di Belvedere, che dal Papa gli furono date per suo abitare e lavorare, rifece il braccio sinistro che mancava all'Apollo et il destro del Laoconte che sono in quel luogo, e diede ordine di racconciare l'Ercole similmente.
E perché il Papa quasi ogni mattina andava in Belvedere per suo spasso e dicendo l'ufficio, il frate il ritrasse di marmo tanto bene, che gli fu l'opera molto lodata e gli pose il Papa grandissima affezione, e massimamente veggendolo studiosissimo nelle cose dell'arte e che tutta la notte disegnava per avere ogni mattina nuove cose da mostrare al Papa, che molto se ne dilettava.
In questo mentre essendo vacato un canonicato di San Lorenzo di Fiorenza, chiesa stata edificata e dotata dalla casa de' Medici, fra' Giovann'Agnolo, che già avea posto giù l'abito di frate, l'ottenne per Messer Giovanni Norchiati suo zio, che era in detta chiesa cappellano.
Finalmente avendo deliberato Clemente che il Buonarroto tornasse a Firenze a finire l'opere della sagrestia e libreria di San Lorenzo, gli diede ordine, perché vi mancavano molte statue, come si dirà nella vita di esso Michelagnolo, che si servisse dei più valentuomini che si potessero avere, e particolarmente del frate, tenendo il medesimo modo che aveva tenuto il San Gallo per finire l'opere della Madonna di Loreto.
Condottosi dunque Michelagnolo et il frate a Firenze, Michelagnolo nel condurre le statue del duca Lorenzo e Giuliano si servì molto del frate nel rinettarle e fare certe difficultà di lavori traforati in sotto squadra, con la quale occasione imparò molte cose il frate da quello uomo veramente divino, standolo con attenzione a vedere lavorare et osservando ogni minima cosa.
Ora perché fra l'altre statue, che mancavano al finimento di quell'opera, mancavano un San Cosimo e Damiano che dovevano mettere in mezzo la Nostra Donna, diede a fare Michelagnolo a Raffaello Monte Lupo il San Damiano et al frate San Cosimo, ordinandogli che lavorasse nelle medesime stanze dove egli stesso avea lavorato e lavorava.
Messovi dunque il frate con grandissimo studio intorno all'opera, fece un modello grande di quella figura che fu ritocco dal Buonarroto in molte parti, anzi fece di sua mano Michelagnolo la testa e le braccia di terra, che sono oggi in Arezzo tenute dal Vasari, fra le sue più care cose, per memoria di tanto uomo.
Ma non mancarono molti invidiosi che biasimarono in ciò Michelagnolo, dicendo che in allogare quella statua avea avuto poco iudizio e fatto mala elezzione, ma gl'effetti mostrarono poi, come si dirà, che Michelagnolo avea avuto ottimo giudicio e che il frate era valentuomo.
Avendo Michelagnolo finiti con l'aiuto del frate e posti su le statue del duca Lorenzo e Giuliano, essendo chiamato dal Papa, che volea si desse ordine di fare di marmo la facciata di San Lorenzo, andò a Roma; ma non vi ebbe fatto molta dimora che, morto papa Clemente, si rimase ogni cosa imperfetta; onde scopertasi a Firenze con l'altre opere la statua del frate, così imperfetta come era, ella fu sommamente lodata, e nel vero, o fusse lo studio e diligenza di lui, o l'aiuto di Michelagnolo, ella riuscì poi ottima figura e la migliore che mai facesse il frate di quante ne lavorò in vita sua; onde fu veramente degna di essere, dove fu, collocata.
Rimaso libero il Buonarroto per la morte del Papa dall'obligo di San Lorenzo, voltò l'animo a uscir di quello che aveva per la sepoltura di papa Giulio Secondo, ma perché aveva in ciò bisogno d'aiuto, mandò per lo frate, il quale non andò a Roma altrimenti prima che avesse finita del tutto l'imagine del duca Alessandro nella Nunziata, la quale condusse fuor dell'uso dell'altre e bellissima, in quel modo che esso signore si vede armato e ginocchioni sopra un elmo alla borgognona e con una mano al petto in atto di raccomandarsi a quella Madonna.
Fornita adunque questa imagine et andato a Roma, fu di grande aiuto a Michelagnolo nell'opera della già detta sepoltura di Giulio Secondo.
In tanto intendendo il cardinale Ipolito de' Medici che il cardinale Turnone aveva da menare in Francia per servizio del Re uno scultore, gli mise innanzi fra' Giovann'Agnolo, il quale essendo a ciò molto persuaso con buone ragioni da Michelagnolo, se n'andò col detto cardinale Turnone a Parigi; dove giunti fu introdotto al Re, che il vide molto volentieri e gl'assegnò poco appresso una buona provisione, con ordine che facesse quattro statue grandi, delle quali non aveva anco il frate finiti i modelli, quando essendo il Re lontano et occupato in alcune guerre ne' confini del regno con gl'inglesi, cominciò a essere bistrattato dai tesorieri et a non tirare le sue provisioni, né avere cosa che volesse secondo che dal Re era stato ordinato.
Per che sdegnatosi e parendogli che quanto stimava quel magnanimo Re le virtù e gli uomini virtuosi, altretanto fussero dai ministri disprezzate e vilipese, si partì, non ostante che dai tesorieri, i quali pur s'avidero del suo mal animo, gli fussero le sue decorse provisioni pagate infino a un quattrino.
Ma è ben vero che prima che si movesse, per sue lettere fece asapere così al Re come al cardinale volersi partire.
Da Parigi dunque andato a Lione, e di lì per la Provenza a Genova, non vi fé molta stanza ché in compagnia d'alcuni amici andò a Vinezia, Padova, Verona e Mantoa, veggendo con molto suo piacere, e talora disegnando, fabriche, sculture e pitture, ma sopra tutte molto gli piacquero in Mantoa le pitture di Giulio Romano, alcuna delle quali disegnò con diligenza.
Avendo poi inteso in Ferrara et in Bologna che i suoi frati de' Servi facevano capitolo generale a Budrione, vi andò per visitare molti amici suoi e particolarmente maestro Zacheria fiorentino, suo amicissimo, ai preghi del quale fece in un dì et una notte due figure di terra grandi quanto il naturale, cioè la Fede e la Carità, le quali finte di marmo bianco, servirono per una fonte posticcia, da lui fatta con un gran vaso di rame, che durò a gettar acqua tutto il giorno che fu fatto il generale, con molta sua lode et onore.
Da Budrione tornatosene con detto maestro Zacheria a Firenze nel suo convento de' Servi, fece similmente di terra, e le pose in due nicchie del capitolo, due figure maggiori del naturale, cioè Moisè e San Paulo, che gli furono molto lodate.
Essendo poi mandato in Arezzo da maestro Dionisio, allora generale de' Servi, il quale fu poi fatto cardinale da papa Paulo III et il quale si sentiva molto obligato al generale Angelo d'Arezzo che l'avea allevato et insegnatogli le buone lettere, fece fra' Giovann'Agnolo al detto generale aretino una bella sepoltura di macigno in S.
Piero di quella città, con molti intagli et alcune statue, e di naturale sopra una cassa il detto generale Angelo e due putti nudi di tondo rilievo, che piagnendo spengono le faci della vita umana, con altri ornamenti che rendono molto bella quest'opera; la quale non era anco finita del tutto quando, essendo chiamato a Firenze dai proveditori sopra l'apparato che allora faceva fare il duca Alessandro, per la venuta in quella città di Carlo V imperadore che tornava vittorioso da Tunis, fu forzato partirsi.
Giunto dunque a Firenze, fece al ponte a Santa Trinita sopra una basa grande una figura d'otto braccia che rappresentava il fiume Arno a giacere, il quale in atto mostrava di rallegrarsi col Reno, Danubio, Biagrada et Ibero fatti da altri, della venuta di sua maestà, il quale Arno dico fu una molto bella e buona figura.
In sul canto de' Carnesecchi fece il medesimo in una figura di dodici braccia Iason duca degl'Argonauti, ma questa per esser di smisurata grandezza et il tempo corto, non riuscì della perfezzione che la prima; come né anco una Ilarità augusta che fece al canto alla Cuculia.
Ma considerata la brevità del tempo nel quale egli condusse quest'opere, elle gl'acquistarono grand'onore e nome così appresso gl'artefici come l'universale.
Finita poi l'opera d'Arezzo, intendendo che Girolamo Genga avea da fare un'opera di marmo in Urbino, l'andò il frate a trovare, ma non si essendo venuto a conchiudere niuna, prese la volta di Roma, e quivi badato poco, se n'andò a Napoli con speranza d'avere a fare la sepoltura di Iacopo Sanazaro gentiluomo napoletano e poeta veramente singolare e rarissimo.
Avendo edificato il Sanazaro a Margoglino, luogo di bellissima vista et amenissimo nel fine di Chiaia sopra la marina, una magnifica e molto commoda abitazione, la quale si godé mentre visse, lasciò venendo a morte quel luogo, che ha forma di convento, et una bella chiesetta all'Ordine de' frati de' Servi, ordinando al signor Cesare Mormerio et al signor conte di Lif, esecutori del suo testamento, che nella detta chiesa da lui edificata, e la quale doveva essere ufficiata dai detti padri, gli facessero la sua sepoltura.
Ragionandosi dunque di farla, fu proposto dai frati ai detti essecutori fra' Giovann'Agnolo, al quale, andato egli come s'è detto a Napoli, finalmente fu la detta sepoltura allogata, essendo stati giudicati i suoi modelli assai migliori di molti altri che n'erano stati fatti da diversi scultori, per mille scudi.
De' quali avendo avuto buona partita, mandò a cavare i marmi Francesco del Tadda da Fiesole, intagliatore eccellente, al quale aveva dato a fare tutti i lavori di quadro e d'intaglio che avevano a farsi in quell'opera per condurla più presto.
Mentre che il frate si metteva a ordine per fare la detta sepoltura, essendo in Puglia venuta l'armata turchesca e perciò standosi in Napoli con non poco timore, fu dato ordine di fortificare la città e fatti sopra ciò quattro grand'uomini e di migliore giudizio; i quali per servirsi d'architettori intendenti, andarono pensando al frate, il quale avendo di ciò alcuno sentore avuto e non parendogli che ad uomo religioso come egli era istesse bene adoperarsi in cose di guerra, fece intendere a detti essecutori che farebbe quell'opera o in Carrara, o in Fiorenza, e ch'ella sarebbe al promesso tempo condotta e murata al luogo suo.
Così dunque condottosi da Napoli a Fiorenza, gli fu subito fatto intendere dalla signora donna Maria, madre del duca Cosimo, che egli finisse il S.
Cosimo, che già aveva cominciato con ordine del Buonarroto, per la sepoltura del Magnifico Lorenzo Vecchio.
Onde rimessovi mano, lo finì; e ciò fatto, avendo il Duca fatto fare gran parte de' condotti per la fontana grande di Castello sua villa et avendo quella ad avere per finimento un Ercole in cima che facesse scoppiare Anteo, a cui uscisse in cambio del fiato acqua di bocca che andasse in alto, fu fattone fare al frate un modello assai grandetto, il quale piacendo a sua eccellenza, fu comessogli che lo facesse et andasse a Carrara a cavare il marmo; la dove andò il frate molto volentieri per tirare innanzi con quella occasione la detta sepoltura del Sanazzaro e particolarmente una storia di figure di mezzo rilievo.
Standosi dunque il frate a Carrara, il cardinale Doria scrisse di Genova al cardinal Cibo, che si trovava a Carrara, che non avendo mai finita il Bandinello la statua del principe Doria e non avendola a finire altrimenti, che procacciasse di fargli avere qualche valentuomo scultore che la facesse, perciò che avea cura di sollecitare quell'opera.
La quale lettera avendo ricevuta Cibo, che molto innanzi avea cognizione del frate, fece ogni opera di mandarlo a Genova, ma egli disse sempre non potere e non volere in niun modo servire sua signoria reverendissima, se prima non sodisfaceva all'obligo e promessa che aveva col duca Cosimo.
Avendo mentre che queste cose si trattavano tirata molto innanzi la sepoltura del Sanazzaro et abbozzato il marmo dell'Ercole, se ne venne con esso a Firenze, dove con molta prestezza e studio lo condusse a tal termine, che poco arebbe penato a fornirlo del tutto, se avesse seguitato di lavorarvi; ma essendo uscita una voce che il marmo a gran pezza non riusciva opera perfetta come il modello e che il frate era per averne difficultà a rimettere insieme le gambe dell'Ercole che non riscontravano col torso, Messer Pierfrancesco Riccio maiordomo, che pagava la provisione al frate, cominciò, lasciandosi troppo più volgere di quello che doverebbe un uomo grave, ad andare molto ratenuto a pagargliela, credendo troppo al Bandinello che con ogni sforzo pontava contro a colui, per vendicarsi dell'ingiuria che parea che gl'avesse fatto di aver promesso voler fare la statua del Doria, disobligato che fusse dal Duca.
Fu anco openione che il favore del Tribolo, il quale faceva gl'ornamenti di Castello, non fusse d'alcun giovamento al frate, il quale, comunche si fusse, vedendosi essere bistrattato dal Riccio, come collerico e sdegnoso, se n'andò a Genova, dove dal cardinale Doria e dal principe gli fu allogata la statua di esso principe che dovea porsi in sulla piazza Doria; alla quale avendo messo mano senza però intralasciare del tutto l'opera del Sanazzaro, mentre il Tadda lavorava a Carrara il resto degl'intagli e del quadro, la finì con molta sodisfazione del principe e de' genovesi.
E se bene la detta statua era stata fatta per dovere essere posta in sulla piazza Doria, fecero nondimeno tanto i genovesi, che a dispetto del frate ella fu posta in sulla piazza della Signoria, non ostante che esso frate dicesse che avendola lavorata perché stesse isolata sopra un basamento, ella non poteva star bene, né avere la sua veduta a canto a un muro.
E per dire il vero non si può far peggio che mettere un'opera fatta per un luogo in un altro; essendo che l'artefice nell'operare si va quanto ai lumi e le vedute accomodando al luogo dove dee essere la sua o scultura o pittura collocata.
Dopo ciò vedendo i genovesi e piacendo molto loro le storie et altre figure fatte per la sepoltura del Sanazzaro, vollono che il frate facesse per la loro chiesa catedrale un San Giovanni Evangelista, che finito, piacque loro tanto, che ne restarono stupefatti.
Da Genova partito finalmente fra' Giovann'Agnolo andò a Napoli dove nel luogo già detto mise su la sepoltura detta del Sanazzaro, la quale è così fatta: in sui canti da basso sono due piedistalli, in ciascuno de' quali è intagliata l'arme di esso Sanazzaro, e nel mezzo di questi è una lapide di braccia uno e mezzo, nella quale è intagliato l'epitaffio che Iacopo stesso si fece, sostenuto da due puttini; di poi sopra ciascuno dei piedistalli è una statua di marmo tonda a sedere, alta quattro braccia, cioè Minerva et Apollo, et in mezzo a queste fra l'ornamento di due mensole, che sono dai lati, è una storia di braccia due e mezzo per ogni verso, dentro la quale sono intagliati di basso rilievo fauni, satiri, ninfe et altre figure, che suonano e cantano nella maniera che ha scritto nella sua dottissima Arcadia di versi pastorali quell'uomo eccellentissimo.
Sopra questa storia è posta una cassa tonda di bellissimo garbo e tutta intagliata et adorna molto, nella quale sono l'ossa di quel poeta, e sopra essa in sul mezzo è in una basa la testa di lui ritratta dal vivo con queste parole a piè: "Actius Sincerus", accompagnata da due putti con l'ale a uso d'amori, che intorno hanno alcuni libri.
In due nicchie poi, che sono dalle bande nell'altre due facce della cappella, sono sopra due base due figure tonde di marmo ritte e di tre braccia l'una o poco più: cioè San Iacopo apostolo e San Nazzaro.
Murata dunque nella guisa che s'è detta quest'opera, ne rimasero sodisfattissimi i detti signori esecutori e tutto Napoli.
Dopo ricordandosi il frate d'avere promesso al principe Doria di tornare a Genova, per fargli in San Matteo la sua sepoltura et ornare tutta quella chiesa, si partì subito da Napoli et andossene a Genova, dove arrivato e fatti i modelli dell'opera che dovea fare a quel signore, i quali gli piacquero infinitamente, vi mise mano con buona provisione di danari e buon numero di maestri.
E così dimorando il frate in Genova fece molte amicizie di signori et uomini virtuosi e particolarmente con alcuni medici, che gli furono di molto aiuto, perciò che giovandosi l'un l'altro e facendo molte notomie di corpi umani et attendendo all'architettura e prospettiva, si fece fra' Giovann'Agnolo eccellentissimo.
Oltre ciò, andando spesse volte il principe dove egli lavorava e piacendogli i suoi ragionamenti, gli pose grandissima affezione.
Similmente in detto tempo di due suoi nipoti che aveva lasciati in custodia a maestro Zacheria gliene fu mandato uno chiamato Angelo, giovane di bell'ingegno e costumato, e poco appresso dal medesimo un altro giovanetto chiamato Martino, figliuolo d'un Bartolomeo sarto, de' quali ambi due giovani insegnando loro, come gli fussero figliuoli, si servì il frate in quell'opera che avea fra mano.
Della quale ultimamente venuto a fine, messe su la cappella, sepoltura e gl'altri ornamenti fatti per quella chiesa; la quale facendo a sommo la prima navata del mezzo una croce e giù per lo manico tre, ha l'altar maggiore nel mezzo et in testa isolato.
La cappella dunque è retta ne' cantoni da quattro gran pilastri, i quali sostengono parimente il cornicione che gira intorno e sopra cui girano in mezzo tondo quattro archi, che posano alla dirittura de' pilastri; de' quali archi tre ne sono nel vano di mezzo, ornati di finestre non molto grandi, e sopra questi archi gira una cornice tonda, che fa quattro angoli fra arco et arco ne' canti, e di sopra fa una tribuna a uso di catino.
Avendo dunque il frate fatto molti ornamenti di marmo, dintorno all'altare da tutte quattro le bande, sopra quello pose un bellissimo e molto ricco vaso di marmo per lo Santissimo Sacramento, in mezzo a due Angeli pur di marmo, grandi quanto il naturale; intorno poi gira un partimento di pietre commesse nel marmo con bello e variato andare di mischi e pietre rare, come sono serpentini, porfidi e diaspri.
E nella testa e faccia principale della cappella, fece un altro partimento dal piano del pavimento insino all'altezza di simili mischi e marmi, il quale fa basamento a quattro pilastri di marmo che fanno tre vani, in quello del mezzo, che è maggior degl'altri, è in una sepoltura il corpo di non so che Santo, et in quelli dalle bande sono due statue di marmo fatte per due Evangelisti.
Sopra questo ordine è una cornice, e sopra la cornice altri quattro pilastri minori che reggono un'altra cornice, che fa spartimento per tre quadretti che ubbidiscono ai vani di sotto; in quel di mezzo, che posa in sulla maggior cornice, è un Cristo di marmo che risuscita, di tutto rilievo e maggiore del naturale.
Nelle facce dalle bande ribatte il medesimo ordine, e sopra la detta sepoltura nel vano di mezzo è una Nostra Donna di mezzo rilievo con Cristo morto, la quale Madonna mettono in mezzo Davit re e San Giovanni Battista, e nell'altra è Santo Andrea e Geremia profeta.
I mezzi tondi degl'archi sopra la maggior cornice, dove sono due finestre, sono di stucchi con putti intorno, che mostrano ornare la finestra.
Negl'angoli sotto la tribuna sono quattro sibille similmente di stucco, sì come è anco lavorata tutta la volta a grottesche di varie maniere; sotto questa cappella è fabricata una stanza sotterranea, la quale, scendendo per scale di marmo, si vede in testa una cassa di marmo con due putti sopra, nella quale doveva essere posto, come credo sia stato fatto dopo la sua morte, il corpo di esso signore Andrea Doria.
E dirimpetto alla cassa, sopra un altare, dentro a un bellissimo vaso di bronzo, che fu fatto e rinetto, da chi si fusse che lo gettasse, divinamente, è alquanto del legno della Santissima Croce sopra cui fu crucifisso Gesù Cristo benedetto, il qual legno fu donato a esso principe Doria dal duca di Savoia.
Sono le pariete di detta tomba tutte incrostate di marmo e la volta lavorata di stucchi e d'oro con molte storie de' fatti egregii del Doria, et il pavimento è tutto spartito di varie pietre mischie a corrispondenza della volta; sono poi nelle facciate della crociera della navata, da sommo, due sepolture di marmo con due tavole di mezzo rilievo; in una è sepolto il conte Filippino Doria e nell'altra il signor Giannettino della medesima famiglia.
Ne' pilastri dove comincia la navata del mezzo, sono due bellissimi pergami di marmo; e dalle bande delle navate minori sono spartite nelle facciate con bell'ordine d'architettura alcune cappelle con colonne et altri molti ornamenti, che fanno quella chiesa essere un'opera veramente magnifica e ricchissima.
Finita la detta chiesa, il medesimo principe Doria fece mettere mano al suo palazzo e fargli nuove aggiunte di fabriche e giardini bellissimi, che furono fatti con ordine del frate, il quale avendo in ultimo fatto, dalla parte dinanzi di detto palazzo, un vivaio, fece di marmo un mostro marino, di tondo rilievo, che versa in gran copia acqua nella detta peschiera; simile al quale mostro ne fece un altro a que' signori, che fu mandato in Ispagna al Granvela.
Fece un gran Nettunno di stucco, che sopra un piedistallo fu posto nel giardino del Principe; fece di marmo due ritratti del medesimo Principe e due di Carlo Quinto, che furono portati da Coves in Ispagna.
Furono molto amici del frate, mentre stette in Genova, Messer Cipriano Palavigino, il quale per essere di molto giudizio nelle cose delle nostre arti ha praticato sempre volentieri con gl'artefici più eccellenti e quelli in ogni cosa favoriti, il signore abbate Negro, Messer Giovanni da Monte Pulvano et il signor Priore di San Matteo, et insomma tutti i primi gentiluomini e signori di quella città, nella quale acquistò il frate fama e ricchezza.
Finite dunque le sopra dette opere, si partì fra' Giovann'Agnolo di Genova e se n'andò a Roma per rivedere il Buonarroto, che già molti anni non aveva veduto, e vedere se per qualche mezzo avesse potuto rapiccare il filo col duca di Fiorenza e tornare a fornire l'Ercole che aveva lasciato imperfetto.
Ma arrivato a Roma, dove si comperò un cavalierato di San Piero, inteso per lettere avute da Fiorenza che il Bandinello, mostrando aver bisogno di marmo e facendo a credere che il detto Ercole era un marmo storpiato, l'aveva spezzato con licenzia del maiorduomo Riccio e servitosene a far cornici per la sepoltura del signor Giovanni, la quale egli allora lavorava, se ne prese tanto sdegno, che per allora non volle altrimenti tornare a rivedere Fiorenza, parendogli che troppo fusse sopportata la prosonzione, arroganza et insolenza di quell'uomo.
Mentre che il frate si andava trattenendo in Roma avendo i messinesi deliberato di fare sopra la piazza del lor Duomo una fonte con un ornamento grandissimo di statue, avevano mandati uomini a Roma a cercare d'avere uno eccellente scultore; i quali uomini, se bene avevano fermo Raffaello da Monte Lupo, perché s'infermò quando apunto volea partire con esso loro per Messina, fecero altra resoluzione e condussero il frate, che con ogni instanza e qualche mezzo cercò d'avere quel lavoro.
Avendo dunque posto in Roma al legnaiuolo Angelo suo nipote che gli riuscì di più grosso ingegno che non aveva pensato, con Martino si partì il frate e giunsono in Messina del mese di settembre 1547, dove, accomodati di stanze e messo mano a fare il condotto dell'acque che vengono di lontano et a fare venire marmi da Carrara, condusse con l'aiuto di molti scarpellini et intagliatori con molta prestezza quella fonte, che è così fatta: ha, dico, questa fonte otto facce, cioè quattro grandi e principali e quattro minori, due delle quali maggiori venendo in fuori fanno in sul mezzo un angolo, e due, andando in dentro, s'accompagnano con un'altra faccia piana che fa l'altra parte dell'altre quattro facce, che in tutto sono otto.
Le quattro facce angolari, che vengono in fuori facendo risalto, danno luogo alle quattro piane, che vanno in dentro; e nel vano è un pilo assai grande, che riceve acque in gran copia da quattro fiumi di marmo che accompagnano il corpo del vaso di tutta la fonte intorno alle dette otto facce; la qual fonte posa sopra un ordine di quattro scalee che fanno dodici facce: otto maggiori che fanno la forma dell'angolo, e quattro minori dove sono i pili.
E sotto i quattro fiumi sono le sponde alte palmi cinque, et in ciascun angolo (che tutti fanno venti facce) fa ornamento un termine; la circonferenza del primo vaso dall'otto facce è centodue palmi et il diametro è trentaquattro, et in ciascuna delle dette venti facce è intagliata una storietta di marmo in basso rilievo, con poesie di cose convenienti a fonti et acque, come dire il cavallo Pegaso che fa il fonte Castalio, Europa che passa il mare, Icaro che volando cade nel medesimo, Aretusa conversa in fonte, Iason che passa il mare col montone d'oro, Narciso converso in fonte, Diana nel fonte che converte Ateon in cervio, con altre simili.
Negl'otto angoli che dividono i risalti delle scale della fonte che saglie due gradi andando ai pili et ai fiumi e quattro alle sponde angolari sono otto mostri marini in diverse forme a giacere sopra certi dadi, con le zampe dinanzi che posano sopra alcune maschere, le quali gettano acqua in certi vasi.
I fiumi che sono in sulla sponda et i quali posano di dentro sopra un dado tanto alto, che pare che seggano nell'acqua, sono il Nilo con sette putti, il Tevere circondato da una infinità di palme e trofei, l'Ibero con molte vittorie di Carlo Quinto et il fiume Cumano vicino a Messina, dal quale si prendono l'acque di questa fonte, con alcune storie e ninfe fatte con belle considerazioni.
Et insino a questo piano di dieci palmi sono sedici getti d'acqua grossissimi: otto ne fanno le maschere dette, quattro i fiumi e quattro alcuni pesci alti sette palmi, i quali stando nel vaso ritti e con la testa fuora gettano acqua dalla parte della maggior faccia.
Nel mezzo dell'otto facce, sopra un dado alto quattro palmi, sono sopra ogni canto una serena con l'ale e senza braccia, e sopra queste, le quali si annodano nel mezzo, sono quattro tritoni alti otto palmi, i quali anch'essi con le code annodate e con le braccia reggono una gran tazza, nella quale gettano acqua quattro maschere intagliate superbamente; di mezzo alla quale tazza surgendo un piede tondo sostiene due maschere bruttissime, fatte per Scilla e Cariddi, le quali sono conculcate da tre ninfe ignude grandi sei palmi l'una, sopra le quali è posta l'ultima tazza, che da loro è con le braccia sostenuta.
Nella quale tazza, facendo basamento quattro delfini col capo basso e con le code alte, reggono una palla, di mezzo alla quale per quattro teste esce acqua che va in alto e così dai delfini sopra i quali sono a cavallo quattro putti nudi.
Finalmente nell'ultima cima è una figura armata rappresentante Orione, stella celeste, che ha nello scudo l'arme della città di Messina, della quale si dice, o più tosto si favoleggia essere stata edificatrice.
Così fatta dunque è la detta fonte di Messina, ancor che non si possa così ben con le parole come si farebbe col disegno dimostrarla.
E perché ella piacque molto a' messinesi, gliene feciono fare un'altra in sulla marina dove è la dogana, la quale riuscì anch'essa bella e ricchissima; et ancor che quella similmente sia a otto facce, è nondimeno diversa dalla sopra detta, perciò che questa ha quattro facce di scale che sagliono tre gradi, e quattro altre minori mezze tonde, sopra le quali dico è la fonte in otto facce; e le sponde della fontana grande di sotto hanno al pari di loro in ogni angolo un piedistallo intagliato, e nelle facce della parte dinanzi un altro in mezzo a quattro di esse.
Dalle parte poi dove sono le scale tonde è un pilo di marmo aovato, nel quale per due maschere, che sono nel parapetto sotto le sponde intagliate, si getta acqua in molta copia; e nel mezzo del bagno di questa fontana è un basamento alto a proporzione, sopra il quale è l'arme di Carlo Quinto et in ciascun angolo di detto basamento è un cavallo marino che fra le zampe schizza acqua in alto.
E nel fregio del medesimo, sotto la cornice di sopra, sono otto mascheroni che gettano all'ingiù otto polle d'acqua, et in cima è un Nettunno di braccia cinque il quale avendo il tridente in mano posa la gamba ritta a canto a un delfino; sono poi dalle bande sopra due altri basamenti Scilla e Cariddi in forma di due mostri, molto ben fatti, con teste di cane e di furie intorno.
La quale opera finita similmente piacque molto a' messinesi i quali avendo trovato un uomo secondo il gusto loro diedero, finite le fonti, principio alla facciata del Duomo, tirandola alquanto inanzi, e dopo ordinarono di far dentro dodici cappelle d'opera corinzia, cioè sei per banda con i dodici Apostoli di marmo di braccia cinque l'uno, delle quali tutte ne furono solamente finite quattro dal frate, che vi fece di sua mano un San Pietro et un San Paulo, che furono due grandi e molto buone figure.
Doveva anco fare in testa della cappella maggiore un Cristo di marmo, con ricchissimo ornamento intorno, e sotto ciascuna delle statue degl'Apostoli una storia di basso rilievo, ma per allora non fece altro.
In sulla piazza del medesimo Duomo ordinò con bella architettura il tempio di San Lorenzo, che gli fu molto lodato.
In sulla marina fu fatta di suo ordine la torre del fanale, e mentre che queste cose si tiravano innanzi, fece condurre in San Domenico per il capitan Cicala una cappella, nella quale fece di marmo una Nostra Donna grande quanto il naturale, e nel chiostro della medesima chiesa, alla cappella del signor Agnolo Borsa, fece in marmo di basso rilievo una storia, che fu tenuta bella e condotta con molta diligenza; fece anco condurre, per lo muro di Santo Agnolo, acqua per una fontana e vi fece di sua mano un putto di marmo grande che versa in un vaso molto adorno e benissimo accomodato, che fu tenuta bell'opera, et al muro della Vergine fece un'altra fontana, con una Vergine di sua mano che versa acqua in un pilo; e per quella che è posta al palazzo del signor don Filippo Laroca, fece un putto maggiore del naturale d'una certa pietra che s'usa in Messina, il qual putto, che è in mezzo a certi mostri et altre cose marittime, getta acqua in un vaso.
Fece di marmo una statua di quattro braccia, cioè una Santa Caterina martire molto bella, la quale fu mandata a Tarumezia, luogo lontano da Messina 24 miglia.
Furono amici di fra' Giovann'Agnolo, mentre stette in Messina, il detto signor don Filippo Laroca e don Francesco della medesima famiglia, Messer Bardo Corsi, Giovanfrancesco Scali e Messer Lorenzo Borghini, tutti tre gentiluomini fiorentini allora in Messina, Serafino da Fermo et il signor gran mastro di Rodi che più volte fece opera di tirarlo a Malta e farlo cavalieri, ma egli rispose non volere confinarsi in quell'isola, senza che pur alcuna volta, conoscendo che faceva male a stare senza l'abito della sua Religione, pensava di tornare.
E nel vero so io che quando bene non fusse stato in un certo modo forzato, era risoluto ripigliarlo e tornare a vivere da buono religioso.
Quando adunque al tempo di papa Paulo Quarto, l'anno 1557 furono tutti gl'apostati o vero sfratati astretti a tornare alle loro Religioni sotto gravissime pene, fra' Giovann'Agnolo lasciò l'opere che avea fra mano et in suo luogo Martino suo creato, e da Messina del mese di maggio, se ne venne a Napoli per tornare alla sua Religione de' Servi in Fiorenza.
Ma prima che altro facesse, per darsi a Dio interamente, andò pensando come dovesse i suoi molti guadagni dispensare convenevolmente; e così dopo avere maritate alcune sue nipote fanciulle povere et altre della sua patria e da Montorsoli, ordinò che ad Angelo suo nipote, del quale si è già fatto menzione, fussero dati in Roma mille scudi e comperatogli un cavaliere del giglio; a due spedali di Napoli diede per limosina buona somma di danari per ciascuno; al suo convento de' Servi lasciò mille scudi per comperare un podere, e quello di Montorsoli stato de' suoi antecessori: con questo, che a due suoi nipoti frati del medesimo Ordine fussino pagati ogni anno, durante la vita loro, venticinque scudi per ciascuno, e con alcuni altri carichi che di sotto si diranno; le quali cose, come ebbe accomodato, si scoperse in Roma e riprese l'abito con molta sua contentezza e de' suoi frati, e particolarmente di maestro Zaccheria.
Dopo venuto a Fiorenza fu ricevuto e veduto dagl'amici e parenti con incredibile piacere e letizia.
Ma ancor che avesse deliberato il frate di volere il rimanente della vita spendere in servigio di Nostro Signore Dio e dell'anima sua e starsi quietamente in pace, godendosi un cavalierato che s'era serbato, non gli venne ciò fatto così presto, perciò che, essendo con istanzia chiamato a Bologna da maestro Giulio Bovio, zio del vascone Bovio, perché facesse nella chiesa de' Servi l'altar maggiore tutto di marmo et isolato, et oltre ciò una sepoltura con figure e ricco ornamento di pietre mischie et incostrature di marmo, non poté mancargli, e massimamente avendosi a fare quell'opera in una chiesa del suo Ordine.
Andato dunque a Bologna e messo mano all'opera, la condusse in ventotto mesi, facendo il detto altare, il quale da un pilastro all'altro chiude il coro de' frati tutto di marmo dentro e fuori con un Cristo nudo nel mezzo di braccia due e mezzo e con alcun'altre statue dagli lati.
È l'architettura di quest'opera bella veramente, e ben partita et ordinata, e commessa tanto bene, che non si può far meglio; il pavimento ancora, dove in terra è la sepoltura del Bovio, è spartito con bell'ordine, e certi candellieri di marmo et alcune storiette e figurine sono assai bene accomodate, et ogni cosa è ricca d'intaglio; ma le figure, oltre che son piccole per la difficultà che si ha di condurre pezzi grandi di marmo a Bologna, non sono pari all'architettura, né molto da essere lodate.
Mentre che fra' Giovann'Agnolo lavorava in Bologna quest'opera, come quello che in ciò non era anco ben risoluto, andava pensando in che luogo potesse più comodamente di quelli della sua Religione consumare i suoi ultimi anni, quando maestro Zaccheria suo amicissimo, che allora era priore della Nunziata di Firenze, disiderando di tirarlo e fermarlo in quel luogo, parlò di lui col duca Cosimo, riducendogli a memoria la virtù del frate e pregando che volesse servirsene; a che, avendo risposto il Duca benignamente e che si servirebbe del frate tornato che fusse da Bologna, maestro Zaccaria gli scrisse del tutto, mandatogli appresso una lettera del cardinale Giovanni de' Medici, nella quale il confortava quel signore a tornare a fare nella patria qualche opera segnalata di sua mano.
Le quali lettere avendo il frate ricevuto, ricordandosi che Messer Pierfrancesco Ricci, dopo essere vivuto pazzo molti anni era morto, e che similmente il Bandinello era mancato, i quali parea che poco gli fussero stati amici, riscrisse che non mancherebbe di tornare quanto prima potesse a servire sua eccellenza illustrissima, per fare in servigio di quella non cose profane, ma alcun'opera sacra, avendo tutto volto l'animo al servigio di Dio e de' suoi Santi.
Finalmente dunque, essendo tornato a Fiorenza l'anno 1561, se n'andò con maestro Zaccheria a Pisa, dove erano il signor Duca et il Cardinale, per fare a loro illustrissime signorie reverenza.
Da' quali signori essendo stato benignamente ricevuto e carezzato, e dettogli dal Duca che nel suo ritorno a Fiorenza gli sarebbe dato a fare un'opera d'importanza, se ne tornò.
Avendo poi ottenuto col mezzo di maestro Zaccheria licenza dai suoi frati della Nunziata di potere ciò fare, fece nel capitolo di quel convento, dove molti anni innanzi aveva fatto il Moisè e San Paulo di stucchi, come s'è detto di sopra, una molto bella sepoltura in mezzo per sé e per tutti gl'uomini dell'arte del disegno, pittori, scultori et architettori che non avessono proprio luogo dove essere sotterrati, con animo di lasciare come fece per contratto che que' frati, per i beni che lascerebbe loro, fussero obligati dire messa alcuni giorni di festa e feriali in detto capitolo, e che ciascun anno, il giorno della Santissima Trinità, si facesse festa solennissima et il giorno seguente un ufficio di morti per l'anime di coloro che in quel luogo fussero stati sotterrati.
Questo suo disegno adunque, avendo esso fra' Giovann'Agnolo e maestro Zacheria scoperto a Giorgio Vasari, che era loro amicissimo, et insieme avendo discorso sopra le cose della Compagnia del disegno che al tempo di Giotto era stata creata et aveva le sue stanze avute in Santa Maria Nuova di Fiorenza, come ne appare memoria ancor oggi all'altar maggiore dello spedale, dal detto tempo insino a' nostri, pensarono con questa occasione di raviarla e rimetterla su.
E perché era la detta Compagnia dall'altar maggiore sopra detto stata traportata (come si dirà nella vita di Iacopo di Casentino) sotto le volte del medesimo spedale in sul canto della via della Pergola, e di lì poi era stata ultimamente levata e tolta loro da don Isidoro Montaguti spedalingo di quel luogo, ella si era quasi del tutto dismessa e più non si ragunava.
Avendo, dico, il frate, maestro Zacheria e Giorgio discorso sopra lo stato di detta Compagnia lungamente, poi che il frate ebbe parlato di ciò col Bronzino, Francesco San Gallo, Amannato, Vincenzio de' Rossi, Michel di Ridolfo et altri molti scultori e pittori de' primi, e manifestato loro l'animo suo, venuta la mattina della Santissima Trinità, furono tutti i più nobili et eccellenti artefici dell'arte del disegno in numero di quarantotto ragunati nel detto capitolo, dove si era ordinato una bellissima festa e dove già era finita la detta sepoltura e l'altare tirato tanto innanzi, che non mancavano se non alcune figure che v'andavano di marmo.
Quivi, detta una solennissima messa, fu fatta da un di que' padri una bell'orazione in lode di fra' Giovann'Agnolo e della magnifica liberalità che egli faceva alla Compagnia detta, donando loro quel capitolo, quella sepoltura e quella cappella.
Della quale, acciò pigliassero il possesso, conchiuse essersi già ordinato che il corpo del Puntormo, il quale era stato posto in un deposito nel primo chiostretto della Nunziata, fusse primo di tutti messo in detta sepoltura.
Finita dunque la messa e l'orazione, andati tutti in chiesa dove in una bara erano l'ossa del detto Puntormo, postolo sopra le spalle de' più giovani, con una falcola per uno et alcune torce, girando intorno la piazza il portarono nel detto capitolo, il quale dove prima era parato di panni d'oro, trovarono tutto nero, e pieno di morti dipinti et altre cose simili.
E così fu il detto Puntormo collocato nella nuova sepoltura.
Licenziandosi poi la Compagnia, fu ordinata la prima tornata per la prossima domenica, per dar principio, oltre al corpo della Compagnia, a una scelta de' migliori e creato un'accademia, con l'aiuto della quale chi non sapeva imparasse, e chi sapeva, mosso da onorata e lodevole concorrenza, andasse maggiormente acquistando.
Giorgio intanto, avendo di queste cose parlato col Duca e pregatolo a volere così favorire lo studio di queste nobili arti, come avea fatto quello delle lettere, avendo riaperto lo studio di Pisa, creato un collegio di scolari e dato principio all'Accademia fiorentina, lo trovò tanto disposto ad aiutare e favorire questa impresa quanto più non arebbe saputo disiderare.
Dopo queste cose avendo i frati de' Servi meglio pensato al fatto, si risolverono, e lo fecero intendere alla Compagnia, di non volere che il detto capitolo servisse loro se non per farvi feste, uffici e seppellire, e che in niun altro modo volevano avere, mediante le loro tornate e ragunarsi, quella servitù nel loro convento.
Di che avendo parlato Giorgio col Duca e chiestogli un luogo, sua eccellenza disse avere pensato di accomodarne loro uno, dove non solamente potrebbono edificare una Compagnia, ma avere largo campo di mostrare, lavorando, la virtù loro.
E poco dopo scrisse e fece intendere per Messer Lelio Torelli al priore e monaci degl'Angeli che accomodassono la detta Compagnia del tempio stato cominciato nel loro monasterio da Filippo Scolari detto lo Spano.
Ubbidirono i frati e la Compagnia fu accomodata d'alcune stanze, nelle quali si ragunò più volte, con buona grazia di que' padri che anco nel loro capitolo proprio gl'accettarono alcune volte molto cortesemente.
Ma essendo poi detto al signor Duca che alcuni di detti monaci non erano del tutto contenti che là entro si edificasse la Compagnia, perché il monasterio arebbe quella servitù et il detto tempio, il quale dicevano volere con l'opere loro fornire, si starebbe quanto a loro a quel modo, sua eccellenza fece sapere agl'uomini dell'Accademia, che già aveva avuto principio et avea fatta la festa di San Luca nel detto tempio, che poiché i monaci, per quanto intendeva, non molto di buonavoglia gli volevano in casa, che non mancherebbe di proveder loro un altro luogo.
Disse oltre ciò il detto signor Duca, come principe veramente magnanimo che è, non solo voler favorire sempre la detta Accademia, ma egli stesso esser capo, guida e protettore e che per ciò crearebbe, anno per anno, un luogotenente che in sua vece intervenisse a tutte le tornate.
E così facendo per lo primo elesse il reverendo don Vincenzio Borghini, spedalingo degl'Innocenti, delle quali grazie et amorevolezze mostrate dal signor Duca a questa sua nuova Accademia fu ringraziato da dieci de' più vecchi et eccellenti di quella; ma perché della riforma della Compagnia e degl'ordini dell'Accademia si tratta largamente ne' capitoli che furono fatti dagl'uomini a ciò deputati et eletti da tutto il corpo per riformatori, fra' Giovann'Agnolo, Francesco da San Gallo, Agnolo Bronzino, Giorgio Vasari, Michele di Ridolfo e Pierfrancesco di Iacopo di Sandro, coll'intervento del detto luogotenente e confermazione di sua eccellenza, non ne dirò altro in questo luogo.
Dirò bene, che non piacendo a molti il vecchio sugello et arme o vero insegna della Compagnia, il quale era un bue con l'ali a giacere, animale dell'Evangelista San Luca, e che ordinatosi perciò che ciascuno dicesse o mostrasse con un disegno il parer suo, si videro i più bei capricci e le più stravaganti e belle fantasie che si possano imaginare.
Ma non perciò è anco risoluto interamente quale debba essere accettato.
Martino intanto, discepolo del frate, essendo da Messina venuto a Fiorenza, in pochi giorni morendosi, fu sotterrato nella sepoltura detta, stata fatta dal suo maestro, e non molto poi, nel 1564, fu nella medesima con onoratissime essequie sotterrato esso padre fra' Giovann'Agnolo, stato scultore eccellente e dal molto reverendo e dottissimo maestro Michelagnolo publicamente nel tempio della Nunziata lodato con una molto bella orazione.
E nel vero hanno le nostre arti, per molte cagioni, grand'obligo con fra' Giovann'Agnolo, per avere loro portato infinito amore et agl'artefici di quella parimente.
E di quanto giovamento sia stata e sia l'Accademia, che quasi da lui, nel modo che si è detto, ha avuto principio, e la quale è oggi in protezione del signor duca Cosimo e di suo ordine si raguna in San Lorenzo nella sagrestia nuova, dove sono tant'opere di scultura di Michelagnolo, si può da questo conoscere che non pure nell'essequie di esso Buonarroto, che furono, per opera de' nostri artefici e con l'aiuto del Principe, non dico magnifiche, ma poco meno che reali, delle quali si ragionerà nella vita sua, ma in molte altre cose, hanno per la concorrenza i medesimi, e per non essere indegni accademici, cose maravigliose operato.
Ma particolarmente nelle nozze dell'illustrissimo signor principe di Fiorenza e di Siena, il signor don Francesco Medici, e della serenissima reina Giovanna d'Austria, come da altri interamente è stato con ordine raccontato e da noi sarà a luogo più comodo largamente replicato.
E perciò che non solo in questo buon padre, ma in altri ancora de' quali si è ragionato disopra, si è veduto e vede continuamente che i buoni religiosi (non meno che nelle lettere, nei publici studii e nei sacri concilii) sono di giovamento al mondo e d'utile nell'arti e negl'esercizii più nobili e che non hanno a vergognarsi in ciò dagl'altri, si può dire non essere per aventura del tutto vero quello che alcuni, più da ira e da qualche particolare sdegno che da ragione mossi e da verità, affermarono troppo largamente di loro: cioè che essi a cotal vita si danno, come quegli che per viltà d'animo non hanno argomento, come gl'altri uomini, di civanzarsi; ma Dio gliel perdoni.
Visse fra' Giovann'Agnolo anni 56, e morì all'ultimo d'agosto 1563.
FINE DELLA VITA DI FRA' GIOVANN'AGNOLO MONTORSOLI, SCULTORE
VITA DI FRANCESCO DETTO DE' SALVIATI PITTORE FIORENTINO
Fu padre di Francesco Salviati, del quale al presente scriviamo la vita et il quale nacque l'anno 1510, un buon uomo chiamato Michelagnolo de' Rossi, tessitore di velluti, il quale, avendo non questo solo, ma molti altri figliuoli maschi e femine, e per ciò bisogno d'essere aiutato, aveva seco medesimo deliberato di volere per ogni modo che Francesco attendesse al suo mestiero di tessere velluti.
Ma il giovinetto, che ad altro avea volto l'animo et a cui dispiaceva il mestiero di quell'arte, come che anticamente ella fusse esercitata da persone non dico nobili, ma assai agiate e ricche, malvolentieri in questo seguitava il volere del padre.
Anzi praticando nella via de' Servi, dove aveva una sua casa, con i figliuoli di Domenico Naldini suo vicino e cittadino orrevole, si vedea tutto volto a costumi gentili et onorati e molto inclinato al disegno.
Nella qual cosa gli fu un pezzo di non piccolo aiuto un suo cugino chiamato il Diaceto, orefice e giovane che aveva assai buon disegno; imperò che non pure gl'insegnava costui quel poco che sapeva; ma l'accomodava di molti disegni di diversi valentuomini, sopra i quali giorno e notte nascosamente dal padre, con incredibile studio si esercitava Francesco.
Ma essendosi di ciò accorto Domenico Naldini, dopo aver bene esaminato il putto, fece tanto con Michelagnolo suo padre, che lo pose in bottega del zio a imparare l'arte dell'orefice; mediante la quale comodità di disegnare fece in pochi mesi Francesco tanto profitto, che ognuno si stupiva.
E perché usava in quel tempo una Compagnia di giovani orefici e pittori trovarsi alcuna volta insieme et andare il dì delle feste a disegnare per Fiorenza l'opere più lodate, niuno di loro più si affaticava né con più amore di quello che faceva Francesco; i giovani della qual Compagnia erano Nanni di Prospero delle Corniuole, Francesco di Girolamo dal Prato orefice, Nannoccio da San Giorgio, e molti altri fanciulli che poi riuscirono valentuomini nelle loro professioni.
In questo tempo, essendo anco ambidue fanciulli, divennero amicissimi Francesco e Giorgio Vasari in questo modo: l'anno 1523 passando per Arezzo Silvio Passerini cardinale di Cortona, come legato di papa Clemente Settimo, Antonio Vasari suo parente menò Giorgio suo figliuol maggiore a fare reverenza al Cardinale, il quale veggendo quel putto, che allora non aveva più di nove anni, per la diligenza di Messer Antonio da Saccone e di Messer Giovanni Polastra eccellente poeta aretino, essere nelle prime lettere di maniera introdotto, che sapeva a mente una gran parte dell'Eneide di Vergilio, che gliela volle sentire recitare, e che da Guglielmo da Marzilla pittor franzese aveva imparato a disegnare, ordinò che Antonio stesso gli conducesse quel putto a Fiorenza; dove postolo in casa di Messer Niccolò Vespucci cavaliere di Rodi, che stava in sulla coscia del Ponte Vecchio, sopra la chiesa del Sepolcro, et acconciolo con Michelagnolo Buonarruoti, venne la cosa a notizia di Francesco, che allora stava nel chiasso di Messer Bivigliano, dove suo padre teneva una gran casa a pigione, che riusciva il dinanzi in Vachereccia, e molti lavoranti.
Onde perché ogni simile ama il suo simile, fece tanto, che divenne amico di esso Giorgio per mezzo di Messer Marco da Lodi gentiluomo del detto cardinale di Cortona, il quale mostrò a Giorgio, a cui piacque molto, un ritratto di mano di esso Francesco, il quale poco innanzi s'era messo al dipintore con Giuliano Bugiardini.
Il Vasari intanto, non lasciando gli studii delle lettere, d'ordine del Cardinale si tratteneva ogni giorno due ore con Ipolito et Alessandro de' Medici, sotto il Pierio lor maestro e valentuomo.
Questa amicizia dunque contratta come di sopra fra il Vasari e Francesco, fu tale, che durò sempre fra loro, ancor che per la concorrenza e per un suo modo di parlare un poco altiero, che avea detto Francesco, fusse da alcuni creduto altrimenti.
Il Vasari dopo essere stato alcuni mesi con Michelagnolo, essendo quell'eccellente uomo chiamato a Roma da papa Clemente per dargli ordine che si cominciasse la libreria di San Lorenzo, fu da lui, avanti che partisse, acconcio con Andrea del Sarto, sotto el quale attendendo Giorgio a disegnare, accomodava continuamente di nascoso dei disegni del suo maestro a Francesco, che non aveva maggior desiderio che d'averne e studiargli come faceva giorno e notte.
Dopo essendo dal Magnifico Ipolito acconcio Giorgio con Baccio Bandinelli, che ebbe caro avere quel putto appresso di sé et insegnargli, fece tanto, che vi tirò anco Francesco, con molta utilità dell'uno e dell'altro, perciò che impararono e fecero stando insieme più frutto in un mese, che non avevano fatto disegnando da loro in due anni; sì come anco fece un altro giovinetto che similmente stava allora col Bandinello, chiamato Nannoccio dalla costa San Giorgio, del quale si parlò poco fa.
Essendo poi l'anno 1527 cacciati i Medici di Firenze, nel combattersi il palazzo della Signoria, fu gettata d'alto una purliza per dare addosso a coloro che combattevano la porta; ma quella, come volle la sorte, percosse un braccio del Davit di marmo del Buonarroto, che è sopra la ringhiera a canto alla porta e lo roppe in tre pezzi; per che essendo stati i detti pezzi per terra tre giorni senza esser da niuno stati raccolti, andò Francesco a trovare al Ponte Vecchio Giorgio e dettogli l'animo suo, così fanciulli come erano, andarono in piazza e di mezzo ai soldati della guardia, senza pensare a pericolo niuno, tolsono i pezzi di quel braccio e nel chiasso di Messer Bivigliano gli portarono in casa di Michelagnolo, padre di Francesco; donde avutigli poi il duca Cosimo gli fece col tempo rimettere al loro luogo con perni di rame.
Standosi dopo i Medici fuori e con essi il detto cardinale di Cortona, Antonio Vasari ricondusse il figliuolo in Arezzo con non poco dispiacere di lui e di Francesco, che s'amavano come fratelli; ma non stettono molto l'uno dall'altro separati perciò che essendo per la peste, che venne l'agosto seguente, morto a Giorgio il padre et i migliori di casa sua, fu tanto con lettere stimolato da Francesco, il quale fu per morirsi anch'egli di peste, che tornò a Fiorenza, dove con incredibile studio, per ispazio di due anni cacciati dal bisogno e dal disiderio d'imparare, fecero acquisto maraviglioso, riparandosi insieme col detto Nannoccio da San Giorgio tutti e tre in bottega di Raffaello del Brescia pittore, appresso al quale fece Francesco molti quadretti come quegli che avea più bisogno per procacciarsi da poter vivere.
Venuto l'anno 1529, non parendo a Francesco che lo stare in bottega del Brescia facesse molto per lui, andò egli e Nannoccio a stare con Andrea del Sarto, e vi stettono quanto durò l'assedio, ma con tanto incommodo, che si pentirono non aver seguitato Giorgio, il quale con Manno orefice si stette quell'anno in Pisa, attendendo per trattenersi quattro mesi all'orefice.
Essendo poi andato il Vasari a Bologna, quando vi fu da Clemente Settimo incoronato Carlo Quinto imperadore, Francesco, che era rimaso in Fiorenza, fece in una tavoletta un boto d'un soldato che per l'assedio fu assaltato nel letto da certi soldati per amazzarlo, et ancora che fussi cosa bassa, lo studiò e lo condusse perfettamente; il qual boto capitò nelle mani a Giorgio Vasari non è molti anni che lo donò al reverendo don Vincenzio Borghini spedalingo degli Innocenti, che lo tien caro.
Fece ai monaci neri di Badia tre piccole storie in un tabernacolo del Sagramento stato fatto dal Tasso intagliatore, a uso d'arco trionfale; in una delle quali è il sacrifizio d'Abramo, nella seconda la manna e nella terza gl'ebrei, che nel partire d'Egitto mangiano l'agnel pasquale.
La quale opera fu sì fatta, che diede saggio della riuscita che ha poi fatto.
Dopo fece a Francesco Sertini, che lo mandò in Francia, in un quadro una Dalida che tagliava i capegli a Sansone, e nel lontano quando egli abbracciando le colonne del tempio, lo rovina addosso ai Filistei, il quale quadro fece conoscere Francesco per il più eccellente de' pittori giovani che allora fussero a Fiorenza.
Non molto dopo, essendo a Benvenuto dalla Volpaia, maestro d'oriuoli, il quale allora si trovava in Roma, chiesto dal cardinale Salviati il Vecchio un giovane pittore, il quale stesse appresso di sé, e gli facesse per suo deletto alcune pitture, Benvenuto gli propose Francesco il quale era suo amico e sapeva esser il più sufficiente di quanti giovani pittori conosceva; il che fece anco tanto più volentieri, avendo promesso il Cardinale gli darebbe ogni comodo et aiuto da potere studiare.
Piacendo dunque al Cardinale le qualità del giovane, disse a Benvenuto che mandasse per lui e gli diede per ciò danari; e così arrivato Francesco in Roma, piacendo il suo modo di fare et i suoi costumi e maniere al Cardinale, ordinò che in Borgo Vecchio avesse le stanze, e quattro scudi il mese et il piatto alla tavola de' gentiluomini.
Le prime opere che Francesco (al quale pareva avere avuto grandissima ventura) facesse al Cardinale furono un quadro di Nostra Donna, che fu tenuto bello, et in una tela un signor franzese che corre cacciando dietro a una cervia, il quale fuggendo, si salva nel tempio di Diana; della quale opera tengo io il disegno di sua mano, per memoria di lui, nel nostro libro.
Finita questa tela, il Cardinale fece ritrarre in un quadro bellissimo di Nostra Donna una sua nipote maritata al signor Cagnino Gonzaga et esso signore parimente.
Ora standosi Francesco in Roma e non avendo maggior disiderio che di vedere in quella città l'amico suo Giorgio Vasari, ebbe in ciò la fortuna favorevole ai suo' disideri, ma molto più esso Vasari.
Perciò che, essendosi partito tutto sdegnato il cardinale Ipolito da papa Clemente, per le cagioni che allora si dissero, e ritornandosene indi a non molto a Roma accompagnato da Baccio Valori, nel passare per Arezzo trovò Giorgio che era rimaso senza padre e si andava trattenendo il meglio che poteva.
Per che disiderando che facesse qualche frutto nell'arte e di volerlo appresso di sé, ordinò a Tommaso de' Nerli, che quivi era commessario, che glielo mandasse a Roma subito che avesse finita una cappella, che faceva a fresco ai monaci di S.
Bernardo dell'Ordine di Monte Oliveto in quella città.
La qual commessione essequì il Nerli subitamente; onde arrivato Giorgio in Roma andò subito a trovare Francesco, il quale tutto lieto gli raccontò in quanta grazia fusse del Cardinale suo signore, e che era in luogo dove potea cavarsi la voglia di studiare, aggiugnendo: "Non solo mi godo di presente, ma spero ancor meglio.
Perciò che, oltre al veder te in Roma, col quale potrò come giovane amicissimo considerare e conferire le cose dell'arte, sto con speranza d'andare a servire il cardinale Ipolito de' Medici, dalla cui liberalità e pel favore del Papa potrò maggiori cose sperare, che quelle che ho al presente, e per certo mi verrà fatto, se un giovane che aspetta di fuori non viene".
Giorgio, se bene sapeva che il giovane il quale s'aspettava era egli e che il luogo si serbava per lui, non però volle scoprirsi, per un certo dubbio cadutogli in animo: non forse il Cardinale avesse altri per le mani, e per non dir cosa che poi fusse riuscita altrimenti.
Aveva Giorgio portato una lettera del detto commessario Nerli al Cardinale, la quale in cinque dì ch'era stato in Roma non aveva anco presentata.
Finalmente andati Giorgio e Francesco a palazzo, trovarono, dove è oggi la sala de' re, Messer Marco da Lodi, che già era stato col Cardinale di Cortona, come si disse di sopra, et il quale allora serviva Medici.
A costui fattosi incontra Giorgio gli disse che aveva una lettera del commessario d'Arezzo, la quale andava al Cardinale e che lo pregava volesse dargliele; la quale cosa mentre prometteva Messer Marco di far tostamente, ecco che appunto arriva quivi il Cardinale.
Per che fattosegli Giorgio incontra e presentata la lettera, con basciargli le mani, fu ricevuto lietamente e poco appresso commesso a Iacopone da Bibbiena, maestro di casa, che l'accomodasse di stanze e gli desse luogo alla tavola de' paggi.
Parve cosa strana a Francesco che Giorgio non gl'avesse conferita la cosa, tuttavia pensò che l'avesse fatto a buon fine e per lo migliore.
Avendo dunque Iacopone sopra detto dato alcune stanze a Giorgio dietro a Santo Spirito e vicine a Francesco, attesero tutta quella vernata ambidue di compagnia con molto profitto alle cose dell'arte, non lasciando né in palazzo, né in altra parte di Roma, cosa alcuna notabile la quale non disegnassono.
E perché quando il Papa era in palazzo non potevano così stare a disegnare, subito che Sua Santità cavalcava, come spesso faceva, alla Magliana, entravano per mezzo d'amici in dette stanze a disegnare, e vi stavano dalla mattina alla sera senza mangiare altro che un poco di pane e quasi assiderandosi di freddo.
Essendo poi dal cardinale Salviati ordinato a Francesco che dipignesse a fresco nella cappella del suo palazzo, dove ogni mattina udiva messa, alcune storie della vita di San Giovanni Battista, si diede Francesco a studiare ignudi di naturale e Giorgio con esso lui, in una stufa quivi vicina, e dopo feciono in Camposanto alcune notomie.
Venuta poi la primavera, essendo il cardinale Ipolito mandato dal Papa in Ungheria, ordinò che esso Giorgio fusse mandato a Firenze e che quivi lavorasse alcuni quadri e ritratti, che aveva da mandare a Roma.
Ma il luglio vegnente fra per le fatiche del verno passato et il caldo della state, amalatosi Giorgio, in ceste fu portato in Arezzo, con molto dispiacere di Francesco, il quale infermò anch'egli e fu per morire.
Pure guarito Francesco, gli fu per mezzo d'Antonio Abaco, maestro di legname, dato a fare da maestro Filippo da Siena, sopra la porta di dietro di Santa Maria della Pace, in una nicchia, a fresco un Cristo che parla a San Filippo, et in due angoli la Vergine e l'Angelo che l'annunzia, le quali pitture, piacendo molto a mastro Filippo, furono cagione che facesse fare nel medesimo luogo in un quadro grande che non era dipinto, dell'otto facce di quel tempio, un'Assunzione di Nostra Donna.
Onde considerando Francesco avere a fare quest'opera, non pure in luogo publico, ma in luogo dove erano pitture d'uomini rarissimi, di Raffaello da Urbino, del Rosso, di Baldassarri da Siena e d'altri, mise ogni studio e diligenza in condurla a olio nel muro, onde gli riuscì bella pittura e molto lodata, e fra l'altre è tenuta bonissima figura il ritratto che vi fece del detto maestro Filippo con le mani giunte.
E perché Francesco stava, come s'è detto, col cardinale Salviati et era conosciuto per suo creato, cominciando a essere chiamato e non conosciuto per altro che per Cecchino Salviati, ha avuto insino alla morte questo cognome.
Essendo morto papa Clemente Settimo e creato Paulo Terzo, fece dipignere Messer Bindo Altoviti, nella facciata della sua casa in ponte Sant'Agnolo, da Francesco l'arme di detto nuovo pontefice con alcune figure grandi et ignude, che piacquero infinitamente.
Ritrasse ne' medesimi tempi il detto Messer Bindo, che fu una molto buona figura et un bel ritratto, ma questo fu poi mandato alla sua villa in San Mizzano in Valdarno, dove è ancora; dopo fece per la chiesa di San Francesco a Ripa una bellissima tavola a olio d'una Nunziata, che fu condotta con grandissima diligenza.
Nell'andata di Carlo Quinto a Roma l'anno 1535, fece per Antonio da San Gallo alcune storie di chiaro scuro, che furono poste nell'arco che fu fatto a San Marco, le quali pitture, come s'è detto in altro luogo, furono le migliori che fussero in tutto quell'apparato.
Volendo poi il signor Pierluigi Farnese, fatto allora signor di Nepi, adornare quella città di nuove muraglie e pitture, prese al suo servizio Francesco, dandogli le stanze in Belvedere, dove gli fece in tele grandi alcune storie a guazzo de' fatti d'Alessandro Magno che furono poi in Fiandra messe in opera di panni d'arazzo.
Fece al medesimo signor di Nepi una grande e bellissima stufa con molte storie e figure lavorate in fresco.
Dopo essendo il medesimo fatto duca di Castro, nel fare la prima entrata fu fatto con ordine di Francesco un bellissimo e ricco apparato in quella città et un arco alla porta tutto pieno di storie e di figure e statue fatte con molto giudizio da valentuomini, et in particolare da Alessandro detto Scherano scultore da Settignano.
Un altro arco a uso di facciata fu fatto al Petrone et un altro alla piazza, che quanto al legname furono condotti da Batista Botticegli, et oltre all'altre cose fece in questo apparato Francesco una bella scena e prospettiva per una comedia che si recitò.
Avendo ne' medesimi tempi Giulio Camillo, che allora si trovava in Roma, fatto un libro di sue composizioni per mandarlo al re Francesco di Francia, lo fece tutto storiare a Francesco Salviati, che vi mise quanta più diligenza è possibile mettere in simile opera.
Il cardinal Salviati, avendo disiderio avere un quadro di legni tinti, cioè di tarsia, di mano di fra' Damiano da Bergamo converso di S.
Domenico di Bologna, gli mandò un disegno come volea che lo facesse, di mano di Francesco, fatto di lapis rosso; il quale disegno, che rappresentò il re Davit unto da Samuello, fu la miglior cosa e veramente rarissima che mai disegnasse Cecchino Salviati.
Dopo, Giovanni da Cepperello e Battista gobbo da San Gallo, avendo fatto dipignere a Iacopo del Conte fiorentino, pittore allora giovane, nella Compagnia della Misericordia de' Fiorentini, di San Giovanni Dicollato sotto il Campidoglio in Roma, cioè nella seconda chiesa, dove si ragunano, una storia di detto San Giovanni Battista, cioè quando l'Angelo nel tempio appare a Zaccheria; feciono i medesimi sotto quella fare da Francesco un'altra storia del medesimo Santo, cioè quando la Nostra Donna visita Santa Lisabetta; la quale opera, che fu finita l'anno 1538, condusse in fresco di maniera, ch'ella è fra le più graziose e meglio intese pitture che Francesco facesse mai, da essere annoverata nell'invenzione, nel componimento della storia e nell'osservanza et ordine del diminuire le figure con regola, nella prospettiva et architettura de' casamenti, negl'ignudi, ne' vestiti, nella grazia delle teste et in somma in tutte le parti, onde non è maraviglia se tutta Roma ne restò ammirata.
Intorno a una finestra fece alcune capricciose bizzarrie finte di marmo et alcune storiette, che hanno grazia maravigliosa; e perché non perdeva Francesco punto di tempo, mentre lavorò quest'opera, fece molte altre cose e disegni e colorì un Fetonte con i cavalli del sole, che aveva disegnato Michelagnolo.
Le quali tutte cose mostrò il Salviati a Giorgio, che dopo la morte del duca Alessandro era andato a Roma per due mesi, dicendogli che finito che avesse un quadro d'un San Giovanni giovinetto, che faceva al cardinale Salviati suo signore, et una Passione di Cristo in tele, che s'aveva a mandare in Ispagna, et un quadro di Nostra Donna, che faceva a Raffaello Acciaiuoli, voleva dare di volta a Fiorenza a rivedere la patria, i parenti e gl'amici, essendo anco vivo il padre e la madre, ai quali fu sempre di grandissimo aiuto e massimamente in allogare due sue sorelle, una delle quali fu maritata e l'altra è monaca nel monasterio di Monte Domini.
Venendo dunque a Firenze, dove fu con molta festa ricevuto dai parenti e dagl'amici, s'abbatté a punto a esservi quando si faceva l'apparato per le nozze del duca Cosimo e della signora donna Leonora di Tolledo.
Per che, essendogli data a fare una delle già dette storie che si feciono nel cortile, l'accettò molto volentieri: che fu quella dove l'Imperatore mette la corona ducale in capo al duca Cosimo.
Ma venendo voglia a Francesco, prima che l'avesse finita, d'andare a Vinezia, la lasciò a Carlo Portegli da Loro, che la finì secondo il disegno di Francesco; il quale disegno, con molti altri del medesimo, è nel nostro libro.
Partito Francesco di Firenze e condottosi a Bologna vi trovò Giorgio Vasari, che di due giorni era tornato da Camaldoli, dove aveva finito le due tavole che sono nel tramezzo della chiesa e cominciata quella dell'altare maggiore, e dava ordine di fare tre tavole grandi per lo refettorio de' padri di San Michele in Bosco, dove tenne seco Francesco due giorni.
Nel qual tempo fecero opera alcuni amici suoi che gli fusse allogata una tavola, che avevano da far fare gl'uomini dello spedale della Morte, ma con tutto che il Salviati ne facesse un bellissimo disegno, quegl'uomini, come poco intendenti, non seppono conoscere l'occasione che loro aveva mandata Messer Domenedio di potere avere un'opera di mano d'un valentuomo in Bologna.
Per che, partendosi Francesco quasi sdegnato, lasciò in mano di Girolamo Fagiuoli alcuni disegni molto begli perché gl'intagliasse in rame e gli facesse stampare.
E giunto in Vinezia, fu raccolto cortesemente dal patriarca Grimani e da Messer Vettor suo fratello, che gli fecero infinite carezze.
Al quale patriarca, dopo pochi giorni fece a olio in uno ottangolo di quattro braccia una bellissima Psiche alla quale, come a dea, per le sue bellezze sono offerti incensi e voti; il quale ottangolo fu posto in un salotto della casa di quel signore, dove è un palco nel cui mezzo girano alcuni festoni fatti da Camillo Mantovano, pittore in fare paesi, fiori, frondi, frutti, et altre sì fatte cose eccellente; fu posto dico il detto ottangolo in mezzo di quattro quadri di braccia due e mezzo l'uno, fatti di storie della medesima Psiche, come si disse nella vita del Genga, da Francesco da Furlì.
Il quale ottangolo è non solo più bello senza comparazione di detti quattro quadri, ma la più bell'opera di pittura che sia in tutta Vinezia.
Dopo fece in una camera, dove Giovanni Ricamatore da Udine aveva fatto molte cose di stucchi, alcune figurette a fresco ignude e vestite, che sono molto graziose; parimente in una tavola che fece alle monache del Corpus Domini in Vinezia, dipinse con molta diligenza un Cristo morto con le Marie et un Angelo in aria che ha i misterii della Passione in mano.
Fece il ritratto di Messer Pietro Aretino, che come cosa rara fu da quel poeta mandato al re Francesco con alcuni versi in lode di chi l'aveva dipinto.
Alle monache di Santa Cristina di Bologna dell'Ordine di Camaldoli dipinse il medesimo Salviati, pregato da don Giovanfrancesco da Bagno loro confessore, una tavola con molte figure, che è nella chiesa di quel monasterio, veramente bellissima.
Essendo poi venuto a fastidio il vivere di Vinezia a Francesco, come a colui che si ricordava di quel di Roma, e parendogli che quella stanza non fusse per gl'uomini del disegno se ne partì per tornare a Roma.
E dato una giravolta da Verona e da Mantova, veggendo in una quelle molte antichità che vi sono e nell'altra l'opere di Giulio Romano, per la via di Romagna se ne tornò a Roma e vi giunse l'anno 1541.
Quivi posatosi alquanto, le prime opere che fece furono il ritratto di Messer Giovanni Gaddi e quello di Messer Anniballe Caro suoi amicissimi, e quelli finiti fece per la cappella de' cherici di camera nel palazzo del papa una molto bella tavola, e nella chiesa de' tedeschi cominciò una cappella a fresco per un mercatante di quella nazione, facendo di sopra nella volta degl'Apostoli che ricevono lo Spirito Santo, et in un quadro che è nel mezzo alto Gesù Cristo che risuscita, con i soldati tramortiti intorno al sepolcro in diverse attitudini, e che scortano con gagliarda e bella maniera.
Da una banda fece Santo Stefano e dall'altra San Giorgio in due nicchie; da basso fece San Giovanni limosinario che dà la limosina a un poverello nudo et ha a canto la Carità, e dall'altro lato Santo Alberto frate carmelitano in mezzo alla Loica et alla Prudenza; e nella tavola grande fece ultimamente a fresco Cristo morto con le Marie.
Avendo Francesco fatto amicizia con Piero di Marcone orefice fiorentino, e divenutogli compare, fece alla comare e moglie di esso Piero, dopo il parto, un presente d'un bellissimo disegno, per dipignerlo in un di que' tondi nei quali si porta da mangiare alle donne di parto.
Nel quale disegno era in un partimento riquadrato et accomodato sotto e sopra, con bellissime figure, la vita dell'uomo, cioè tutte l'età della vita umana, che posavano ciascuna sopra diversi festoni appropriati a quella età secondo il tempo.
Nel quale bizzarro spartimento erano accomodati in due ovati bislunghi la figura del sole e della luna, e nel mezzo Isais città d'Egitto che dinanzi al tempio della dea Pallade dimandava sapienza; quasi volendo mostrare che ai nati figliuoli si doverebbe inanzi ad ogni altra cosa pregare sapienza e bontà.
Questo disegno tenne poi sempre Piero così caro, come fusse stato, anzi come era, una bellissima gioia.
Non molto dopo, avendo scritto il detto Piero et altri amici a Francesco che avrebbe fatto bene a tornare alla patria, perciò che si teneva per fermo che sarebbe stato adoperato dal signor duca Cosimo, che non aveva maestri intorno se non lunghi et irresoluti, si risolvé finalmente (confidando anco molto nel favore di Messer Alamanno fratello del Cardinale e zio del Duca) a tornarsene a Fiorenza.
E così venuto, prima che altro tentasse, dipinse al detto Messer Alamanno Salviati un bellissimo quadro di Nostra Donna, il quale lavorò in una stanza che teneva nell'Opera di Santa Maria del Fiore Francesco dal Prato, il quale allora di orefice e maestro di tausia s'era dato a gettare figurette di bronzo et a dipignere con suo molto utile et onore.
Nel medesimo luogo dico, il quale stava colui, come ufficiale sopra i legnami dell'Opera, ritrasse Francesco l'amico suo Piero di Marcone et Aveduto del Cegia Vaiaio e suo amicissimo, il quale Aveduto, oltre a molte altre cose che ha di mano di Francesco, ha il ritratto di lui stesso fatto a olio e di sua mano naturalissimo.
Il sopra detto quadro di Nostra Donna, essendo, finito che fu, in bottega del Tasso intagliatore di legname et allora architettore di palazzo, fu veduto da molti e lodato infinitamente.
Ma quello che anco più lo fece tenere pittura rara, si fu che il Tasso, il quale soleva biasimare quasi ogni cosa, la lodava senza fine, e, che fu più, disse a Messer Pierfrancesco maiordomo che sarebbe stato ottimamente fatto che il Duca avesse dato da lavorare a Francesco alcuna cosa d'importanza.
Il quale Messer Pierfrancesco e Cristofano Rinieri, che avevano gli orecchi del Duca, fecero sì fatto ufficio, che parlando Messer Alamanno a sua eccellenza e dicendogli che Francesco desiderava che gli fusse dato a dipignere il salotto dell'udienza, che è dinanzi alla capella del palazzo ducale, e che non si curava d'altro pagamento, ella si contentò che ciò gli fusse conceduto.
Per che, avendo Francesco fatto in disegni piccoli il trionfo e molte storie de' fatti di Furio Camillo, si mise a fare lo spartimento di quel salotto, secondo le rotture dei vani delle finestre e delle porte, che sono quali più alte e quali più basse.
E non fu piccola difficultà ridurre il detto spartimento in modo che avesse ordine e non guastasse le storie.
Nella faccia dove è la porta per la quale si entra nel salotto rimanevano due vani grandi divisi dalla porta; dirimpetto a questa, dove sono le tre finestre che guardano in piazza ne rimanevano quattro, ma non più larghi che circa tre braccia l'uno.
Nella testa che è a man ritta entrando, dove sono due finestre che rispondono similmente in piazza, da un altro lato erano tre vani simili, cioè di tre braccia circa, e nella testa, che è a man manca dirimpetto a questa, essendo la porta di marmo che entra nella capella et una finestra con una grata di bronzo, non rimaneva se non un vano grande da potervi accommodare cosa di momento.
In questa facciata adunque della capella dentro a un ornamento di pilastri corinti che reggono un architrave, il quale ha uno sfondato di sotto dove pendono due ricchissimi festoni e due pendagli di variate frutte molto bene contrafatte e sopra cui siede un putto ignudo che tiene l'arme ducale, cioè di casa Medici e Tolledo, fece due storie: a man ritta Camillo che comanda che quel maestro di scuola sia dato in preda a' fanciulli suoi scolari, e nell'altra il medesimo, che mentre l'esercito combatte et il fuoco arde gli steccati et alloggiamenti del campo, rompe i Galli; et a canto dove seguita il medesimo ordine di pilastri fece grande quanto il vivo una Occasione che ha preso la Fortuna per lo crine, et alcune imprese di sua eccellenza, con molti ornamenti fatti con grazia maravigliosa.
Nella facciata maggiore, dove sono due gran vani divisi dalla porta principale, fece due storie grandi e bellissime.
Nella prima sono Galli, che pesando l'oro del tributo, vi aggiungono una spada, acciò sia il peso maggiore, e Camillo che sdegnato con la virtù dell'armi si libera dal tributo, la qual storia è bellissima, copiosa di figure, di paesi, d'antichità e di vasi benissimo et in diverse maniere finti d'oro e d'argento.
Nell'altra storia a canto a questa è Camillo sopra il carro trionfale tirato da quattro cavalli, et in alto la Fama che lo corona.
Dinanzi al carro sono sacerdoti con la statua della dea Giunone, con vasi in mano, molto riccamente abbigliati e con alcuni trofei e spoglie bellissime; d'intorno al carro sono infiniti prigioni in diverse attitudini, e dietro i soldati dell'esercito armati, fra i quali ritrasse Francesco se stesso tanto bene, che par vivo.
Nel lontano dove passa il trionfo è una Roma molto bella, e sopra la porta è una Pace di chiaro scuro con certi prigioni, la quale abrucia l'armi; il che tutto fu fatto da Francesco con tanta diligenza e studio, che non può vedersi più bell'opra.
Nell'altra faccia, che è volta a ponente, fece nel mezzo e ne' maggior vani in una nicchia Marte armato, e sotto quello una figura ignuda finta per un Gallo con la cresta in capo simile a quella de' galli naturali, et in un'altra nicchia Diana succinta di pelle, che si cava una freccia del turcasso, e con un cane.
Ne' due canti di verso l'altre due facciate sono due Tempi, uno che aggiusta i pesi con le bilance e l'altro che tempra, versando l'acqua di due vasi l'uno nell'altro.
Nell'ultima facciata, dirimpetto alla capella, la quale volta a tramontana, è da un canto a man ritta il sole figurato nel mo' che gli ...
egizzii il mostrano, e dall'altro la luna nel medesimo modo; nel mezzo è il Favore finto in un giovane ignudo in cima alla ruota, et in mezzo da un lato all'Invidia, all'Odio et alla Maladicenza e dall'altro agli Onori, al Diletto et a tutte l'altre cose descritte da Luciano.
Sopra le finestre è un fregio tutto pieno di bellissimi ignudi, grandi quanto il vivo et in diverse forme et attitudini, con alcune storie similmente de' fatti di Camillo, e dirimpetto alla Pace, che arde l'arme, è il fiume Arno che avendo un corno di dovizia abbondantissimo, scuopre (alzando con una mano un panno) una Fiorenza e la grandezza de' suoi pontefici e gli eroi di casa Medici.
Vi fece oltre di ciò un basamento che gira intorno a queste storie e nicchie con alcuni termini di femina che reggono festoni, e nel mezzo sono certi ovati con storie di popoli che adornano una Sfinge et il fiume Arno.
Mise Francesco in fare quest'opera tutta quella diligenza e studio che è possibile, e la condusse felicemente ancora che avesse molte contrarietà, per lasciar nella patria un'opra degna di sé e di tanto prencipe.
Era Francesco di natura malinconico, e le più volte non si curava quando era a lavorare d'avere intorno niuno.
Ma nondimeno quando a principio cominciò quest'opera, quasi sforzando la natura e facendo il liberale, con molta dimestichezza lasciava che il Tasso et altri amici suoi, che gli avevano fatto qualche servizio, stesseno a vederlo lavorare, carezzandogli in tutti i modi che sapeva.
Quando poi ebbe preso, secondo che dicono, pratica della corte e che gli parve essere in favore, tornando alla natura sua colorosa, mordace, non aveva loro alcun rispetto; anzi, che era peggio, con parole mordacissime, come soleva (il che servì per una scusa a' suoi avversarii), tassava e biasimava l'opere altrui, e sé e le sue poneva sopra le stelle.
Questi modi, dispiacendo ai più e medesimamente a certi artefici, gl'acquistarono tanto odio, che il Tasso e molti altri che d'amici gli erano divenuti contrarii, gli cominciarono a dar che fare e che pensare; perciò che, se bene lodavano l'eccellenza che era in lui dell'arte e la facilità e prestezza con le quali conduceva l'opere interamente e benissimo, non mancava loro dall'altro lato che biasimare.
E perché, se gli avesseno lasciato pigliar piede et accommodare le cose sue, non avrebbono poi potuto offenderlo e nuocergli, cominciarono a buon'ora a dargli che fare e molestarlo.
Per che ristrettisi insieme molti dell'arte et altri e fatta una setta, cominciarono a seminare fra i maggiori che l'opera del salotto non riusciva, e che lavorando per pratica non istudiava cosa che facesse.
Nel che il laceravano veramente a torto, perciò che se bene non istentava a condurre le sue opere, come facevano essi, non è però che egli non istudiasse e che le sue cose non avessero invenzione e grazia infinita, né che non fussero ottimamente messe in opera.
Ma non potendo i detti aversarii superare con l'opere la virtù di lui, volevano con sì fatte parole e biasimi sotterrarla, ma ha finalmente troppa forza la virtù et il vero.
Da principio si fece Francesco beffe di cotali rumori, ma veggendoli poi crescere oltre il convenevole, se ne dolse più volte col Duca.
Ma non veggendosi che quel signore gli facesse in apparenza quegli favori ch'egli arebbe voluto, e parendo che non curasse quelle sue doglienze, cominciò Francesco a cascare di maniera, che presogli i suoi contrarii animo addosso, missono fuori una voce che le sue storie della sala s'avevano a gettare per terra e che non piacevano, né avevano in sé parte niuna di bontà.
Le quali tutte cose, che gli pontavano contra, con invidia e maledicenza incredibile de' suoi avversarii, avevano ridotto Francesco a tale, che se non fusse stata la bontà di Messer Lelio Torelli, di Messer Pasquino Bertini e d'altri amici suoi, egli si sarebbe levato dinanzi a costoro, il che era a punto quello che eglino desideravano.
Ma questi sopra detti amici suoi confortandolo tuttavia a finire l'opera della sala et altre che aveva fra mano, il rattennono, sì come feciono anco molti altri amici suoi fuori di Firenze, ai quali scrisse queste sue persecuzioni, e fra gli altri Giorgio Vasari in rispondendo a una lettera, che sopra ciò gli scrisse il Salviati, lo confortò sempre ad aver pazienza, perché la virtù perseguitata raffinisce come al fuoco l'oro, aggiungendo che era per venir tempo che sarebbe conosciuta la sua virtù et ingegno, che non si dolesse se non di sé, che anco non conosceva gli umori e come son fatti gli uomini et artefici della sua patria.
Nonostante dunque tante contrarietà e persecuzioni che ebbe il povero Francesco, finì quel salotto, cioè il lavoro che aveva tolto a fare in fresco nelle facciate, perciò che nel palco o vero soffittato non fu bisogno che lavorasse alcuna cosa, essendo tanto riccamente intagliato e messo tutto d'oro, che per sì fatta non si può vedere opera più bella.
E per accompagnare ogni cosa fece fare il Duca di nuovo due finestre di vetro con l'imprese et arme sue e di Carlo V, che si può far di quel lavoro meglio, che furono condotte da Batista dal Borro, pittore aretino raro in questa professione.
Dopo questa fece Francesco per sua eccellenza il palco del salotto ove si mangia il verno, con molte imprese e figurine a tempera, et un bellissimo scrittoio che risponde sopra la camera verde.
Ritrasse similmente alcuni de' figliuoli del Duca, et un anno per carnovale fece nella sala grande la scena e prospettiva d'una comedia, che si recitò, con tanta bellezza e diversa maniera da quelle che erano state fatte in Fiorenza insino allora, che ella fu giudicata superiore a tutte.
Né di questo è da maravigliarsi, essendo verissimo che Francesco in tutte le sue cose fu sempre di gran giudizio, vario e copioso d'invenzione, e che, più, possedeva le cose del disegno et aveva più bella maniera che qualunche altro fusse allora a Fiorenza et i colori maneggiava con molta pratica e vaghezza.
Fece ancora la testa o vero ritratto del signor Giovanni de' Medici, padre del duca Cosimo, che fu bellissima, la quale è oggi nella guardaroba di detto signor Duca.
A Cristofano Rinieri, suo amicissimo, fece un quadro di Nostra Donna molto bello che è oggi nell'udienza della decima; a Ridolfo Landi fece in un quadro una Carità, che non può esser più bella, et a Simon Corsi fece similmente un quadro di Nostra Donna, che fu molto lodato; a Messer Donato Acciaioli cavalier di Rodi, col quale tenne sempre singular dimestichezza, fece certi quadretti, che sono bellissimi.
Dipinse similmente in una tavola un Cristo che mostra a San Tomaso, il quale non credeva che fusse nuovamente risuscitato, i luoghi delle piaghe e ferite che aveva ricevute dai giudei, la quale tavola fu da Tomaso Guadagni condotta in Francia e posta in una chiesa di Lione alla capella de' Fiorentini.
Fece parimente Francesco a riquisizione del detto Cristofano Rinieri e di maestro Giovanni Rosto, arazziere fiamingo, tutta la storia di Tarquinio e Lucrezia romana in molti cartoni, che essendo poi messi in opera di panni d'arazzo fatti d'oro, di seta e filaticci, riuscì opera maravigliosa.
La qual cosa intendendo il Duca, che allora faceva fare panni similmente d'arazzo al detto maestro Giovanni in Fiorenza per la sala de' Dugento tutti d'oro e di seta, et aveva fatto far cartoni delle storie di Ioseffo ebreo al Bronzino et al Pontormo, come s'è detto, volle che anco Francesco ne facesse un cartone, che fu quello dell'interpretazione delle sette vacche grasse e magre.
Nel quale cartone, dico, mise Francesco tutta quella diligenza che in simile opera si può maggiore e che hanno di bisogno le pitture che si tessono: invenzioni capricciose, componimenti varii vogliono aver le figure, che spicchino l'una dall'altra, perché abbiano rilievo e venghino allegre ne' colori, ricche nelli abiti e vestiri.
Dove essendo poi questo panno e gli altri riusciti bene, si risolvé sua eccellenza di mettere l'arte in Fiorenza e la fece insegnare a alcuni putti, i quali cresciuti fanno ora opere eccellentissime per questo Duca.
Fece anco un bellissimo quadro di Nostra Donna pur a olio, che è oggi in camera di Messer Alessandro figliuolo di Messer Ottaviano de' Medici.
Al detto Messer Pasquino Bertini fece in tela un altro quadro di Nostra Donna, con Cristo e San Giovanni fanciulletti che ridono d'un papagallo che hanno tra mano, il quale fu opera capricciosa e molto vaga.
Et al medesimo fece un disegno bellissimo d'un Crucifisso alto quasi un braccio con una Madalena a' piedi, in sì nuova e vaga maniera, che è una maraviglia.
Il qual disegno, avendo Messer Salvestro Bertini accommodato a Girolamo Razzi suo amicissimo, che oggi è don Silvano, ne furono coloriti due da Carlo da Loro, che n'ha poi fatti molti altri che sono per Firenze.
Avendo Giovanni e Piero d'Agostino Dini fatta in Santa Croce, entrando per la porta di mezzo a man ritta, una capella di macigni molto ricca et una sepoltura per Agostino et altri di casa loro, diedero a fare la tavola di quella a Francesco, il quale vi dipinse Cristo che è deposto di croce da Ioseffo Baramatia e da Nicodemo, et a' piedi la Nostra Donna svenuta con Maria Madalena, San Giovanni e l'altre Marie.
La quale tavola fu condotta da Francesco con tanta arte e studio, che non solo il Cristo nudo è bellissimo, ma insieme tutte l'altre figure ben disposte e colorite con forza e rilievo.
Et ancora che da principio fusse questa tavola dagli avversarii di Francesco biasimata, ella gl'acquistò nondimeno gran nome nell'universale, e chi n'ha fatto dopo lui a concorrenza, non l'ha superato.
Fece il medesimo avanti che partisse di Firenze il ritratto del già detto Messer Lelio Torelli et alcune altre cose di non molta importanza, delle quali non so i particolari, ma fra l'altre cose diede fine a una carta, la quale aveva disegnata molto prima in Roma della conversione di San Paolo, che è bellissimo, il quale fece intagliar in rame da Enea Vico da Parma in Fiorenza.
Et il Duca si contentò trattenerlo infino a che fusse ciò fatto in Fiorenza, con i suoi soliti stipendii e provisione.
Nel qual tempo, che fu l'anno 1548, essendo Giorgio Vasari in Arimini a lavorare a fresco et a olio l'opere delle quali si è favellato in altro luogo, gli scrisse Francesco una lunga lettera, ragguagliandolo per apunto d'ogni cosa e come le sue cose passavano in Fiorenza, et in particolare d'aver fatto un disegno per la capella maggiore di San Lorenzo, che di ordine del signor Duca s'aveva a dipignere; ma che intorno a ciò era stato fatto malissimo ufficio per lui appresso sua eccellenzia, e che oltre all'altre cose, teneva quasi per fermo che Messer Pierfrancesco maiordomo non avesse mostro il suo disegno, onde era stata allogata l'opera al Pontorno; et ultimamente, che per queste cagioni se ne tornava a Roma, malissimo sodisfatto degl'uomini et artefici della sua patria.
Tornato dunque in Roma, avendo comperata una casa vicina al palazzo del cardinale Farnese, mentre si andava trattenendo con lavorare alcune cose di non molta importanza, gli fu dal detto cardinale, per mezzo di Messer Annibale Caro e di don Giulio Clovio, data a dipignere la capella del palazzo di San Giorgio.
Nella quale fece bellissimi partimenti di stucchi et una graziosa volta a fresco con molte figure e storie di San Lorenzo, et in una tavola di pietra a olio la Natività di Cristo, accommodando in quell'opera, che fu bellissima, il ritratto di detto Cardinale.
Dopo essendogli allogato un altro lavoro nella già detta Compagnia della Misericordia, dove aveva fatto Iacopo del Conte la predica et il battesimo di San Giovanni, nelle quali, se bene non aveva passato Francesco, si era portato benissimo, e dove avevano fatto alcune altre cose Battista Franco viniziano e Pirro Ligorio, fece Francesco in questa parte, che è a punto a canto all'altra sua storia della Visitazione, la natività di esso San Giovanni, la quale, se bene condusse ottimamente, ella nondimeno non fu pari alla prima.
Parimente in testa di detta Compagnia fece per Messer Bartolomeo Pussotti due figure in fresco, cioè Santo Andrea e San Bartolomeo Apostoli, molto belli, i quali mettono in mezzo la tavola dell'altare, nella quale è un Deposto di croce di mano del detto Iacopo del Conte, che è bonissima pittura e la migliore opera che infino allora avesse mai fatto.
L'anno 1550 essendo stato eletto sommo pontefice Giulio Terzo, nell'apparato della coronazione, per l'arco che si fece sopra la scala di San Piero, fece Francesco alcune storie di chiaro scuro molto belle, e dopo essendosi fatto nella Minerva, dalla Compagnia del Sacramento, il medesimo anno, un sepolcro con molti gradi et ordini di colonne, fece in quello alcune storie e figure di terretta, che furono tenute bellissime; in una capella di San Lorenzo in Damaso fece due Angeli in fresco che tengono un panno, d'uno de' quali n'è il disegno nel nostro libro.
Dipinse a fresco nel reffettorio di San Salvatore del Lauro a Monte Giordano, nella facciata principale, le nozze di Cana galilea, nelle quali fece Gesù Cristo dell'acqua vino, con gran numero di figure, e dalle bande alcuni Santi e papa Eugenio Quarto che fu di quell'ordine et altri fondatori.
E di dentro sopra la porta di detto reffettorio fece in un quadro a olio San Giorgio che ammazza il serpente, la quale opera condusse con molta pratica, finezza e vaghezza di colori.
Quasi ne' medesimi tempi mandò a Fiorenza a Messer Alamanno Salviati un quadro grande, nel quale sono dipinti Adamo et Eva che nel Paradiso terrestre mangiano d'intorno all'albero della vita il pomo vietato, che è una bellissima opera.
Dipinse Francesco al signor Ranuccio cardinale Sant'Agnolo di casa Farnese, nel salotto che è dinanzi alla maggior sala del palazzo de' Farnesi, due facciate, con bellissimo capriccio: in una fece il signor Ranuccio Farnese il Vecchio che da Eugenio Quarto riceve il bastone del capitanato di Santa Chiesa, con alcune virtù, e nell'altra papa Paolo Terzo Farnese che dà il bastone della Chiesa al signor Pier Luigi, e mentre si vede venire da lontano Carlo Quinto imperatore, accompagnato da Alessandro cardinale Farnese e da altri signori ritratti di naturale.
Et in questa, oltra le dette e molte altre cose, dipinse una Fama et altre figure, che sono molto ben fatte.
Ma è ben vero che quest'opera non fu del tutto finita da lui, ma da Taddeo Zucchero da Sant'Agnolo, come si dirà a suo luogo.
Diede proporzione e fine alla capella del Popolo, che già fra' Bastiano Viniziano aveva cominciata per Agostino Chigii, che non essendo finita, Francesco la finì, come s'è ragionato in fra' Bastiano nella vita sua.
Al cardinale Riccio da Monte Pulciano dipinse nel suo palazzo di strada Giulia una bellissima sala, dove fece a fresco in più quadri molte storie di Davit, e fra l'altre una Bersabè in un bagno che si lava con molte altre femine, mentre Davit la sta a vedere: è una storia molto ben composta, graziosa e tanto piena d'invenzione, quanto altra che si possa vedere.
In un altro quadro è la morte d'Uria, in uno l'arca a cui vanno molti suoni inanzi, et insomma dopo alcune altre una battaglia che fa Davit con i suoi nimici, molto ben composta; e per dirlo brevemente, l'opera di questa sala è tutta piena di grazia, di bellissime fantasie e di molte capricciose et ingegnose invenzioni.
Lo spartimento è fatto con molte considerazioni et il colorito è vaghissimo, e per dire il vero, sentendosi Francesco gagliardo e copioso d'invenzione et avendo la mano ubbidiente all'ingegno, arebbe voluto sempre avere opere grandi e straordinarie alle mani.
E non per altro fu strano nel conversare con gli amici, se non perché essendo vario et in certe cose poco stabile, quello che oggi gli piaceva, domani aveva in odio, e fece pochi lavori d'importanza che non avesse in ultimo a contendere del prezzo; per le quali cose era fuggito da molti.
Dopo queste opere, avendo Andrea Tassini a mandar un pittore al re di Francia, et avendo l'anno 1554 in vano ricercato Giorgio Vasari, che rispose non volere, per qual si voglia gran provisione o promesse o speranza, partirsi dal servizio del duca Cosimo suo signore, convenne finalmente con Francesco e lo condusse in Francia, con obligare di satisfarlo in Roma, non lo satisfacendo in Francia.
Ma prima che esso Francesco partisse di Roma, come quello che pensò non avervi mai più a ritornare, vendé la casa, le masserizie et ogni altra cosa, eccetto gli ufficii che aveva.
Ma la cosa non riuscì come si aveva promesso, perciò che arrivato a Parigi, dove da Messer Francesco Primaticcio abbate di San Martino e pittore et architetto del Re fu ricevuto benignamente e con molte cortesie, fu subito conosciuto per quello che si dice per un uomo così fatto.
Conciò fusse che non vedesse cosa né del Rosso, né d'altri maestri, la quale egli alla scoperta o così destramente non biasimasse.
Per che aspettando ognuno da lui qualche gran cosa, fu dal cardinale di Loreno, che là l'aveva condotto, messo a fare alcune pitture in un suo palazzo a Dampiera, per che avendo fatto molti disegni, mise finalmente mano all'opra facendo alcuni quadri di storie a fresco sopra cornicioni di camini et uno studiolo pieno di storie, che dicono che fu di gran fattura.
Ma che che se ne fusse cagione, non gli furono cotali opere molto lodate.
Oltre di questo non vi fu mai Francesco molto amato, per esser di natura tutto contraria a quella degli uomini di quel paese, essendo che, quanto vi sono avuti cari et amati gli uomini allegri, gioviali, che vivono alla libera e si trovano volentieri in brigata et a far banchetti, tanto vi sono, non dico fuggiti, ma meno amati e carezzati coloro che sono come Francesco era, di natura malinconico, sobrio, malsano e stitico.
Ma d'alcune cose arebbe meritato scusa, però che se la sua complessione non comportava che s'avilupasse ne' pasti e nel mangiar troppo e bere, arebbe potuto essere più dolce nel conversare.
E, che è peggio, dove suo debito era, secondo l'uso del paese e di quelle corti, farsi vedere e corteggiare, egli arebbe voluto, e parevagli meritarlo, essere da tutto il mondo corteggiato.
In ultimo, essendo quel re occupato in alcune guerre e parimente il Cardinale, e mancando le provisioni e promesse, si risolvé Francesco, dopo essere stato là venti mesi, a ritornarsene in Italia.
E così condottosi a Milano (dove dal cavalier Lione Aretino fu cortesemente ricevuto in una sua casa, la quale si ha fabricata ornatissima e tutta piena di statue antiche e moderne e di figure di gesso, formate da cose rare come in altro luogo si dirà) dimorato che quivi fu quindici giorni e riposatosi, se ne venne a Fiorenza, dove avendo trovato Giorgio Vasari e dettogli quanto aveva ben fatto a non andare in Francia, gli contò cose da farne fuggire la voglia a chiunque d'andarvi l'avesse maggiore.
Da Firenze tornatosene Francesco a Roma, mosse un piato a' mallevadori, che erano entrati per le sue provisioni del cardinale di Loreno, e gli strinse a pagargli ogni cosa, e riscosso i danari comperò, oltre ad altri che vi avea prima, alcuni uffizii, con animo risoluto di voler badare a vivere, conoscendosi malsano et avere in tutto guasta la complessione.
Ma ciò nonostante, avrebbe voluto essere impiegato in opere grandi, ma non gli venendo fatto così presto, si trattenne un pezzo in facendo quadri o ritratti.
Morto papa Paulo Quarto, essendo creato Pio similmente Quarto, che dilettandosi assai di fabricare si serviva nelle cose d'architettura di Pirro Ligorio, ordinò Sua Santità che il cardinale Alessandro Farnese e l'Emulio facessono finire la sala grande, detta dei re, a Daniello da Volterra, che l'aveva già cominciata.
Fece ogni opera il detto reverendissimo Farnese perché Francesco n'avesse la metà; nel che fare essendo lungo combattimento fra Daniello e Francesco e massimamente adoperandosi Michel Agnolo Buonarroti in favore di Daniello, non se ne venne per un pezzo a fine.
Intanto essendo andato il Vasari con Giovanni cardinale de' Medici, figliuolo del duca Cosimo, a Roma, nel raccontargli Francesco molte sue disaventure e quelle particolarmente nelle quali, per le cagioni dette pur ora, si ritrovava, gli mostrò Giorgio, che molto amava la virtù di quell'uomo, che egli si era insino allora assai male governato e che lasciasse per l'avenire fare a lui, perciò che farebbe in guisa, che per ogni modo gli toccarebbe a fare la metà della detta sala de' re, la quale non poteva Daniello fare da per sé, essendo uomo lungo et irresoluto, e non forse così gran valentuomo et universale come Francesco.
Così dunque stando le cose, e per allora non si facendo altro, fu ricerco Giorgio non molti giorni dopo dal Papa di fare una parte di detta sala; ma avendo egli risposto che nel palazzo del duca Cosimo suo signore aveva a farne una tre volte maggiore di quella, et oltra ciò che era sì male stato trattato da papa Giulio Terzo, per lo quale aveva fatto molte fatiche alla vigna al monte et altrove, che non sapeva più che si sperare da certi uomini, aggiugnendo che (avendo egli fatta al medesimo senza esserne stato pagato una tavola in palazzo, dentrovi Cristo che nel mare di Tiberiade chiama dalle reti Pietro et Andrea, la quale gl'era stata levata da papa Paulo Quarto da una capella, che aveva fatta Giulio sopra il corridore di Belvedere, e doveva essere mandata a Milano) Sua Santità volesse fargliela o rendere o pagare.
Alle quali cose rispondendo il Papa disse (o vero, o non vero che così fusse) non sapere alcuna cosa di detta tavola, e volerla vedere; per che fattala venire, veduta che Sua Santità l'ebbe a mal lume, si contentò che ella gli fusse renduta.
Dopo rapiccatosi il ragionamento della sala, disse Giorgio al Papa liberamente che Francesco era il primo e miglior pittore di Roma, e che non potendo niuno meglio servirlo di lui, era da farne capitale.
E che se bene il Buonarroto et il cardinale di Carpi favorivano Daniello, lo facevano più per interesse dell'amicizia, e forse come appassionati, che per altro.
Ma per tornare alla tavola, non fu sì tosto partito Giorgio dal Papa, che l'ebbe mandata a casa di Francesco, il quale poi di Roma gliela fece condurre in Arezzo, dove come in altro luogo abbiam detto, è stata dal Vasari con ricca et onorata spesa nella Pieve di quella città collocata.
Stando le cose della sala de' re nel modo che si è detto di sopra, nel partire il duca Cosimo da Siena per andar a Roma, il Vasari, che era andato insin lì con sua eccellenza, gli raccomandò caldamente il Salviati, acciò gli facesse favore appresso al Papa, et a Francesco scrisse quanto aveva da fare, giunto che fusse il Duca in Roma.
Nel che non uscì punto Francesco del consiglio datogli da Giorgio, per che andando a far reverenza al Duca, fu veduto con bonissima cera da sua eccellenza, e poco appresso fatto tale ufficio per lui appresso Sua Santità, che gli fu allogata mezza la detta sala, alla quale opera mettendo mano, prima che altro facesse, gettò a terra una storia stata cominciata da Daniello, onde furono poi fra loro molte contese.
Serviva come s'è già detto questo Pontefice nelle cose d'architettura Pirro Logorio, il quale aveva molto da principio favorito Francesco, et arebbe seguitato; ma colui non tenendo più conto né di Pirro, né d'altri, poi che ebbe cominciato a lavorare, fu cagione che d'amico gli divenne in un certo modo avversario, e se ne videro manifestissimi segni; perciò che Pirro cominciò a dire al Papa, che essendo in Roma molti giovani pittori e valentuomini, che a voler cavare le mani di quella sala sarebbe stato ben fatto allogar loro una storia per uno e vederne una volta il fine.
I quali modi di Pirro, a cui si vedeva che il Papa in ciò acconsentiva, dispiacquero tanto a Francesco, che tutto sdegnato si tolse giù dal lavoro e dalle contenzioni, parendogli che poca stima fusse fatta di lui.
E così montato a cavallo, senza far motto a niuno, se ne venne a Fiorenza, dove tutto fantastico, senza tener conto d'amico che avesse, si pose in uno albergo, come non fusse stato di questa patria e non vi avesse né conoscenza, né chi fusse in cosa alcuna per lui.
Dopo, avendo baciato le mani al Duca, fu in modo accarezzato, che si sarebbe potuto sperare qualche cosa di buono, se Francesco fusse stato d'altra natura e si fusse attenuto al consiglio di Giorgio, il quale lo consigliava a vendere gl'ufficii che aveva in Roma e ridursi in Fiorenza a godere la patria e gl'amici, per fuggire il pericolo di perdere insieme con la vita tutto il frutto del suo sudore e fatiche intollerabili.
Ma Francesco guidato dal senso, dalla còllora e dal desiderio di vendicarsi, si risolvette volere tonare a Roma ad ogni modo fra pochi giorni.
In tanto levandosi di su quell'albergo a' prieghi degl'amici si ritirò in casa di Messer Marco Finale priore di Santo Apostolo, dove fece, quasi per passarsi tempo, a Messer Iacopo Salviati sopra tela d'argento, una Pietà colorita, con la Nostra Donna e l'altre Marie, che fu cosa bellissima; rinfrescò di colori un tondo d'arme ducale, che altra volta avea fatta a posta sopra la porta del palazzo di Messer Alamanno, et al detto Messer Iacopo fece un bellissimo libro di abiti bizzarri et acconciature diverse d'uomini e cavalli per mascherate, per che ebbe infinite cortesie dall'amorevolezza di quel signore, che si doleva della fantastica e strana natura di Francesco, il quale non poté mai questa volta, come l'altre avea fatto, tirarselo in casa.
Finalmente avendo Francesco a partire per Roma, Giorgio come amico gli ricordò che essendo ricco d'età, mal complessionato e poco più atto alle fatiche, badasse a vivere quietamente e lasciare le gare e le contenzioni; il che non arebbe potuto fare commodamente, avendosi acquistato roba et onore a bastanza, se non fusse stato troppo avaro e disideroso di guadagnare.
Lo confortò oltre ciò a vendere gran parte degl'ufficii che aveva et a accommodare le sue cose, in modo che in ogni bisogno o accidente che venisse, potesse ricordarsi degli amici e di coloro che l'avevano con fede e con amore servito.
Promise Francesco di ben fare e dire e confessò che Giorgio gli diceva il vero, ma come al più degl'uomini adiviene, che danno tempo al tempo, non ne fece altro.
Arrivato Francesco in Roma, trovò che il cardinale Emulio aveva allogate le storie della sala e datone due a Taddeo Zucchero da Sant'Agnolo, una a Livio da Forlì, un'altra a Orazio da Bologna, una a Girolamo Sermoneta, e l'altre ad altri; la qual cosa avisando Francesco a Giorgio e dimandando se era bene che seguitasse quella che avea cominciata, gli fu risposto che sarebbe stato ben fatto, dopo tanti disegni piccoli e cartoni grandi, che n'avesse finita una; nonostante che a tanti da molto meno di lui fusse stata allogata la maggior parte, e che facesse sforzo d'avicinarsi con l'operare, quanto potesse il più, alle pitture della facciata e volta del Buonarroto nella capella di Sisto et a quelle della Paulina, perciò che veduta che fusse stata la sua, si sarebbono l'altre mandate a terra e tutte con sua molta gloria allogate a lui; avvertendolo a non curarsi né d'utile, né di danari, o dispiacere che gli fusse fatto da chi governava quell'opera; però che troppo più importa l'onore, che qualunche altra cosa.
Delle quali tutte lettere e proposte e risposte, ne sono le copie e gl'originali fra quelle che tenghiamo noi per memoria di tant'uomo, nostro amicissimo, e per quelle che di nostra mano deono essere state fra le sue cose ritrovate.
Stando Francesco dopo queste cose sdegnato e non ben risoluto di quello che fare volesse, afflitto dell'animo, malsano del corpo et indebolito da continuo medicarsi, si amalò finalmente del male della morte, che in poco tempo il condusse all'estremo, senza avergli dato tempo di potere disporre delle sue cose interamente.
A un suo creato chiamato Annibale, figliuolo di Nanni di Baccio Bigio, lasciò scudi sessanta l'anno in sul Monte delle Farine, quattordici quadri e tutti i disegni et altre cose dell'arte; il resto delle sue cose lasciò a suor Gabriella sua sorella monaca, ancor che io intenda che ella non ebbe, come si dice, del sacco le corde; tuttavia le dovette venire in mano un quadro dipinto sopra tela d'argento con un ricamo intorno, il quale aveva fatto per lo Re di Portogallo o di Polonia, che e' si fusse, e lo lasciò a lei, acciò il tenesse per memoria di lui.
Tutte l'altre cose, cioè gl'ufficii che aveva dopo intolerabili fatiche comperati, tutti si perderono.
Morì Francesco il giorno di San Martino a' dì 11 di novembre l'anno 1563, e fu sepolto in San Ieronimo, chiesa vicina alla casa dove abitava.
Fu la morte di Francesco di grandissimo danno e perdita all'arte, perché se bene aveva cinquantaquattro anni et era malsano, ad ogni modo continuamente studiava e lavorava, et in questo ultimo s'era dato a lavorare di musaico, e si vede che era capriccioso et avrebbe voluto far molte cose, e s'egli avesse trovato un principe che avesse conosciuto il suo umore e datogli da far lavori secondo il suo capriccio, avrebbe fatto cose maravigliose, perché era, come abbiam detto, ricco, abondante e copiosissimo nell'invenzione di tutte le cose et universale in tutte le parti della pittura.
Dava alle sue teste, di tutte le maniere, bellissima grazia, e possedeva gli ignudi bene quanto altro pittore de' tempi suoi; ebbe nel fare de' panni una molto graziata e gentile maniera, acconciandogli in modo che si vedeva sempre nelle parti dove sta bene l'ignudo et abbigliando sempre con nuovi modi di vestiri le sue figure; fu capriccioso e vario nell'acconciature de' capi, ne' calzari et in ogni altra sorte d'ornamenti.
Maneggiava i colori a olio, a tempera et a fresco in modo che si può affermare lui essere stato uno de' più valenti, spediti, fieri e solleciti artefici della nostra età; e noi, che l'abbiamo praticato tanti anni, ne possiamo fare rettamente testimonianza.
Et ancora che fra noi sia stata sempre per lo desiderio che hanno i buoni artefici di passare l'un l'altro qualche onesta emulazione, non però mai, quanto all'interesse dell'amicizia appartiene, è mancato fra noi l'affezzione e l'amore, se bene dico ciascuno di noi a concorrenza l'un dell'altro ha lavorato ne' più famosi luoghi d'Italia, come si può vedere in un infinito di numero di lettere, che appresso di me sono, come ho detto, di mano di Francesco.
Era il Salviati amorevole di natura, ma sospettoso, facile a credere ogni cosa, acuto, sottile e penetrativo, e quando si metteva a ragionare d'alcuni delle nostre arti, o per burla o da dovero, offendeva alquanto e talvolta toccava insino in sul vivo.
Piacevagli il praticare con persone letterate e con grand'uomini, et ebbe sempre in odio gl'artefici plebei, ancor che fussino sempre in alcuna cosa virtuosi; fuggiva certi che sempre dicono male, e quando si veniva a ragionamento di loro gli lacerava senza rispetto; ma sopra tutto gli dispiacevano le giunterie che fanno alcuna volta gl'artefici, delle quali, essendo stato in Francia et uditone alcune, sapeva troppo bene ragionare.
Usava alcuna volta (per meno essere offeso dalla malinconia) trovarsi con gl'amici e far forza di star allegro.
Ma finalmente quella sua sì fatta natura irresoluta, sospettosa e soletaria non fece danno se non a lui.
Fu suo grandissimo amico Manno fiorentino orefice in Roma, uomo raro nel suo esercizio et ottimo per costumi e bontà, e perché egli è carico di famiglia, se Francesco avesse potuto disporre del suo e non avesse spese tutte le sue fatiche in ufficii per lasciargli al Papa, ne arebbe fatto gran parte a questo uomo da bene et artefice eccellente.
Fu parimente suo amicissimo il sopradetto Aveduto dell'Aveduto Vaiaio, il quale fu a Francesco il più amorevole et il più fedele di quanti altri amici avesse mai; e se fusse costui stato in Roma quando Francesco morì, si sarebbe forse in alcune cose con migliore consiglio governato che non fece.
Fu suo creato ancora Roviale spagnuolo, che fece molte opere seco, e da sé nella chiesa di Santo Spirito di Roma una tavola, dentrovi la conversione di San Paolo.
Volle anco gran bene il Salviati a Francesco di Girolamo dal Prato, in compagnia del quale, come si è detto di sopra, essendo anco fanciullo, attese al disegno.
Il quale Francesco fu di bellissimo ingegno e disegnò meglio che altro orefice de' suoi tempi, e non fu inferiore a Girolamo suo padre, il quale di piastra d'argento lavorò meglio qualunche cosa, che altro qual si volesse suo pari.
E secondo che dicono, veniva a costui fatto agevolmente ogni cosa, perciò che battuta la piastra d'argento con alcuni stozzi e quella messo sopra un pezzo d'asse e sotto cera, sego e pece, faceva una materia fra il duro et il tenero, la quale spignendo con ferri in dentro et in fuori, gli faceva riuscire quello che voleva: teste, petti, braccia, gambe, schiene e qualunche altra cosa voleva o gli era addimandata da chi faceva far voti, per appendergli a quelle sante imagini che in alcun luogo, dove avessero avuto grazie o fussero stati esauditi, si ritrovavano.
Questo Francesco dunque, non attendendo solamente a fare boti, come faceva il padre, lavorò anco di tausia et a commettere nell'acciaio oro et argento alla damaschina, facendo fogliami, lavori, figure e qualunche altra cosa voleva.
Della qual sorte di lavoro fece un'armadura intera e bellissima da fonte a piè al duca Alessandro de' Medici, e fra molte altre medaglie che fece il medesimo, quelle furono di sua mano e molto belle che con la testa del detto duca Alessandro furono poste ne' fondamenti della fortezza della porta a Faenza, insieme con altre, nelle quali era da un lato la testa di papa Clemente Settimo e dall'altro un Cristo ignudo, con i flagelli della sua Passione.
Si dilettò anco Francesco dal Prato delle cose di scultura e gittò alcune figurette di bronzo, le quali ebbe il duca Alessandro, che furono graziosissime; il medesimo rinettò, e condusse a molta perfezione, quattro figure simili fatte da Baccio Bandinelli, cioè una Leda, una Venere et un Ercole et un Apollo, che furono date al medesimo Duca.
Dispiacendo adunque a Francesco l'arte dell'orefice e non potendo attendere alla scultura, che ha bisogno di troppe cose, si diede, avendo buon disegno, alla pittura; e perché era persona che praticava poco, né si curava che si sapesse più che tanto che egli attendesse alla pittura, lavorò da sé molte cose.
Intanto, come si disse da principio, venendo Francesco Salviati a Firenze, lavorò nelle stanze che costui teneva nell'Opera di Santa Maria del Fiore, il quadro di Messer Alamanno; onde con questa occasione vedendo costui il modo di fare del Salviati, si diede con molto più studio, che insino allora fatto non aveva, alla pittura; e condusse in un quadro molto bello una conversione di San Paolo, la quale oggi è appresso Guglielmo del Tovaglia.
E dopo in un quadro della medesima grandezza, dipinse le serpi che piovono addosso al popolo ebreo; in un altro fece Gesù Cristo che cava i Santi Padri del limbo, i quali ultimi due, che sono bellissimi, ha oggi Filippo Spini, gentiluomo che molto si diletta delle nostre arti.
Et oltre a molte altre cose piccole che fece Francesco dal Prato, disegnò assai, e bene, come si può vedere in alcuni di sua mano che sono nel nostro libro de' disegni.
Morì costui l'anno 1562 e dolse molto a tutta l'accademia, perché oltre all'esser valentuomo nell'arte, non fu mai il più da bene uomo di lui.
Fu allievo di Francesco Salviati Giuseppo Porta da Castel Nuovo della Garfagnana, che fu chiamato anch'egli per rispetto del suo maestro, Giuseppo Salviati.
Costui giovanetto, l'anno 1535 essendo stato condotto in Roma da un suo zio, segretario di monsignor Onofrio Bartolini arcivescovo di Pisa, fu acconcio col Salviati, appresso al quale imparò in poco tempo, non pure a disegnare benissimo, ma ancora a colorire ottimamente.
Andato poi col suo maestro a Vinezia, vi prese tante pratiche di gentiluomini, che essendovi da lui lasciato fece conto di volere che quella città fusse sua patria, e così presovi moglie, vi si è stato sempre et ha lavorato in pochi altri luoghi che a Vinezia.
In sul campo di S.
Stefano dipinse già la facciata della casa de' Loredani di storie colorite a fresco molto vagamente, e fatte con bella maniera; dipinse similmente a San Polo quella de' Bernardi, et un'altra dietro a San Rocco, che è opera bonissima.
Tre altre facciate di chiaro scuro ha fatto molto grandi, piene di varie storie: una a San Moisè, la seconda a San Cassiano e la terza a Santa Maria Zebenigo.
Ha dipinto similmente a fresco in un luogo detto Treville, appresso Trevisi, tutto il palazzo de' Priuli, fabrica ricca e grandissima, dentro e fuori, della quale fabrica si parlerà a luogo nella vita del Sansovino.
A Pieve di Sacco ha fatto una facciata molto bella et a Bagnuolo, luogo de' frati di Santo Spirito di Vinezia, ha dipinto una tavola a olio, et ai medesimi padri ha fatto nel convento di Santo Spirito il palco, o vero soffittato del loro refettorio, con uno spartimento pieno di quadri dipinti, e nella testa principale un bellissimo cenacolo.
Nel palazzo di San Marco ha dipinto nella sala del doge le sibille, i profeti, le virtù cardinali e Cristo con le Marie, che gli sono state infinitamente lodate.
E nella già detta libraria di San Marco, fece due storie grandi, a concorrenza degli altri pittori di Vinezia, de' quali si è ragionato di sopra.
Essendo chiamato a Roma dal cardinale Emulio, dopo la morte di Francesco, finì una delle maggiori storie che sieno nella detta sala dei re, e ne cominciò un'altra, e dopo essendo morto papa Pio Quarto, se ne tornò a Venezia, dove gli ha dato la Signoria a dipignere in palazzo un palco pieno di quadri a olio, il quale è a sommo delle scale nuove.
Il medesimo ha dipinto sei molto belle tavole a olio: una in San Francesco della Vigna, all'altare della Madonna; la seconda nella chiesa de' Servi all'altar maggiore; la terza ne' fra' minori; la quarta nella Madonna dell'Orto; la quinta a San Zacaria e la sesta a San Moisè, e due n'ha fatto a Murano, che sono belle e fatte con molta diligenza e bella maniera.
Di questa Giuseppe, il quale ancor vive e si fa eccellentissimo, non dico altro per ora, se non che, oltre alla pittura, attende con molto studio alla geometria, e di sua mano è la voluta del capitel ionico che oggi mostra in stampa come si deve girare secondo la misura antica; e tosto doverà venire in luce un'opra che ha composto delle cose di geometria.
Fu anche discepolo di Francesco un Domenico Romano, che gli fu di grande aiuto nella sala che fece in Fiorenza, et in altre opere, et il quale sté l'anno 1550 col signor Giuliano Cesarino e non lavora da sé solo.
FINE DELLA VITA DI FRANCESCO SALVIATI, PITTORE FIORENTINO
VITA DI DANIELLO RICCIARELLI DA VOLTERRA PITTORE E SCULTORE
Avendo Daniello quando era giovanetto imparato alquanto a disegnare da Giovanni Antonio Soddoma, il quale andò a fare in quel tempo alcuni lavori in quella città, partito che si fu, fece esso Daniello molto migliore e maggiore acquisto sotto Baldassarre Peruzzi che sotto la disciplina di esso Soddoma fatto non aveva.
Ma per vero dire, con tutto ciò, non fece per allora gran riuscita, e questo perciò che quanto metteva fatica e studio, spinto da una gran voglia in cercando d'apparare, altre tanto all'incontro il serviva poco l'ingegno e la mano.
Onde nelle sue prime opere che fece in Volterra si conosce una grandissima, anzi infinita fatica, ma non già principio di bella e gran maniera, né vaghezza, né grazia, né invenzione, come si è veduto a buon'ora in molti altri che sono nati per essere dipintori, i quali hanno mostro anco ne' primi principii, facilità, fierezza e saggio di qualche buona maniera.
Anzi le prime cose di costui mostrano essere state fatte veramente da un malinconico, essendo piene di stento e condotte con molta pazienza e lunghezza di tempo.
Ma venendo alle sue opere, per lasciar quelle delle quali non è da far conto, fece nella sua giovanezza in Volterra a fresco la facciata di Messer Mario Maffei, di chiaro scuro, che gli diede buon nome e gli acquistò molto credito.
La quale, poi che ebbe finita, vedendo non aver quivi concorrenza che lo spignesse a cercare di salire a miglior grada e non essere in quella città opere, né antiche, né moderne, dalle quali potesse molto imparare, si risolvette di andare per ogni modo a Roma, dove intendeva che allora non erano molti che attendessero alla pittura, da Perino del Vaga in fuori.
Ma prima che partisse, andò pensando di voler portare alcun'opera finita che lo facesse conoscere, e così, avendo fatto in una tela un Cristo a olio battuto alla colonna con molte figure, e messovi in farlo tutta quella diligenza che è possibile, servendosi di modelli e ritratti dal vivo, lo portò seco.
E giunto in Roma, non vi fu stato molto, che per mezzo d'amici mostrò al cardinale Triulzi quella pittura, la quale in modo gli sodisfece, che non pure la comperò, ma pose grandissima affezzione a Daniello, mandandolo poco appresso a lavorare dove avea fatto fuor di Roma a un suo casale detto Salone un grandissimo casamento, il quale faceva adornare di fontane, stucchi e pitture e dove apunto allora lavoravano Gianmaria da Milano et altri alcune stanze di stucchi e grottesche.
Qui dunque giunto Daniello, sì per la concorrenza e sì per servire quel signore, dal quale poteva molto onore et utile sperare, dipinse in compagnia di coloro diverse cose in molte stanze e logge, e particolarmente vi fece molte grottesche piene di varie feminette, ma sopra tutto riuscì molto bella una storia di Fetonte fatta a fresco di figure grandi quanto il naturale et un fiume grandissimo che vi fece, il quale è una molto buona figura.
Le quali tutte opere, andando spesso il detto cardinale a vedere e menando seco or uno or altro cardinale, furono cagione che Daniello facesse con molti di loro servitù et amicizia.
Dopo, avendo Perino del Vaga, il quale allora faceva alla Trinità la capella di Messer Agnolo de' Massimi, bisogno d'un giovane che gl'aiutasse, Daniello, che disiderava di acquistare, tirato dalle promesse di colui, andò a star seco e gl'aiutò fare nell'opera di quella capella alcune cose, le quali condusse con molta diligenza a fine.
Avendo fatto Perino inanzi al Sacco di Roma, come s'è detto, alla capella del Crucifisso di San Marcello, nella volta la creazione di Adamo et Eva grandi quanto il vivo, e molto maggiori due Evangelisti, cioè San Giovanni e San Marco, et anco non finiti del tutto perché la figura del San Giovanni mancava dal mezzo in su, gl'uomini di quella Compagnia si risolverono, quando poi furono quietate le cose di Roma, che il medesimo Perino finisse quell'opera.
Ma avendo altro che fare, fattone i cartoni la fece finire a Daniello, il quale finì il San Giovanni lasciato imperfetto; fece del tutto gl'altri due Evangelisti, San Luca e San Matteo, nel mezzo due putti che tengono un candelieri, e nell'arco della faccia che mette in mezzo la finestra due Angeli, che volando e stando sospesi in su l'ale, tengono in mano misterii della Passione di Gesù Cristo; e l'arco adornò riccamente di grottesche e molte belle figurine ignude, et insomma si portò in tutta questa opera bene oltre modo, ancor che vi mettesse assai tempo.
Dopo, avendo il medesimo Perino dato a fare a Daniello un fregio nella sala del palazzo di Messer Agnolo Massimi con molti partimenti di stucco et altri ornamenti e storie de' fatti di Fabio Massimo, si portò tanto bene che veggendo quell'opera la signora Elena Orsina et udendo molto lodare la virtù di Daniello, gli diede a fare una sua capella nella chiesa della Trinità di Roma, in su 'l monte dove stanno i frati di San Francesco di Paula, onde Daniello mettendo ogni sforzo e diligenza per fare un'opera rara la quale il facesse conoscere per eccellente pittore, non si curò mettervi le fatiche di molti anni.
Dal nome dunque di quella signora, dandosi alla capella il titolo della croce di Cristo Nostro Salvatore, si tolse il suggetto de' fatti di S.
Elena.
E così nella tavola principale, facendo Daniello Gesù Cristo che è deposto di croce da Gioseffo e Nicodemo et altri Discepoli, lo svenimento di Maria Vergine sostenuta sopra le braccia da Madalena et altre Marie, mostrò grandissimo giudizio e di esser raro uomo, perciò che, oltre al componimento delle figure che è molto ricco, il Cristo è ottima figura et un bellissimo scorto, venendo coi piedi inanzi e col resto in dietro.
Sono similmente belli e difficili scorti e figure quelli di coloro che avendolo sconfitto, lo reggono con le fascie stando sopra certe scale e mostrando in alcune parti l'ignudo fatto con molta grazia.
Intorno poi a questa tavola fece un bellissimo e vario ornamento di stucchi pieno d'intagli, e con due figure che sostengono con la testa il frontone, mentre con una mano tengono il capitello e con l'altra cercano mettere la colonna che lo regga, la quale è posta da piè in sulla basa sotto il capitello, la quale opera è fatta con incredibile diligenza.
Nell'arco sopra la tavola dipinse a fresco due sibille, che sono le migliori figure di tutta quell'opera, le quali sibille mettono in mezzo la finestra che è sopra il mezzo di detta tavola e dà lume a tutta la capella, la cui volta è divisa in quattro parti con bizzarro, vario e bello spartimento di stucchi e grottesche, fatte con nuove fantasie di maschere e festoni, dentro ai quali sono quattro storie della Croce e di Santa Elena madre di Gostantino.
Nella prima è quando avanti la Passione del Salvatore sono fabricate tre croci; nella seconda quando Santa Elena comanda ad alcuni Ebrei che le insegnino le dette croci; nella terza quando, non volendo essi insegnarle, ella fa mettere in un pozzo colui che le sapeva, e nella quarta quando colui insegna il luogo dove tutte e tre erano sotterrate; le quali quattro storie sono belle oltre ogni credenza e condotte con molto studio.
Nelle facce dalle bande sono altre quattro storie, cioè due per faccia, e ciascuna è divisa dalla cornice che fa l'imposta dell'arco sopra cui posa la crocera della volta di detta capella: in una è Santa Elena che fa cavare d'un pozzo la Croce santa e l'altre due, e nella seconda quando quella del Salvatore sana un infermo.
Ne' quadri di sotto a man ritta, la detta Santa quella di Cristo riconosce nel risuscitare un morto sopra cui è posta, nell'ignudo del quale morto mise Daniello incredibile studio per ritrovare i muscoli e rettamente tutte le parti dell'uomo.
Il che fece ancora in coloro che gli mettono addosso la croce e nei circonstanti che stanno tutti stupidi a veder quel miracolo; et oltre ciò è fatto con molta diligenza un bizzarro cataletto con una ossatura di morto che l'abbraccia, condotto con bella invenzione e molta fatica.
Nell'altro quadro, che a questo è dirimpetto, dipinse Eraclio imperadore, il quale scalzo, a piedi et in camicia messe la Croce di Cristo nella porta di Roma, dove sono femine, uomini e putti ginocchioni che l'adorano, molti suoi baroni et uno staffiere che gli tiene il cavallo.
Sotto per basamento sono per ciascuna due femine di chiaro scuro e fatte di marmo, molto belle, le quali mostrano di reggere dette storie, e sotto l'arco primo della parte dinanzi fece nel piano per lo ritto due figure grandi quanto il vivo: un San Francesco di Paula, capo di quell'ordine che uffizia la detta chiesa, et un San Ieronimo vestito da cardinale, che sono due bonissime figure, sì come anche sono quelle di tutta l'opera, la quale condusse Daniello in sette anni e con fatiche e studio inestimabile.
Ma perché le pitture che son fatte per questa via hanno sempre del duro e del difficile, manca quest'opera d'una certa leggiadra facilità che suole molto dilettare.
Onde Daniello stesso, confessando la fatica che aveva durata in quest'opera e temendo di quello che gl'avenne e di non essere biasimato, fece per suo capriccio e quasi per sua defensione sotto i piedi di detti due Santi due storiette di stucco di basso rilievo, nelle quali volle mostrare che essendo suoi amici Michelagnolo Buonarroti e fra' Bastiano del Piombo (l'opere de' quali andava imitando, et osservando i precetti), se bene faceva adagio e con istento, nondimeno il suo imitare quei due uomini poteva bastare a difenderlo dai morsi degl'invidiosi e maligni, la mala natura de' quali è forza, ancor che loro non paia, che si scuopra.
In una, dico, di queste storiette fece molte figure di satiri, che a una stadera pesano gambe, braccia et altre membra di figure, per ridurre al netto quelle che sono a giusto peso e stanno bene e per dare le cattive a Michelagnolo e fra' Bastiano che le vanno conferendo; nell'altra è Michelagnolo che si guarda in uno specchio, di che il significato è chiarissimo.
Fece similmente in due angoli dell'arco dalla banda di fuori due ignudi di chiaro scuro, che sono della medesima bontà che sono l'altre figure di quell'opera; la quale scoperta che fu dopo sì lungo tempo, fu molto lodata e tenuta lavoro bellissimo e difficile et il suo maestro eccellentissimo.
Dopo questa capella gli fece, Alessandro cardinale Farnese in una stanza del suo palazzo, cioè in sul cantone, sotto uno di que' palchi ricchissimi fatti con ordine di maestro Antonio da San Gallo, a tre cameroni che sono in fila, fare un fregio di pittura bellissimo con una storia di figure per ogni faccia, che furono un trionfo di Bacco bellissimo, una caccia et altre simili che molto sodisfecero a quel cardinale, il quale, oltre ciò, gli fece fare in più luoghi di quel fregio un liocorno in diversi modi in grembo a una vergine, che è l'impresa di quella illustrissima famiglia.
La quale opera fu cagione che quel signore, il quale è sempre stato amatore di tutti gl'uomini rari e virtuosi, lo favorisse sempre; e più arebbe fatto se Daniello non fusse stato così lungo nel suo operare.
Ma di questo non aveva colpa Daniello poiché sì fatta era la sua natura et ingegno, et egli più tosto si contentava di fare poco e bene, che assai e non così bene.
Adunque, oltre all'affezione che gli portava il cardinale, lo favorì di maniera il signor Annibale Caro appresso i suoi signori Farnesi, che sempre l'aiutarono.
Et a madama Margarita d'Austria, figliuola di Carlo Quinto, nel palazzo de' Medici a Navona, dello scrittoio del quale si è favellato nella vita dell'Indaco, in otto vani dipinse otto storiette de' fatti et opere illustri di detto Carlo Quinto imperatore con tanta diligenza e bontà, che per simile cosa non si può quasi fare meglio.
Essendo poi l'anno 1547 morto Perino del Vaga et avendo lasciata imperfetta la sala dei re, che, come si è detto, è nel palazzo del papa dinanzi alla capella di Sisto et alla Paulina, per mezzo di molti amici e signori e particolarmente di Michelagnolo Buonarroti fu da papa Paolo Terzo messo in suo luogo Daniello, con la medesima provisione che aveva Perino, et ordinatogli che desse principio agl'ornamenti delle facciate che s'avevano a fare di stucchi con molti ignudi tutti tondi sopra certi frontoni.
E perché quella sala rompeno sei porte grandi di mischio, tre per banda, et una sola facciata rimane intera, fece Daniello sopra ogni porta quasi un tabernacolo di stucco bellissimo, in ciascuno de' quali disegnava fare di pittura uno di quei re che hanno difesa la chiesa apostolica, e seguitare nelle facciate istorie di que' re che con tributi o vittorie hanno beneficato la chiesa, onde in tutto venivano a essere sei storie e sei nicchie.
Dopo le quali nicchie, o vero tabernacoli, fece Daniello con l'aiuto di molti tutto l'altro ornamento ricchissimo di stucchi che in quella sala si vede, studiando in un medesimo tempo i cartoni di quello che aveva disegnato far in quel luogo di pittura.
Il che fatto, diede principio a una delle storie, ma non ne dipinse più che due braccia in circa e due di que' re ne' tabernacoli di stucco sopra le porte, perché, ancor che fusse sollecitato dal cardinale Farnese e dal Papa, senza pensare che la morte suole spesse volte guastare molti disegni, mandò l'opera tanto in lungo, che quando sopravenne la morte del Papa, l'anno 1549, non era fatto se non quello che è detto; per che, avendosi a fare nella sala che era piena di palchi e legnami il conclave, fu necessario gettare ogni cosa per terra e scoprire l'opera.
La quale essendo veduta da ognuno, l'opere di stucco furono, sì come meritavano, infinitamente lodate, ma non già tanto i due re di pittura, perciò che pareva che in bontà non corrispondesseno all'opera della Trinità e che egli avesse, con tanta commodità e stipendii onorati, più tosto dato a dietro che acquistato.
Essendo poi creato pontefice l'anno 1550 Giulio Terzo, si fece inanzi Daniello con amici e con favori per avere la medesima provisione e seguitare l'opera di quella sala, ma il Papa, non vi avendo volto l'animo, diede sempre passata, anzi mandato per Giorgio Vasari, che aveva seco avuto servitù insino quando esso pontefice era arcivescovo Sipontino, si serviva di lui in tutte le cose del disegno.
Ma nondimeno avendo Sua Santità deliberato fare una fontana in testa al corridore di Belvedere e non piacendogli un disegno di Michelagnolo, nel quale era un Moisè che percotendo la pietra ne faceva uscire acqua, per esser cosa che non potea condursi se non con lunghezza di tempo, volendolo Michelagnolo far di marmo, ma il consiglio di Giorgio, il quale fu che la Cleopatra figura divina e stata fatta da' Greci si accommodasse in quel luogo, ne fu dato, per mezzo del Buonarroto, cura a Daniello, con ordine che in detto luogo facesse di stucchi una grotta dentro la quale fusse la detta Cleopatra collocata.
Daniello dunque, avendovi messo mano, ancor che fusse molto sollecitato lavorò con tanta lentezza in quell'opera, finì la stanza sola di stucchi e di pitture, ma molte altre cose che 'l Papa voleva fare vedendo andare più allungo che non pensava, che uscitone la voglia al Papa non fu altrimenti finita, ma si rimase in quel modo che oggi si vede ogni cosa.
Fece Daniello nella chiesa di Santo Agostino a fresco in una capella in figure grandi quanto il naturale una Santa Elena che fa ritrovare la Croce, e dalle bande in due nicchie Santa Cecilia e Santa Lucia, la quale opera fu parte colorita da lui e parte, con suoi disegni, dai giovani che stavano con esso lui; onde non riuscì di quella perfezzione che l'altre opere sue.
In questo medesimo tempo dalla signora Lucrezia della Rovere gli fu allogata una capella nella Trinità, dirimpetto a quella della signora Elena Orsina, nella quale, fatto uno spartimento di stucchi, fece con suoi cartoni dipignere di storie della Vergine la volta da Marco da Siena e da Pellegrino da Bologna.
Et in una delle facciate fece fare a Bizzera spagnuolo la natività di essa Vergine e nell'altra, da Giovan Paulo Rossetti da Volterra suo creato, Gesù Cristo presentato a Simeone; et al medesimo fece fare in due storie, che sono negl'archi di sopra, Gabriello che annunzia essa Vergine e la Natività di Cristo; di fuori negl'angoli fece due figuroni e sotto ne' pilastri due Profeti; nella facciata dell'altare dipinse Daniello di sua mano la Nostra Donna che saglie i gradi del tempio, e nella principale la medesima Vergine che sopra molti bellissimi Angeli in forma di putti saglie in cielo et i dodici Apostoli a basso che stanno a vederla salire.
E perché il luogo non era capace di tante figure et egli desiderava di fare in ciò nuova invenzione, finse che l'altare di quella capella fusse il sepolcro et intorno misse gl'Apostoli, facendo loro posare i piedi in sul piano della capella dove comincia l'altare, il quale modo di fare ad alcuni è piaciuto et ad altri, che sono la maggior e miglior parte, non punto.
Ma con tutto che penasse Daniello quatordeci anni a condurre quest'opera, non è però punto migliore della prima.
Nell'altra facciata che restò a finirsi di questa capella, nella quale andava l'uccisione de' fanciulli innocenti, fece lavorare il tutto, avendone fatto i cartoni, a Michele Alberti fiorentino, suo creato.
Avendo monsignor Messer Giovanni della Casa fiorentino et uomo dottissimo (come le sue leggiadrissime e dotte opere, così latine come volgari, ne dimostrano) cominciato a scrivere un trattato delle cose di pittura, e volendo chiarirsi d'alcune minuzie e particolari dagl'uomini della professione, fece fare a Daniello con tutta quella diligenza che fu possibile il modello d'un Davit di terra finito, e dopo gli fece dipignere, o vero ritrarre, in un quadro il medesimo Davit che è bellissimo, da tutte due le bande, cioè il dinanzi et il di dietro, che fu cosa capricciosa, il quale quadro è oggi appresso Messer Annibale Rucellai.
Al medesimo Messer Giovanni fece un Cristo morto con le Marie, et in una tela per mandare in Francia Enea che spogliandosi per andare a dormire con Dido è sopragiunto da Mercurio, che mostra di parlargli nella maniera che si legge ne' versi di Vergilio.
Al medesimo fece in un altro quadro, pure a olio, un bellissimo San Giovanni in penitenza grande quanto il naturale che da quel signore, mentre visse, fu tenuto carissimo, e parimente un San Girolamo bello a maraviglia.
Morto papa Giulio Terzo e creato sommo pontefice Paulo Quarto, il cardinale di Carpi cercò che fusse da Sua Santità data a finire a Daniello la detta sala dei re, ma non si dilettando quel papa di pitture, rispose essere molto meglio fortificare Roma che spendere in dipignere, e così avendo fatto mettere mano al portone di Castello, secondo il disegno di Salustio, figliuolo di Baldassarre Peruzzi sanese, suo architetto, fu ordinato che in quell'opera, la quale si conduceva tutta di trevertino a uso d'arco trionfale magnifico e sontuoso, si ponessero nelle nicchie cinque statue di braccia quattro e mezzo l'una; per che, essendo ad altri state allogate l'altre, a Daniello fu dato a fare un Angelo Michele.
Avendo intanto monsignor Giovanni Riccio cardinale di Monte Pulciano deliberato di fare una capella in San Pietro a Montorio, dirimpetto a quella che aveva papa Giulio fatta fare con ordine di Giorgio Vasari, et allogata la tavola, le storie in fresco e le statue di marmo che vi andavano a Daniello, esso Daniello, già resoluto al tutto di volere abandonare la pittura e darsi alla scultura, se n'andò a Carrara a far cavare i marmi, così del San Michele come delle statue aveva da fare per la capella di Montorio, mediante la quale occasione, venendo a vedere Firenze e l'opere che il Vasari faceva in palazzo al duca Cosimo e l'altre di quella città, gli furono fatte da infiniti amici suoi molte carezze e particolarmente da esso Vasari, al quale l'aveva per sue lettere raccommandato il Buonarroti.
Dimorando adunque Daniello in Firenze e veggendo quanto il signor Duca si dilettasse di tutte l'arti del disegno, venne in disiderio d'accommodarsi al servigio di sua eccellenza illustrissima; per che, avendo adoperato molti mezzi et avendo il signor Duca a coloro che lo raccomandavano risposto che fusse introdotto dal Vasari, così fu fatto.
Onde Daniello offerendosi a servire sua eccellenza amorevolmente, ella gli rispose che molto volentieri l'accettava e che, sodisfatto che egli avesse agl'oblighi ch'aveva in Roma, venisse a sua posta che sarebbe veduto ben volentieri.
Stette Daniello tutta quella state in Firenze, dove l'accommodò Giorgio in una casa di Simon Botti suo amicissimo; là dove in detto tempo formò di gesso quasi tutte le figure di marmo che di mano di Michelagnolo sono nella sagrestia nuova di San Lorenzo, e fece per Michele Fuchero fiamingo una Leda che fu molto bella figura.
Dopo, andato a Carrara e di là mandati marmi che voleva alla volta di Roma, tornò di nuovo a Fiorenza per questa cagione.
Avendo Daniello menato in sua compagnia, quando a principio venne da Roma a Fiorenza, un suo giovane chiamato Orazio Pianetti, virtuoso e molto gentile, qualunche di ciò si fusse la cagione, non fu sì tosto arrivato a Fiorenza, che si morì.
Di che sentendo infinita noia e dispiacere Daniello, come quegli che molto, per le sue virtù, amava il giovane, e non potendo altrimenti verso di lui il suo buono animo mostrare, tornato quest'ultima volta a Fiorenza, fece la testa di lui di marmo dal petto in su, ritraendola ottimamente da una formata in sul morto, e quella finita la pose con uno epitaffio nella chiesa di San Michele Berteldi in sulla piazza degl'Antinori.
Nel che si mostrò Daniello, con questo veramente amorevole uffizio, uomo di rara bontà et altrimenti amico agl'amici di quello che oggi si costuma communemente, pochissimi ritrovandosi che nell'amicizia altra cosa amino che l'utile e commodo proprio.
Dopo queste cose, essendo gran tempo che non era stato a Volterra sua patria, vi andò prima che ritornasse a Roma e vi fu molto carezzato dagl'amici e parenti suoi; et essendo pregato di lasciare alcuna memoria di sé nella patria, fece in un quadrotto di figure piccole la storia degl'innocenti, che fu tenuta molto bell'opera, e la pose nella chiesa di San Piero; dopo, pensando di non mai più dovervi ritornare, vendé quel poco che vi aveva di patrimonio a Lionardo Ricciarelli suo nipote, il quale essendo con esso lui stato a Roma et avendo molto bene imparato a lavorare di stucco, servì poi tre anni Giorgio Vasari in compagnia di molti altri nell'opere che allora si fecero nel palazzo del Duca.
Tornato finalmente Daniello a Roma, avendo papa Paolo Quarto volontà di gettare in terra il Giudizio di Michelagnolo per gli ignudi che li pareva che mostrasseno la parti vergognose troppo disonestamente, fu detto da cardinali et uomini di giudizio che sarebbe gran peccato guastarle e trovoron modo che Daniello facesse lor certi panni sottili che le coprissi, che tal cosa finì poi sotto Pio Quarto con rifar la Santa Caterina et il San Biagio, parendo che non istesseno con onestà.
Cominciò le statue in quel mentre per la capella del detto cardinale di Monte Pulciano et il San Michele del Portone, ma nondimeno non lavorava con quella prestezza che arebbe potuto e dovuto, come lui che se n'andava di pensiero in pensiero.
Intanto, dopo essere stato morto il re Arrigo di Francia in giostra, venendo il signor Ruberto Strozzi in Italia et a Roma, Caterina de' Medici reina, essendo rimasa reggente in quel regno, per fare al detto suo morto marito alcuna onorata memoria, commise che il detto Ruberto fusse col Buonarroto e facesse che in ciò il suo disiderio avesse compimento; onde, giunto egli a Roma, parlò di ciò lungamente con Michelagnolo, il quale non potendo, per essere vecchio, tòrre sopra di sé quell'impresa, consigliò il signor Ruberto a darla a Daniello, al quale egli non mancarebbe né d'aiuto né di consiglio in tutto quello potesse.
Della quale offerta facendo gran conto lo Strozzi, poi che si fu maturamente considerato quello fusse da farsi, fu risoluto che Daniello facesse un cavallo di bronzo tutto d'un pezzo, alto palmi venti dalla testa insino a' piedi e lungo quaranta incirca, e che sopra quello poi si ponesse la statua di esso re Arrigo armato e similmente di bronzo.
Avendo dunque fatto Daniello un modelletto di terra secondo il consiglio e giudizio di Michelagnolo, il quale molto piacque al signor Ruberto, fu scritto il tutto in Francia et in ultimo convenuto fra lui e Daniello del modo di condurre quell'opera, del tempo, del prezzo e d'ogni altra cosa; per che, messa Daniello mano al cavallo con molto studio, lo fece di terra, senza fare mai altro, come aveva da essere interamente.
Poi, fatta la forma, si andava apparecchiando a gettarlo, e da molti fonditori, in opera di tanta importanza, pigliava parere d'intorno al modo che dovesse tenere perché venisse ben fatta, quando Pio Quarto, dopo la morte di Paolo stato creato pontefice, fece intendere a Daniello volere - come si è detto nella vita del Salviati - che si finisse l'opera della sala de' re e che perciò si lasciasse indietro ogni altra cosa; al che rispondendo Daniello, disse essere occupatissimo et ubligato alla reina di Francia, ma che farebbe i cartoni e la farebbe tirare inanzi a' suoi giovani, e che oltre ciò farebbe anch'egli la parte sua.
La quale risposta non piacendo al Papa, andò pensando di allogare il tutto al Salviati, onde Daniello, ingelosito, fece tanto col mezzo del cardinale di Carpi e di Michelagnolo, che a lui fu data a dipignere la metà di detta sala e l'altra metà, come abbiamo detto, al Salviati, nonostante che Daniello facesse ogni possibile opera d'averla tutta, per andarsi tranquillando senza concorrenza, a suo commodo.
Ma in ultimo la cosa di questo lavoro fu guidata in modo, che Daniello non vi fece cosa niuna più di quello che già avesse fatto molto inanzi, et il Salviati non finì quel poco che aveva cominciato, anzi gli fu anco quel poco dalla malignità d'alcuni gettato per terra.
Finalmente Daniello dopo quattro anni (quanto a lui apparteneva) arebbe gettato il già detto cavallo, ma gli bisognò indugiare molti mesi, più di quello che arebbe fatto, mancandogli le provisioni che doveva fare di ferramenti, metallo et altre materie il signor Ruberto; le quali tutte cose essendo finalmente state provedute, sotterrò Daniello la forma, che era una gran machina, fra due fornaci da fondere in una stanza molto a proposito che aveva a Monte Cavallo, e fonduta la materia, dando nelle spine il metallo, per un pezzo andò assai bene, ma in ultimo sfondando il peso del metallo la forma del cavallo, nel corpo tutta la materia prese altra via, il che travagliò molto da principio l'animo di Daniello, ma nondimeno, considerato il tutto, trovò la via da rimediare a tanto inconveniente.
E così, in capo a due mesi gettandolo la seconda volta, prevalse la sua virtù agl'impedimenti della fortuna, onde condusse il getto di quel cavallo (che è un sesto, o più, maggiore che quello d'Antonino che è in Campidoglio) tutto unito e sottile ugualmente per tutto.
Et è gran cosa che sì grand'opera non pesa se non venti migliaia.
Ma furono tanti i disagi e le fatiche che vi spese Daniello, il quale, anzi che non, era di poca complessione e malinconico, che non molto dopo sopragiunse un catarro crudele che lo condusse molto male, anzi dove arebbe dovuto Daniello star lieto, avendo in così raro getto superato infinite difficultà, non parve che mai poi, per cosa che prospera gl'avenisse, si rallegrasse.
E non passò molto che il detto catarro in due giorni gli tolse la vita a dì quattro d'aprile 1566; ma inanzi avendosi preveduta la morte si confessò molto divotamente e volle tutti i sacramenti della chiesa, e poi, facendo testamento, lasciò che il suo corpo fusse sepellito nella nuova chiesa stata principiata alle Terme da Pio Quarto ai monaci certosini, ordinando che in quel luogo et alla sua sepoltura fusse posta la statua di quell'Angelo che aveva già cominciata per lo portone di Castello.
E di tutto diede cura (facendogli in ciò essecutori del suo testamento) a Michele degl'Alberti fiorentino et a Feliciano da San Vito di quel di Roma, lasciando per ciò loro dugento scudi.
La quale ultima volontà essequirono ambidue con amore e diligenza, dandogli in detto luogo, secondo che da lui fu ordinato, onorata sepoltura.
Ai medesimi lasciò tutte le sue cose appartenenti all'arte, forme di gesso, modelli, disegni e tutte altre masserizie e cose da lavorare, onde si offersono all'ambasciadore di Francia di dare finita del tutto fra certo tempo l'opera del cavallo e la figura del re che vi andava sopra, e nel vero essendosi ambidue esercitati molti anni sotto la disciplina e studio di Daniello, si può da loro sperare ogni gran cosa.
È stato creato similmente di Daniello Biagio da Carigliano pistolese e Giovampaulo Rossetti da Volterra, che è persona molto diligente e di bellissimo ingegno, il quale Giovampaulo, essendosi già molti anni sono ritirato a Volterra, ha fatto e fa opere degne di molta lode.
Lavorò parimente con Daniello e fece molto frutto Marco da Siena, il quale condottosi a Napoli si è presa quella città per patria e vi sta e lavora continuamente; è stato similmente creato di Daniello Giulio Mazzoni da Piacenza, che ebbe i suoi primi principii dal Vasari quando in Fiorenza lavorava una tavola per Messer Biagio Mei che fu mandata a Lucca e posta in San Piero Cigoli, e quando in Monte Oliveto di Napoli faceva esso Giorgio la tavola dell'altare maggiore, una grande opera nel reffettorio e la sagrestia di San Giovanni carbonaro, i portegli dell'organo del piscopio con altre tavole et opere.
Costui avendo poi da Daniello imparato a lavorare di stucchi, paragonando in ciò il suo maestro, ha ornato di sua mano tutto il didentro del palazzo del cardinale Capo di Ferro e fattovi opere maravigliose, non pure di stucchi, ma di storie a fresco et a olio, che gli hanno dato e meritamente infinita lode.
Ha il medesimo fatta di marmo e ritratta dal naturale la testa di Francesco del Nero tanto bene, che non credo sia possibile far meglio, onde si può sperare che abbia a fare ottima riuscita e venire in queste nostre arti a quella perfezione che si può maggiore e migliore.
È stato Daniello persona costumata e da bene e di maniera intento ai suoi studii dell'arte, che nel rimanente del viver suo non ha avuto molto governo et è stato persona malinconica e molto solitaria.
Morì Daniello di 57 anni in circa.
Il suo ritratto s'è chiesto a quei suoi creati che l'aveano fatto di gesso, e quando fui a Roma l'anno passato me l'avevano promesso.
Né per imbasciate o lettere che io abbia loro scritto non l'han voluto dare, mostrando poca amorevolezza al lor morto maestro; però non ho voluto guardare a questa loro ingratitudine, essendo stato Daniello amico mio, che si è messo questo che ancora che li somigli poco, faccia la scusa della diligenza mia e della poca cura et amorevolezza di Michele degli Alberti e di Feliciano da San Vito.
FINE DELLA VITA DI DANIELLO DA VOLTERRA, PITTORE E SCULTORE
VITA DI TADDEO ZUCCHERO PITTORE DA SANT'AGNOLO IN VADO
Esendo duca d'Urbino Francesco Maria, nacque nella terra di Santo Agnolo in Vado, luogo di quello stato, l'anno 1529 a dì primo di settembre ad Ottaviano Zucchero pittore un figliuol maschio, al quale pose nome Taddeo, il qual putto avendo di dieci anni imparato a leggere e scrivere ragionevolmente, se lo tirò il padre appresso e gl'insegnò alquanto a disegnare.
Ma veggendo Ottaviano quello suo figliuolo aver bellissimo ingegno e potere divenire altr'uomo nella pittura, che a lui non pareva essere, lo mise a stare con Pompeo da Fano, suo amicissimo e pittore ordinario; l'opere del quale non piacendo a Taddeo e parimente i costumi, se ne tornò a Sant'Agnolo, quivi et altrove aiutando al padre quanto poteva e sapeva.
Finalmente, essendo cresciuto Taddeo d'anni e di giudizio, veduto non potere molto acquistare sotto la disciplina del padre, carico di sette figliuoli maschi et una femina, et anco non essergli col suo poco sapere d'aiuto più che tanto, tutto solo se n'andò di quattordici anni a Roma, dove a principio, non essendo conosciuto da niuno e niuno conoscendo, patì qualche disagio.
E se pure alcuno vi conosceva, vi fu da loro peggio trattato che dagl'altri, per che accostatosi a Francesco cognominato di Sant'Agnolo, il quale lavorava di grottesche con Perino del Vaga a giornate, se gli raccomandò con ogni umiltà, pregandolo che volesse, come parente che gl'era, aiutarlo; ma non gli venne fatto, perciò che Francesco, come molte volte fanno certi parenti, non pure non l'aiutò, né di fatti, né di parole, ma lo riprese e ributtò agramente.
Ma non per tanto non si perdendo d'animo, il povero giovinetto senza sgomentarsi si andò molti mesi trattenendo per Roma, o per meglio dire stentando, con macinare colori ora in questa et ora in quell'altra bottega, per piccol prezzo, e talora, come poteva il meglio, alcuna cosa disegnando.
E se bene in ultimo si acconciò per garzone con un Giovampiero calavrese, non vi fece molto frutto, perciò che colui, insieme con una sua moglie, fastidiosa donna, non pure lo facevano macinare colori giorni e notte, ma lo facevano non ch'altro patire del pane; del quale acciò non potesse anco avere a bastanza, né a sua posta, lo tenevano in un paniere appiccato al palco con certi campanelli, che ogni poco che il paniere fosse tocco, sonavano e facevano la spia.
Ma questo arebbe dato poca noia a Taddeo, se avesse avuto commodo di potere disegnare alcune carte, che quel suo maestraccio aveva di mano di Raffaello da Urbino.
Per queste e molt'altre stranezze, partitosi Taddeo da Giovampiero, si risolvette a stare da per sé et andarsi riparando per le botteghe di Roma, dove già era conosciuto, una parte della settimana spendendo in lavorare a opere per vivere, et un'altra in disegnando e particularmente l'opere di mano di Raffaello, che erano in casa d'Agostino Chigi et in altri luoghi di Roma.
E perché molte volte, sopragiugnendo la sera, non aveva dove in altra parte ritirarsi, si riparò molte notti sotto le logge del detto Chigi et in altri luoghi simili, i quali disagi gli guastorno in parte la complessione, e se non l'avesse la giovinezza aiutato, l'arebbono ucciso del tutto.
Con tutto ciò amalandosi e non essendo da Francesco Sant'Agnolo suo parente più aiutato di quello che fosse stato altra volta, se ne tornò a Sant'Agnolo a casa il padre, per non finire la vita in tanta miseria quanta quella era in che si trovava.
Ma per non perdere oggimai più tempo in cose che non importano più che tanto, e bastando avere mostrato con quanta difficultà e disagi acquistasse, dico che Taddeo finalmente guarito e tornato a Roma, si rimesse a' suoi soliti studii (ma con aversi più cura, che per l'adietro fatto non aveva), e sotto un Iacopone imparò tanto, che venne in qualche credito, onde il detto Francesco suo parente, che così empiamente si era portato verso lui, veggendolo fatto valent'uomo, per servirsi di lui si rapatumò seco e cominciarono a lavorare insieme, essendosi Taddeo, che era di buona natura, tutte l'ingiurie dimenticato.
E così facendo Taddeo i disegni et ambidui lavorando molti fregi di camere e logge a fresco, si andavano giovando l'uno all'altro.
Intanto Daniello da Parma pittore, il quale già stette molti anni con Antonio da Coreggio, et avea avuto pratica con Francesco Mazzuoli parmigiano, avendo preso a fare a Vitto di là di Sore nel principio dell'Abruzzo una chiesa a fresco per la capella di Santa Maria, prese in suo aiuto Taddeo conducendolo a Vitto.
Nel che fare, se bene Daniello non era il migliore pittore del mondo, aveva nondimeno per l'età e per avere veduto il modo di fare del Coreggio e del Parmigiano, e con che morbidezza conducevano le loro opere, tanta pratica, che mostrandola a Taddeo et insegnandogli, gli fu di grandissimo giovamento con le parole, non altrimenti che un altro arebbe fatto con l'operare.
Fece Taddeo in quest'opera, che aveva la volta a croce, i quattro Evangelisti, due Sibille, duoi Profeti e quattro storie non molto grandi di Iesù Cristo e della Vergine sua madre.
Ritornato poi a Roma, ragionando Messer Iacopo Mattei gentiluomo romano con Francesco Sant'Agnolo di volere fare dipignere di chiaro scuro la facciata d'una sua casa, gli mise inanzi Taddeo, ma perché pareva troppo giovane a quel gentiluomo, gli disse Francesco che ne facesse prova in due storie, e che quelle non riuscendo, si sarebbono potute gettare per terra, e riuscendo arebbe seguitato.
Avendo dunque Taddeo messo mano all'opera, riuscirno sì fatte le due prime storie, che ne restò Messer Iacopo non pure sodisfatto, ma stupido; onde avendo finita quell'opera l'anno 1548, fu sommamente da tutta Roma lodata e con molta ragione.
Perciò che dopo Pulidoro, Maturino, Vincenzo da San Gimignano e Baldassarre da Siena, niuno era in simili opere arrivato a quel segno che aveva fatto Taddeo, giovane allora di diciotto anni; l'istorie della quale opera si possono comprendere da queste inscrizzioni, che sono sotto ciascuna de' fatti di Furio Camillo; la prima dunque è questa: TUSCULANI, PACE CONSTANTI, VIM ROMANAM ARCENT; la seconda; M[ARCUS] F[URIUS) C[AMILLUS] SIGNIFERUM SECUM IN HOSTEM RAPIT; la terza: M[ARCO] F[URIO] C[AMILLO] AUCTORE INCENSA URBS RESTITUITUR; la quarta: M[ARCUS] F[URIUS) C[AMILLUS] PACTIONIBUS TURBATIS PRAELIUM GALLIS NUNCIAT; la quinta: M[ARCUS] F[URIUS] C[AMILLUS) PRODITOREM VINCTUM FALERIO REDUCENDUM TRADIT; la sesta: MATRONALIS AURI COLLATIONE, VOTUM APOLLINI SOLVITUR; la settima: M[ARCUS] F[URIUS] C[AMILLUS] IUNONI REGINAE TEMPLUM IN AVENTINO DEDICAT; l'ottava: SIGNUM IUNONIS REGINAE A VEIIS ROMAM TRANSFERTUR; la nona: M[ARC...] F[URI...] C[AMILL...] ...
[M]ANLIUS DICT[ATOR] DECEM ...
SOS ...
CIOS CAPIT.
Dal detto tempo insino all'anno 1550, che fu creato papa Giulio Terzo, si andò trattenendo Taddeo in opera di non molta importanza, ma però con ragionevole guadagno; il quale anno 1550, essendo il Giubileo, Ottaviano padre di Taddeo, la madre et un altro loro figliuolo andorno a Roma a pigliare il santissimo Giubileo et in parte vedere il figliolo.
Là dove stati che furno alcune settimane con Taddeo, nel partirsi gli lasciarono il detto putto che avevano menato con esso loro, chiamato Federigo, acciò lo facesse attendere alle lettere: ma giudicandolo Taddeo più atto alla pittura, come si è veduto essere poi stato vero, ne l'eccellente riuscita che esso Federigo ha fatto, lo cominciò, imparato che ebbe le prime lettere, a fare attendere al disegno con miglior fortuna et appoggio che non aveva avuto egli.
Fece intanto Taddeo nella chiesa di Santo Ambrogio de' Milanesi, nella facciata de l'altare maggiore, quattro storie de' fatti di quel Santo, non molto grandi e colorite a fresco, con un fregio di puttini e femine a uso di termini, che fu assai bell'opera, e, questa finita, allato a Santa Lucia della Tinta, vicino all'Orso, fece una facciata piena di storie di Alessandro Magno, cominciando dal suo nascimento e seguitando in cinque storie i fatti più notabili di quell'uomo famoso, che gli fu molto lodata, ancor che questa avesse il paragone a canto d'un'altra facciata di mano di Pulidoro.
In questo tempo, avendo Guido Baldo duca d'Urbino udita la fama di questo giovane suo vasallo e desiderando dar fine alle facciate della capella del Duomo d'Urbino, dove Batista Franco, come s'è detto, aveva a fresco dipinta la volta, fece chiamare Taddeo a Urbino; il quale, lasciando in Roma chi avesse cura di Federigo e lo facesse attendere a imparare, e parimente d'un altro suo fratello, il quale pose con alcuni amici suoi all'orefice, se n'andò ad Urbino, dove gli furono da quel Duca fatte molte carezze e poi datogli ordine di quanto avesse a disegnare per conto della capella et altre cose.
Ma in quel mentre, avendo quel Duca come generale de' signori viniziani a ire a Verona et a vedere l'altre fortificazioni di quel dominio, menò seco Taddeo, il quale gli ritrasse il quadro di mano di Raffaello, che è, come in altro luogo s'è detto, in casa de' signori conti da Canossa; dopo cominciò, pur per sua eccellenza, una telona grande, dentrovi la conversione di San Pavolo, la quale è ancora così imperfetta a Sant'Agnolo appresso Ottaviano suo padre.
Ritornato poi in Urbino andò per un pezzo seguitando i disegni della detta capella, che furono de' fatti di Nostra Donna, come si può vedere in una parte di quelli, che è appresso Federigo suo fratello, disegnati di penna e chiaro scuro; ma o venisse che 'l Duca non fosse resoluto e gli paresse Taddeo troppo giovane, o da altra cagione, si stette Taddeo con esso lui due anni, senza fare altro che alcune pitture in uno studiolo a Pesaro et un'arme grande a fresco nella facciata del palazzo et il ritratto di quel Duca in un quadro grande quanto il vivo, che tutte furono bell'opere.
Finalmente, avendo il Duca a partire per Roma per andare a ricevere il bastone, come generale di santa Chiesa, da papa Giulio Terzo, lasciò a Taddeo che seguitasse la detta capella e che fosse di tutto quello, che per ciò bisognava, proveduto.
Ma i ministri del Duca, facendogli come i più di simili uomini fanno, cioè stentare ogni cosa, furono cagione che Taddeo, dopo avere perduto duoi anni di tempo, se n'andò a Roma, dove truovato il Duca si scusò destramente, senza dar biasimo a nessuno, promettendo che non mancherebbe di fare quando fosse tempo.
L'anno poi 1551, avendo Stefano Veltroni dal Monte Sansavino ordine dal Papa e dal Vasari di fare adornare di grottesche le stanze della vigna, che fu del cardinale Poggio, fuori della porta del Popolo in sul monte, chiamò Taddeo, e nel quadro del mezzo gli fece dipignere una Occasione, che avendo presa la Fortuna, mostra di volerle tagliare il crine con le forbice, impresa di quel Papa, nel che Taddeo si portò molto bene.
Dopo avendo il Vasari fatto sotto il palazzo nuovo, primo di tutti gl'altri, il disegno del cortile e della fonte, che poi fu seguitata dal Vignola e dall'Amannato e murata da Baronino, nel dipignervi molte cose Prospero Fontana, come di sotto si dirà, si servì assai di Taddeo in molte cose, che gli furono occasione di maggiore bene; perciò che, piacendo a quel Papa il suo modo di fare, gli fece dipignere in alcune stanze sopra il corridore di Belvedere alcune figurette colorite, che servirono per fregii di quelle camere, et in una loggia scoperta, dietro quelle che voltavano verso Roma, fece nella facciata di chiaro scuro e grandi quanto il vivo tutte le fatiche di Ercole, che furono al tempo di papa Pavolo Quarto rovinate, per farvi altre stanze e murarvi una capella.
Alla vigna di papa Giulio, nelle prime camere del palazzo, fece di colori nel mezzo della volta alcune storie, e particularmente il monte Parnaso, e nel cortile del medesimo fece due storie di chiaro scuro de' fatti delle Sabine, che mettono in mezzo la porta di mischio principale, che entra nella loggia, dove si scende alla fonte de l'acqua vergine, le quali opere furono lodate e commendate molto.
E perché Federigo, mentre Taddeo era a Roma col Duca, era tornato a Urbino e quivi et a Pesaro statosi poi sempre, lo fece Taddeo dopo le dette opere tornare a Roma per servirsene in fare un fregio grande in una sala et altri in altre stanze della casa di Giambecari sopra la piazza di Sant'Apostolo, et in altri fregi che fece dalla guglia di San Mauro nelle case di Messer Antonio Portatore, tutti pieni di figure, et altre cose, che furono tenute bellissime.
Avendo compro Mattiuolo, maestro delle poste al tempo di papa Giulio, un sito in campo Marzio e murato un casotto molto commodo, diede a dipignere a Taddeo la facciata di chiaro scuro, il qual Taddeo vi fece tre storie di Mercurio messaggero degli dii, che furono molto belle, et il restante fece dipignere ad altri con disegni di sua mano.
Intanto, avendo Messer Iacopo Mattei fatta murare nella chiesa della Consolazione sotto il Campidoglio una capella, la diede, sapendo già quanto valesse, a dipignere a Taddeo, il quale la prese a fare volentieri e per piccol prezzo per mostrare ad alcuni, che andavano dicendo che non sapeva se non fare facciate et altri lavori di chiaro scuro, che sapeva anco fare di colori.
A quest'opera dunque avendo Taddeo messo mano, non vi lavorava se non quando si sentiva in capriccio e vena di far bene, spendendo l'altro tempo in opere che non gli premevano quanto questa per conto dell'onore, e così con suo commodo la condusse in quattro anni.
Nella volta fece a fresco quattro storie della Passione di Cristo di non molta grandezza con bellissimi capricci e tanto bene condotte, per invenzione, disegno e colorito, che vinse se stesso; le quali storie sono la cena con gl'Apostoli, la lavazione d'i piedi, l'orare nell'orto e quando è preso e baciato da Giuda.
In una delle facciate dalle bande fece, in figure grandi quanto il vivo, Cristo battuto alla colonna, e nell'altra Pilato che lo mostra flagellato ai giudei, dicendo "Ecce homo"; e sopra questa in un arco è il medesimo Pilato che si lava le mani, e nell'altro arco dirimpetto Cristo menato dinanzi ad Anna.
Nella faccia dell'altare fece il medesimo quando è crucifisso e le Marie a' piedi con la Nostra Donna tramortita, messa in mezzo dalle bande da due Profeti, e nell'arco sopra l'ornamento di stucco fece due Sibille, le quali quattro figure trattano della Passione di Cristo, e nella volta sono quattro mezze figure intorno a certi ornamenti di stucco, figurate per i quattro Evangelisti, che sono molto belle.
Quest'opera, la quale fu scoperta l'anno 1556, non avendo Taddeo più che ventisei anni, fu et è tenuta singolare et egli allora giudicato dagl'artefici eccellente pittore.
Questa finita gl'allogò Messer Mario Frangipane nella chiesa di San Marcello una sua capella, nella quale si servì Taddeo, come fece anco in molti altri lavori, de' giovani forestieri, che sono sempre in Roma e vanno lavorando a giornate per imparare e guadagnare, ma nondimeno per allora non la condusse del tutto.
Dipinse il medesimo al tempo di Paolo Quarto in palazzo del Papa alcune stanze a fresco, dove stava il cardinale Caraffa, nel torrone sopra la guardia de' Lanzi, et a olio in alcuni quadrotti la Natività di Cristo, la Vergine e Giuseppo quando fuggono in Egitto, i quali duoi furono mandati in Portogallo dall'ambasciatore di quel re.
Volendo il cardinal di Mantoa fare dipignere dentro tutto il suo palazzo a canto all'arco di Portogallo con prestezza grandissima, allogò quell'opera a Taddeo per convenevole prezzo; il qual Taddeo cominciando con buon numero d'uomini, in brieve lo condusse a fine, mostrando avere grandissimo giudizio in sapere accommodare tanti diversi cervelli in opera sì grande e conoscere le maniere differenti per sì fatto modo, che l'opera mostri essere tutta d'una stessa mano; insomma sodisfece in questo lavoro Taddeo con suo molto utile al detto cardinale et a chiunche la vide, ingannando l'opinione di coloro che non potevano credere che egli avesse a riuscire in viluppo di sì grand'opera.
Parimente dipinse dalle Botteghe Scure per Messer Alessandro Mattei, in certi sfondati delle stanze del suo palazzo, alcune storie di figure a fresco, et alcun'altre ne fece condurre a Federigo suo fratello, acciò si accommodasse al lavorare, il quale Federigo, avendo preso animo, condusse poi da sé un monte di Parnaso sotto le scale d'Araceli in casa d'un gentiluomo chiamato Stefano Margani romano, nello sfondato d'una volta.
Onde Taddeo, veggendo il detto Federigo assicurato e fare da sé con i suoi proprii disegni, senza essere più che tanto da niuno aiutato, gli fece allogare dagli uomini di Santa Maria dell'Orto a Ripa in Roma (mostrando quasi di volerla fare egli) una capella, perciò che a Federigo solo, essendo anco giovinetto, non sarebbe stata data già mai.
Taddeo dunque, per sodisfare a quegl'uomini, vi fece la Natività di Cristo et il resto poi condusse tutto Federigo, portandosi di maniera, che si vide principio di quella eccellenza che oggi è in lui manifesta.
Né medesimi tempi, al duca di Guisa che era allora in Roma, disiderando egli di condurre un pittore pratico e valent'uomo a dipignere un suo palazzo in Francia, fu mezzo per le mani Taddeo; onde, vedute delle opere sue e piaciutagli la maniera, convenne di dargli l'anno di provisione seicento scudi, e che Taddeo, finita l'opera che aveva fra mano, dovesse andare in Francia a servirlo.
E così arebbe fatto Taddeo, essendo i danari per mettersi a ordine stati lasciati in un banco, se non fossero allora seguite le guerre che furono in Francia e poco appresso la morte di quel Duca.
Tornato dunque Taddeo a fornire in San Marcello l'opera del Frangipane, non poté lavorare molto a lungo senza essere impedito, perciò che, essendo morto Carlo Quinto imperatore, e dandosi ordine di fargli onoratissime esequie in Roma, come a imperatore de' romani, furono allogate a Taddeo, che il tutto condusse in venticinque giorni, molte storie de' fatti di detto imperatore e molti trofei et altri ornamenti, che furono da lui fatti di carta pesta molto magnifici et onorati; onde gli furono pagati per le sue fatiche, e di Federigo et altri che gli avevano aiutato, scudi secento d'oro.
Poco dopo dipinse in Bracciano, al signor Paolo Giordano Orsini, due cameroni bellissimi et ornati di stucchi et oro riccamente, cioè in uno le storie d'Amore e di Psiche e nell'altro, che prima era stato da altri comminciato, fece alcune storie di Alessandro Magno, et altre che gli restarono a fare, continuando i fatti del medesimo, fece condurre a Federigo suo fratello, che si portò benissimo.
Dipinse poi a Messer Stefano del Bufalo, al suo giardino dalla fontana di Trievi, in fresco le Muse d'intorno al fonte Castalio et il monte di Parnaso, che fu tenuta bell'opera.
Avendo gl'Operai della Madonna d'Orvieto, come s'è detto nella vita di Simone Mosca, fatto fare nelle navate della chiesa alcune capelle con ornamenti di marmi e stucchi, e fatto fare alcune tavole a Girolamo Mosciano da Brescia, per mezzo d'amici, udita la fama di lui, condussero Taddeo, che menò seco Federigo, a Orvieto; dove, messo mano a lavorare, condusse nella faccia d'una di dette capelle due figurone grandi, una per la Vita Attiva e l'altra per la Contemplativa, che furono tirate via con una pratica molto sicura, nella maniera che faceva le cose, che molto non studiava.
E mentre che Taddeo lavorava queste, dipinse Federigo nella nicchia della medesima capella tre storiette di San Paolo; alla fine delle quali, essendo amalati amendue, si partirono, promettendo di tornare al settembre; e Taddeo se ne tornò a Roma, e Federigo a Sant'Agnolo con un poco di febbre, la quale passatagli, in capo a due mesi tornò anch'egli a Roma.
Dove la settimana santa vegnente, nella Compagnia di Santa Agata de' fiorentini, che è dietro a Banchi, dipinsero ambidue in quattro giorni per un ricco apparato, che fu fatto per lo giovedì e venerdì santo, di storie di chiaro scuro, tutta la Passione di Cristo nella volta e nicchia di quello oratorio, con alcuni Profeti et altre pitture, che feciono stupire chiunche le vide.
Avendo poi Alessandro cardinale Farnese condotto a buon termine il suo palazzo di Caprarola con architettura del Vignola, di cui si parlerà poco appresso, lo diede a dipignere tutto a Taddeo, con queste condizioni, che non volendosi Taddeo privare degl'altri suoi lavori di Roma, fusse obligato a fare tutti i disegni, cartoni, ordini e partimenti dell'opere, che in quel luogo si avevano a fare, di pitture e di stucchi, che gli uomini i quali avevano a mettere in opera fussono a volontà di Taddeo, ma pagati dal cardinale, che Taddeo fosse obligato a lavorarvi egli stesso due o tre mesi dell'anno, et ad andarvi quante volte bisognava a vedere come le cose passavano e ritoccare quelle che non istessono a suo modo.
Per le quali tutte fatiche gli ordinò il cardinale dugento scudi l'anno di provisione; per lo che Taddeo avendo così onorato trattenimento e l'appoggio di tanto signore, si risolvé a posare l'animo et a non volere più pigliare per Roma, come insino allora aveva fatto, ogni basso lavoro, e massimamente per fuggire il biasimo che gli davano molti dell'arte, dicendo che con certa sua avara rapacità pigliava ogni lavoro per guadagnare con le braccia d'altri quello ch'a molti sarebbe stato onesto trattenimento da potere studiare, come aveva fatto egli nella sua prima giovanezza.
Dal quale biasimo si difendeva Taddeo con dire che lo faceva per rispetto di Federigo e di quell'altro suo fratello, che aveva alle spalle e voleva che con l'aiuto suo imparasseno.
Risolutosi dunque a servire Farnese et a finire la capella di San Marcello, fece dare da Messer Tizio da Spoleti, maestro di casa del detto cardinale, a dipignere a Federigo la facciata d'una sua casa, che aveva in sulla piazza della Dogana, vicina a Santo Eustachio, al quale Federigo fu ciò carissimo, perciò che non aveva mai altra cosa tanto desiderato quanto d'avere alcun lavoro sopra di sé.
Fece dunque di colori in una facciata la storia di Santo Eustachio quando si battezza insieme con la moglie e con i figliuoli, che fu molto buon'opera, e nella facciata di mezzo fece il medesimo Santo, che cacciando vede fra le corna d'un cervio Iesù Cristo crucifisso.
Ma perché Federigo quando fece quest'opera non aveva più che ventotto anni, Taddeo, che pure considerava quell'opera essere in luogo publico e che importava molto all'onore di Federigo, non solo andava alcuna volta a vederlo lavorare, ma anco talora voleva alcuna cosa ritoccare e racconciare.
Per che Federigo, avendo un pezzo avuto pacienza, finalmente traportato una volta dalla collera, come quegli che arebbe voluto fare da sé, prese la martellina e gittò in terra non so che, che aveva fatto Taddeo, e per isdegno stette alcuni giorni che non tornò a casa.
La qual cosa intendendo gl'amici dell'uno e dell'altro, fecciono tanto, che si rapattumarono con questo, che Taddeo potesse correggere e mettere mano nei disegni e cartoni di Federigo a suo piacimento, ma non mai nell'opere che facesse, o a fresco, o a olio, o in altro modo.
Avendo dunque finita Federigo l'opera di detta casa, ella gli fu universalmente lodata e gl'acquistò nome di valente pittore.
Essendo poi ordinato a Taddeo che rifacesse nella sala de' palafrenieri quegl'Apostoli, che già vi aveva fatto di terretta Raffaello, e da Paolo Quarto erano stati gettati per terra, Taddeo fattone uno, fece condurre tutti gli altri da Federigo suo fratello, che si portò molto bene; e dopo feciono insieme nel palazzo di Araceli un fregio colorito a fresco in una di quelle sale.
Trattandosi poi, quasi nel medesimo tempo che lavoravano costoro in Araceli, di dare al signor Federigo Borromeo per donna la signora donna Verginia, figliola del duca Guido Baldo d'Urbino, fu mandato Taddeo a ritrarla, il che fece ottimamente, et avanti che partisse da Urbino fece tutti i disegni d'una credenza, che quel Duca fece poi fare di terra in Castel Durante per mandare al re Filippo di Spagna.
Tornato Taddeo a Roma, presentò al Papa il ritratto, che piacque assai, ma fu tanta la cortesia di quel Pontefice o de' suoi ministri, che al povero pittore non furono, non che altro, rifatte le spese.
L'anno 1560, aspettando il Papa in Roma il signor duca Cosimo e la signora duchessa Leonora sua consorte, et avendo disegnato d'alloggiare loro eccellenze nelle stanze che già Innocenzio Ottavo fabricò, le quali respondono sul primo cortile del palazzo et in quello di San Piero e che hanno dalla parte dinanzi logge che rispondono sopra la piazza dove si dà la benedizione, fu dato carico a Taddeo di fare le pitture et alcuni fregi che v'andavano, e di mettere d'oro i palchi nuovi, che si erano fatti in luogo de' vecchi consumati dal tempo.
Nella qual opera, che certo fu grande e d'importanza, si portò molto bene Federigo, al quale diede quasi cura del tutto Taddeo suo fratello, ma con suo gran pericolo perciò che, dipignendo grottesche nelle dette logge, cascando d'uno ponte che posava sul principale fu per capitare male.
Né passò molto, ch'il cardinale Emulio, a cui aveva di ciò dato cura il Papa, diede a dipignere a molti giovani (acciò fosse finito tostamente) il palazzetto, che è nel bosco di Belvedere, cominciato al tempo di papa Paolo Quarto con bellissima fontana et ornamenti di molte statue antiche, secondo l'architettura e disegno di Pirro Ligorio.
I giovani dunque, che in detto luogo con loro molto onore lavorarono, furono Federigo Bassocci da Urbino, giovane di grande aspettazione, Lionardo Cungii e Durante del Nero, ambidue dal Borgo Sansepolcro, i quali condussono le stanze del primo piano.
A sommo la scala, fatta a lumaca, dipinse la prima stanza Santi Zidi, pittore fiorentino, che si portò molto bene e la maggior, ch'è a canto a questa, dipinse il sopra detto Federigo Zucchero, fratello di Taddeo, e di là da questa, condusse un'altra stanza Giovanni dal Carso Schiavone, assai buon maestro di grottesche.
Ma ancor che ciascuno dei sopra detti si portasse benissimo, nondimeno superò tutti gli altri Federigo in alcune storie che vi fece di Cristo, come la Transfigurazione, le nozze di Cana Galilea et il centurione inginocchiato.
E di due, che ne mancavano, una ne fece Orazio Sammacchini, pittore bolognese, e l'altra un Lorenzo Costa mantovano; il medesimo Federigo Zucchero dipinse in questo luogo la loggetta, che guarda sopra il vivaio, e dopo fece un fregio in Belvedere nella sala principale, a cui si saglie per la lumaca, con istorie di Moisè e Faraone, belle a fatto.
Della qual opera ne diede, non ha molto, esso Federigo il disegno fatto e colorito di sua mano in una bellissima carta al reverendo don Vincenzio Borghini, che lo tiene carissimo e come disegno di mano d'eccellente pittore.
E nel medesimo luogo dipinse il medesimo l'Angelo che amazza in Egitto i primigeniti, facendosi, per fare più presto, aiutare a molti suoi giovani.
Ma nello stimarsi da alcuni le dette opere, non furono le fatiche di Federigo e degl'altri riconosciute come dovevano, per essere in alcuni artefici nostri, in Roma, a Fiorenza e per tutto, molti maligni che, accecati dalle passioni e dall'invidie, non conoscono o non vogliono conoscere l'altrui opere lodevoli et il difetto delle proprie.
E questi tali sono molte volte cagione ch'i begl'ingegni de' giovani, sbigottiti, si raffreddano negli studii e nell'operare.
Nell'offizio della Ruota dipinse Federigo, dopo le dette opere, intorno a un'arme di papa Pio Quarto, due figure maggior del vivo, cioè la Giustizia e l'Equità, che furono molto lodate, dando in quel mentre tempo a Taddeo di attendere all'opera di Caprarola et alla capella di San Marcello.
Intanto Sua Santità, volendo finire ad ogni modo la sala de' re, dopo molte contenzioni state fra Daniello et il Salviati, come s'è detto, ordinò al vescovo di Furlì quanto intorno a ciò voleva che facesse, onde egli scrisse al Vasari a dì tre di settembre l'anno 1561, che volendo il Papa finire l'opera della sala de' re, gl'aveva commesso che si trovassero uomini, i quali ne cavassero una volta le mani, e che perciò, mosso dall'antica amicizia e d'altre cagioni, lo pregava a voler andare a Roma per fare quell'opera, con bona grazia e licenzia del Duca suo signore; perciò che con suo molto onore et utile ne farebbe piacere a Sua Beatitudine, e che acciò quanto prima rispondesse.
Alla quale lettera rispondendo, il Vasari disse che, trovandosi stare molto bene al servizio del Duca et essere delle sue fatiche rimunerato altrimenti che non era stato fatto a Roma da altri pontefici, voleva continuare nel servigio di sua eccellenza per cui aveva da mettere allora mano a molto maggior sala che quella de' re non era, e che a Roma non mancavano uomini di chi servirsi in quell'opera.
Avuta il detto vescovo dal Vasari questa risposta, e con Sua Santità conferito il tutto, dal cardinale Emulio, che novamente aveva avuto cura dal Pontefice di far finire quella sala, fu compartita l'opera, come s'è detto, fra molti giovani, che erano parte in Roma e parte furono d'altri luoghi chiamati.
A Giuseppe Porta da Castel Nuovo della Carfagnana, creato del Salviati, furono date due [del]le maggiori storie della sala; a Girolamo Siciolante da Sermoneta un'altra delle maggiori et un'altra delle minori; a Orazio Sammacchini bolognese un'altra minore, et a Livo da Furlì una simile; a Giambattista Fiorini bolognese un'altra delle minori.
La qual cosa udendo Taddeo e veggendosi escluso, per essere stato detto al detto cardinale Emulio che egli era persona che più attendeva al guadagno che alla gloria e che al bene operare, fece col cardinale Farnese ogni opera per essere anch'egli a parte di quel lavoro, ma il cardinale non si volendo in ciò adoperare, gli rispose che gli dovevano bastare l'opere di Caprarola e che non gli pareva dovere che i suoi lavori dovessero essere lasciati indietro per l'emulazioni e gare degli artefici, aggiungendo ancora che quando si fa bene sono l'opere che danno nome ai luoghi, e non i luoghi all'opere.
Ma ciò nonostante, fece tanto Taddeo con altri mezzi appresso l'Emulio, che finalmente gli fu dato a fare una delle storie minori sopra una porta, non potendo, né per preghi o altri mezzi, ottenere che gli fusse conceduto una delle maggiori.
E nel vero dicono che l'Emulio andava in ciò rattenuto perciò che, sperando che Giuseppo Salviati avesse a passare tutti, era d'animo di dargli il restante e forse gittare in terra quelle che fussero state fatte d'altri.
Poi dunque che tutti i sopra detti ebbono condotte le lor opere a buon termine, le volle tutte il Papa vedere; e così fatto scoprire ogni cosa, conobbe (e di questo parere furono tutti i cardinali et i migliori artefici) che Taddeo s'era portato meglio degl'altri, come che tutti si fossero portati ragionevolmente; per il che ordinò Sua Santità al signor Agabrio, che gli facesse dare dal cardinal Emulio a far un'altra storia delle maggiori.
Onde gli fu allogata la testa, dove è la porta della capella Paulina, nella quale diede principio all'opera, ma non seguitò più oltre, sopravenendo la morte del Papa e scoprendosi ogni cosa per fare il conclave, ancor che molte di quelle storie non avessero avuto il suo fine.
Della quale storia, che in detto luogo cominciò Taddeo, ne abbiamo il disegno di sua mano, e da lui statoci mandato, nel detto nostro libro de' disegni.
Fece nel medesimo tempo Taddeo, oltre ad alcune altre cosette, un bellissimo Cristo in un quadro, che doveva essere mandato a Caprarola al cardinal Farnese, il quale è oggi appresso Federigo suo fratello, che dice volerlo per sé mentre che vive.
La qual pittura ha il lume d'alcuni Angeli, che piangendo tengono alcune torce.
Ma perché dell'opere che Taddeo fece a Caprarola si parlerà a lungo poco appresso nel discorso del Vignuola, che fece quella fabrica, per ora non ne dirò altro.
Federigo intanto, essendo chiamato a Vinezia, convenne col patriarca Grimani di finirgli la capella di San Francesco della Vigna rimasa imperfetta, come s'è detto, per la morte di Battista Franco viniziano.
Ma inanzi che cominciasse detta capella adornò al detto patriarca le scale del suo palazzo di Venezia di figurette poste con molta grazia dentro a certi ornamenti di stucco, e dopo condusse a fresco nella detta capella le due storie di Lazzero e la conversione di Madalena.
Di che n'è il disegno di mano di Federigo nel detto nostro libro.
Appresso nella tavola della medesima capella fece Federigo la storia de' Magi a olio; dopo fece fra Ghioggia e Monselice, alla villa di Messer Gioambatista Pellegrini, dove hanno lavorato molte cose Andrea Schiavone e Lamberto e Gualtieri fiaminghi, alcune pitture in una loggia, che sono molto lodate.
Per la partita dunque di Federigo, seguitò Taddeo di lavorare a fresco tutta quella state nella capella di San Marcello, per la quale fece finalmente nella tavola a olio la conversione di San Paolo; nella quale si vede fatto con bella maniera quel Santo cascato da cavallo, e tutto sbalordito dallo splendore e dalla voce di Gesù Cristo, il quale figurò in una gloria d'Angeli, in atto a punto che pare che dica: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?"; sono similmente spaventati e stanno come insensati e stupidi tutti i suoi, che gli stanno d'intorno.
Nella volta dipinse a fresco dentro a certi ornamenti di stucco tre storie del medesimo Santo: in una quando, essendo menato prigione a Roma, sbarca nell'isola di Malta, dove si vede che nel far fuoco se gl'aventa una vipera alla mano per morderlo, mentre in diverse maniere stanno alcuni marinari quasi nudi d'intorno alla barca; in un'altra è quando cascando dalla finestra uno giovane, è presentato a San Paolo, che in virtù di Dio lo risuscita; e nella terza è la decollazione e morte di esso Santo.
Nelle facce da basso sono, similmente a fresco, due storie grandi: in una San Paolo che guarisce uno stropiato delle gambe, e nell'altra una disputa dove fa rimanere cieco un mago, che l'una e l'altra sono veramente bellissime.
Ma quest'opera essendo per la sua morte rimasa imperfetta, l'ha finita Federigo questo anno e si è scoperta con molta sua lode.
Fece nel medesimo tempo Taddeo alcuni quadri a olio, che dall'ambasciatore di quel re furono mandati in Francia.
Essendo rimaso imperfetto per la morte del Salviati il salotto del palazzo de' Farnesi, cioè mancando due storie nell'entrata, dirimpetto al finestrone, le diede a fare il cardinale Sant'Agnolo Farnese a Taddeo, che le condusse molto bene a fine, ma non però passò Francesco, né anco l'arrivò, nell'opere fatte da lui nella medesima stanza, come alcuni maligni et invidiosi erano andati dicendo per Roma, per diminuire con false calumnie la gloria del Salviati.
E se bene Taddeo si difendeva con dire che aveva fatto fare il tutto a' suoi garzoni e che non era in quell'opera di sua mano se non il disegno e poche altre cose, non furono cotali scuse accettate, perciò che non si deve nelle concorrenzie, da chi vuole alcuno superare, mettere in mano il valore della sua virtù e fidarlo a persone deboli, però che si va a perdita manifesta.
Conobbe adunque il cardinale Sant'Agnolo, uomo veramente di sommo giudizio in tutte le cose e di somma bontà, quanto aveva perduto nella morte del Salviati; imperò che, se bene era superbo, altiero e di mala natura, era nelle cose della pittura veramente eccellentissimo.
Ma tuttavia essendo mancati in Roma i più eccellenti si risolvé quel signore, non ci essendo altri, di dare a dipignere la sala maggiore di quel palazzo a Taddeo, il quale la prese volentieri, con speranza di avere a mostrare con ogni sforzo quanta fusse la virtù e saper suo.
Aveva già Lorenzo Pucci fiorentino cardinal Santiquattro fatta fare nella Trinità una capella e dipignere da Perino del Vaga tutta la volta, e fuori certi Profeti, con due putti che tenevano l'arme di quel cardinale.
Ma essendo rimasa imperfetta e mancando a dipignersi tre facciate, morto il cardinale, que' padri senza aver rispetto al giusto e ragionevole, venderono all'arcivescovo di Corfù la detta capella, che fu poi data dal detto Arcivescovo a dipignere a Taddeo.
Ma quando pure per qualche cagione e rispetto della chiesa fusse stato ben fatto trovar modi di finire la capella, dovevano, almeno in quella parte che era fatta, non consentire che si levasse l'arme del Cardinale per farvi quella del detto Arcivescovo, la quale potevano mettere in altro luogo e non far ingiuria così manifesta alla buona mente di quel Cardinale.
Per aversi dunque Taddeo tant'opere alle mani, ogni dì sollecitava Federigo a tornarsene da Venezia, il quale Federigo, dopo aver finita la capella del patriarca, era in pratica di tòrre a dipignere la facciata principale della sala grande del consiglio, dove già dipinse Antonio Viniziano.
Ma le gare e le contrarietà che ebbe dai pittori veniziani furno cagione che non l'ebbero né essi con tanti lor favori, né egli parimente.
In quel mentre Taddeo, avendo disiderio di vedere Fiorenza e le molte opere che intendeva avere fatto e fare tuttavia il duca Cosimo et il principio della sala grande che faceva Giorgio Vasari amico suo, mostrando una volta d'andare a Caprarola in servizio dell'opera che vi faceva, se ne venne, per un San Giovanni, a Fiorenza, in compagnia di Tiberio Calcagni, giovane scultore et architetto fiorentino, dove oltre la città gli piacquero infinitamente l'opere di tanti scultori e pittori eccellenti, così antichi come moderni; e se non avesse avuto tanti carichi e tante opere alle mani, vi si sarebbe volentieri trattenuto qualche mese.
Avendo dunque veduto l'apparecchio del Vasari per la detta sala, cioè quarantaquattro quadri grandi, di braccia quattro, sei, sette e dieci l'uno, nei quali lavorava figure per la maggior parte di sei et otto braccia, e con l'aiuto solo di Giovanni Strada fiamingo et Iacopo Zucchi, suoi creati, e Battista Naldini, e tutto essere stato condotto in meno d'un anno, n'ebbe grandissimo piacere e prese grand'animo; onde, ritornato a Roma, messe mano alla detta capella della Trinità, con animo d'avere a vincere se stesso nelle storie che vi andavano di Nostra Donna, come si dirà poco appresso.
Ora Federigo, se bene era sollecitato a tornarsene da Vinezia, non poté non compiacere e non starsi quel carnovale in quella città in compagnia d'Andrea Palladio architetto, il quale avendo fatto alli signori della Compagnia della Calza un mezzo teatro di legname, a uso di colosseo, nel quale si aveva da recitare una tragedia, fece fare nell'apparato a Federigo dodici storie grandi, di sette piedi e mezzo l'una per ogni verso, con altre infinite cose de' fatti d'Ircano, re di Ierusalem, secondo il soggetto della tragedia; nella quale opera acquistò Federigo onore assai per la bontà di quella e prestezza con la quale la condusse.
Dopo, andando il Palladio a fondare nel Friuli il palazzo di Civitale, di cui aveva già fatto il modello, Federigo andò con esso lui per vedere quel paese, nel quale disegnò molte cose che gli piacquero.
Poi, avendo veduto molte cose in Verona et in molte altre città di Lombardia, se ne venne finalmente a Firenze, quando a punto si facevano ricchissimi apparati e maravigliosi per la venuta della reina Giovanna d'Austria.
Dove arrivato, fece, come volle il signore Duca, in una grandissima tela, che copriva la scena in testa della sala, una bellissima e capricciosa caccia di colori et alcune storie di chiaro scuro per un arco, che piacquero infinitamente.
Da Firenze andato a Sant'Agnolo a rivedere gli amici e' parenti, arrivò finalmente in Roma alli sedici del vegnente genaio, ma fu di poco soccorso in quel tempo a Taddeo: perciò che la morte di papa Pio Quarto, e poi quella del cardinal Sant'Agnolo, interroppero l'opera della sala de' re e quella del palazzo de' Farnesi, onde Taddeo, che aveva finito un altro appartamento di stanze a Caprarola e quasi condotto a fine la capella di San Marcello, attendeva all'opera della Trinità con molta sua quiete e conduceva il transito di Nostra Donna e gli Apostoli, che sono intorno al cataletto.
Et avendo anco in quel mentre preso per Federigo una capella da farsi in fresco nella chiesa de' preti riformati del Gesù, alla guglia di San Mauro, esso Federigo vi mise subitamente mano.
Mostrava Taddeo (fingendosi sdegnato per avere Federigo troppo penato a tornare) non curarsi molto della tornata di lui, ma nel vero l'aveva carissima, come si vide poi per gl'effetti, conciò fusse che gl'era di molta molestia l'avere a provedere la casa (il quale fastidio gli soleva levare Federigo), et il disturbo di quel loro fratello che stava all'orefice; pure, giunto Federigo, ripararono a molti inconvenienti per potere con animo riposato attendere a lavorare.
Cercavano in quel mentre gl'amici di Taddeo dargli donna, ma egli, come colui che era avezzo a vivere libero e dubitava di quello che le più volte suole avenire, cioè di non tirarsi in casa, insieme con la moglie, mille noiose cure e fastidii, non si volle mai risolvere; anzi, attendendo alla sua opera della Trinità, andava facendo il cartone della facciata maggiore, nella quale andava il salire di Nostra Donna in cielo, mentre Federigo fece in un quadro San Piero in prigione, per lo signor Duca d'Urbino, et un altro dove è una Nostra Donna in cielo, con alcuni Angeli intorno, che doveva essere mandato a Milano; un altro, che fu mandato a Perugia, un'Occasione.
Avendo il cardinale di Ferrara tenuto molti pittori e maestri di stucco a lavorare a una sua bellissima villa, che ha a Tigoli, vi mandò ultimatamente Federigo a dipignere due stanze, una delle quali è dedicata alla Nobiltà e l'altra alla Gloria, nelle quali si portò Federigo molto bene e vi fece di belle e capricciose invenzioni, e ciò finito se ne tornò a Roma alla sua opera della detta capella conducendola, come ha fatto, a fine; nella quale ha fatto un coro di molti Angeli e variati splendori, con Dio Padre che manda lo Spirito Santo sopra la Madonna, mentre è dall'angelo Gabriello annunziata, e messa in mezzo da sei Profeti maggiori del vivo e molto belli.
Taddeo seguitando intanto di fare nella Trinità in fresco l'assunta della Madonna, pareva che fosse spinto dalla natura a far in quell'opera, come ultima, l'estremo di sua possa; e di vero fu l'ultima; perciò che infermato d'un male che a principio parve assai leggeri e cagionato dai gran caldi che quell'anno furono, e poi riuscì gravissimo, si morì del mese di settembre l'anno 1566, avendo prima come buon cristiano ricevuto i Sacramenti della Chiesa e veduto la più parte dei suoi amici, lasciando in suo luogo Federigo suo fratello, ch'anch'egli allora era amalato.
E così in poco tempo, essendo stati levati del mondo il Buonarroto, il Salviati, Daniello e Taddeo, hanno fatto grandissima perdita le nostre arti e particolarmente la pittura.
Fu Taddeo molto fiero nelle sue cose et ebbe una maniera assai dolce e pastosa, e tutto lontana da certe crudezze; fu abondante ne' suoi componimenti e fece molto belle le teste, le mani e gl'ignudi, allontanandosi in essi da molte crudezze, nelle quali fuor di modo si affaticano alcuni per parere d'intendere l'arte e la notomia, ai quali aviene molte volte, come avenne a colui che, per volere essere nel favellare troppo ateniese, fu da una donniciola per non ateniese conosciuto.
Colorì parimente Taddeo con molta vaghezza et ebbe maniera facile, perché fu molto aiutato dalla natura, ma alcuna volta se ne volle troppo servire.
Fu tanto volentoroso d'avere da sé, che durò un pezzo a pigliare ogni lavoro per guadagnare, et insomma fece molte, anzi infinite cose degne di molta lode.
Tenne lavoranti assai per condurre l'opere, perciò che non si può fare altrimenti; fu sanguigno, subito e molto sdegnoso, et oltre ciò dato alle cose veneree, ma nondimeno, ancor che a ciò fusse inclinatissimo di natura, fu temperato e seppe fare le sue cose con una certa onesta vergogna e molto segretamente; fu amorevole degli amici e dove potette giovare loro se n'ingegnò sempre.
Restò coperta alla morte sua l'opera della Trinità et imperfetta la sala grande del palazzo di Farnese, e così l'opere di Caprarola, ma tutte nondimeno rimasero in mano di Federigo suo fratello, il quale si contentano i padroni dell'opera che dia a quelle fine come farà, e nel vero non sarà Federigo meno erede della virtù di Taddeo che delle facultà.
Fu da Federigo data sepoltura a Taddeo nella Ritonda di Roma, vicino al tabernacolo dove è sepolto Raffaello da Urbino del medesimo stato, e certo sta bene l'uno a canto all'altro, perciò che sì come Raffaello d'anni trentasette e nel medesimo dì che era nato morì, cioè il venerdì santo, così Taddeo nacque a dì primo di settembre 1529 e morì alli due dello stesso mese, l'anno 1566.
È d'animo Federigo, se gli fia conceduto, restaurare l'altro tabernacolo pure nella Ritonda e fare qualche memoria in quel luogo al suo amorevole fratello, al quale si conosce obligatissimo.
Ora perché di sopra si è fatto menzione di Iacopo Barozzi da Vignuola e detto che secondo l'ordine et architettura di lui ha fatto l'illustrissimo cardinal Farnese il suo ricchissimo e reale villaggio di Caprarola, dico che Iacopo Barozzi da Vignuola, pittore et architetto bolognese, che oggi ha 58 anni, nella sua puerizia e gioventù fu messo all'arte della pittura in Bologna, ma non fece molto frutto, perché non ebbe buono indirizzo da principio, et anco, per dire il vero, egli aveva da natura molto più inclinazione alle cose d'architettura che alla pittura, come infine allora si vedeva apertamente ne' suoi disegni et in quelle poche opere che fece di pittura, imperò che sempre si vedeva in quella cose d'architettura e prospettiva, e fu in lui così forte e potente questa inclinazione di natura, che si può dire ch'egli imparasse quasi da se stesso i primi principii e le cose più difficili ottimamente in breve tempo, et onde si videro di sua mano, quasi prima che fosse conosciuto, belle e capricciose fantasie di varii disegni, fatti per la più parte a requisizione di Messer Francesco Guicciardini allora governatore di Bologna, e d'alcuni altri amici suoi, i quali disegni furno poi messi in opera di legni commessi e tinti a uso di tarsie da fra' Damiano da Bergamo, dell'Ordine di San Domenico in Bologna.
Andato poi esso Vignola a Roma per attendere alla pittura e cavare di quella onde potesse aiutare la sua povera famiglia, si trattenne da principio in Belvedere con Iacopo Melighini ferrarese, architettore di papa Paolo Terzo, disegnando per lui alcune cose di architettura; ma dopo, essendo allora in Roma un'accademia di nobilissimi gentiluomini e signori, che attendevano alla lezione di Vitruvio, fra' quali era Messer Marcello Cervini, che fu poi papa, monsignor Maffei, Messer Alessandro Manzuoli et altri, si diede il Vignuola per servizio loro a misurare interamente tutte l'anticaglie di Roma et a fare alcune cose secondo i loro capricci, la qual cosa gli fu di grandissimo giovamento nell'imparare e nell'utile parimente.
Intanto, essendo venuto a Roma Francesco Primaticcio, pittore bolognese, del quale si parlerà in altro luogo, si servì molto del Vignuola in formare una gran parte dell'antichità di Roma, per portare le forme in Francia e gettarne poi statue di bronzo simili all'antiche; della qual cosa speditosi il Primaticcio, nell'andare in Francia condusse seco il Vignuola per servirsene nelle cose di architettura e perché gl'aiutasse a gettare di bronzo le dette statue che avevano formate, sì come nell'una e nell'altra cosa fece con molta diligenza e giudizio.
E passati duoi anni, se ne tornò a Bologna, secondo che aveva promesso al conte Filippo Pepoli, per attendere alla fabrica di San Petronio.
Nel qual luogo consumò parecchi anni in ragionamenti e dispute con alcuni, che seco in quei maneggi competevano, senza avere fatto altro che condurre e fatto fare con i suoi disegni il navilio che condusce le barche drento a Bologna, là dove prima non si accostavano a tre miglia, della qual opera non fu mai fatta né la più utile né la migliore, ancor che male ne fosse rimunerato il Vignuola, inventore di così utile e lodevole impresa.
Essendo poi l'anno 1550 creato papa Giulio Terzo, per mezzo del Vasari fu accommodato il Vignuola per architetto di Sua Santità e datogli particolar cura di condurre l'Acqua Vergine, e d'essere sopra le cose della vigna di esso papa Giulio, che prese volentieri a suo servigio il Vignuola per avere avuto cognizione di lui quando fu legato di Bologna.
Nella quale fabrica et altre cose che fece per quel Pontefice, durò molta fatica, ma ne fu male remunerato.
Finalmente avendo Alessandro cardinale Farnese conosciuto l'ingegno del Vignuola e sempre molto favoritolo nel fare la sua fabrica e palazzo di Caprarola, volle che tutto nascesse dal capriccio, disegno et invenzione del Vignuola, e nel vero non fu punto manco il giudizio di quel signore in fare elezione d'un eccellente architettore, che la grandezza dell'animo in mettere mano a così grande e nobile edifizio, il quale, ancor che sia in luogo che si possa poco godere dall'universale essendo fuor di mano, è nondimeno cosa maravigliosa per sito e molto il proposito per chi vuole ritirarsi alcuna volta dai fastidii e tumulti della città.
Ha dunque questo edificio forma di pentagono ed è spartito in quattro appartamenti senza la parte dinanzi, dove è la porta principale, dentro alla quale parte dinanzi è una loggia di palmi quaranta in larghezza et ottanta in lunghezza; in su uno de' lati è girata, in forma tonda, una scala a chiocciola di palmi dieci nel vano degli scaglioni, e venti è il vano del mezzo che dà lume a detta scala, la quale gira dal fondo per insino all'altezza del terzo appartamento più alto, e la detta scala si regge tutta sopra colonne doppie, con cornici che girano in tondo secondo la scala, che è ricca e varia, cominciando dall'ordine dorico e seguitando il ionico, corinto e composto, con richezza di balaustri, nicchie et altre fantasie, che la fanno essere cosa rara e bellissima.
Dirimpetto a questa scala, cioè in sull'altro de' canti che mettono in mezzo la detta loggia dell'entrata, è un appartamento di stanze che comincia da un ricetto tondo, simile alla larghezza della scala, e camina in una gran sala terrena, lunga palmi ottanta e larga quaranta, la quale sala è lavorata di stucchi e dipinta di storie di Giove, cioè la nascita, quando è [nutrito] dalla capra [Amaltea] e che ella è incoronata, con due altre storie che la mettono in mezzo; nelle quali è quando ell'è collocata in cielo fra le quarantaotto imagini; e con un'altra simile storia della medesima capra, che allude, come fanno anco l'altre, al nome di Caprarola.
Nelle facciate di questa sala sono prospettive di casamenti tirati dal Vignuola e colorite da un suo genero, che sono molto belle e fanno parere la stanza maggiore.
A canto a questa sala è un salotto di palmi quaranta, che a punto viene a essere in sull'angolo che segue, nel quale, oltre ai lavori di stucco, sono dipinte cose che tutte dimostrano la Primavera.
Da questo salotto seguitando verso l'altro angolo, cioè verso la punta del pentagono, dove è cominciata una torre, si va in tre camere, larghe ciascuna quaranta palmi e trenta lunghe; nella prima delle quali è di stucchi e pitture, con varie invenzioni, dipinta la State, alla quale stagione è questa prima camera dedicata; nell'altra che segue, è dipinta e lavorata nel medesimo modo la stagione dell'Autunno, e nell'ultima, fatta in simil modo, la quale si difende dalla tramontana, è fatto di simile lavoro l'Invernata.
E così infin qui avemo ragionato (quanto al piano che è sopra le prime stanze sotterranee, intagliate nel tufo, dove sono tinelli, cucine, dispense, cantine) della metà di questo edifizio pentagono, cioè dalla parte destra, dirimpetto alla quale, nella sinistra, sono altre tante stanze a punto e della medesima grandezza.
Dentro ai cinque angoli del pentagono ha girato il Vignuola un cortile tondo, nel quale rispondono con le loro porte tutti gl'appartamenti dell'edifizio, le quali porte, dico, riescono tutte in sulla loggia tonda, che circonda il cortile intorno, e la quale è larga diciotto palmi, et il diametro del cortile resta palmi novantacinque e cinque once.
I pilastri della quale loggia, tramezzata da nicchie che sostengono gl'archi e le volte, essendo accoppiati con la nicchia in mezzo, sono venti, di larghezza palmi quindici ogni due, che altretanto sono i vani degl'archi.
Et intorno alla loggia negl'angoli, che fanno il sesto del tondo, sono quattro scale a chiocciola, che vanno dal fondo del palazzo per fino in cima per commodo del palazzo e delle stanze, con pozzi che smaltiscono l'acque piovane e fanno nel mezzo una citerna grandissima e bellissima, per non dire nulla de' lumi e d'altre infinite commodità, che fanno questa parere, come è veramente, una rara e bellissima fabrica; la quale, oltre all'avere forma e sito di fortezza, è accompagnata di fuori da una scala ovata, da fossi intorno e da ponti levatoi fatti con bell'invenzione e nuova maniera, che vanno ne' giardini pieni di ricche e varie fontane, di graziosi spartimenti di verzure et insomma di tutto quello che a un villaggio veramente reale è richiesto.
Ora, sagliendo per la chioccia grande dal piano del cortile in sull'altro appartamento di sopra, si trovavano finite sopra la detta parte di cui si è raggionato, altre tante stanze, e di più la capella, la quale è dirimpetto alla detta scala tonda principale in su questo piano.
Nella sala, che è a punto sopra quella di Giove e di pari grandezza, sono dipinte di mano di Taddeo e d'i suoi giovani, con ornamenti ricchissimi e bellissimi di stucco, i fatti degl'uomini illustri di casa Farnese.
Nella volta è uno spartimento di sei storie, cioè di quattro quadri e due tondi, che girano intorno alla cornice di detta sala, e nel mezzo tre ovati accompagnati per lunghezza da due quadri minori, in uno de' quali è dipinta la Fama e nell'altro Bellona.
Nel primo de' tre ovati è la Pace, in quel del mezzo l'arme vecchia di casa Farnese col cimiero, sopra cui è un liocorno, e nell'altro la Religione.
Nella prima delle sei dette storie, che è un tondo, è Guido Farnese con molti personaggi ben fatti intorno, e con questa inscrizzione sotto: GUIDO FARNESIUS URBIS VETERIS PRINCIPATUM, CIVIBUS IPSIS DEFERENTIBUS ADEPTUS, LABORANTI INTESTINIS DISCORDIIS CIVITATI, SEDITIOSA FACTIONE EIECTA, PACEM ET TRANQUILLITATEM RESTITUIT, ANNO 1323.
In un quadro lungo è Pietro Nicolò Farnese, che libera Bologna, con questa iscrizzione sotto: PETRUS NICOLAUS, SEDIS ROMANAE POTENTISSIMIS HOSTIBUS MEMORABILI PRAELIO SUPERATIS, IMMINENTI OBSIDIONIS PERICULO BONONIAM LIBERAT, ANNO SALUTIS 1361.
Nel quadro, che è canto a questo, è Pietro Farnese, fatto capitano de' fiorentini, con questa iscrizzione: PETRUS FARNESIUS REIPUBLICAE IMPERATOR, MAGNIS PISANORUM COPIIS ...
URBEM FLORENTIAM TRIUMPHANS INGREDITUR, ANNO 1362.
Nell'altro tondo, che è dirimpetto al sopra detto, è un altro Pietro Farnese, che rompe i nemici della Chiesa romana a Orbatello, con la sua inscrizzione.
In uno de' due altri quadri, che sono eguali, è il signor Ranieri Farnese fatto generale de' fiorentini in luogo del sopra detto signor Pietro suo fratello, con questa iscrizzione: RAINERIUS FARNESIUS A FLORENTINIS, DIFICILI REIPUBLICAE TEMPORE, IN PETRI FRATRIS MORTUI LOCUM, COPIARUM OMNIUM DUX DELIGITUR, ANNO 1362.
Nell'altro quadro è Ranuccio Farnese fatto da Eugenio Terzo generale della Chiesa, con questa iscrizzione: RANUTIUS FARNESIUS, PAULI TERTII PAPAE AVUS, EUGENIO TERTIO PONTEFICE MAXIMO ROSAE AUREAE MUNERE INSIGNITUS, PONTIFICII EXERCITUS IMPERATOR CONSTITUITUR, ANNO CHRISTI 1435.
Insomma sono in questa volta un numero infinito di bellissime figure, di stucchi et altri ornamenti messi d'oro.
Nelle facciate sono otto storie, cioè due per facciata: nella prima, entrando a man ritta, è in una papa Giulio Terzo, che conferma Parma e Piacenza al duca Ottavio et al principe suo figliuolo, presenti il cardinale Farnese, Sant'Agnolo suo fratello, Santa Fiore camarlingo, Salviati il vecchio, Chieti, Carpi, Polo e Morone, tutti ritratti di naturale con questa inscrizione: IULIUS III PONTIFEX MAXIMUS, ALEXANDRO FARNESIO AUCTORE, OCTAVIO FARNESIO EIUS FRATRI, PARMAM AMMISSAM RESTITUIT, ANNO SALUTIS 1550.
Nella seconda è il cardinale Farnese, che va in Vormanzia, legato all'imperatore Carlo Quinto, e gl'escono incontra sua maestà et il principe suo figliuolo, con infinita moltitudine di baroni e con essi il re de' romani, con la sua inscrizione.
Nella facciata a man manca entrando, è nella prima storia la guerra d'Alemagna contra i luterani, dove fu legato il duca Ottavio Farnese l'anno 1546, con la sua inscrizione.
Nella seconda è il detto cardinale Farnese e l'Imperatore con i figliuoli, i quali tutti e quattro sono sotto il baldacchino portato da diversi, che vi sono ritratti di naturale, in fra i quali è Taddeo maestro dell'opera, con una comitiva di molti signori intorno.
In una delle facce, o vero testate, sono due storie, et in mezzo un ovato, dentro al quale è il ritratto del re Filippo con questa inscrizzione: PHILIPPO HISPANIARUM REGI MAXIMO, OB EXIMIA IN DOMUM FARNESIAM MERITA.
In una delle storie è il duca Ottavio, che prende per isposa madama Margherita d'Austria con papa Paulo Terzo in mezzo, con questi ritratti: del cardinale Farnese giovane e del cardinale di Carpi, del duca Pierluigi, Messer Durante, Eurialo da Cingoli, Messer Giovanni Riccio da Monte Pulciano, il vescovo di Como, la signora Livia Colonna, Claudia Mancina, Settimia e donna Maria di Mendozza; nell'altra è il duca Orazio, che prende per isposa la sorella del re Enrico di Francia, con questa inscrizzione: HENRICUS II VALESIUS GALLIAE REX HORATIO FARNESIO CASTRI DUCI, DIANAM FILIAM IN MATRIMONIUM COLLOCAT, ANNO SALUTIS 1552.
Nella quale storia, oltre al ritratto di essa Diana col manto reale e del duca Orazio suo marito, sono ritratti: Caterina Medici reina di Francia, Margherita sorella del re, il re di Navarra, il connestabile, il duca di Guisa, il duca di Nemors, l'amiraglio principe di Condé, il cardinale di Loreno giovane, Guisa non ancor cardinale e 'l signor Piero Strozzi, madama di Monponsier, madamisella di Roano.
Nell'altra testata rincontro alla detta, sono similmente due altre storie, con l'ovato in mezzo, nel quale è il ritratto del re Enrico di Francia con questa inscrizione: HENRICO FRANCORUM REGI MAXIMO FAMILIAE FARNESIAE CONSERVATORI.
In una delle storie, cioè in quella che è a man ritta, papa Paulo Terzo veste il duca Orazio, che è inginocchioni, una veste sacerdotale e lo fa prefetto di Roma, con il duca Pierluigi appresso et altri signori intorno, con queste parole: PAULUS III PONTIFEX MAXIMUS HORATIUM FARNESIUM NEPOTEM SUMMAE SPEI ADOLESCENTEM PRAEFECTUM URBIS CREAT, ANNO SALUTIS 1549.
Et in questa sono questi ritratti: il cardinal di Parigi, Viseo, Morone, Badia, Trento, Sfondrato et Ardinghelli.
A canto a questa, nell'altra storia, il medesimo Papa dà il baston generale a Pierluigi et ai figliuoli, che non erano ancor cardinali, con questi ritratti: il Papa, Pierluigi Farnese, camarlingo, duca Ottavio, Orazio, cardinale di Capua, Simonetta, Iacobaccio, San Iacopo, Ferrara, signor Ranuccio Farnese giovanetto, il Giovio, il Molza e Marcello Cervini, che poi fu papa, marchese di Marignano, signor Giovambattista Castaldo, signor Alessandro Vitelli et il signor Giovambattista Savelli.
Venendo ora al salotto, che è a canto a questa sala, che viene a essere sopra alla Primavera, nella volta adorna con un partimento grandissimo e ricco di stucchi et oro, è nello sfondato del mezzo l'incoronazione di papa Paulo Terzo con quattro vani che fanno epitaffio in croce, con queste parole: PAULUS III FARNESIUS PONTIFEX MAXIMUS, DEO ET HOMINIBUS APPROBANTIBUS, SACRA TIARA SOLEMNI RITU CORONATUR, ANNO SALUTIS 1534, III NONARUM NOVEMBRIS.
Seguitano quattro storie sopra la cornice, cioè sopra ogni faccia la sua.
Nella prima il Papa benedisce le galee a Civitavecchia per mandarle a Tunis di Barberia l'anno 1535, nell'altra il medesimo scomunica il re d'Inghilterra l'anno 1537, col suo epitaffio; nella terza è un'armata di galee, che prepararono l'imperadore e' viniziani contra il Turco con autorità et aiuto del Pontefice l'anno 1538; nella quarta quando, essendosi Perugia ribellata dalla Chiesa, vanno i perugini a chiedere perdono l'anno 1540.
Nelle facciate di detto salotto sono quattro storie grandi, cioè una per ciascuna faccia, e tramezzate da finestre e porte.
Nella prima è in una storia grande Carlo Quinto imperatore, che tornato da Tunis vittorioso bacia i piedi a papa Paulo Farnese in Roma l'anno 1535; nell'altra, che è sopra la porta, è a man manca la pace che papa Paulo Terzo, a Bussel, fece fare a Carlo Quinto imperatore e Francesco Primo di Francia l'anno 1538, nella quale storia sono questi ritratti: Borbone vecchio, il re Francesco, il re Enrico, Lorenzo vecchio, Turnone, Lorenzo giovane, Borbone giovane e due figliuoli del re Francesco.
Nella terza il medesimo Papa fa legato il cardinal di Monte al Concilio di Trento, dove sono infiniti ritratti.
Nell'ultima, che è fra le due finestre, il detto fa molti cardinali per la preparazione del Concilio, fra i quali vi sono quattro che dopo lui successivamente furono papi: Iulio Terzo, Marcello Cervino, Paulo Quarto e Pio Quarto.
Il qual salotto, per dirlo brevemente, è ornatissimo di tutto quello che a sì fatto luogo si conviene.
Nella prima camera a canto a questo salotto, dedicata al vestire, che è lavorata anch'essa di stucchi e d'oro riccamente, è nel mezzo un sacrifizio con tre figure nude, fra le quali è un Alessandro Magno armato, che butta sopra il fuoco alcune vesti di pelle, et in molte altre storie, che sono nel medesimo luogo, è quando si trovò il vestire d'erbe e d'altre cose salvatiche, che troppo sarebbe volere il tutto pienamente raccontare.
Di questa si entra nella seconda camera, dedicata al Sonno, la quale quando ebbe Taddeo a dipignere ebbe queste invenzioni dal comendatore Anniballe Caro, di commessione del cardinale.
E perché meglio s'intenda il tutto, porremo qui l'aviso del Caro, con le sue proprie parole, che sono queste:
I soggetti che il cardinale mi ha comandato che io vi dia, per le pitture del palazzo di Caprarola, non basta che vi si dichino a parole, perché oltre all'invenzione vi si ricerca la disposizione, l'attitudini, i colori et altre avertenze assai, secondo le descrizioni che io truovo delle cose che mi ci paiono al proposito; per che distendarò in carta tutto che sopra ciò mi occorre più brevemente e più distintamente ch'io potrò.
E prima, quanto alla camera della volta piatta, che d'altro per ora non mi ha dato carico, mi pare che essendo ella destinata per il letto della propria persona di sua signoria illustrissima, vi si debbano fare cose convenienti al luogo e fuor dell'ordinario, sì quanto all'invenzione, come quanto all'artifizio.
Ma per dir prima il mio concetto in universale, vorrei che vi si facesse una Notte, perché oltre che sarebbe appropriata al dormire, sarebbe cosa non molto divulgata e sarebbe diversa dall'altre stanze e darebbe occasione a voi di far cose belle e rare dell'arte vostra; perché i gran lumi e le grand'ombre che ci vanno soglion dare assai di vaghezza e di rilievo alle figure, e' mi piacerebbe che il tempo di questa Notte fosse in su l'alba, perché le cose che vi si rapresenteranno siano verisimilmente visibili.
E per venire ai particolari et alla disposizion d'essi, è necessario che ci intendiamo prima del sito e del ripartimento della camera.
Diciamo adunque che ella sia, come è, divisa in volta et in parete, o facciate che le vogliamo chiamare; la volta poi in un sfondato di forma ovale nel mezzo et in quattro peducci grandi in su' canti, i quali stringendosi di mano in mano e continuandosi l'uno con l'altro lungo le facciate, abracciano il sopra detto ovato.
Le parte poi sono pur quattro e da un peduccio all'altro fanno quattro lunette; e per dare il nome a tutte queste parti con le divisioni che faremo della camera tutta, potremo nominare d'ogn'intorno le parti sue da ogni banda.
Dividasi dunque in cinque siti: il primo sarà da capo, e questo presupongo che sia verso il giardino; il secondo, che sarà l'oposito a questo, diremo da' piè; il terzo da man destra chiamaremo destro; il quarto dalla sinistra, sinistro; il quinto, poiché sarà fra tutti questi, si dirà mezzo.
E con questi nomi nominando tutte le parti, diremo come dir lunetta da capo, facciata da piedi, sfondato sinistro, corno destro, e se alcun'altra parte ci converrà nominare; et ai peducci, che stanno nei canti fra dua di questi termini, daremo nome dell'uno e dell'altro.
Così determinaremo ancora di sotto nel pavimento il sito del letto, il quale dovrà esser secondo me lungo la facciata da' piè, con la testa volta alla faccia sinistra.
Or nominate le parti tutte, torniamo a dar forma a tutte insieme, di poi a ciascuna da sé.
Primieramente lo sfondato della volta, o veramente l'ovato, secondo che il cardinale ha ben considerato, si fingerà che sia tutto cielo; il resto della volta, che saranno i quattro peducci con quel ricinto che avemo già detto che abbraccia intorno l'ovato, si farà parer che sia la parte non rotta dentro dalla camera e che posi sopra le facciate con qualche bell'ordine di architettura a vostro modo.
Le quattro lunette vorrei che si fingessero sfondate ancor esse, e dove l'ovato di sopra rappresenta cielo, queste rappresentassero cielo, terra e mare di fuor della camera, secondo le figure e l'istorie che vi si faranno.
E perché, per esser la volta molto stiacciata, le lunette riescano tante basse che non sono capaci se non di picciole figure, io farei di ciascuna lunetta tre parti per longitudine, e lassando le streme a filo con l'altezza de' peducci, sfonderei quella di mezzo sotto esso filo, per modo che ella fusse come un finestrone alto e mostrasse il di fuora della stanza con istorie e figure grandi a proporzione dell'altre; e le due estremità che restano di qua e di là come corni di essa lunetta (che corni di qui inanzi si dimandaranno), rimanessero basse, secondo che vengono dal filo in su, per fare in ciaschedun di essi una figura a sedere o a giacere, o dentro o di fuora della stanza, che le vogliate far parere, secondo che meglio ritornerà; e questo che dico d'una lunetta, dico di tutt'e quattro.
Ripigliando poi tutta la parte di dentro della camera insieme, mi parrebbe che ella dovesse esser per se stessa tutta in oscuro, se non quanto li sfondati, così dell'ovato di sopra come de' finestroni dalli lati, gli dessero non so che di chiaro, parte dal cielo con i lumi celesti, parte dalla terra con fuochi che vi si faranno, come si dirà poi.
E con tutto ciò dalla mezza stanza in giù vorrei che quanto più si andasse verso il da piè, dove sarà la Notte, tanto vi fusse più scuro, e così dall'altra metà in su, secondo che da mano in mano più si avvicinasse al capo dove sarà l'Aurora, si andasse tutta via più illuminando.
Così disposto il tutto, veniamo a divisar i soggetti dando a ciascheduna parte il suo.
Nell'ovato, che è nella volta, si facci a capo di essa, come avemo detto, l'Aurora.
Questa truovo che si puol fare in più modi, ma io scerrò di tutti quello che a me pare che si possi far più graziosamente in pittura.
Facciasi dunque una fanciulla di quella bellezza che i poeti si ingegnano di esprimere con parole, componendola di rose, d'oro, di porpora, di rugiada, di simil vaghezze, e questo quanto ai colori e carnagione.
Quanto all'abito, componendone pur di molti uno che paia più al proposito, si ha da considerare che ella, come ha tre stati e tre colori distinti, così ha tre nomi: Alba, Vermiglia e Rancia; per questo gli farei una vesta fino alla cintura, candida, sottile e come trasparente; dalla cintura infino alle ginocchia una sopraveste di scarlatto, con certi trinci e gruppi, che imitassero quei suoi riverberi nelle nuvole quando è vermiglia; dalle ginocchia in giù fino a' piedi di color d'oro per rappresentarla quando è rancia, avvertendo che questa veste deve esser fessa, cominciando dalle cosce per fargli mostrare le gambe ignude; e così la veste, come la sopraveste, siano scosse dal vento e faccino pieghe e svolazzi.
Le braccia vogliono essere ignude ancor esse d'incarnagione pur di rose; negl'omeri gli si facciano l'ali di varii colori, in testa una corona di rose, nelle mani gli si ponga una lampada, o una facella accesa, o vero gli si mandi avanti un amore che porti una face et un altro dopo, che con un'altra svegli Titone; sia posta a sedere in una sedia indorata, sopra un carro simile, tirato o da un Pegaso alato o da dua cavalli, che nell'un modo e nell'altro si dipigne.
I colori de' cavalli siano dell'uno splendente in bianco, dell'altro splendente in rosso per denotargli secondo i nomi che Omero dà loro di Lampo e di Fetonte; facciasi sorgere da una marina tranquilla, che mostri di esser crespa, luminosa e brillante.
Dietro nella facciata gli si facci dal corno destro Titone suo marito, e dal sinistro Cefalo suo innamorato; Titone sia un vecchio tutto canuto sopra un letto ranciato, o veramente in una culla, secondo quelli che per la gran vecchiaia lo fanno rimbambito, e facciasi in attitudine di tenerla o di vagheggiarla o di sospirarla, come la sua partita gli rincresce; Cefalo un giovane bellissimo vestito di un farsetto soccinto nel mezzo, con i sua usattini in piedi, con il dardo in mano, che abbi il ferro inorato, con un cane a lato in modo di entrare in un bosco, come non curante di lei per l'amore che porta alla sua Procri.
Tra Cefalo e Titone, nel vano del finestrone dietro l'Aurora, si faccino spontare alcuni pochi razzi di sole di splendore più vivo di quel dell'Aurora, ma che sia poi impedito, che non si vegga, da una gran donna, che li si pari dinanzi.
Questa donna sarà la Vigilanza e vuol esser così fatta, che paia illuminata dietro alle spalle dal sole che nasce e che ella per prevenirlo si cacci dentro alla camera per il finestrone che si è detto; la sua forma sia d'una donna alta, splendida, valorosa, con gl'occhi bene aperti, con le ciglia ben inarcate, vestita di velo trasparente fino ai piedi, succinta nel mezzo della persona, con una mano si appoggi a un'asta e con l'altra raccolga una falda di gonna, stia ferma sul piè destro, e tenendo il piè sinistro sospeso, mostri da un canto di posar saldamente e dall'altro di avere pronti i passi; alzi il capo a mirare l'Aurora e paia sdegnata che ella si sia levata prima di lei; porti in testa una celata con un gallo suvi, il qual dimostri di battere l'ali e di cantare; e tutto questo dietro l'Aurora; ma davanti a lei nel cielo dello sfondato farei alcune figurette di fanciulle l'una dietro l'altra, quali più chiare e quali meno, secondo che elle meno o più fussero appresso al lume di essa Aurora, per significare l'Ore, che vengono inanzi al sole et a lei.
Queste Ore siano fatte con abiti, ghirlande et acconciature da vergini, alate con le man piene di fiori, come se gli spargessero.
Nell'opposita parte, a piè dell'ovato, sia la Notte, e come l'Aurora sorge, questa tramonti; come ella ne mostra la fronte, questa ne volga le spalle; questa esca di un mar tranquillo, questa se imerga in uno che sia nubiloso e fosco; i cavalli di quella vengano con il petto inanzi, di questa mostrino le groppe, e così la persona istessa della Notte sia varia del tutto a quella dell'Aurora.
Abbia la carnagione nera, nero il manto, neri i capelli, nere l'ali e queste siano aperte come se volasse; tenga le mani alte e dall'una un bambino bianco che dorma per significare il Sonno, dall'altra un altro nero, che paia dormire e significhi la Morte, perché de ambidua questi dicesi esser madre; mostri di cadere con il capo inanzi fitto in un'ombra più folta, et il ciel d'intorno sia di azzurro più carico e sparso di molte stelle.
Il suo carro sia di bronzo con le rote distinte in quattro spazii, per toccare le sua quattro vigilie.
Nella facciata poi dirimpetto, cioè da' piè, come l'Aurora ha di qua e di là Titone e Cefalo, questa abbia l'Oceano e Atlante.
L'Oceano si farà dalla destra un omaccione con barba e crini bagnati e rabbuffati, e così de' crini come della barba gli escano a post'a posta alcune teste di delfini; accennisi appoggiato sopra un carro tirato da balene, con i tritoni davanti con le buccine, intorno con le ninfe, e dietro alcune bestie di mare.
Se non con tutte queste cose, almeno con alcune, secondo lo spazio che averete, che mi par poco a tanta materia.
Per Atlante facciasi dalla sinistra un monte, che abbia il petto, le braccia e tutte le parti disopra d'uomo robusto, barbuto e muscoloso, in atto di sostenere il cielo come è la sua figura ordinaria.
Più a basso medesimamente, incontro la Vigilanzia, che avemo posta sotto l'Aurora, si dovrebbe porre il Sonno; ma perché mi par meglio che stia sopra il letto, per alcune ragioni, porremo in suo luogo la Quiete; questa Quiete truovo bene che ell'era adorata e che l'era dedicato il tempio, ma non truovo già come fosse figurata; se già la sua figura non fosse quella della Sicurtà, il che non credo, perché la sicurtà è dell'animo e la quiete è del corpo.
Figuraremo dunque la Quiete da noi in questo modo: una giovane di aspetto piacevole, che come stanca non giaccia, ma segga e dorma con la testa appoggiata sopra al braccio sinistro; abbi un'asta che se gli posi sopra nella spalla e da piè ponti in terra, e sopra essa lasci cadere il braccio spendolone e vi tenga una gamba cavalcioni in atto di posare per ristoro e non per infingardia.
Tenga una corona di papaveri et un scettro apartato da un canto, ma non sì che non possi prontamente ripigliarlo, e dove la Vigilanza ha in capo un gallo che canta, a questa si puol fare una gallina che covi, per mostrare che ancora posando fa la sua azzione.
Dentro all'ovato medesimo, dalla parte destra, farassi una Luna.
La sua figura sarà di una giovane di anni circa diciotto, grande, di aspetto virginale, simile ad Apollo, con le chiome lunghe, folte e crespe alquanto, o con uno di quelli cappelli in capo che si dicano acidari, largo di sotto et acuto e torto in cima come il corno del doge, con due ali verso la fronte, che pendano e cuoprino l'orecchie e fuori della testa con due cornette, come da una luna crescente, o secondo Apuleio con un tondo schiacciato, liscio e risplendente a guisa di specchio in mezzo la fronte, che di qua e di là abbia alcuni serpenti e sopra certe poche spighe, con una corona in capo o di dittamo, secondo i Greci, o di diversi fiori, secondo Marziano, o di elicriso, secondo alcun altri.
La veste, chi vuol che sia lunga fino a' piedi, chi corta fino alle ginocchia, succinta sotto le mamelle et attraversata sotto l'ombilico alla ninfale, con un mantelletto in spalla affibbiato sul destro muscolo, e con usattini in piede vagamente lavorati.
Pausania alludendo credo a Diana, la fa vestita di pelle di cervo; Apuleio, pigliandola forse per Iside, gli dà un abito di velo sottilissimo di varii colori: bianco, giallo, rosso, et un'altra veste tutta nera, ma chiara e lucida, sparsa di molte stelle con una luna in mezzo e con un lembo d'intorno, con ornamenti di fiori e di frutti pendente a guisa di fiocchi.
Pigliate un di questi abiti, qual meglio vi torna.
Le braccia fate che siano ignude, con le lor maniche larghe, con la destra tenga una face ardente, con la sinistra un arco allentato, il quale secondo Claudiano è di corno e secondo Ovidio di oro.
Fatelo come vi pare et attaccategli il turcasso agl'omeri.
Si truova in Pausania con doi serpenti nella sinistra, et in Apuleio con un vaso dorato, col manico di serpe, il quale pare come gonfio di veleno, e col piede ornato di foglie di palme; ma con questo credo che vogli significare Iside; però mi risolvo che gli facciate l'arco come disopra.
Cavalchi un carro tirato da cavalli, un nero, l'altro bianco, o se vi piacesse di variare, da un mulo, secondo Festo Pompeio, o da giovenchi, secondo Claudiano et Ausonio, e facendo giovenchi vogliono avere le corna molte piccole et una macchia bianca sul destro fianco.
L'attitudine della Luna deve essere di mirare sopra dal cielo dell'ovato verso il corno dell'istessa facciata che guarda il giardino, dove sia posto Endimione suo amante e s'inchini dal carro per baciarlo; e non si potendo per la interposizione del ricinto lo vagheggi et illumini del suo splendore.
Per Endimione bisogna fare un bel giovane pastore, adormentato a' piè del monte Lamio.
Nel corno dell'altra parte sia Pane, dio de' pastori, inamorato di lei, la figura del quale è notissima.
Pongaseli una sampogna al collo e con ambe le mani stenda una matassa di lana bianca verso la Luna, con che fingono che si acquistasse l'amore di lei e con questo presente mostri di pregarla che scenda a starsi con lui.
Nel resto del vano del medesimo finestrone si facci un'istoria e sia quella de' sagrificii lemurii, che usavano fare di notte per cacciare i mali spiriti di casa.
Il rito di questi era con le man lavate e co' piedi scalzi andare attorno spargendo fava nera, rivolgendosela prima per bocca e poi gittandosela dietro le spalle, e tra questi erano alcuni, che sonando bacini e tali instrumenti di rame, facevano romore.
Dal lato sinistro dell'ovato si farà Mercurio nel modo ordinario con il suo cappelletto alato, con i talari a' piedi, col caduceo alla sinistra, con borsa nella destra, ignudo tutto, salvo con quello suo mantelletto nella spalla, giovane bellissimo, ma di una bellezza naturale, senza artifizio alcuno; di volto allegro, d'occhi spiritosi, sbarbato o di prima lanuggine, stretto nelle spalle e di pel rosso.
Alcuni gli pongono l'ali sopra l'orecchie e gli fanno uscire da' capelli certe penne d'oro.
L'attitudine fate a vostro modo, pur che mostri di calarsi dal cielo per infonder sonno, e che rivolto verso la parte del letto, paia di voler toccare il padiglione con la verga.
Nella facciata sinistra, nel corno verso la facciata da' piè, si potria fare i Lari dèi, che sono due figliuoli i quali erano genii delle case private, cioè due giovani vestiti di pelli di cani, con certi abiti soccinti e gittati sopra la spalla sinistra per modo che venghino sotto la destra per mostrare che siano disinvolti e pronti alla guardia di casa.
Stiano a sedere l'uno a canto l'altro, tenghino un'asta per ciascuno nella destra et in mezzo di essi sia un cane, e disopra loro sia un piccolo capo di Vulcano, con un cappelletto in testa et a canto con una tanaglia da fabbri.
Nell'altro corno verso la facciata da capo farei un Batto, che per avere rivelato le vacche rubate da lui, sia convertito in sasso.
Facciasi un pastor vecchio a sedere, che col braccio destro e con l'indice mostri il luogo dove le vacche erano ascoste, e col sinistro si appoggi a un pedone o vincastro, bastone de' pastori, e da mezzo in giù sia sasso nero di colore di paragone in che fu convertito.
Nel resto poi del finestrone dipingasi l'istoria del sacrifizio, che faceano gli antichi ad esso Mercurio, perché il sonno non si interrompesse.
E per figurare questo bisogna fare un altare con suvi la sua statua, a piede un fuoco e d'intorno genti che vi gettano legne ad abruciare e che con alcune tazze in mano piene di vino, parte ne spargano e parte ne beano.
Nel mezzo dell'ovato, per empier tutta la parte del cielo, farei il Crepuscolo, come mezzano tra l'Aurora e la Notte.
Per significare questo, truovo che si fa un giovanetto tutto ignudo, talvolta con l'ali talvolta senza, con due facelle accese, l'una delle quali faremo che si accenda a quella dell'Aurora e l'altra che si stenda verso la Notte.
Alcuni fanno che questo giovanetto con le due faci medesime cavalchi sopra un cavallo del Sole o dell'Aurora, ma questo non farebbe componimento a nostro proposito, però lo faremo come di sopra e volto verso la Notte, ponendogli dietro fra le gambe una gran stella, la quale fosse quella di Venere, perché Venere e Fosforo et Espero e Crepuscolo pare che si tenga per una cosa medesima.
E da questa in fuori, di verso l'Aurora, fate che tutte le minori stelle siano sparite, et avendo infin qui ripieno tutto il di dentro della camera, così di sopra nell'ovato, come nelli lati e nelle facciate, resta che venghiamo al didentro, che sono nella volta i quattro peducci, e cominciando da quello che è sopra 'l letto, che viene a essere tra la facciata sinistra e quella da' piè, faccisi il Sonno, e per figurare lui bisogna prima figurare la sua casa.
Ovidio la pone in Lenno e ne' Cimerii, Omero nel mare Egeo, Stazio appresso alli Etiopi, l'Ariosto nell'Arabia; dovunque si sia, basta che si finga un monte, qual se ne può imaginare uno, dove siano sempre tenebre e non mai sole; a' piè di esso una concavità profonda, per dove passi un'acqua come morta, per mostrare che non mormori, e sia di color fosco, perciò che la fanno un ramo di Lete; dentro questa concavità sia un letto, il quale fingendo d'essere d'ebano, sarà di color nero e di neri panni si cuopra.
In questo sia collocato il Sonno, un giovane di tutta bellezza, perché bellissimo e placidissimo lo fanno, ignudo secondo alcuni, e secondo alcuni altri vestito di due vesti, una bianca di sopra, l'altra nera di sotto, con l'ali in sugl'omeri, e secondo Stazio ancora nella cima del capo.
Tenga sotto il braccio un corno, che mostri rovesciare sopra 'l letto un liquore livido per denotare oblivione, ancora che altri lo facciano pieno di frutti; in una mano abbi la verga, nell'altra tre vesciche di papavero; dorma come infermo, col capo e con le membra languide e come abandonato nel dormire; d'intorno al suo letto si vegga Morfeo, Icalo e Fantaso e gran quantità di Sogni, che tutti questi sono suoi figliuoli.
I Sogni siano certe figurette alate di bell'aspetto, altre di brutto, come quelli che parte dilettano e spaventano; abbiano l'ali ancor essi et i piedi storti come instabili et incerti, che se ne volino e si girino intorno a lui, facendo come una rappresentazione con trasformarsi in cose possibili et impossibili.
Morfeo è chiamato da Ovidio artefice e fingitore di figure, e però lo farei in atto di figurare maschere di variati mostacci, ponendone alcune di esse a' piedi; Icalo dicano che si trasforma esso stesso in più forme, e questo figurerei per modo, che nel tutto paresse uomo et avesse parti di fiera, di uccello, di serpente come Ovidio medesimo lo descrive; Fantaso vogliano che si trasmuti in diverse cose insensate, e questo si puole rappresentare ancora, con le parole di Ovidio, parte di sasso, parte d'acqua, parte di legno.
Fingasi che in questo luogo siano due porte, una di avorio onde escano i sogni falsi, et una di corno onde escano i veri, et i veri sieno coloriti più distinti, più lucidi e meglio fatti; i falsi, confusi, foschi et imperfetti.
Nell'altro peduccio, tra la facciata da' piè et a man destra, farete Brinto, dea de' vaticinii et interpretante de' sogni.
Di questa non truovo l'abito, ma la farei ad uso di sibilla, assisa a' piè di quell'olmo descritto da Virgilio sotto le cui frondi pone infinite imagini, mostrando che sì come caggiano dalle sue fronde, così gli volino d'intorno nella forma che avemo loro data, e come si è detto, quale più chiare, quale più fosche, alcune interrotte, alcune confuse e certe svanite quasi del tutto per rappresentare con esse i sogni, le visioni, gli oracoli, le fantasme e le vanità che si veggono dormendo, che fin di queste cinque sorti par che le faccia Macrobio; et ella stia come in astratto per interpretarle, e d'intorno abbi genti, che gli offeriscono panieri pieni di ogni sorte di cose, salvo di pesce.
Nel peduccio poi tra la facciata destra e quella di capo starà convenientemente Arpocrate, dio del silenzio, perché rappresentandosi nella prima vista a quelli che entrano dalla porta che viene dal camerone dipinto, avvertirà gl'intranti che non faccino strepito.
La figura di questo è di un giovane o putto più tosto di colore nero, per essere dio degli Egizii, col dito alla bocca in atto di comandare che si taccia.
Porti in mano un ramo di persico, e se pare, ghirlanda delle sue foglie.
Fingano che nascesse debile di gambe, e che essendo ucciso, la madre Iside lo resuscitasse, e per questo altri lo fanno disteso in terra, altri in grembo di essa madre, con piè congiunti.
E per accompagnamento dell'altre figure, io lo farei pur dritto et appoggiato in qualche modo, o veramente a sedere come quello dell'illustrissimo cardinale Sant'Agnolo, il quale è anco alato e tiene un corno di dovizia.
Abbia gente intorno che gli offeriscono, come era solito, primizie di lenticchie et altri legumi e di persichi sopra detti.
Altri facevano per questo medesimo dio una figura senza faccia, con un cappelletto in testa, con una pelle di lupo intorno, tutto coperto d'occhi e di orecchi.
Fate di questi qual vi pare.
Nell'ultimo peduccio, tra la facciata da capo e la sinistra, sarà ben locata Angerona, dea della segretezza, che per venire di dentro alla porta dell'entrata medesima, amonirà quelli che escono di camera a tener segreto tutto quello che hanno inteso e veduto, come si conviene servendo a' signori.
La sua figura è d'una donna posta sopra un altare, con la bocca legata e sigillata; non so con che abito la facessero, ma io la rivolgerei in un panno lungo che la coprisse tutta, e mostrarei che si ristringesse nelle spalle.
Faccinsi intorno a lei alcuni pontefici dai quali se gli sacrificava nella curia inanzi alla porta, perché non fosse lecito a persona di revelare cosa che vi si trattasse, in pregiudizio della republica.
Ripieni dalla parte di dentro i peducci, resta ora a dir solamente che intorno a tutta quest'opera mi parrebbe che dovesse essere un fregio, che la terminasse da ogn'intorno, et in questo farei o grottesche o istoriette di figure piccole, e la materia vorrei che fusse conforme ai soggetti già dati di sopra e di mano in mano ai più vicini.
E facendo istoriette mi piacerebbe che mostrassero l'azzioni che fanno gl'uomini et anco gl'animali nell'ora che ci aviam proposto.
E cominciando pur da capo, farei nel fregio di quella facciata, come cose appropriate all'Aurora, artefici, operari, gente di più sorti, che già levate tornassero alli esercizi et alle fatiche loro, come fabbri alla fucina, litterati alli studii, cacciatori alla campagna, mulattieri alla lor via, e sopra tutto ci vorrei quella vecchiarella del Petrarca, che [dis]cinta e scalza levatasi da filare accendesse il fuoco; e se vi pare farvi grottesche di animali, fateci degl'uccelli che cantino, dell'oche che escano a pascere, de' galli che annunziano il giorno e simili novelle.
Nel fregio della facciata da' piè, conforme alle tenebre, vi farei gente che andassero a frugnolo, spie, adulteri, scalatori di finestre e cose tali, e per grottesche istrici, ricci, tassi, un pavone con la ruota che significa la notte stellata, gufi, civette, pipistrelli e simili.
Nel fregio della facciata destra, per cose proporzionate alla Luna, pescatori di notte naviganti alla busola, negromanti, streghe e simili: per grottesche un fanale di lontano, reti, nasse con alcuni pesci dentro, e granchi che pascessero al lume di luna, e se [il] luogo n'è capace, un elefante inginocchioni che la adorasse; et ultimamente nel fregio della facciata sinistra, matematici con i loro strumenti da misurare, ladri, falsatori di monete, cavatori di tesori, pastori con le mandre ancor chiuse intorno agli lor fuochi, e simili.
E per animali vi farei lupi, volpe, scimie, cuccie, e se altre vi sono di queste sorte maliziosi et insidiatori degl'altri animali.
In questa parte ho messo queste fantasie così a caso, per accennare di che specie invenzioni vi si potessero fare, ma per non esser cose che abbino bisogno di essere descritte, lasso che voi ve l'imaginiate a vostro modo, sapendo che i pittori sono per lor natura ricchi e graziosi in trovare di queste bizzarrie.
Et avendo già ripiene tutte le parti dell'opera così di dentro come di fuori della camera, non ci occorre dirvi altro, se non che conferiate il tutto con monsignor illustrissimo e secondo il suo gusto, agiungendovi o togliendone quel che bisogna, cerchiate voi dalla parte vostra farvi onore.
State sano.
Ma ancora che tutte queste belle invenzioni del Caro fussero capricciose, ingegnose e lodevoli molto, non poté nondimeno Taddeo mettere in opera se non quelle di che fu il luogo capace, che furono la maggior parte, ma quelle che egli vi fece furono da lui condotte con molta grazia e bellissima maniera.
A canto a questa, nell'ultima delle dette tre camere, che è dedicata alla Solitudine, dipinse Taddeo, con l'aiuto de' suoi uomini, Cristo che predica agl'Apostoli nel deserto e nei boschi, con un S.
Giovanni a man ritta molto ben lavorato.
In un'altra storia, che è dirimpetto a questa, sono dipinte molte figure, che si stanno nelle selve per fuggire la conversazione, le quali alcun'altre cercano di disturbare tirando loro sassi, mentre alcuni si cavano gl'occhi per non vedere.
In questa medesimamente è dipinto Carlo V imperatore, ritratto di naturale, con questa inscrizione: POST INNUMEROS LABORES OCIOSAM QUIETAMQUE VITAM TRADUXIT.
Dirimpetto a Carlo è il ritratto del Gran Turco ultimo, che molto si dilettò della solitudine, con queste parole: ANIMUM A NEGOCIO AD OCIUM REVOCAVIT.
Appresso vi è Aristotile, che ha sotto queste parole: ANIMA FIT, SEDENDO ET QUIESCENDO, PRUDENTIOR.
All'incontro a questo, sotto un'altra figura di mano di Taddeo, è scritto così: QUAE AD MODUM NEGOCII, SIC ET OCII RATIO HABENDA: sotto un'altra si legge: OCIUM CUM DIGNITATE, NEGOCIUM SINE PERICULO, e dirimpetto a questa sotto un'altra figura è questo motto: VIRTUTIS ET LIBERAE VITAE MAGISTRA OPTIMA SOLITUDO: sotto un'altra: PLUS AGUNT QUI NIHIL AGERE VIDENTUR, e sotto l'ultima: QUI AGIT PLURIMA, PLURIMUM PECCAT.
E per dirlo brevemente, è questa stanza ornatissima di belle figure e ricchissima anch'ella di stucchi e d'oro.
Ma tornando al Vignuola, quanto egli sia eccellente nelle cose d'architettura, l'opere sue stesse che ha scritte e publicate, e va tuttavia scrivendo, oltre le fabriche maravigliose ne fanno pienissima fede, e noi nella vita di Michelagnolo ne diremo a quel proposito quanto occorrerà.
Taddeo, oltre alle dette cose, ne fece molte altre delle quali non accade far menzione, ma in particolare una cappella nella chiesa degl'orefici in strada Giulia, una facciata di chiaro scuro da S.
Ieronimo e la cappella dell'altare maggiore in Santa Sabina; e Federigo suo fratello, dove in S.
Lorenzo in Damaso è la cappella di quel Santo tutta lavorata di stucco, fa nella tavola San Lorenzo in sulla graticola et il Paradiso aperto, la quale tavola si aspetta debba riuscire opera bellissima.
E per non lasciare indietro alcuna cosa, la quale essere possa di utile, piacere o giovamento a chi leggerà questa nostra fatica, alle cose dette aggiugnerò ancora questa: mentre Taddeo lavorava, come s'è detto, nella vigna di papa Giulio, e la facciata di Matiolo delle Poste, fece a monsignore Innocenzio, illustrissimo e reverendissimo cardinale di Monte, due quadretti di pittura, non molto grandi; uno de' quali che è assai bello (avendo l'altro donato) è oggi nella salvaroba di detto cardinale in compagnia d'una infinità di cose antiche e moderne, veramente rarissime, in fra le quali non tacerò che è un quadro di pittura capricciosissimo quanto altra cosa di cui si sia fatto infin qui menzione.
In questo quadro, dico, che è alto circa due braccia e mezzo, non si vede, da chi lo guarda in prospettiva et alla sua veduta ordinaria, altro che alcune lettere in campo incarnato, e nel mezzo la luna, che secondo le righe dello scritto va di mano in mano crescendo e diminuendo, e nondimeno, andando sotto il quadro e guardando in una sfera, o vero specchio, che sta sopra il quadro a uso d'un picciol baldacchino, si vede di pittura e naturalissimo in detto specchio, che lo riceve dal quadro, il ritratto del re Enrico Secondo di Francia, alquanto maggiore del naturale, con queste lettere intorno: HENRY II ROY DE FRANCE.
Il medesimo ritratto si vede, calando il quadro abbasso e posta la fronte in sulla cornice di sopra, guardando in giù, ma è ben vero che chi lo mira a questo modo lo vede volto a contrario di quello che è nello specchio, il quale ritratto, dico, non si vede, se non mirandolo come di sopra, perché è dipinto sopra ventotto gradini sottilissimi, che non si veggiono, i quali sono fra riga e riga dell'infrascritte parole, nelle quali, oltre al significato loro ordinario, si legge, guardando i capiversi d'ambidue gl'estremi, alcune lettere alquante maggiori dell'altre, e nel mezzo: HENRICUS VALESIUS, DEI GRATIA, GALLORUM REX INVICTISSIMUS.
Ma è ben vero che Messer Alessandro Taddei romano, segretario di detto cardinale, e don Silvano Razzi, mio amicissimo, i quali mi hanno di questo quadro e di molte altre cose dato notizia, non sanno di chi sia mano, ma solamente che fu donato dal detto re Enrico al cardinale Caraffa quando fu in Francia, e poi dal Caraffa al detto illustrissimo di Monte, che lo tenne come cosa rarissima, che è veramente.
Le parole adunque, che sono dipinte nel quadro e che sole in esso si veggiono da chi lo guarda alla sua veduta ordinaria e come si guardano l'altre pitture, sono queste:
HEUS TU QUID VIDES NIL UT REOR
NISI LUNAM CRESCENTEM ET E
REGIONE POSITAM QUAE, EX
INTERVALLO, GRADATIM UTI
CRESCIT, NOS ADMONET UT IN
UNA SPE FIDE ET CHARITATE TV
SIMUL ET EGO ILLUMINATI
VERBO DEI CRESCAMUS, DONEC
AB EIUSDEM GRATIA FIAT
LUX IN NOBIS AMPLISSIMA QUI
EST AETERNUS ILLE DATOR LUCIS
IN QUO ET A QUO MORTALES OMNES
VERAM LUCEM RECIPERE SI
SPERAMUS INVANUM NON SPERABIMUS
Nella medesima guardaroba è un bellissimo ritratto della signora Sofonisba Angusciuola di mano di lei medesima, e da lei stato donato a papa Giulio Terzo.
E, che è da essere molto stimato, in un libro antichissimo, la Bucolica, Georgica et Eneida di Virgilio di caratteri tanto antichi, che in Roma et in altri luoghi è stato da molti letterati uomini giudicato che fusse scritto ne' medesimi tempi di Cesare Augusto, o poco dopo.
Onde non è maraviglia se dal detto cardinale è tenuto in grandissima venerazione.
E questo sia il fine della vita di Taddeo Zucchero pittore.
VITA DI MICHELAGNOLO BUONARRUOTI FIORENTINO PITTORE, SCULTORE ET ARCHITETTO
Mentre gl'industriosi et egregii spiriti col lume del famosissimo Giotto e de' seguaci suoi si sforzavano dar saggio al mondo del valore che la benignità delle stelle e la proporzionata mistione degli umori aveva dato agli ingegni loro, e desiderosi di imitare con la eccellenza dell'arte la grandezza della natura, per venire il più che potevano a quella somma cognizione che molti chiamano intelligenza, universalmente, ancora che indarno, si affaticavano, il benignissimo Rettore del cielo volse clemente gli occhi alla terra, e veduta la vana infinità di tante fatiche, gli ardentissimi studii senza alcun frutto e la opinione prosuntuosa degli uomini, assai più lontana dal vero che le tenebre dalla luce, per cavarci di tanti errori si dispose mandare in terra uno spirito, che universalmente in ciascheduna arte et in ogni professione fusse abile, operando per sé solo a mostrare che cosa sia la perfezzione dell'arte del disegno nel lineare, dintornare, ombrare e lumeggiare, per dare rilievo alle cose della pittura, e con retto giudizio operare nella scultura, e rendere le abitazioni commode e sicure, sane, allegre, proporzionate e ricche di varii ornamenti nell'architettura.
Volle oltra ciò accompagnarlo della vera filosofia morale, con l'ornamento della dolce poesia, acciò che il mondo lo eleggesse et ammirasse per suo singularissimo specchio nella vita, nell'opere, nella santità dei costumi et in tutte l'azzioni umane, e perché da noi più tosto celeste che terrena cosa si nominasse.
E perché vide che nelle azzioni di tali esercizii et in queste arti singularissime, cioè nella pittura, nella scultura e nell'architettura, gli ingegni toscani sempre sono stati fra gli altri sommamente elevati e grandi, per essere eglino molto osservanti alle fatiche et agli studii di tutte le facultà, sopra qualsivoglia gente di Italia, volse dargli Fiorenza, dignissima fra l'altre città, per patria, per colmare al fine la perfezzione in lei meritamente di tutte le virtù per mezzo d'un suo cittadino.
Nacque dunque un figliuolo sotto fatale e felice stella nel Casentino, di onesta e nobile donna, l'anno 1474 a Lodovico di Lionardo Buonarruoti Simoni, disceso, secondo che si dice, della nobilissima et antichissima famiglia de' conti di Canossa.
Al quale Lodovico, essendo podestà quell'anno del castello di Chiusi e Caprese, vicino al Sasso della Vernia, dove San Francesco ricevé le stimate, diocesi aretina, nacque dico un figliuolo il sesto dì di marzo, la domenica, intorno all'otto ore di notte, al quale pose nome Michelagnolo, perché non pensando più oltre, spirato da un che di sopra volse inferire costui essere cosa celeste e divina, oltre all'uso mortale, come si vidde poi nelle figure della natività sua, avendo Mercurio, e Venere in seconda, nella casa di Giove, con aspetto benigno ricevuto, il che mostrava che si doveva vedere ne' fatti di costui, per arte di mano e d'ingegno, opere maravigliose e stupende.
Finito l'uffizio della podesteria, Lodovico se ne tornò a Fiorenza, e nella villa di Settignano, vicino alla città tre miglia, dove egli aveva un podere de' suoi passati (il qual luogo è copioso di sassi e per tutto pieno di cave di macigni, che son lavorati di continovo da scarpellini e scultori, che nascono in quel luogo la maggior parte), fu dato da Lodovico Michelagnolo a balia in quella villa alla moglie d'uno scarpellino.
Onde Michelagnolo ragionando col Vasari una volta per ischerzo disse: "Giorgio, si' ho nulla di buono nell'ingegno, egli è venuto dal nascere nella sottilità dell'aria del vostro paese d'Arezzo, così come anche tirai dal latte della mia balia gli scarpegli e 'l mazzuolo con che io fo le figure".
Crebbe col tempo in figliuoli assai Lodovico, et essendo male agiato e con poche entrate, andò accomodando all'Arte della Lana e Seta i figliuoli, e Michelagnolo, che era già cresciuto, fu posto con maestro Francesco da Urbino alla scuola di gramatica; e perché l'ingegno suo lo tirava al dilettarsi del disegno, tutto il tempo che poteva mettere di nascoso lo consumava nel disegnare, essendo per ciò e dal padre e da' suoi maggiori gridato e tal volta battuto, stimando forse che lo attendere a quella virtù non conosciuta da loro, fussi cosa bassa e non degna della antica casa loro.
Aveva in questo tempo preso Michelagnolo amicizia con Francesco Granacci, il quale anche egli giovane si era posto appresso a Domenico del Grillandaio per imparare l'arte della pittura, là dove amando il Granacci Michelagnolo e vedutolo molto atto al disegno, lo serviva giornalmente de' disegni del Grillandaio, il quale era allora reputato non solo in Fiorenza, ma per tutta Italia de' migliori maestri che ci fussero.
Per lo che crescendo giornalmente più il desiderio di fare a Michelagnolo, e Lodovico non potento diviare che il giovane al disegno non attendesse, e che non ci era rimedio, si risolvé, per cavarne qualche frutto e perché egli imparasse quella virtù, consigliato da amici, di acconciarlo con Domenico Grillandaio.
Aveva Michelagnolo, quando si acconciò all'arte con Domenico, quattordici anni, e perché chi ha scritto la vita sua dopo l'anno 1550, che io scrissi queste vite la prima volta, dicendo che alcuni, per non averlo praticato, n'han detto cose che mai non furono e lassatone di molte che son degne d'essere notate, e particularmente tocco questo passo tassando Domenico d'invidiosetto, né che porgessi mai aiuto alcuno a Michelagnolo, il che si vidde essere falso, potendosi vedere per una scritta di mano di Lodovico padre di Michelagnolo scritto sopra i libri di Domenico, il qual libro è appresso oggi agli eredi suoi che dice così: "1488.
Ricordo questo dì primo d'aprile, come io Lodovico di Lionardo di Buonarota acconcio Michelagnolo mio figliuolo con Domenico e Davit di Tommaso di Currado per anni tre prossimi a venire con questi patti e modi: che 'l detto Michelagnolo debba stare con i sopra detti detto tempo a imparare a dipignere et a fare detto essercizio, e ciò i sopra detti gli comanderanno, e detti Domenico e Davit gli debbon dare in questi tre anni fiorini ventiquattro di sugello, el primo anno fiorini sei, el secondo anno fiorini otto, il terzo fiorini dieci; in tutta la somma di lire novantasei".
Et appresso vi è sotto questo ricordo o questa partita, scritta pur di mano di Lodovico: "Hanne avuto il sopra detto Michelagnolo questo dì 16 d'aprile fiorini dua d'oro in oro.
Ebbi io Lodovico di Lionardo, suo padre lui, contanti lire 12,12".
Queste partite ho copiate io dal proprio libro per mostrare che tutto quel che si scrisse allora e che si scriverrà al presente è la verità, né so che nessuno l'abbi più praticato di me e che gli sia stato più amico e servitore fedele, come n'è testimonio fino chi nol sa; né credo che ci sia nessuno che possa mostrare maggior numero di lettere scritte da lui proprio, né con più affetto che egli ha fatto a me.
Ho fatto questa disgressione per fede della verità, e questo basti per tutto il resto della sua vita.
Ora torniamo alla storia.
Cresceva la virtù e la persona di Michelagnolo di maniera che Domenico stupiva vedendolo fare alcune cose fuor d'ordine di giovane, perché gli pareva che non solo vincesse gli altri discepoli, dei quali aveva egli numero grande, ma che paragonasse molte volte le cose fatte da lui come maestro.
Avvenga che uno de' giovani che imparava con Domenico, avendo ritratto alcune femine di penna, vestite, dalle cose del Grillandaio, Michelagnolo prese quella carta e con penna più grossa ridintornò una di quelle femmine di nuovi lineamenti nella maniera che arebbe avuto a stare, perché istessi perfettamente, che è cosa mirabile a vedere la diferenza delle due maniere e la bontà e giudizio d'un giovanetto così animoso e fiero che gli bastasse l'animo correggere le cose del suo maestro.
Questa carta è oggi appresso di me tenuta per reliquia, che l'ebbi dal Granaccio per porla nel libro de' disegni con altri di suo avuti da Michelagnolo; e l'anno 1550, che era a Roma, Giorgio la mostrò a Michelagnolo che la riconobbe et ebbe caro rivederla, dicendo per modestia che sapeva di questa arte più quando egl'era fanciullo, che allora che era vecchio.
Ora avvenne che lavorando Domenico la cappella grande di Santa Maria Novella, un giorno che egli era fuori si misse Michelagnolo a ritrarre di naturale il ponte con alcuni deschi, con tutte le masserizie dell'arte, et alcuni di que' giovani che lavoravano.
Per il che tornato Domenico e visto il disegno di Michelagnolo disse: "Costui ne sa più di me"; e rimase sbigottito della nuova maniera e della nuova imitazione, che dal giudizio datogli dal cielo aveva un simil giovane in età così tenera, che invero era tanto quanto più desiderar si potesse nella pratica d'uno artefice che avesse operato molti anni.
E ciò era che tutto il sapere e potere della grazia era nella natura essercitata dallo studio e dall'arte, per che in Michelagnolo faceva ogni dì frutti più divini, come apertamente cominciò a dimostrarsi nel ritratto che e' fece d'una carta di Martino tedesco stampata, che gli dette nome grandissimo.
Imperò che, essendo venuta allora in Firenze una storia del detto Martino, quando i diavoli battano Santo Antonio, stampata in rame, Michelagnolo la ritrasse di penna di maniera, che non era conosciuta, e quella medesima con i colori dipinse; dove per contrafare alcune strane forme di diavoli, andava a comperare pesci che avevano scaglie bizzarre di colori, e quivi dimostrò in questa cosa tanto valore, che e' ne acquistò e credito e nome.
Contrafece ancora carte di mano di varii maestri vecchi tanto simili, che non si conoscevano, perché tignendole et invecchiandole col fumo e con varie cose, in modo le insudiciava, che elle parevano vecchie, e paragonatole con la propria non si conosceva l'una dall'altra; né lo faceva per altro se non per avere le proprie di mano di coloro, col darli le ritratte, che egli per l'eccellenza dell'arte amirava e cercava di passargli nel fare, onde n'acquistò grandissimo nome.
Teneva in quel tempo il magnifico Lorenzo de' Medici nel suo giardino in sulla piazza di S.
Marco Bertoldo scultore, non tanto per custode o guardiano di molte belle anticaglie, che in quello aveva ragunate e raccolte con grande spesa, quanto perché desiderando egli sommamente di creare una scuola di pittori e di scultori eccellenti, voleva che elli avessero per guida e per capo il sopra detto Bertoldo, che era discepolo di Donato.
Et ancora che e' fusse sì vecchio che non potesse più operare, era nientedimanco maestro molto pratico e molto reputato, non solo per avere diligentissimamente rinettato il getto de' pergami di Donato suo maestro, ma per molti getti ancora che egli aveva fatti di bronzo di battaglie e di alcune altre cose piccole, nel magisterio delle quali non si trovava allora in Firenze chi lo avanzasse.
Dolendosi adunque Lorenzo, che amor grandissimo portava alla pittura et alla scultura, che ne' suoi tempi non si trovassero scultori celebrati e nobili, come si trovavano molti pittori di grandissimo pregio e fama, deliberò, come io dissi, di fare una scuola; e per questo chiese a Domenico Ghirlandai, che se in bottega sua avesse de' suoi giovani che inclinati fussero a ciò, l'inviasse al giardino, dove egli desiderava di essercitargli e creargli in una maniera che onorasse sé e lui e la città sua.
Laonde da Domenico gli furono per ottimi giovani dati fra gli altri Michelagnolo e Francesco Granaccio; per il che andando eglino al giardino, vi trovarono che il Torrigiano, giovane de' Torrigiani, lavorava di terra certe figure tonde che da Bertoldo gli erano state date.
Michelagnolo, vedendo questo, per emulazione alcune ne fece; dove Lorenzo vedendo sì bello spirito lo tenne sempre in molta aspettazione, et egli inanimito dopo alcuni giorni si misse a contrafare con un pezzo di marmo una testa che v'era d'un fauno vecchio antico e grinzo, che era guasta nel naso e nella bocca rideva.
Dove a Michelagnolo, che non aveva mai più tocco marmo né scarpegli, successe il contrafarla così bene, che il Magnifico ne stupì, e visto che fuor della antica testa di sua fantasia gli aveva trapanato la bocca e fattogli la lingua e vedere tutti i denti, burlando quel signore con piacevolezza, come era suo solito, gli disse: "Tu doveresti pur sapere che i vecchi non hanno mai tutti i denti e sempre qualcuno ne manca loro".
Parve a Michelagnolo in quella semplicità, temendo et amando quel signore, che gli dicesse il vero; né prima si fu partito, che subito gli roppe un dente e trapanò la gengìa di maniera, che pareva che gli fussi caduto; et aspettando con desiderio il ritorno del Magnifico, che venuto e veduto la semplicità e bontà di Michelagnolo, se ne rise più d'una volta contandola per miracolo a' suoi amici; e fatto proposito di aiutare e favorire Michelagnolo, mandò per Lodovico suo padre e gliene chiese, dicendogli che lo voleva tenere come un de' suoi figliuoli, et egli volentieri lo concesse; dove il Magnifico gli ordinò in casa sua una camera, e lo faceva attendere, dove del continuo mangiò alla tavola sua co' suoi figliuoli et altre persone degne e di nobiltà, che stavano col Magnifico, dal quale fu onorato.
E questo fu l'anno seguente che si era acconcio con Domenico, che aveva Michelagnolo da quindici anni o sedici; e stette in quella casa quattro anni, che fu poi la morte del Magnifico Lorenzo nel 1492.
Imperò in quel tempo ebbe da quel signore Michelagnolo provisione, e per aiutare suo padre, di cinque ducati il mese, e per rallegrarlo gli diede un mantello pagonazzo, et al padre uno officio in dogana; vero è che tutti quei giovani del giardino erano salariati, chi assai e chi poco, dalla liberalità di quel magnifico e nobilissimo cittadino, e da lui mentre che visse furono premiati.
Dove in questo tempo consigliato dal Poliziano, uomo nelle lettere singulare, Michelagnolo fece in un pezzo di marmo datogli da quel signore la battaglia di Ercole coi centauri, che fu tanto bella che talvolta per chi ora la considera non par di mano di giovane, ma di maestro pregiato e consumato negli studii e pratico in quell'arte.
Ella è oggi in casa sua tenuta per memoria di Lionardo suo nipote come cosa rara che ell'è, il quale Lionardo non è molti anni che aveva in casa per memoria di suo zio una Nostra Donna di basso rilievo di mano di Michelagnolo di marmo alta poco più d'un braccio, nella quale sendo giovanetto in questo tempo medesimo, volendo contrafare la maniera di Donatello si portò sì bene che par di man sua, eccetto che vi si vede più grazia e più disegno.
Questa donò Lionardo poi al duca Cosimo Medici, il quale la tiene per cosa singularissima, non essendoci di sua mano altro basso rilievo che questo di scultura.
E tornando al giardino del magnifico Lorenzo, era il giardino tutto pieno d'anticaglie e di eccellenti pitture molto adorno, per bellezza, per studio, per piacere ragunate in quel loco, del quale teneva di continuo Michelagnolo le chiavi, e molto più era sollecito che gli altri in tutte le sue azzioni, e con viva fierezza sempre pronto si mostrava.
Disegnò molti mesi nel Carmine alle pitture di Masaccio, dove con tanto giudizio quelle opere ritraeva, che ne stupivano gli artefici e gli altri uomini di maniera, che gli cresceva l'invidia insieme col nome.
Dicesi che il Torrigiano, contratta seco amicizia e scherzando, mosso da invidia di vederlo più onorato di lui e più valente nell'arte, con tanta fierezza gli percosse d'un pugno il naso, che rotto e stiacciatolo di mala sorte lo segnò per sempre; onde fu bandito di Fiorenza il Torrigiano, come s'è detto altrove.
Morto il magnifico Lorenzo, se ne tornò Michelagnolo a casa del padre con dispiacere infinito della morte di tanto uomo amico a tutte le virtù, dove Michelagnolo comperò un gran pezzo di marmo e fecevi dentro un Ercole di braccia quattro, che sté molti anni nel palazzo degli Strozzi, il quale fu stimato cosa mirabile e poi fu mandato l'anno dello assedio in Francia al re Francesco da Giovambatista della Palla.
Dicesi che Piero de' Medici, che molto tempo aveva praticato Michelagnolo, sendo rimasto erede di Lorenzo suo padre mandava spesso per lui volendo comperare cose antiche di camei et altri intagli; et una invernata che e' nevicò in Fiorenza assai, gli fece fare di neve nel suo cortile una statua che fu bellissima, onorando Michelagnolo di maniera per le virtù sue, che 'l padre cominciando a vedere che era stimato fra i grandi, lo rivestì molto più onoratamente che non soleva.
Fece per la chiesa di Santo Spirito della città di Firenze un Crocifisso di legno, che si pose et è sopra il mezzo tondo dello altare maggiore a compiacenza del priore, il quale gli diede comodità di stanze; dove molte volte scorticando corpi morti per studiare le cose di notomia, cominciò a dare perfezzione al gran disegno che gl'ebbe poi.
Avvenne che furono cacciati di Fiorenza i Medici, e già poche settimane innanzi Michelagnolo era andato a Bologna e poi a Venezia, temendo che non gli avvenisse per essere familiare di casa qualche caso sinistro, vedendo l'insolenzie e mal modo di governo di Piero de' Medici; e non avendo avuto in Venezia trattenimento se ne tornò a Bologna; dove, avvenutogli inconsideratamente disgrazia di non pigliare un contrasegno allo entrare della porta per uscir fuori, come era allora ordinato per sospetto - ché Messer Giovanni Bentivogli voleva che i forestieri che non avevano il contrasegno fussino condennati in lire cinquanta di bolognini -, et incorrendo Michelagnolo in tal disordine, né avendo il modo di pagare, fu compassionevolmente veduto a caso da Messer Giovanfrancesco Aldovrandi, uno de' sedici del governo, il quale fattosi contare la cosa lo liberò e lo trattenne appresso di sé più d'uno anno.
Et un dì l'Aldovrando, condottolo a vedere l'arca di San Domenico fatta, come si disse, da Giovan Pisano e poi da maestro Niccolò da l'Arca scultori vecchi, e mancandoci un Angelo che teneva un candelliere, et un San Petronio, figure d'un braccio incirca, gli dimandò se gli bastasse l'animo di fargli: rispose di sì.
Così, fattogli dare il marmo, gli condusse, che son le miglior figure che vi sieno, e gli fece dare Messer Francesco Aldovrando ducati trenta d'amendue.
Stette Michelagnolo in Bologna poco più d'uno anno e vi sarebbe stato più per satisfare alla cortesia dello Aldovrandi, il quale l'amava e per il disegno e perché piacendoli come toscano la pronunzia del leggere di Michelagnolo, volentieri udiva le cose di Dante, del Petrarca e del Boccaccio et altri poeti toscani.
Ma perché conosceva Michelagnolo che perdeva tempo, volentieri se ne tornò a Fiorenza e fé per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici di marmo un San Giovannino, e poi dreto a un altro marmo si messe a fare un Cupido che dormiva, quanto il naturale; e finito, per mezzo di Baldassarri del Milanese fu mostro a Pierfrancesco per cosa bella, che giudicatolo il medesimo gli disse: "Se tu lo mettessi sotto terra sono certo che passerebbe per antico, mandandolo a Roma acconcio in maniera che paressi vecchio, e ne caveresti molto più che a venderlo qui".
Dicesi che Michelagnolo l'acconciò di maniera che pareva antico, né è da maravigliarsene perché aveva ingegno da far questo e meglio.
Altri vogliono che 'l Milanese lo portassi a Roma e lo sotterrassi in una sua vigna, e poi lo vendessi per antico al cardinale San Giorgio ducati dugento.
Altri dicono che gliene vendé un che faceva per il Milanese, che scrisse a Pierfrancesco che facessi dare a Michelagnolo scudi trenta, dicendo che più del Cupido non aveva avuti, ingannando il cardinale Pierfrancesco e Michelagnolo; ma inteso poi da chi aveva visto che 'l putto era fatto a Fiorenza, tenne modi che seppe il vero per un suo mandato, e fece sì l'agente del Milanese gl'ebbe a rimettere e riebbe il Cupido, il quale venuto nelle mani al duca Valentino e donato da lui alla Marchesana di Mantova, che lo condusse al paese dove oggi ancor si vede.
Questa cosa non passò senza biasimo del cardinale San Giorgio, il quale non conoscendo la virtù dell'opera, che consiste nella perfezzione, che tanto son buone le moderne quanto le antiche pur che sieno eccellenti, essendo più vanità quella di coloro che van dietro più al nome che a' fatti; che di questa sorte d'uomini se n'è trovato d'ogni tempo, che fanno più conto del parere che dell'essere.
Imperò questa cosa diede tanta riputazione a Michelagnolo che fu subito condotto a Roma et acconcio col cardinale San Giorgio, dove stette vicino a un anno, che come poco intendente di queste arti, non fece fare niente a Michelagnolo.
In quel tempo un barbiere del cardinale stato pittore, che coloriva a tempera molto diligentemente, ma non aveva disegno, fattosi amico Michelagnolo gli fece un cartone d'un San Francesco che riceve le stimate, che fu condotto con i colori dal barbieri in una tavoletta molto diligentemente: la qual pittura è oggi locata in una prima cappella entrando in chiesa a man manca di San Piero a Montorio.
Conobbe bene poi la virtù di Michelagnolo Messer Iacopo Galli, gentiluomo romano, persona ingegnosa, che gli fece fare un Cupido di marmo, quanto il vivo, et appresso una figura di un Bacco di palmi dieci che ha una tazza nella man destra e nella sinistra una pelle d'un tigre et un grappolo d'uve, che un satirino cerca di mangiargliene, nella qual figura si conosce che egli ha voluto tenere una certa mistione di membra maravigliose, e particolarmente avergli dato la sveltezza della gioventù del maschio e la carnosità e tondezza della femina: cosa tanto mirabile, che nelle statue mostrò essere eccellente più d'ogni altro moderno, il quale fino allora avesse lavorato.
Per il che nel suo stare a Roma acquistò tanto nello studio dell'arte, ch'era cosa incredibile vedere i pensieri alti e la maniera difficile, con facilissima facilità da lui esercitata, tanto con ispavento di quegli che non erano usi a vedere cose tali, quanto degli usi alle buone, perché le cose che si vedevano fatte, parevano nulla al paragone delle sue.
Le quali cose destarono al cardinale di San Dionigi, chiamato il cardinale Rovano franzese, disiderio di lasciar per mezzo di sì raro artefice qualche degna memoria di sé in così famosa città, e gli fé fare una Pietà di marmo tutta tonda, la quale finita fu messa in San Pietro nella cappella della Vergine Maria della Febbre nel tempio di Marte.
Alla quale opera non pensi mai scultore, né artefice raro potere aggiugnere di disegno, né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelagnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell'arte.
Fra le cose belle vi sono, oltra i panni divini suoi si scorge il morto Cristo, e non si pensi alcuno di bellezza di membra e d'artificio di corpo vedere uno ignudo tanto ben ricerco di muscoli, vene, nerbi, sopra l'ossatura di quel corpo, né ancora un morto più simile al morto di quello.
Quivi è dolcissima aria di testa, et una concordanza nelle appiccature e congiunture delle braccia et in quelle del corpo e delle gambe, i polsi e le vene lavorate, che invero si maraviglia lo stupore che mano d'artefice abbia potuto sì divinamente e propriamente fare in pochissimo tempo cosa sì mirabile; che certo è un miracolo che un sasso da principio senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezzione che la natura a fatica suol formar nella carne.
Poté l'amor di Michelagnolo e la fatica insieme in questa opera tanto, che quivi (quello che in altra opera più non fece) lasciò il suo nome scritto attraverso in una cintola che il petto della Nostra Donna soccigne: nascendo che un giorno Michelagnolo entrando drento dove l'è posta vi trovò gran numero di forestieri lombardi che la lodavano molto, un de' quali domandò a un di quegli chi l'aveva fatta, rispose: "Il Gobbo nostro da Milano".
Michelagnolo stette cheto e quasi gli parve strano che le sue fatiche fussino attribuite a un altro; una notte vi si serrò drento e con un lumicino, avendo portato gli scarpegli, vi intagliò il suo nome.
Et è veramente tale, che come a vera figura e viva, disse un bellissimo spirito:
Bellezza et onestate,
e doglia e pièta in vivo marmo morte,
deh, come voi pur fate,
non piangete sì forte,
che anzi tempo risveglisi da morte,
e pur, mal grado suo,
nostro Signore e tuo
sposo, figliuolo e padre,
unica sposa sua figliuola e madre.
Laonde egli n'acquistò grandissima fama.
E se bene alcuni, anzi goffi che no, dicono che egli abbia fatto la Nostra Donna troppo giovane, non s'accorgono e non sanno eglino che le persone vergini senza essere contaminate si mantengano e conservano l'aria del viso loro gran tempo, senza alcuna macchia, e che gli afflitti come fu Cristo fanno il contrario? Onde tal cosa accrebbe assai più gloria e fama alla virtù sua che tutte l'altre dinanzi.
Gli fu scritto di Fiorenza d'alcuni amici suoi che venisse, perché non era fuor di proposito che di quel marmo che era nell'Opera guasto, il quale Pier Soderini fatto gonfaloniere a vita allora di quella città aveva avuto ragionamento molte volte di farlo condurre a Lionardo da Vinci, et era allora in pratica di darlo a maestro Andrea Contucci dal Monte San Savino eccellente scultore, che cercava di averlo; e Michelagnolo, quantunque fussi dificile a cavarne una figura intera senza pezzi, al che fare non bastava a quegl'altri l'animo di non finirlo senza pezzi, salvo che a lui, e ne aveva avuto desiderio molti anni innanzi, venuto in Fiorenza tentò di averlo.
Era questo marmo di braccia nove, nel quale per mala sorte un maestro Simone da Fiesole aveva cominciato un gigante, e sì mal concio era quella opera, che lo aveva bucato fra le gambe e tutto mal condotto e storpiato: di modo che gli Operai di Santa Maria del Fiore, che sopra tal cosa erano, senza curar di finirlo, l'avevano posto in abandono e già molti anni era così stato et era tuttavia per istare.
Squadrollo Michelagnolo di nuovo, et esaminando potersi una ragionevole figura di quel sasso cavare et accomodandosi con l'attitudine al sasso ch'era rimasto storpiato da maestro Simone, si risolse di chiederlo agli Operai et al Soderini, dai quali per cosa inutile gli fu conceduto, pensando che ogni cosa che se ne facesse, fusse migliore che lo essere nel quale allora si ritrovava, perché né spezzato, né in quel modo concio, utile alcuno alla Fabrica non faceva.
Laonde Michelagnolo fatto un modello di cera finse in quello per la insegna del palazzo un Davit giovane, con una frombola in mano, acciò che, sì come egli aveva difeso il suo popolo e governatolo con giustizia, così chi governava quella città dovesse animosamente difenderla e giustamente governarla: e lo cominciò nell'Opera di Santa Maria del Fiore, nella quale fece una turata fra muro e tavole et il marmo circondato, e quello di continuo lavorando senza che nessuno il vedesse, a ultima perfezzione lo condusse.
Era il marmo già da maestro Simone storpiato e guasto, e non era in alcuni luoghi tanto che alla volontà di Michelagnolo bastasse per quel che averebbe voluto fare: egli fece che rimasero in esso delle prime scarpellate di maestro Simone, nella estremità del marmo, delle quali ancora se ne vede alcuna.
E certo fu miracolo quello di Michelagnolo far risuscitare uno che era morto.
Era questa statua quando finita fu, ridotta in tal termine che varie furono le dispute che si fecero per condurla in piazza de' Signori.
Per che Giuliano da S.
Gallo et Antonio suo fratello fecero un castello di legname fortissimo e quella figura con i canapi sospesero a quello, acciò che scotendosi non si troncasse, anzi venisse crollandosi sempre, e con le travi per terra piane con argani la tirorono e la missero in opera.
Fece un cappio al canapo che teneva sospesa la figura facilissimo a scorrere, e stringeva quanto il peso l'agravava, che è cosa bellissima et ingegnosa che l'ho nel nostro libro disegnato di man sua, che è mirabile, sicuro e forte per legar pesi.
Nacque in questo mentre, che vistolo su Pier Soderini, il quale piaciutogli assai, et in quel mentre che lo ritoccava in certi luoghi, disse a Michelagnolo che gli pareva che il naso di quella figura fussi grosso.
Michelagnolo accortosi che era sotto al gigante il gonfalonieri e che la vista non lo lasciava scorgere il vero, per satisfarlo salì in sul ponte, che era accanto alle spalle, e preso Michelagnolo con prestezza uno scarpello nella man manca con un poco di polvere di marmo che era sopra le tavole del ponte, e cominciato a gettare leggieri con li scarpegli, lasciava cadere a poco a poco la polvere, né toccò il naso da quel che era.
Poi guardato a basso al gonfalonieri, che stava a vedere, disse: "Guardatelo ora".
"A me mi piace più", disse il gonfalonieri, "gli avete dato la vita." Così scese Michelagnolo, e lo avere contento quel signore che se ne rise da sé Michelagnolo avendo compassione a coloro che per parere d'intendersi non sanno quel che si dicano; et egli, quando ella fu murata e finita la discoperse, e veramente che questa opera ha tolto il grido a tutte le statue moderne et antiche, o greche, o latine che elle si fussero, e si può dire che né 'l Marforio di Roma né il Tevere o il Nilo di Belvedere o i giganti di Monte Cavallo le sian simili in conto alcuno, con tanta misura e bellezza e con tanta bontà la finì Michelagnolo.
Perché in essa sono contorni di gambe bellissime et appiccature e sveltezza di fianchi divine; né ma' più s'è veduto un posamento sì dolce né grazia che tal cosa pareggi, né piedi, né mani, né testa che a ogni suo membro di bontà d'artificio e di parità, né di disegno s'accordi tanto.
E certo chi vede questa non dee curarsi di vedere altra opera di scultura fatta nei nostri tempi o negli altri da qual si voglia artefice.
N'ebbe Michelagnolo da Pier Soderini per sua mercede scudi quattrocento, e fu rizzata l'anno 1504, e per la fama che per questo acquistò nella scultura fece al sopra detto gonfalonieri un Davit di bronzo bellissimo, il quale egli mandò in Francia; et ancora in questo tempo abbozzò e non finì due tondi di marmo, uno a Taddeo Taddei, oggi in casa sua, et a Bartolomeo Pitti ne cominciò un altro, il quale da fra' Miniato Pitti di Monte Oliveto, intendente e raro nella cosmografia et in molte scienzie e particolarmente nella pittura, fu donata a Luigi Guicciardini che gl'era grande amico; le quali opere furono tenute egregie e mirabili.
Et in questo tempo ancora abbozzò una statua di marmo di San Matteo nell'Opera di Santa Maria del Fiore, la quale statua così abbozzata mostra la sua perfezzione et insegna agli scultori in che maniera si cavano le figure de' marmi senza che venghino storpiate, per potere sempre guadagnare col giudizio levando del marmo et avervi da potersi ritrarre e mutare qualcosa, come accade se bisognassi.
Fece ancora di bronzo una Nostra Donna in un tondo che lo gettò di bronzo a requisizione di certi mercatanti fiandresi de' Moscheroni, persone nobilissime ne' paesi loro, che pagatogli scudi cento la mandassero in Fiandra.
Venne volontà ad Agnolo Doni, cittadino fiorentino amico suo, sì come quello che molto si dilettava aver cose belle così d'antichi come di moderni artefici, d'avere alcuna cosa di Michelagnolo; per che gli cominciò un tondo di pittura, dentrovi una Nostra Donna, la quale inginochiata con amendua le gambe, ha in sulle braccia un putto e porgelo a Giuseppo che lo riceve; dove Michelagnolo fa conoscere nello svoltare della testa della madre di Cristo e nel tenere gli occhi fissi nella somma bellezza del figliuolo, la maravigliosa sua contentezza e lo affetto del farne parte a quel santissimo vecchio, il quale con pari amore, tenerezza e reverenza lo piglia, come benissimo si scorge nel volto suo senza molto considerarlo.
Né bastando questo a Michelagnolo, per mostrare maggiormente l'arte sua essere grandissima, fece nel campo di questa opera molti ignudi appoggiati, ritti et a sedere, e con tanta diligenza e pulitezza lavorò questa opera che certamente delle sue pitture in tavola, ancora che poche sieno, è tenuta la più finita e la più bella opera che si truovi.
Finita che ella fu, la mandò a casa Agnolo, coperta, per un mandato insieme con una polizza, e chiedeva settanta ducati per suo pagamento.
Parve strano ad Agnolo, che era assegnata persona, spendere tanto in una pittura, se bene e' conoscesse che più valesse, e disse al mandato che bastavano quaranta, e gliene diede; onde Michelagnolo gli rimandò indietro, mandandogli a dire che cento ducati o la pittura gli rimandasse indietro.
Per il che Agnolo, a cui l'opera piaceva, disse: "Io gli darò quei settanta".
Et egli non fu contento, anzi per la poca fede d'Agnolo ne volle il doppio di quel che la prima volta ne aveva chiesto; per che se Agnolo volse la pittura, fu forzato mandargli centoquaranta.
Avvenne che dipignendo Lionardo da Vinci pittore rarissimo nella sala grande del Consiglio, come nella vita sua è narrato, Piero Soderini, allora gonfaloniere, per la gran virtù che egli vidde in Michelagnolo, gli fece allogagione d'una parte di quella sala: onde fu cagione che egli facesse a concorrenza di Lionardo l'altra facciata, nella quale egli prese per subietto la guerra di Pisa.
Per il che Michelagnolo ebbe una stanza nello spedale de' Tintori a Santo Onofrio, e quivi cominciò un grandissimo cartone, né però volse mai che altri lo vedesse.
E lo empié di ignudi che bagnandosi per lo caldo nel fiume d'Arno, in quello stante si dava a l'arme nel campo fingendo che gli inimici li assalissero, e mentre che fuor delle acque uscivano per vestirsi i soldati, si vedeva dalle divine mani di Michelagnolo chi affrettare lo armarsi per dare aiuto a' compagni, altri affibbiarsi la corazza, e molti mettersi altre armi in dosso, et infiniti combattendo a cavallo cominciare la zuffa.
Eravi fra l'altre figure un vecchio che aveva in testa per farsi ombra una grillanda di ellera, il quale postosi a sedere per mettersi le calze e non potevano entrargli per aver le gambe umide dell'acqua, e sentendo il tumulto de' soldati e le grida et i romori de' tamburini affrettando tirava per forza una calza; et oltra che tutti i muscoli e' nervi della figura si vedevano, faceva uno storcimento di bocca per il quale dimostrava assai quanto e' pativa e che egli si adoperava fin alle punte de' piedi.
Eranvi tamburini ancora e figure che coi panni avvolti ignudi correvano verso la baruffa; e di stravaganti attitudini si scorgeva chi ritto, chi ginocchioni o piegato o sospeso a giacere, et in aria attaccati con iscorti difficili.
V'erano ancora molte figure aggruppate et in varie maniere abbozzate, chi contornato di carbone, chi disegnato di tratti e chi sfumato e con biacca lumeggiati, volendo egli mostrare quanto sapesse in tale professione.
Per il che gli artefici stupiti et ammirati restorono, vedendo l'estremità dell'arte in tal carta per Michelagnolo mostrata loro.
Onde, veduto sì divine figure, dicono, alcuni che le viddero, di man sua e d'altri ancora non essere mai più veduto cosa che della divinità dell'arte nessuno altro ingegno possa arrivarla mai.
E certamente è da credere, perciò che da poi che fu finito e portato alla sala del papa con gran romore dell'arte e grandissima gloria di Michelagnolo, tutti coloro che su quel cartone studiarono e tal cosa disegnarono, come poi si seguitò molti anni in Fiorenza per forestieri e per terrazzani, diventarono persone in tale arte eccellenti, come vedemo: poiché in tale cartone studiò Aristotile da S.
Gallo amico suo, Ridolfo Ghirlandaio, Raffael Sanzio da Urbino, Francesco Granaccio, Baccio Bandinelli et Alonso Berugetta spagnuolo; seguitò Andrea del Sarto, il Francia Bigio, Iacopo Sansovino, il Rosso, Maturino, Lorenzetto, el Tribolo allora fanciullo, Iacopo da Puntormo e Pierin del Vaga, i quali tutti ottimi maestri fiorentini furono; per il che essendo questo cartone diventato uno studio d'artefici, fu condotto in casa Medici nella sala grande di sopra, e tal cosa fu cagione che egli troppo a securtà nelle mani degli artefici fu messo: per che nella infermità del duca Giuliano, mentre nessuno badava a tal cosa, fu come s'è detto altrove stracciato, et in molti pezzi diviso, tal che in molti luoghi se n'è sparto, come ne fanno fede alcuni pezzi che si veggono ancora in Mantova in casa di Messer Uberto Strozzi gentiluomo mantovano, i quali con riverenza grande son tenuti.
E certo che a vedere e' son più tosto cosa divina che umana.
Era talmente la fama di Michelagnolo per la Pietà fatta, per il gigante di Fiorenza e per il cartone nota, che essendo venuto l'anno 1503 la morte di papa Alessandro VI e creato Giulio Secondo, che allora Michelagnolo era di anni ventinove incirca, fu chiamato con gran suo favore da Giulio II per fargli fare la sepoltura sua, e per suo viatico gli fu pagato scudi cento da' suoi oratori.
Dove condottosi a Roma, passò molti mesi innanzi che gli facessi mettere mano a cosa alcuna.
Finalmente si risolvette a un disegno che aveva fatto per tal sepoltura, ottimo testimonio della virtù di Michelagnolo, che di bellezza e di superbia e di grande ornamento e ricchezza di statue passava ogni antica et imperiale sepoltura.
Onde cresciuto lo animo a papa Giulio, fu cagione che si risolvé a mettere mano a rifare di nuovo la chiesa di S.
Piero di Roma per mettercela drento, come s'è detto altrove.
Così Michelagnolo si misse al lavoro con grande animo: e per dargli principio, andò a Carrara a cavare tutti i marmi con dua suoi garzoni, et in Fiorenza da Alamanno Salviati ebbe a quel conto scudi mille, dove consumò in que' monti otto mesi senza altri danari o provisioni, dove ebbe molti capricci di fare in quelle cave, per lasciar memoria di sé, come già avevano fatto gli antichi, statue grandi, invitato da que' massi.
Scelto poi la quantità de' marmi et fattoli caricare alla marina e di poi condotti a Roma, empierono la metà della piazza di S.
Piero intorno a Santa Caterina e fra la chiesa e 'l corridore che va a Castello, nel qual luogo Michelagnolo aveva fatto la stanza da lavorar le figure et il resto della sepoltura; e perché comodamente potessi venire a vedere lavorare, il Papa aveva fatto fare un ponte levatoio dal corridore alla stanza, e per ciò molto famigliare se l'era fatto, che col tempo questi favori gli dettono gran noia e persecuzione, e gli generorono molta invidia fra gli artefici suoi.
Di quest'opera condusse Michelagnolo, vivente Giulio e dopo la morte sua, quattro statue finite et otto abbozzate, come si dirà al suo luogo, e perché questa opera fu ordinata con grandissima invenzione qui di sotto narreremo l'ordine che egli pigliò.
E perché ella dovessi mostrare maggior grandezza volse che ella fussi isolata da poterla vedere da tutt'a quattro le faccie, che in ciascuna era per un verso braccia dodici e per l'altre due braccia diciotto, tanto che la proporzione era un quadro e mezzo.
Aveva un ordine di nicchie di fuori a torno a torno, le quali erano tramezzate da termini vestiti dal mezzo in su, che con la testa tenevano la prima cornice, e ciascuno termine con strana e bizzarra attitudine ha legato un prigione ignudo, il qual posava coi piedi in un risalto d'un basamento.
Questi prigioni erano tutte le provincie soggiogate da questo Pontefice e fatte obediente alla Chiesa apostolica; et altre statue diverse pur legate erano tutte le virtù et arte ingegnose, che mostravano esser sottoposte alla morte non meno che si fussi quel Pontefice che sì onoratamente le adoperava.
Su' canti della prima cornice andava quattro figure grandi: la Vita attiva e la contemplativa, e S.
Paulo e Moisè.
Ascendeva l'opera sopra la cornice in gradi diminuendo con un fregio di storie di bronzo e con altre figure e putti et ornamenti a torno, e sopra era per fine due figure, che una era il Cielo, che ridendo sosteneva in sulle spalle una bara insieme con Cibele dea della terra, [e] pareva che si dolessi che ella rimanessi al mondo priva d'ogni virtù per la morte di questo uomo, et il Cielo pareva che ridessi che l'anima sua era passata alla gloria celeste.
Era accomodato che s'entrava et usciva per le teste della quadratura dell'opera nel mezzo delle nicchie, e drento era caminando a uso di tempio in forma ovale, nel quale aveva nel mezzo la cassa, dove aveva a porsi il corpo morto di quel Papa; e finalmente vi andava in tutta quest'opera quaranta statue di marmo senza l'altre storie, putti et ornamenti e tutte intagliate le cornici e gli altri membri dell'opera d'architettura.
Et ordinò Michelagnolo per più facilità che una parte de' marmi gli fussin portati a Fiorenza, dove egli disegnava tal volta farvi la state per fuggire la mala aria di Roma, dove in più pezzi ne condusse di quest'opera una faccia di tutto punto, e di suo mano finì in Roma due prigioni a fatto cosa divina, et altre statue che non s'è mai visto meglio, che non si messono altrimenti in opera (ché furono da lui donati detti prigioni al signor Ruberto Strozzi per trovarsi Michelagnolo malato in casa sua, che furono mandati poi a donare al re Francesco, e' quali sono oggi a Cevan in Francia); et otto statue abozzò in Roma parimente, et a Fiorenza ne abozzò cinque, e finì una Vittoria con un prigion sotto, qual sono oggi appresso del duca Cosimo, stati donati da Lionardo suo nipote a sua eccellenza, che la Vittoria l'ha messa nella sala grande del suo palazzo, dipinta dal Vasari.
Finì il Moisè di cinque braccia di marmo, alla quale statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e delle antiche ancora si può dire il medesimo, avvenga che egli con gravissima attitudine sedendo, posa un braccio in sulle tavole che egli tiene con una mano, e con l'altra si tiene la barba, la quale nel marmo svellata e lunga è condotta di sorte, che i capegli, dove ha tanta dificultà la scultura, son condotti sottilissimamente piumosi, morbidi e sfilati d'una maniera, che pare impossibile che il ferro sia diventato pennello; et inoltre alla bellezza della faccia, che ha certo aria di vero Santo e terribilissimo principe, pare che mentre lo guardi abbia voglia di chiedergli il velo per coprirgli la faccia, tanto splendida e tanto lucida appare altrui.
Et ha sì bene ritratto nel marmo la divinità che Dio aveva messo nel santissimo volto di quello, oltreché vi sono i panni straforati e finiti con bellissimo girar di lembi, e le braccia di muscoli, e le mane di ossature, e' nervi sono a tanta bellezza e perfezzione condotte, e le gambe appresso, e le ginocchia, et i piedi sotto di sì fatti calzari accomodati, et è finito talmente ogni lavoro suo che Moisè può più oggi che mai chiamarsi amico di Dio, poiché tanto innanzi agli altri ha voluto mettere insieme e preparargli il corpo per la sua ressurrezione, per le mani di Michelagnolo; e seguitino gli ebrei di andare, come fanno ogni sabato, a schiera, e maschi e femine, come gli storni a visitarlo et adorarlo: che non cosa umana, ma divina adoreranno.
Dove finalmente pervenne allo accordo e fine di questa opera, la quale delle quattro parti se ne murò poi in San Piero in Vincola una delle minori.
Dicesi che mentre che Michelagnolo faceva questa opera, venne a Ripa tutto il restante de' marmi per detta sepoltura che erano rimasti a Carrara, e' quali fur fatti condurre cogl'altri sopra la piazza di San Pietro, e perché bisognava pagarli a chi gli aveva condotti, andò Michelagnolo come era solito al Papa; ma avendo Sua Santità in quel dì cosa che gli importava per le cose di Bologna, tornò a casa e pagò di suo detti marmi pensando averne l'ordine subito da Sua Santità.
Tornò un altro giorno per parlarne al Papa, e trovato dificultà a entrare, perché un palafreniere gli disse che avessi pazienzia, che aveva commessione di non metterlo drento, fu detto da un vescovo al palafreniere: "Tu non conosci forse questo uomo".
"Troppo ben lo conosco", disse il palafrenieri, "ma io son qui per far quel che m'è commesso da' miei superiori e dal Papa".
Dispiacque questo atto a Michelagnolo, e parendogli il contrario di quello che aveva provato innanzi, sdegnato rispose al palafrenieri del Papa, che gli dicessi che da qui innanzi quando lo cercava Sua Santità essere ito altrove, e tornato alla stanza a due ore di notte montò in sulle poste lasciando a due servitori che vendessino tutte le cose di casa ai giudei e lo seguitassero a Fiorenza dove egli s'era avviato.
Et arrivato a Poggibonzi, luogo sul fiorentino, sicuro si fermò, né andò guari che cinque corrieri arrivorono con le lettere del Papa per menarlo indietro, che né per preghi, né per la lettera che gli comandava che tornasse a Roma sotto pena della sua disgrazia, al che fare non volse intendere niente: ma i prieghi de' corrieri finalmente lo svolsono a scrivere due parole in risposta a Sua Santità, che gli perdonassi che non era per tornare più alla presenzia sua, poiché l'aveva fatto cacciare via come un tristo, e che la sua fedel servitù non meritava questo, e che si provedessi altrove di chi lo servissi.
Arrivato Michelagnolo a Fiorenza, attese a finire in tre mesi che vi stette il cartone della sala grande, che Pier Soderini gonfaloniere desiderava che lo mettessi in opera.
Imperò venne alla Signoria in quel tempo tre brevi che dovessino rimandare Michelagnolo a Roma; per il che egli veduto questa furia del Papa, dubitando di lui ebbe, secondo che si dice, voglia di andarsene in Gostantinopoli a servire il Turco per mezzo di certi frati di San Francesco, che desiderava averlo per fare un ponte che passassi da Gostantinopoli a Pera.
Pure, persuaso da Pier Soderini allo andare a trovare il Papa, ancor che non volessi, come persona publica per assicurarlo con titolo d'imbasciadore della città, finalmente lo raccomandò al cardinale Soderini suo fratello, che lo introducessi al Papa, [e] lo inviò a Bologna dove era già di Roma venuto Sua Santità.
Dicesi ancora in altro modo questa sua partita di Roma: che il Papa si sdegnassi con Michelagnolo, il quale non voleva lasciar vedere nessuna delle sue cose, e che avendo sospetto de' suoi dubitando come fu più d'una volta che vedde quel che faceva travestito a certe occasioni che Michelagnolo non era in casa o al lavoro, e perché corrompendo una volta i suo' garzoni con danari per entrare a vedere la cappella di Sisto suo zio, che gli fé dipignere come si disse poco innanzi, e che nascostosi Michelagnolo una volta perché egli dubitava del tradimento de' garzoni, tirò con tavole nell'entrare il Papa in cappella, che non pensando chi fussi, lo fece tornare fuora a furia.
Basta che o nell'uno modo o nell'altro, egli ebbe sdegno col Papa, e poi paura, che se gli ebbe a levar dinanzi.
Così arrivato in Bologna, né prima trattosi gli stivali che fu da' famigliari del Papa condotto da Sua Santità, che era nel palazzo de' Sedici, accompagnato da uno vescovo del cardinale Soderini, perché essendo malato il cardinale non poté andargli; et arrivati dinanzi al Papa, inginocchiatosi Michelagnolo, lo guardò Sua Santità a traverso e come sdegnato, e gli disse: "In cambio di venire tu a trovare noi, tu hai aspettato che venghiamo a trovar te?", volendo inferire che Bologna è più vicina a Fiorenza che Roma.
Michelagnolo con le mani cortese et a voce alta gli chiese umilmente perdono, scusandosi che quel che aveva fatto era stato per isdegno, non potendo sopportare d'essere cacciato così via, e che avendo errato di nuovo gli perdonassi.
Il vescovo che aveva al Papa offerto Michelagnolo, scusandolo diceva a Sua Santità che tali uomini sono ignoranti e che da quell'arte in fuora non valevano in altro, e che volentieri gli perdonassi.
Al Papa venne còllora, e con una mazza che avea rifrustò il vescovo dicendogli: "Ignorante sei tu che gli di' villania, che non gliene diciàn noi".
Così dal palafrenieri fu spinto fuori il vescovo con frugoni, e partito, et il Papa sfogato la còllora sopra di lui, benedì Michelagnolo, il quale con doni e speranze fu trattenuto in Bologna tanto, che Sua Santità gli ordinò che dovessi fare una statua di bronzo a similitudine di papa Giulio, cinque braccia d'altezza; nella quale usò arte bellissima nella attitudine, perché nel tutto avea maestà e grandezza, e ne' panni mostrava ricchezza e magnificenza, e nel viso animo, forza, prontezza e terribilità.
Questa fu posta in una nicchia sopra la porta di San Petronio.
Dicesi che mentre Michelagnolo la lavorava, vi capitò il Francia orefice e pittore eccellentissimo per volerla vedere, avendo tanto sentito delle lodi e della fama di lui e delle opere sue, e non avendone vedute alcuna.
Furono adunque messi mezzani, perché vedesse questa, e n'ebbe grazia.
Onde veggendo egli l'artificio di Michelagnolo, stupì; per il che fu da lui dimandato che gli pareva di quella figura, rispose il Francia che era un bellissimo getto et una bella materia.
Là dove parendo a Michelagnolo che egli avessi lodato più il bronzo che l'artifizio, disse: "Io ho quel medesimo obligo a papa Giulio che me l'ha data, che voi agli speziali che vi danno i colori per dipignere", e con còllora in presenza di que' gentiluomini disse che egli era un goffo.
E di questo proposito medesimo venendogli innanzi un figliuolo del Francia su detto, che era molto bel giovanetto, gli disse: "Tuo padre fa più belle figure vive che dipinte".
Fra i medesimi gentiluomini fu uno non so chi, che dimandò a Michelagnolo qual credeva che fussi maggiore, o la statua di quel Papa, o un par di bo', et ei rispose: "Secondo che buoi, se di questi bolognesi, oh! senza dubio son minori i nostri da Fiorenza".
Condusse Michelagnolo questa statua finita di terra innanzi che 'l Papa partissi di Bologna per Roma; et andato Sua Santità a vedere, né sapeva che se gli porre nella man sinistra alzando la destra con un atto fiero, che 'l Papa dimandò s'ella dava la benedizione o la maladizione.
Rispose Michelagnolo che l'annunziava il popolo di Bologna, perché fussi savio; e richiesto Sua Santità di parere se dovessi porre un libro nella sinistra, gli disse: "Mettivi una spada, che io non so lettere".
Lasciò il Papa in sul banco di Messer Antonmaria da Lignano scudi mille per finirla, la quale fu poi posta nel fine di sedici mesi che penò a condurla, nel frontespizio della chiesa di San Petronio nella facciata dinanzi, come si è detto, e della sua grandezza s'è detto.
Questa statua fu rovinata da' Bentivogli, e 'l bronzo di quella venduto al duca Alfonso di Ferrara, che ne fece una artiglieria chiamata la Giulia, salvo la testa, la quale si trova nella sua guardaroba.
Mentre che 'l Papa se n'era tornato a Roma e che Michelagnolo aveva condotto questa statua, nella assenzia di Michelagnolo, Bramante, amico e parente di Raffaello da Urbino, e per questo rispetto poco amico di Michelagnolo, vedendo che il Papa favoriva et ingrandiva l'opere che faceva di scoltura, andaron pensando di levargli dell'animo, che tornando Michelagnolo, Sua Santità non facessi attendere a finire la sepoltura sua, dicendo che pareva uno affrettarsi la morte et augurio cattivo il farsi in vita il sepolcro, e' lo persuasono a far che nel ritorno di Michelagnolo Sua Santità, per memoria di Sisto suo zio, gli dovessi far dipignere la volta della cappella che egli aveva fatta in palazzo, et in questo modo pareva a Bramante et altri emuli di Michelagnolo di ritrarlo dalla scoltura ove lo vedeva perfetto, e metterlo in disperazione, pensando col farlo dipignere che dovessi fare, per non avere sperimento ne' colori a fresco, opera men lodata, e che dovessi riuscire da meno che Raffaello; e caso pure che e' riuscissi il farlo, el facessi sdegnare per ogni modo col Papa, dove ne avessi a seguire, o nell'uno modo o nell'altro, l'intento loro di levarselo dinanzi.
Così ritornato Michelagnolo a Roma e stando in proposito il Papa di non finire per allora la sua sepoltura, lo ricercò che dipignessi la volta della cappella.
Il che Michelagnolo, che desiderava finire la sepoltura e parendogli la volta di quella cappella lavor grande e dificile, e considerando la poca pratica sua ne' colori, cercò con ogni via di scaricarsi questo peso da dosso, mettendo perciò innanzi Raffaello.
Ma tanto quanto più ricusava, tanto maggior voglia ne cresceva al Papa, impetuoso nelle sue imprese, e per arroto di nuovo dagli emuli di Michelagnolo stimolato, e spezialmente da Bramante, che quasi il Papa, che era sùbito, si fu per adirare con Michelagnolo.
Là dove visto che perseverava Sua Santità in questo, si risolvé a farla, et a Bramante comandò il Papa che facessi per poterla dipignere il palco: dove lo fece impiccato tutto sopra canapi, bucando la volta; il che da Michelagnolo visto dimandò Bramante come egli avea a fare, finito che avea di dipignerla, a riturare i buchi; il quale disse: "E' vi si penserà poi", e che non si poteva fare altrimenti.
Conobbe Michelagnolo che o Bramante in questo valeva poco, o che egl'era poco amico, e se ne andò dal Papa e gli disse che quel ponte non stava bene, e che Bramante non l'aveva saputo fare; il quale gli rispose in presenzia di Bramante che lo facessi a modo suo.
Così ordinò di farlo sopra i sorgozoni che non toccassi il muro, che fu il modo che ha insegnato poi et a Bramante et agli altri di armare le volte e fare molte buone opere.
Dove egli fece avanzare a un povero uomo legnaiuolo che lo rifece tanto di canapi, che vendutogli avanzò la dote per una sua figliuola, donandogliene Michelagnolo.
Per il che messo mano a fare i cartoni di detta volta, dove volse ancora il Papa che si guastassi le facciate che avevano già dipinto al tempo di Sisto i maestri innanzi a lui, e fermò che per tutto il costo di questa opera avessi quindici mila ducati, il quale prezzo fu fatto per Giuliano da San Gallo.
Per il che sforzato Michelagnolo dalla grandezza della impresa a risolversi di volere pigliare aiuto, e mandato a Fiorenza per uomini e deliberato mostrare in tal cosa che quei che prima v'avevano dipinto dovevano essere prigioni delle fatiche sue, volse ancora mostrare agli artefici moderni come si disegna e dipigne.
Laonde il suggetto della cosa lo spinse a andare tanto alto per la fama e per la salute dell'arte, che cominciò e finì i cartoni, e quella volendo poi colorire a fresco e non avendo fatto più, vennero da Fiorenza in Roma alcuni amici suoi pittori, perché a tal cosa gli porgessero aiuto et ancora per vedere il modo del lavorare a fresco da loro, nel qual v'erano alcuni pratichi, fra i quali furono il Granaccio, Giulian Bugiardini, Iacopo di Sandro, l'Indaco vecchio, Agnolo di Domenico et Aristotile, e dato principio all'opera, fece loro cominciare alcune cose per saggio.
Ma veduto le fatiche loro molto lontane dal desiderio suo e non sodisfacendogli, una mattina si risolse gettare a terra ogni cosa che avevano fatto.
E rinchiusosi nella cappella non volse mai aprir loro, né manco in casa, dove era, da essi si lasciò vedere.
E così da la beffa, la quale pareva loro che troppo durasse, presero partito, e con vergogna se ne tornarono a Fiorenza.
Laonde Michelagnolo, preso ordine di far da sé tutta quella opera, a bonissimo termine la ridusse con ogni sollecitudine di fatica e di studio; né mai si lasciava vedere per non dare cagione che tal cosa s'avesse a mostrare; onde negli animi delle genti nasceva ogni dì maggior desiderio di vederla.
Era papa Giulio molto desideroso di vedere le imprese che e' faceva, per il che di questa che gli era nascosa venne in grandissimo desiderio; onde volse un giorno andare a vederla e non gli fu aperto, ché Michelagnolo non averebbe voluto mostrarla.
Per la qual cosa nacque il disordine, come s'è ragionato, che s'ebbe a partire di Roma, non volendo mostrarla al Papa; che secondo che io intesi da lui per chiarir questo dubbio, quando e' ne fu condotta il terzo, la gli cominciò a levare certe muffe traendo tramontano una invernata.
Ciò fu cagione che la calce di Roma, per essere bianca fatta di trevertino, non secca così presto, e mescolata con la pozzolana, che è di color tanè, fa una mestica scura, e quando l'è liquida, aquosa, e che 'l muro è bagnato bene, fiorisce spesso nel seccarsi; dove che in molti luoghi sputava quello salso umore fiorito, ma col tempo l'aria lo consumava.
Era di questa cosa disperato Michelagnolo, né voleva seguitare più, e scusandosi col Papa che quel lavoro non gli riusciva, ci mandò Sua Santità Giuliano da San Gallo, che dettogli da che veniva il difetto, lo confortò a seguitare e gli insegnò a levare le muffe.
Là dove condottola fino alla metà, il Papa, che v'era poi andato a vedere alcune volte per certe scale a piuoli aiutato da Michelagnolo, volse che ella si scoprissi, perché era di natura frettoloso et impaziente, e non poteva aspettare ch'ella fussi perfetta et avessi avuto, come si dice, l'ultima mano.
Trasse subito che fu scoperta tutta Roma a vedere, et il Papa fu il primo, non avendo pazienzia che abassassi la polvere per il disfare de' palchi.
Dove Raffaello da Urbino, che era molto eccellente in imitare, vistola mutò subito maniera, e fece a un tratto per mostrare la virtù sua i Profeti e le Sibille dell'opera della Pace, e Bramante allora tentò che l'altra metà della cappella si desse dal Papa a Raffaello.
Il che inteso Michelagnolo si dolse di Bramante e disse al Papa senza avergli rispetto molti difetti, e della vita, e delle opere sue d'architettura, che come s'è visto poi, Michelagnolo nella fabbrica di San Piero n'è stato correttore.
Ma il Papa, conoscendo ogni giorno più la virtù di Michelagnolo, volse che seguitasse, e veduto l'opera scoperta, giudicò che Michelagnolo l'altra metà la poteva migliorare assai.
E così del tutto condusse alla fine perfettamente in venti mesi da sé solo quell'opera senza aiuto pure di chi gli macinassi i colori.
Èssi Michelagnolo doluto talvolta che per la fretta che li faceva il Papa e' non la potessi finire come arebbe voluto a modo suo, dimandandogli il Papa importunamente quando e' finirebbe; dove una volta fra l'altre gli rispose che ella sarebbe finita "quando io arò satisfatto a me nelle cose dell'arte": "E noi vogliamo", rispose il Papa, "che satisfacciate a noi nella voglia che aviamo di farla presto"; gli conchiuse finalmente che se non la finiva presto, che lo farebbe gettare giù da quel palco.
Dove Michelagnolo, che temeva et aveva da temere la furia del Papa, finì subito senza metter tempo in mezzo quel che ci mancava; e disfatto il resto del palco, la scoperse la mattina d'Ognisanti che 'l Papa andò in cappella a cantare la messa, con satisfazione di tutta quella città.
Desiderava Michelagnolo ritoccare alcune cose a secco, come avevon fatto que' maestri vecchi nelle storie di sotto, certi campi, e panni, et arie di azzurro oltramarino, et ornamenti d'oro in qualche luogo, acciò gli desse più ricchezza e maggior vista; per che avendo inteso il Papa che ci mancava ancor questo, desiderava, sentendola lodar tanto da chi l'aveva vista, che la fornissi, ma perché era troppo lunga cosa a Michelagnolo rifare il palco, restò pur così.
Il Papa vedendo spesso Michelagnolo gli diceva: "Che la cappella si arrichisca di colori e d'oro, ché l'è povera".
Michelagnolo con domestichezza rispondeva: "Padre Santo, in quel tempo gli uomini non portavano addosso oro, e quegli che son dipinti non furon mai troppo ricchi, ma santi uomini, perch'egli sprezaron le ricchezze".
Fu pagato in più volte a Michelagnolo dal Papa a conto di quest'opera tremila scudi, che ne dovette spendere in colori venticinque.
Fu condotta questa opera con suo grandissimo disagio dello stare a lavorare col capo all'insù, e talmente aveva guasto la vista, che non poteva leggere lettere né guardar disegni se non all'insù; che gli durò poi parecchi mesi, et io ne posso fare fede, che avendo lavorato cinque stanze in volta per le camere grandi del palazzo del duca Cosimo, se io non avessi fatto una sedia che s'appoggiava la testa e si stava a giacere lavorando, non le conducevo mai, ché mi ha rovinato la vista et indebolito la testa di maniera, che me ne sento ancora e stupisco che Michelagnolo reggessi tanto a quel disagio.
Imperò acceso ogni dì più dal desiderio del fare et allo acquisto e miglioramento che fece, non sentiva fatica né curava disagio.
È il partimento di questa opera accomodato con sei peducci per banda et uno nel mezzo delle faccie da' piè e da capo, ne' quali ha fatto di braccia sei di grandezza, drento Sibille e Profeti, e nel mezzo da la Creazione del mondo fino al Diluvio e la inebriazione di Noè, e nelle lunette tutta la Generazione di Gesù Cristo.
Nel partimento non ha usato ordine di prospettive che scortino, né v'è veduta ferma, ma è ito accomodando più il partimento alle figure che le figure al partimento, bastando condurre gli ignudi e' vestiti con perfezzione di disegno, che non si può né fare, né s'è fatto mai opera, et a pena con fatica si può imitare il fatto.
Questa opera è stata et è veramente la lucerna dell'arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all'arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo, per tante centinaia d'anni in tenebre stato.
E nel vero non curi più chi è pittore di vedere novità et invenzioni, e di attitudini, abbigliamenti addosso a figure, modi nuovi d'aria e terribilità di cose variamente dipinte, perché tutta quella perfezzione che si può dare a cosa che in tal magisterio si faccia a questa ha dato.
Ma stupisca ora ogni uomo che in quella sa scorger la bontà delle figure, la perfezzione degli scorti, la stupendissima rotondità di contorni, che hanno in sé grazia e sveltezza, girati con quella bella proporzione che nei belli ignudi si vede, ne' quali per mostrar gli stremi e la perfezzione dell'arte, ve ne fece di tutte l'età, diferenti d'aria e di forma così nel viso come ne' lineamenti, di aver più sveltezza e grossezza nelle membra, come ancora si può conoscere nelle bellissime attitudini che diferente[mente] e' fanno sedendo e girando e sostenendo alcuni festoni di foglie di quercia e di ghiande messe per l'arme e per l'impresa di papa Giulio, denotando che a quel tempo et al governo suo era l'età dell'oro, per non essere allora la Italia ne' travagli e nelle miserie che ella è stata poi.
Così in mezzo di loro tengono alcune medaglie drentovi storie in bozza e contrafatte in bronzo e d'oro, cavate dal Libro de' Re.
Senza che egli per mostrare la perfezzione dell'arte e la grandezza de Dio, fece nelle istorie il suo dividere la luce dalle tenebre, nelle quale si vede la maestà sua che con le braccia aperte si sostiene sopra sé solo e mostra amore insieme et artifizio.
Nella seconda fece con bellissima discrezione et ingegno quando Dio fa il sole e la luna, dove è sostenuto da molti putti e mostrasi molto terribile per lo scorto delle braccia e delle gambe.
Il medesimo fece nella medesima storia quando benedetto la terra e fatto gli animali, volando si vede in quella volta una figura che scorta, e dove tu camini per la cappella, continuo gira, e si voltan per ogni verso; così nell'altra quando divide l'acqua dalla terra: figure bellissime et acutezze d'ingegno degne solamente d'essere fatte dalle divinissime mani di Michelagnolo.
E così seguitò sotto a questo la creazione di Adamo, dove ha figurato Dio portato da un gruppo di Angioli ignudi e di tenera età, i quali par che sostenghino non solo una figura, ma tutto il peso del mondo, apparente tale mediante la venerabilissima maiestà di quello e la maniera del moto, nel quale con un braccio cigne alcuni putti, quasi che egli si sostenga, e con l'altro porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e di dintorni di qualità che e' par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore più tosto che dal pennello e disegno d'uno uomo tale.
Poco di sotto a questa in una altra istoria fé il suo cavar della costa della madre nostra Eva, nella quale si vede quegli ignudi l'un quasi morto per essere prigion del sonno, e l'altra divenuta viva e fatta vigilantissima per la benedizione di Dio.
Si conosce dal pennello di questo ingegnosissimo artefice interamente la diferenza che è dal sonno alla vigilanza, e quanto stabile e ferma possa apparire umanamente parlando la maestà divina.
Séguitale di sotto come Adamo, alle persuasioni d'una figura mezza donna e mezza serpe, prende la morte sua e nostra nel pomo, e veggonvisi egli et Eva cacciati di Paradiso.
Dove nelle figure dell'Angelo appare con grandezza e nobiltà la esecuzione del mandato d'un Signore adirato, e nella attitudine di Adamo il dispiacere del suo peccato, insieme con la paura della morte; come nella femina similmente si conosce la vergogna, la viltà e la voglia del raccomandarsi, mediante il suo restrignersi nelle braccia, giuntar le mani a palme e mettersi il collo in seno; e nel torcer la testa verso l'Angelo, che ella ha più paura della iustizia che speranza nella misericordia divina.
Né di minor bellezza è la storia del sacrificio di Caino et Abel, dove sono chi porta le legne e chi soffia chinato nel fuoco et altri che scannono la vittima; la quale certo non è fatta con meno considerazione et accuratezza che le altre.
Usò l'arte medesima et il medesimo giudizio nella storia del Diluvio, dove appariscono diverse morti d'uomini, che spaventati dal terror di quei giorni, cercano il più che possono per diverse vie scampo alle lor vite.
Perciò che nelle teste di quelle figure, si conosce la vita esser in preda della morte, non meno che la paura, il terrore et il disprezzo d'ogni cosa.
Vedevisi la pietà di molti, aiutandosi l'un l'altro tirarsi al sommo d'un sasso cercando scampo.
Tra' quali vi è uno che abracciato un mezzo morto, cerca il più che può di camparlo, che la natura non lo mostra meglio.
Non si può dir quanto sia bene espressa la storia di Noè, quando inebriato dal vino dorme scoperto et ha presenti un figliuolo che se ne ride e due che lo ricuoprono; storia e virtù d'artefice incomparabile e da non poter essere vinta se non da se medesimo.
Conciò sia che come se ella per le cose fatte insino allora avessi preso animo, risorse e demostrossi molto maggiore nelle cinque Sibille e ne' sette Profeti fatti qui di grandezza di cinque braccia l'uno e più; dove in tutti sono attitudini varie e bellezza di panni e varietà di vestiri, e tutto insomma con invenzione et iudizio miracoloso, onde a chi distingue gli affetti loro appariscono divini.
Vedesi quel Ieremia con le gambe incrocicchiate, tenersi una mano alla barba posando il gomito sopra il ginocchio, l'altra posar nel grembo et aver la testa chinata d'una maniera che ben dimostra la malinconia, i pensieri, la cogitazione e l'amaritudine che egli ha del suo popolo; così medesimamente due putti, che gli sono dietro; e similmente è nella prima Sibilla di sotto a lui verso la porta, nella quale volendo esprimere la vecchiezza, oltra che egli aviluppandola di panni ha voluto mostrare che già i sangui sono agghiacciati dal tempo, et inoltre nel leggere, per avere la vista già logora, li fa accostare il libro alla vista acutissimamente.
Sotto a questa figura è Ezechiel profeta vecchio, il quale ha una grazia e movenzia bellissima et è molto di panni abbigliato, che con una mano tiene un ruotolo di profezie, con l'altra sollevata, voltando la testa mostra voler parlar cose alte e grandi, e dietro ha due putti che gli tengono i libri.
Seguita sotto questi una Sibilla, che fa il contrario di Eritrea sibilla che di sopra dicemo, perché tenendo il libro lontano cerca voltare una carta mentre ella con un ginocchio sopra l'altro si ferma in sé, pensando con gravità quel ch'ella de' scrivere, fin che un putto che gli è dietro, soffiando in un stizzon di fuoco gli accende la lucerna.
La qual figura è di bellezza straordinaria per l'aria del viso e per la acconciatura del capo e per lo abbigliamento de' panni, oltra ch'ella ha le braccia nude, le quali son come l'altre parti.
Fece sotto questa Sibilla Ioel profeta, il quale fermatosi sopra di sé ha preso una carta e quella con ogni intenzione et affetto legge.
Dove nell'aspetto si conosce che egli si compiace tanto di quel che e' truova scritto, ch'e' pare una persona viva quando ella ha aplicato molto forte i suoi pensieri a qualche cosa.
Similmente pose sopra la porta della cappella il vecchio Zacheria, il quale cercando per il libro scritto d'una cosa che egli non truova sta con una gamba alta e l'altra bassa, e mentre che la furia del cercare quel che non truova lo fa stare così, non si ricorda del disagio che egli in così fatta positura patisce.
Questa figura è di bellissimo aspetto per la vecchiezza et è di forma alquanto grossa et ha un panno con poche pieghe, che è bellissimo, oltra che e' vi è un'altra Sibilla, che voltando in verso l'altare dall'altra banda col mostrare alcune scritte, non è meno da lodare coi suoi putti che si siano l'altre.
Ma chi considererà Isaia profeta che gli è di sopra, il quale stando molto fiso ne' suoi pensieri ha le gambe sopraposte l'una e l'altra, e tenendo una mano dentro al libro per segno del dove egli leggeva ha posato l'altro braccio col gomito sopra il libro et apoggiato la gota alla mano, chiamato da un di quei putti che egli ha dietro, volge solamente la testa senza sconciarsi niente del resto, vedrà tratti veramente tolti dalla natura stessa, vera madre dell'arte, e vedrà una figura che tutta bene studiata può insegnare largamente tutti i precetti del buon pittore.
Sopra a questo Profeta è una Sibilla vecchia bellissima che mentre che ella siede studia in un libro con una eccessiva grazia, e non senza belle attitudini di due putti che le sono intorno.
Né si può pensare di immaginarsi di poter agiugnere alla eccellenza della figura di un giovane fatto per Daniello, il quale scrivendo in un gran libro cava di certe scritte alcune cose e le copia con una avidità incredibile.
E per sostenimento di quel peso gli fece un putto fra le gambe, che lo regge mentre che egli scrive, il che non potrà mai paragonare pennello tenuto da qual si voglia mano; così come la bellissima figura della Libica, la quale avendo scritto un gran volume tratto da molti libri, sta con una attitudine donnesca per levarsi in piedi, et in un medesimo tempo mostra volere alzarsi e serrare il libro: cosa difficilissima per non dire impossibile ad ogni altro che al suo maestro.
Che si può egli dire delle quattro storie da' canti, ne' peducci di quella volta? Dove nell'una Davit, con quella forza puerile che più si può, nella vincita d'un gigante spiccandoli il collo fa stupire alcune teste di soldati che sono intorno al campo; come ancora maravigliare altrui le bellissime attitudini che egli fece nella storia di Iudit, nell'altro canto, nella quale apparisce il tronco di Oloferne, che privo della testa si risente, mentre che ella mette la morta testa in una cesta, in capo a una sua fantesca vecchia, la quale per essere grande di persona si china acciò Iudit la possa aggiugnere per acconciarla bene; e mentre che ella tenendo le mani al peso cerca di ricoprirla, e voltando la testa verso il tronco, il quale così morto nello alzare una gamba et un braccio fa romore dentro nel padiglione, mostra nella vista il timore del campo e la paura del morto: pittura veramente consideratissima.
Ma più bella e più divina di questa e di tutte l'altre ancora è la storia delle serpi di Moisè, la quale è sopra il sinistro canto dello altare, conciò sia che in lei si vede la strage che fa de' morti, il piovere, il pugnere et il mordere delle serpi, e vi apparisce quella che Moisè messe di bronzo sopra il legno; nella quale storia vivamente si conosce la diversità delle morti che fanno coloro che privi sono d'ogni speranza per il morso di quelle.
Dove si vede il veleno atrocissimo far di spasmo e paura morire infiniti, senza il legare le gambe et avvolgere a le braccia coloro che rimasti in quella attitudine che gli erano non si possono muovere; senza le bellissime teste che gridano et arrovesciate si disperano.
Né manco belli di tutti questi sono coloro che riguardando il serpente e sentendosi nel riguardarlo alleggerire il dolore e rendere la vita, lo riguardano con affetto grandissimo, fra' quali si vede una femina che è sostenuta da uno d'una maniera che e' si conosce non meno l'aiuto che l'è porto da chi la regge, che il bisogno di lei in sì subita paura e puntura.
Similmente nell'altra, dove Assuero essendo in letto legge i suoi annali, son figure molto belle, e tra l'altre vi si vegon tre figure a una tavola, che mangiano, nelle quali rapresenta il consiglio che e' si fece di liberare il popolo ebreo e di appiccare Aman; la quale figura fu da lui in scorto straordinariamente condotta, avvenga che e' finse il tronco che regge la persona di colui e quel braccio che viene innanzi non dipinti, ma vivi e rilevati infuori, così con quella gamba che manda innanzi e simil parti che vanno dentro; figura certamente fra le dificili e belle bellissima e dificilissima.
Che troppo lungo sarebbe a dichiarare le tante belle fantasie d'atti diferenti dove tutta è la geonologia d'i padri cominciando da' figliuoli di Noè per mostrare la Generazione di Gesù Cristo.
Nelle qual figure non si può dire la diversità delle cose, come panni, arie di teste et infinità di capricci straordinari e nuovi e bellissimamente considerati; dove non è cosa che con ingegno non sia messa in atto; e tutte le figure che vi sono son di scorti bellissimi et artifiziosi, et ogni cosa che si ammira è lodatissima e divina.
Ma chi non amirerà e non resterà smarrito veggendo la terribilità dell'Iona, ultima figura della cappella? Dove con la forza della arte la volta, che per natura viene innanzi girata dalla muraglia, sospinta dalla apparenza di quella figura che si piega indietro, apparisce diritta e vinta dall'arte del disegno, ombre e lumi, pare che veramente si pieghi indietro.
O veramente felice età nostra, o beati artefici, che ben così vi dovete chiamare, da che nel tempo vostro avete potuto al fonte di tanta chiarezza rischiarare le tenebrose luci degli occhi e vedere fattovi piano tutto quel che era dificile da sì maraviglioso e singulare artefice! Certamente la gloria delle sue fatiche vi fa conoscere et onorare, da che ha tolto da voi quella benda che avevate innanzi agli occhi della mente, sì di tenebre piena, e v'ha scoperto il vero dal falso, il quale v'adombrava l'intelletto.
Ringraziate di ciò dunque il Cielo e sforzatevi di imitare Michelagnolo in tutte le cose.
Sentissi nel discoprirla correre tutto il mondo d'ogni parte, e questo bastò per fare rimanere le persone trasecolate e mutole; laonde il Papa, di tal cosa ingrandito e dato animo a sé di far maggiore impresa, con danari e ricchi doni rimunerò molto Michelagnolo, il quale diceva alle volte de' favori, che gli faceva quel Papa, tanto grandi che mostrava di conoscere grandemente la virtù sua; e se talvolta per una sua cotale amorevolezza gli faceva villania la medicava con doni e favori segnalati: come fu quando dimandandogli Michelagnolo licenzia una volta di andare a fare il San Giovanni a Fiorenza, e chiestogli per ciò danari, disse: "Be', questa cappella quando sarà fornita?"; "Quando potrò, Padre Santo"; il Papa che aveva una mazza in mano percosse Michelagnolo dicendo: "Quando potrò, quando potrò: te la farò finire bene io".
Però tornato a casa Michelagnolo per mettersi in ordine per ire a Fiorenza, mandò subito il Papa Cursio, suo camerieri, a Michelagnolo con cinquecento scudi, dubitando che non facessi delle sue, a placarlo, facendo scusa del Papa che ciò erano tutti favori et amorevolezze.
E perché conosceva la natura del Papa e finalmente l'amava, se ne rideva, vedendo poi finalmente ritornare ogni cosa in favore et util suo, e che procurava quel Pontefice ogni cosa per mantenersi questo uomo amico.
Dove che, finito la cappella et innanzi che venissi quel Papa a morte, ordinò Sua Santità, se morissi, al cardinale Santiquattro et al cardinale Aginense suo nipote che facessi finire la sua sepoltura con minor disegno che 'l primo.
Al che fare di nuovo si messe Michelagnolo, e così diede principio volentieri a questa sepoltura per condurla una volta senza tanti impedimenti al fine, che n'ebbe sempre di poi dispiacere e fastidi e travagli più che di cosa che facessi in vita, e ne acquistò per molto tempo in un certo modo nome d'ingrato verso quel Papa, che l'amò e favorì tanto.
Di che egli alla sepoltura ritornato, quella di continuo lavorando e parte mettendo in ordine disegni da potere condurre le facciate della cappella, volse la fortuna invidiosa che di tal memoria non si lasciasse quel fine che di tanta perfezzione aveva avuto principio; perché successe in quel tempo la morte di papa Giulio, onde tal cosa si misse in abandono per la creazione di papa Leone Decimo, il quale d'animo e valore non meno splendido che Giulio, aveva desiderio di lasciare nella patria sua per essere stato il primo Pontefice di quella, in memoria di sé e d'uno artefice divino e suo cittadino, quelle maraviglie che un grandissimo principe come esso poteva fare.
Per il che dato ordine che la facciata di S.
Lorenzo di Fiorenza, chiesa dalla casa de' Medici fabricata, si facesse per lui, fu cagione che il lavoro della sepoltura di Giulio rimase imperfetto, e richiese Michelagnolo di parere e disegno e che dovesse essere egli il capo di questa opera.
Dove Michelagnolo fé tutta quella resistenza che potette allegando essere obligato per la sepoltura [a] Santiquattro et Aginense; gli rispose che non pensassi a questo che già aveva pensato egli et operato che Michelagnolo fussi licenziato da loro, promettendo che Michelagnolo lavorerebbe a Fiorenza, come già aveva cominciato, le figure per detta sepoltura; che tutto fu con dispiacere de' cardinali e di Michelagnolo che si partì piangendo.
Onde vari et infiniti furono i ragionamenti che circa ciò seguirono; perché tale opera della facciata averebbono voluto compartire in più persone, e per l'architettura concorsero molti artefici a Roma al Papa, e fecero disegni Baccio d'Agnolo, Antonio da San Gallo, Andrea et Iacopo Sansovino, il grazioso Raffaello da Urbino, il quale nella venuta del Papa fu poi condotto a Fiorenza per tale effetto.
Laonde Michelagnolo si risolse di fare un modello, e non volere altro che lui in tal cosa, superiore o guida dell'architettura.
Ma questo non volere aiuto fu cagione che né egli né altri operasse, e que' maestri disperati ai loro soliti esercizii si ritornassero.
E Michelagnolo andando a Carrara [passò da Fiorenza] con una comissione che da Iacopo Salviati gli fussino pagati mille scudi; ma essendo nella giunta sua serrato Iacopo in camera per faccende con alcuni cittadini, Michelagnolo non volle aspettare l'udienza, ma si partì senza far motto e subito andò a Carrara.
Intese Iacopo dello arrivo di Michelagnolo, e non lo trovando in Fiorenza gli mandò i mille scudi a Carrara.
Voleva il mandato che gli facesse la ricevuta, al quale disse che erano per la spesa del Papa e non per interesso suo, che gli riportasse che non usava far quitanza, né riceute per altri; onde per tema colui ritornò senza a Iacopo.
Mentre che egli era a Carrara e che e' faceva cavar marmi, non meno per la sepoltura di Giulio che per la facciata, pensando pur di finirla, gli fu scritto che avendo inteso papa Leone che nelle montagne di Pietrasanta a Seravezza sul dominio fiorentino, nella altezza del più alto monte chiamato l'Altissimo, erano marmi della medesima bontà e bellezza che quelli di Carrara, e già lo sapeva Michelagnolo, ma pareva che non ci volesse attendere per essere amico del marchese Alberigo signore di Carrara, e per fargli beneficio volessi più tosto cavare de' carraresi che di quegli di Seravezza, o fusse che egli la giudicasse cosa lunga e da perdervi molto tempo, come intervenne; ma pure fu forzato andare a Seravezza, se bene allegava in contrario che ciò fussi di più disagio e spesa, come era, massimamente nel suo principio, e di più che non era forse così.
Ma, in effetto, non volse udirne parola, però convenne fare una strada di parecchi miglia per le montagne, e per forza di mazze e picconi rompere massi per ispianare e con palafitta ne' luoghi paludosi, ove spese molti anni Michelagnolo per esseguire la volontà del Papa, e vi si cavò finalmente cinque colonne di giusta grandezza, che una n'è sopra la piazza di San Lorenzo in Fiorenza, l'altre sono alla marina.
E per questa cagione il marchese Alberigo, che si vedde guasto l'aviamento, diventò poi gran nemico di Michelagnolo senza sua colpa.
Cavò oltre a queste colonne molti marmi, che sono ancora in sulle cave stati più di trenta anni.
Ma oggi il duca Cosimo ha dato ordine di finire la strada, che ci è ancora dua miglia a farsi, molto malagevole per condurre questi marmi, e di più da un'altra cava eccellente per marmi che allora fu scoperta da Michelagnolo, per poter finire molte belle imprese, e nel medesimo luogo di Seravezza ha scoperto una montagna di mischii durissimi e molti begli sotto Stazema, villa in quelle montagne, dove ha fatto fare il medesimo duca Cosimo una strada siliciata di più di quattro miglia per condurli alla marina.
E tornando a Michelagnolo, che se ne tornò a Fiorenza perdendo molto tempo ora in questa cosa et ora in quell'altra, et allora fece per il palazzo de' Medici un modello delle finestre inginocchiate a quelle stanze che sono sul canto dove Giovanni da Udine lavorò quella camera di stucco e dipinse, che è cosa lodatissima, e fecevi fare, ma con suo ordine, dal Piloto orefice quelle gelosie di rame straforato che son certo cosa mirabile.
Consumò Michelagnolo molti anni in cavar marmi; vero è che mentre si cavavano fece modelli di cera et altre cose per l'Opera.
Ma tanto si prolungò questa impresa, che i danari del Papa assegnati a questo lavoro si consumarono nella guerra di Lombardia, e l'opera per la morte di Leone rimase imperfetta, per che altro non vi si fece che il fondamento dinanzi per reggerla, e condussesi da Carrara una colonna grande di marmo su la piazza di San Lorenzo.
Spaventò la morte di Leone talmente gli artefici e le arti et in Roma et in Fiorenza, che mentre che Adriano vi visse, Michelagnolo s'attese in Fiorenza alla sepoltura di Giulio.
Ma morto Adriano e creato Clemente VII, il quale nelle arti della architettura, della scultura, della pittura, fu non meno desideroso di lasciar fama che Leone e gli altri suo' predecessori, in questo tempo, l'anno 1525, fu condotto Giorgio Vasari fanciullo a Fiorenza dal cardinale di Cortona e messo a stare con Michelagnolo a imparare l'arte.
Ma essendo lui chiamato a Roma da papa Clemente VII, perché gli aveva cominciato la libreria di San Lorenzo e la sagrestia nuova per metter le sepolture di marmo de' suoi maggiori che egli faceva, si risolvé che il Vasari andasse a stare con Andrea del Sarto fino a che egli si spediva, et egli proprio venne a bottega di Andrea a raccomandarlo.
Partì per Roma Michelagnolo in fretta, et infestato di nuovo da Francesco Maria duca di Urbino nipote di papa Giulio, il quale si doleva di Michelagnolo dicendo che aveva ricevuto sedici mila scudi per detta sepoltura e che se ne stava in Fiorenza a' suoi piaceri, e lo minacciò malamente che se non vi attendeva lo farebbe capitare male.
Giunto a Roma papa Clemente, che se ne voleva servire, lo consigliò che facessi conto cogli agenti del Duca, ché pensava che a quel che gli aveva fatto fussi più tosto creditore che debitore; la cosa restò così.
E ragionando insieme di molte cose, si risolsero di finire affatto la sagrestia e libreria nuova di S.
Lorenzo di Fiorenza.
Laonde, partitosi di Roma, e' voltò la cupola che vi si vede, la quale di vario componimento fece lavorare, et al Piloto orefice fece fare una palla a settantadue facce che è bellissima.
Accadde mentre che e' la voltava, che fu domandato da alcuni suoi amici: "Michelagnolo, voi doverete molto variare la vostra lanterna da quella di Filippo Bruneleschi", et egli rispose loro: "Egli si può ben variare, ma migliorare no".
Fecevi dentro quattro sepolture per ornamento nelle facce, per li corpi de' padri de' due papi, Lorenzo vecchio e Giuliano suo fratello, e per Giuliano fratello di Leone e per Lorenzo suo nipote.
E perché egli la volse fare ad imitazione della sagrestia vecchia, che Filippo Brunelleschi aveva fatto, ma con altro ordine di ornamenti, vi fece dentro uno ornamento composito, nel più vario e più nuovo modo che per tempo alcuno gli antichi et i moderni maestri abbino potuto operare; perché nella novità di sì belle cornici, capitegli e base, porte, tabernacoli e sepolture, fece assai diverso da quello che di misura, ordine e regola facevano gli uomini secondo il comune uso e secondo Vitruvio e le antichità, per non volere a quello agiugnere.
La quale licenzia ha dato grande animo a quelli che hanno veduto il far suo di mettersi a imitarlo, e nuove fantasie si sono vedute poi alla grottesca più tosto che a ragione o regola, a' loro ornamenti.
Onde gli artefici gli hanno infinito e perpetuo obligo, avendo egli rotti i lacci e le catene delle cose, che per via d'una strada comune eglino di continuo operavano.
Ma poi lo mostrò meglio e volse far conoscere tal cosa nella libreria di San Lorenzo nel medesimo luogo, nel bel partimento delle finestre, nello spartimento del palco e nella maravigliosa entrata di quel ricetto.
Né si vidde mai grazia più risoluta nel tutto e nelle parti come nelle mensole, ne' tabernacoli e nelle cornici, né scala più comoda: nella quale fece tanto bizzarre rotture di scaglioni e variò tanto da la comune usanza delli altri, che ogni uno se ne stupì.
Mandò in quello tempo Pietro Urbano pistolese suo creato a Roma a mettere in opera un Cristo ignudo che tiene la croce, il quale è una figura mirabilissima, che fu posto nella Minerva allato alla cappella maggiore per Messer Antonio Metelli.
Seguì intorno a questo tempo il Sacco di Roma, la cacciata de' Medici di Firenze, nel qual mutamento disegnando chi governava rifortificare quella città, feciono Michelagnolo sopra tutte le fortificazioni commessario generale.
Dove in più luoghi disegnò e fece fortificar la città, e finalmente il poggio di S.
Miniato cinse di bastioni, i quali non colle piote di terra faceva e legnami e stipe alla grossa, come s'usa ordinariamente, ma armadure di sotto intessute di castagni e quercie e di altre buone maniere, et in cambio di piote prese mattoni crudi fatti con capechio e sterco di bestie, spianati con somma diligenza: e perciò fu mandato dalla Signoria di Firenze a Ferrara a vedere le fortificazioni del duca Afonso Primo, e così le sue artiglierie e munizioni; ove ricevé molte cortesie da quel signore, che lo pregò che gli facessi a comodo suo qualche cosa di sua mano, che tutto gli promesse Michelagnolo; il quale tornato andava del continuo anco fortificando la città, e benché avessi questi impedimenti lavorava nondimeno un quadro d'una Leda per quel Duca, colorito a tempera di sua mano, che fu cosa divina, come si dirà a suo luogo, e le statue per le sepolture di San Lorenzo segretamente.
Stette Michelagnolo ancora in questo tempo sul monte di San Miniato forse sei mesi per sollecitare quella fortificazione del monte, perché se 'l nemico se ne fussi impadronito era perduta la città, e così con ogni sua diligenza seguitava queste imprese.
Et in questo tempo seguitò in detta sagrestia l'opera; che di quella restarono parte finite e parte no sette statue, nelle quali con le invenzioni dell'architettura delle sepolture è forza confessare che egli abbia avanzato ogni uomo in queste tre professioni.
Di che ne rendono ancora testimonio quelle statue, che da lui furono abozzate e finite di marmo che in tal luogo si veggono: l'una è la Nostra Donna, la quale nella sua attitudine sedendo manda la gamba ritta adosso alla manca con posar ginocchio sopra ginocchio, et il Putto inforcando le cosce in su quella che è più alta, si storce con attitudine bellissima in verso la madre chiedendo il latte, et ella con tenerlo con una mano e con l'altra apogiandosi si piega per dargliene.
Ancora che non siano finite le parti sue, si conosce nell'essere rimasta abozzata e gradinata nella imperfezione della bozza la perfezzione dell'opera.
Ma molto più fece stupire ciascuno che considerando nel fare le sepolture del duca Giuliano e del duca Lorenzo de' Medici egli pensassi che non solo la terra fussi per la grandezza loro bastante a dar loro onorata sepoltura, ma volse che tutte le parti del mondo vi fossero, e che gli mettessero in mezzo e coprissero il lor sepolcro quattro statue: a uno pose la Notte et il Giorno, a l'altro l'Aurora et il Crepuscolo; le quali statue sono con bellissime forme di attitudini et artificio di muscoli lavorate, bastanti, se l'arte perduta fosse, a ritornarla nella pristina luce.
Vi son fra l'altre statue que' due capitani armati, l'uno il pensoso duca Lorenzo, nel sembiante della saviezza con bellissime gambe talmente fatte che occhio non può veder meglio, l'altro è il duca Giuliano sì fiero con una testa e gola con incassatura di occhi, profilo di naso, sfenditura di bocca e capegli sì divini, mani, braccia, ginocchia e piedi; et insomma tutto quello che quivi fece è da fare che gli occhi né stancare né saziare vi si possono già mai.
Veramente chi risguarda la bellezza de' calzari e della corazza, celeste lo crede e non mortale.
Ma che dirò io della Aurora femina ignuda e da fare uscire il maninconico dell'animo e smarrire lo stile alla scultura? Nella quale attitudine si conosce il suo sollecito levarsi sonnacchiosa, svilupparsi dalle piume, perché pare che nel destarsi ella abbia trovato serrato gli occhi a quel gran Duca.
Onde si storce con amaritudine, dolendosi nella sua continovata bellezza in segno del gran dolore.
E che potrò io dire della Notte, statua non rara, ma unica? Chi è quello che abbia per alcun secolo in tale arte veduto mai statue antiche o moderne così fatte? Conoscendosi non solo la quiete di chi dorme, ma il dolore e la malinconia di chi perde cosa onorata e grande.
Credasi pure che questa sia quella Notte la quale oscuri tutti coloro che per alcun tempo nella scultura e nel disegno pensavano, non dico di passarlo, ma di paragonarlo già mai.
Nella qual figura, quella sonnolenza si scorge che nelle imagini adormentate si vede; per che da persone dottissime furono in lode sua fatti molti versi latini e rime volgari come questi de' quali non si sa l'autore:
La Notte, che tu vedi in sì dolci atti
dormir, fu da uno Angelo scolpita
in questo sasso; e perché dorme, ha vita.
Destala, se non 'l credi, e parleratti.
A' quali in persona della Notte rispose Michelagnolo così:
Grato mi è il sonno, e più l'esser di sasso,
mentre che il danno e la vergogna dura,
non veder, non sentir, m'è gran ventura:
però non mi destar, deh, parla basso.
E certo se la inimicizia ch'è tra la fortuna e la virtù, e la bontà d'una e la invidia dell'altra avesse lasciato condurre tal cosa a fine, poteva mostrare l'arte alla natura, che ella di gran lunga in ogni pensiero l'avanzava.
Lavorando egli con sollecitudine e con amore grandissimo tali opere, crebbe, che pur troppo li impedì il fine, lo assedio di Fiorenza, l'anno 1529; il quale fu cagione che poco o nulla egli più vi lavorasse, avendogli i cittadini dato la cura di fortificare oltra al monte di San Miniato, la terra, come s'è detto.
Conciò sia che avendo egli prestato a quella republica mille scudi e trovandosi de' Nove della milizia ufizio deputato sopra la guerra, volse tutto il pensiero e lo animo suo a dar perfezione a quelle fortificazioni, et avendola stretta finalmente l'esercito intorno, et a poco a poco mancata la speranza degli aiuti e cresciute le dificultà del mantenersi, e parendogli di trovarsi a strano partito, per sicurtà della persona sua si deliberò partire di Firenze et andarsene a Vinezia senza farsi conoscere per la strada a nessuno.
Partì dunque segretamente per la via del monte di San Miniato che nessuno il seppe, menandone seco Antonio Mini suo creato e 'l Piloto orefice amico suo fedele, e con essi portarono sul dosso uno imbottito per uno di scudi ne' giubboni.
Et a Ferrara condotti, riposandosi, avvenne che per gli sospetti della guerra e per la lega dello imperatore e del Papa, che erano intorno a Fiorenza, il duca Alfonso da Este teneva ordini in Ferrara e voleva sapere secretamente dagli osti che alloggiavano, i nomi di tutti coloro che ogni dì alloggiavano, e la listra de' forestieri di che nazione si fossero ogni dì si faceva portare.
Avvenne dunque che essendo Michelagnolo quivi con animo di non esser conosciuto, e con li suoi scavalcato, fu ciò per questa via noto al Duca, che se ne rallegrò per esser divenuto amico suo.
Era quel principe di grande animo e mentre che visse si dilettò continuamente della virtù.
Mandò subito alcuni de' primi della sua corte che per parte di sua eccellenza in palazzo e dove era il Duca lo conducessero, et i cavalli et ogni sua cosa levassero e bonissimo alloggiamento in palazzo gli dessero.
Michelagnolo trovandosi in forza altrui, fu constretto ubidire, e quel che vender non poteva, donare, et al Duca con coloro andò senza levare le robe dell'osteria.
Per che fattogli il Duca accoglienze grandissime e doltosi della sua salvatichezza, et apresso fattogli di ricchi et onorevoli doni, volse con buona provisione in Ferrara fermarlo.
Ma egli non avendo a ciò l'animo intento, non vi volle restare; e pregatolo almeno che mentre la guerra durava non si partisse, il Duca di nuovo gli fece offerte di tutto quello che era in poter suo.
Onde Michelagnolo, non volendo esser vinto di cortesia, lo ringraziò molto, e voltandosi verso i suoi due disse che aveva portato in Ferrara dodicimila scudi, e che se gli bisognava erano al piacer suo insieme con esso lui.
Il Duca lo menò a spasso come aveva fatto altra volta per il palazzo, e quivi gli mostrò ciò che aveva di bello fino a un suo ritratto di mano di Tiziano, il quale fu da lui molto commendato.
Né però lo poté mai fermare in palazzo, perché egli alla osteria volse ritornare, onde l'oste che l'alloggiava ebbe sotto mano dal Duca infinite cose da fargli onore e commissione alla partita sua di non pigliare nulla del suo alloggio.
Indi si condusse a Vinegia, dove desiderando di conoscerlo molti gentiluomini, egli che sempre ebbe poca fantasia che di tale esercizio s'intendessero, si partì di Giudecca, dove era alloggiato, dove si dice che allora disegnò per quella città, pregato dal doge Gritti, il ponte del Rialto, disegno rarissimo d'invenzione e d'ornamento.
Fu richiamato Michelagnolo con gran preghi alla patria, e fortemente raccomandatogli che non volessi abandonar l'impresa e mandatogli salvo condotto, finalmente vinto dallo amore non senza pericolo della vita, ritornò, et in quel mentre finì la Leda che faceva, come si disse, dimandatali dal duca Alfonso, la quale fu portata poi in Francia per Anton Mini suo creato.
Et intanto rimediò al campanile di S.
Miniato, torre che offendeva stranamente il campo nimico con due pezzi di artiglieria, di che voltosi a batterlo con cannoni grossi i bombardieri del campo l'avevon quasi lacero e l'arebbono rovinato; onde Michelagnolo, con balle di lana e gagliardi materassi sospesi con corde, lo armò di maniera, che gli è ancora in piedi.
Dicono ancora che nel tempo dell'assedio gli nacque occasione per la voglia che prima aveva d'un sasso di marmo di nove braccia venuto da Carrara, che per gara e concorrenza fra loro, papa Clemente lo aveva dato a Baccio Bandinelli; ma per essere tal cosa nel publico, Michelagnolo la chiese al gonfaloniere, et esso glielo diede che facesse il medesimo, avendo già Baccio fatto il modello e levato di molta pietra per abozzarlo.
Onde fece Michelagnolo un modello, il quale fu tenuto maraviglioso e cosa molto vaga, ma nel ritorno de' Medici fu restituito a Baccio.
Fatto lo accordo, Baccio Valori comessario del Papa ebbe comissione di far pigliare e mettere al Bargello certi cittadini de' più parziali; e la corte medesima cercò di Michelagnolo a casa, il quale dubitandone s'era fuggito segretamente in casa d'un suo grande amico, ove stette molti giorni nascosto, tanto che passato la furia, ricordandosi papa Clemente della virtù di Michelagnolo, fé fare diligenza di trovarlo, con ordine che non se gli dicessi niente, anzi, che se gli tornassi le solite provisioni, e che egli attendessi all'Opera di S.
Lorenzo mettendovi per proveditore Messer Giovanbatista Figiovanni, antico servidore di casa Medici e priore di S.
Lorenzo.
Dove assicurato Michelagnolo cominciò, per farsi amico Baccio Valori, una figura di tre braccia di marmo che era uno Apollo che si cavava del turcasso una freccia, e lo condusse presso al fine, il quale è oggi nella camera del principe di Fiorenza, cosa rarissima, ancora che non sia finita del tutto.
In questo tempo essendo mandato a Michelagnolo un gentiluomo del duca Alfonso di Ferrara, che aveva inteso che gli aveva fatto qualcosa rara di suo mano, per non perdere una gioia così fatta, arrivato che fu in Fiorenza e trovatolo, gli presentò lettere di credenza da quel signore.
Dove Michelagnolo fattogli accoglienze, gli mostrò la Leda dipinta da lui che abraccia il cigno, e Castore e Polluce che uscivano dell'uovo in certo quadro grande dipinto a tempera col fiato; e pensando il mandato del Duca al nome che sentiva fuori di Michelagnolo che dovessi aver fatto qualche gran cosa, non conoscendo né l'artificio, né l'eccellenza di quella figura, disse a Michelagnolo: "Oh, questa è una poca cosa".
Gli dimandò Michelagnolo che mestiero fussi il suo, sapendo egli che niuno meglio può dar giudizio delle cose che si fanno che coloro che vi sono essercitati pur assai drento.
Rispose ghignando: "Io son mercante", credendo non essere stato conosciuto da Michelagnolo per gentiluomo, e quasi fattosi beffe d'una tal dimanda mostrando ancora insieme sprezzare l'industria de' Fiorentini.
Michelagnolo che aveva inteso benissimo el parlar così fatto, rispose alla prima: "Voi farete questa mala mercanzia per il vostro signore.
Levatevimi dinanzi".
E così in que' giorni Anton Mini suo creato, che aveva due sorelle da maritarsi, gliene chiese, et egli gliene donò volentieri, con la maggior parte de' disegni e cartoni fatti da lui, ch'erano cosa divina.
Così due casse di modegli con gran numero di cartoni finiti per far pitture e parte d'opere fatte, che venutogli fantasia d'andarsene in Francia gli portò seco, e la Leda la vendé al re Francesco per via di mercanti, oggi a Fontanableò, et i cartoni e disegni andaron male, perché egli si morì là in poco tempo e gliene fu rubati, dove si privò questo paese di tante e sì utili fatiche che fu danno inestimabile.
A Fiorenza è ritornato poi il cartone della Leda, che l'ha Bernardo Vecchietti, e così quattro pezzi di cartoni della cappella di ignudi e Profeti condotti da Benvenuto Cellini scultore, oggi appresso agli eredi di Girolamo degli Albizi.
Convenne a Michelagnolo andare a Roma a papa Clemente, il quale benché adirato con lui, come amico della virtù gli perdonò ogni cosa e gli diede ordine che tornasse a Fiorenza e che la libreria e sagrestia di S.
Lorenzo si finissero del tutto, e per abreviare tal opera una infinità di statue che ci andavano compartirono in altri maestri.
Egli n'allogò due al Tribolo, una a Raffaello da Monte Lupo et una a fra' Giovan Agnolo frate de' Servi, tutti scultori, e gli diede aiuto in esse facendo a ciascuno i modelli in bozze di terra, laonde tutti gagliardamente lavorarono et egli ancora alla libreria faceva attendere, onde si finì il palco di quella d'intagli in legnami con suoi modelli, i quali furono fatti per le mani del Carota e del Tasso fiorentini, eccellenti intagliatori e maestri, et ancora di quadro, e similmente i banchi dei libri lavorati allora da Batista del Cinque e Ciapino amico suo, buoni maestri in quella professione.
E per darvi ultima fine fu condotto in Fiorenza Giovanni da Udine divino, il quale per lo stucco della tribuna insieme con altri suo lavoranti et ancora maestri fiorentini, vi lavorò.
Laonde con sollecitudine cercarono di dare fine a tanta impresa.
Per che volendo Michelagnolo far porre in opera le statue, in questo tempo al Papa venne in animo di volerlo appresso di sé, avendo desiderio di fare le facciate della cappella di Sisto, dove egli aveva dipinto la volta a Giulio II, suo nipote; nelle quali facciate voleva Clemente che nella principale dove è l'altare vi si dipignessi il Giudizio Universale, acciò potessi mostrare in quella storia tutto quello che l'arte del disegno poteva fare; e nell'altra dirimpetto sopra la porta principale gli aveva ordinato che vi facessi quando per la sua superbia Lucifero fu dal Cielo cacciato e precipitati insieme nel centro dello inferno tutti quegli Angeli che peccarono con lui.
Delle quali invenzioni molti anni innanzi s'è trovato che aveva fatto schizzi Michelagnolo e varii disegni, un de' quali poi fu posto in opera nella chiesa della Trinità di Roma da un pittore ciciliano, il quale stette molti mesi con Michelagnolo a servirlo e macinar colori.
Questa opera è nella croce della chiesa alla cappella di San Gregorio dipinta a fresco, che ancora che sia mal condotta, si vede un certo che di terribile e di vario nelle attitudini e groppi di quegli ignudi che piovono dal cielo e de' cascati nel centro della terra conversi in diverse forme di diavoli molto spaventate e bizzarre, et è certo capricciosa fantasia.
Mentre che Michelagnolo dava ordine a far questi disegni e cartoni della prima facciata del Giudizio, non restava giornalmente essere alle mani con gli agenti del duca d'Urbino, dai quali era incaricato aver ricevuto da Giulio II sedicimila scudi per la sepoltura, e non poteva soportare questo carico; e desiderava finirla un giorno quantunque e' fussi già vecchio, e volentieri se ne sarebbe stato a Roma, poiché senza cercarla gli era venuta questa occasione per non tornare più a Fiorenza, avendo molta paura del duca Alessandro de' Medici, il quale pensava gli fusse poco amico; per che avendogli fatto intendere per il signor Alessandro Vitegli che dovessi vedere dove fussi miglior sito per fare il castello e cittadella di Fiorenza, rispose non vi volere andare se non gli era comandato da papa Clemente.
Finalmente fu fatto lo accordo di questa sepoltura, e che così finissi in questo modo: che non si facessi più la sepoltura isolata in forma quadra, ma solamente una di quelle facce sole in quel modo che piaceva a Michelagnolo, e che fussi obligato a metterci di sua mano sei statue, et in questo contratto che si fece col duca d'Urbino concesse sua eccellenzia che Michelagnolo fussi obligato a papa Clemente quattro mesi dell'anno o a Fiorenza, o dove più gli paresse adoperarlo; et ancora che paressi a Michelagnolo d'esser quietato, non finì per questo; perché desiderando Clemente di vedere l'ultima pruova delle forze della sua virtù, lo faceva attendere al cartone del Giudizio.
Ma egli mostrando al Papa di essere occupato in quello, non restava però con ogni poter suo, e segretamente lavorava sopra le statue che andavano a detta sepoltura.
Successe l'anno 1533 la morte di papa Clemente, dove a Fiorenza si fermò l'opera della sagrestia e libreria, la quale con tanto studio cercando si finisse, pure rimase imperfetta.
Pensò veramente allora Michelagnolo essere libero e potere attendere a dar fine alla sepoltura di Giulio II; ma essendo creato Paulo Terzo non passò molto che fattolo chiamare a sé, oltra al fargli carezze et offerte, lo ricercò che dovessi servirlo e che lo voleva appresso di sé.
Ricusò questo Michelagnolo, dicendo che non poteva fare, essendo per contratto obligato al duca d'Urbino fin che fussi finita la sepoltura di Giulio.
Il Papa ne prese còllora dicendo: "Io ho avuto trenta anni questo desiderio et ora che son papa non me lo caverò? Io straccerò il contratto e son disposto che tu mi serva a ogni modo".
Michelagnolo, veduto questa risoluzione, fu tentato di partirsi da Roma et in qualche maniera trovar via da dar fine a questa sepoltura.
Tuttavia temendo, come prudente, della grandezza del Papa, andava pensando trattenerlo di sodisfarlo di parole, vedendolo tanto vecchio, fin che qualcosa nascesse.
Il Papa, che voleva far fare qualche opera segnalata a Michelagnolo, andò un giorno a trovarlo a casa con dieci cardinali, dove e' volse veder tutte le statue della sepoltura di Giulio che gli parsono miracolose, e particolarmente il Moisè, che dal cardinale di Mantova fu detto che quella sol figura bastava a onorare papa Giulio, e veduto i cartoni e' disegni che ordinava per la facciata della cappella che gli parvono stupendi, di nuovo il Papa lo ricercò con istanzia che dovessi andare a servirlo, promettendogli che farebbe che 'l duca d'Urbino si contenterà di tre statue e che l'altre si faccin fare con suo modegli a altri eccellenti maestri.
Per il che procurato ciò con gli agenti del Duca Sua Santità, fecesi di nuovo contratto confermato dal Duca, e Michelagnolo spontaneamente si obligò pagar le tre statue e farla murare; che per ciò depositò in sul banco degli Strozzi ducati millecinquecento ottanta, e' quali arebbe potuto fuggire, e gli parve aver fatto assai a essersi disobligato di sì lunga e dispiacevole impresa, la quale egli la fece poi murare in San Piero in Vincola in questo modo: messe su il primo imbasamento intagliato con quattro piedistalli che risaltavano in fuori tanto quanto prima vi doveva stare un prigione per ciascuno, che in quel cambio vi restava una figura di un termine; e perché da basso veniva povero aveva per ciascun termine messo a' piedi una mensola che posava a rovescio in su.
Que' quattro termini mettevano in mezzo tre nicchie, due delle quali erano tonde dalle bande, e vi dovevano andare le Vittorie, in cambio delle quali in una messe Lia figliuola di Laban, per la Vita attiva con uno specchio in mano per la considerazione si deve avere per le azzioni nostre, e nell'altra una grillanda di fiori per le virtù che ornano la vita nostra in vita, e dopo la morte la fanno gloriosa; l'altra fu Rachel sua sorella per la Vita contemplativa con le mani giunte, con un ginocchio piegato, e col volto par che stia elevata in spirito; le quali statue condusse di sua mano Michelagnolo in meno di uno anno.
Nel mezzo è l'altra nicchia, ma quadra, che questa doveva essere nel primo disegno una delle porti che entravano nel tempietto ovato della sepoltura quadrata; questa essendo diventata nicchia, vi è posto in sur un dado di marmo la grandissima e bellissima statua di Moisè, della quale a bastanza si è ragionato.
Sopra le teste de' termini che fan capitello, è architrave, fregio e cornice che risalta sopra i termini, intagliato con ricchi fregi e fogliami uovoli e dentegli et altri ricchi membri per tutta l'opera; sopra la quale cornice si muove un altro ordine pulito senza intagli, di altri ma variati termini, corrispondendo a dirittura a que' primi a uso di pilastri con varie modanature di cornice, e per tutto questo ordine accompagna et obedisce a quegli di sotto.
Vi viene un vano simile a quello che fa nicchia quadra sopra il Moisè, nel quale è posato su' risalti della cornice una cassa di marmo con la statua di papa Giulio a diacere, fatta da Maso dal Bosco scultore, e dritto nella nicchia che vi è, una Nostra Donna che tiene il Figliuolo in collo, condotta da Scherano da Settignano scultore, col modello di Michelagnolo, che sono assai ragionevole statue; et in due altre nicchie quadre sopra la Vita attiva e la contemplativa sono due statue maggiori, un Profeta et una Sibilla a sedere, che ambidue fur fatte da Raffaello da Monte Lupo, come s'è detto nella vita di Baccio suo padre, che fur condotte con poca satisfazione di Michelagnolo.
Ebbe per ultimo finimento questa opera una cornice varia che risaltava, come di sotto, per tutto; e sopra i termini era per fine candelieri di marmo e nel mezzo l'arme di papa Giulio, e sopra il Profeta e la Sibilla nel vano della nicchia vi fece per ciascuna una finestra per comodità di que' frati che ufiziano quella chiesa, avendovi fatto il coro dietro, che servono, dicendo il divino ufizio, a mandare le voci in chiesa et a vedere celebrare.
E nel vero che tutta questa opera è tornata benissimo, ma non già a gran pezzo come era ordinato il primo disegno.
Risolvessi Michelagnolo, poiché non poteva fare altro, di servire papa Paulo, il quale volle che proseguisse l'ordinatogli da Clemente senza alterare niente l'invenzione o concetto che gli era stato dato, avendo rispetto alla virtù di quell'uomo, al quale portava tanto amore e riverenza, che non cercava se non piacergli, come ne aparve segno, che desiderando Sua Santità che sotto il Iona di cappella ove era prima l'arme di papa Giulio II, mettervi la sua, essendone ricerco, per non fare torto a Giulio et a Clemente non ve la volse porre, dicendo non istare bene, e ne restò Sua Santità satisfatto per non gli dispiacere, e conobbe molto bene la bontà di quell'uomo quanto tirava dietro allo onesto et al giusto senza rispetto et adulazione, cosa che loro son soliti provar di rado.
Fece dunque Michelagnolo fare, che non vi era prima, una scarpa di mattoni ben murati e scelti e ben cotti alla facciata di detta cappella, e volse che pendessi dalla somità di sopra un mezzo braccio, perché né polvere né altra bruttura potessi fermare sopra.
Né verrò a particolari della invenzione o componimento di questa storia, perché se n'è ritratte e stampate tante e grandi e piccole, che e' non par necessario perdervi tempo a descriverla.
Basta che si vede che l'intenzione di questo uomo singulare non ha voluto entrare in dipignere altro che la perfetta e proporzionatissima composizione del corpo umano et in diversissime attitudini; non sol questo, ma insieme gli affetti delle passioni e contentezze dell'animo, bastandogli satisfare in quella parte di che è stato superiore a tutti i suoi artefici, e mostra la via della gran maniera e degli ignudi e quanto e' sappi nelle dificultà del disegno, e finalmente ha aperto la via alla facilità di questa arte nel principale suo intento, che è il corpo umano, et attendendo a questo fin solo, ha lassato da parte le vaghezze de' colori, i capricci e le nuove fantasie di certe minuzie e delicatezze, che da molti altri pittori non sono interamente, e forse non senza qualche ragione, state neglette.
Onde qualcuno non tanto fondato nel disegno ha cerco con la varietà di tinte et ombre di colori e con bizzarre varie e nuove invenzioni, et insomma con questa altra via farsi luogo fra i primi maestri.
Ma Michelagnolo stando saldo sempre nella profondità dell'arte, ha mostro a quegli che sanno assai [come] dovevano arrivare al perfetto.
E per tornare alla storia, aveva già condotto Michelagnolo a fine più di tre quarti dell'opera, quando andando papa Paulo a vederla, perché Messer Biagio da Cesena maestro delle cerimonie e persona scrupolosa, che era in cappella col Papa, dimandato quel che gliene paressi, disse essere cosa disonestissima in un luogo tanto onorato avervi fatto tanti ignudi che sì disonestamente mostrano le lor vergogne, e che non era opera da cappella di papa, ma da stufe e d'osterie.
Dispiacendo questo a Michelagnolo e volendosi vendicare, subito che fu partito lo ritrasse di naturale senza averlo altrimenti innanzi, nello inferno nella figura di Minòs con una gran serpe avvolta alle gambe fra un monte di diavoli.
Né bastò il raccomandarsi di Messer Biagio al Papa et a Michelagnolo che lo levassi, che pure ve lo lassò per quella memoria, dove ancor si vede.
Avenne in questo tempo che egli cascò di non poco alto dal tavolato di questa opera e fattosi male a una gamba, per lo dolore e per la còllora da nessuno non volle essere medicato.
Per il che trovandosi allora vivo maestro Baccio Rontini fiorentino, amico suo e medico capriccioso e di quella virtù molto affezionato, venendogli compassione di lui gli andò un giorno a picchiare a casa, e non gli essendo risposto da' vicini né da lui, per alcune vie segrete cercò tanto di salire, che a Michelagnolo di stanza in stanza pervenne, il quale era disperato.
Laonde maestro Baccio fin che egli guarito non fu, non lo volle abandonare già mai, né spicarsegli d'intorno.
Egli di questo male guarito e ritornato all'opera, et in quella di continuo lavorando, in pochi mesi a ultima fine la ridusse dando tanta forza alle pitture di tal opera, che ha verificato il detto di Dante "Morti li morti, i vivi parean vivi".
E quivi si conosce la miseria dei dannati e l'allegrezza de' beati.
Onde scoperto questo Giudizio, mostrò non solo essere vincitore de' primi artefici che lavorato vi avevano, ma ancora nella volta che egli tanto celebrata avea fatta, volse vincere se stesso, et in quella di gran lunga passatosi, superò se medesimo, avendosi egli imaginato il terrore di que' giorni, dove egli fa rappresentare, per più pena di chi non è ben vissuto, tutta la sua Passione; facendo portare in aria da diverse figure ignude la croce, la colonna, la lancia, la spugna, i chiodi e la corona con diverse e varie attitudini molto dificilmente condotte a fine nella facilità loro.
Èvvi Cristo il quale sedendo con faccia orribile e fiera ai dannati si volge maladicendogli, non senza gran timore della Nostra Donna che ristrettasi nel manto ode e vede tanta rovina.
Sonvi infinitissime figure che gli fanno cerchio di Profeti, di Apostoli e particularmente Adamo e Santo Pietro, i quali si stimano che vi sien messi l'uno per l'origine prima delle genti al giudizio, l'altro per essere stato il primo fondamento della cristiana religione.
A' piedi gli è un San Bartolomeo bellissimo, il qual mostra la pelle scorticata.
Èvvi similmente uno ignudo di San Lorenzo, oltra che senza numero sono infinitissimi Santi e Sante et altre figure maschi e femine intorno, appresso e discosto, i quali si abracciano e fannosi festa avendo per grazia di Dio e per guidardone delle opere loro la beatitudine eterna.
Sono sotto i piedi di Cristo i sette Angeli scritti da San Giovanni Evangelista con le sette trombe, che sonando a sentenza, fanno arricciare i capelli a chi gli guarda per la terribilità che essi mostrano nel viso, e fra gl'altri vi son due Angeli che ciascuno ha il libro delle vite in mano; et appresso non senza bellissima considerazione si veggono i sette peccati mortali da una banda combattere in forma di diavoli e tirar giù allo inferno l'anime che volano al cielo, con attitudini bellissimi e scorti molto mirabili.
Né ha restato nella ressurrezione de' morti mostrare al mondo come essi della medesima terra ripiglion l'ossa e la carne, e come da altri vivi aiutati vanno volando al cielo, che da alcune anime già beate è lor porto aiuto, non senza vedersi tutte quelle parti di considerazioni che a una tanta opera come quella si possa stimare che si convenga.
Per che per lui si è fatto studii e fatiche d'ogni sorte, apparendo egualmente per tutta l'opera, come chiaramente e particularmente ancora nella barca di Caronte si dimostra, il quale con attitudine disperata l'anime tirate dai diavoli giù nella barca batte col remo, ad imitazione di quello che espresse il suo famigliarissimo Dante quando disse:
Caron demonio, con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie:
batte col remo qualunque si adagia.
Né si può imaginare quanto di varietà sia nelle teste di que' diavoli, mostri veramente d'inferno.
Nei peccatori si conosce il peccato e la tema insieme del danno eterno.
Et oltra a ogni bellezza straordinaria è il vedere tanta opera sì unitamente dipinta e condotta, che ella pare fatta in un giorno e con quella fine che mai minio nissuno si condusse talmente; e nel vero la moltitudine delle figure, la terribilità e grandezza dell'opera è tale, che non si può descrivere, essendo piena di tutti i possibili umani affetti et avendogli tutti maravigliosamente espressi: avvenga che i superbi, gli invidiosi, gli avari, i lussuriosi e gli altri così fatti si riconoschino agevolmente da ogni bello spirito, per avere osservato ogni decoro, sì d'aria, sì d'attitudini e sì d'ogni altra naturale circostanzia nel figurarli; cosa che, se bene è maravigliosa e grande, non è stata impossibile a questo uomo, per essere stato sempre accorto e savio et avere visto uomini assai et acquistato quella cognizione con la pratica del mondo, che fanno i filosofi con la speculazione e per gli scritti.
Talché chi giudicioso e nella pittura intendente si trova, vede la terribilità dell'arte, et in quelle figure scorge i pensieri e gli affetti, i quali mai per altro che per lui non furono dipinti; così vede ancora quivi come si fa il variare delle tante attitudini negli strani e diversi gesti di giovani, vecchi, maschi, femine: nei quali a chi non si mostra il terrore dell'arte insieme con quella grazia che egli aveva dalla natura? Per che fa scuotere i cuori di tutti quegli che non son saputi, come di quegli che sanno in tal mestiero.
Vi sono gli scorti che paiono di rilievo, e con la unione, la morbidezza e la finezza nelle parti delle dolcezze da lui dipinte mostrano veramente come hanno da essere le pitture fatte da' buoni e veri pittori; e vedesi nei contorni delle cose girate da lui, per una via che da altri che da lui non potrebbono essere fatte, il vero giudizio e la vera dannazione e ressurressione.
E questo, nell'arte nostra, è quello essempio e quella gran pittura mandata da Dio agli uomini in terra, acciò che veggano come il fato fa quando gli intelletti dal supremo grado in terra descendono et hanno in essi infusa la grazia e la divinità del sapere.
Questa opera mena prigioni legati quegli che di sapere l'arte si persuadono, e nel vedere i segni da lui tirati ne' contorni di che cosa essa si sia, trema e teme ogni terribile spirito sia quanto si voglia carico di disegno.
E mentre che si guardano le fatiche dell'opera sua, i sensi si stordiscono solo a pensare che cosa possono essere le altre pitture fatte e che si faranno, poste a tal paragone.
Età veramente felice chiamar si puote e felicità della memoria di chi ha visto veramente stupenda maraviglia del secol nostro! Beatissimo e fortunatissimo Paulo Terzo, poiché Dio consentì che sotto la protezione sua si ripari il vanto che daranno alla memoria sua e di te le penne degli scrittori! Quanto acquistano i meriti tuoi per le sue virtù? Certo fato bonissimo hanno a questo secolo nel suo nascere gli artefici, da che hanno veduto squarciato il velo delle dificultà di quello che si può fare et imaginare nelle pitture e sculture et architetture fatte da lui.
Penò a condurre questa opera otto anni e la scoperse l'anno 1541 (credo io) il giorno di Natale con stupore e maraviglia di tutta Roma, anzi di tutto il mondo, et io che quell'anno andai a Roma per vederla, che ero a Vinezia, ne rimasi stupito.
Aveva papa Paulo fatto fabricare, come s'è detto in Antonio da San Gallo, al medesimo piano una cappella chiamata la Paulina a imitazione di quella di Niccola V, nella quale deliberò che Michelagnolo vi facessi due storie grandi in dua quadroni: che in una fece la conversione di San Paulo con Gesù Cristo in aria e moltitudine di Angeli ignudi con bellissimi moti, e di sotto l'essere sul piano di terra cascato stordito e spaventato Paulo da cavallo con i suoi soldati attorno, chi attento a sollevarlo, altri storditi dalla voce e splendore di Cristo in varie e belle attitudini e movenzie amirati e spaventati si fuggano, et il cavallo che fugendo par che dalla velocità del corso ne meni via chi cerca ritenerlo, e tutta questa storia è condotta con arte e disegno straordinario.
Nell'altra è la crocifissione di San Piero, il quale è confitto ignudo sopra la croce, che è una figura rara; mostrando i crocifissori, mentre hanno fatto in terra una buca, volere alzare in alto la croce, acciò rimanga crocifisso co' piedi all'aria; dove sono molte considerazioni notabili e belle.
Ha Michelagnolo atteso solo, come s'è detto altrove, alla perfezzione dell'arte, per che né paesi vi sono, né alberi, né casamenti, né anche certe varietà e vaghezze dell'arte vi si veggono, perché non vi attese mai, come quegli che forse non voleva abassare quel suo grande ingegno in simil cose.
Queste furono l'ultime pitture condotte da lui d'età d'anni settantacinque, e secondo che egli mi diceva con molta sua gran fatica: avenga che la pittura passato una certa età, e massimamente il lavorare in fresco, non è arte da vecchi.
Ordinò Michelagnolo che con i suoi disegni Perino del Vaga pittore eccellentissimo facessi la volta di stucchi e molte cose di pittura, e così era ancora la volontà di papa Paulo III; che mandandolo poi per la lunga non se ne fece altro, come molte cose restano imperfette, quando per colpa degli artefici inrisoluti, quando de' principi poco accurati a sollecitargli.
Aveva papa Paulo dato principio a fortificare Borgo e condotto molti signori con Antonio da San Gallo a questa dieta, ove volse che intervenissi ancora Michelagnolo, come quelli che sapeva che le fortificazioni fatte intorno al monte di San Miniato a Fiorenza erano state ordinate da lui; e dopo molte dispute fu domandato del suo parere.
Egli che era d'oppinione contraria al San Gallo et a molti altri lo disse liberamente; dove il San Gallo gli disse che era sua arte la scultura e pittura, non le fortificazioni.
Rispose Michelagnolo che di quelle ne sapeva poco, ma che del fortificare, col pensiero che lungo tempo ci aveva avuto sopra, con la sperienzia di quel che aveva fatto, gli pareva sapere più che non aveva saputo né egli né tutti que' di casa sua, mostrandogli in presenzia di tutti che ci aveva fatto molti errori.
E moltiplicando di qua e di là le parole, il Papa ebbe a por silenzio, e non andò molto che e' portò disegnata tutta la fortificazione di Borgo, che aperse gli occhi a tutto quello che s'è ordinato e fatto poi; e fu cagione che il portone di Santo Spirito, che era vicino al fine ordinato dal San Gallo, rimase imperfetto.
Non poteva lo spirito e la virtù di Michelagnolo restare senza far qualcosa, e poiché non poteva dipignere, si messe attorno a un pezzo di marmo per cavarvi drento quattro figure tonde maggiori che 'l vivo, facendo in quello Cristo morto per dilettazione e passar tempo, e come egli diceva, perché l'esercitarsi col mazzuolo lo teneva sano del corpo.
Era questo Cristo come deposto di croce, sostenuto dalla Nostra Donna entrandoli sotto et aiutando con atto di forza Niccodemo fermato in piede e da una delle Marie che lo aiuta, vedendo mancato la forza nella madre, che vinta dal dolore non può reggere; né si può vedere corpo morto simile a quel di Cristo, che cascando con le membra abbandonate fa attiture tutte diferenti non solo degli altri suoi, ma di quanti se ne fecion mai: opera faticosa, rara in un sasso e veramente divina; e questa, come si dirà di sotto, restò imperfetta et ebbe molte disgrazie; ancora ch'egli avessi avuto animo che la dovessi servire per la sepoltura di lui a' piè di quello altare dove e' pensava di porla.
Avvenne che l'anno 1546 morì Antonio da San Gallo, onde mancato chi guidassi la fabbrica di San Piero, furono varii pareri tra i deputati di quella col Papa a chi dovessino darla.
Finalmente credo che Sua Santità spirato da Dio si risolvé di mandare per Michelagnolo; e ricercatolo di metterlo in luogo suo, lo ricusò dicendo, per fuggire questo peso, che l'architettura non era arte sua propria.
Finalmente non giovando i preghi, il Papa gli comandò che l'accettassi; dove con sommo suo dispiacere e contra sua voglia bisognò che egli entrassi a quella impresa.
Et un giorno fra gli altri andando egli in San Piero a vedere il modello di legname che aveva fatto il San Gallo e la fabbrica per esaminarla, vi trovò tutta la setta sangallesca, che fattosi innanzi, il meglio che seppono dissono a Michelagnolo che si rallegravano che il carico di quella fabbrica avessi a essere suo, e che quel modello era un prato che non vi mancherebbe mai da pascere.
"Vuoi dite il vero", rispose loro Michelagnolo, volendo inferire, come e' dichiarò così a un amico, per le pecore e buoi che non intendono l'arte; et usò dir poi publicamente che il San Gallo l'aveva condotta cieca di lumi, e che aveva di fuori troppi ordini di colonne l'un sopra l'altro, e che con tanti risalti, aguglie e tritumi di membri teneva molto più dell'opera todesca, che del buon modo antico o della vaga e bella maniera moderna; et oltre a questo, che e' si poteva risparmiare cinquanta anni di tempo a finirla e più di trecento mila scudi di spesa, e condurla con più maestà e grandezza e facilità, e maggior disegno di ordine, bellezza e comodità.
E lo mostrò poi in un modello che e' fece per ridurlo a quella forma che si vede oggi condotta l'opera, e fé conoscere quel che e' diceva essere verissimo.
Questo modello gli costò venticinque scudi e fu fatto in quindici dì; quello del San Gallo passò, come s'è detto, quattro mila e durò molti anni.
E da questo et altro modo di fare si conobbe che quella fabbrica era una bottega et un trafico da guadagnare, il quale si andava prolongando con intenzione di non finirlo ma' da chi se l'avesse presa per incetta.
Questi modi non piacevono a questo uomo da bene, e per levarsegli d'attorno, mentre che 'l Papa lo forzava a pigliare l'ufizio dello architettore di quella opera, disse loro un giorno apertamente che eglino si aiutassino con gli amici e facessino ogni opera che e' non entrassi in quel governo, perché se gli avesse avuto tal cura, non voleva in quella fabbrica nessuno di loro; le quali parole dette in publico l'ebbero per male, come si può credere, e furono cagione che gli posono tanto odio, il quale crescendo ogni dì nel vedere mutare tutto quell'ordine drento e fuori, che non lo lassorono mai vivere, ricercando ogni dì varie e nuove invenzioni per travagliarlo, come si dirà a suo luogo.
Finalmente papa Paulo gli fece un motu proprio, come lo creava capo di quella fabbrica con ogni autorità e che e' potessi fare e disfare quel che v'era, crescere e scemare e variare a suo piacimento ogni cosa, e volse che il governo de' ministri tutti dependessino dalla volontà sua.
Dove Michelagnolo, visto tanta sicurtà e fede del Papa verso di lui, volse per mostrare la sua bontà che fussi dichiarato nel motu proprio come egli serviva la fabrica per l'amore de Dio e senza alcun premio, se bene il Papa gli aveva prima dato il passo di Parma del fiume, che gli rendeva da secento scudi, che lo perdé nella morte del duca Pier Luigi Farnese e per scambio gli fu dato una cancelleria di Rimini di manco valore, di che non mostrò curarsi, et ancora che il Papa gli mandassi più volte danari per tal provisione, non gli volse accettar mai, come ne fanno fede Messer Alessandro Ruffini, cameriere allora di quel Papa, e Messer Pier Giovanni Aliotti, vescovo di Furlì.
Finalmente fu dal Papa aprovato il modello che aveva fatto Michelagnolo che ritirava San Piero a minor forma, ma sì bene a maggior grandezza, che satisfazione di tutti quelli che hanno giudizio, ancora che certi che fanno professione d'intendenti (ma infatti non sono) non lo aprovano.
Trovò che quattro pilastri principali fatti da Bramante e lassati da Antonio da S.
Gallo, che avevono a reggere il peso della tribuna, erano deboli, e' quali egli parte riempié facendo due chiocciole o lumache da lato, nelle quali sono scale piane, per le quali i somari vi salgano a portare fino in cima tutte le materie, e parimente gli uomini vi possono ire a cavallo infino in sulla cima del piano degli archi.
Condusse la prima cornice sopra gli archi di trevertini, che gira in tondo, che è cosa mirabile, graziosa e molto varia da l'altre, né si può far meglio in quel genere.
Diede principio alle due nicchie grandi della crociera; e dove prima per ordine di Bramante, Baldassarre e Raffaello, come s'è detto, verso Camposanto vi facevano otto tabernacoli, e così fu seguitato poi dal S.
Gallo, Michelagnolo gli ridusse a tre, e di drento tre cappelle, e sopra con la volta di trevertini et ordine di finestre vive di lumi, che hanno forma varia e terribile grandezza, le quali, poi che sono in essere e van fuori in stampa, non solamente tutti quegli di Michelagnolo, ma quegli del San Gallo ancora, non mi metterò a descrivere per non essere necessario altrimenti; basta che egli con ogni accuratezza si messe a far lavorare per tutti que' luoghi dove la fabrica si aveva a mutare d'ordine, a cagione ch'ella si fermassi stabilissima, di maniera che ella non potessi essere mutata mai più da altri: provedimento di savio e prudente ingegno, perché non basta il far bene se non si assicura ancora, poi che la prosunzione e l'ardire di chi gli pare sapere, se gli è creduto più alle parole che a' fatti, e talvolta il favore di chi non intende, può far nascere di molti inconvenienti.
Aveva il populo romano col favore di quel Papa desiderio di dare qualche bella, utile e commoda forma al Campidoglio, et accomodarlo di ordini, di salite, di scale a sdruccioli e con iscaglioni, e con ornamenti di statue antiche che vi erano per abellire quel luogo; e fu ricerco perciò di consiglio Michelagnolo, il quale fece loro un bellissimo disegno e molto ricco, nel quale da quella parte dove sta il Senatore, che è verso levante, ordinò di trevertini una facciata et una salita di scale che da due bande salgono per trovare un piano, per il quale s'entra nel mezzo della sala di quel palazzo, con ricche rivolte piene di balaustri varii che servano per appoggiatoi e per parapetti.
Dove per arricchirla dinanzi vi fece mettere i due fiumi a ghiacere, antichi, di marmo sopra a alcuni basamenti, uno de' quali è il Tevere, l'altro è il Nilo, di braccia nove l'uno, cosa rara, e nel mezzo ha da ire in una gran nicchia un Giove.
Seguitò dalla banda di mezzogiorno, dove è il palazzo de' Conservatori, per riquadrarlo, una ricca e varia facciata con una loggia da' piè piena di colonne e nicchie, dove vanno molte statue antiche, et attorno sono varii ornamenti e di porte e finestre, che già n'è posto una parte.
E dirimpetto a questa ne ha a seguitare un'altra simile di verso tramontana sotto Araceli; e dinanzi una salita di bastoni di verso ponente, qual sarà piana con un ricinto e parapetto di balaustri, dove sarà l'entrata principale con un ordine e basamenti, sopra i quali va tutta la nobiltà delle statue di che oggi è così ricco il Campidoglio.
Nel mezzo della piazza in una basa in forma ovale è posto il cavallo di bronzo tanto nominato, su 'l quale è la statua di Marco Aurelio, la quale il medesimo papa Paulo fece levare dalla piazza di Laterano ove l'aveva posta Sisto Quarto.
Il quale edifizio riesce tanto bello oggi, che egli è degno d'essere conumerato fra le cose degne che ha fatto Michelagnolo, et è oggi guidato per condurlo a fine da Messer Tomao de' Cavalieri gentiluomo romano, che è stato et è de' maggiori amici che avessi mai Michelagnolo, come si dirà più basso.
Aveva papa Paulo Terzo fatto tirare innanzi al San Gallo, mentre viveva, il palazzo di casa Farnese, et avendovisi a porre in cima il cornicione per il fine del tetto della parte di fuori, volse che Michelagnolo con suo disegno et ordine lo facessi, il quale non potendo mancare a quel Papa, che lo stimava et accarezzava tanto, fece fare un modello di braccia sei di legname della grandezza che aveva a essere, e quello in su uno de' canti del palazzo fé porre, che mostrassi in effetto quel che aveva a essere l'opera, che piaciuto a Sua Santità et a tutta Roma, è stato poi condotto quella parte che se ne vede a fine, riuscendo il più bello e 'l più vario di quanti se ne sieno mai visti, o antichi, o moderni; e da questo, poiché 'l San Gallo morì, volse il Papa che avessi Michelagnolo cura parimente di quella fabrica, dove egli fece il finestrone di marmo con colonne bellissime di mischio che è sopra la porta principale del palazzo con un'arme grande bellissima e varia di marmo di papa Paulo Terzo fondatore di quel palazzo.
Seguitò di dentro, dal primo ordine in su del cortile di quello, gli altri due ordini con le più belle varie e graziose finestre, et ornamenti, et ultimo cornicione che si sien visti mai; là dove per le fatiche et ingegno di quell'uomo, è oggi diventato il più bel cortile di Europa.
Egli allargò e fé maggior la sala grande, e diede ordine al ricetto dinanzi, e con vario e nuovo modo di sesto in forma di mezzo ovato fece condurre le volte di detto ricetto, e perché s'era trovato in quell'anno alle terme Antoniane un marmo di braccia sette per ogni verso, nel quale era stato dagli antichi intagliato Ercole che sopra un monte teneva il toro per le corna con un'altra figura in aiuto suo, et intorno a quel monte varie figure di pastori, ninfe et altri animali, opera certo di straordinaria bellezza per vedere sì perfette figure in un sasso sodo e senza pezzi, che fu giudicato servire per una fontana, Michelagnolo consigliò che si dovessi condurre nel secondo cortile e quivi restaurarlo per fargli nel medesimo modo gettare acque, che tutto piacque.
La quale opera è stata fino a oggi da que' signori Farnesi fatta restaurare con diligenzia per tale effetto.
Et allora Michelagnolo ordinò che si dovessi a quella dirittura fare un ponte che attraversassi il fiume del Tevere, acciò si potessi andare da quel palazzo in Trastevere a un altro lor giardino e palazzo, perché per la dirittura della porta principale che volta in Campo di Fiore si vedessi a una ochiata il cortile, la fonte, strada Iulia et il ponte e la bellezza dell'altro giardino, fino all'altra porta che riusciva nella strada di Trastevere, cosa rara e degna di quel pontefice e della virtù, giudizio e disegno di Michelagnolo.
E perché l'anno 1547 morì Bastiano Viniziano frate del Piombo, e disegnando papa Paulo che quelle statue antiche per il suo palazzo si restaurassino, Michelagnolo favorì volentieri Guglielmo dalla Porta scultore milanese, il quale giovane di speranza dal sudetto fra' Bastiano era stato raccomandato a Michelagnolo, che piaciutoli il far suo, lo messe innanzi a papa Paulo per acconciare dette statue, e la cosa andò sì innanzi che gli fece dare Michelagnolo l'ufizio del Piombo; che dato poi ordine al restaurarle, come se ne vede ancora oggi in quel palazzo, dove fra' Guglielmo [scordatosi] de' benefizii ricevuti, fu poi uno de' contrari a Michelagnolo.
Successe l'anno 1549 la morte di papa Paulo Terzo, dove dopo la creazione di papa Giulio Terzo, il cardinale Farnese ordinò fare una gran sepoltura a papa Paulo suo per le mani di fra' Guglielmo, il quale avendo ordinato di metterla in San Piero sotto il primo arco della nuova chiesa sotto la tribuna, che impediva il piano di quella chiesa e non era in verità il luogo suo, e perché Michelagnolo consigliò giudiziosamente che là non poteva né doveva stare, il frate gli prese odio credendo che lo facessi per invidia, ma ben s'è poi accorto che gli diceva il vero e che il mancamento è stato da lui che ha avuto la comodità e non l'ha finita, come si dirà altrove, et io ne fo fede, avvenga che l'anno 1550 io fussi per ordine di papa Giulio Terzo andato a Roma a servirlo, e volentieri per godermi Michelagnolo, fui per tal consiglio adoperato; dove Michelagnolo desiderava che tal sepoltura si mettessi in una delle nicchie dove è oggi la colonna degli spiritati, che era il luogo suo, et io mi ero adoperato che Giulio Terzo si risolveva, per conrispondenza di quella opera, far la sua nell'altra nicchia col medesimo ordine che quella di papa Paulo; dove il frate che la prese in contrario fu cagione che la sua non s'è mai poi finita e che quella di quello altro Pontefice non si facessi, che tutto fu pronosticato da Michelagnolo.
Voltossi papa Giulio a far fare quell'anno nella chiesa di San Piero a Montorio una cappella di marmo con dua sepolture per Antonio cardinale da' Monti suo zio e Messer Fabbiano, avo del Papa, primo principio della grandezza di quella casa illustre.
Della quale avendo il Vasari fatto disegni e modelli, papa Giulio, che stimò sempre la virtù di Michelagnolo et amava il Vasari, volse che Michelagnolo ne facessi il prezzo fra loro, et il Vasari suplicò il Papa a far che Michelagnolo ne pigliassi la protezione, e perché il Vasari aveva proposto per gl'intagli di quella opera Simon Mosca e per le statue Raffael Monte Lupo, consigliò Michelagnolo che non vi si facessi intagli di fogliami né manco ne' membri dell'opera di quadro, dicendo che dove vanno figure di marmo non ci vuole essere altra cosa.
Per il che il Vasari dubitò che non lo facessi perché l'opera rimanessi povera; et in effetto poi quando e' la vedde finita confessò che gli avessi avuto giudizio, e grande.
Non volse Michelagnolo che il Monte Lupo facessi le statue, avendo visto quanto s'era portato male nelle sue della sepoltura di Giulio Secondo, e si contentò più presto ch'elle fussino date a Bartolomeo Ammannati, quale il Vasari aveva messo innanzi, ancor che il Buonarroto avessi un poco di sdegno particolare seco e con Nanni di Baccio Bigio, nato, se ben si considera, da legger cagione, che essendo giovanetti, mossi dall'afezione dell'arte più che per offenderlo, avevano industriosamente, entrando in casa, levati a Anton Mini creato di Michelagnolo molte carte disegnate, che di poi per via del magistrato de' signori Otto gli furon rendute tutte, né gli volse, per intercessione di Messer Giovanni Norchiati canonico di San Lorenzo amico suo, fargli dare altro gastigo.
Dove il Vasari, ragionandogli Michelagnolo di questa cosa, gli disse ridendo che gli pareva che non meritassino biasimo alcuno e che s'egli avessi potuto, arebbe non solamente toltogli parecchi disegni, ma l'arebbe spogliato di tutto quel che gli avessi potuto avere di suo mano solo per imparare l'arte, che s'ha da volere bene a quegli che cercan la virtù, e premiargli ancora, perché non si hanno questi a trattare come quegli che vanno rubando i danari, le robe e l'altre cose importanti.
Or così si recò la cosa in burla.
Fu ciò cagione che a quella opera di Montorio si diede principio, e che il medesimo anno il Vasari e lo Ammannato andorono a far condurre i marmi da Carrara a Roma per far detto lavoro.
Era in quel tempo ogni giorno il Vasari con Michelagnolo; dove una mattina il Papa dispensò per amorevolezza ambidue che facendo le sette chiese a cavallo, ch'era l'anno santo, ricevessino il perdono a doppio; dove nel farle ebbono fra l'una e l'altra chiesa molti utili e begli ragionamenti dell'arte et industriosi, che 'l Vasari ne distese un dialogo, che a migliore occasione si manderà fuori con altre cose attenente all'arte.
Autenticò papa Giulio Terzo quell'anno il motu proprio di papa Paulo Terzo sopra la fabbrica di San Piero, et ancora che gli fussi detto molto male dai fautori della setta sangallesca per conto della fabbrica di San Piero, per allora non ne volse udire niente quel Papa avendogli (come era vero) mostro il Vasari ch'egli aveva dato la vita a quella fabrica, et operò con Sua Santità che quella non facessi cosa nessuna attenente al disegno senza il giudizio suo, che l'osservò sempre: perché né alla vigna Iulia fece cosa alcuna senza il suo consiglio, né in Belvedere, dove si rifece la scala che v'è ora in cambio della mezza tonda che veniva innanzi, saliva otto scaglioni et altri otto in giro entrava in dentro, fatta già da Bramante, che era posta nella maggior nicchia in mezzo Belvedere.
Michelagnolo vi disegnò e fé fare quella quadra coi balaustri di preperigno che vi è ora, molto bella.
Aveva il Vasari quell'anno finito di stampare l'opera delle vite de' pittori, scultori et architettori in Fiorenza, e di niuno de' vivi aveva fatto la vita, ancor che ci fussi de' vecchi, se non di Michelagnolo; e così gli presentò l'opera, che la ricevé con molta allegrezza, dove molti ricordi di cose aveva avuto dalla voce sua il Vasari come da artefice più vecchio e di giudizio; e non andò guari che avendola letta gli mandò Michelagnolo il presente sonetto fatto da lui, il quale mi piace in memoria delle sue amorevolezze porre in questo luogo:
Se con lo stile o coi colori avete
alla natura pareggiato l'arte,
anzi a quella scemato il pregio in parte,
che 'l bel di lei più bello a noi rendete,
poi che con dotta man posto vi sete
a più degno lavoro, a vergar carte,
quel che vi manca a lei di pregio in parte
nel dar vita ad altrui tutta togliete.
Che se secolo alcuno omai contese
in far bell'opre, almen cedale, poi
che convien ch'al prescritto fine arrive.
Or le memorie altrui, già spente, accese
tornando, fate or che fien quelle e voi,
mal grado d'esse, eternalmente vive.
Partì il Vasari per Fiorenza, e lassò la cura a Michelagnolo del fare fondare a Montorio.
Era Messer Bindo Altoviti, allora Consolo della nazione fiorentina, molto amico del Vasari, che in su questa occasione gli disse che sarebbe bene di far condurre questa opera nella chiesa di San Giovanni de' fiorentini, e che ne aveva già parlato con Michelagnolo, il quale favorirebbe la cosa e sarebbe questo cagione di dar fine a quella chiesa.
Piacque questo a Messer Bindo, et essendo molto famigliare del Papa gliene ragionò caldamente, mostrando che sarebbe stato bene che le sepolture e la cappella che Sua Santità faceva fare per Montorio l'avesse fatte nella chiesa di San Giovanni de' fiorentini, et aggiugnendo che ciò sarebbe cagione che con questa occasione e sprone la nazione farebbe spesa tale, che la chiesa arebbe la sua fine; e se Sua Santità facesse la cappella maggiore, gli altri mercanti farebbono sei cappelle, e poi di mano in mano il restante.
Là dove il Papa si voltò d'animo, et ancora che ne fussi fatto modello e prezzo, andò a Montorio e mandò per Michelagnolo, al quale ogni giorno il Vasari scriveva et aveva secondo l'occasione delle faccende risposta da lui.
Scrisse adunque al Vasari Michelagnolo, al primo dì d'agosto 1550, la mutazione che aveva fatto il Papa, e son queste le parole istesse di sua mano:
Messer Giorgio mio caro.
Circa al rifondare a San Piero a Montorio come il Papa non volse intendere non ve ne scrissi niente, sapendo voi essere avisato dall'uomo vostro di qua.
Ora mi accade dirvi quello che segue, e questo è che ier mattina, sendo il Papa andato a detto Montorio, mandò per me, riscontràlo in sul ponte che tornava: ebbi lungo ragionamento seco circa le sepolture allogatevi, et all'ultimo mi disse che era risoluto non volere mettere dette sepolture in su quel monte, ma nella chiesa de' fiorentini; richiesemi di parere e di disegno, et io ne lo confortai assai, stimando che per questo mezzo detta chiesa s'abbia a finire.
Circa le vostre tre ricevute non ho penna da rispondere a tante altezze, ma se avessi caro di essere in qualche parte quello che mi fate, non l'arei caro per altro se non perché voi avessi un servidore che valessi qualcosa.
Ma io non mi maraviglio, sendo voi risucitatore di uomini morti, che voi allunghiate vita ai vivi, o vero che i mal vivi furiate per infinito tempo alla morte.
E per abreviare, io son tutto, come son, vostro.
Michelagnolo Buonaruoti in Roma.
Mentre che queste cose si travagliavano e che la nazione cercava di far danari, nacquero certe difficultà, per che non conclusero niente, e così la cosa si raffreddò.
Intanto avendo già fatto il Vasari e l'Ammannato cavare a Carrara tutti i marmi, se ne mandò a Roma gran parte, e così l'Ammannato con essi, scrivendo per lui il Vasari al Buonaruoto che facessi intendere al Papa dove voleva questa sepoltura, e che avendo l'ordine facessi fondare, sùbito che Michelagnolo ebbe la lettera, parlò al nostro signore e scrisse al Vasari questa resoluzione di man sua:
Messer Giorgio mio caro.
Sùbito che Bartolomeo fu giunto qua, andai a parlare al Papa, e, visto che voleva fare rifondare a Montorio per le sepolture, provveddi d'un muratore di San Piero.
El Tantecose lo seppe e volsevi mandare uno a suo modo; io per non combattere con chi dà le mosse a' venti, mi son tirato adreto, perché essendo uomo leggeri, non vorrei essere trasportato in qualche macchia.
Basta che nella chiesa de' fiorentini non mi pare s'abbia più a pensare.
Tornate presto e state sano.
Altro non mi accade.
Addì 13 di ottobre 1550.
Chiamava Michelagnolo il Tantecose monsignor di Furlì, perché voleva fare ogni cosa.
Essendo maestro di camera del Papa, provedeva per le medaglie, gioie, camei e figurine di bronzo, pitture, disegni, e voleva che ogni cosa dipendessi da lui.
Volentieri fuggiva Michelagnolo questo uomo perché aveva fatto sempre ufizii contrarii al bisogno di Michelagnolo, e perciò dubitava non essere da l'ambizione di questo uomo trasportato in qualche macchia.
Basta che la nazione fiorentina perse per quella chiesa una bellissima occasione, che Dio sa quando la racquisterà già mai, et a me ne dolse infinitamente.
Non ho voluto mancare di fare questa breve memoria perché si vegga che questo uomo cercò di giovare sempre alla nazione sua et agli amici suoi et all'arte.
Né fu tornato a pena il Vasari a Roma, che innanzi che fussi il principio dell'anno 1551, la setta sangallesca aveva ordinato contro Michelagnolo un trattato, che il Papa dovessi fare congregazione in San Pietro, e ragunare i fabriceri e tutti quegli che avevono la cura per mostrare con false calumnie a Sua Santità che Michelagnolo aveva guasto quella fabrica: perché avendo egli già murato la nicchia del re, dove sono le tre cappelle, e condottole con le tre finestre sopra, né sapendo quel che si voleva fare nella volta, con giudizio debole avevano dato ad intendere al cardinale Salviati vecchio et a Marcello Cervino, che fu poi papa, che San Piero rimaneva con poco lume.
Là dove ragunati tutti, il Papa disse a Michelagnolo che i deputati dicevano che quella nicchia arebbe reso poco lume.
Gli rispose: "Io vorrei sentire parlare questi deputati".
Il cardinale Marcello rispose: "Siàn noi".
Michelagnolo gli disse: "Monsignore, sopra queste finestre, nella volta che s'ha a fare di trevertini ne va tre altre".
"Voi non ce l'avete mai detto" disse il cardinale, e Michelagnolo soggiunse: "Io non sono, né manco voglio essere obligato a dirlo, né alla signoria vostra né a nessuno, quel che io debbo o voglio fare; l'ufizio vostro è di far venire danari et avere loro cura dai ladri, et a' disegni della fabbrica ne avete a lasciare il carico a me".
E voltossi al Papa e disse: "Padre Santo, vedete quel che io guadagno, che se queste fatiche che io duro non mi giovano all'anima, io perdo tempo e l'opera".
Il Papa, che lo amava, gli messe le mani in sulle spalle e disse: "Voi guadagnate per l'anima e per il corpo, non dubitate", e per aversegli saputo levare dinanzi, gli crebbe il Papa amore infinitamente e comandò a lui et al Vasari che 'l giorno seguente amendue fussino alla vigna Iulia; nel qual luogo ebbe molti ragionamenti seco, che condussero quell'opera quasi alla bellezza che ella è, né faceva né deliberava cosa nessuna di disegno senza il parere e giudizio suo.
Et in fra l'altre volse, perché egli ci andava spesso col Vasari, stando Sua Santità intorno alla fonte dell'Acqua Vergine con dodici cardinali, arrivato Michelagnolo volse (dico) il Papa per forza che Michelagnolo gli sedessi allato, quantunque egli umilissimamente il recusassi, onorando lui sempre, quanto è possibile, la virtù sua.
Fecegli fare un modello d'una facciata per un palazzo che Sua Santità desiderava fare allato a San Rocco, volendosi servire del mausoleo di Augusto per il resto della muraglia; che non si può vedere per disegno di facciata, né il più vario, né il più ornato, né il più nuovo di maniera e di ordine, avenga, come s'è visto in tutte le cose sue, che e' non s'è mai voluto obligare a legge, o antica, o moderna di cose d'architettura, come quegli che ha auto l'ingegno atto a trovare sempre cose nuove e varie e non punto men belle.
Questo modello è oggi appresso il duca Cosimo de' Medici, che gli fu donato da papa Pio Quarto, quando gli andò a Roma, che lo tiene fra le sue cose più care.
Portò tanto rispetto questo Papa a Michelagnolo, che del continuo prese la sua protezione contro a cardinali et altri che cercavano calunniarlo, e volse che sempre per valenti e reputati che fussino gli artefici andassino a trovarlo a casa, e gli ebbe tanto rispetto e reverenza, che non si ardiva Sua Santità per non gli dare fastidio a richiederlo di molte cose, che Michelagnolo ancor che fussi vecchio poteva fare.
Aveva Michelagnolo fino nel tempo di Paulo Terzo per suo ordine dato principio a far rifondare il ponte Santa Maria di Roma, il quale per il corso dell'acqua continuo e per l'antichità sua era indebolito e rovinava.
Fu ordinato da Michelagnolo per via di casse il rifondare e fare diligenti ripari alle pile, e di già ne aveva condotto a fine una gran parte e fatto spese grosse in legnami e trevertini a benefizio di quella opera, e venendosi nel tempo di Giulio Terzo in congregazione coi cherici di camera in pratica di dargli fine, fu proposto fra loro da Nanni di Baccio Bigio architetto, che con poco tempo e somma di danari si sarebbe finito, allogando in cottimo a lui; e con certo modo allegavano sotto spezie di bene per isgravar Michelagnolo, perché era vecchio e che non se ne curava, e stando così la cosa non se ne verrebbe mai a fine.
Il Papa, che voleva poche brighe, non pensando a quel che poteva nascere, diede autorità a' cherici di camera che come cosa loro n'avessino cura, i quali lo dettono poi, senza che Michelagnolo ne sapessi altro, con tutte quelle materie con patto libero a Nanni; il quale non attese a quelle fortificazioni, come era necessario a rifondarlo, ma lo scaricò di peso per vendere gran numero di trevertini di che era rifiancato e solicato anticamente il ponte, che venivano a gravarlo e facevanlo più forte e sicuro e più gagliardo, mettendovi in quel cambio materia di ghiaie et altri getti, che non si vedeva alcun difetto di drento, e di fuori vi fece sponde et altre cose, che a vederlo pareva rinovato tutto, ma indebolito totalmente e tutto assottigliato.
Seguì da poi cinque anni dopo, che venendo la piena del diluvio l'anno 1557, egli rovinò di maniera, che fece conoscere il poco giudizio de' cherici di camera, e 'l danno che ricevé Roma per partirsi dal consiglio di Michelagnolo, il quale predisse questa sua rovina molte volte a' suoi amici et a me, che mi ricordo passandovi insieme a cavallo che mi diceva: "Giorgio, questo ponte ci triema sotto; sollecitiamo il cavalcare, che non rovini in mentre ci siàn su".
Ma tornando al ragionamento di sopra, finito che fu l'opera di Montorio e con molta mia satisfazione, io tornai a Fiorenza per servizio del duca Cosimo, che fu l'anno 1554.
Dolse a Michelagnolo la partita del Vasari e parimente a Giorgio, avenga che ogni giorno que' suoi aversarii ora per una via or per un'altra lo travagliavano: per il che non mancarono giornalmente l'uno a l'altro scriversi, e l'anno medesimo d'aprile dandogli nuova il Vasari che Lionardo nipote di Michelagnolo aveva avuto un figliuolo mastio, e con onorato corteo di donne nobilissime l'avevano accompagnato al battesimo, rinovando il nome del Buonaruoto, Michelagnolo rispose in una lettera al Vasari queste parole:
Giorgio amico caro.
Io ho preso grandissimo piacere della vostra, visto che pur vi ricordate del povero vecchio, e più per esservi trovato al trionfo, che mi scrivete d'aver visto rinascere un altro Buonaruoto, del quale aviso vi ringrazio quanto so e posso; ma ben mi dispiace tal pompa, perché l'uomo non dee ridere quando il mondo tutto piange.
Però mi pare che Lionardo non abbia a fare tanta festa d'uno che nasce, con quella allegrezza che s'ha a serbare alla morte di chi è ben vissuto.
Né vi maravigliate se non rispondo subito: lo fo per non parere mercante.
Ora io vi dico che per le molte lode, che per detta mi date, se io ne meritassi sol una, mi parrebbe, quando io mi vi detti in anima et in corpo, avervi dato qualcosa, et aver sadisfatto a qualche minima parte di quel che io vi son debitore; dove vi ricognosco ogni ora creditore di molte più che io non ho da pagare.
E perché son vecchio oramai non spero in questa, ma nell'altra vita potere pareggiare il conto: però vi prego di pazienzia, e son vostro, e le cose di qua stan pur così.
Aveva già nel tempo di Paulo Terzo mandato il duca Cosimo il Tribolo a Roma per vedere se egli avesse potuto persuadere Michelagnolo a ritornare a Fiorenza, per dar fine alla sagrestia di San Lorenzo.
Ma scusandosi Michelagnolo che invecchiato non poteva più il peso delle fatiche, e con molte ragioni lo escluse, che non poteva partirsi di Roma.
Onde il Tribolo dimandò finalmente della scala della libreria di San Lorenzo, della quale Michelagnolo aveva fatto fare molte pietre, e non ce n'era modello né certezza appunto della forma; e quantunque ci fussero segni in terra in un mattonato et altri schizzi di terra, la propria et ultima risoluzione non se ne trovava.
Dove per preghi che facessi il Tribolo e ci mescolassi il nome del Duca, non rispose mai altro, se non che non se ne ricordava.
Fu dato dal duca Cosimo ordine al Vasari che scrivesse a Michelagnolo che gli mandassi a dire che fine avesse a avere questa scala; ché forse per l'amicizia et amore che gli portava, doverebbe dire qualcosa, che sarebbe cagione che venendo tal risoluzione ella si finirebbe.
Scrisse il Vasari a Michelagnolo l'animo del Duca, e che tutto quel che si aveva a condurre toccherebbe a lui esserne lo essecutore, il che farebbe con quella fede che sapeva che e' soleva aver cura delle cose sue.
Per il che mandò Michelagnolo l'ordine di far detta scala in una lettera di sua mano addì 28 di settembre 1555:
Messer Giorgio amico caro.
Circa la scala della libreria, di che m'è stato tanto parlato, crediate che se io mi potessi ricordare come io l'avevo ordinata, che io non mi farei pregare.
Mi torna bene nella mente come un sogno una certa scala, ma non credo che sia appunto quella che io pensai allora, perché mi torna cosa goffa; pure la scriverò qui, cioè che i' togliessi una quantità di scatole aovate di fondo d'un palmo l'una, ma non d'una lunghezza e larghezza, e la maggiore e prima ponessi in sul pavimento, lontana dal muro dalla porta tanto quanto volete che la scala sia dolce o cruda; et un'altra ne mettessi sopra questa che fussi tanto minore per ogni verso, che in sulla prima di sotto avanzassi tanto piano, quanto vuole il piè per salire, diminuendole e ritirandole verso la porta fra l'una e l'altra, sempre per salire, e che la diminuzione dell'ultimo grado sia quant'è 'l vano della porta, e detta parte di scala aovata abbi come dua ale, una di qua et una di là, che vi seguitino i medesimi gradi e non aovati.
Di queste serva il mezzo per il signore dal mezzo in su di detta scala, e rivolte di dette alie ritornino al muro; dal mezzo in giù insino in sul pavimento si discostino con tutta la scala dal muro circa tre palmi, in modo che l'imbasamento del ricetto non sia occupato in luogo nessuno, e resti libera ogni faccia.
Io scrivo cosa da ridere, ma so ben che voi troverete cosa al proposito.
Scrisse ancora Michelagnolo in que' dì al Vasari che essendo morto Giulio Terzo, e creato Marcello, la setta gli era contro, per la nuova creazione di quel Pontefice cominciò di nuovo a travagliarlo; per il che sentendo ciò il Duca, e dispiacendogli questi modi, fece scrivere a Giorgio e dirli che doveva partirsi di Roma e venirsene a stare in Fiorenza, dove quel Duca non desiderava altro, se non talvolta consigliarsi per le sue fabriche secondo i suoi disegni e che arebbe da quel signore tutto quello che e' desiderava, senza far niente di sua mano.
E di nuovo gli fu per Messer Lionardo Marinozzi cameriere segreto del duca Cosimo portate lettere scritte da sua eccellenza e così dal Vasari.
Dove essendo morto Marcello e creato Paulo Quarto, dal quale di nuovo gli era stato, in quel principio che egli andò a baciare il piede, fatte offerte assai, in desiderio della fine della fabbrica di San Pietro, e l'obligo, che gli pareva avervi, lo tenne fermo, e pigliando certe scuse scrisse al Duca che non poteva per allora servirlo, et una lettera al Vasari con queste parole proprie:
Messer Giorgio amico caro.
Io chiamo Iddio in testimonio, come io fu' contra mia voglia con grandissima forza messo da papa Paulo Terzo nella fabbrica di San Pietro di Roma dieci anni sono; e se si fussi seguitato fino a oggi di lavorare in detta fabbrica come si faceva allora, io sarei ora a quello di detta fabbrica, ch'io desidererei tornarmi costà; ma per mancamento di danari la s'è molto allentata, et allentasi quando l'è giunta in più faticose e dificil parti, in modo che abandonandola ora non sarebbe altro che con grandissima vergogna e peccato perdere il premio delle fatiche che io ho durate in detti dieci anni per l'amor de Dio.
Io vi ho fatto questo discorso per risposta della vostra, e perché ho una lettera del Duca, m'ha fatto molto maravigliare che sua signoria si sia degnata a scrivere con tanta dolcezza.
Ne ringrazio Iddio e sua eccellenza quanto so e posso.
Io esco di proposito, perché ho perduto la memoria e 'l cervello, e lo scrivere m'è di grande affanno, perché non è mia arte.
La conclusione è questa: di farvi intendere quel che segue dello abandonare la sopra detta fabbrica, e partirsi di qua: la prima cosa contenterei parecchi ladri, e sarei cagione della sua rovina, e forse ancora del serrarsi per sempre.
Seguitando di scrivere Michelagnolo a Giorgio, gli disse per escusazione sua col Duca, che avendo casa e molte cose a comodo suo in Roma, che valevano migliaia di scudi, oltra a l'esser indisposto della vita per renella, fianco e pietra, come hanno tutti e' vecchi e come ne poteva far fede maestro Eraldo suo medico, del quale si lodava dopo Dio avere la vita da lui, per che per queste cagioni non poteva partirsi, e che finalmente non gli bastava l'animo se non di morire.
Raccomandavasi al Vasari come per più altre lettere, che ha di suo, che lo raccomandassi al Duca che gli perdonassi oltra a quello che (come ho detto) gli scrisse al Duca in escusazione sua.
E se Michelagnolo fussi stato da poter cavalcare sarebbe subito venuto a Fiorenza, onde credo che non si sarebbe saputo poi partire per ritornarsene a Roma, tanto lo mosse la tenerezza e l'amore che portava al Duca; et intanto attendeva a lavorare in detta fabbrica in molti luoghi, per fermarla ch'ella non potesse essere più mossa.
In questo mentre alcuni gli avevon referto che papa Paulo Quarto era d'animo di fargli acconciare la facciata della cappella dove è il Giudizio Universale, perché diceva che quelle figure mostravano le parte vergognose troppo disonestamente: là dove fu fatto intendere l'animo del Papa a Michelagnolo il quale rispose: "Dite al Papa che questa è piccola faccenda, e che facilmente si può acconciare; che acconci egli il mondo, che le pitture si acconciano presto".
Fu tolto a Michelagnolo l'ufizio della cancelleria di Rimini; non volse mai parlare al Papa, che non sapeva la cosa, il quale dal suo coppiere gli fu levato col volergli fare dare per conto della fabbrica di San Piero scudi cento il mese, che fattogli portare una mesata a casa, Michelagnolo non gli accettò.
L'anno medesimo gli nacque la morte di Urbino suo servidore, anzi come si può chiamare e come aveva fatto, suo compagno: questo venne a stare con Michelagnolo a Fiorenza l'anno 1530, finito l'assedio, quando Antonio Mini suo discepolo andò in Francia, et usò grandissima servitù a Michelagnolo, tanto che in ventisei anni quella servitù e dimestichezza fece che Michelagnolo lo fé ricco e l'amò tanto, che così vecchio in questa sua malattia lo servì e dormiva la notte vestito a guardarlo.
Per il che dopo che fu morto, il Vasari per confortarlo gli scrisse et egli rispose con queste parole:
Messer Giorgio mio caro, io posso male scrivere, pur per risposta della vostra lettera dirò qualche cosa.
Voi sapete come Urbino è morto: di che m'è stato grandissima grazia di Dio, ma con grave mio danno et infinito dolore.
La grazia è stata che dove in vita mi teneva vivo, morendo m'ha insegnato morire non con dispiacere, ma con desiderio della morte.
Io l'ho tenuto ventisei anni e hollo trovato rarissimo e fedele, et ora che lo avevo fatto ricco e che io l'aspettavo bastone e riposo della mia vecchiezza, m'è sparito, né m'è rimasto altra speranza che di rivederlo in Paradiso.
E di questo n'ha mostro segno Iddio per la felicissima morte che ha fatto, che più assai che 'l morire gli è incresciuto lasciarmi in questo mondo traditore con tanti affanni; benché la maggior parte di me n'è ita seco, né mi rimane altro che una infinita miseria; e mi vi raccomando.
Fu adoperato al tempo di Paulo Quarto nelle fortificazioni di Roma in più luoghi, e da Salustio Peruzzi, a chi quel Papa, come s'è detto altrove, aveva dato a fare il portone di Castello Santo Agnolo, oggi la metà rovinato; si adoperò ancora a dispensare le statue di quella opera e vedere i modelli degli scultori e correggerli.
Et in quel tempo venne vicino a Roma lo esercito franzese, dove pensò Michelagnolo con quella città avere a capitare male; dove Antonio Franzese da Castel Durante, che gli aveva lassato Urbino in casa per servirlo nella sua morte, si risolvé fuggirsi di Roma, e segretamente andò Michelagnolo nelle montagne di Spuleto; dove egli visitando certi luoghi di romitori, nel qual tempo scrivendoli il Vasari e mandandogli una operetta, che Carlo Lenzoni cittadino fiorentino alla morte sua aveva lasciata a Messer Cosimo Bartoli, che dovessi farla stampare e dirizzare a Michelagnolo, finita che ella fu in que' dì la mandò il Vasari a Michelagnolo, che ricevuta, rispose così:
Messer Giorgio amico caro.
Io ho ricevuto il libretto di Messer Cosimo che voi mi mandate, et in questa sarà una di ringraziamento; pregovi che gliene diate, et a quella mi raccomando.
Io ho avuto a questi dì con gran disagio e spesa e gran piacere nelle montagne di Spuleti a visitare que' romiti, in modo che io son ritornato men che mezzo a Roma, perché veramente e' non si trova pace se non ne' boschi.
Altro non ho che dirvi, mi piace che stiate sano e lieto, e mi vi raccomando.
De' 18 di settembre 1556.
Lavorava Michelagnolo quasi ogni giorno per suo passatempo intorno a quella pietra che s'è già ragionato, con le quattro figure, la quale egli spezzò in questo tempo per queste cagioni: perché quel sasso aveva molti smerigli et era duro e faceva spesso fuoco nello scarpello; o fusse pure che il giudizio di quello uomo fussi tanto grande che non si contentava mai di cosa che e' facessi: e che e' sia il vero, delle sue statue se ne vede poche finite nella sua virilità, ché le finite affatto sono state condotte da lui nella sua gioventù, come il Bacco, la Pietà della Febre, il Gigante di Fiorenza, il Cristo della Minerva, che queste non è possibile né crescere né diminuire un grano di panìco senza nuocere loro; l'altre del duca Giuliano e Lorenzo, Notte et Aurora, e 'l Moisè con altre dua in fuori, che non arrivano tutte a undici statue, l'altre dico sono state imperfette, e son molte maggiormente, come quello che usava dire, che se s'avessi avuto a contentare di quel che faceva, n'arebbe mandate poche, anzi, nessuna fuora; vedendosi ch'egli era ito tanto con l'arte e col giudizio innanzi, che com'egli aveva scoperto una figura e conosciutovi un minimo che d'errore, la lasciava stare e correva a manimettere un altro marmo, pensando non avere a venire a quel medesimo; et egli spesso diceva essere questa la cagione che egli diceva d'aver fatto sì poche statue e pitture.
Questa Pietà, come fu rotta, la donò a Francesco Bandini.
In questo tempo Tiberio Calcagni scultore fiorentino era divenuto molto amico di Michelagnolo, per mezzo di Francesco Bandini e di Messer Donato Giannotti, et essendo un giorno in casa di Michelagnolo dove era rotta questa Pietà, dopo lungo ragionamento li dimandò per che cagione l'avessi rotta e guasto tante maravigliose fatiche: rispose esserne cagione la importunità di Urbino suo servidore, che ogni dì lo sollecitava a finirla, e che fra l'altre cose gli venne levato un pezzo d'un gomito della Madonna, e che prima ancora se l'era recata in odio e ci aveva avuto molte disgrazie attorno di un pelo che v'era; dove scappatogli la pazienzia la roppe, e la voleva rompere affatto, se Antonio suo servidore non se gli fusse raccomandato che così com'era gliene donassi.
Dove Tiberio inteso ciò, parlò al Bandino, che desiderava di avere qualcosa di mano sua, et il Bandino operò che Tiberio promettessi a Antonio scudi duecento d'oro, e pregò Michelagnolo che se volessi che con suo aiuto di modelli Tiberio la finissi per il Bandino, saria cagione che quelle fatiche non sarebbono gettate invano, e ne fu contento Michelagnolo; là dove ne fece loro un presente.
Questa fu portata via subito e rimessa insieme poi da Tiberio, e rifatto non so che pezzi, ma rimase imperfetta per la morte del Bandino, di Michelagnolo e di Tiberio.
Truovasi al presente nelle mani di Pierantonio Bandini, figliuolo di Francesco, alla sua vigna di Monte Cavallo.
E tornando a Michelagnolo, fu necessario trovar qualcosa poi di marmo perché e' potessi ogni giorno passar tempo scarpellando, e fu messo un altro pezzo di marmo, dove era stato già abbozzato un'altra Pietà, varia da quella, molto minore.
Era entrato a servire Paulo Quarto Pirro Ligorio architetto, e sopra alla fabbrica di San Piero, e di nuovo travagliava Michelagnolo, et andavano dicendo che egli era rimbambito.
Onde sdegnato da queste cose volentieri se ne sarebbe tornato a Fiorenza, e soprastato a tornarsene, fu di nuovo da Giorgio sollecitato con lettere; ma egli conosceva d'esser tanto invecchiato e condotto già alla età di ottantun anno, scrivendo al Vasari in quel tempo per suo ordinario, e mandandogli varii sonetti spirituali, gli diceva che era al fine della vita, che guardassi dove egli teneva i suoi pensieri, leggendo vedrebbe che era alle ventiquattro ore, e non nasceva pensiero in lui che non vi fussi scolpita la morte, dicendo in una sua:
Dio il voglia Vasari che io la tenga a disagio qualche anno, e so che mi direte bene che io sia vecchio e pazzo a voler fare sonetti; ma perché molti dicono che io sono rimbambito, ho voluto fare l'uffizio mio.
Per la vostra veggo l'amore che mi portate, e sappiate per cosa certa che io arei caro di riporre queste mie debili ossa a canto a quelle di mio padre, come mi pregate: ma partendo di qua sarei causa d'una gran rovina della fabbrica di San Piero, d'una gran vergogna e d'un grandissimo peccato.
Ma come sia stabilita che non possa essere mutata, spero far quanto mi scrivete, se già non è peccato a tenere a disagio parecchi ghiotti che aspettano mi parta presto.
Era con questa lettera scritto pur di suo mano il presente sonetto:
Giunto è già 'l corso della vita mia
con tempestoso mar per fragil barca
al comun porto, ov'a render si varca
conto e ragion d'ogni opra trista e pia.
Onde l'affettuosa fantasia,
che l'arte mi fece idolo e monarca,
cognosco or ben, quant'era d'error carca,
e quel ch'a mal suo grado ognun desia.
Gli amorosi pensier già vani e lieti
che fien or, s'a due morti mi avicino?
D'una son certo, e l'altra mi minaccia.
Né pinger né scolpir fia più che queti
l'anima volta a quello amor divino,
ch'aperse a prender noi in croce le braccia.
Per il che si vedeva che andava ritirando verso Dio e lasciando le cure dell'arte per le persecuzioni de' suoi maligni artefici e per colpa di alcuni soprastanti della fabbrica, che arebbono voluto, come e' diceva, menar le mani.
Fu risposto per ordine del duca Cosimo a Michelagnolo dal Vasari con poche parole in una lettera confortandolo al rimpatriarsi, e col sonetto medesimo corrispondente alle rime.
Sarebbe volentieri partitosi di Roma Michelagnolo, ma era tanto stracco et invecchiato, che aveva, come si dirà più basso, stabilito tornarsene; ma la volontà era pronta, inferma la carne, che lo riteneva in Roma.
Et avvenne di giugno l'anno 1557, avendo egli fatto modello della volta che copriva la nicchia che si faceva di trevertino alla cappella del re, che nacque per non vi potere ire, come soleva, uno errore: che il capo maestro in sul corpo di tutta la volta prese la misura con una centina sola, dove avevano a essere infinite.
Michelagnolo, come amico e confidente del Vasari, gli mandò di sua mano disegni con queste parole scritte a piè di dua:
La centina segnata di rosso la prese il capo maestro sul corpo di tutta la volta; di poi, come si cominciò a passar al mezzo tondo, che è nel colmo di detta volta, s'accorse dell'errore che faceva detta centina, come si vede qui nel disegno le segnate di nero.
Con questo errore è ita la volta tanto innanzi, che s'ha a disfare un gran numero di pietre, perché in detta volta non ci va nulla di muro, ma tutto trivertino, et il diametro de' tondi, che senza la cornice gli ricigne di ventidue palmi.
Questo errore, avendo il modello fatto appunto, come fo d'ogni cosa, è stato fatto per non vi potere andare spesso per la vecchiezza; e dove io credetti che ora fussi finita detta volta, non sarà finita in tutto questo verno; e se si potessi morire di vergogna e dolore, io non sarei vivo.
Pregovi che raguagliate il Duca ché io non sono ora a Fiorenza.
E seguitando nell'altro disegno dove egli aveva disegnato la pianta diceva così:
Messer Giorgio, perché sia meglio inteso la dificultà della volta, per osservare il nascimento suo fino di terra, è stato forza dividerla in tre volte in luogo delle finestre da basso divise dai pilastri, come vedete, che e' vanno piramidati in mezzo, dentro del colmo della volta come fa il fondo e' lati delle volte ancora, e bisognò governarle con un numero infinito di centine, e tanto fanno mutazione e per tanti versi di punto in punto, che non ci si può tener regola ferma; e' tondi e' quadri che vengono nel mezzo de' lor fondi hanno a diminuire e crescere per tanti versi et andare a tanti punti, che è dificil cosa a trovare il modo vero.
Nondimeno, avendo il modello, come fo di tutte le cose, non si doveva mai pigliare sì grande errore di volere con una centina sola governare tutt'a tre que' gusci, onde n'è nato ch'è bisognato con vergogna e danno disfare, e disfassene ancora un gran numero di pietre.
La volta et i conci et i vani è tutta di trivertino, come l'altre cose dabasso, cosa non usata a Roma.
Fu assoluto dal duca Cosimo Michelagnolo, v