[Pagina precedente]...e per Santa Maria in Organo et ai frati di S. Giorgio. Medesimamente ai monaci negri di San Nazario, fece in Verona alcun'altri minii bellissimi. Ma quella che avanzò tutte l'altre opere di costui, che furono divine, fu una carta dove è fatto di minio il Paradiso terrestre con Adamo et Eva, cacciati dall'Angelo che è loro dietro con la spada in mano. Né si potria dire quanto sia grande e bella la varietà degl'alberi che sono in quest'opera, i frutti, i fiori, gl'animali, gl'uccelli e l'altre cose tutte. La quale stupenda opera fece fare don Giorgio Cacciamale bergamasco, allora priore in San Giorgio di Verona, il quale, oltre a molte altre cortesie che usò a Girolamo, gli donò sessanta scudi d'oro. Quest'opera dal detto padre fu poi donata in Roma a un cardinale, allora protettore di quella Relligione, il quale mostrandola in Roma a molti signori, fu tenuta la migliore opera di minio che mai fusse insin allora stata veduta.
Facea Girolamo i fiori con tanta diligenza, e così veri, belli e naturali, che parevano ai riguardanti veri. E contrafaceva camei piccoli et altre pietre e gioie intagliate di maniera che non si poteva veder cosa più simile, né più minuta. E fra le figurine sue se ne veggiono alcune, come in camei et altre pietre finte, che non sono più grandi che una piccola formica, e si vede nondimeno in loro tutte le membra e tutti i muscoli tanto bene, che a pena si può credere da chi non gli vede. Diceva Girolamo, nell'ultima sua vecchiezza, che allora sapea più che mai avesse saputo in quest'arte e dove aveano ad andare tutte le botte, ma che poi nel maneggiar il pennello gl'andavano a contrario, perché non lo serviva più né l'occhio, né la mano.
Morì Girolamo l'anno 1555 a due dì di luglio d'età d'anni ottantatré e fu sepolto in San Nazario nelle sepolture della Compagnia di San Biagio. Fu costui persona molto da bene, né mai ebbe lite né travaglio con persona alcuna, e fu di vita molto innocente. Ebbe fra gl'altri un figliuolo chiamato Francesco, il quale imparò l'arte da lui e fece, essendo anco giovinetto, miracoli nel miniare, in tanto che Girolamo affermava di quell'età non aver saputo tanto quanto il figliuolo sapeva. Ma gli fu costui sviato da un fratello della madre il quale, essendo assai ricco e non avendo figliuoli, se lo tirò appresso, facendolo attendere in Vicenza alla cura d'una fornace di vetri che facea fare. Nel che, avendo speso Francesco i migliori anni, morta la moglie del zio, cascò da ogni speranza e si trovò aver perso il tempo, perché presa colui un'altra moglie n'ebbe figliuoli. E così non fu altrimenti Francesco, sì come s'avea pensato, erede del zio. Per che rimessosi all'arte dopo sei anni et imparato qualche cosa, si diede a lavorare, e, fra l'altre cose, fece una palla grande di diametro quattro piedi, vota dentro e coperto il difuori, che era di legno, con colla di nervi di bue, temperata in modo che era fortissima, né si poteva temere in parte alcuna di rottura o d'altro danno. Dopo, essendo questa palla, la quale dovea servire per una sfera terrestre, benissimo compartita e misurata, con ordine e presenza del Fracastoro e del Beroldi, medici ambidue e cosmografi et astrologi rarissimi, si dovea colorire da Francesco per Messer Andrea Navagero, gentiluomo viniziano e dottissimo poeta et oratore, il quale volea farne dono al re Francesco di Francia, al quale dovea per la sua republica andar oratore. Ma il Navagero, essendo a pena arrivato in Francia in sulle poste, si morì, e quest'opera rimase imperfetta, la quale sarebbe stata cosa rarissima, come condotta da Francesco e col consiglio e parere di due sì grand'uomini. Rimase dunque imperfetta, e, che fu peggio, quello che era fatto ricevette non so che guastamento in assenza di Francesco. Tuttavia così guasta la comperò Messer Bartolomeo Lonichi, che non ha mai voluto compiacerne alcuno ancor che ne sia stato ricerco con grandissimi preghi e prezzo. N'aveva fatto Francesco innanzi a questa due altre minori, l'una delle quali è in mano del Mazzanti arciprete del Duomo di Verona, e l'altra ebbe il conte Raimondo dalla Torre, et oggi l'ha il conte Giovambatista suo figliuolo che la tiene carissima; perché anco questa fu fatta con le misure et assistenza del Fracastoro, il quale fu molto familiare amico del conte Raimondo. Francesco finalmente, increscendogli la tanta diligenza che ricercano i minii, si diede alla pittura et all'architettura, nelle quali riuscì peritissimo, e fece molte cose in Vinezia et in Padoa.
Era in quel tempo il vescovo di Tornai, fiamingo nobilissimo e ricchissimo, venuto in Italia per dare opera alle lettere, vedere queste provincie et apparare le creanze e modi di vivere di qua. Per che trovandosi costui in Padoa e dilettandosi molto di fabricare, come invaghito del modo di fabricare italiano, si risolvé di portare nelle sue parti la maniera delle fabriche nostre. E per poter ciò fare più comodamente, conosciuto il valore di Francesco, se lo tirò appresso con onorato stipendio per condurlo in Fiandra, dove avevano in animo di voler fare molte cose onorate. Ma venuto il tempo di partire e già avendo fatto disegnare le maggiori e migliori e più famose fabriche di qua, il poverello Francesco si morì, essendo giovane e di bonissima speranza, lasciando il suo padrone, per la sua morte, molto dolente. Lasciò Francesco un solo fratello, nel quale, essendo prete, rimane estinta la famiglia dai Libri, nella quale sono stati successivamente tre uomini in questa professione molto eccellenti. Et altri discepoli non sono rimasi di loro che tenghino viva quest'arte, eccetto don Giulio Clovio sopra detto, il quale l'apprese come abbian detto da Girolamo quando lavorava a Candiana, essendo lì frate, et il quale l'ha poi inalzata a quel supremo grado al quale pochissimi sono arrivati, e niuno l'ha trapassato già mai.
Io sapeva bene alcune cose dei sopra detti eccellenti e nobili artefici veronesi, ma tutto quello che n'ho raccontato non arei già saputo interamente, se la molta bontà e diligenza del reverendo e dottissimo fra' Marco de' Medici, veronese et uomo pratichissimo in tutte le più nobili arti e scienzie, et insieme il Danese Cataneo da Carrara eccellentissimo scultore, e miei amicissimi, non me n'avessero dato quell'intero e perfetto ragguaglio che di sopra, come ho saputo il meglio, ho scritto a utile e commodo di chi leggerà queste nostre vite: nelle quali mi sono stati e sono di grande aiuto le cortesie di molti amici, che per compiacermi e giovare al mondo, si sono in ricercar questa cosa affaticati.
E questo sia il fine delle vite dei detti veronesi, di ciascuno de' quali non ho potuto avere i ritratti, essendomi questa piena notizia non prima venuta alle mani, che quando mi sono poco meno che alla fine dell'opera ritrovato.
VITA DI FRANCESCO GRANACCI PITTORE FIORENTINO
Grandissima è la ventura di quegli artefici che si accostano, o nel nascere o nelle compagnie che si fanno in fanciullezza, a quegl'uomini che il cielo ha eletto per segnalati e superiori agl'altri nelle nostre arti: atteso che fuor di modo s'acquista e bella e buona maniera nel vedere i modi del fare e l'opere degl'uomini eccellenti; senzaché anco la concorrenza e l'emulazione ha, come in altro luogo si è detto, gran forza negl'animi nostri.
Francesco Granacci, adunque, del quale si è di sopra favellato, fu uno di quegli che dal Magnifico Lorenzo de' Medici fu messo a imparare nel suo giardino; onde avvenne che, conoscendo costui ancor fanciullo il valore e la virtù di Michelagnolo, e quanto crescendo fusse per produrre grandissimi frutti, non sapeva mai levarsegli d'attorno; anzi, con sommessione et osservanza incredibile, s'ingegnò sempre di andar secondando quel cervello. Di maniera che Michelagnolo fu forzato amarlo sopra tutti gl'altri amici et a confidar tanto in lui, che a niuno più volentieri che al Granaccio conferì mai le cose, né comunicò tutto quello che allora sapeva nell'arte.
E così essendo ambidue stati insieme di compagnia in bottega di Domenico Grillandai, avvenne, perché il Granacci era tenuto dei giovani del Grillandai il migliore e quegli che avesse più grazia nel colorire a tempera e maggior disegno, che egli aiutò a Davitte e Benedetto Grillandai, fratelli di Domenico, a finire la tavola dell'altare maggiore di Santa Maria Novella, la quale per la morte di esso Domenico era rimasa imperfetta. Nel quale lavoro il Granaccio acquistò assai. E dopo fece della medesima maniera che è detta tavola, molti quadri che sono per le case de' cittadini, et altri che furono mandati di fuori. E perché era molto gentile e valeva assai in certe galanterie che per le feste di carnovale si facevano nella città , fu sempre in molte cose simili dal Magnifico Lorenzo de' Medici adoperato; ma particolarmente nella mascherata, che rappresentò il trionfo di Paulo Emilio della vittoria, che egli ebbe, di certe nazzioni straniere; nella quale mascherata, piena di bellissime invenzioni, si adoperò talmente il Granacci, ancor che fusse giovinetto, che ne fu sommamente lodato. Né tacerò qui che il detto Lorenzo de' Medici fu primo inventore, come altra volta è stato detto, di quelle mascherate che rappresentano alcuna cosa e sono detti a Firenze canti, non si trovando che prima ne fussero state fatte in altri tempi.
Fu similmente adoperato il Granacci l'anno 1513 negl'apparati che si fecero, magnifici e sontuosissimi, per la venuta di papa Leone Decimo de' Medici, da Iacopo Nardi, uomo dottissimo e di bellissimo ingegno; il quale, avendogli ordinato il magistrato degl'Otto di pratica che facesse una bellissima mascherata, fece rapresentare il trionfo di Camillo. La quale mascherata, per quanto apparteneva al pittore, fu dal Granacci tanto bene ordinata a bellezza et adorna, che meglio non può alcuno immaginarsi. E le parole della canzona che fece Iacopo cominciavano:
Contempla in quanta gloria sei salita,
felice alma Fiorenza,
poi che dal ciel discesa
e quello che segue.
Fece il Granacci pel medesimo apparato, e prima e poi, molte prospettive da comedia, e stando col Grillandaio lavorò stendardi da galea, bandiere et insegne d'alcuni cavalieri a sproni d'oro nell'entrare publicamente in Firenze, e tutto a spese de' capitani di Parte Guelfa, come allora si costumava e si è fatto anco, non ha molto, a' tempi nostri. Similmente, quando si facevano le potenze e l'armegerie, fece molte belle invenzioni d'abbigliamenti et acconcimi. La quale maniera di feste che è propria de' fiorentini et è piacevole molto vedendosi uomini quasi ritti del tutto a cavallo, in sulle staffe cortissime, rompere la lancia con quella facilità che fanno i guerrieri ben serrati nell'arcione, si fecero tutti per la detta venuta di Leone a Firenze. Fece anco, oltre all'altre cose, il Granacci un bellissimo arco trionfale dirimpetto alla porta di Badia, pieno di storie di chiaro scuro con bellissime fantasie. Il quale arco fu molto lodato, e particolarmente per l'invenzione dell'architettura e per aver finto, per l'entrata della via del palagio, il ritratto della medesima porta di Badia con le scalee et ogni altra cosa, che tirata in prospettiva non era dissimile la dipinta e posticcia dalla vera e propria. E per ornamento del medesimo arco fece di terra alcune figure di rilievo di sua mano bellissime, et in cima all'arco in una grande inscrizione, queste parole: "Leoni X pontifici maximo fidei cultori".
Ma per venire oggimai ad alcune opere del Granacci che sono in essere, dico che, avendo egli studiato il cartone di Michelagnolo, mentre che esso Buonarroto per la sala grande di palazzo il faceva, acquistò tanto e di tanto giovamento gli fue, che, essendo Michelagnolo chiamato a Roma da papa Giulio Secondo perché dipignesse la volta della capella di palazzo, fu il Granacci de' primi, ricerchi da Michelagnolo, che gl'aiutassero colorire a fresco quell'opera, secondo i cartoni che esso Michelagnolo avea fatto. Bene è vero che, non piacendogli poi la maniera né il modo di fare di nessuno, trovò via senza licenziarli, chiudendo ...
[Pagina successiva]