[Pagina precedente]...to molto vario et astratto dagli altri, e con certa sottilità nello investigare certe sottigliezze della natura, che penetrano, senza guardare a tempo o fatiche, solo per suo diletto e per il piacere dell'arte; e non poteva già essere altrimenti perché innamorato di lei, non curava de' suoi comodi e si riduceva a mangiar continuamente ovva sode che per rispiarmare il fuoco, le coceva quando faceva bollir la colla; e non sei, o otto per volta, ma una cinquantina, e tenendole in una sporta, le consumava a poco a poco. Nella quale vita così strattamente godeva, che l'altre appetto alla sua gli parevano servitù. Aveva a noia il piagner de' putti, il tossir de gli uomini, il suono delle campane, il cantar de' frati; e quando diluviava il cielo d'acqua, aveva piacere di veder rovinarla a piombo da' tetti e stritolarsi per terra. Aveva paura grandissima de le saette, e quando e' tonava straordinariamente, si inviluppava nel mantello e serrato le finestre e l'uscio della camera, si recava in un cantone finché passasse la furia.
Nel suo ragionamento era tanto diverso e vario, che qualche volta diceva sì belle cose che faceva crepar dalle risa altrui. Ma per la vecchiezza vicino già ad anni 80, era fatto sì strano e fantastico che non si poteva più seco. Non voleva che i garzoni gli stessino intorno, di maniera che ogni aiuto per la sua bestialità gli era venuto meno. Venivagli voglia di lavorare e per il parletico non poteva. Et entrava in tanta collera che voleva sgarare le mani, che stessino ferme, e mentre che e' borbotava, o gli cadeva la mazza da poggiare, o veramente i pennelli, che era una compassione. Adiravasi con le mosche, e gli dava noia infino a l'ombra; e così ammalatosi di vecchiaia e visitato pure da qualche amico, era pregato che dovesse acconciarsi con Dio. Ma non li pareva avere a morire, e tratteneva altrui d'oggi in domane. Non che e' non fussi buono e non avessi fede, ché era zelantissimo, ancora che nella vita fusse bestiale. Ragionava qualche volta de' tormenti che per i mali fanno distruggere i corpi e quanto stento patisce chi consumando gli spiriti a poco a poco si muore, il che è una gran miseria. Diceva male de' medici, degli speziali e di coloro che guardano gli ammalati, e che gli fanno morire di fame; oltra i tormenti degli sciloppi, medicine, cristieri et altri martorii, come il non essere lasciato dormire, quando tu hai sonno, il fare testamento, il veder piagnere i parenti e lo stare in camera al buio; e lodava la giustizia, che era così bella cosa l'andare a la morte; e che si vedeva tanta aria e tanto popolo, che tu eri confortato con i confetti e con le buone parole; avevi il prete et il popolo, che pregava per te; e che andavi con gli Angeli in paradiso; che aveva una gran sorte, chi n'usciva a un tratto. E faceva discorsi e tirava le cose a' più strani sensi che si potesse udire. Laonde per sì strane sue fantasie vivendo stranamente si condusse a tale, che una mattina fu trovato morto appiè d'una scala, l'anno MDXXI; et in San Pier Maggiore gli fu dato sepoltura.
Molti furono i discepoli di costui, e fra gli altri Andrea del Sarto, che valse per molti. Il suo ritratto, s'è avuto da Francesco da S. Gallo che lo fece mentre Piero era vecchio, come molto suo amico e domestico; il qual Francesco ancora ha di mano di Piero (ché non la debbo passare) una testa bellissima di Cleopatra, con uno aspido avvolto al collo, e dua ritratti, l'uno di Giuliano suo padre, l'altro di Francesco Giamberti, suo avolo, che paion vivi.
VITA DI BRAMANTE DA URBINO ARCHITETTORE
Di grandissimo giovamento alla architettura fu veramente il moderno operare di Filippo Brunelleschi, avendo egli contrafatto e dopo molte età rimesse in luce l'opere egregie de' più dotti e maravigliosi antichi. Ma non fu manco utile al secolo nostro Bramante, acciò seguitando le vestigie di Filippo, facesse agli altri dopo lui strada sicura nella professione della architettura, essendo egli di animo, valore, ingegno e scienza in quella arte non solamente teorico, ma pratico et esercitato sommamente. Né poteva la natura formare uno ingegno più spedito, che esercitasse e mettesse in opera le cose dell'arte, con maggiore invenzione e misura e con tanto fondamento quanto costui. Ma non meno punto di tutto questo fu necessario il creare in quel tempo Giulio II pontefice animoso e di lasciar memorie desiderosissimo. E fu ventura nostra e sua il trovare un tal principe, il che agli ingegni grandi avviene rare volte, a le spese del quale e' potesse mostrare il valore dello ingegno suo e quelle arteficiose difficultà che nella architettura mostrò Bramante. La virtù del quale si estese negli edifici da lui fabricati, che le modanature delle cornici, i fusi delle colonne, la grazia de' capitegli, le base, le mensole et i cantoni, le volte, le scale, i risalti et ogni ordine d'architettura tirato per consiglio o modello di questo artefice, riuscì sempre maraviglioso a chiunque lo vide. Laonde quello obligo eterno che hanno gli ingegni che studiano sopra i sudori antichi, mi pare che ancora lo debbano avere alle fatiche di Bramante. Perché se pure i Greci furono inventori della architettura et i Romani imitatori, Bramante non solo imitandogli con invenzion nuova ci insegnò, ma ancora bellezza e difficultà accrebbe grandissima all'arte, la quale per lui imbellita oggi veggiamo.
Costui nacque in Castello Durante nello stato di Urbino, d'una povera persona ma di buone qualità , e nella sua fanciullezza oltra il leggere e lo scrivere, si esercitò grandemente nello abbaco. Ma il padre che aveva bisogno che e' guadagnasse, vedendo che egli si dilettava molto del disegno, lo indirizzò ancora fanciulletto a l'arte della pittura, nella quale studiò egli molto le cose di fra' Bartolomeo, altrimenti fra' Carnovale da Urbino, che fece la tavola di S. Maria della Bella in Urbino. Ma perché egli sempre si dilettò de l'architettura e de la prospettiva, si partì da Castel Durante; e condottosi in Lombardia, andava ora in questa, ora in quella città lavorando il meglio che e' poteva. Non però cose di grande spesa o di molto onore, non avendo ancora né nome, né credito. Per il che, deliberatosi di vedere almeno qualcosa notabile, si trasferì a Milano per vedere il Duomo, dove allora si trovava un Cesare Cesariano, reputato buono geometra e buono architettore, il quale comentò Vitruvio e disperato di non averne avuto quella remunerazione che egli si aveva promessa, diventò sì strano, che non volse più operare, e divenuto salvatico morì più da bestia che da persona. Eravi ancora un Bernardino da Trevio milanese, ingegnere et architettore del Duomo e disegnatore grandissimo il quale da Lionardo da Vinci fu tenuto maestro raro, ancora che la sua maniera fusse crudetta et alquanto secca nelle pitture. Vedesi di costui in testa del Chiostro delle Grazie una Resurressione di Cristo, con alcuni scorti bellissimi; et in S. Francesco una cappella a fresco, dentrovi la morte di S. Pietro e di S. Paulo. Costui dipinse in Milano molte altre opere, e per il contado ne fece anche buon numero tenute in pregio, e nel nostro libro è una testa di carbone e biacca d'una femina assai bella che ancor fa fede de la maniera ch'e' tenne.
Ma per tornare a Bramante, considerata che egli ebbe questa fabbrica e conosciuti questi ingegneri, si inanimì di sorte, che egli si risolvé del tutto darsi a l'architettura. Laonde, partitosi da Milano, se ne venne a Roma innanzi lo anno santo del MD dove conosciuto da alcuni suoi amici e del paese e lombardi, gli fu dato da dipignere a S. Giovanni Laterano sopra la porta santa che s'apre per il Giubbileo, una arme di papa Alessandro VI lavorata in fresco, con Angeli e figure che la sostengono. Aveva Bramante recato di Lombardia e guadagnati in Roma a fare alcune cose certi danari; i quali con una masserizia grandissima spendeva, desideroso poter vivere del suo et insieme, senza aver a lavorare, potere agiatamente misurare tutte le fabriche antiche di Roma. E messovi mano, solitario e cogitativo se n'andava; e fra non molto spazio di tempo misurò quanti edifizii erano in quella città e fuori per la campagna, e parimente fece fino a Napoli, e dovunque e' sapeva che fossero cose antiche; misurò ciò che era a Tiboli et alla villa Adriana, e come si dirà poi al suo luogo, se ne servì assai. E scoperto in questo modo l'animo di Bramante, il cardinale di Napoli datoli d'occhio prese a favorirlo. Donde Bramante seguitando lo studio, essendo venuto voglia al cardinale detto di far rifare a' frati della Pace il chiostro, di trevertino, ebbe il carico di questo chiostro. Per il che desiderando di acquistare e di gratuirsi molto quel cardinale, si messe a l'opera con ogni industria e diligenzia, e prestamente e perfettamente la condusse al fine. Et ancora che egli non fusse di tutta bellezza, gli diede grandissimo nome per non essere in Roma molti che attendessino alla architettura con tanto amore, studio e prestezza, quanto Bramante.
Servì Bramante, ne' suoi principii, per sotto architettore di papa Alessandro VI alla fonte di Trastevere e parimente a quella che si fece in sulla piazza di S. Pietro; trovossi ancora, essendo cresciuto in reputazione, con altri eccellenti architettori, alla resoluzione di gran parte del palazzo di S. Giorgio e della chiesa di S. Lorenzo in Damaso fatto fare da Raffaello Riario cardinale di S. Giorgio vicino a Campo di Fiore; che quantunque si sia poi fatto meglio, fu non di meno, et è ancora per la grandezza sua, tenuta comoda e magnifica abitazione, e di questa fabbrica fu esecutore uno Antonio Montecavallo. Trovossi al consiglio dello accrescimento di San Iacopo degli Spagnuoli in Navona e parimente alla deliberazione di Santa Maria de Anima, fatta condurre poi da uno architetto todesco. Fu suo disegno ancora il palazzo del cardinale Adriano da Corneto, in Borgo Nuovo, che si fabricò adagio, e poi finalmente rimase imperfetto per la fuga di detto cardinale; e parimente l'accrescimento della cappella maggiore di Santa Maria del Populo fu suo disegno, le quali opere gli acquistarono in Roma tanto credito che era stimato il primo architettore per essere egli risoluto, presto e bonissimo inventore che da tutta quella città fu del continuo ne' magior bisogni da tutti e' grandi adoperato; per il che creato papa Iulio II l'anno 1503, cominciò a servirlo.
Era entrato in fantasia a quel Pontefice di acconciare quello spazio che era fra belvedere e 'l palazzo ch'egli avessi forma di teatro quadro abbracciando una valletta che era in mezzo al palazzo papale vecchio, e la muraglia che aveva per abitazione del papa fatta di nuovo Innocenzio VIII; e che da dua corridori che mettessino in mezzo questa valletta, si potessi venire di belvedere in palazzo per logge, e così di palazzo per quelle andare in belvedere, e che della valle per ordine di scale in diversi modi si potesse salire sul piano di belvedere; per il che Bramante, che aveva grandissimo giudizio et ingegno capriccioso in tal cose, spartì nel più basso con duoi ordini d'altezze prima una loggia dorica bellissima, simile al Coliseo de' Savegli, ma in cambio di mezze colonne misse pilastri, e tutta di tivertini la murò; e sopra questa uno secondo ordine ionico sodo di finestre, tanto che e' venne al piano delle prime stanze del palazzo papale et al piano di quelle di belvedere, per far poi una loggia più di 400 passi dalla banda di verso Roma, e parimente un'altra di verso il bosco, che l'una e l'altra volse che mettessino in mezzo la valle ove spianata che ella era si aveva a condurre tutta l'acqua di belvedere e fare una bellissima fontana; di questo disegno finì Bramante il primo corridore che esce di palazzo e va in belvedere dalla banda di Roma eccetto l'ultima loggia che dovea andar di sopra; ma la parte verso il bosco riscontro a questa si fondò bene, ma non si poté finire intervenendo la morte di Iulio e poi di Bramante; fu tenuta tanto bella invenzione, che si credette che dagli antichi in qua Roma non avessi veduto meglio. Ma come...
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