LE VITE DE' PIU' ECCELLENTI PITTORI, SCULTORI, E ARCHITETTORI, di Giorgio Vasari - pagina 13
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Ciò fatto, si va dando il fuoco a tale cappa ugualmente per tutto, tal che ella venga unita et a poco a poco a riscaldarsi, rinforzando il fuoco sino a tanto che la forma si infuochi tutta, di maniera che la cera che è nel cavo di dentro venga a struggersi, tale che ella esca tutta per quella banda per la quale si debbe gittare il metallo, senza che ve ne rimanga dentro niente.
Et a conoscere ciò, bisogna, quando i pezzi s'innestano su la figura, pesarli pezzo per pezzo; così poi, nel cavare la cera, ripesarla; e facendo il calo di quella, vede l'artefice se n'è rimasta fra l'anima e la cappa, e quanta n'è uscita.
E sappi che qui consiste la maestria e la diligenza dell'artefice a cavare tal cera; dove si mostra la difficultà di fare i getti, che venghino begli e netti; atteso che, rimanendoci punto di cera, ruinarebbe tutto il getto, massimamente in quelle parti dove essa rimane.
Finito questo, l'artefice sotterra questa forma vicino alla fucina dove il bronzo si fonde, e puntella sì che il bronzo non la sforzi, e li fa le vie che possa buttarsi, et al sommo lascia una quantità di grossezza, che si possa poi segare il bronzo che avanza di questa materia; e questo si fa perché venga più netta.
Ordina il metallo che vuole, e per ogni libra di cera ne mette dieci di metallo.
Fassi la lega del metallo statuario di due terzi rame et un terzo ottone, secondo l'ordine italiano.
Gli Egizi, da' quali quest'arte ebbe origine, mettevano nel bronzo i due terzi ottone e un terzo rame.
Del metallo elletro, che è degl'altri più fine, si mette due parti rame e la terza argento; nelle campane per ogni cento di rame XX di stagno - et a l'artiglierie per ogni cento di rame dieci di stagno -, acciò che il suono di quelle sia più squillante et unito.
Restaci ora ad insegnare, che venendo la figura con mancamento, perché fosse il bronzo cotto o sottile o mancasse in qualche parte, il modo dell'innestarvi un pezzo.
Et in questo caso lievi l'artefice tutto quanto il tristo che è in quel getto, e facciavi una buca quadra cavandola sotto squadra; di poi le aggiusti un pezzo di metallo attuato a quel pezzo, che venga in fuora quanto gli piace; e commesso appunto in quella buca quadra, col martello tanto lo percuota che lo saldi, e con lime e ferri faccia sì che lo pareggi e finisca in tutto.
Ora, volendo l'artefice gettare di metallo le figure picciole, quelle si fanno di cera o, avendone, di terra o d'altra materia, vi fa sopra il cavo di gesso come alle grandi, e tutto il cavo si empie di cera.
Ma bisogna che il cavo sia bagnato, perché buttandovi detta cera, ella si rappiglia per la freddezza dell'acqua e del cavo.
Di poi, sventolando e diguazzando il cavo, si vòta la cera che è in mezzo del cavo, di maniera che il getto resta vòto nel mezzo; il qual vòto o vano riempie l'artefice poi di terra e vi mette perni di ferro.
Questa terra serve poi per anima, ma bisogna lasciarla seccar bene.
Da poi fa la cappa come all'altre figure grandi, armandola e mettendovi le cannelle per i venti; la cuoce di poi, e ne cava la cera, e così il cavo si resta netto, sì che agevolmente si possono gittare.
Il simile si fa de' bassi e de' mezzi rilievi e d'ogni altra cosa di metallo.
Finiti questi getti, l'artefice di poi con ferri appropriati, cioè bulini, ciappole, strozzi, ceselli, puntelli, scarpelli, e lime lieva dove bisogna; e dove bisogna spigne all'indietro e rinetta le bave, e con altri ferri che radono raschia e pulisce il tutto con diligenza, et ultimamente con la pomice gli dà il pulimento.
Questo bronzo piglia col tempo per se medesimo un colore che trae in nero, e non in rosso come quando si lavora.
Alcuni con olio lo fanno venire nero, altri con l'aceto lo fanno verde, et altri con la vernice li danno il colore di nero, tale che ognuno lo conduce come più gli piace.
Ma quello che veramente è cosa maravigliosa, è venuto a' tempi nostri questo modo di gettar le figure, così grandi come picciole, in tanta eccellenza, che molti maestri le fanno venire nel getto in modo pulite, che non si hanno a rinettare con ferri, e tanto sottili quanto è una costola di coltello.
E, quello che è più, alcune terre e ceneri che a ciò s'adoperano, sono venute in tanta finezza, che si gettano d'argento e d'oro le ciocche della ruta, e ogni altra sottile erba o fiore agevolmente e tanto bene, che così belli riescono come il naturale.
Nel che si vede questa arte essere in maggior eccellenza che non era al tempo degli antichi.
Cap.
XII.
De' conii d'acciaio per fare le medaglie di bronzo o d'altri metalli, e come elle si fanno di essi metalli, di pietre orientali e di cammei.
Volendo fare le medaglie di bronzo, d'argento o d'oro come già le fecero gli antichi, debbe l'artefice primieramente con punzoni di ferro intagliare di rilievo i punzoni nell'acciaio indolcito a fuoco, a pezzo per pezzo, come per esemplo la testa sola di rilievo ammaccato in un punzone solo d'acciaio, e così l'altre parti che si commettono a quella; fabbricati così d'acciaio tutti i punzoni che bisognano per la medaglia, si temprano col fuoco, et in sul conio dell'acciaio stemperato, che debbe servire per cavo e per madre della medaglia, si va improntando a colpi di martello e la testa e l'altre parti a' luoghi loro.
E dopo l'avere improntato il tutto, si va diligentemente rinettando e ripulendo e dando fine e perfezione al predetto cavo, che ha poi a servire per madre.
Hanno tuttavolta usato molti artefici d'incavare con le ruote le dette madri in quel modo che si lavorano d'incavo i cristalli, i diaspri, i calcidonii, le agate, gli ametisti, i sardonii, i lapislazuli, i crisoliti, le corniuole, i cammei, e l'altre pietre orientali; et il così fatto lavoro fa le madri più pulite, come ancora le pietre predette.
Nel medesimo modo si fa il rovescio della medaglia; e con la madre della testa e con quella del rovescio si stampano medaglie di cera o di piombo, le quali si formano di poi con sottilissima polvere di terra atta a ciò; nelle quali forme, cavatane prima la cera o il piombo predetto, serrate dentro a le staffe, si getta quello stesso metallo che ti aggrada per la medaglia.
Questi getti si rimettono nelle loro madri d'acciaio, e per forza di viti o di lieve et a colpi di martello si stringono talmente, che elle pigliano quella pelle dalla stampa che elle non hanno presa dal getto.
Ma le monete e l'altre medaglie più basse si improntano senza viti, a colpi di martello con mano; e quelle pietre orientali che noi dicemmo di sopra, si intagliano di cavo con le ruote per forza di smeriglio, che con la ruota consuma ogni sorte di durezza di qualunque pietra si sia.
E l'artefice va spesso improntando con cera quel cavo che e' lavora, et in questo modo va levando dove più giudica di bisogno, e dando fine alla opera.
Ma i cammei si lavorano di rilievo, perché essendo questa pietra faldata, cioè bianca sopra e sotto nera, si va levando del bianco tanto, che o testa o figura resti di basso rilievo bianca nel campo nero.
Et alcuna volta, per accomodarsi che tutta la testa o figura venga bianca in sul campo nero, si usa di tignere il campo, quando e' non è tanto scuro quanto bisogna.
E di questa professione abbiamo viste opere mirabili e divinissime antiche e moderne.
Cap.
XIII.
Come di stucco si conducono i lavori bianchi, e del modo del fare la forma di sotto murata, e come si lavorano.
Solevano gl'antichi, nel volere fare volte o incrostature o porte o finestre o altri ornamenti di stucchi bianchi, fare l'ossa di sotto di muraglia, che sia o di mattoni cotti o vero di tufi, cioè sassi che siano dolci e si possino tagliare con facilità; e di questi murando, facevano l'ossa di sotto, dandoli o forma di cornice o di figure o di quello che fare volevano, tagliando de' mattoni o delle pietre, le quali hanno a essere murate con la calce.
Poi con lo stucco che nel capitolo IIII dicemmo impastato di marmo pesto e di calce di trevertino, debbano fare sopra l'ossa predette la prima bozza di stucco ruvido, cioè grosso e granelloso, acciò vi si possi mettere sopra il più sottile, quando quel di sotto ha fatto la presa, e che sia fermo, ma non secco affatto.
Perché lavorando la massa della materia in su quel che è umido, fa maggior presa, bagnando di continuo dove lo stucco si mette, acciò si renda più facile a lavorarlo.
E volendo fare cornici o fogliami intagliati, bisogna avere forme di legno, intagliate nel cavo di quegli stessi intagli che tu vuoi fare.
E si piglia lo stucco che sia non sodo sodo, né tenero tenero, ma di una maniera tegnente; e si mette su l'opra alla quantità della cosa che si vuol formare, e vi si mette sopra la predetta forma intagliata, impolverata di polvere di marmo; e picchiandovi su con un martello, che il colpo sia uguale, resta lo stucco improntato: il quale si va rinettando e pulendo poi, acciò venga il lavoro diritto et uguale.
Ma volendo che l'opera abbia maggior rilievo allo infuori, si conficcano, dove ell'ha da essere, ferramenti o chiodi o altre armadure simili che tenghino sospeso in aria lo stucco, che fa con esse presa grandissima: come negli edificii antichi si vede, ne' quali si truovano ancora gli stucchi et i ferri conservati sino al dì d'oggi.
Quando vuole, adunque, l'artefice condurre in muro piano un'istoria di basso rilievo, conficca prima in quel muro i chiovi spessi, dove meno e dove più in fuori, secondo che hanno a stare le figure, e tra quegli serra pezzami piccoli di mattoni o di tufi, a cagione che le punte o capi di quegli tenghino il primo stucco grosso e bozzato; et appresso lo va finendo con pulitezza e con pacienza, che e' si rassodi.
E mentre che egli indurisce, l'artefice lo va diligentemente lavorando e ripulendolo di continovo co' pennelli bagnati, di maniera che e' lo conduce a perfezzione come se e' fusse di cera o di terra.
Con questa maniera medesima di chiovi e di ferramenti fatti a posta, e maggiori e minori secondo il bisogno, si adornano di stucchi le volte, gli spartimenti e le fabbriche vecchie, come si vede costumarsi oggi per tutta Italia da molti maestri che si son dati a questo esercizio.
Né si debbe dubitare di lavoro così fatto come di cosa poco durabile, perché e' si conserva infinitamente, et indurisce tanto nello star fatto, che e' diventa col tempo come marmo.
Cap.
XIIII.
Come si conducono le figure di legno, e che legno sia buono a farle.
Chi vuole che le figure del legno si possino condurre a perfezzione, bisogna che e' ne faccia prima il modello di cera o di terra, come dicemmo.
Questa sorte di figure si è usata molto nella cristiana religione, atteso che infiniti maestri hanno fatto molti crocifissi e diverse altre cose.
Ma invero non si dà mai al legno quella carnosità o morbidezza, che al metallo et al marmo et all'altre sculture che noi veggiamo, e di stucchi o di cera o di terra.
Il migliore, nientedimanco, tra tutti i legni che si adoperano alla scultura, è il tiglio, perché egli ha i pori uguali per ogni lato, et ubbidisce più agevolmente alla lima et allo scarpello.
Ma perché l'artefice, essendo grande la figura che e' vuole, non può fare il tutto d'un pezzo solo, bisogna ch'egli lo commetta di pezzi, e l'alzi et ingrossi secondo la forma che e' lo vuol fare.
E per appiccarlo insieme in modo che e' tenga, non tolga mastrice di cacio, perché non terrebbe, ma colla di spicchi, con la quale, strutta, scaldati i predetti pezzi al fuoco, gli commetta e gli serri insieme, non con chiovi di ferro, ma del medesimo legno.
Il che fatto, lo lavori et intagli secondo la forma del suo modello.
E degli artefici di così fatto mestiero si sono vedute ancora opere di bossolo lodatissime et ornamenti di noce bellissimi, i quali quando sono di bel noce, che sia nero, appariscono quasi di bronzo.
Et ancora abbiamo veduto intagli in noccioli di frutte, come di cirege e meliache, di mano di tedeschi molto eccellenti, lavorati con una pacienza e sottigliezza grandissima.
E sebbene e' non hanno gli stranieri quel perfetto disegno che nelle cose loro dimostrano gl'italiani, hanno nientedimeno operato et operano continovamente in guisa, che riducono le cose a tanta sottigliezza, che elle fanno stupire il mondo; come si può vedere in un'opera, o per meglio dire, in un miracolo di legno di mano di maestro Ianni franzese, il quale abitando nella città di Firenze, - la quale egli si aveva eletta per patria -, prese in modo nelle cose del disegno, del quale gli dilettò sempre, la maniera italiana, che con la pratica che aveva nel lavorar il legno fece di tiglio una figura d'un S.
Rocco grande quanto il naturale, e condusse con sottilissimo intaglio tanto morbidi e traforati i panni che la vestono et in modo cartosi, e con bello andar l'ordine delle pieghe, che non si può veder cosa più maravigliosa.
Similmente condusse la testa, la barba, le mani, e le gambe di quel Santo con tanta perfezzione, che ella ha meritato e meriterà sempre lode infinita da tutti gli uomini; e, che è più, acciò si veggia in tutte le sue parti l'eccellenza dell'artefice, è stata conservata insino a oggi questa figura nella Nunziata di Firenze sotto il pergamo, senza alcuna coperta di colori o di pitture, nello stesso color del legname, e con la sola pulitezza, e perfezzione che maestro Ianni le diede, bellissima sopra tutte l'altre che si veggia intagliata in legno.
E questo basti brevemente aver detto delle cose della scultura.
Passiamo ora alla pittura.
DELLA PITTURA
Cap.
XV.
Che cosa sia disegno, e come si fanno e si conoscono le buone pitture, et a che; e dell'invenzione delle storie.
Perché il disegno, padre delle tre arti nostre, architettura, scultura e pittura, procedendo dall'intelletto, cava di molte cose un giudizio universale, simile a una forma o vero idea di tutte le cose della natura, la quale è singolarissima nelle sue misure, di qui è che non solo nei corpi umani e degl'animali, ma nelle piante ancora, e nelle fabriche e sculture e pitture cognosce la proporzione che ha il tutto con le parti, e che hanno le parti fra loro e col tutto insieme.
E perché da questa cognizione nasce un certo concetto e giudizio che si forma nella mente quella tal cosa, che poi espressa con le mani si chiama disegno, si può conchiudere che esso disegno altro non sia che una apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell'animo, e di quello che altri si è nella mente imaginato e fabricato nell'idea.
E da questo per avventura nacque il proverbio de' Greci "Dell'ugna un leone", quando quel valente uomo vedendo scolpita in un masso l'ugna sola d'un leone, comprese con l'intelletto da quella misura e forma le parti di tutto l'animale, e dopo il tutto insieme, come se l'avesse avuto presente e dinanzi agl'occhi.
Credono alcuni che il padre del disegno e dell'arti fusse il caso, e che l'uso e la sperienza, come balia e pedagogo, lo nutrissero con l'aiuto della cognizione e del discorso; ma io credo che con più verità si possa dire il caso aver più tosto dato occasione, che potersi chiamar padre del disegno.
Ma sia come si voglia, questo disegno ha bisogno, quando cava l'invenzione d'una qualche cosa dal giudizio, che la mano sia, mediante lo studio et essercizio di molti anni, spedita et atta a disegnare et esprimere bene qualunche cosa ha la natura creato, con penna, con stile, con carbone, con matita o con altra cosa; perché quando l'intelletto manda fuori i concetti purgati e con giudizio, fanno quelle mani, che hanno molti anni essercitato il disegno, conoscere la perfezione et eccellenza dell'arti, et il sapere dell'artefice insieme.
E perché alcuni scultori talvolta non hanno molta pratica nelle linee e ne' dintorni, onde non possono disegnare in carta, eglino in quel cambio con bella proporzione e misura facendo con terra o cera uomini, animali, et altre cose di rilievo, fanno il medesimo che fa colui il quale perfettamente disegna in carta o in su altri piani.
Hanno gli uomini di queste arti chiamato o vero distinto il disegno in varii modi, e secondo le qualità de' disegni che si fanno.
Quelli che sono tocchi leggermente et apena accennati con la penna o altro si chiamano schizzi, come si dirà in altro luogo.
Quegli, poi, che hanno le prime linee intorno intorno sono chiamati profili, dintorni, o lineamenti.
E tutti questi o profili o altrimenti che vogliam chiamarli servono così all'architettura e scultura come alla pittura, ma all'architettura massimamente; perciò che i disegni di quella non sono composti se non di linee, il che non è altro quanto all'architettore, ch'il principio e la fine di quell'arte, perché il restante, mediante i modelli di legname tratti dalle dette linee, non è altro che opera di scarpellini e muratori.
Ma nella scultura serve il disegno di tutti i contorni, perché a veduta per veduta se ne serve lo scultore quando vuol disegnare quella parte che gli torna meglio, o che egli intende di fare per ogni verso o nella cera o nella terra o nel marmo o nel legno o altra materia.
Nella pittura servono i lineamenti in più modi, ma particolarmente a dintornare ogni figura, perché quando eglino sono ben disegnati e fatti giusti, et a proporzione, l'ombre, che poi vi si aggiungono, et i lumi sono cagione che i lineamenti della figura che si fa, ha grandissimo rilievo, e riesce di tutta bontà e perfezzione.
E di qui nasce, che chiunque intende e maneggia bene queste linee sarà in ciascuna di queste arti, mediante la pratica et il giudizio, eccellentissimo.
Chi dunque vuole bene imparare a esprimere disegnando i concetti dell'animo e qualsivoglia cosa, fa di bisogno, poi che averà alquanto assuefatta la mano, che per divenir più intelligente nell'arti si eserciti in ritrarre figure di rilievo o di marmo, o di sasso, o vero di quelle di gesso formate sul vivo, o vero sopra qualche bella statua antica, o sì veramente rilievi di modelli fatti di terra o nudi o con cenci interrati addosso, che servono per panni e vestimenti; perciò che tutte queste cose essendo immobili e senza sentimento, fanno grande agevolezza stando ferme a colui che disegna, il che non avviene nelle cose vive, ché si muovono.
Quando poi averà in disegnando simili cose fatto buona pratica et assicurata la mano, cominci a ritrarre cose naturali, et in esse faccia con ogni possibile opera e diligenza una buona e sicura pratica; perciò che le cose che vengono dal naturale sono veramente quelle che fanno onore a chi si è in quelle affaticato, avendo in sé, oltre a una certa grazia e vivezza, di quel semplice, facile, e dolce che è proprio della natura, e che dalle cose sue s'impara perfettamente, e non dalle cose dell'arte abbastanza già mai.
E tengasi per fermo, che la pratica che si fa con lo studio di molti anni in disegnando, come si è detto di sopra, è il vero lume del disegno, e quello che fa gli uomini eccellentissimi.
Ora avendo di ciò ragionato a bastanza, seguita che noi veggiamo che cosa sia la pittura.
Ell'è dunque un piano coperto di campi di colori in superficie o di tavola o di muro o di tela, intorno a' lineamenti detti di sopra, i quali per virtù di un buon disegno di linee girate circondano la figura.
Questo sì fatto piano, dal pittore con retto giudizio mantenuto nel mezzo chiaro e negli estremi e ne' fondi scuro, et accompagnato tra questi e quello da colore mezzano fra il chiaro e lo scuro, fa che, unendosi insieme questi tre campi, tutto quello che è tra l'uno lineamento e l'altro si rilieva et apparisce tondo e spiccato, come s'è detto.
Bene è vero che questi tre campi non possono bastare ad ogni cosa minutamente, atteso che egli è necessario dividere qualunche di loro almeno in due spezie, faccendo in quel chiaro due mezzi, e di quello scuro due più chiari, e di quel mezzo due altri mezzi che pendino l'uno nel più chiaro e l'altro nel più scuro.
Quando queste tinte d'un color solo, qualunche egli si sia, saranno stemperate, si vedrà a poco a poco cominciare il chiaro, e poi meno chiaro, e poi un poco più scuro, di maniera ch'a poco a poco troverremo il nero schietto.
Fatte dunque le mestiche, cioè mescolati insieme questi colori, volendo lavorare o a olio o a tempera o in fresco, si va coprendo il lineamento, e mettendo a' suoi luoghi i chiari e gli scuri et i mezzi e gli abbagliati de' mezzi e de' lumi, che sono quelle tinte mescolate de' tre primi, chiaro, mezzano e scuro, i quali chiari e mezzani e scuri et abbagliati si cavano dal cartone o vero altro disegno che per tal cosa è fatto per porlo in opra; il qual'è necessario che sia condotto con buona collocazione e disegno fondato, e con giudizio et invenzione, atteso che la collocazione non è altro nella pittura, che avere spartito in quel loco dove si fa una figura, che gli spazii siano concordi al giudizio dell'occhio, e non siano disformi; che il campo sia in un luogo pieno e nell'altro vòto: la qual cosa nasca dal disegno, e dall'avere ritratto o figure di naturale vive o da' modelli di figure fatte per quello che si voglia fare.
Il qual disegno non può avere buon'origine, se non s'ha dato continuamente opera a ritrarre cose naturali, e studiato pitture d'eccellenti maestri, e di statue antiche di rilievo, come s'è tante volte detto.
Ma sopra tutto il meglio è gl'ignudi degli uomini vivi e femine, e da quelli avere preso in memoria per lo continovo uso i muscoli del torso, delle schiene, delle gambe, delle braccia, delle ginocchia e l'ossa di sotto, e poi avere sicurtà per lo molto studio, che senza avere i naturali inanzi si possa formare di fantasia, da sé, attitudini per ogni verso; così aver veduto degli uomini scorticati, per sapere come stanno l'ossa sotto et i muscoli et i nervi con tutti gli ordini e' termini della notomia, per potere con maggior sicurtà, e più rettamente situare le membra nell'uomo, e porre i muscoli nelle figure.
E coloro che ciò sanno, forza è che faccino perfettamente i contorni delle figure; le quali, dintornate come elle debbono, mostrano buona grazia e bella maniera.
Perché chi studia le pitture e sculture buone, fatte con simil modo, vedendo et intendendo il vivo, è necessario che abbi fatto buona maniera nell'arte.
E da ciò nasce l'invenzione, la quale fa mettere insieme in istoria le figure a quattro, a sei, a dieci, a venti, talmente che si viene a formare le battaglie e l'altre cose grandi dell'arte.
Questa invenzione vuol in sé una convenevolezza formata di concordanza e d'obedienza: ché, s'una figura si muove per salutare un'altra, non si faccia la salutata voltarsi indietro, avendo a rispondere; e con questa similitudine tutto il resto.
La istoria sia piena di cose variate e differenti l'una da l'altra, ma a proposito sempre di quello che si fa, e che di mano in mano figura lo artefice, il quale debbe distinguere i gesti e l'attitudini, facendo le femmine con aria dolce e bella, e similmente i giovani; ma i vecchi gravi sempre d'aspetto, et i sacerdoti massimamente, e le persone di autorità; avvertendo però sempremai che ogni cosa corrisponda ad un tutto dell'opera, di maniera che quando la pittura si guarda, vi si conosca una concordanza unita, che dia terrore nelle furie e dolcezza negli effetti piacevoli, e rappresenti in un tratto la intenzione del pittore, e non le cose che e' non pensava.
Conviene adunque per questo che e' formi le figure che hanno ad essere fiere con movenzia e con gagliardia, e sfugga quelle che sono lontane dalle prime con l'ombre e con i colori appoco appoco dolcemente oscuri: di maniera che l'arte sia accompagnata sempre con una grazia di facilità e di pulita leggiadria di colori, e condotta l'opera a perfezzione, non con uno stento di passione crudele, che gl'uomini che ciò guardano abbino a patire pena della passione che in tal'opera veggono sopportata dallo artefice, ma da ralegrarsi della felicità che la sua mano abbia avuto dal cielo quella agilità, che renda le cose finite con istudio e fatica sì, ma non con istento; tanto che, dove elle sono poste, non siano morte, ma si appresentino vive e vere a chi le considera.
Guardinsi da le crudezze, e cerchino che le cose che di continuo fanno, non paiono dipinte, ma si dimostrino vive e di rilievo fuor della opera loro.
E questo è il vero disegno fondato e la vera invenzione, che si conosce esser data da chi le ha fatte alle pitture che si conoscono e giudicano come buone.
Cap.
XVI.
Degli schizzi, disegni, cartoni et ordine di prospettive: e per quel che si fanno, et a quello che i pittori se ne servono.
Gli schizzi, de' quali si è favellato di sopra, chiamiamo noi una prima sorte di disegni che si fanno per trovar il modo delle attitudini, et il primo componimento dell'opra, e sono fatti in forma di una macchia e accennati solamente da noi in una sola bozza del tutto; e perché dal furor dello artefice sono in poco tempo con penna o con altro disegnatoio o carbone espressi solo per tentare l'animo di quel che gli sovviene, perciò si chiamano schizzi.
Da questi dunque vengono poi rilevati in buona forma i disegni, nel far de' quali con tutta quella diligenza che si può, si cerca vedere dal vivo se già l'artefice non si sentisse gagliardo in modo che da sé li potesse condurre.
Appresso, misuratili con le seste o a occhio, si ringrandiscono dalle misure piccole nelle maggiori, secondo l'opera che si ha da fare.
Questi si fanno con varie cose, cioè o con lapis rosso che è una pietra la qual viene da' monti di Alamagna, che, per esser tenera, agevolmente si sega e riduce in punte sottili da segnare con esse in sui fogli come tu vuoi; o con la pietra nera che viene da' monti di Francia, la qual'è similmente come la rossa; altri di chiaro e scuro si conducono su fogli tinti, che fanno un mezzo, e la penna fa il lineamento, cioè il dintorno o profilo, e l'inchiostro poi con un poco d'acqua fa una tinta dolce che lo vela et ombra; di poi con un pennello sottile intinto nella biacca stemperata con la gomma si lumeggia il disegno; e questo modo è molto alla pittoresca e mostra più l'ordine del colorito.
Molti altri fanno con la penna sola, lasciando i lumi della carta; che è difficile, ma molto maestrevole; et infiniti altri modi ancora si costumano nel disegnare, de' quali non accade fare menzione, perché tutti rappresentano una cosa medesima, cioè il disegnare.
Fatti così i dissegni, chi vuole lavorar in fresco, cioè in muro, è necessario che faccia i cartoni, ancora ch'e' si costumi per molti di fargli per lavorar anco in tavola.
Questi cartoni si fanno così: impastansi fogli con colla di farina e acqua cotta al fuoco; fogli, dico, che siano squadrati, e si tirano al muro con l'incollarli attorno due dita verso il muro con la medesima pasta.
E si bagnano spruzzandovi dentro per tutto acqua fresca, e così molli si tirano, acciò nel seccarsi vengano a distendere il molle delle grinze.
Da poi quando sono secchi si vanno, con una canna lunga che abbia in cima un carbone, riportando sul cartone per giudicar da discosto tutto quello che nel disegno piccolo è disegnato con pari grandezza; e così a poco a poco quando a una figura, e quando all'altra dànno fine.
Qui fanno i pittori tutte le fatiche dell'arte, del ritrarre dal vivo ignudi e panni di naturale, e tirano le prospettive con tutti quelli ordini che piccoli si sono fatti in su' fogli, ringrandendoli a proporzione.
E se in quegli fussero prospettive o casamenti, si ringrandiscono con la rete; la qual'è una graticola di quadri piccoli ringrandita nel cartone, che riporta giustamente ogni cosa.
Perché chi ha tirate le prospettive ne' disegni piccoli, cavate di su la pianta, alzate col profilo e con la intersecazione e col punto fatte diminuire e sfuggire, bisogna che le riporti proporzionate in sul cartone.
Ma del modo del tirarle, perché ella è cosa fastidiosa e difficile a darsi ad intendere, non voglio io parlare altrimenti.
Basta, che le prospettive son belle tanto, quanto elle si mostrano giuste alla loro veduta, e sfuggendo si allontanano dall'occhio, e quando elle sono composte con variato e bello ordine di casamenti.
Bisogna poi che 'l pittore abbia risguardo a farle con proporzione sminuire con la dolcezza de' colori, la qual'è nell'artefice una retta discrezione et un giudicio buono; la causa del quale si mostra nella difficultà delle tante linee confuse colte dalla pianta, dal profilo, et intersecazione, che ricoperte dal colore restano una facillissima cosa, la qual fa tenere l'artefice dotto, intendente et ingegnoso nell'arte.
Usano ancora molti maestri, innanzi che faccino la storia nel cartone, fare un modello di terra in su un piano, con situar tonde tutte le figure per vedere gli sbattimenti, cioè l'ombre che da un lume si causano addosso alle figure, che sono quell'ombra tolta dal sole il quale, più crudamente che il lume, le fa in terra, nel piano, per l'ombra della figura.
E di qui ritraendo il tutto della opra, hanno fatto l'ombre che percuotono adosso all'una e l'altra figura: onde ne vengono i cartoni e l'opera, per queste fatiche, di perfezzione e di forza più finiti, e da la carta si spiccano per il rilievo; il che dimostra il tutto più bello e maggiormente finito.
E quando questi cartoni al fresco o al muro s'adoprano, ogni giorno nella commettitura se ne taglia un pezzo, e si calca sul muro, che sia incalcinato di fresco e pulito eccellentemente.
Questo pezzo del cartone si mette in quel luogo dove s'ha a fare la figura, e si contrassegna; perché l'altro dì che si voglia rimettere un altro pezzo, si riconosca il suo luogo a punto e non possa nascere errore.
Appresso per i dintorni del pezzo detto, con un ferro si va calcando in su l'intonaco della calcina; la quale, per essere fresca, acconsente alla carta, e così ne rimane segnata.
Per il che si lieva via il cartone, e per que' segni che nel muro sono calcati si va con i colori lavorando, e così si conduce il lavoro in fresco o in muro.
Alle tavole et alle tele si fa il medesimo calcato, ma il cartone d'un pezzo, salvo che bisogna tingere di dietro il cartone con carboni o polvere nera, acciò che segnando poi col ferro, egli venga profilato e disegnato nella tela o tavola.
E per questa cagione i cartoni si fanno per compartire, che l'opra venga giusta e misurata.
Assai pittori sono che per l'opre a olio sfuggono ciò, ma per il lavoro in fresco non si può sfuggire che non si faccia.
Ma certo chi trovò tal'invenzione ebbe buona fantasia, atteso che ne' cartoni si vede il giudizio di tutta l'opra insieme, e si acconcia e guasta, finché stiano bene, il che nell'opra poi non può farsi.
Cap.
XVII.
De li scorti delle figure al di sotto in su, e di quelli in piano.
Hanno avuto gli artefici nostri una grandissima avvertenza nel fare scortare le figure, cioè nel farle apparire di più quantità che elle non sono veramente, essendo lo scorto a noi una cosa disegnata in faccia corta, che all'occhio venendo innanzi non ha la lunghezza o l'altezza che ella dimostra.
Tuttavia la grossezza, i dintorni, l'ombre et i lumi fanno parere che ella venga innanzi; e per questo si chiama scorto.
Di questa specie non fu mai pittore o disegnatore che facesse meglio, che s'abbia fatto il nostro Michelangelo Buonarroti: et ancora nessuno meglio gli poteva fare, avendo egli divinamente fatto le figure di rilievo.
Egli, prima, di terra o di cera ha per questo uso fatti i modelli, e da quegli, ché più del vivo restano fermi, ha cavato i contorni, i lumi e l'ombre.
Questi dànno a chi non intende grandissimo fastidio, perché non arrivano con l'intelletto a la profondità di tale difficultà, la qual'è la più forte a farla bene, che nessuna che sia nella pittura.
E certo i nostri vecchi, come amorevoli dell'arte, trovarono il tirarli per via di linee in prospettiva, il che non si poteva fare prima, e li ridussero tanto inanzi, che oggi s'ha la vera maestria di farli.
E quegli che li biasimano (dico delli artefici nostri) sono quelli che non li sanno fare, e che per alzare se stessi vanno abassando altrui.
Et abbiamo assai maestri pittori i quali ancora che valenti, non si dilettano di fare scorti; e, nientedimeno, quando gli veggono belli e difficili non solo non gli biasimano, ma gli lodano sommamente.
Di questa specie ne hanno fatto i moderni alcuni che sono a proposito e difficili, come sarebbe a dir, in una volta, le figure che guardando in su, scortano e sfuggono, e questi chiamiamo al di sotto in su, ch'hanno tanta forza ch'eglino bucano le volte.
E questi non si possono fare se non si ritraggono dal vivo, o con modelli in altezze convenienti non si fanno fare loro le attitudini e le movenzie di tali cose.
E certo in questo genere si recano in quella difficultà una somma grazia e molta bellezza, e mostrasi una terribilissima arte.
Di questa specie troverrete che gli artefici nostri nelle vite loro hanno dato grandissimo rilievo a tali opere e condottele a una perfetta fine, onde hanno conseguito lode grandissima.
Chiamansi scorti di sotto in su, perché il figurato è alto e guardato dall'occhio per veduta in su, e non per la linea piana dell'orizzonte.
Laonde, alzandosi la testa a volere vederlo, e scorgendosi prima le piante de' piedi e l'altre parti di sotto, giustamente si chiama col detto nome.
Cap.
XVIII.
Come si debbino unire i colori a olio, a fresco o a tempera, e come le carni, i panni e tutto quello che si dipigne venga nell'opera a unire in modo, che le figure non venghino divise, et abbino rilievo e forza, e mostrino l'opera chiara et aperta.
L'unione nella pittura è una discordanza di colori diversi accordati insieme; i quali, nella diversità di più divise mostrano differentemente distinte l'una dall'altra le parti delle figure; come le carni dai capelli, et un panno diverso di colore da l'altro.
Quando questi colori son messi in opera accesamente e vivi con una discordanza spiacevole, talché siano tinti e carichi di corpo sì come usavano di fare già alcuni pittori, il disegno ne viene ad essere offeso di maniera che le figure restano più presto dipinte dal colore, che dal pennello che le lumeggia e adombra, fatte apparire di rilievo e naturali.
Tutte le pitture, adunque, o a olio o a fresco o a tempera si debbon fare talmente unite ne' loro colori, che quelle figure che nelle storie sono le principali venghino condotte chiare chiare, mettendo i panni di colore non tanto scuro addosso a quelle dinanzi, ché quelle che vanno dopo gli abbino più chiari che le prime; anzi, a poco a poco, tanto quanto elle vanno diminuendo a lo indentro, divenghino anco parimente, di mano in mano, e nel colore delle carnagioni e nelle vestimenta, più scure.
E principalmente si abbia grandissima avvertenza di mettere sempre i colori più vaghi, più dilettevoli e più belli nelle figure principali et in quelle massimamente che nella istoria vengono intere e non mezze, perché queste sono sempre le più considerate, e quelle che sono più vedute che l'altre, le quali servono quasi per campo nel colorito di queste; et un colore più smorto fa parere più vivo l'altro che gli è posto accanto, et i colori maninconici e pallidi fanno parere più allegri quelli che li sono accanto, e quasi d'una certa bellezza fiameggianti.
Né si debbono vestire gli ignudi di colori tanto carichi di corpo, che dividino le carni da' panni, quando detti panni atraversassino detti ignudi; ma i colori de' lumi di detti panni siano chiari, simili alle carni, o gialletti o rossigni o violati o pagonazzi, con cangiare i fondi scuretti o verdi o azzurri o pagonazzi o gialli, purché tragghino a lo oscuro, e che unitamente si accompagnino nel girare delle figure con le lor ombre, in quel medesimo modo che noi veggiamo nel vivo; ché quelle parti che ci si apresentano più vicine all'occhio, più hanno di lume, e l'altre, perdendo di vista, perdono ancora del lume e del colore.
Così nella pittura si debbono adoperare i colori con tanta unione, che e' non si lasci uno scuro et un chiaro sì spiacevolmente ombrato e lumeggiato, che e' si faccia una discordanza et una disunione spiacevole, salvo che negli sbattimenti, che sono quell'ombre che fanno le figure adosso l'una all'altra, quando un lume solo percuote adosso a una prima figura, che viene ad ombrare col suo sbattimento la seconda.
E questi ancora, quando accaggiono, voglion esser dipinti con dolcezza et unitamente, perché chi gli disordina viene a fare che quella pittura par più presto un tappeto colorito o un paro di carte da giocare, che carne unita o panni morbidi o altre cose piumose, delicate e dolci.
Che sì come gli orecchi restano offesi da una musica che fa strepito o dissonanza o durezza (salvo però in certi luoghi e a' tempi, sì come io dissi degli sbattimenti), così restano offesi gli occhi da' colori troppo carichi o troppo crudi.
Conciò sia che il troppo acceso offende il disegno, e lo abbacinato, smorto, abbagliato e troppo dolce pare una cosa spenta, vecchia ed affumicata; ma lo unito che tenga in fra lo acceso e lo abbagliato è perfettissimo e diletta l'occhio, come una musica unita et arguta diletta lo orecchio.
Debbonsi perdere negli scuri certe parti delle figure, e nella lontananza della istoria; perché oltre che, se elle fussono nello apparire troppo vive et accese, confonderebbono le figure, elle dànno ancora, restando scure et abbagliate quasi come campo, maggiore forza alle altre che vi sono inanzi.
Né si può credere quanto nel variare le carni con i colori, faccendole a' giovani più fresche che a' vecchi, et ai mezzani tra il cotto et il verdiccio e gialliccio, si dia grazia e bellezza alla opera, e quasi in quello stesso modo che si faccia nel disegno, l'aria delle vecchie accanto alle giovani et alle fanciulle et a' putti; dove veggendosene una tenera e carnosa, l'altra pulita e fresca, fa nel dipinto una discordanza accordatissima.
Et in questo modo si debbe nel lavorare metter gli scuri, dove meno offendino e faccino divisione, per cavare fuori le figure; come si vede nelle pitture di Rafaello da Urbino e di altri pittori eccellenti che hanno tenuto questa maniera.
Ma non si debbe tenere questo ordine nelle istorie dove si contrafacessino lumi di sole e di luna, o vero fuochi o cose notturne; perché queste si fanno con gli sbattimenti crudi e taglienti, come fa il vivo.
E nella sommità dove sì fatto lume percuote, sempre vi sarà dolcezza et unione.
Et in quelle pitture che aranno queste parti, si conoscerà che la intelligenza del pittore arà con la unione del colorito campata la bontà del disegno, dato vaghezza alla pittura, e rilievo e forza terribile alle figure.
Cap.
XIX.
Del dipingere in muro: come si fa e perché si chiama lavorare in fresco.
Di tutti gl'altri modi che i pittori faccino, il dipignere in muro è più maestrevole e bello, perché consiste nel fare in un giorno solo quello che nelli altri modi si può in molti ritoccare sopra il lavorato.
Era dagli antichi molto usato il fresco, et i vecchi moderni ancora l'hanno poi seguitato.
Questo si lavora su la calce che sia fresca, né si lascia mai sino a che sia finito quanto per quel giorno si vuole lavorare.
Perché allungando punto il dipignerla, fa la calce una certa crosterella pel caldo, pel freddo, pel vento e pe' ghiacci, che muffa e macchia tutto il lavoro.
E per questo vuole essere continovamente bagnato il muro che si dipigne, et i colori che vi si adoperano, tutti di terre e non di miniere, et il bianco di trevertino, cotto.
Vuole ancora una mano destra resoluta e veloce, ma sopra tutto un giudizio saldo et intero; perché i colori, mentre che il muro è molle, mostrano una cosa in un modo, che poi secco non è più quella.
E però bisogna che in questi lavori a fresco giuochi molto più nel pittore il giudizio che il disegno, e che egli abbia per guida sua una pratica più che grandissima, essendo sommamente difficile il condurlo a perfezione.
Molti de' nostri artefici vagliono assai negl'altri lavori, cioè a olio o a tempera, et in questo poi non riescono, per essere egli veramente il più virile, più sicuro, più resoluto e durabile di tutti gli altri modi, e quello che, nello stare fatto, di continuo acquista di bellezza e di unione più degl'altri infinitamente.
Questo all'aria si purga, e dall'acqua si difende, e regge di continuo a ogni percossa.
Ma bisogna guardarsi di non avere a ritoccarlo co' colori che abbino colla di carnicci, o rosso d'uovo o gomma o draganti, come fanno molti pittori; perché, oltra che il muro non fa il suo corso di mostrare la chiarezza, vengono i colori apannati da quello ritoccar di sopra, e con poco spazio di tempo diventano neri.
Però quegli che cercano lavorar in muro, lavorino virilmente a fresco, e non ritocchino a secco; perché, oltre l'esser cosa vilissima, rende più corta vita alle pitture, come in altro luogo s'è detto.
Cap.
XX.
Del dipignere a tempera o vero a uovo su le tavole o tele; e come si può usare sul muro che sia secco.
Da Cimabue in dietro, e da lui in qua s'è sempre veduto opre lavorate da' Greci a tempera in tavola et in qualche muro.
Et usavano, nello ingessare delle tavole questi maestri vecchi, dubitando che quelle non si aprissero in su le commettiture, mettere per tutto con la colla di carnicci tela lina, e poi sopra quella ingessavano per lavorarvi sopra, e temperavano i colori da condurle col rosso dell'uovo o tempera, la qual'è questa: toglievano un uovo e quello dibattevano, e dentro vi tritavano un ramo tenero di fico, acciò che quel latte con quell'uovo facesse la tempera de' colori, i quali con essa temperando, lavoravano l'opere loro.
E toglievano per quelle tavole i colori ch'erano di miniere, i quali son fatti parte dagli alchimisti, e parte trovati nelle cave.
Et a questa specie di lavoro ogni colore è buono, salvo ch'il bianco che si lavora in muro fatto di calcina, perch'è troppo forte; così venivano loro condotte con questa maniera le opere e le pitture loro, e questo chiamavono colorire a tempera.
Solo gli azzurri temperavono con colla di carnicci; perché la giallezza dell'uovo gli faceva diventar verdi, ove la colla li mantiene nell'essere loro, e 'l simile fa la gomma.
Tiensi la medesima maniera su le tavole o ingessate o senza, e così su' muri che siano secchi si dà una o due mani di colla calda, e dipoi con colori temperati con quella si conduce tutta l'opera; e chi volesse temperare ancora i colori a colla, agevolmente gli verrà fatto, osservando il medesimo che nella tempera si è raccontato.
Né saranno peggiori per questo; poiché anco de' vecchi maestri nostri si sono vedute le cose a tempera conservate centinaia d'anni con bellezza e freschezza grande.
E certamente e' si vede ancora delle cose di Giotto, che ce n'è pure alcuna in tavola, durata già dugento anni e mantenutasi molto bene.
È poi venuto il lavorar a olio, che ha fatto per molti mettere in bando il modo della tempera, sì come oggi veggiamo che nelle tavole e nelle altre cose d'importanza si è lavorato e si lavora ancora del continovo.
Cap.
XXI.
Del dipingere a olio in tavola e su tele.
Fu una bellissima invenzione et una gran commodità all'arte della pittura il trovare il colorito a olio, di che fu primo inventore in Fiandra Giovanni da Bruggia, il quale mandò la tavola a Napoli al re Alfonso et al duca d'Urbino Federico II la stufa sua; e fece un S.
Gironimo che Lorenzo de' Medici aveva, e molte altre cose lodate.
Lo seguitò poi Rugieri da Bruggia suo discipolo, et Ausse creato di Rugieri, che fece a' Portinari in S.
Maria Nuova di Firenze un quadro picciolo, il qual è oggi apresso al duca Cosimo, et è di sua mano la tavola di Careggi, villa fuori di Firenze della illustrissima casa de' Medici.
Furono similmente de' primi Lodovico da Luano e Pietro Crista, e maestro Martino e Giusto da Guanto, che fece la tavola della comunione del duca d'Urbino et altre pitture, et Ugo d'Anversa, che fe' la tavola di S.
Maria Nuova di Fiorenza.
Questa arte condusse poi in Italia Antonello da Messina che molti anni consumò in Fiandra, e nel tornarsi di qua da' monti, fermatosi ad abitare in Venezia, la insegnò ad alcuni amici.
Uno de' quali fu Domenico Veniziano che la condusse poi in Firenze, quando dipinse a olio la capella de' Portinari in S.
Maria Nuova, dove la imparò Andrea dal Castagno, che la insegnò agli altri maestri, con i quali si andò ampliando l'arte et acquistando sino a Pietro Perugino, a Lionardo da Vinci et a Rafaello da Urbino, talmente che ella s'è ridotta a quella bellezza che gli artefici nostri mercé loro l'hanno acquistata.
Questa maniera di colorire accende più i colori, né altro bisogna che diligenza et amore, perché l'olio in sé si reca il colorito più morbido, più dolce e dilicato e di unione e sfumata maniera più facile che li altri; e mentre che fresco si lavora, i colori si mescolano e si uniscono l'uno con l'altro più facilmente; et insomma gli artefici danno in questo modo bellissima grazia e vivacità e gagliardezza alle figure loro, talmente che spesso ci fanno parere di rilievo le loro figure e che ell'eschino della tavola, e massimamente quando elle sono continovate di buono disegno con invenzione e bella maniera.
Ma per mettere in opera questo lavoro si fa così: quando vogliono cominciare, cioè ingessato che hanno le tavole o' quadri, gli radono, e datovi di dolcissima colla quattro o cinque mani con una spugna, vanno poi macinando i colori con olio di noce o di seme di lino (benché il noce è meglio, perché ingialla meno) e così macinati con questi olii, che è la tempera loro, non bisogna altro, quanto a essi, che distenderli col pennello.
Ma conviene far prima una mestica di colori seccativi, come biacca, giallo-lino, terra da campane, mescolati tutti in un corpo e d'un color solo, e quando la colla è secca, impiastrarla su per la tavola e poi batterla con la palma della mano, tanto ch'ella venga egualmente unita e distesa per tutto, il che molti chiamano l'imprimatura.
Dopo, distesa detta mestica o colore per tutta la tavola, si metta sopra essa il cartone che averai fatto con le figure e invenzioni a tuo modo; e sotto questo cartone se ne metta un altro tinto da un lato di nero, cioè da quella parte che va sopra la mestica; apuntati poi con chiodi piccoli l'uno e l'altro, piglia una punta di ferro o vero d'avorio o legno duro, e va' sopra i profili del cartone segnando sicuramente, perché così facendo non si guasta il cartone, e nella tavola o quadro vengono benissimo proffilate tutte le figure e quello che è nel cartone sopra la tavola.
E chi non volesse far cartone, disegni con gesso da sarti bianco sopra la mestica, o vero con carbone di salcio, perché l'uno e l'altro facilmente si cancella.
E così si vede che seccata questa mestica, lo artefice, o calcando il cartone o con gesso bianco da sarti disegnando, l'abozza; il che alcuni chiamano imporre.
E finita di coprire tutta, ritorna con somma politezza lo artefice da capo a finirla; e qui usa l'arte e la diligenza per condurla a perfezione; e così fanno i maestri in tavola a olio le loro pitture.
Cap.
XXII.
Del pingere a olio nel muro che sia secco.
Quando gli artefici vogliono lavorare a olio in sul muro secco, due maniere possono tenere: una con fare che il muro, se vi è dato su il bianco o a fresco o in altro modo, si raschi, o se egli è restato liscio senza bianco ma intonacato, vi si dia su due o tre mani di olio bollito e cotto, continoando di ridarvelo su, sino a tanto che non voglia più bere; e poi, secco, si gli dà di mestica o imprimatura, come si disse nel capitolo avanti a questo.
Ciò fatto e secco, possono gli artefici calcare o disegnare, e tale opera come la tavola condurre al fine, tenendo mescolato continuo nei colori un poco di vernice, perché facendo questo non accade poi vernicarla.
L'altro modo è che l'artefice di stucco di marmo e di matton pesto finissimo fa un arricciato che sia pulito, e lo rade col taglio della cazzuola, perché il muro ne resti ruvido; appresso gli dà una man d'olio di seme di lino, e poi fa in una pignatta una mistura di pece greca e mastico e vernice grossa, e quella bollita, con un pennel grosso si dà nel muro; poi si distende per quello con una cazzuola da murar che sia di fuoco; questa intasa i buchi dell'arricciato, e fa una pelle più unita per il muro.
E poi ch'è secca, si va dandole d'imprimatura o di mestica, e si lavora nel modo ordinario dell'olio, come abbiamo ragionato.
E perché la sperienza di molti anni mi ha insegnato come si possa lavorar a olio in sul muro, ultimamente ho seguitato nel dipigner le sale, camere et altre stanze del palazzo del duca Cosimo, il modo che in questo ho per l'adietro molte volte tenuto; il qual modo, brevemente, è questo: facciasi l'arricciato, sopra il quale si ha da far l'intonaco di calce, di matton pesto e di rena, e si lasci seccar bene affatto; ciò fatto, la materia del secondo intonaco sia calce, matton pesto stiacciato bene, e schiuma di ferro, perché tutte e tre queste cose, cioè di ciascuna il terzo, incorporate con chiara d'uova battute quanto fa bisogno, et olio di seme di lino, fanno uno stucco tanto serrato, che non si può disiderar in alcun modo migliore.
Ma bisogna bene avvertire di non abbandonare l'intonaco mentre la materia è fresca, perché fenderebbe in molti luoghi; anzi è necessario, a voler che si conservi buono, non se gli levar mai d'intorno con la cazzuola o vero mestola o cucchiara che vogliam dire, insino a che non sia del tutto pulitamente disteso come ha da stare.
Secco poi che sia questo intonaco, e datovi sopra d'imprimatura o mestica, si condurranno le figure e le storie perfettamente, come l'opere del detto palazzo e molte altre possono chiaramente dimostrare a ciascuno.
Cap.
XXIII.
Del dipignere a olio su le tele.
Gli uomini per potere portare le pitture di paese in paese, hanno trovato la comodità delle tele dipinte, come quelle che pesano poco, et avvolte sono agevoli a trasportarsi.
Queste a olio, perch'elle siano arrendevoli, se non hanno a stare ferme non s'ingessano, atteso che il gesso vi crepa su arrotolandole; però si fa una pasta di farina con olio di noce, et in quello si metteno due o tre macinate di biacca; e quando le tele hanno avuto tre o quattro mani di colla, che sia dolce, ch'abbia passato da una banda all'altra, con un coltello si dà questa pasta, e tutti i buchi vengono con la mano dell'artefice a turarsi.
Fatto ciò, se le dà una o due mani di colla dolce, e da poi la mestica o imprimatura; et a dipignervi sopra si tiene il medesimo modo che agl'altri di sopra racconti.
E perché questo modo è paruto agevole e commodo, si sono fatti non solamente quadri piccioli per portare attorno, ma ancora tavole da altari et altre opere di storie, grandissime, come si vede nelle sale del palazzo di S.
Marco di Vinezia, et altrove, avenga che dove non arriva la grandezza delle tavole, serve la grandezza e 'l commodo delle tele.
Cap.
XXIV.
Del dipingere in pietra a olio, e che pietre siano buone.
È cresciuto sempre lo animo a' nostri artefici pittori, faccendo che il colorito a olio, oltra l'averlo lavorato in muro, si possa volendo lavorare ancora su le pietre; delle quali hanno trovato nella riviera di Genova quella spezie di lastre che noi dicemmo nella architettura che sono attissime a questo bisogno; perché per esser serrate in sé e per avere la grana gentile pigliano il pulimento piano.
In su queste hanno dipinto modernamente quasi infiniti e trovato il modo vero da potere lavorarvi sopra.
Hanno provate poi le pietre più fine, come mischi di marmo, serpentini e porfidi, et altre simili, che sendo liscie e brunite, vi si attacca sopra il colore.
Ma nel vero, quando la pietra sia ruvida et arida, molto meglio inzuppa e piglia l'olio bollito et il colore dentro; come alcuni piperni o vero piperigni gentili, i quali quando siano battuti col ferro e non arrenati con rena o sasso di tufi, si possono spianare con la medesima mistura che dissi nell'arricciato, con quella cazzuola di ferro infocata.
Perciò che a tutte queste pietre non accade dar colla in principio, ma solo una mano d'imprimatura di colore a olio, cioè mestica; e secca che ella sia, si può cominciare il lavoro a suo piacimento.
E chi volesse fare una storia a olio su la pietra, può tôrre di quelle lastre genovesi e farle fare quadre, e fermarle nel muro co' perni sopra una incrostatura di stucco, distendendo bene la mestica in su le commettiture, di maniera che e' venga a farsi per tutto un piano di che grandezza l'artefice ha bisogno.
E questo è il vero modo di condurre tali opre a fine; e, finite, si può a quelle fare ornamenti di pietre fini, di misti e d'altri marmi; le quali si rendono durabili in infinito, purché con diligenza siano lavorate; e possonsi e non si possono vernicare, come altrui piace, perché la pietra non prosciuga, cioè non sorbisce quanto fa la tavola e la tela, e si difende da' tarli, il che non fa il legname.
Cap.
XXV.
Del dipignere nelle mura di chiaro e scuro di varie terrette; e come si contrafanno le cose di bronzo; e delle storie di terretta per archi o per feste, a colla, che è chiamato a guazzo et a tempera.
Vogliono i pittori che il chiaroscuro sia una forma di pittura che tragga più al disegno che al colorito, perché ciò è stato cavato dalle statue di marmo contrafacendole, e dalle figure di bronzo et altre varie pietre; e questo hanno usato di fare nelle faciate de' palazzi e case in istorie, mostrando che quelle siano contrafatte, e paino di marmo o di pietra con quelle storie intagliate; o veramente contrafacendo quelle sorti di spezie di marmo e porfido, e di pietra verde, e granito rosso e bigio, o bronzo, o altre pietre, come par loro meglio, si sono accommodati in più spartimenti di questa maniera; la qual'è oggi molto in uso per fare le facce delle case e de' palazzi, così in Roma come per tutta Italia.
Queste pitture si lavorano in due modi, prima in fresco, che è la vera, o in tele per archi, che si fanno nell'entrate de' principi nelle città e ne' trionfi, o negli apparati delle feste e delle comedie, perché in simili cose fanno bellissimo vedere.
Trattaremo prima della spezie e sorte del fare in fresco, poi diremo de l'altra.
Di questa sorte di terretta si fanno i campi con la terra da fare i vasi, mescolando quella con carbone macinato o altro nero per far l'ombre più scure, e bianco di trevertino con più scuri e più chiari, e si lumeggiano col bianco schietto, e con ultimo nero a ultimi scuri finite.
Vogliono avere tali specie fierezza, disegno, forza, vivacità e bella maniera, et essere espresse con una gagliardezza che mostri arte e non stento, perché si hanno a vedere et a conoscere di lontano.
E con queste ancora s'imitino le figure di bronzo, le quali col campo di terra gialla e rossa s'abbozzano, e con più scuri di quello nero e rosso e giallo si sfondano, e con giallo schietto si fanno i mezzi, e con giallo e bianco si lumeggiano.
E di queste hanno i pittori le facciate e le storie di quelle con alcune statue tramezzate, che in questo genere hanno grandissima grazia.
Quelle poi che si fanno per archi, comedie, o feste, si lavorano poi che la tela sia data di terretta, cioè di quella prima terra schietta da far vasi temperata con colla; e bisogna che essa tela sia bagnata di dietro mentre l'artefice la dipigne, acciò che con quel campo di terretta unisca meglio li scuri et i chiari della opera sua; e si costuma temperare i neri di quelle con un poco di tempera; e si adoperano biacche per bianco, e minio per dar rilievo alle cose che paiono di bronzo, e giallolino per lumeggiare sopra detto minio; e per i campi e per gli scuri le medesime terre gialle e rosse, et i medesimi neri che io dissi nel lavorare a fresco, i quali fanno mezzi et ombre.
Ombrasi ancora con altri diversi colori altre sorte di chiari e scuri; come con terra d'ombra, alla quale si fa la terretta di verde terra e gialla e bianco; similmente con terra nera, che è un'altra sorte di verde terra e nera, che la chiamano verdaccio.
Cap.
XXVI.
Degli sgraffiti delle case che reggono a l'acqua, quello che si adoperi a fargli, e come si lavorino le grottesche nelle mura.
Hanno i pittori un'altra sorte di pittura che è disegno e pittura insieme, e questo si domanda sgraffito, e non serve ad altro che per ornamenti di facciate, di case e palazzi, che più brevemente si conducono con questa spezie, e reggono all'acque sicuramente; perché tutt'i lineamenti invece di essere disegnati con carbone o con altra materia simile, sono tratteggiati con un ferro dalla mano del pittore; il che si fa in questa maniera: pigliano la calcina mescolata con la rena, ordinariamente, e con paglia abbruciata la tingono d'uno scuro che venga in un mezzo colore che trae in argentino, e verso lo scuro un poco più che tinta di mezzo, e con questa intonacano la facciata.
E fatto ciò e pulita, col bianco della calce di trevertino, l'imbiancano tutta, et imbiancata ci spolverano su i cartoni, o vero disegnano quel che ci vogliono fare; e di poi aggravando col ferro, vanno dintornando e tratteggiando la calce; la quale essendo sotto di corpo nero, mostra tutti i graffi del ferro come segni di disegno.
E si suole ne' campi di quegli radere il bianco, e poi avere una tinta d'acquerello scuretto molto acquidoso, e di quello dare per gli scuri, come si desse a una carta; il che di lontano fa un bellissimo vedere: ma il campo, se ci è grottesche o fogliami, si sbattimenta, cioè ombreggia con quello acquerello.
E questo è il lavoro, che per esser dal ferro graffiato, hanno chiamato i pittori sgraffito.
Restaci or a ragionare delle grottesche che si fanno sul muro, dunque, quelle che vanno in campo bianco.
Non ci essendo il campo di stucco per non essere bianca la calce, si dà per tutto sottilmente il campo di bianco, e fatto ciò, si spolverano e si lavorano in fresco di colori sodi, perché non arebbono mai la grazia ch'hanno quelle che si lavorano su lo stucco.
Di questa spezie possono essere grottesche grosse e sottili, le quali vengono fatte nel medesimo modo che si lavorano le figure a fresco o in muro.
Cap.
XXVII.
Come si lavorino le grottesche su lo stucco.
Le grottesche sono una spezie di pitture licenziose e ridicole molto, fatte dagl'antichi per ornamenti di vani, dove in alcuni luoghi non stava bene altro che cose in aria; per il che facevano in quelle tutte sconciature di mostri, per strattezza della natura e per gricciolo e ghiribizzo degli artefici; i quali fanno in quelle, cose senza alcuna regola, apiccando a un sottilissimo filo un peso che non si può reggere, a un cavallo le gambe di foglie, e a un uomo le gambe di gru, e infiniti sciarpelloni e passerotti; e chi più stranamente se gli immaginava, quello era tenuto più valente.
Furono poi regolate, e per fregi e spartimenti fatto bellissimi andari; così di stucchi mescolarono quelle con la pittura.
E sì innanzi andò questa pratica, che in Roma e in ogni luogo dove i Romani risedevano, ve n'è ancora conservato qualche vestigio.
E nel vero tocche d'oro et intagliate di stucchi, elle sono opera allegra e dilettevole a vedere.
Queste si lavorano di quattro maniere: l'una lavora lo stucco schietto; l'altra fa gli ornamenti soli di stucco, e dipigne le storie ne' vani e le grottesche ne' fregi; la terza fa le figure parte lavorate di stucco e parte dipinte di bianco e nero, contrafacendo cammei e altre pietre.
E di questa spezie grottesche e stucchi se n'è visto e vede tante opere lavorate da' moderni, i quali con somma grazia e bellezza hanno adornato le fabbriche più notabili di tutta l'Italia, che gli antichi rimangono vinti di grande spacio.
L'ultima, finalmente, lavora d'acquerello in su lo stucco, campando il lume con esso, et ombrandolo con diversi colori.
Di tutte queste sorti che si difendono assai dal tempo, se ne veggono delle antiche in infiniti luoghi a Roma et a Pozzuolo vicino a Napoli.
E questa ultima sorte si può anco benissimo lavorare con colori sodi a fresco, lasciando lo stucco bianco per campo a tutte queste, che nel vero hanno in sé bella grazia; e fra esse si mescolano paesi che molto dànno loro de l'allegro, e così ancora storiette di figure piccole colorite.
E di questa sorte oggi in Italia ne sono molti maestri che ne fanno professione, et in esse sono eccellenti.
Cap.
XXVIII.
Del modo del mettere d'oro a bolo et a mordente, et altri modi.
Fu veramente bellissimo segreto et investigazione sofistica il trovar modo che l'oro si battesse in fogli sì sottilmente che per ogni migliaio di pezzi battuti, grandi un ottavo di braccio per ogni verso, bastasse fra l'artificio e l'oro il valore solo di sei scudi.
Ma non fu punto meno ingegnosa cosa il trovar modo a poterlo talmente distendere sopra il gesso, che il legno, od altro ascostovi sotto, paresse tutto una massa d'oro; il che si fa in questa maniera: ingessasi il legno con gesso sottilissimo, impastato con la colla più tosto dolce che cruda, e vi si dà sopra grosso più mani, secondo che il legno è lavorato bene o male; inoltre raso il gesso e pulito, con la chiara dell'uovo schietta, sbattuta sottilmente con l'acqua, dentrovi si tempera il bolo armeno macinato ad acqua sottilissimamente, e si fa il primo acquidoso, o vogliamo dirlo liquido e chiaro, e l'altro appresso più corpulento.
Poi si dà con esso almanco tre volte sopra il lavoro, fino a che e' lo pigli per tutto bene; e bagnando di mano in mano con un pennello con acqua pura dove è dato il bolo, vi si mette su l'oro in foglia il quale subito si appicca a quel molle; e quando egli è soppasso, non secco, si brunisce con una zanna di cane o di lupo, sinché e' diventi lustrante e bello.
Dorasi ancora in un'altra maniera che si chiama a mordente, il che si adopera ad ogni sorte di cose, pietre, legni, tele, metalli d'ogni spezie, drappi e corami, e non si brunisce come quel primo.
Questo mordente che è la maestra che lo tiene, si fa di colori seccaticci a olio di varie sorti, e di olio cotto con la vernice dentrovi, e dassi in sul legno che ha avuto prima due mani di colla.
E poi che il mordente è dato così, non mentre che egli è fresco ma mezzo secco, vi si mette su l'oro in foglie.
Il medesimo si può fare ancora con l'orminiaco quando s'ha fretta, atteso che, mentre si dà, è buono; e questo serve più a fare selle, arabeschi et altri ornamenti, che ad altro.
Si macina ancora di questi fogli in una tazza di vetro con un poco di mèle e di gomma, che serve ai miniatori, et a infiniti che col pennello si dilettano fare proffili e sottilissimi lumi nelle pitture.
E tutti questi sono bellissimi segreti, ma per la copia di essi non se ne tiene molto conto.
Cap.
XXIX.
Del musaico de' vetri, et a quello che si conosce il buono e lodato.
Essendosi assai largamente detto di sopra nel VI capitolo che cosa sia il musaico, e come e' si faccia, continuandone qui quel tanto che è proprio della pittura, diciamo che egli è maestria veramente grandissima condurre i suoi pezzi cotanto uniti, che egli apparisca di lontano per onorata pittura e bella; atteso che in questa spezie di lavoro bisogna e pratica e giudizio grande con una profondissima intelligenza nell'arte del disegno, perché chi offusca ne' disegni il musaico con la copia et abbondanza delle troppe figure nelle istorie e con le molte minuterie de' pezzi, le confonde.
E però bisogna che il disegno de' cartoni che per esso si fanno sia aperto, largo, facile, chiaro e di bontà e bella maniera continuato.
E chi intende nel disegno la forza degli sbattimenti e del dare pochi lumi et assai scuri, con fare in quelli certe piazze o campi, costui sopra d'ogni altro lo farà bello e bene ordinato.
Vuole avere il musaico lodato chiarezza in sé con certa unita scurità verso l'ombre, e vuole essere fatto con grandissima discrezione lontano dall'occhio, acciò che lo stimi pittura e non tarsia commessa.
Laonde, i musaici che aranno queste parti saranno buoni e lodati da ciascheduno; e certo è che il musaico è la più durabile pittura che sia.
Imperò che l'altra col tempo si spegne, e questa nello stare fatta di continuo s'accende; et inoltre la pittura manca e si consuma per se medesima, ove il musaico per la sua lunghissima vita si può quasi chiamare eterno.
Per lo che scorgiamo noi in esso non solo la perfezione de' maestri vecchi, ma quella ancora degli antichi, mediante quelle opere che oggi si riconoscono dell'età loro; come nel tempio di Bacco a S.
Agnesa fuor di Roma, dove è benissimo condotto tutto quello che vi è lavorato; similmente a Ravenna n'è del vecchio bellissimo in più luoghi, et a Vinezia in S.
Marco, a Pisa nel Duomo, et a Fiorenza in S.
Giovanni, la tribuna: ma il più bello di tutti è quello di Giotto nella nave del portico di S.
Piero di Roma, perché veramente in quel genere è cosa miracolosa; e ne' moderni quello di Domenico del Ghirlandaio sopra la porta di fuori di Santa Maria del Fiore che va alla Nunziata.
Preparansi adunque i pezzi da farlo in questa maniera: quando le fornaci de' vetri sono disposte e le padelle piene di vetro, se li vanno dando i colori, a ciascuna padella il suo; avvertendo sempre che da un chiaro bianco che ha corpo e non è trasparente si conduchino i più scuri di mano in mano, in quella stessa guisa che si fanno le mestiche de' colori per dipignere ordinariamente.
Appresso, quando il vetro è cotto e bene stagionato, e le mestiche sono condotte e chiare e scure e d'ogni ragione, con certe cucchiaie lunghe di ferro si cava il vetro caldo e si mette in su uno marmo piano, e sopra con un altro pezzo di marmo si schiaccia pari, e se ne fanno rotelle che venghino ugualmente piane, e restino di grossezza la terza parte dell'altezza d'un dito.
Se ne fa poi con una bocca di cane di ferro pezzetti quadri tagliati, et altri col ferro caldo lo spezzano, inclinandolo a loro modo.
I medesimi pezzi diventano lunghi e con uno smeriglio si tagliano: il simile si fa di tutti i vetri che hanno di bisogno, e se n'empiono le scatole, e si tengono ordinati come si fa i colori quando si vuole lavorare a fresco, che in vari scodellini si tiene separatamente la mestica delle tinte più chiare e più scure per lavorare.
Ècci un'altra spezie di vetro che si adopra per lo campo e per i lumi de' panni che si mette d'oro.
Questo quando lo vogliano dorare, pigliano quelle piastre di vetro che hanno fatto, e con acqua di gomma bagnano tutta la piastra del vetro, e poi vi mettono sopra i pezzi d'oro; fatto ciò, mettono la piastra su una pala di ferro, e quella nella bocca della fornace, coperta prima con un vetro sottile tutta la piastra di vetro che hanno messa d'oro, e fanno questi coperchi o di bocce o a modo di fiaschi spezzati, di maniera che un pezzo cuopra tutta la piastra; e lo tengono tanto nel fuoco, che vien quasi rosso, ed in un tratto cavandolo, l'oro viene con una presa mirabile a imprimersi nel vetro e fermarsi, e regge all'acqua et a ogni tempesta: poi questo si taglia et ordina come l'altro di sopra.
E per fermarlo nel muro usano di fare il cartone colorito et alcuni altri senza colore; il quale cartone calcano o segnano a pezzo a pezzo in su lo stucco, e di poi vanno commettendo appoco appoco quanto vogliono fare nel musaico.
Questo stucco per esser posto grosso in su l'opera, gli aspetta duoi dì e quattro, secondo la qualità del tempo, e fassi di trevertino, di calce, mattone pesto, draganti e chiara d'uovo; e fattolo, tengono molle con pezze bagnate.
Così dunque pezzo per pezzo tagliano i cartoni nel muro, e lo disegnano su lo stucco calcando; finché poi con certe mollette si pigliano i pezzetti degli smalti, e si commettono nello stucco, e si lumeggiano i lumi, e dassi mezzi a' mezzi, e scuri agli scuri, contrafacendo l'ombre, i lumi et i mezzi minutamente come nel cartone; e così lavorando con diligenza si conduce a poco a poco a perfezione.
E chi più lo conduce unito, sì che e' torni pulito e piano, colui è più degno di loda e tenuto da più degli altri.
Imperò sono alcuni tanto diligenti al musaico che lo conducono di maniera che egli apparisce pittura a fresco.
Questo, fatta la presa, indura talmente il vetro nello stucco, che dura in infinito come ne fanno fede i musaici antichi che sono in Roma e quelli che sono vecchi; et anco nell'una e nell'altra parte i moderni ai dì nostri n'hanno fatto del maraviglioso.
Cap.
XXX.
Dell'istorie e delle figure che si fanno di commesso ne' pavimenti, ad imitazione delle cose di chiaro e scuro.
Hanno aggiunto i nostri moderni maestri al musaico di pezzi piccoli un'altra specie di musaici di marmi commessi, che contrafanno le storie dipinte di chiaroscuro; e questo ha causato il desiderio ardentissimo di volere che e' resti nel mondo a chi verrà dopo, se pure si spegnessero l'altre spezie della pittura, un lume che tenga accesa la memoria de' pittori moderni; e così hanno contrafatto con mirabile magisterio storie grandissime, che non solo si potrebbono mettere ne' pavimenti dove si camina, ma incrostarne ancora le facce delle muraglie e d'i palazzi, con arte tanto bella e meravigliosa, che pericolo non sarebbe, ch'el tempo consumasse il disegno di coloro che sono rari in questa professione; come si può vedere nel Duomo di Siena cominciato prima da Duccio Sanese e poi da Domenico Beccafumi a' dì nostri seguitato et augumentato.
Questa arte ha tanto del buono e del nuovo e del durabile, che per pittura commessa di bianco e nero poco più si puote desiderare di bontà e di bellezza.
Il componimento suo si fa di tre sorte marmi che vengono de' monti di Carrara; l'uno de' quali è bianco finissimo e candido, l'altro non è bianco, ma pende in livido, che fa mezzo a quel bianco; et il terzo è un marmo bigio di tinta che trae in argentino, che serve per iscuro.
Di questi volendo fare una figura, se ne fa un cartone di chiaro e scuro con le medesime tinte; e ciò fatto, per i dintorni di que' mezzi e scuri e chiari, a' luoghi loro si commette nel mezzo con diligenza il lume di quel marmo candido, e così i mezzi, e gli scuri allato a quei mezzi, secondo i dintorni stessi che nel cartone ha fatto l'artefice.
E quando ciò hanno commesso insieme, e spianato di sopra tutti i pezzi de' marmi così chiari, come scuri e come mezzi, piglia l'artefice che ha fatto il cartone un pennello di nero temperato, quando tutta l'opra è insieme commessa in terra, e tutta sul marmo la tratteggia e proffila dove sono gli scuri, a guisa che si contorna, tratteggia e proffila con la penna una carta che avesse disegnata di chiaroscuro.
Fatto ciò lo scultore viene incavando coi ferri tutti quei tratti e proffili che il pittore ha fatti, e tutta l'opra incava dove ha disegnato di nero il pennello.
Finito questo, si murano ne' piani a pezzi a pezzi; e finito, con una mistura di pegola nera bollita o asfalto e nero di terra, si riempiono tutti gli incavi che ha fatti lo scarpello; e poi che la materia è fredda et ha fatto presa, con pezzi di tufo vanno levando e consumando ciò che sopra avanza, e con rena, mattoni e acqua si va arrotando e spianando tanto, che il tutto resti ad un piano, cioè il marmo stesso et il ripieno: il che fatto, resta l'opera in una maniera ch'ella pare veramente pittura in piano, et ha in sé grandissima forza con arte e con maestria.
Laonde è ella molto venuta in uso per la sua bellezza et ha causato ancora che molti pavimenti di stanze oggi si fanno di mattoni, che siano una parte di terra bianca, cioè di quella che trae in azzurrino quando ella è fresca e cotta diventa bianca, e l'altra della ordinaria da fare mattoni, che viene rossa quando ella è cotta.
Di queste due sorti si sono fatti pavimenti commessi di varie maniere a spartimenti; come ne fanno fede le sale papali a Roma al tempo di Raffaello da Urbino, et ora ultimamente molte stanze in Castello S.
Agnolo, dove si sono con i medesimi mattoni fatte imprese di gigli commessi di pezzi, che dimostrano l'arme di papa Paulo, e molte altre imprese: et in Firenze il pavimento della libreria di S.
Lorenzo fatta fare dal duca Cosimo, e tutte sono state condotte con tanta diligenza, che più di bello non si può desiderare in tale magisterio: e di tutte queste cose commesse fu cagione il primo musaico.
E perché dove si è ragionato delle pietre e marmi di tutte le sorte, non si è fatto menzione d'alcuni misti nuovamente trovati dal signor duca Cosimo, dico che l'anno 1563 sua Eccellenza ha trovato nei monti di Pietrasanta presso alla villa di Stazzema un monte che gira 2 miglia et altissimo, la cui prima scorza è di marmi bianchi ottimi per fare statue.
Il disotto è un mischio rosso e gialliccio, e quello che è più a dentro è verdiccio, nero, rosso e giallo con altre varie mescolanze di colori, e tutti sono in modo duri, che quanto più si va a dentro si trovano maggiori saldezze, et insino a ora vi si vede da cavar colonne di quindici in venti braccia.
Non se n'è ancor messo in uso, perché si va tuttavia facendo d'ordine di sua Eccellenza una strada di tre miglia, per potere condurre questi marmi dalle dette cave alla marina, i quali mischi saranno, per quello che si vede, molto a proposito per pavimenti.
Cap.
XXXI.
Del musaico di legname, cioè delle tarsie; e dell'istorie che si fanno di legni tinti e commessi a guisa di pitture.
Quanto sia facil cosa l'aggiugnere all'invenzioni de' passati qualche nuovo trovato sempre assai chiaro ce lo dimostra non solo il predetto commesso de' pavimenti, che senza dubbio vien dal musaico, ma le stesse tarsie ancora, e le figure di tante varie cose, che a similitudine pur del musaico e della pittura sono state fatte da' nostri vecchi di piccoli pezzetti di legno commessi et uniti insieme nelle tavole del noce e colorati diversamente; il che i moderni chiamano lavoro di commesso, benché a' vecchi fosse tarsia.
Le miglior cose che in questa spezie già si facessero furono in Firenze nei tempi di Filippo di ser Brunellesco e poi di Benedetto da Maiano; il quale, nientedimanco, giudicandole cosa disutile, si levò in tutto da quelle, come nella vita sua si dirà.
Costui, come gli altri passati, le lavorò solamente di nero e di bianco; ma fra' Giovanni Veronese, che in esse fece gran frutto, largamente le migliorò dando vari colori a' legni con acque e tinte bollite e con olii penetrativi, per avere di legname i chiari e gli scuri variati diversamente, come nella arte della pittura, e lumeggiando con bianchissimo legno di silio sottilmente le cose sue.
Questo lavoro ebbe origine primieramente nelle prospettive, perché quelle avevano termine di canti vivi, che commettendo insieme i pezzi facevano il profilo, e pareva tutto d'un pezzo il piano dell'opra loro, sebbene e' fosse stato di più di mille.
Lavorarono però di questo gli antichi ancora nelle incrostature delle pietre fini, come apertamente si vede nel portico di S.
Pietro, dove è una gabbia con un uccello in un campo di porfido e d'altre pietre diverse, commesse in quello con tutto il resto degli staggi e delle altre cose.
Ma per essere il legno più facile e molto più dolce a questo lavoro, hanno potuto i maestri nostri lavorarne più abbondantemente et in quel modo che hanno voluto.
Usarono già per far l'ombre abbronzarle col fuoco da una banda, il che bene imitava l'ombra; ma gli altri hanno usato di poi olio di zolfo et acque di solimati e di arsenichi, con le quali cose hanno dato quelle tinture che eglino stessi hanno voluto, come si vede nell'opre di fra' Damiano in S.
Domenico di Bologna.
E perché tale professione consiste solo ne' disegni che siano atti a tale esercizio, pieni di casamenti e di cose che abbino i lineamenti quadrati, e si possa per via di chiari e di scuri dare loro forza e rilievo, hannolo fatto sempre persone che hanno avuto più pacienza che disegno.
E così s'è causato che molte opere vi si sono fatte, e si sono in questa professione lavorate storie di figure, frutti et animali, che in vero alcune cose sono vivissime, ma per essere cosa che tosto diventa nera e non contrafà se non la pittura, essendo da meno di quella, e poco durabile per i tarli e per il fuoco, è tenuto tempo buttato invano, ancora che e' sia pure lodevole e maestrevole.
Cap.
XXXII.
Del dipignere le finestre di vetro, e come elle si conduchino co' piombi e co' ferri da sostenerle senza impedimento delle figure.
Costumarono già gl'antichi, ma per gli uomini grandi o almeno di qualche importanza, di serrare le finestre in modo che, senza impedire il lume, non vi entrassero i venti o il freddo; e questo solamente ne' bagni loro, ne' sudatoi, nelle stufe e negli altri luoghi riposti, chiudendo le aperture o vani di quelle con alcune pietre trasparenti, come sono le agate, gli alabastri et alcuni marmi teneri che sono mischi o che traggono al gialliccio.
Ma i moderni che in molto maggior copia hanno avuto le fornaci de' vetri, hanno fatto le finestre di vetro, di occhi, e di piastre, a similitudine od imitazione di quelle che gli antichi fecero di pietra; e con i piombi accanalati da ogni banda le hanno insieme serrate e ferme, e ad alcuni ferri messi nelle muraglie a questo proposito, o veramente ne' telai di legno, le hanno armate e ferrate, come diremo.
E dove elle si facevano nel principio semplicemente d'occhi bianchi, e con angoli bianchi oppur colorati, hanno poi imaginato gli artefici fare un musaico de le figure di questi vetri diversamente colorati e commessi ad uso di pittura.
E talmente si è assottigliato l'ingegno in ciò, che e' si vede oggi condotta questa arte delle finestre di vetro a quella perfezzione, che nelle tavole si conducono le belle pitture unite di colori e pulitamente dipinte; sì come nella vita di Guglielmo da Marzille franzese largamente dimostrerremo.
Di questa arte hanno lavorato meglio i Fiaminghi et i Franzesi, che l'altre nazioni; atteso che eglino, come investigatori delle cose del fuoco e de' colori, hanno ridotto a cuocere a fuoco i colori che si pongono in sul vetro, a cagione che il vento l'aria e la pioggia non le offenda in maniera alcuna; dove già costumavano dipigner quelle di colori velati con gomme et altre tempere che col tempo si consumavano; et i venti le nebbie e l'acque se le portavano di maniera, che altro non vi restava che il semplice colore del vetro.
Ma nella età presente veggiamo noi condotta questa arte a quel sommo grado, oltra il quale non si può appena desiderare perfezione alcuna di finezza, di bellezza e di ogni particularità che a questo possa servire; con una delicata e somma vaghezza, non meno salutifera, per assicurare le stanze da' venti e dall'arie cattive, che utile e comoda, per la luce chiara e spedita che per quella ci si appresenta.
Vero è che, per condurle che elle siano tali, bisognano primieramente tre cose, cioè: una luminosa trasparenza ne' vetri scelti, un bellissimo componimento di ciò che vi si lavora et un colorito aperto senza alcuna confusione.
La trasparenza consiste nel saper fare elezione di vetri che siano lucidi per se stessi; et in ciò meglio sono i franzesi, fiaminghi et inghilesi, che i veniziani; perché i fiaminghi sono molto chiari, et i veniziani molto carichi di colore; e quegli che son chiari, adombrandoli di scuro, non perdono il lume del tutto, tale che e' non traspaino nell'ombre loro; ma i veniziani, essendo di loro natura scuri, et oscurandoli di più con l'ombre, perdono in tutto la trasparenza.
Et ancora che molti si dilettino d'averli carichi di colori artifiziatamente soprapostivi, che sbattuti dall'aria e dal sole mostrano non so che di bello, più che non fanno i colori naturali, meglio è nondimeno aver i vetri di loro natura chiari che scuri, acciò che dalla grossezza del colore non rimanghino offuscati.
A condurre questa opera bisogna avere un cartone disegnato con profili, dove siano i contorni delle pieghe de' panni e delle figure, i quali dimostrino dove si hanno a commettere i vetri; di poi si pigliano i pezzi de' vetri rossi, gialli, azzurri e bianchi e si scompartiscono secondo il disegno, per panni o per carnagioni, come ricerca il bisogno.
E per ridurre ciascuna piastra di essi vetri alle misure disegnate sopra il cartone, si segnano detti pezzi in dette piastre, posate sopra il detto cartone, con un pennello di biacca, et a ciascun pezzo s'assegna il suo numero per ritrovargli più facilmente nel commettergli; i quali numeri, finita l'opera, si scancellano.
Fatto questo, per tagliargli a misura si piglia un ferro appuntato affocato, con la punta del quale avendo prima con una punta di smeriglio intaccata alquanto la prima superficie dove si vuole cominciare, e con un poco di sputo bagnatovi, si va con esso ferro lungo que' dintorni, ma alquanto discosto: et a poco a poco muovendo il predetto ferro, il vetro si inclina e si spicca dalla piastra.
Di poi con una punta di smeriglio si va rinettando detti pezzi e levandone il superfluo, e con un ferro, che e' chiamano grisatoio o vero topo, si vanno rodendo i dintorni disegnati, tale ch'e' venghino giusti da poterli commettere per tutto.
Così, dunque, commessi i pezzi di vetro, in su una tavola piana si distendono sopra il cartone e si comincia a dipignere per i panni l'ombra di quegli la quale vuol essere di scaglia di ferro macinata, e d'un'altra ruggine che alle cave del ferro si trova, la quale è rossa, o vero matita rossa e dura macinata, e con queste si ombrano le carni, cangiando quelle col nero e rosso, secondo che fa bisogno.
Ma prima è necessario alle carni velare con quel rosso tutti i vetri, e con quel nero fare il medesimo a' panni con temperargli con la gomma, a poco a poco dipignendoli et ombrandoli come sta il cartone.
Et appresso dipinti che e' sono, volendoli dare lumi fieri si ha un pennello di setole corto e sottile, e con quello si graffiano i vetri in su il lume, e levasi di quel panno che aveva dato per tutto il primo colore, e con l'asticciuola del pennello si va lumeggiando i capegli, le barbe, i panni, i casamenti e' paesi come tu vuoi.
Sono però in questa opera molte difficultà, e chi se ne diletta può mettere varii colori sul vetro; perché segnando su un colore rosso un fogliame o cosa minuta, volendo che a fuoco venga colorito d'altro colore, si può squamare quel vetro quanto tiene il fogliame, con la punta d'un ferro che levi la prima scaglia del vetro, cioè il primo suolo, e non la passi; perché faccendo così, rimane il vetro di color bianco, e se gli dà poi quel rosso fatto di più misture, che nel cuocere mediante lo scorrere diventa giallo.
E questo si può fare su tutti i colori; ma il giallo meglio riesce sul bianco che in altri colori, l'azzurro a campirlo divien verde nel cuocerlo, perché il giallo e l'azzurro mescolati fanno color verde.
Questo giallo non si dà mai se non dietro dove non è dipinto, perché mescolandosi e scorrendo guasterebbe e si mescolarebbe con quello, il quale cotto rimane sopra grosso il rosso, che raschiato via con un ferro vi lascia giallo.
Dipinti che sono i vetri, vogliono esser messi in una tegghia di ferro con un suolo di cenere stacciata e calcina cotta mescolata, et a suolo a suolo i vetri parimente distesi e ricoperti dalla cenere istessa, poi posti nel fornello, il quale a fuoco lento a poco a poco riscaldati, venga a infocarsi la cenere e i vetri, perché i colori che vi sono su infocati inrugginiscono e scorrono, e fanno la presa sul vetro.
Et a questo cuocere bisogna usare grandissima diligenza, perché il troppo fuoco violento li farebbe crepare, et il poco non li cocerebbe; né si debbono cavare, finché la padella o tegghia dove e' sono non si vede tutta di fuoco, e la cenere con alcuni saggi sopra, che si vegga quando il colore è scorso.
Fatto ciò, si buttano i piombi in certe forme di pietra o di ferro, i quali hanno due canali, cioè da ogni lato uno, dentro al quale si commette e serra il vetro, e si piallano e dirizzano, e poi su una tavola si conficcano et a pezzo per pezzo s'impiomba tutta l'opera in più quadri, e si saldano tutte le commettiture de' piombi con saldatoi di stagno, et in alcune traverse dove vanno i ferri si mette fili di rame impiombati, acciò che possino reggere e legare l'opra; la quale s'arma di ferri che non siano al dritto delle figure, ma torti secondo le commettiture di quelle, a cagione che e' non impedischino il vederle.
Questi si mettono con inchiovature ne' ferri che reggono il tutto, e non si fanno quadri ma tondi, acciò impedischino manco la vista; e dalla banda di fuori si mettono alle finestre, e ne' buchi delle pietre s'impiombano, e con fili di rame, che ne' piombi delle finestre saldati siano a fuoco, si legano fortemente.
E perché i fanciulli o altri impedimenti non le guastino, vi si mette dietro una rete di filo di rame sottile.
Le quali opre se non fossero in materia troppo frangibile, durerebbono al mondo infinito tempo.
Ma per questo non resta che l'arte non sia difficile, artificiosa, e bellissima.
Cap.
XXXIII.
Del niello e come per quello abbiamo le stampe di rame; e come s'intaglino gl'argenti, per fare gli smalti di basso rilievo, e similmente si ceselino le grosserie.
Il niello, il quale non è altro che un disegno tratteggiato e dipinto su lo argento, come si dipigne e tratteggia sottilmente con la penna, fu trovato dagli orefici sino al tempo degli antichi, essendosi veduti cavi co' ferri ripieni di mistura negli ori et argenti loro.
Questo si disegna con lo stile su lo argento che sia piano e s'intaglia col bulino, che è un ferro quadro tagliato a unghia dall'uno degli angoli all'altro per isbieco, che così calando verso uno de' canti, lo fa più acuto e tagliente da' due lati, e la punta di esso scorre e sottilissimamente intaglia.
Con questo si fanno tutte le cose che sono intagliate ne' metalli per riempierle o per lasciarle vòte secondo la volontà dell'artefice.
Quando hanno dunque intagliato e finito col bulino, pigliano argento e piombo, e fanno di esso al fuoco una cosa, che incorporata insieme è nera di colore e frangibile molto e sottilissima a scorrere.
Questa si pesta e si pone sopra la piastra dell'argento dov'è l'intaglio, il qual è necessario che sia bene pulito; et accostatolo a fuoco di legne verdi, soffiando co' mantici, si fa che i raggi di quello percuotino dove è il niello; il quale per la virtù del calore fondendosi e scorrendo, riempie tutti gl'intagli che aveva fatti il bulino.
Appresso quando l'argento è raffreddo, si va diligentemente co' raschiatoi levando il superfluo, e con la pomice appoco appoco si consuma fregandolo e con le mani e con un cuoio, tanto che e' si truovi il vero piano e che il tutto resti pulito.
Di questo lavorò mirabilissimamente Maso Finiguerra fiorentino, il quale fu raro in questa professione, come ne fanno fede alcune paci di niello in S.
Giovanni di Fiorenza, che sono tenute mirabili.
Da questo intaglio di bulino son derivate le stampe di rame, onde tante carte e italiane e tedesche veggiamo oggi per tutta Italia; che sì come negli argenti s'improntava, anzi che fussero ripieni di niello, di terra, e si buttava di zolfo, così gli stampatori trovarono il modo del fare le carte su le stampe di rame col torculo, come oggi abbiam veduto da essi imprimersi.
Ècci un'altra sorte di lavori in argento o in oro, comunemente chiamata smalto, che è spezie di pittura mescolata con la scultura; e serve dove si mettono l'acque, sì che gli smalti restino in fondo.
Questa dovendosi lavorare in su l'oro ha bisogno d'oro finissimo et in su l'argento, argento almeno a lega di giulii; et è necessario questo modo, perché lo smalto ci possa restare e non iscorrere altrove che nel suo luogo: bisogna lasciarli i profili di argento, che di sopra sian sottili e non si vegghino.
Così si fa un rilievo piatto, et in contrario all'altro, acciò che mettendovi gli smalti, pigli gli scuri e' chiari di quello dall'altezza e dalla bassezza dell'intaglio.
Pigliasi poi smalti di vetri di varii colori che diligentemente si fermino col martello, e si tengono negli scodellini con acqua chiarissima, separati e distinti l'uno dall'altro.
E quegli che si adoperano all'oro sono differenti da quelli che servono per l'argento, e si conducono in questa maniera: con una sottilissima palettina d'argento si pigliano separatamente gli smalti, e con pulita pulitezza si distendono a' luoghi loro, e vi se ne mette e rimette sopra, secondo che ragnano, tutta quella quantità che fa di mestiero.
Fatto questo, si prepara una pignatta di terra fatta aposta, che per tutto sia piena di buchi et abbia una bocca dinanzi, e vi si mette dentro la mufola, cioè un coperchietto di terra bucato, che non lasci cadere i carboni a basso, e dalla mufola in su si empie di carboni di cerro, e si accende ordinariamente.
Nel vòto che è restato sotto il predetto coperchio, in su una sottilissima piastra di ferro si mette la cosa smaltata a sentire il caldo a poco a poco, e vi si tiene tanto, che, fondendosi, gli smalti scorrino per tutto quasi come acqua.
Il che fatto, si lascia rafreddare, e poi con una frassinella, ch'è una pietra da dare filo ai ferri, e con rena da bicchieri si sfrega, e con acqua chiara, finché si truovi il suo piano.
E quando è finito di levare il tutto, si rimette nel fuoco medesimo, acciò il lustro nello scorrere l'altra volta vada per tutto.
Fassene d'un'altra sorte a mano, che si pulisce con gesso di Tripoli e con un pezzo di cuoio, del quale non accade fare menzione; ma di questo l'ho fatta, perché essendo opra di pittura, come le altre, m'è paruto a proposito.
Cap.
XXXIIII.
Della tausìa, cioè lavoro alla damaschina.
Hanno ancora i moderni ad imitazione degli antichi rinvenuto una spezie di commettere ne' metalli intagliati d'argento o d'oro, facendo in essi lavori piani o di mezzo o di basso rilievo, et in ciò grandemente gli hanno avanzati.
E così abbiamo veduto nello acciaio l'opere intagliate a la tausìa, altrimenti detta a la damaschina, per lavorarsi di ciò in Damasco e per tutto il Levante eccellentemente.
Laonde, veggiamo oggi di molti bronzi et ottoni e rami commessi di argento et oro con arabeschi, venuti di que' paesi: e negli antichi abbiamo veduto anelli d'acciaio con mezze figure e fogliami molto belli.
E di questa spezie di lavoro se ne son fatte a' dì nostri armadure da combattere, lavorate tutte d'arabeschi d'oro commessi, e similmente staffe, arcioni di selle e mazze ferrate; et ora molto si costumano i fornimenti delle spade, de' pugnali, de' coltelli e d'ogni ferro che si voglia riccamente ornare e guernire; e si fa così: cavasi il ferro in sotto squadra, e per forza di martello si commette l'oro in quello, fattovi prima sotto una tagliatura a guisa di lima sottile, sì che l'oro viene a entrare ne' cavi di quella et a fermarvesi.
Poi con ferri si dintorna o con garbi di foglie o con girare di quel che si vuole, e tutte le cose co' fili d'oro passati per filiera si girano per il ferro, e col martello s'amaccano e fermano nel modo di sopra.
Avvertiscasi nientedimeno che i fili siano più grossi et i proffili più sottili, acciò si fermino meglio in quelli.
In questa professione infiniti ingegni hanno fatto cose lodevoli, e tenute maravigliose; e però non ho voluto mancare di farne ricordo, dependendo dal commettersi, et essendo scultura e pittura, cioè cosa che deriva dal disegno.
Cap.
XXXV.
De le stampe di legno e del modo di farle e del primo inventor loro, e come con tre stampe si fanno le carte che paiono disegnate, e mostrano il lume, il mezzo e l'ombre.
Il primo inventore delle stampe di legno di tre pezzi, per mostrare oltra il disegno l'ombre, i mezzi et i lumi ancora, fu Ugo da Carpi; il quale a imitazione delle stampe di rame ritrovò il modo di queste, intagliandole in legname di pero o di bossolo, che in questo sono eccellenti sopra tutti gli altri legnami.
Fecele dunque di tre pezzi, ponendo nella prima tutte le cose proffilate e tratteggiate, nella seconda tutto quello che è tinto accanto al proffilo con lo acquerello per ombra, e nella terza i lumi et il campo, lasciando il bianco della carta in vece di lume, e tingendo il resto per campo.
Questa, dove è il lume et il campo, si fa in questo modo: pigliasi una carta stampata con la prima, dove sono tutte le proffilature et i tratti, e così fresca fresca si pone in su l'asse del pero, et agravandola sopra con altri fogli che non siano umidi, si strofina in maniera, che quella che è fresca lascia su l'asse la tinta di tutti i proffili delle figure; e allora il pittore piglia la biacca a gomma, e dà in su 'l pero i lumi; i quali dati, lo intagliatore gli incava tutti co' ferri, secondo che sono segnati.
E questa è la stampa che primieramente si adopera, perché ella fa i lumi et il campo, quando ella è imbrattata di colore ad olio, e per mezzo della tinta lascia per tutto il colore, salvo che dove ella è incavata, che ivi resta la carta bianca.
La seconda poi è quella delle ombre, che è tutta piana e tutta tinta di acquerello, eccetto che dove le ombre non hanno ad essere, che quivi è incavato il legno.
E la terza, che è la prima a formarsi, è quella dove il proffilato del tutto è incavato per tutto, salvo che dove e' non ha i proffili tocchi dal nero della penna.
Queste si stampano al torculo, e vi si rimettono sotto tre volte, cioè una volta per ciascuna stampa, sì che elle abbino il medesimo riscontro.
E certamente che ciò fu bellissima invenzione.
Tutte queste professioni ed arti ingegnose si vede che derivano dal disegno, il quale è capo necessario di tutte; e, non l'avendo, non si ha nulla; perché sebbene tutti i segreti et i modi sono buoni, quello è ottimo, per lo quale ogni cosa perduta si ritrova, et ogni difficil cosa per esso diventa facile; come si potrà vedere nel leggere le vite degl'artefici, i quali dalla natura e dallo studio aiutati, hanno fatto cose sopra umane per il mezzo solo del disegno.
E così, faccendo qui fine alla introduzzione delle tre arti, troppo più lungamente forse trattate che nel principio non mi pensai, me ne passo a scrivere le Vite.
PROEMIO DELLE VITE
Io non dubito punto che non sia quasi di tutti gli scrittori commune e certissima opinione, che la scultura insieme con la pittura fussero naturalmente dai popoli dello Egitto primieramente trovate, e che alcun'altri non siano, che attribuischino a' Caldei le prime bozze de' marmi et i primi rilievi delle statue: come dànno anco a' Greci la invenzione del pennello e del colorire.
Ma io dirò bene che dell'una e dell'altra arte il disegno, - che è il fondamento di quelle, anzi l'istessa anima che concepe e nutrisce in se medesima tutti i parti degli intelletti -, fusse perfettissimo in su l'origine di tutte l'altre cose, quando l'altissimo Dio, fatto il gran corpo del mondo et ornato il cielo de' suoi chiarissimi lumi, discese con l'intelletto più giù, nella limpidezza dell'aere e nella solidità della terra; e, formando l'uomo, scoperse, con la vaga invenzione delle cose, la prima forma della scoltura e della pittura; dal quale uomo, a mano a mano, poi (ché non si de' dire il contrario) come da vero esemplare fur cavate le statue e le sculture, e la difficultà dell'attitudini e dei contorni; e per le prime pitture (qual che elle si fussero) la morbidezza, l'unione e la discordante concordia che fanno i lumi con l'ombre.
Così, dunque, il primo modello onde uscì la prima imagine dell'uomo fu una massa di terra, e non senza cagione; perciò che il divino architetto del tempo e della natura, come perfettissimo, volle mostrare nella imperfezione della materia la via del levare e dell'aggiugnere; nel medesimo modo che sogliono fare i buoni scultori e' pittori, i quali ne' lor modelli aggiungendo e levando riducono le imperfette bozze a quel fine e perfezzione che vogliono.
Diedegli colore vivacissimo di carne; dove s'è tratto nelle pitture, poi, dalle miniere della terra, gli istessi colori, per contraffare tutte le cose che accaggiono nelle pitture.
Bene è vero, che e' non si può affermare per certo quello che ad imitazione di così bella opera si facessino gli uomini avanti al Diluvio in queste arti; avvegna che verisimilmente paia da credere che essi ancora e scolpissero e dipignessero d'ogni maniera; poiché Belo, figliuolo del superbo Nembrot, circa CC anni dopo il Diluvio, fece fare la statua donde nacque poi la idolatria, e la famosissima nuora sua Semiramis regina di Babilonia, nella edificazione di quella città, pose tra gli ornamenti di quella non solamente variate e diverse spezie di animali ritratti e coloriti di naturale, ma la imagine di se stessa e di Nino suo marito, e le statue ancora, di bronzo, del suocero e della suocera e della antisuocera sua, come racconta Diodoro, chiamandole co' nomi de' Greci, che ancora non erano, Giove, Giunone et Ope.
Da le quali statue appresero per avventura i Caldei a fare le imagini de' loro Dii; poiché 150 anni dopo Rachel nel fuggire di Mesopotamia insieme con Jacob suo marito furò gl'idoli di Laban suo padre, come apertamente racconta il Genesi.
Né forono, però, soli i Caldei a fare sculture e pitture; ma le fecero ancora gli Egizzii, esercitandosi in queste arti con tanto studio, quanto mostra il sepolcro maraviglioso dello antichissimo re Simandio largamente descritto da Diodoro; e quanto arguisce il severo comandamento fatto da Mosè nello uscire de l'Egitto, cioè che sotto pena della morte non si facessero a Dio imagini alcune.
Costui, nello scendere di sul monte, avendo trovato fabricato il vitello dell'oro et adorato solennemente dalle sue genti, turbatosi gravemente di vedere concessi i divini onori all'immagine d'una bestia, non solamente lo ruppe e ridusse in polvere, ma per punizione di cotanto errore, fece uccidere da' Leviti molte migliaia degli scellerati figliuoli d'Israel che avevano commessa quella idolatria.
Ma perché non il lavorare le statue, ma l'adorarle era peccato sceleratissimo, si legge nell'Esodo, che l'arte del disegno e delle statue, non solamente di marmo, ma di tutte le sorte di metallo, fu donata per bocca di Dio a Beseleel della tribù di Iuda, et ad Oliab della tribù di Dan, che furono que' che fecero i due cherubini d'oro e' candellieri, e 'l velo e le fimbrie delle vesti sacerdotali, e tante altre bellissime cose di getto nel Tabernacolo, non per altro, che per indurvi le genti a contemplarle et adorarle.
Dalle cose, dunque, vedute innanzi al Diluvio, la superbia degli uomini trovò il modo di fare le statue di coloro che al mondo volsero che restassero per fama immortali; et i Greci, che diversamente ragionano di questa origine, dicono che gli Etiopi trovarono le prime statue, secondo Diodoro, e gli Egizzii le presono da loro, e da questi i Greci, poi che insino a' tempi d'Omero si vede essere stato perfetta la scultura e la pittura, come fa fede nel ragionar dello scudo d'Achille quel divino poeta, che, con tutta l'arte, piuttosto scolpito e dipinto che scritto ce lo dimostra.
Lattanzio Firmiano, favoleggiando, le concede a Prometeo, il quale, a similitudine del grande Dio, formò l'immagine umana di loto, e da lui l'arte delle statue afferma essere venuta.
Ma, secondo che scrive Plinio, quest'arte venne in Egitto da Gige Lidio, il quale, essendo al fuoco e l'ombra di se medesimo riguardando, subito, con un carbone in mano, contornò se stesso nel muro; e da quella età, per un tempo, le sole linee si costumò mettere in opera senza corpi di colore, sì come afferma il medesimo Plinio; la qual cosa da Filocle Egizzio con più fatica, e similmente da Cleante et Ardice Corintio e da Telefane Sicionio fu ritrovata.
Cleofante Corintio fu il primo appresso de' Greci che colorì, et Apollodoro il primo che ritrovasse il pennello.
Seguì Polignoto Tasio, Zeusi e Timagora Calcidese, Pitio, et Aglaufo, tutti celebratissimi; e, dopo questi, il famosissimo Apelle, da Alessandro Magno tanto per quella virtù stimato et onorato, ingegnosissimo investigatore della Calumnia e del Favore, come ci dimostra Luciano, e, come sempre fur quasi tutti i pittori e gli scultori eccellenti, dotati dal cielo, il più delle volte, non solo dell'ornamento della poesia, come si legge di Pacuvio, ma della filosofia ancora, come si vede in Metrodoro, perito tanto in filosofia quanto in pittura, mandato dagli Ateniesi a Paolo Emilio per ornare il trionfo, che ne rimase a leggere filosofia a' suoi figliuoli.
Furono, adunque, grandemente in Grecia esercitate le sculture; nelle quali si trovarono molti artefici eccellenti, e tra gli altri Fidia Ateniese, Prasitele e Policleto, grandissimi maestri; così Lisippo e Pirgotele in intaglio di cavo valsero assai, e Pigmaleone in avorio di rilievo, di cui si favoleggia che, co' preghi suoi, impetrò fiato e spirito alla figura della vergine ch'ei fece.
La pittura similmente onorarono e con premii gli antichi Greci e Romani, poiché a coloro che la fecero maravigliosa apparire, lo dimostrarono col donare loro città e dignità grandissime.
Fiorì talmente quest'arte in Roma, che Fabio diede nome al suo casato, sottoscrivendosi nelle cose da lui sì vagamente dipinte nel Tempio della Salute, e chiamandosi Fabio Pittore.
Fu proibito per decreto publico che le persone serve tal'arte non facessero per le città; e tanto onore fecero le gente del continuo all'arte et agli artefici, che l'opere rare, nelle spoglie de' trionfi come cose miracolose a Roma si mandavono; e gli artefici egregi erano fatti, di servi, liberi e riconosciuti con onorati premii dalle republiche.
Gli stessi Romani tanta riverenza a tali arti portarono che, oltre il rispetto che, nel guastare la città di Siragusa, volle Marcello che s'avesse a un artefice famoso di queste, nel volere pigliare la città predetta, ebbero riguardo di non mettere il fuoco a quella parte dove era una bellissima tavola dipinta; la quale fu di poi portata a Roma, nel trionfo, con molta pompa; dove in spazio di tempo avendo quasi spogliato il mondo, ridussero gli artefici stessi e le egregie opere loro; delle quali Roma poi si fece sì bella, perché le diedero grande ornamento le statue pellegrine, e più che le domestiche e particolari; sapendosi che in Rodi, città d'isola non molto grande, furono più di tremila statue annoverate fra di bronzo e di marmo, né manco ne ebbero gli Ateniesi, ma molto più que' d'Olimpia e di Delfo, e senza alcun numero que' di Corinto, e furono tutte bellissime e di grandissimo prezzo.
Non si sa egli, che Nicomede, re di Licia, per l'ingordigia di una Venere che era di mano di Prasitele, vi consumò quasi tutte le ricchezze de' popoli? Non fece il medesimo Attalo? che per avere la tavola di Bacco dipinta da Aristide non si curò di spendervi dentro più di sei mila sesterzii: la qual tavola da Lucio Mummio fu posta, per ornarne pur Roma, nel tempio di Cerere con grandissima pompa.
Ma con tutto che la nobiltà di quest'arte fusse così in pregio, e' non si sa però ancora per certo chi le desse il primo principio.
Perché, come già si è di sopra ragionato, ella si vede antichissima ne' Caldei; certi la danno all'Etiopi, et i Greci a se medesimi l'attribuiscono.
E puossi, non senza ragione, pensare ch'ella sia forse più antica appresso a' Toscani, come testifica il nostro Lion Batista Alberti; e ne rende assai buona chiarezza la maravigliosa sepoltura di Porsena a Chiusi: dove non è molto tempo che si è trovato sotto terra fra le mura del Laberinto alcune tegole di terra cotta, dentrovi figure di mezzo rilievo tanto eccellenti e di sì bella maniera, che facilmente si può conoscere l'arte non esser cominciata apunto in quel tempo; anzi, per la perfezzione di que' lavori, esser molto più vicina al colmo che al principio.
Come ancora ne può far medesimamente fede il veder tutto il giorno molti pezzi di que' vasi rossi e neri aretini, fatti come si giudica per la maniera, intorno a quei tempi, con leggiadrissimi intagli e figurine et istorie di basso rilievo, e molte mascherine tonde sottilmente lavorate da' maestri di quell'età, come per l'effetto si mostra, pratichissimi e valentissimi in tale arte.
Vedesi ancora, per le statue trovate a Viterbo nel principio del pontificato d'Alessandro VI, la scultura essere stata in pregio e non picciola perfezzione in Toscana; e come che e' non si sappia apunto il tempo che elle furon fatte, pure, e dalla maniera delle figure e dal modo delle sepolture e delle fabriche, non meno che dalle inscrizzioni di quelle lettere toscane, si può verisimilmente conietturare ch'e' le sono antichissime e fatte ne' tempi che le cose di qua erano in buono e grande stato.
Ma che maggior chiarezza si può di ciò avere, essendosi ai tempi nostri, cioè l'anno 1554, trovata una figura di bronzo fatta per la Chimera di Bellerofonte, nel far fossi, fortificazione e muraglia d'Arezzo? Nella quale figura si conosce la perfezzione di quell'arte essere stata anticamente appresso i Toscani, come si vede alla maniera etrusca, ma molto più nelle lettere intagliate in una zampa che, per essere poche, si coniettura, non si intendendo oggi da nessuno la lingua etrusca, che elle possino così significare il nome del maestro, come d'essa figura, e forse ancora gli anni secondo l'uso di que' tempi: la quale figura è oggi per la sua bellezza et antichità stata posta dal signor duca Cosimo nella sala delle stanze nuove del suo palazzo, dove sono stati da me dipinti i fatti di papa Leone X.
Et oltre a questa, nel medesimo luogo furono ritrovate molte figurine di bronzo della medesima maniera; le quali sono appresso il detto signor Duca.
Ma perché le antichità delle cose de' Greci e dell'Etiopi e de' Caldei sono parimente dubbie, come le nostre e forse più, e per il più bisogna fondare il giudizio di tali cose in su le conietture, che ancor non sieno talmente deboli che in tutto si scostino dal segno, io credo non mi esser punto partito dal vero e penso che ognuno, che questa parte vorrà discretamente considerare, giudicherà come io, quando di sopra io dissi il principio di queste arti essere stata l'istessa natura e l'innanzi o modello la bellissima fabrica del mondo, et il maestro quel divino lume infuso per grazia singulare in noi, il quale non solo ci ha fatti superiori alli altri animali, ma simili (se è lecito dire) a Dio.
E se ne' tempi nostri si è veduto (come io credo per molti esempli poco inanzi poter mostrare) che i semplici fanciulli e rozzamente allevati ne' boschi, in sull'esempio solo di queste belle pitture e sculture della natura, con la vivacità del loro ingegno da per se stessi hanno cominciato a disegnare, quanto più si può e debbe verisimilmente pensare, que' primi uomini, i quali quanto manco erano lontani dal suo principio e divina generazione, tanto erono più perfetti e di migliore ingegno, essi da per loro avendo per guida la natura, per maestro l'intelletto purgatissimo, per essempio sì vago modello del mondo, aver dato origine a queste nobilissime arti e da picciol principio, a poco a poco migliorandole, condottole finalmente a perfezzione?
Non voglio già negare che e' non sia stato un primo che cominciasse, ché io so molto bene che e' bisognò che qualche volta e da qualcuno venisse il principio; né anche negherò essere stato possibile che l'uno aiutasse l'altro, et insegnasse et aprisse la via al disegno, al colore e rilievo; perché io so che l'arte nostra è tutta imitazione della natura, principalmente, e poi, perché da sé non può salir tanto alto, delle cose, che da quelli che miglior maestri di sé giudica, sono condotte: ma dico bene, che il volere determinatamente affermare chi costui o costoro fussero, è cosa molto pericolosa a giudicare, e forse poco necessaria a sapere, poi che veggiamo la vera radice et origine donde ella nasce.
Per che, poiché delle opere che sono la vita e la fama delli artefici, le prime, e di mano in mano le seconde e le terze, per il tempo che consuma ogni cosa, venner manco, e non essendo allora chi scrivesse, non potettono essere almanco per quella via conosciute da' posteri, vennero ancora a esser incogniti gli artefici di quelle.
Ma da che gli scrittori cominciorono a far memoria delle cose state innanzi a loro, non potettono già parlare di quelli de' quali non avevano potuto aver notizia; in modo che primi appo loro vengono a esser quelli de' quali era stata ultima a perdersi la memoria.
Sì come il primo de' poeti, per consenso comune, si dice esser Omero, non perché innanzi a lui non ne fusse qualcuno, che ne furono, sebbene non tanto eccellenti, e nelle cose sue istesse si vede chiaro; ma perché di quei primi, tali quali essi furono, era persa già dumila anni fa ogni cognizione.
Però, lasciando questa parte indietro, troppo per l'antichità sua incerta, vegniamo alle cose più chiare, della loro perfezzione e rovina e restaurazione e per dir meglio rinascita; delle quali con molti miglior fondamenti potremo ragionare.
Dico adunque, essendo però vero che elle cominciassero in Roma tardi, se le prime figure furono, come si dice, il simulacro di Cerere fatto di metallo de' beni di Spurio Cassio, il quale, perché macchinava di farsi re, fu morto dal proprio padre senza rispetto alcuno, che sebbene continuarono l'arti della scultura e della pittura insino alla consumazione de' dodici Cesari, non però continuarono in quella perfezzione e bontà che avevano avuto innanzi; perché si vede negli edifizii che fecero, succedendo l'uno all'altro gli imperatori, che ogni giorno queste arti declinando, venivano a poco a poco perdendo l'intera perfezzione del disegno.
E di ciò possono rendere chiara testimonianza l'opere di scultura e d'architettura che furono fatte al tempo di Gostantino in Roma, e particularmente l'arco trionfale fattogli dal popolo romano al Colosseo, dove si vede che per mancamento di maestri buoni non solo si servirono delle storie di marmo fatte al tempo di Traiano, ma delle spoglie ancora condotte di diversi luoghi a Roma.
E chi conosce che i vòti che sono ne' tondi, cioè le sculture di mezzo rilievo, e parimente i prigioni e le storie grandi e le colonne e le cornici et altri ornamenti, fatti prima e di spoglie, sono eccellentemente lavorati, conosce ancora che l'opere, le quali furon fatte per ripieno dagli scultori di quel tempo, sono goffissime, come sono alcune storiette di figure piccole di marmo sotto i tondi, et il basamento da piè, dove sono alcune vittorie, e fra gli archi dalle bande certi fiumi che sono molto goffi e sì fatti che si può credere fermamente che insino allora l'arte della scultura aveva cominciato a perdere del buono; e nondimeno non erano ancora venuti i Gotti e l'altre nazioni barbare e straniere, che distrussono insieme con l'Italia tutte l'arti migliori.
Ben è vero che ne' detti tempi aveva minor danno ricevuto l'architettura che l'altre arti del disegno fatto non avevano, perché nel bagno che fece esso Gostantino fabricare a Laterano nell'entrata del portico principale, si vede, oltre alle colonne di porfido, i capitelli lavorati di marmo e le base doppie tolte d'altrove, benissimo intagliate, che tutto il composto della fabrica è benissimo inteso.
Dove, per contrario, lo stucco, il musaico et alcune incrostature delle facce fatte da' maestri di quel tempo, non sono a quelle simili che fece porre nel medesimo bagno, levate per la maggior parte dai tempii degli Dii de' Gentili.
Il medesimo, secondo che si dice, fece Gostantino del giardino d'Equizio, nel fare il tempio che egli dotò poi e diede a' sacerdoti cristiani.
Similmente il magnifico tempio di S.
Giovanni Laterano, fatto fare dallo stesso imperadore, può fare fede del medesimo, cioè che al tempo suo era di già molto declinata la scultura; perché l'immagine del Salvatore e i dodici Apostoli d'argento che egli fece fare, furono sculture molto basse e fatte senza arte e con pochissimo disegno.
Oltre ciò chi considera con diligenza le medaglie d'esso Gostantino e l'imagine sua et altre statue fatte dagli scultori di quel tempo che oggi sono in Campidoglio, vede chiaramente ch'elle sono molto lontane dalla perfezzione delle medaglie e delle statue degl'altri imperatori: le quali tutte cose mostrano che molto inanzi la venuta in Italia de' Gotti era molto declinata la scultura.
L'architettura, come si è detto, s'andò mantenendo, se non così perfetta, in miglior modo; né di ciò è da maravigliarsi, perché facendosi gli edifizii grandi quasi tutti di spoglie, era facile agli architetti nel fare i nuovi imitare in gran parte i vecchi, che sempre avevano dinanzi agli occhi.
E ciò molto più agevolmente che non potevano gli scultori, essendo mancata l'arte, imitare le buone figure degl'antichi.
E che ciò sia vero, è manifesto che il tempio del prencipe degli Apostoli in Vaticano non era ricco se non di colonne, di base, di capitelli, d'architravi, cornici, porte et altre incrostature et ornamenti, che tutti furono tolti di diversi luoghi e dagli edifizii stati fatti inanzi molto magnificamente.
Il medesimo si potrebbe dire di Santa Croce in Gerusalemme, la quale fece fare Gostantino a' preghi della madre Elena; di S.
Lorenzo fuor delle mura; e di S.
Agnesa, fatta dal medesimo a richiesta di Gostanza sua figliuola.
E chi non sa che il fonte il quale servì per lo battesimo di costei e d'una sua sorella, fu tutto adornato di cose fatte molto prima? e particolarmente di quel pilo di porfido intagliato di figure bellissime, e d'alcuni candelieri di marmo eccellentemente intagliati di fogliami, e d'alcuni putti di basso rilievo che sono veramente bellissimi?
Insomma, per questa e molte altre cagioni, si vede quanto già fusse al tempo di Gostantino venuta al basso la scultura, e con essa insieme l'altre arti migliori.
E se alcuna cosa mancava all'ultima rovina loro, venne loro data compiutamente dal partirsi Gostantino di Roma per andare a porre la sede dell'Imperio in Bisanzio; perciò che egli condusse in Grecia non solamente tutti i migliori scultori et altri artefici di quella età, comunche fussero, ma ancora una infinità di statue e d'altre cose di scultura bellissime.
Dopo la partita di Gostantino, i Cesari che egli lasciò in Italia, edificando continuamente et in Roma et altrove, si sforzarono di fare le cose loro quanto potettero migliori; ma, come si vede, andò sempre così la scultura come la pittura e l'architettura di male in peggio.
E ciò forse avvenne perché quando le cose umane cominciano a declinare, non restano mai d'andare sempre perdendo, se non quando non possono più oltre peggiorare.
Parimente si vede, che sebbene s'ingegnarono al tempo di Liberio papa gl'architetti di quel tempo di far gran cose nell'edificare la chiesa di S.
Maria Maggiore, che non però riuscì loro il tutto felicemente, perciò che sebbene quella fabrica, che è similmente per la maggior parte di spoglie, fu fatta con assai ragionevoli misure, non si può negare nondimeno, oltre a qualche altra cosa, che il partimento fatto intorno intorno sopra le colonne con ornamenti di stucchi e di pitture, non sia povero affatto di disegno, e che molte altre cose che in quel gran tempio si veggiono, non argomentino l'imperfezzione dell'arti.
Molti anni dopo, quando i cristiani sotto Giuliano Apostata erano perseguitati, fu edificato in sul monte Celio un tempio a' San Giovanni e Paolo martiri, di tanto peggior maniera che i sopra detti, che si conosce chiaramente che l'arte era a quel tempo poco meno che perduta del tutto.
Gli edifizii ancora, che in quel medesimo tempo si fecero in Toscana, fanno di ciò pienissima fede.
E per tacere molti altri, il tempio che fuor dalle mura d'Arezzo fu edificato a S.
Donato vescovo di quella città, il quale insieme con Ilariano monaco fu martirizzato sotto il detto Giuliano Apostata, non fu di punto migliore architettura che i sopra detti.
Né è da credere che ciò procedesse da altro che dal non essere migliori architetti in quell'età; conciò fusse che il detto tempio, come si è potuto vedere a' tempi nostri, a otto facce, fabricato delle spoglie del teatro, colosseo, et altri edifizi che erano stati in Arezzo innanzi che fusse convertita alla fede di Cristo, fu fatto senza alcun risparmio e con grandissima spesa, e di colonne di granito, di porfido e di mischi che erano stati delle dette fabriche antiche, adornato.
Et io per me non dubito, alla spesa che si vedeva fatta in quel tempio, che se gli Aretini avessono avuti migliori architetti, non avessono fatto qualche cosa maravigliosa; poiché si vede in quel che fecero, che a niuna cosa perdonarono per fare quell'opera, quanto potettono maggiormente, ricca e fatta con buon ordine.
E perché, come si è già tante volte detto, meno aveva della sua perfezione l'architettura che l'altre arti perduto, vi si vedeva qualche cosa di buono.
Fu in quel tempo similmente aggrandita la chiesa di Santa Maria in Grado a onore del detto Ilariano, perciò che in quella aveva lungo tempo abitato, quando andò con Donato alla palma del martirio.
Ma perché la fortuna, quando ella ha condotto altri al sommo della ruota, o per ischerzo o per pentimento il più delle volte lo torna in fondo, avvenne, dopo queste cose, che sollevatesi in diversi luoghi del mondo quasi tutte le nazioni barbare contra i Romani, ne seguì fra non molto tempo non solamente lo abbassamento di così grande imperio, ma la rovina del tutto e massimamente di Roma stessa; con la quale rovinarono del tutto parimente gli eccellentissimi artefici, scultori, pittori et architetti, lasciando l'arti e loro medesimi sotterrate e sommerse fra le miserabili stragi e rovine di quella famosissima città.
E prima andarono in mala parte la pittura e la scoltura, come arti che più per diletto che per altro servivano; e l'altra, cioè l'architettura, come necessaria e utile alla salute del corpo, andò continuando, ma non già nella sua perfezzione e bontà; e se non fusse stato che le sculture e le pitture rappresentavano inanzi agl'occhi di chi nasceva di mano in mano, coloro che n'erano stati onorati per dar loro perpetua vita, se ne sarebbe tosto spento la memoria dell'une e dell'altre.
Là dove alcune ne conservarono per l'imagine e per l'inscrizioni poste nell'architetture private e nelle publiche, cioè negli anfiteatri, ne' teatri, nelle terme, negli acquedotti, ne' tempii, negli obelisci, ne' colossi, nelle piramidi, negli archi, nelle conserve, e negli erarii, e, finalmente, nelle sepulture medesime; delle quali furono distrutte una gran parte da gente barbara et efferata, che altro non avevano d'uomo che l'effigie e 'l nome.
Questi fra gli altri furono i Visigoti, i quali avendo creato Alarico loro re, assalirono l'Italia e Roma, e la saccheggiorno due volte e senza rispetto di cosa alcuna.
Il medesimo fecero i Vandali venuti d'Affrica con Genserico loro re; il quale non contento alla roba e prede e crudeltà che vi fece, ne menò in servitù le persone con loro grandissima miseria, e con esse Eudossia moglie stata di Valentiniano imperatore, stato amazzato poco avanti dai suoi soldati medesimi; i quali, degenerati in grandissima parte dal valore antico romano per esserne andati gran tempo innanzi tutti i migliori in Bisanzio con Gostantino imperatore, non avevano più costumi né modi buoni nel vivere; anzi, avendo perduto in un tempo medesimo i veri uomini e ogni sorte di virtù, e mutate leggi, abito, nomi e lingue, tutte queste cose insieme e ciascuna per sé avevano ogni bell'animo e alto ingegno fatto bruttissimo e bassissimo diventare.
Ma quello che, sopra tutte le cose dette, fu di perdita e danno infinitamente alle predette professioni, fu il fervente zelo della nuova religione cristiana, la quale, dopo lungo e sanguinoso combattimento, avendo finalmente, con la copia de' miracoli e con la sincerità delle operazioni, abbattuta e annullata la vecchia fede de' Gentili, mentre che ardentissimamente attendeva con ogni diligenza a levar via et a stirpare in tutto ogni minima occasione donde poteva nascere errore, non guastò solamente o gettò per terra tutte le statue maravigliose, e le scolture, pitture, musaici et ornamenti de' fallaci Dii de' Gentili, ma le memorie ancora e gl'onori d'infinite persone egregie, alle quali per gl'eccellenti meriti loro dalla virtuosissima antichità erano state poste in publico le statue e l'altre memorie.
Inoltre, per edificare le chiese a la usanza cristiana, non solamente distrusse i più onorati tempii degli idoli, ma per far diventare più nobile e per adornare S.
Piero, oltre agli ornamenti che da principio avuto avea, spogliò di colonne di pietra la mole d'Adriano, oggi detto Castello S.
Agnolo, e molte altre le quali veggiamo oggi guaste.
E avvenga che la religione cristiana non facesse questo per odio che ella avesse con le virtù, ma solo per contumelia et abbattimento degli Dii de' Gentili, non fu però che da questo ardentissimo zelo non seguisse tanta rovina a queste onorate professioni, che non se ne perdesse in tutto la forma.
E se niente mancava a questo grave infortunio, sopravvenne l'ira di Totila contro a Roma, che oltre a sfasciarla di mura, e rovinar col ferro e col fuoco tutti i più mirabili e degni edifici di quella, universalmente la bruciò tutta e, spogliatola di tutti i viventi corpi, la lasciò in preda alle fiamme et al fuoco, e senza che in XVIII giorni continui si ritrovasse in quella vivente alcuno, abbatté e destrusse talmente le statue, le pitture, i musaici e gli stucchi maravigliosi, che se ne perdé, non dico la maiestà sola, ma la forma e l'essere stesso.
Per il che, essendo le stanze terrene, prima, de' palazzi o altri edificii, di stucchi, di pitture e di statue lavorate, con le rovine di sopra affogorno tutto il buono che a' giorni nostri s'è ritrovato.
E coloro che successer poi, giudicando il tutto rovinato, vi piantarono sopra le vigne; di maniera che per essere le dette stanze terrene rimaste sotto la terra, le hanno i moderni nominate grotte e grottesche le pitture che vi si veggono al presente.
Finiti gli Ostrogotti, che da Narse furono spenti, abitandosi per le rovine di Roma in qualche maniera pur malamente, venne dopo cento anni Costante II imperatore di Costantinopoli; e ricevuto amorevolmente dai Romani, guastò, spogliò e portossi via tutto ciò che nella misera città di Roma era rimaso, più per sorte che per libera volontà di coloro che l'avevono rovinata.
Bene è vero che e' non potette godersi di questa preda, perché da la tempesta del mare trasportato nella Sicilia, giustamente occiso dai suoi, lasciò le spoglie, il regno e la vita tutto in preda della fortuna.
La quale, non contenta ancora de' danni di Roma, perché le cose tolte non potessino tornarvi già mai, vi condusse un'armata di Saracini a' danni dell'isola; i quali e le robe de' Siciliani e le stesse spoglie di Roma se ne portorono in Alessandria, con grandissima vergogna e danno dell'Italia e del Cristianesimo: e così tutto quello che non avevano guasto i Pontefici, e S.
Gregorio massimamente (il quale si dice che messe in bando tutto il restante delle statue e delle spoglie degli edifizii), per le mani di questo sceleratissimo greco finalmente capitò male.
Di maniera che, non trovandosi più né vestigio né indizio di cosa alcuna che avesse del buono, gli uomini che vennono apresso, ritrovandosi rozzi e materiali, e particularmente nelle pitture e nelle sculture, incitati dalla natura e assottigliati dall'aria, si diedero a fare non secondo le regole dell'arti predette, ché non l'avevano, ma secondo la qualità degl'ingegni loro.
Essendo, dunque, a questo termine condotte l'arti del disegno, e inanzi e in quel tempo che signoreggiarono l'Italia i Longobardi, e poi, andarono dopo agevolmente, sebben alcune cose si facevano, in modo peggiorando che non si sarebbe potuto né più goffamente né con manco disegno lavorar di quello che si faceva; come ne dimostrano, oltr'a molte altre cose, alcune figure che sono nel portico di S.
Piero in Roma sopra le porte, fatte alla maniera greca, per memoria d'alcuni Santi Padri, che per la S.
Chiesa avevano in alcuni concilii disputato; ne fanno fede similmente molte cose dell'istessa maniera che nella città et in tutto l'Essarcato di Ravenna si veggiono; e particolarmente alcune che sono in S.
Maria Ritonda fuor di quella città, fatte poco dopo che d'Italia furono cacciati i Longobardi: nella qual chiesa non tacerò che una cosa si vede notabilissima e maravigliosa, e questa è la volta o vero cupola che la cuopre; la quale, come che sia larga dieci braccia, e serva per tetto e coperta di quella fabrica, è nondimeno tutta d'un pezzo solo, e tanto grande e sconcio, che pare quasi impossibile che un sasso di quella sorte, di peso di più di dugentomila libre, fusse tanto in alto collocato.
Ma, per tornare al proposito nostro, uscirono delle mani de' maestri di que' tempi quei fantocci e quelle goffezze che nelle cose vecchie ancora oggi appariscono.
Il medesimo avvenne dell'architettura; perché bisognando pur fabricare, et essendo smarrita in tutto la forma e il modo buono per gl'artefici morti e per l'opere distrutte e guaste, coloro che si diedero a tale esercizio non edificavano cosa che per ordine o per misura avesse grazia, né disegno, né ragion alcuna.
Onde ne vennero a risorgere nuovi architetti, che delle loro barbare nazioni fecero il modo di quella maniera di edifizii, ch'oggi da noi son chiamati tedeschi; i quali facevano alcune cose più tosto a noi moderni ridicole, che a loro lodevoli; finché la miglior forma e alquanto alla buona antica simile trovarono poi i migliori artefici, come si veggono di quella maniera per tutta Italia le più vecchie chiese, e non antiche, che da essi furono edificate, come da Teodorico re d'Italia un palazzo in Ravenna, uno in Pavia, et un altro in Modena pur di maniera barbara, e più tosto ricchi e grandi, che bene intesi o di buona architettura.
Il medesimo si può affermare di S.
Stefano in Rimini, di S.
Martino di Ravenna, e del tempio di S.
Giovanni Evangelista edificato nella medesima città da Galla Placidia intorno agli anni di nostra salute CCCCXXXVIII, di S.
Vitale che fu edificato l'anno DXLVII, e della Badia di Classi di fuori, et insomma di molti altri monasterii e tempî edificati dopo i Longobardi.
I quali tutti edifizii, come si è detto, sono e grandi e magnifici, ma di goffissima architettura, e fra questi sono molte badie in Francia edificate a S.
Benedetto, e la chiesa e monastero di Monte Casino, il tempio di S.
Giovambatista a Monza, fatto da quella Teodelinda, reina de' Gotti, alla quale S.
Gregorio papa scrisse i suoi Dialogi; nel qual luogo essa reina fece dipignere la storia d'i Longobardi, dove si vedeva che eglino dalla parte di dietro erano rasi, e dinanzi avevano le zazzere, e si tignevano fino al mento.
Le vestimenta erano di tela larga, come usarono gli Angli et i Sassoni, e sotto un manto di diversi colori, e le scarpe fino alle dita de' piedi aperte, e sopra legate con certi correggiuoli.
Simili a' sopra detti tempii furono la chiesa di S.
Giovanni in Pavia, edificata da Gundiperga figliuola della sopra detta Teodelinda, e nella medesima città la chiesa di S.
Salvador fatta da Ariperto fratello della detta reina, il quale successe nel regno a Rodoaldo marito di Gundiperga; la chiesa di S.
Ambruogio di Pavia, edificata da Grimoaldo re de' Longobardi, che cacciò dal regno Perterit figliuolo di Riperto; il quale Perterit ristituito nel regno dopo la morte di Grimoaldo edificò pur in Pavia un monasterio di donne, detto Monasterio Nuovo, in onore di Nostra Donna e di S.
Agata; e la reina ne edificò uno fuora delle mura dedicato alla Vergine Maria in Pertica.
Conperte, similmente figliuolo d'esso Perterit, edificò un monasterio e tempio a S.
Giorgio detto di Coronate, nel luogo dove aveva avuto una gran vittoria contra a Alahi, di simile maniera.
Né dissimile fu a questi il tempio che 'l re de' Longobardi Luiprando, il quale fu al tempo del re Pipino padre di Carlo Magno, edificò in Pavia, che si chiama S.
Piero in Cieldauro; né quello similmente che Disiderio, il quale regnò dopo Astolfo, edificò di S.
Piero Clivate nella diocesi milanese; né 'l monasterio di S.
Vincenzo in Milano, né quello di S.
Giulia in Brescia, perché tutti furono di grandissima spesa, ma di bruttissima e disordinata maniera.
In Fiorenza poi, migliorando alquanto l'architettura, la chiesa di S.
Apostolo, che fu edificata da Carlo Magno, fu ancor che piccola di bellissima maniera; perché, oltre che i fusi delle colonne, sebbene sono di pezzi, hanno molta grazia e sono condotti con bella misura, i capitelli ancora e gli archi girati per le volticciuole delle due piccole navate, mostrano che in Toscana era rimaso o vero risorto qualche buono artefice.
Insomma l'architettura di questa chiesa è tale, che Pippo di ser Brunellesco non si sdegnò di servirsene per modello nel fare la chiesa di S.
Spirito e quella di S.
Lorenzo nella medesima città.
Il medesimo si può vedere nella chiesa di S.
Marco di Vinezia; la quale (per non dir nulla di S.
Giorgio Maggiore stato edificato da Giovanni Morosini l'anno [978]) fu cominciata sotto il doge Iustiniano e Giovanni Particiaco appresso S.
Teodosio, quando d'Alessandria fu mandato a Vinezia il corpo di quell'Evangelista; perciò che dopo molti incendii che il palazzo del Doge e la chiesa molto dannificarono, ella fu sopra i medesimi fondamenti finalmente rifatta alla maniera greca et in quel modo che ella oggi si vede, con grandissima spesa e col parere di molti architetti, al tempo di Domenico Selvo, doge negli anni di Cristo DCCCCLXXIII; il quale fece condurre le colonne di que' luoghi donde le potette avere.
E così si andò continuando insino all'anno MCXL.
essendo doge messer Piero Polani, e, come si è detto, col disegno di più maestri tutti greci.
Della medesima maniera greca furono, e nei medesimi tempi, le sette badie che il conte Ugo marchese di Brandiburgo fece fare in Toscana, come si può vedere nella Badia di Firenze, in quella di Settimo e nell'altre.
Le quali tutte fabriche e le vestigia di quelle che non sono in piedi, rendono testimonianza che l'architettura si teneva alquanto in piedi, ma imbastardita fortemente e molto diversa dalla buona maniera antica.
Di ciò possono anco far fede molti palazzi vecchi, stati fatti in Fiorenza dopo la rovina di Fiesole, d'opera toscana, ma con ordine barbaro nelle misure di quelle porte e finestre lunghe lunghe, e ne' garbi di quarti acuti nel girare degli archi, secondo l'uso degli architetti stranieri di que' tempi.
L'anno poi MXIII si vede l'arte aver ripreso alquanto di vigore nel riedificarsi la bellissima chiesa di S.
Miniato in sul Monte al tempo di messer Alibrando cittadino e vescovo di Firenze; perciò che, oltre agli ornamenti che di marmo vi si veggiono dentro e fuori, si vede nella facciata dinanzi, che gli architetti toscani si sforzarono d'imitare nelle porte, nelle finestre, nelle colonne, negl'archi e nelle cornici, quanto potettono il più, l'ordine buono antico, avendolo in parte riconosciuto nell'antichissimo tempio di S.
Giovanni nella città loro.
Nel medesimo tempo la pittura, che era poco meno che spenta affatto, si vide andare riacquistando qualche cosa, come ne mostra il musaico che fu fatto nella capella maggiore della detta chiesa di S.
Miniato.
Da cotal principio, adunque, cominciò a crescere a poco a poco in Toscana il disegno et il miglioramento di queste arti, come si vide l'anno mille e sedici nel dare principio i Pisani alla fabbrica del Duomo loro; perché in quel tempo fu gran cosa metter mano a un corpo di chiesa così fatto di cinque navate, e quasi tutto di marmo, dentro e fuori.
Questo tempio, il quale fu fatto con ordine e disegno di Buschetto, greco da Dulicchio, architettore in quell'età rarissimo, fu edificato et ornato dai Pisani d'infinite spoglie condotte per mare, essendo eglino nel colmo della grandezza loro, di diversi lontanissimi luoghi, come ben mostrano le colonne, base, capitegli, cornicioni, et altre pietre d'ogni sorte che vi si veggiono.
E perché tutte queste cose erano alcune piccole, alcune grandi, et altre mezzane, fu grande il giudizio e la virtù di Buschetto nell'accomodarle, e nel fare lo spartimento di tutta quella fabbrica, dentro e fuori molto bene accommodata.
Et oltre all'altre cose, nella facciata dinanzi, con gran numero di colonne accommodò il diminuire del frontespizio molto ingegnosamente, quello di varii e diversi intagli d'altre colonne e di statue antiche adornando, sì come anco fece le porte principali della medesima facciata; fra le quali, cioè allato a quella del Carroccio, fu poi dato a esso Buschetto onorato sepolcro con tre epitaffi, de' quali è questo uno, in versi latini, non punto dissimili dall'altre cose di que' tempi:
Quod vix mille boum possent iuga iuncta movere,
et quod vix potuit per mare ferre ratis,
Buschetti nisu, quod erat mirabile visu,
dena puellarum turba levavit onus.
E perché si è di sopra fatto menzione della chiesa di S.
Apostolo di Firenze, non tacerò che in un marmo di essa dall'uno de' lati dell'altare maggiore si leggono queste parole: VIII.
V.
die VI aprilis in resurrectione Domini Karolus Francorum Rex a Roma revertens, ingressus Florentiam cum magno gaudio et tripudio susceptus civium, copiam torqueis aureis decoravit [...] Ecclesiam Sanctorum Apostolorum.
In altari inclusa est lamina plumbea, in qua descripta apparet praefata fundatio et consecratio, facta per Archiepiscopum Turpinum testibus Rolando et Uliverio.
L'edifizio sopra detto del Duomo di Pisa, svegliando per tutta Italia et in Toscana massimamente l'animo di molti a belle imprese, fu cagione che nella città di Pistoia si diede principio l'anno mille e trentadue alla chiesa di S.
Paolo, presente il beato Atto, vescovo di quella città, come si legge in un contratto fatto in quel tempo; et insomma a molti altri edifizii, de' quali troppo lungo sarebbe fare al presente menzione.
Non tacerò già, continuando l'andar de' tempi, che l'anno poi mille e sessanta fu in Pisa edificato il tempio tondo di S.
Giovanni, dirimpetto al Duomo et in su la medesima piazza.
E quello che è cosa maravigliosa e quasi del tutto incredibile, si trova, per ricordo in uno antico libro dell'Opera del Duomo, detto che le colonne del detto S.
Giovanni, i pilastri e le volte furono rizzate e fatte in quindici giorni e non più.
E nel medesimo libro, il quale può chiunche n'avesse voglia vedere, si legge che per fare quel tempio fu posta una gravezza d'un danaio per fuoco; ma non vi si dice già se d'oro o di piccioli.
Et in quel tempo erano in Pisa, come nel medesimo libro si vede, trentaquattro mila fuochi.
Fu certo questa opera grandissima di molta spesa e difficile a condursi, e massimamente la volta della tribuna fatta a guisa di pera, e di sopra coperta di piombo.
Il di fuori è pieno di colonne, d'intagli, e d'istorie, e nel fregio della porta di mezzo è un Gesù Cristo con dodici Apostoli di mezzo rilievo, di maniera greca.
I Lucchesi ne' medesimi tempi, cioè l'anno 1061, come concorrenti de' Pisani, principiarono la chiesa di S.
Martino in Lucca col disegno, non essendo allora altri architetti in Toscana, di certi discepoli di Buschetto.
Nella facciata dinanzi della qual chiesa si vede appiccato un portico di marmo con molti ornamenti et intagli di cose fatte in memoria di papa Alessandro Secondo, stato, poco innanzi che fusse assunto al pontificato, vescovo di quella città; della quale edificazione e di esso Alessandro si dice in nove versi latini pienamente ogni cosa.
Il medesimo si vede in alcune altre lettere antiche intagliate nel marmo sotto il portico infra le porte.
Nella detta facciata sono alcune figure, e sotto il portico molte storie di marmo di mezzo rilievo della vita di S.
Martino e di maniera greca; ma le migliori, le quali sono sopra una delle porte, furono fatte centosettanta anni doppo da Nicola Pisano, e finite nel milleduecentotrentatre come si dirà al luogo suo, essendo Operai, quando si cominciarono, Abellenato et Aliprando, come per alcune lettere nel medesimo luogo intagliate in marmo, apertamente si vede.
Le quali figure di mano di Nicola Pisano mostrano quanto per lui migliorasse l'arte della scultura.
Simili a questi furono per lo più, anzi tutti gli edifizii, che dai tempi detti di sopra insino all'anno milledugentocinquanta furono fatti in Italia, perciò che poco o nullo acquisto o miglioramento si vide nello spazio di tanti anni avere fatto l'architettura, ma essersi stata nei medesimi termini et andata continuando in quella goffa maniera della quale ancora molte cose si veggiono, di che non farò al presente alcuna memoria, perché se ne dirà di sotto, secondo l'occasioni che mi si porgeranno.
Le sculture e le pitture similmente buone state sotterrate nelle rovine d'Italia, si stettono insino al medesimo tempo rinchiuse o non conosciute dagli uomini ingrossati nelle goffezze del moderno uso di quell'età, nella quale non si usavano altre sculture né pitture, che quelle le quali un residuo di vecchi artefici di Grecia facevano, o in imagini di terra e di pietra o dipignendo figure mostruose e coprendo solo i primi lineamenti di colore.
Questi artefici, come migliori, essendo soli in queste professioni, furono condotti in Italia, dove portarono, insieme col musaico, la scultura e la pittura in quel modo che la sapevano; e così le insegnarono agli Italiani goffe e rozzamente; i quali Italiani poi se ne servirono, come si è detto e come si dirà, insino a un certo tempo.
E gli uomini di quei tempi non essendo usati a veder altra bontà né maggior perfezzione nelle cose di quella che essi vedevano, si maravigliavano, e quelle ancora che baronesche fossero, nondimeno per le migliori apprendevano.
Pur, gli spirti di coloro che nascevano, aitati in qualche luogo dalla sottilità dell'aria, si purgarono tanto, che nel MCCL il cielo, a pietà mossosi dei begli ingegni che 'l terren toscano produceva ogni giorno, li ridusse alla forma primiera.
E sebbene gli innanzi a loro avevano veduto residui d'archi, o di colossi, o di statue, o pili, o colonne storiate, nell'età che furono dopo i sacchi e le ruine e gl'incendi di Roma, e' non seppono mai valersene o cavarne profitto alcuno, sino al tempo detto di sopra.
Gli ingegni che vennero poi, conoscendo assai bene il buono dal cattivo, e abbandonando le maniere vecchie, ritornarono ad imitare le antiche con tutta l'industria et ingegno loro.
Ma perché più agevolmente s'intenda quello che io chiami vecchio et antico, antiche furono le cose innanzi a Costantino, di Corinto, d'Atene e di Roma, e d'altre famosissime città, fatte fino a sotto Nerone, ai Vespasiani, Traiano, Adriano et Antonino; perciò che l'altre si chiamano vecchie, che da S.
Salvestro in qua furono poste in opera da un certo residuo de' Greci; i quali piuttosto tignere che dipignere sapevano.
Perché essendo in quelle guerre morti gl'eccellenti primi artefici, come si è detto, al rimanente di que' Greci vecchi, e non antichi, altro non era rimaso che le prime linee in un campo di colore; come di ciò fanno fede oggidì infiniti musaici, che per tutta Italia lavorati da essi Greci si veggono per ogni vecchia chiesa di qualsivoglia città d'Italia, e massimamente nel Duomo di Pisa, in S.
Marco di Vinegia, et ancora in altri luoghi; e così molte pitture, continovando, fecero di quella maniera con occhi spiritati e mani aperte in punta di piedi, come si vede ancora in S.
Miniato fuor di Fiorenza fra la porta che va in sagrestia e quella che va in convento et in S.
Spirito di detta città tutta la banda del chiostro verso la chiesa, e similmente in Arezzo in S.
Giuliano et in S.
Bartolomeo et in altre chiese, et in Roma in S.
Pietro, nel vecchio, storie intorno intorno fra le finestre, cose che hanno più del mostro nel lineamento che effigie di quel ch'e' si sia.
Di scultura ne fecero similmente infinite, come si vede ancora sopra la porta di S.
Michele a piazza Padella di Fiorenza, di basso rilievo; et in Ogni Santi, e per molti luoghi, sepulture et ornamenti di porte per chiese, dove hanno per mensole certe figure per regger il tetto così goffe e sì ree, e tanto malfatte di grossezza e di maniera, che par impossibile che imaginare peggio si potesse.
Sino a qui mi è parso discorrere dal principio della scultura e della pittura, e per avventura più largamente che in questo luogo non bisognava; il che ho io però fatto, non tanto trasportato dall'affezzione dell'arte, quanto mosso dal benefizio et utile comune degli artefici nostri: i quali, avendo veduto in che modo ella da piccol principio si conducesse alla somma altezza, e come da grado sì nobile precipitasse in ruina estrema, e per conseguente la natura di quest'arte, simile a quella dell'altre, che come i corpi umani hanno il nascere, il crescere, lo invecchiare et il morire, potranno ora più facilmente conoscere il progresso della sua rinascita e di quella stessa perfezzione dove ella è risalita ne' tempi nostri.
Et a cagione ancora, che se mai (il che non acconsenta Dio) accadesse per alcun tempo per la trascuraggine degli uomini o per la malignità de' secoli, oppure per ordine de' cieli, i quali non pare che voglino le cose di quaggiù mantenersi molto in uno essere, ella incorresse di nuovo nel medesimo disordine di rovina, possano queste fatiche mie, qualunche elle si siano (se elle però saranno degne di più benigna fortuna), per le cose discorse innanzi e per quelle che hanno da dirsi, mantenerla in vita, o almeno dare animo ai più elevati ingegni di provederle migliori aiuti; tanto che con la buona volontà mia e con le opere di questi tali ella abbondi di quegli aiuti et ornamenti, dei quali (siami lecito liberamente dire il vero) ha mancato sino a quest'ora.
Ma tempo è di venire oggimai alla vita di Giovanni Cimabue, il quale, sì come dette principio al nuovo modo di disegnare e di dipignere, così è giusto e conveniente che e' lo dia ancora alle Vite, nelle quali mi sforzerò di osservare, il più che si possa, l'ordine delle maniere loro, più che del tempo.
E nel descrivere le forme e le fattezze degli artefici sarò breve, perché i ritratti loro, i quali sono da me stati messi insieme con non minore spesa e fatica che diligenza, meglio dimostreranno quali essi artefici fussero quanto all'effigie, che il raccontarlo non farebbe già mai; e se d'alcuno mancasse il ritratto, ciò non è per colpa mia, ma per non si essere in alcuno luogo trovato.
E se i detti ritratti non paressero a qualcuno per avventura simili affatto ad altri che si trovassono, voglio che si consideri che il ritratto fatto d'uno quando era di diciotto o venti anni, non sarà mai simile al ritratto che sarà stato fatto quindici o venti anni poi.
A questo si aggiugne, che i ritratti dissegnati non somigliano mai tanto bene quanto fanno i coloriti; senza che gli intagliatori, che non hanno disegno, tolgono sempre alle figure, per non potere né sapere fare appunto quelle minuzie che le fanno esser buone e somigliare quella perfezzione che rade volte o non mai hanno i ritratti intagliati in legno.
Insomma quanta sia stata in ciò la fatica, spesa, e diligenza mia, coloro il sapranno che leggendo vedranno onde io gli abbia quanto ho potuto il meglio ricavati, etc.
FINE DEL PROEMIO DELLE VITE
DELLE VITE DE' PITTORI, SCULTORI E ARCHITETTORI CHE SONO STATI DA CIMABUE IN QUA
SCRITTE DA MESSER GIORGIO VASARI PITTORE ARETINO
PARTE PRIMA
VITA DI CIMABUE PITTORE FIORENTINO
Erano per l'infinito diluvio de' mali che avevano cacciato al disotto et affogata la misera Italia, non solamente rovinate quelle che veramente fabriche chiamar si potevano, ma, quello che importava più, spento affatto tutto il numero degl'artefici; quando, come Dio volle, nacque nella città di Fiorenza, l'anno MCCXL, per dar e' primi lumi all'arte della pittura, Giovanni cognominato Cimabue, della nobil famiglia in que' tempi d'i Cimabui.
Costui, crescendo, per esser giudicato dal padre e da altri di bello e acuto ingegno, fu mandato, acciò si esercitasse nelle lettere, in S.
Maria Novella a un maestro suo parente, che allora insegnava grammatica a' novizii di quel convento; ma Cimabue in cambio d'attendere alle lettere, consumava tutto il giorno, come quello che a ciò si sentiva tirato dalla natura, in dipignere, in su' libri et altri fogli, uomini, cavalli, casamenti et altre diverse fantasie; alla quale inclinazione di natura fu favorevole la fortuna; perché essendo chiamati in Firenze, da chi allora governava la città, alcuni pittori di Grecia, non per altro, che per rimettere in Firenze la pittura più tosto perduta che smarrita, cominciarono, fra l'altre opere tolte a far nella città, la cappella de' Gondi, di cui oggi le volte e le facciate sono poco meno che consumate dal tempo, come si può vedere in S.
Maria Novella allato alla principale capella, dove ell'è posta.
Onde Cimabue, cominciato a dar principio a questa arte che gli piaceva, fuggendosi spesso dalla scuola, stava tutto il giorno a vedere lavorare que' maestri; di maniera che, giudicato dal padre e da quei pittori in modo atto alla pittura, che si poteva di lui sperare, attendendo a quella professione, onorata riuscita; con non sua piccola sodisfazzione fu da detto suo padre acconcio con esso loro; là dove, di continuo esercitandosi, l'aiutò in poco tempo talmente la natura, che passò di gran lunga, sì nel disegno come nel colorire, la maniera de' maestri che gli insegnavano; i quali, non si curando passar più innanzi, avevano fatte quelle opre nel modo che elle si veggono oggi, cioè non nella buona maniera greca antica, ma in quella goffa moderna di que' tempi; e perché, sebbene imitò que' Greci, aggiunse molta perfezzione all'arte, levandole gran parte della maniera loro goffa, onorò la sua patria col nome e con l'opre che fece; di che fanno fede in Fiorenza le pitture che egli lavorò, come il dossale dell'altare di S.
Cecilia, et in S.
Croce una tavola drentovi una Nostra Donna, la quale fu et è ancora appoggiata in uno pilastro a man destra intorno al coro.
Doppo la quale fece in una tavoletta in campo d'oro un S.
Francesco, e lo ritrasse, il che fu cosa nuova in que' tempi, di naturale, come seppe il meglio, et intorno a esso tutte l'istorie della vita sua in venti quadretti pieni di figure picciole in campo d'oro.
Avendo poi preso a fare per i monaci di Vall'Ombrosa nella Badia di Santa Trinita di Fiorenza una gran tavola, mostrò in quell'opera, usandovi gran diligenza per rispondere alla fama che già era conceputa di lui, migliore invenzione, e bel modo nell'attitudini d'una Nostra Donna, che fece col Figliuolo in braccio e con molti Angeli intorno che l'adoravano in campo d'oro; la qual tavola finita, fu posta, da que' monaci in sull'altar maggiore di detta chiesa, donde essendo poi levata, per dar quel luogo alla tavola che v'è oggi di Alesso Baldovinetti, fu posta in una cappella minor della navata sinistra di detta chiesa.
Lavorando poi in fresco allo Spedale del Porcellana sul canto della via Nuova che va in Borgo Ogni Santi, nella facciata dinanzi che ha in mezzo la porta principale, da un lato la Vergine Annunziata da l'Angelo, e da l'altro Gesù Cristo con Cleofas e Luca, figure grandi quanto il naturale, levò via quella vecchiaia, facendo in quest'opra, i panni, e le vesti, e l'altre cose un poco più vive, e naturali, e più morbide che la maniera di que' Greci, tutta piena di linee e di proffili così nel musaico come nelle pitture; la qual maniera scabrosa e goffa et ordinaria avevano, non mediante lo studio, ma per una cotal usanza insegnato l'uno all'altro per molti e molti anni i pittori di que' tempi, senza pensar mai a migliorare il disegno, a bellezza di colorito, o invenzione alcuna che buona fusse.
Essendo dopo quest'opera richiamato Cimabue dallo stesso guardiano che gl'aveva fatto fare l'opere di S.
Croce, gli fece un Crocifisso grande in legno che ancora oggi si vede in chiesa; la quale opera fu cagione, parendo al guardiano esser stato servito bene, che lo conducesse in S.
Francesco di Pisa loro convento, a fare in una tavola un S.
Francesco, che fu da que' popoli tenuto cosa rarissima, conoscendosi in esso un certo che più di bontà, e nell'aria della testa e nelle pieghe de' panni, che nella maniera greca non era stata usata in sin allora da chi aveva alcuna cosa lavorato non pur in Pisa, ma in tutta Italia.
Avendo poi Cimabue per la medesima chiesa fatto in una tavola grande l'immagine di Nostra Donna col Figliuolo in collo, e con molti Angeli intorno pur in campo d'oro, ella fu dopo non molto tempo levata di dove ell'era stata collocata la prima volta, per farvi l'altare di marmo che vi è al presente, e posta dentro alla chiesa allato alla porta a man manca; per la quale opera fu molto lodato e premiato da' Pisani.
Nella medesima città di Pisa fece a richiesta dell'abbate allora di S.
Paolo in Ripa d'Arno, in una tavoletta una S.
Agnesa, et intorno a essa, di figure piccole, tutte le storie della vita di lei; la qual tavoletta è oggi sopra l'altare delle Vergini in detta chiesa.
Per queste opere, dunque, essendo assai chiaro per tutto il nome di Cimabue, egli fu condotto in Ascesi, città dell'Umbria, dove in compagnia d'alcuni maestri greci dipinse nella chiesa di sotto di S.
Francesco parte delle volte, e nelle facciate la vita di Gesù Cristo e quella di S.
Francesco, nelle quali pitture passò di gran lunga que' pittori greci; onde cresciutogli l'animo, cominciò da sé solo a dipigner a fresco la chiesa di sopra, e nella tribuna maggiore fece sopra il coro in quattro facciate alcune storie della Nostra Donna, cioè la morte, quando è da Cristo portata l'anima di lei in cielo sopra un trono di nuvole, e quando in mezzo a un coro d'Angeli la corona, essendo da piè gran numero di Santi e Sante, oggi dal tempo e dalla polvere consumati.
Nelle crociere poi delle volte di detta chiesa, che sono cinque, dipinse similmente molte storie.
Nella prima sopra il coro fece i quattro Evangelisti maggiori del vivo, e così bene, che ancor oggi si conosce in loro assai del buono; e la freschezza de' colori nelle carni, mostrano che la pittura cominciò a fare, per le fatiche di Cimabue, grande acquisto nel lavoro a fresco.
La seconda crociera fece piena di stelle d'oro in campo d'azzurro oltramarino.
Nella terza fece in alcuni tondi Gesù Cristo, la Vergine sua madre, S.
Giovanni Battista, e S.
Francesco, cioè in ogni tondo una di queste figure, et in ogni quarto della volta un tondo.
E fra questa e la quinta crociera dipinse la quarta di stelle d'oro, come di sopra, in azzurro d'oltramarino.
Nella quinta dipinse i quattro Dottori della Chiesa, et appresso a ciascuno di loro una delle quattro prime religioni; opera certo faticosa e condotta con diligenza infinita.
Finite le volte, lavorò pure in fresco le facciate di sopra della banda manca di tutta la chiesa, facendo verso l'altar maggiore fra le finestre et insino alla volta otto storie del Testamento Vecchio, cominciandosi dal principio del Genesi, e seguitando le cose più notabili.
E nello spazio che è intorno alle finestre insino a che le terminano in sul corridore che gira intorno dentro al muro della chiesa, dipinse il rimanente del Testamento Vecchio in altre otto storie.
E dirimpetto a quest'opera in altre sedici storie, ribattendo quelle, dipinse i fatti di Nostra Donna e di Gesù Cristo.
E nella facciata da piè sopra la porta principale e intorno all'occhio della chiesa, fece l'ascendere di lei in cielo, e lo Spirito Santo che discende sopra gl'Apostoli.
La qual opera veramente grandissima e ricca e benissimo condotta dovette, per mio giudizio, fare in quei tempi stupire il mondo, essendo massimamente stata la pittura tanto tempo in tanta cecità; et a me, che l'anno 1563 la rividi, parve bellissima, pensando come in tante tenebre potesse veder Cimabue tanto lume.
Ma di tutte queste pitture (al che si deve aver considerazione) quelle delle volte, come meno dalla polvere e dagl'altri accidenti offese, si sono molto meglio che l'altre conservate.
Finite queste opere, mise mano Giovanni a dipignere le facciate di sotto, cioè quelle che sono dalle finestre in giù, e vi fece alcune cose; ma essendo a Firenze da alcune sue bisogne chiamato, non seguitò altramente il lavoro, ma lo finì, come al suo luogo si dirà, Giotto molti anni dopo.
Tornato, dunque, Cimabue a Firenze, dipinse nel chiostro di S.
Spirito, dove è dipinto alla greca da altri maestri tutta la banda di verso la chiesa, tre archetti di sua mano della vita di Cristo, e certo con molto disegno.
E nel medesimo tempo mandò alcune cose da sé lavorate in Firenze a Empoli, le quali ancor oggi sono nella Pieve di quel castello tenute in gran venerazione.
Fece poi per la chiesa di Santa Maria Novella la tavola di Nostra Donna, che è posta in alto fra la capella de' Rucellai e quella de' Bardi da Vernia; la qual opera fu di maggior grandezza, che figura che fusse stata fatta insin a quel tempo; et alcuni Angeli che le sono intorno, mostrano, ancor che egli avesse la maniera greca, che s'andò accostando in parte al lineamento e modo della moderna, onde fu questa opera di tanta maraviglia ne' popoli di quell'età, per non si esser veduto insino allora meglio, che da casa di Cimabue fu con molta festa e con le trombe, alla chiesa portata con solennissima processione, et egli perciò molto premiato et onorato.
Dicesi, et in certi ricordi di vecchi pittori si legge, che mentre Cimabue la detta tavola dipigneva in certi orti appresso porta S.
Piero, che passò il re Carlo il vecchio d'Angiò per Firenze, e che fra le molte accoglienze fattegli dagli uomini di questa città, e' lo condussero a vedere la tavola di Cimabue, e che per non essere ancora stata veduta da nessuno, nel mostrarsi al Re vi concorsero tutti gli uomini e tutte le donne di Firenze, con grandissima festa e con la maggior calca del mondo.
Laonde per l'allegrezza che n'ebbero i vicini, chiamarono quel luogo Borgo Allegri, il quale col tempo messo fra le mura della città, ha poi sempre ritenuto il medesimo nome.
In S.
Francesco di Pisa, dove egli lavorò, come si è detto di sopra, alcune altre cose, è di mano di Cimabue nel chiostro allato alla porta che entra in chiesa in un cantone una tavolina a tempera, nella quale è un Cristo in croce con alcuni Angeli attorno, i quali piangendo pigliano con le mani certe parole che sono scritte intorno alla testa di Cristo, e le mandano all'orecchie d'una Nostra Donna che a man ritta sta piangendo, e dall'altro lato a S.
Giovanni Evangelista, che è tutto dolente, a man sinistra; e sono le parole alla Vergine: Mulier, ecce filius tuus, e quelle a S.
Giovanni: Ecce mater tua, e quelle che tiene in mano un altr'angelo appartato dicono: Ex illa hora accepit eam discipulus in suam.
Nel che è da considerare che Cimabue cominciò a dar lume et aprire la via all'invenzione, aiutando l'arte con le parole per esprimere il suo concetto, il che certo fu cosa capricciosa e nuova.
Ora, perché mediante queste opere s'aveva acquistato Cimabue, con molto utile, grandissimo nome, egli fu messo per architetto in compagnia d'Arnolfo Lapi, uomo allora nell'architettura eccellente, alla fabrica di S.
Maria del Fiore in Fiorenza.
Ma finalmente, essendo vivuto sessanta anni, passò all'altra vita l'anno milletrecento, avendo poco meno che resuscitata la pittura.
Lasciò molti discepoli, e fra gli altri Giotto che poi fu eccellente pittore; il quale Giotto abitò dopo Cimabue nelle proprie case del suo maestro nella via del Cocomero.
Fu sotterrato Cimabue in S.
Maria del Fiore, con questo epitaffio fattogli da uno de' Nini:
Credidit ut Cimabos picturae castra tenere,
sic tenuit vivens; nunc tenet astra poli.
Non lascerò di dire che, se alla gloria di Cimabue non avesse contrastato la grandezza di Giotto suo discepolo, sarebbe stata la fama di lui maggiore, come ne dimostra Dante nella sua Commedia, dove alludendo nell'undecimo canto del Purgatorio alla stessa inscrizzione della sepoltura, disse:
Credette Cimabue nella pintura
tener lo campo, et ora ha Giotto il grido;
sì che la fama di colui oscura.
Nella dichiarazione de' quali versi, un comentatore di Dante, il quale scrisse nel tempo che Giotto vivea, e dieci o dodici anni dopo la morte d'esso Dante, cioè intorno agli anni di Cristo milletrecentotrentaquattro, dice, parlando di Cimabue, queste proprie parole precisamente: "Fu Cimabue di Firenze pintore nel tempo di l'autore, molto nobile di più che omo sapesse, e con questo fue sì arogante e sì disdegnoso, che si per alcuno li fusse a sua opera posto alcun fallo o difetto, o elli da sé l'avessi veduto, ché, come accade molte volte, l'artefice pecca per difetto della materia, in che adopra, o per mancamento ch'è nello strumento con ch'e' lavora, immantenente quell'opra disertava, fussi cara quanto volesse.
Fu et è Giotto in tra li dipintori il più sommo della medesima città di Firenze, e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vignone, a Firenze, a Padova et in molte parti del mondo, etc.".
Il qual comento è oggi appresso il molto reverendo don Vincenzio Borghini priore degl'Innocenti, uomo non solo per nobiltà, bontà e dottrina chiarissimo, ma anco così amatore et intendente di tutte l'arti migliori, che ha meritato esser giudiziosamente elett
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