[Pagina precedente]...aver pensato bene e di aver scritto male. Ciò in un secondo tentativo avrebbe potuto essere corretto. Intanto gli pareva che quegli appunti potevano servirgli per la giovinetta. Per lui che tante volte dacché aveva aperti gli occhi al senno aveva dovuto star a sentire predicazioni di morale, quella roba non faceva. Ma la giovinetta era probabilmente stanca a quell'ora di molte cose di questo mondo, ma non di morale. Forse quelle parole ch'egli aveva scritto sentendole ma che ora, leggendole, non sentiva piú, l'avrebbero commossa.
Anche quella notte fu inquieta ma non sgradevole. L'insonnia prolungata è sempre un po' delirante. Non tutte le cellule rimangono deste. Certe realtà scompaiono e quelle che restano deste si sviluppano senza freno. Il vecchio sorrideva a se stesso come a grande scrittore. Egli sapeva di aver da dire qualche cosa al mondo, solo in quel dormiveglia non sapeva bene che cosa. Però era cosciente di essere a mezzo addormentato e sarebbe pur venuto il giorno e la luce a completare la sua mente.
Quando finalmente, verso la mattina, s'addormentò, ebbe un sogno che cominciò bene e che finà male. Egli si trovava in mezzo ad una folla di uomini disposti in circolo sulla grande piazza d'armi. Egli presentava a tutti la giovinetta vestita dei suoi cenci colorati e tutti l'applaudivano come se l'avesse fatta lui cosà bella. Poi essa s'aggrappava a un trapezio che attaccato ad un trolley camminava in circolo proprio al di sopra di tutta quella gente. E come essa passava tutti le carezzavano le gambe. Anche lui ansioso aspettava quelle gambe per carezzarle, ma a lui mai giungevano e quando a lui giunsero non ne aveva piú bisogno. E tutta quella gente si mise a urlare. Urlava una parola sola, ma egli non la intese finché non fu trascinato ad urlarla anche lui. Suonava: aiuto!
Si destò coperto da un sudore freddo: la grande angina lo crocifiggeva sul letto. Moriva. La morte, nella stanza, non era rappresentata che da un batter d'ali. Era la morte stessa che era penetrata in lui assieme alla spada velenosa che s'arcuava nel suo braccio e nel suo petto. Egli era tutto dolore e paura. Piú tardi pensò che alla sua disperazione avesse collaborato anche il rimorso per il sozzo sogno. Ma nel grande dolore potevano capire tutti i sentimenti che nella sua vita gli avessero offuscata l'anima e perciò anche la sua avventura con la giovinetta.
Quando il dolore e la paura sparvero egli studiò ancora quella sua suprema preoccupazione. Forse egli credeva con quello studio di avviarsi ad una grande cura. Come era importante quella giovinetta nella sua vita! Per causa sua s'era ammalato. Ora essa lo perseguitava nei sogni e lo minacciava di morte. Era piú importante di tutti e di tutto il resto della sua vita. Anche quello che in lei disprezzava era importante. Ecco che quelle gambe che in realtà lo avevano indignato, nel sogno lo avevano corrotto. Nel sogno essa era apparsa vestita di cenci ma le gambe erano proprio quelle del giorno prima, coperte di calze di seta.
Venne il medico con le sue solite prescrizioni e la sua solita calma fiduciosa, inalterabile finché l'angina pectoris toccava a lui, solo per la cura. Dichiarò che questo sarebbe stato l'ultimo assalto. - Il grande dolore era anzi un sintomo favorevole visto che negli organismi sfatti non si producono mai grandi dolori. - Poi: s'avvicinava la buona stagione. Era certo che la guerra stava per finire e che il vecchio avrebbe potuto recarsi in qualche buon luogo di cura.
L'infermiera non dimenticò di avvisare il medico della visita che il vecchio aveva ricevuta il giorno prima. Il medico, sorridendo, raccomandò di non accettare piú simili visite finché egli non lo avesse permesso.
Con fermezza virile il vecchio respinse la proibizione. Bisognava guarirlo senza proibirgli nulla. Quella visita non poteva averlo danneggiato e si risentiva di quella supposizione come di un'offesa. In seguito egli avrebbe chiamato a sé la giovinetta e l'avrebbe veduta di frequente. Il medico - se l'avesse voluto - avrebbe potuto accertarsi che quelle visite non potevano nuocergli.
Tale atteggiamento del vecchio in quello stesso giorno subito dopo di aver tanto sofferto era la manifestazione di una grande vera nobiltà . Egli stesso sentiva di dare una prova di forza. Gli altri non potevano sapere che la grande angina non era stata l'avventura piú importante di quella notte. La sua vita non poteva svolgersi fra letto e lettuccio come sino ad allora. Doveva divenire piú intensa e piú estesa perché il suo pensiero non poteva aggirarsi intorno alla propria personcina. Intendeva di seguire le prescrizioni del medico, ma credeva di saper anche dell'altro ch'era importante per la sua cura e ch'egli non voleva dire al medico.
Il medico non discusse perché da buon praticone com'era non credeva che la discussione fosse una buona cura.
La cessazione di un grande dolore è una grande dolcezza e il vecchio ne visse per quel giorno. La libertà di moversi e di respirare è una vera felicità per chi ne è stato privo e sia pure per qualche istante. Tuttavia egli, quello stesso giorno, trovò il tempo di scrivere alla giovinetta. Le mandava i denari che le aveva destinati fin dal giorno prima e l'avvisava che gliene avrebbe mandati altri in seguito. La pregava di non venire da lui finché egli non l'avesse chiamata visto che s'era ammalato.
Egli ora sapeva ch'egli amava la fanciulla dai cenci colorati e l'amava come una figlia. L'aveva posseduta in realtà e l'aveva posseduta nel sogno, anzi nei due sogni. In ambedue i sogni, affermava il vecchio a se stesso non sapendo che i sogni si fanno di notte e si completano di giorno, c'era stato un grande dolore forse causa del male da cui era stato colto, quello della compassione. Cosà era fatto il destino della giovinetta ed egli vi aveva collaborato. Per colpa sua essa aveva camminato le vie col campanello di richiamo attaccato ai piedi oppure, addirittura legata ad un trolley, era scivolata su quel cerchio, offrendosi agli occhi e alle mani degli uomini. E non importava che la giovinetta ch'era stata a trovarlo il giorno prima, non avesse saputo destare nel suo animo alcun sentimento di compassione o di affetto. Essa, ora, era fatta cosà e bisognava salvarla mutandola in modo da farla ridivenire la buona, cara fanciulla, che - purtroppo! - era stata sua e che egli ora amava per la sua debolezza che chiamava carezze e protezione.
Quanta dolcezza gli derivava da tale proposito! Una dolcezza che invadeva ogni sua fibra ma che modificava ogni cosa ed ogni persona, persino la sua infermiera, ma anzi persino la propria malattia che egli pensava di poter combattere.
Già il giorno appresso egli chiamò il notaio e fece un testamento col quale all'infuori di alcuni legati che a lui parvero importanti, ma che in confronto al suo patrimonio erano esigui, legò tutto quanto possedeva alla giovinetta. Ecco ch'essa almeno non avrebbe piú avuto alcun bisogno di vendersi.
L'educazione della giovinetta avrebbe cominciato quando egli, dopo di essersi raccolto, sarebbe stato capace di dargliela. Impiegò alcuni giorni a rifare gli appunti stesi il giorno prima e che dovevano servire di base alle prediche che voleva tenere alla giovinetta. Poi li distrusse non essendone soddisfatto. Egli ora sapeva esattamente dove stava l'errore commesso da lui e da lei e che aveva procurato a lui la malattia e a lei la corruzione. Non era il fatto di non aver pagato adeguatamente l'amore o di avere abbandonato la giovinetta che doveva rimordergli. Egli aveva sbagliato quando l'aveva accostata a quel modo. Era quello l'errore che bisognava studiare. Perciò cominciò a stendere nuove note sui rapporti che dovevano e potevano correre fra giovani e vecchi. Egli sentiva di non aver diritto d'interdire l'amore alla giovinetta. L'amore, per essa, poteva ancora essere morale, ma bisognava interdirle ogni amore disordinato e prima di tutto l'amore coi vecchi. Nei suoi appunti, per qualche tempo, egli cercò di cacciare accanto ai vecchi che bisognava evitare anche quello zerbinotto dall'ombrello fine ch'egli non aveva ancora dimenticato. Ciò gli complicava il compito e rendeva i suoi appunti meno sicuri e diritti. Lo zerbinotto poi scomparve da quegli appunti e restarono soli, di faccia l'uno all'altro, il vecchio e la giovine.
Il tempo passava ed egli non si sentiva mai pronto a chiamare a sé la giovinetta. Aveva scritto molto, ma bisognava metter ordine in quei suoi appunti perché fossero a portata di mano al momento in cui ve ne sarebbe stato bisogno. Faceva pervenire alla giovinetta ogni settimana col mezzo del proprio impiegato un certo importo e le scriveva che non stava ancora abbastanza bene per riceverla. Credeva di dire la verità il buon vecchio ed era vero che del tutto bene non stava, ma non certo peggio di quanto era stato prima dell'ultimo assalto. Però ora tendeva alla salute assoluta dell'uomo operoso e quella non era ancora giunta.
Si sentiva meglio perché in lui era rinata la fiducia. Questa fiducia per un certo tempo aumentò continuamente in rapporto diretto all'attaccamento suo alla vita, cioè al suo lavoro. Un giorno, rileggendo quanto aveva scritto, nacque nella mente del vecchio la teoria, la pura teoria e dalla quale fu eliminata la giovinetta e lui stesso. Anzi la teoria nacque precisamente per queste due eliminazioni. La giovinetta che riceveva da lui solo denaro perdette presto ogni importanza. Le piú forti impressioni finiscono col lasciare nell'animo solo una leggera eco che non si percepisce se non si ricerca, e a quell'ora il vecchio, dal ricordo di quella giovinetta ch'egli aveva amata e che non esisteva piú, sentiva sorgere un coro di voci giovanili che domandavano soccorso. In quanto a lui, in seguito alla teoria, cambiò d'aspetto per una doppia metamorfosi. Prima di tutto egli divenne tutt'altra cosa di quel vecchio egoista che aveva corrotto una giovinetta per goderne e non pagarla, perché si vedeva confuso con mille altri che volentieri avrebbero fatto o facevano la stessa cosa. Non era possibile soffrirne. La sua si trovava accanto a migliaia d'altre teste candide e sotto a quel candore v'era in tutte la stessa malizia. Lui, poi, divenne tutt'altra cosa di tutti gli altri! Egli era l'alto, il puro teorista nettato dalla sua sincerità da ogni malizia. Ed era una sincerità facile perché non si trattava di confessare, ma di studiare e scoprire.
Non scriveva piú per la giovinetta. Avrebbe dovuto tenersi terra terra per essere da lei compreso e non ne valeva la pena. Egli credeva di scrivere per la generalità e forse anche per il legislatore. Non ricercava egli una parte importante delle leggi morali che, secondo lui, dovevano reggere il mondo?
Sconfinata era la fiducia che fu versata nel suo animo dal lavoro. La teoria era lunga e perciò non si poteva morire prima di averla compiuta. Gli pareva di non dover aver fretta. Una potenza superiore avrebbe vigilato perché egli potesse arrivare alla fine della sua opera tanto importante. Fece il titolo con la sua bella e grande scrittura: Dei rapporti tra vecchiaia e gioventú. Poi, quando s'accinse alla prefazione, pensò che per la pubblicazione avrebbe dovuto far disegnare una bella vignetta illustrativa del titolo. Non trovò il modo di mettervi quella piattaforma della Tramvia con la giovinetta al freno e un vecchio che la strappa al lavoro. Era difficile, anche da parte del miglior disegnatore, di esprimere chiaramente l'idea con quegli elementi. Poi ebbe un'ispirazione (non gli mancava neppure un'ispirazione): la vignetta doveva rappresentare un fanciullo decenne che conduce un vecchio ubriaco. Chiamò anche un disegnatore che eseguisse subito il disegno. Ne ebbe uno sgorbio e il vecchio lo rifiutò e dichiarò che quando sarebbe stato ben sano avrebbe cercato lui stesso in città il disegnatore che facesse al caso suo.
Nella bella stagione ch'era finalmente arrivata, il vecchio si metteva a scrivere già di buon mattino. Lasciava poi volentieri di scrivere per sottoporsi alle solite cure perc...
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