DISCORSO DELLA VIRTU' FEMINILE E DONNESCA, di Torquato Tasso - pagina 2
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Le virtù o son poste nella parte affettuosa o nell'intellettiva: ma delle virtù poste nell'affettuosa, un ordine è collocato nella potenza concupiscibile, ch'è quella c'ha per obietto il bene; e in quest'ordine è la temperanza, di cui è parte la pudicizia: l'altro è posto nell'irascibile, ch'ha per oggetto il bene in quanto gli è difficile.
Di questi due ordini, quel che modera gli affetti della concupiscenza è proprio della donna; ma l'altro, che l'ira e gli affetti dell'ira compagni suol temperare, all'uomo par che più si convenga; ma di quell'altre virtù, che più nell'intellettual parte son poste, a pena par che la donna debba participare, per ciò che gli abiti dell'intelletto speculativo a lei non si convengono, e della prudenza e degli altri che son nell'intelletto pratico, a pena participa, perciò che la prudenza, ch'è propriamente virtù, che comanda a gli altri, ed è regola dell'altre virtù, nella donna è serva della prudenza dell'uomo, e non deve essere se non tanta, quanta basta per ubbidire alla prudenza virile.
Ma perciò che l'intelletto ha il suo appetito, che seguita la sua cognizione, in quel modo che l'appetito del senso segue il conoscimento del senso, e questo è detto volontà, quivi ancora sono alcune virtù, delle quali la donna è priva.
E in quest'ordine da alcuni la giustizia è annoverata e la clemenza, parte della giustizia, che contien l'equità.
Direm, dunque, che delle virtù men di tutte l'altre si convengono alla donna quelle che son poste nella parte intellettuale, che conosce; e degli altri tre ordini, men sono suoi proprii i due posti nell'appetito dell'intelletto e dell'ira, e più è suo proprio quello ch'è collocato nell'appetito della concupiscenza.
Ma perché le virtù di quest'ordine ancora son molte, propriissima sua è la virtù della temperanza, della quale è parte la pudicizia.
E questa distinzione di proprio e di più proprio e di propriissimo non deve altrui parer nuova o inconveniente, poiché ne' primi principii della loica è ricevuta; se ben io so che ivi propriissiimo è detto quello che sempre a tutti gli animali d'una specie conviene, e lor solamente; ove la pudicizia propriissima non par che sia della donna, poiché a gli uomini ancora in alcun modo conviene.
E tanto intorno alla virtù feminea civile voglio che mi giovi aver filosofato.
E se nel filosofare più alla peripatetica che alla platonica opinione mi sono accostato, ho seguita per duce non tanto l'autorità quanto la ragione, con la scorta della quale se pur errar si può, meglio è l'errare che guidato dall'autorità andare a dritto camino.
Ma a chi scriv'io della feminil virtù? non già ad una cittadina o ad una gentildonna privata, né ad una industriosa madre di famiglia, ma ad una nata di sangue imperiale ed eroico, la qual con le proprie virtù agguaglia le virili virtù di tutti i suoi gloriosi antecessori.
Dunque, non più la feminil virtù, ma la donnesca virtù si consideri: né più s'usi il nome di femina, ma quel di donnesco, il qual tanto vale quanto signorile.
Onde appresso Dante si legge:
Donnescamente disse: vien con nui;
così signorilmente e imperiosamente.
Or considerando non la feminea ma la donnesca virtù, dico che sì come fra gli uomini sono alcuni ch'eccedendo l'umana condizione sono stimati eroi, così fra le donne molte ci nascono d'animo e di virtù eroica, e molte ancora nate di sangue regio, se ben perfettamente non si possono chiamar donne eroiche, molto nondimeno alle donne eroiche s'assomigliano; e queste non son parte della città, perciò che gli eroi in alcun modo non sono, e de' re si può dubitare se siano o non siano, e quando pur siano, la virtù regia in tutto dalla virtù propriamente civile è distinta.
La virtù, dunque, delle donne sì fatte, non è virtù civile, né secondo la distinzione e l'opportunità degli uffici civili deve essere considerata, e molto meno secondo la necessità del governo famigliare, perciò che il governo famigliare non appartiene alle donne eroiche e regie; e se pur appartiene, è d'altra sorte che 'l civile e 'l privato.
E sappiasi che quattro maniere d'economio o di governi famigliari, che vogliam chiamarli, pone Aristotele: l'uno è detto regio, l'altro satrapico, il terzo civile, e l'ultimo privato.
E se 'al governo regio famigliare in alcun modo appartiene alla donna regia, non è però che sia l'istessa virtù della donna regia e della privata madre di famiglia, per ciò che la virtù della madre di famiglia sarà la parsimonia, e della donna regia la leggiadria e la delicatura, e l'una avrà per oggetto l'utile, e l'altra il decoro; né gli basterà che gli ornamenti della casa sian magnifici, ma vorrà che sian magnifici con delicatura e con leggiadria, e particolarmente i panni lini lavorati di seta e d'oro e gli ornamenti della camera e della persona; e tanto nella magnificienza di sì fatte cose eccedevano le regine di Persia, che le province intiere, come dice Platone nell'Alcibiade, eran destinate quale a le spese della cintura, qual delle pianelle e qual dell'altre vestimenta del corpo e da lor prendevano il nome.
Il regio governo nondimeno, quantunque grande e nobile, può e suole dalla donna eroica esser rifiutato, perciò che ella trascendendo e trapassando non sol la condizione dell'altre donne, ma l'umana virtù, sol d'operare prudentemente e fortemente si diletta; e la sua virtù non è l'imperfetta ma la perfetta virtù, non la mezzana ma l'intiera virtù, onde a ragione ella può essere detta destra o sinistra; né a lei più si conviene la modestia e la pudicizia feminile di quel che si convenga al cavaliero, perché queste virtù di coloro son proprie di cui l'altre maggiori non possono essere proprie, né può esser detta infame quantunque commetta alcun atto di impudicizia, perché non pecca contra la propria virtù; e infame è propriamente quell'uomo e quella donna che pecca contra la propria virtù.
Non negherò, nondimeno, che maggior lode Semiramis e Cleopatra non avessero meritato se state non fossero impudiche.
Ma Cesare anco e Traiano e Alessandro di maggior laude sarebbon degni se temperati fossero stati: e se per la virtù della temperanza merita Zenobia o Artemisia d'esser a Semiramis o a Cleopatra anteposta, per la medesima virtù Scipione e Camillo a Cesare e ad Alessandro è preferito: sì che in ciò le ragioni dell'uomo e della donna, qual descriviamo, son così pari che per pudicizia o per impudicizia l'uno e l'altro maggior lode o biasimo non merita.
E se la donna non ricerca gli abbracciamenti amorosi per isfrenata cupidità d'intemperanza, non deve ragionevolmente essere ripresa: onde anzi lode meritò che biasimo la reina Amazzone, la quale, come racconta Giustino, venne volontariamente a sopporsi ad Alessandro per ingravidarsi di lui: e forse dalla medesima cagione fu mossa la regina Saba a venir a trovar Salomone, perciò che è opinione che i re dell'Etiopia da lei e da Salomone sian discesi.
Quelle ancora che non per cupidigia d'intemperanza, ma per amore, cercano gli abbracciamenti, con queste possono essere accompagnate, né posson in alcun modo esser giudicate infami e disonorate, perciò che l'infamia e 'l disonore seguita il vizio; e ove non è vizio, non può essere infamia o disonore; ma il vizio è abito confirmato, onde se l'intemperante è vizioso, in consequenza può esser disonorato, ma l'incontinente non deve ragionevolmente esser riputato o vizioso o disonorato.
L'intemperante senza contrasto si lascia vincere, e vinto non si pente della perdita sua, né dello scorno, né ha rimordimento o vergogna; ma l'incontinente combatte con gli affetti e doppo lunga tenzone è vinto; e vinto da chi? da amore, potentissimo sovra tutti gli affetti.
Chi può disonorata stimar la reina Didone, se ben all'amor d'Enea si sottomise? Prima ripugna all'amore e brama d'esser più tosto fulminata o dalla terra inghiottita che di violar le leggi della vergogna vedovile; poi, doppo lungo contrasto, aggiungendosi alle forze d'amore le persuasioni della sorella, che con efficacia dice
...placitone etiam pugnabis amori?
a poco a poco si lascia vincere.
È l'amore potentissimo affetto, in modo che ci lascia dubi s'egli sia divino furore o più tosto affetto di concupiscenza carnale; e se ben pare ch'Aristotele non conosca altro amore che quel di benivolenza e quel di concupiscenza, nondimeno non si può dubitare che un terzo non ne sia, forse di questi due misto, a cui s'aggiunge molte fiate un non so che di celeste e di divino veramente.
Ma perciò che questo non è tempo di trattar sottilmente, dalla natura d'amore alla virtù donnesca ritornando, dico ch'ella nelle donne eroiche è virtù eroica che con la virtù eroica dell'uomo contende, e delle donne dotate di questa virtù non più la pudicizia che la fortezza o che la prudenza è propria.
Né alcuna distinzione d'opere e d'uffici fra loro e gli uomini eroici si ritrova, se non forse solamente quelli che alla generazione e alla perpetuità della spezie appartengono, i quali ancora dalle donne eroiche sono in parte negletti e tralasciati.
Questa, serenissima Signora, è l'opinione degli altri e mia intorno alla virtù feminile e donnesca; e per confirmare quello che nell'ultimo ho detto della virtù eroica con alcun esempio moderno, che agli antichi possa essere agguagliato, rinnovo in voi la memoria della gloriosa reina Maria, sorella di Carlo Quinto e di Ferdinando vostro padre, la qual nelle guerre di valorosissimo capitano e nel governo degli Stati di prudentissimo re esercitò gli uffici.
Né da lei è punto dissimile o punto inferiore Margherita d'Austria duchessa di Parma, la qual congiunge ancora la prudenza e la fortezza con tant'altre eroiche virtù, che vile in suo rispetto è la memoria di Cleopatra, di Semiramis e di Zenobia e di qual si voglia altra antica gloriosa.
Né la presente reina d'Inghilterra deve con silenzio esser trapassata, perché se bene la nostra malvagia fortuna vuol ch'ella sia dalla Chiesa separata, nondimeno l'eroiche virtù dell'animo suo e l'altezza dell'ingegno mirabile le rende affezionatissimo ogni animo gentile e valoroso.
Ma dove lascio Caterina de' Medici, che nella Casa reale di Francia per proprio merito, non sol per grandezza e per fortuna de' suoi antecessori, merita d'esser stata collocata? Chi vorrà anco nelle donne eroiche non sol la virtù dell'azione, ma quella della contemplazione, si rammenti di Renata di Ferrara e di Margherita di Savoia, dell'una e dell'altra delle quali mio padre mi soleva le meraviglie raccontare; e Anna e Lucrezia e Leonora, che di Renata son nate, tali sono nell'intelligenza delle cose di Stato e nel giudizio delle lettere, che niuno che l'ode favellare si può da lor partire se non pieno di altissimo stupore.
E io qualora ad alcuna di loro ho letto alcun mio componimento, non Saffo e Corinna o Diotima o Aspasia che vili sono sì fatti paragoni, ma la madre de' Gracchi od altra tale giudicava d'aver per ascoltatrice.
E per non defraudare della lode a lor debita quelle ch'alla memoria de' padri e degli avi nostri sono state eccellenti, chi può tacere o di Lucrezia Borgia, o d'Isabella Estense Gonzaga, o d'Anna o di Giovanna d'Aragona, delle quali questa s'è condotta tant'oltre con gli anni ch'io ho potuto vederla? E chi non deve con lodi immortali celebrar l'altezza dell'ingegno e la felicissima eloquenza e la divina poesia di Vittoria Colonna? Ma perché vo cercando esempi stranieri e lontani, e di voi e di Barbara vostra sorella non m'affatico di ragionare? le quali, ricche e ornate a pieno di tutte le virtù dell'animo e dell'intelletto eroico che in alcuna si possono ammirare, avete oltra ciò (parlerò di lei come viva fosse, che viva m'è nella memoria) la virtù cristiana in tanta perfezione, che la gloria delli altri è quasi un picciol lume in paragone del sole in rispetto alla vostra? Ma se ben la virtù cristiana è la sovrana e la perfetta, la qual in voi sola e in Vittoria Farnese, prudentissima e castissima principessa, e in poch'altre s'onora, nondimeno non in ciascuna questa esquisitezza della cristiana virtù è ricercata, perché diverse sono le vocazioni, e ciascuno alla sua nazione deve accommodarsi; e assai è, in questo mondo pieno d'imperfezione, se ciascun tanto ne partecipa, quanto basta per la salute dell'anima sua, senza il suo aiuto nondimeno le virtù morali sono imperfette, né riportano altro premio che d'onor breve e transitorio.
Ma quali e quante sian le virtù cristiane e in qual potenza dell'animo sian collocate, a miglior occasione e a maggior commodità riserbarò di andare investigando.
E così per ora, con buona grazia di Vostra Altezza, farò fine, facendole umilissima riverenza.
Di Vostra Altezza Serenissima
devotissimo e umilissimo servo
TORQUATO TASSO
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