[Pagina precedente]...gai di serbarle a più tardi, e andai difilato a prua, col proposito di mescolarmi cogli emigranti, e di entrare in discorso con loro.
Era l'ora della pulizia, la prua affollata, il cielo chiaro: tutto pareva propizio. Ma non tardai ad accorgermi che l'impresa era meno facile di quello che credevo. Mentre passavo in mezzo alla gente seduta, badando a non pestare i piedi a nessuno, m'intesi dire alle spalle: - Largo ai signori! - e voltandomi, incontrai lo sguardo d'un contadino, il quale mi fissò sogghignando con un'aria che confermava arditamente il senso sarcastico dell'esclamazione. Un poco più in là, avendo steso la mano per carezzare un bambino, sua madre lo tirò a sé con cattivo garbo, senza guardarmi. Non posso dire la pena che ne provai. Io non avevo pensato allo stato d'animo in cui era naturale che si trovasse molta di quella gente mentre erano ancora tumultuanti in essa le memorie della vita intollerabile, per troncar la quale avevan deciso di lasciar la patria, e acceso tuttavia il risentimento contro quella svariata falange di proprietari, esattori, fattori, avvocati, agenti, autorità, designati da loro col nome generico di signori, e creduti congiurati tutti insieme ai loro danni, e autori primi della loro miseria. Per essi io ero un rappresentante di quella classe. E neppure avevo pensato che dovesse riuscir loro particolarmente odioso, in quello stato d'animo, un abitante di quel piccolo mondo privilegiato di poppa, immagine dell'altro a cui s'eran sottratti; il quale li accompagnava anche sul mare, come un vampiro, che li volesse andare a dissanguare fino in America. Ciò posto, era impossibile che comprendessero il sentimento rispettoso e benevolo che mi animava, e imprudente l'attaccar discorso così di punto in bianco con alcuno di loro. Se l'avessi fatto, m'avrebbero creduto mosso da una curiosità crudele di sentir racconti di guai, o preso per un intrigante, per qualche impresario mestatore, imbarcatosi sul Galileo per accaparrar lavoratori di sottomano, senza l'incomodo della concorrenza. Queste riflessioni fecero cadere improvvisamente tutte le mie speranze.
Allora buttai via il sigaro, e cominciai a girare guardando gli alberi e i cordami, come se non m'occupassi che del piroscafo; ma tendendo l'orecchio. Molti gruppi fissi s'eran già formati, come accade sempre, fra emigranti della stessa provincia o della stessa professione. La maggior parte eran di contadini. E non mi fu difficile di cogliere l'argomento predominante delle conversazioni: il triste stato della classe agricola in Italia; troppa concorrenza di lavoratori, tutta a vantaggio dei proprietari e dei fittavoli; - salari scarsi, - viveri cari, - tasse eccessive, - stagioni senza lavoro, cattive annate, - padroni ingordi, - nessuna speranza di migliorare il proprio stato. I discorsi, per lo più, avevan forma di racconti: racconti di miserie, di birbonate e d'ingiustizie. In un crocchio, in cui pareva che dominasse come una nota d'allegria amara, ridevan della rabbia che avrebbero divorata i signori quando si fossero ritrovati senza braccia, costretti a raddoppiare i salari, o a dar le loro terre per un boccone di pane. - Quando saremo andati via tutti, - diceva uno, - creperanno di fame anche loro. - E un altro: - Non passa dieci anni, dà fuori la rivoluzione. - Ma quelli che lanciavan le frasi più arrischiate, parlavan più basso, e dopo aver data intorno un'occhiata, perché temevano molti, come poi seppi, che a bordo ci fosse un servizio segreto di polizia, per conto del Governo. C'erano dei crocchi di contadini calabresi, con le loro mantelline a cappuccio, e i loro sandali, legati con le zampitte; ma pochi di essi parlavano. In altri gruppi si discorreva del mare e dell'America: e si riconoscevan facilmente quelli che v'eran già stati, all'attenzione con cui gli altri li stavano a sentire, e alla voce alta, al tono di sicurezza col quale sdottoravano; perché è incredibile quanto possa in molti la vanità anche in quelle angustie, quanto sia forte il prurito di farsi conoscere, di fabbricarsi un piedestallo anche tra quella povera folla, per mostrarsi superiori alla miseria in cui son ridotti e da cui son circondati.
Quelli che udivo parlare più spesso erano i liguri, e quasi si sarebbero riconosciuti, senza sentirli, all'aspetto sicuro, e quasi baldanzoso, derivante dalla coscienza dello spirito commerciale e marinaresco e dei cinquant'anni d'emigrazione fortunata della loro razza: avevan l'aria o se la davano, di trovarsi sul piroscafo a loro agio, come in casa propria. I montanari, per contro, quasi tutti immobili e taciturni, e come istupiditi dallo spettacolo di quell'immenso piano uniforme, tanto diverso da quello angusto, rotto, intimo delle loro montagne. Si vedevano poi, tra i moltissimi ritti impalati come automi, o accovacciati come fiere, parecchi di quegli spiriti allegri e leggieri, che le novità e il contatto della folla eccitano come il vino: e questi gironzavano di crocchio in crocchio e rivolgevano la parola da tutte le parti, ridendo alla gente e al mare, come se avessero saputo di trovar dei mucchi d'oro allo sbarco. E già dalle molte coppie d'uomini e anche di donne che chiacchieravano tranquillamente, seduti l'uno di fronte all'altro, come sull'uscio di casa, fumando o lavorando, si capiva che s'erano strette molte di quelle amicizie di viaggio, alcune delle quali perdurano, o si riappiccano, dopo molti anni, in America, e rimangono le predilette, improntate per tutta la vita di quel primo bisogno, che le fece nascere, di espandersi e di farsi coraggio a vicenda dinanzi all'avvenire misterioso. Delle donne facevan cerchio, coi bimbi in braccio, come ai crocicchi delle strade. Vicino alla cambusa, l'osteria delle terze, - vidi le coriste lombarde, ridenti con disinvoltura teatrale, in mezzo a un gruppo di giovanotti svizzeri; i quali, forse con intenzione politica, portavano tutti un berretto di panno rosso, e supplivano con una mimica troppo eloquente alla scarsa conoscenza della grammatica meneghina. Incontrai la grossa bolognese, col suo inseparabile borsone a tracolla, saettato da molti sguardi curiosi, la quale passeggiava sola, a passi di prima donna, guardandosi ogni momento ai piedi, con una smorfia di nausea, per scansare le lordure. Il tavolato, infatti, sparso di pezzetti di carta, di bucce di mela, di briciole di gallette, d'un po' d'ogni cosa, aveva l'apparenza d'un campo dove avesse bivaccato un reggimento. E, in generale, le facce e i panni dei soldati non discordavano dall'aspetto del terreno. Molti visi, anzi, pareva che serbassero ancora intatte le scaglie del dì della partenza. Ma trattenni dentro, osservandoli, ogni parola di rimprovero, poiché pensai agli emigranti tedeschi che trovano a Brema, prima d'imbarcarsi, vitto, ricovero e bagni, per rimettersi dal viaggio di terra; mentre i nostri dormono sui marciapiedi.
Mi diressi dalla parte dei cernieri dell'acqua dolce. La bella genovese era sempre là, col suo giubbino bianco e con la gonnella azzurra, tra il piccolo fratello e il padre, occupata a cucire: pulita e fresca come un fiore. Ma gli ammiratori si erano raffittiti: aveva ora intorno, a varie distanze, una dozzina di passeggieri, che la covavan con gli occhi, e scherzavano tra loro, parlandosi negli orecchi, con certi ghigni e baleni nello sguardo, che non lasciavano incertezza sull'indole della loro ammirazione. Altri s'avvicinavano, s'alzavano in punta dei piedi per vederla, e poi se n'andavano. Era già famosa, dunque, e sarebbe stata lei, senza dubbio, il "grande successo" del viaggio nella società di prua. Ma la celebrità non l'aveva mutata di un'ombra. Ogni tanto essa alzava gli occhi azzurri, tranquillissimi, come se invece d'uomini, avesse avuto attorno degli alberi, e sempre con la stessa placidità graziosa riabbassava il capo sul lavoro, ripresentando come inconsapevolmente a tutti quegli sguardi il suo bellissimo collo bianco e il viluppo magnifico delle sue trecce dorate. Ah! povera cucina della terza classe! Voltandomi verso il finestrino, vidi la faccia vermiglia del cuoco, con la fronte corrugata e gli occhi fissi. Fuor d'ogni dubbio, divampava una passione tra le cazzaruole. La salute pubblica era in pericolo. Mentre l'osservavo, vidi che il suo sguardo, deviando dalla ragazza, pigliava un'espressione più truce, ed io, seguendolo, riuscii con gli occhi sopra un viso del cerchio degli ammiratori, che mi distrasse da lui. Era un giovine di forse meno di vent'anni, spersonito e imberbe, con due spallucce misere che parevano un attaccapanni, un che di mezzo, all'aspetto, tra il maestro di villaggio e lo scrivano, di quelli che vanno in America a cercare un impieguccio: seduto sopra un barile ritto, egli teneva lo sguardo confitto nella ragazza con un'espressione d'amore così ardente, d'adorazione così umile, che avrebbe strappato un'occhiata di compassione a una donna di marmo. Aveva l'aria d'esser solo a bordo: portava una cintura di cuoio giallo ai fianchi, che doveva contenere tutto il suo peculio. L'osservai per un pezzo, e sempre lo vidi con quegli occhi fissi, umidi, animati di un leggerissimo sorriso triste, come di pietà per sé stesso, e con tutta la persona immobile, nell'atteggiamento di chi si contenta d'ammirare, e non aspetta né spera nulla, e starebbe lì per la vita. In tutto quel tempo, la ragazza non mostrò d'accorgersi di lui. Egli languiva là, solitario, come uno stilita sulla colonna, e il calore della sua povera fiamma ignorata andava disperso nello spazio come il fumo del Galileo.
Di là andai sul castello di prua, che era pieno di gente. Salendo, intesi dire accanto a me: - Già, vegnen chì al teater. Quel vegnen era per me, naturalmente. Qui fui accolto peggio che altrove, con occhiataccie e con voltate di spalle, e non con questo soltanto: sub terris tonuisse putes. Mi venne in mente, e non m'ingannavo, che fosse quella una specie di montagna, dove si raccogliessero gli emigranti di idee più rivoluzionarie, quelli che avevan bisogno d'appartarsi per tener dei discorsi arrischiati, e che di là, come da un focolare di malcontento, dovessero muovere le proteste contro il vitto e le congiure contro il regolamento. Si vedevan delle facce ardite e scure, e degli atteggiamenti di bravi in riposo. Dovevan essere tutti celibi, o di quegli emigranti che lasciano a casa la moglie, dopo due o tre anni di matrimonio: categoria molto numerosa, o perché sian spinti a emigrare dai bisogni nascenti della famiglia, o perché, fatto il primo esperimento della vita coniugale, e seccatisi, ne vogliano uscire per quella via. In un crocchio, riconobbi il vecchio lungo che aveva mostrato il pugno alla patria la sera della partenza: un tipo di avventuriere scarno, con gli occhi accesi, con certe corde del collo che gli volean crepare la pelle, vestito d'un logoro gabbano verde, che pareva uno spoglio di commediante: scoperto il capo, con le ciocche grigie al vento. E parlava forte, con accento toscano, gesticolando con l'indice in alto. Intesi, girando alla larga, la parola pagnottisti, e ricevetti tra capo e collo una guardataccia a fendente, che mi fece allungare il passo. Vicino alla boccaporta del molinello, sonava un piccolo pifferaro; ma il vento si portava via le note, e nessuno gli badava. Alcuni, seduti in cerchio sul tavolato, giocavano alle carte. E all'estrema punta del piroscafo, sopra il tagliamare stava in piedi una strana figura di saltimbanco, con una lunga faccia ossuta e olivastra illuminata da due grand'occhi verdi, coi capelli neri cadenti sulle spalle, e le braccia seminude incrociate sul petto, sur una delle quali eran tatuate le iniziali AS e una croce: e così ritto e tetro in quella solitudine, ora levato su ora portato giù dal movimento forte della prua, come se danzasse per aria, pareva l'immagine personificata di tutte le tristezze e di tutte le miserie accumulate su quelle tavole, il simbolo vivente della esistenza errabonda e del destino incerto di tutti. V'era una sola donna lassù, una vecchia...
[Pagina successiva]