[Pagina precedente]... non è dovuta ad altro che a una infaticata successione di lesinerie, di durezze, di piccoli ladrocini e di piccoli inganni, di briciole di pane e di centesimi disputati da cento parti, per trent'anni continui, a chi non ha abbastanza da mangiare. E poi mi venivano in mente i mille altri, che, empitisi di cotone gli orecchi, si fregan le mani, e canticchiano; e pensavo che c'è qualche cosa di peggio che sfruttar la miseria e sprezzarla: ed è il negare che esista, mentre ci urla e ci singhiozza alla porta.
Avrei voluto discendere fra quella gente e parlar con qualcuno; ma mi parve meglio aspettare un giorno che ci fosse meno folla. Per liberarmi dai pensieri sconfortanti, andai a passare un'ora sulla piazzetta, uno spazio che era dalla parte sinistra del piroscafo, compreso tra il castello centrale e il cassero di poppa; al quale avevan dato il nome di piazzetta perché, aprendosi lì le porte del salone, della sala da fumare e della dispensa, vi si formavano ogni momento dei crocchi di passeggieri, e il luogo essendo riparato dai venti alisei che soffiavano in poppa, ci venivano delle signore a ricamare o a leggere. E in fatti gli davan una cert'aria di piazzetta da palco scenico i camerini che v'eran da un lato, simili alle casette mobili delle scene, con le loro finestre a persiane, e il passaggio coperto che vi sboccava, come una strada pubblica. Lì si andava a vedere il cammino fatto e i gradi di longitudine e di latitudine, scritti ogni giorno sopra una lavagnina, appesa alla porta del salone; ci venivano per solito gli ufficiali a prendere l'altezza del sole, e ci affluivano le prime notizie della piccola cronaca quotidiana. Era un cantuccio dove si fumava il sigaro con piacere, come davanti a un caffè, con una certa illusione d'esser a terra, e di far vita cittadina. Qualche volta vi cascava uno spruzzo d'acqua improvviso, che innaffiava i ricami e i libri alle signore, e queste scappavano; ma ritornavan poco dopo. E là , nei primi giorni, avevan fatto conoscenza fra loro la maggior parte dei passeggieri.
Quando v'arrivai, quella mattina, mi si presentò da sé, con disinvoltura simpatica, un passeggiere, al quale non avevo quasi badato fino allora, e che doveva esser poi la mia compagnia più piacevole fino alla fine del viaggio. Era un torinese, agente di una casa bancaria di Genova, il quale andava all'Argentina quasi ogni anno; uno di quegli uomini che si danno a conoscere a fondo in un'ora: una figura di brillante comico, vestito bene, bianco di capelli e nero di baffi, con un viso serio che faceva ridere, degli occhi di scolaretto, un cervello pieno di bubbole, un buon umore inalterato e una parlantina facilissima; un poco toscaneggiante, ma senz'affettazione; tormentato da una curiosità di comare, non occupato d'altro che della gente che aveva intorno, e accorto e perseverante come un vecchio poliziotto a indagare e a scoprire i fatti di tutti, e abilissimo a cavarne materia di spasso per sé e per gli altri, senza destar mai la diffidenza di alcuno. Egli conosceva vita e miracoli di parecchi passeggieri, coi quali aveva già fatto una o due volte la traversata dell'oceano; e dopo dieci minuti di conversazione cominciò a domandarmi familiarmente, accennando l'uno o l'altro: - Sa chi è quello lì? Sa chi è quella signora? - Ma io non potei dargli retta subito, perché un altro personaggio attirò la mia attenzione: il tipo di una razza di gente curiosa, che ancora non conoscevo.
Era il mugnaio, che tartassava l'Italia, dondolandosi in mezzo a un crocchio di passeggieri, orgoglioso della sua pancia di nuovo acquisto, come d'un'insegna di signoria. Era vestito da fattore benestante, e aveva un grosso anello d'oro alla mano destra: l'occhio falso, il naso petulante, la bocca vanitosa. Dal viso e dal discorso s'indovinava l'antico emigrante spiantato, il quale, fatta fortuna, ma rimasto ignorante, crede, ritornando al suo paese, di non aver che a mostrare la borsa e sdottorare davanti alla farmacia di luoghi e di cose lontane, mescendo spacconate e bugie, per farsi eleggere consigliere e nominar sindaco, e montar sul collo dei suoi compaesani, ch'egli si figura rimminchioniti, perché non si son mossi da casa. Quello lì aveva certo avuto un solenne disinganno, e toccato delle scottature all'amor proprio, che gli dovevano ancor bruciare fieramente, sotto alla giovialità grossolana che ostentava. Tre mesi, diceva, gli eran bastati a persuadersi che l'aria del suo paese non faceva più per lui. Dopo vent'anni aveva creduto di trovarvi una trasformazione, un progresso: v'aveva ritrovate invece le idee d'una volta, tutti i vecchi pregiudizi, la vita gretta e una maledetta trucia! Cento cani intorno a un osso, quando c'era un osso poi nessuna iniziativa negli affari, un andare in tutte le cose coi piedi di piombo, in mezzo a mille impacci, una diffidenza d'avari fradici, una mancanza assoluta di caballerosidad. E dicendo questo, tirava delle occhiate di traverso agl'italiani vicini a lui, come compiacendosi di ferirli nell'orgoglio nazionale. Ma bisognava sentire che vocabolario: era il primo saggio ch'io intendevo della strana lingua parlata dalla nostra gente del popolo dopo molti anni di soggiorno nell'Argentina, dove, col mescolarsi ai figli del paese, e a concittadini di varie parti d'Italia, quasi tutti perdono una parte del proprio dialetto e acquistano un po' d'italiano, per confonder poi italiano e dialetto con la lingua locale, mettendo desinenze vernacole a radicali spagnuole, e viceversa, traducendo letteralmente frasi proprie dei due linguaggi, le quali nella traduzione mutan significato o non ne serban più alcuno, e saltando quattro volte, nel corso di un periodo, da una lingua all'altra, come deliranti. Trasecolando gli udii dire si precisa molta plata per "ci vuol molto danaro", guastar capitali per "spender capitali", son salito con un carigo di trigo per "son partito con un carico di grano". E in quest'orribile gergo tirava via a dar addosso alla Camera dei Deputati, al governo atrasado (rimasto addietro), al popolo di mendìgos, e perfino ai monumenti d'arte, dicendo che, nel ripassare per Milano, aveva trovato il Duomo molto più piccolo di come l'aveva nella mente. Magnificava invece la bellezza delle pianure americane, facendo un gesto largo e goffo di paesista briaco. Ma poi ricadeva sempre sull'Italia con un intercalare che doveva aver preso nelle cronachette dei giornali di provincia: - Medio evo, medio evo.
L'agente di cambio che lo stava a sentire con me, ridendogli in faccia, e che aveva esperienza di quella razza di patriotti, mi disse che, quando erano in America, giocavano al gioco opposto, ossia si lagnavan di tutto, facendo leva al proprio orgoglio della patria lontana, appetto alla quale giudicavan incivile, ignorante, disonesto il paese da cui erano ospitati, e in cui s'erano fatti d'oro. Ma, di punto in bianco, troncò quel discorso per dirmi che aveva scoperto un amenissimo originale nell'equipaggio, un vecchio marinaio gobbo, preposto alla vigilanza dei dormitori delle donne; ufficio delicatissimo, che richiedeva nell'impiegato non solo la guarentigia d'un'età arcimatura, ma quella della mancanza assoluta di qualsiasi pregio estetico della persona, che potesse toccare un cuore femminile. Questo piccolo gobbo canuto, che doveva separare i due sessi la sera, e badare la notte che nessuna donna uscisse dai dormitori, era un impasto bizzarro di filosofo e di buffone, che spifferava continue sentenze sulle donne, tormento della sua vita, con una solennità predicatoria e qualche volta con dei giri di parole così difficili, che non si capiva affatto quel che volesse dire. Io avrei dovuto interrogarlo, che mi ci sarei divertito infinitamente. - E quest'altro, - mi domandò - l'ha notato? - E mi accennò il bel cameriere impomatato di prima classe, che passava con un vassoio in mano, girando lo sguardo languido sulle signore. Quello era una specie di Ruy Blas marino, che mirava in alto, e si studiava in tutti i modi di far capire che dell'umiltà della sua condizione sociale era consolato a bordo da miracolose e misteriose fortune; e intanto sultaneggiava fra le due cameriere, una genovese frolla e una veneta fresca, che si mangiavano il fegato dalla gelosia, e si scanagliavano ogni mattina nei corridoi, con la cuffia per traverso e le mani sui fianchi, lasciando scampanellar le signore.
In quel momento ci passò davanti un passeggiere, il genovese che a tavola sedeva alla destra del Comandante, un onesto bofficione di cinquant'anni, con un occhio solo e una barba di crino di spazzola; e, passando, fece all'agente un atto della mano, che non compresi. Poi salì sul cassero. Domandai che cosa quell'atto volesse dire. - Vuol dire - mi rispose l'agente - che oggi a desinare ci saranno i maccheroni al sugo. - E mi abbozzò il ritratto di quel signore. Era un negoziante agiato, stabilito a Buenos Ayres, - un infelice come se ne trovan tanti, che, pure godendo a bordo d'un'ottima salute, non possono né discorrere, né leggere, né pensare, e s'annoiano in un modo inimmaginabile, d'una noia che li sgomenta, li tortura, li uccide. Quello là , per sollevarsi un poco, s'era dedicato alla gastronomia, a cui per natura tendeva; aveva fatto relazione col cuoco; era il primo a saper la mattina che cosa si sarebbe mangiato la sera, e ne portava in giro la notizia; entrava venti volte al giorno in cucina, stava a veder pelare i polli, discorreva con gli sguatteri, visitava i forni, bazzicava col pasticciere e con l'oste di prua, scendeva nei magazzini dei viveri, beveva dieci bicchierini di vermouth per far venire l'ora del desinare, e parlava poco, ma non d'altro che di pappatoria, e quando non s'occupava di questa, stava delle ore nella sua cuccetta, con le mani incrociate dietro la nuca, con gli occhi sbarrati, come un ipnotizzato, tirando degli sbadigli da leone, enormi e lamentevoli, l'un sull'altro, senza interruzione, da far pensare (ammessa la fede di non so che popolo, che ad ogni sbadiglio esca dalla bocca dell'uomo l'anima d'un antenato) ch'egli avesse già esalata fin l'anima di padre Adamo.
- Conosce altri? - domandai. - E come no? - (Pretto argentino. Y como noo? cantato: tutti gli italiani se lo appropriano.) Ma questa volta, trattandosi di persone molto vicine a noi, abbassò la voce, e mi disse nell'orecchio che guardassi nell'angolo della piazzetta, a sinistra. Fra le signore, ce n'era una di quarant'anni, di occhi grandi e scrutatori, smorticcia, vestita elegantemente: un viso singolare, che, visto un po' di lontano, quando sorrideva, mostrando i bei denti bianchi, pareva bello e buono, e andava a genio; ma, ad avvicinarsi, vi si vedeva come saltar fuori dei tratti duri, delle piccole rughe cattive, e una di quelle bocche amare di ambiziosi delusi e d'invidiosi, che rivelano l'abito d'una maldicenza spietata. Accanto a lei stava seduta una seccherella di ragazza, dell'apparenza d'una quindicina d'anni, d'un biondo slavato, col vestito corto: un viso che non diceva nulla, chino sul ricamo. La signora leggicchiava un libro, ma alzando lo sguardo pronto ed acuto ad ogni passo, ad ogni parola che sentisse intorno a sé, vicino o lontano. Erano madre e figliuola, mi disse l'agente; avevano fatto il viaggio con lui l'anno scorso sul Fulmine: la madre aveva condotta la figliuola a perfezionarsi nel pianoforte in Germania: nate in Italia, oriunde spagnuole, stabilite nell'Argentina. La madre aveva una lingua da tanaglie, capace di far nascere un subbuglio in un piroscafo, rosa a tal segno dalla gelosia dei cenci, che ogni nuovo vestito di signora che apparisse a bordo, le era come un colpo di navaja nel fianco. - E che le pare della figliuola? — Non mi pareva nulla: una figura di educanda cresciuta male, senza sangue in corpo, da baloccarsi ancora con le bambole. - Ah! che granchio! - esclamò l'agente - mi scusi. - E mi tirò dall'altra parte della piazzetta per parlar più libero. Quel piccolo crostino a cui nessuno badava era un vero soggetto psichiatrico, da dar a s...
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