[Pagina precedente]...egri veramente non c'erano che i giovanotti, che per l'allegrezza si pizzicottavano e si tiravan dei calci di traverso. Dei vecchi, alcuni voltavan le spalle al mare, rincantucciati al loro posto solito, nell'atteggiamento di gente che non avesse più nulla da sperare da quel lembo di terra rossa, fuorché di morirvi in pace. I due vecchi coniugi del castello di prua, seduti sulle loro due bitte, dormivano.
Ma poco tempo dopo, cessato il primo effetto dell'apparizione, come se fosse un'intesa, scoppiò a prua un'allegrezza smodata, un coro di canti e di fischi, e un gridìo di gente che s'affollava intorno all'osteria alzando i bicchieri e i bidoni, un bolli bolli da tutte le parti, da parere che in pochi minuti avessero tracannato delle brente di vin generoso. Tutti i belli umori diedero spettacolo. Il vecchio del castello centrale si mise a modulare i suoi gemiti imitativi, accoccolato in mezzo a un cerchio di gente che ridevano con la bocca da un orecchio all'altro; il contadino snasato rifaceva le facce delle donne atterrite dalla tempesta, provocando una tempesta d'applausi; poi scese il saltimbanco capelluto dal castello di prua, con la sua faccia tetra, a far la ruota sopra coperta, fra due ali di donne in visibilio. E in un accesso di gioia l'ex portinaio dalla testa pelata, stracciato l'album famoso delle sudicerie, ne distribuì i fogli ai suoi compagni, i quali si sparsero tra la folla, formando altrettanti cerchi sghignazzanti; di modo che di lì a poco non fu più che un solo accesso clamoroso di grassa ilarità pornografica che scosse tutte le pance e squarciò tutte le bocche dalla cucina al macello, accompagnato da un chiasso assordante di suon di strumenti, di versi da briachi e di urlate, sul quale s'alzava di tanto in tanto il grido lungo e lamentevole del barbiere, latrante alla luna.
Il sole intanto era andato sotto, diritto davanti a noi, di là dalla terra, e si vedeva un crepuscolo stupendo, bello quanto i più belli che avevamo visto sui tropici; spettacolo frequente in quella parte d'America, per effetto della grande quantità di vapori che s'alzano dalle acque del Plata e dei due fiumi enormi che lo formano; i quali vapori, accumulandosi in alto, quando l'aria è queta, si tingono di luce e la sfumano e la rifrangono con una forza di colori che vince ogni fantasìa. Non appariva più all'orizzonte che una zona fiammeggiante, ma rotta in mille forme di cattedrali d'oro, di piramidi di rubini, di torri di ferro rovente e d'archi trionfali di bragia, che si sfasciavano lentamente, per dar luogo ad altre architetture più basse e più bizzarre, le quali finirono con presentare l'aspetto delle rovine ardenti d'una città sterminata, e poi d'una serie di giganteschi occhi sanguigni, che ci guardassero. E di sopra il cielo era oscuro, e il mare di sotto, nero. A quella vista, s'era rifatto il silenzio a prua, e gli emigranti guardavano, trasecolati, come se quello fosse un fenomeno arcano, proprio di quel paese. S'intravvidero alcuni isolotti: Lobos a sinistra, Gorriti a destra, poi l'isola di Flores, poi i fanali dei banchi d'Archimede. Il silenzio era così profondo a prua, che si sentiva distintamente lo strepito della macchina. Il piroscafo filava come una barca sur un lago.
Un emigrante esclamò: - Che bel mare!
- Non siamo più in mare, - osservò un marinaio, ch'era accanto a me. - Siamo nel fiume.
L'emigrante e i suoi vicini si voltarono a cercare l'altra riva, e non vedendo che la linea netta dell'orizzonte marino, rimasero increduli. Ma navigavamo già di fatto nel Plata, la cui riva destra era a più di cento miglia da noi.
Quando l'ultima luce crepuscolare disparve, vedemmo scintillare i fanali di Montevideo, e una striscia lontana e confusa di case, rischiarata qua e là vagamente, e una selva di bastimenti, di cui non si vedevan che le punte.
Oramai si sapeva che non si sarebbe più sbarcati, e la folla era stanca delle commozioni della giornata; ma tutti rimasero sopra coperta per gustare il piacere della fermata.
Di lì a poco, in fatti, il piroscafo cominciò a rallentare il corso e l'anelito; poi parve appena che si movesse; e infine quel mostruoso cuore di ferro e di fuoco che da ventidue giorni batteva affannosamente, diede l'ultimo palpito, e il colosso s'arrestò, morto. A un fischio che suonò sul palco, le due à ncore enormi si staccarono dai suoi fianchi, e caddero fragorosamente, trascinando con la rapidità del fulmine le loro grandi catene, che sollevaron scintille dai due occhi di ferro; il mare gorgogliò sul davanti; il piroscafo tremò, e ritacque. I suoi due giganteschi artigli avevano afferrato il fondo del fiume.
Gli emigranti stettero ancora qualche minuto ad assaporare la sensazione nuova dell'immobilità e del silenzio, e poi scesero a lunghe file, lentamente, nei dormitori, e anche i passeggieri di prima, non allettati dal movimento dell'aria, si ritirarono.
Ed io rimasi quasi solo, stupito che, dopo aver tante volte trovato il viaggio insopportabilmente lungo, mi paresse in quel momento così breve, e vago come un sogno, mentre ne ricordavo tante cose. Non avendo mai visto nulla per via, che mi segnasse le distanze nella mente con immagini ben distinte le une dall'altre, tutte le giornate mi si confondevano all'immaginazione in una sola, e mi pareva d'aver percorso quello spazio sterminato di un volo. Nessun momento del viaggio, fuorché la tempesta, mi rimase come quello stampato nell'anima. Il fiume smisurato era come immobile, quasi che le sue acque riposassero stanche del corso di duemila miglia, che avevan fatto dalle montagne del Brasile; il cielo era oscuro e tranquillo, Montevideo dormiva, nella rada nessun movimento e nessun rumore, il piroscafo muto; un silenzio altissimo pesava su tutte le cose; e mi parea che venisse di lontano, dagli altri grandi fiumi, dalle pianure sterminate, dalle foreste immense, dalle mille cime delle Ande: il silenzio misterioso e formidabile d'un continente assopito.
Mi riscosse dalla meditazione il comandante, che mi passò accanto fregandosi le mani, - cosa insolita, - come se dentro alla sua testa irta d'orso marino pregodesse una notte beata. Fui tentato di ripetergli il suo ritornello: - Porcaie a bordo...
Ma egli mi prevenne domandandomi col viso serio: - Che cosa faranno in casa sua a quest'ora?
Guardai l'orologio e risposi: - A quest'ora la mia casa è al buio, e tutti dormono.
Egli si mise a ridere, fregandosi le mani. - Anche vosciâ sciâ gh'è cheito! - disse. - (Anche lei c'è cascato.) - A quest'ora in casa sua ci batte il sole, e i suoi ragazzi domandano il caffè e latte.
Non ci avevo pensato.
Ma il buon comandante, che era veramente contento, mi domandò ancora se, prima di imbarcarmi, avessi pregato l'armatore di avvertire la famiglia appena ricevuto l'annunzio dell'arrivo.
Risposi di sì.
- Ebbene, - disse, - fra tre ore la sua famiglia saprà che è arrivato in America in buona salute.
Non avevo pensato neanche a questo, e discesi, contento anch'io, a dormire il mio ultimo sonno nel ventre del Galileo.
SUL RIO DE LA PLATA
Dormire? Mentita speme. Come accade a tutti dopo una giornata d'agitazione alla quale si sappia che ne seguirà un'altra non meno agitata, i passeggieri non dormirono che quanto voleva irresistibilmente la stanchezza: verso le due dopo mezzanotte quasi tutti si svegliarono, e tra sospiri di signore, sbadigli virili e conversazioni sommesse, che in quel silenzio del bastimento immobile sonavano come un ronzio di tafani, non vi fu più quiete. Un'ora prima dell'alba si sentirono dei passi affrettati e la voce del medico, accorso per uno svenimento della signorina di Mestre, alla quale aveva dato un crollo lo sforzo fatto il dì innanzi per salir sul cassero e far la sua ultima visita a prua. Poi cominciò il piccolo brasiliano a strillare e la negra a cantar la sua nenia. E allora tutti saltaron giù dalle cuccette e si misero ad apparecchiare rumorosamente le proprie robe, chiacchierando senza riguardi. Quando allo spuntare del giorno, dopo essersi scanagliati per mezz'ora nei corridoi, il cameriere e le cameriere entrarono col caffè nei camerini, trovaron già i passeggieri in piedi, lavati e strigliati, con la mancia alla mano.
Ruy Blas, presentandomi il vassoio, mi fece i suoi auguri di buona permanenza in America col suo porgere corretto di cameriere da palco scenico, ma con una voce così languida e cert'occhi di triglia così pesti, che anche un bambino v'avrebbe letto il proposito di mostrare una grande mestizia per la sua separazione imminente dalla misteriosa creatura che l'amava. Mentre io sorbivo il caffè egli guardava il cielo per il finestrino, mordendosi il labbro di sotto, come per reprimere la voce del cor ferito; e poi, prendendo la mancia, corresse l'umiltà dell'atto con un inchino elegante e pieno di dignità . Uscendo subito dopo di lui, lo vidi entrare nel camerino del prete; del quale intesi poco dopo la grossa voce che contava lentamente: - Dos, tres, cinco, seis... -lire, m'immagino, che Ruy Blas doveva ricevere nella mano aperta, come un accattone, fremendo di vergogna per la sua regina.
Sopra coperta, trovai il comandante e gli ufficiali in faccende. Erano saliti a bordo allora un impiegato gallonato del porto di Montevideo e un medico, - quello un omone con un fil di voce, questo un mezz'uomo con una voce di gran cassa; - i quali, dopo essersi informati dello stato sanitario dei passeggieri, si recarono a prua a contare il personale d'equipaggio. Tutti i passeggieri di terza, intanto, s'andavano radunando sul cassero centrale per sfilare davanti all'impiegato uraguayo che li doveva numerare, e al medico, che avrebbe fatto in disparte le facce sospette. Dal castello centrale si dovevano avanzare a uno a uno, passare sul ponte che correva di sopra alla "piazzetta" e poi, scendendo dal cassero per la scaletta di destra, tornare a prua. Sull'ampio castello centrale non c'era più un palmo di spazio vuoto: una folla fitta come un reggimento in colonna serrata lo copriva da un capo all'altro, non levando che un leggiero mormorìo. Il cielo era rannuvolato; il fiume immenso, d'un color giallo di mota; e la città di Montevideo, lontana, non appariva che come una lunga striscia biancastra sopra la riva bruna, rilevata dalla parte d'occidente in un colle solitario, il Cerro, memore di Garibaldi: un paesaggio vasto e semplice, che aspettava il sole, in silenzio. Lontano fumavano dei vaporini che venivano verso di noi.
Salii sul cassero per vedere l'ultima volta i miei mille e seicento compagni di viaggio. Arrivarono pochi minuti dopo l'impiegato e il dottore uruguayo, il comandante, gli ufficiali, il medico di bordo. E la triste processione incominciò. Triste, non solo in sé medesima, ma perché quella numerazione della folla come d'un armento, del quale non importava a nessuno di conoscere i nomi, faceva pensare che tutta quella gente fosse contata per essere venduta, e che non ci passassero davanti cittadini d'uno Stato d'Europa, ma vittime d'una razzìa di ladri di carne umana fatta sopra una spiaggia dell'Africa o dell'Asia. I primi passarono lentamente. Ma a un atto d'impazienza dell'impiegato del porto, il comandante fece un cenno, e allora cominciarono ad affrettare il passo, a sfilare quasi correndo. Le famiglie passavano unite, il padre primo, le donne dopo, coi bimbi in collo e i ragazzi per mano, i vecchi dietro; quasi tutti portando sotto il braccio o sulle spalle gl'involti della roba più preziosa, che non s'eran fidati di lasciare nei dormitori. Molti erano puliti, e vestiti dei panni migliori, che avevan tenuti in serbo per quel giorno; molti altri più cenciosi che alla partenza, imbrattati di tutto il sudiciume che si può raccattare strusciandosi per tre settimane in tutti gli angoli d'un bastimento, con le barbe lunghe, col collo nudo, con le dita dei piedi fuor delle scarpe; alcuni perfino senza cappello; e più d'uno si teneva chiusa a due mani la giacchetta senza bottoni, per nascondere la nudità irsuta del petto, che traspariva. Belle ragazze, vecchi ina...
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