[Pagina precedente]...ad assicurare le lance, a fermare le stie, a chiudere le boccaporte, con furia precipitosa, aprendo a spintoni la folla che fuggiva sotto i primi spruzzi del mare, allora, dico la verità , cercai in me l'artista e non ce lo trovai più. Mi parve anzi che fosse già scappato da un quarto d'ora.
I lampi spesseggiavano, il tuono brontolava più forte, i buoi muggivano. Guardai intorno a me: c'eran già dei visi pallidi. Ma in alcuni la curiosità , in altri l'avversione ad andarsi a chiudere in camerino, prevaleva ancora. Le signore si stringevano al braccio dei mariti. Gli uomini si tastavano a quando a quando con un'occhiata, ciascuno pigliando animo e alterezza dalla faccia dell'altro, che gli pareva più brutta di quello che supponesse la sua. A un tratto passò sul cassero uno spruzzo violento, e s'intese un: — Nom de Dieu! - e poi una risata forzata. Il marsigliese era stato scappellato e infradiciato da capo a piedi. Nello stesso punto salirono correndo quattro marinai a portar via i sofà e le seggiole. Poi arrivò il Commissario gridando: - Sotto, signori! Si chiude il salone, si spiccino. - Allora s'intese un grido dell'anima: - Oh Dio! Dio mio! - Era la sposa. Non si può immaginare l'eco intima che ha in tutti quel primo grido, quella prima irresistibile confessione del terrore della morte, da cui tutti sentono smascherato violentemente lo stato d'animo che dissimulano agli altri e a sé stessi. E allora fu una fuga disordinata e precipitosa a traverso al polvischio degli spruzzi che già saltavano per tutta la larghezza della coperta, in mezzo a una confusione di voci concitate e discordanti: - Oh Pablos! Pablos! — Presto, signori, presto. — Santa Maria benedetta. - Siamo serviti. — Dio mio! - Accidémpoli! — Coraggio, Nina. - Que relà mpagos! — Sciä faççan presto, per dio santo! - Ebbi appena il tempo di vedere le punte degli alberi che descrivevan per aria dei grandi archi di cerchio, e un infernale rimescolo di gente alla porta del dormitorio di terza, e fui spinto nel salone. Una signora inciampò e cadde a traverso all'uscio. Per un momento m'apparì sulla piazzetta il Commissario, come ravvolto in una nuvola d'acqua, e sentii il nitrito lontano d'un cavallo. L'uscio fu chiuso. E nello stesso tempo uno scroscio formidabile e vicinissimo del fulmine e uno spaventoso movimento di fianco del piroscafo, che sbattè i passeggieri parte sul tavolato e parte contro le pareti, tolsero l'ultimo dubbio a chi ne poteva ancora avere: era una tempesta.
La maggior parte, afferrandosi ai tavolini e alle seggiole fisse della mensa, e barcollando come feriti al capo, si diressero verso i camerini. Altri si buttarono sui divani. Alcune signore piangevano. Lo strepitio del bastimento e del mare copriva le voci. Pareva quasi notte. Mi sembravan mutati il luogo e le persone. In quel momento in cui tutte le affettazioni, tutti gli aspetti finti cadevano, e appariva di sotto nudo l'animale atterrito, dominato tutto dal suo furioso amor della vita, eran come facce nuove, voci sconosciute, mosse e sguardi che rivelavano lati dell'anima non prima indovinati. Nella mezza oscurità dei corridoi, dove tutti cercavano brancoloni il proprio camerino, urtandosi malamente gli uni cogli altri, intravvidi dei visi decomposti di condannati a morte, che a primo aspetto non capivo di chi fossero. Quando arrivai al mio covo, sonavan già qua e là i primi rantoli del mal di mare, delle voci di pianto chiamavan le cameriere, gli usci sbacchiavano con fracasso, le valigie e le cassette danzanti urtavano contro i tramezzi: era il disordine e il vocìo strano e lugubre che si sente entrando in un manicomio, dove tutte le consuetudini della vita sono sconvolte. Un movimento subitaneo di beccheggio mi gettò nel camerino come un sacco; l'uscio si chiuse da sé; un lampo m'abbagliò. E un pensiero improvviso m'agghiacciò il sangue: - Se non uscissi più di qua dentro? - E mi sentii in una solitudine immensa, come se mi fossi chiuso da me nella tomba.
Sì, è la verità , e la dico tutta. Questo è il pensiero che mi si confisse nel cervello, acuminato, freddo, immobile, come un punteruolo d'acciaio, e tutti gli altri pensieri e immagini che susseguirono nella mia menate per varie ore non fecero che girare intorno a quello vertiginosamente. Una immaginazione cento volte scacciata si ripresentava cento volte: quella del rumore che avrebbe fatto l'acqua irrompendo dentro, in quanti secondi sarebbe giunta all'uscio, il buio repentino, la prima ondata nella gola, e quel dubbio orribile, se avrei sofferto per lungo tempo. Confusamente cercavo di ricordarmi di notizie lette e intese a quel proposito, che mi confermassero nella speranza di un'agonia breve. E mi ricordo che il pensiero d'avere una volta desiderato per curiosità una tempesta, mi pareva una cosa insensata, mostruosa, incredibile, fuori della natura umana. Ecco dunque la realtà che desideravi, stupido pazzo! Ma questi pensieri eran come spezzati dagli sforzi vigorosi che dovevo fare per tenermi afferrato all'orlo sporgente della cuccetta, in ginocchioni sul tavolato; che era l'unica maniera di non essere sbatacchiato là dentro come un topo nella topaiola; e scompigliati anche dai fragori assordanti che si succedevano sopra nel salone, dove le vetrate degli armadi, sbattute, andavano in pezzi, e torri di piatti precipitavano frantumandosi, e il pianoforte, staccatosi dalla parete, andava di qua e di là cozzando nelle colonnine e nelle tavole. Ma assai peggio di quel frastuono di palazzo messo a sacco, peggio dei gemiti umani e del muggito del mare, era il rumore che faceva la membratura del piroscafo, uno scricchiolìo sinistro di edificio dislogato dalle fondamenta, una musica di scrosci, di schianti, di lamenti acuti, come se il corpo vivente del colosso soffrisse e gridasse, e corressero dei fremiti di terrore per le sue ossa lunghe e sottili, vicine a spezzarsi. Avevo un bel tentare di farmi animo con la statistica dei naufragi, uno ogni tante migliaia di viaggi, o che so io, e con l'idea della solidità grande di quei piroscafi enormi, che l'onda non può spezzare: quella musica smentiva ogni statistica e scherniva ogni consolazione. Frattanto il mare ingrossava sempre, la pioggia cadeva a torrenti, i lampi raffittivano, il tuono rumoreggiava quasi continuo, il piroscafo faceva degli sbalzi tali che, a occhi chiusi, mi pareva di esser sopra una gigantesca altalena a corda, che descrivesse archi di mezzo miglio, e ad ogni volata perdevo il fiato, per non ripigliarlo che nei pochi momenti di quiete che passavano tra l'una e l'altra. E quell'essere in assoluta balìa d'una forza prodigiosa che non mi lasciava più libero né il movimento né il pensiero, mi dava un senso d'avvilimento fisico inesprimibile, come d'una bestia legata e mulinata nel vuoto da una grua colossale, e l'idea che quel supplizio potesse durare dieci ore, un giorno, tre giorni, mi sgomentava l'anima come il concetto dell'infinito. Pure fino a un certo punto serbai la mente lucida, tanto da ricordarmi ora presso a poco quello che in quel frattempo pensavo. Ma dopo una o due ore, credo, crescendo fuor di misura la furia della tempesta, mi si fece un gran torbido nel capo, e di quello che pensassi allora saprei più dir poco. Ricordo la voce immensa del mare, più strana e più formidabile d'ogni più spaventosa immaginazione, una voce come di tutta l'umanità affollata e forsennata che urlasse, mescolata ai ruggiti e ai bramiti di tutte le belve della terra, a fragori di città crollanti, a urrà d'eserciti innumerevoli, a scoppi di risa beffarde di popoli interi; e dentro a quella voce, il fischio acutissimo del vento nei cordami, un turbinìo di note lunghe, sonore e discordanti, come se ogni corda fosse uno strumento suonato da un demonio, grida di disperazione e di delirio che pareano uscire dai prigionieri d'una carcere in fiamme, e sibili che facevano fremere come se attorno alle antenne si attorcigliassero migliaia di serpenti furiosi. A un terribile movimento di beccheggio s'univa un rullìo violentissimo, da parere che il bastimento si volesse coricare ora sur un lato ora sull'altro, e ad ogni colpo dell'onda nel fianco, tutto, dalla coperta alla carena, tremava, come per l'urto d'uno scoglio o per il cozzo d'un altro piroscafo, e gli assiti intorno davano uno schianto da far rabbrividire da capo a piedi come il fischio d'una palla o d'una lama di scure che ci rada le tempie. Si sentiva ad ogni ondata come la botta d'un artiglio gigante che piombasse sul bastimento e ne strappasse via un pezzo; s'udiva il tonfo tremendo di centinaia di tonnellate d'acqua cadenti sul tavolato, come se un torrente vi si rovesciasse da una grande altezza, e poi il rumore di cento torrentelli correnti in tutte le direzioni, con la furia d'un'orda di pirati che fossero saliti all'arrembaggio. Dei movimenti del piroscafo non capivo più nulla, non ne prevedevo più alcuno: era come preso a calci e a schiaffi, sollevato, buttato via, palleggiato e rigirato dalle mani d'un titano. La macchina aveva degli arresti e dei silenzi improvvisi, come colpita da paralisi, l'asse dell'elice dava degli scossoni di terremoto, l'elice dei colpi interrotti e pazzi, e si sentiva a momenti girar furiosa fuori dell'acqua, e poi tuffarvisi di nuovo, con un terribile colpo. E negli intervalli fra i rumori più grandi, s'udivano sopra passi precipitati, sonerie elettriche, grida lontane d'una risonanza strana, come gli echi delle valli piene di neve, e dai camerini dei lamenti strozzati come di gente scannata, che vomitasse le viscere. A un certo punto vi fu una scossa di sotto in su così violenta, che la bottiglia dell'acqua saltò fuori del suo sostegno, e s'andò a spezzare contro il soffitto. E quello fu il principio d'un nuovo e più matto scatenìo degli elementi, e di una successione di volate così fatte del piroscafo, che credevo di balzare dalla cima d'un monte sulla cima di un altro monte, sorvolando un abisso smisurato, e ad ogni nuova discesa pensavo che fosse l'ultima, e dicevo tra me: — Ora è finita. - E avevo delle illusioni vivissime: ecco, il tavolato si spezza, le coste s'infrangono a decine, i bagli si schiantano, la chiglia s'è rotta, tutti i legamenti si schiodano, tutto lo scafo si sfascia. Non ancora? A quest'altra dunque. E un caos di pensieri, un succedersi rapidissimo di ricordi della vita recenti e remoti, una fuga turbinosa di facce e di luoghi, rischiarati ciascuno da un lampo di luce livida, confusi e sformati come per una congestione cerebrale, accompagnati da un incalzarsi egualmente rapido e disordinato di rimpianti, di tenerezze, di rimorsi, di preghiere senza parola, e tutto fuggiva e tornava, come rigirato dal vento stesso della tempesta. Seguivano quando a quando dei brevi intervalli d'istupidimento, e come il sollievo che da l'azione incipiente del cloroformio; ma poi di nuovo il sentimento della realtà , più tremendo di prima, e improvviso, come se due braccia gagliarde mi scotessero per le spalle, e una voce brutale mi urlasse sul viso: - Ma sei tu, tu che sei qui, e che devi morire! - Oh! quanto mi pareva assurda quell'idea dei tempi ordinari che sia lo stesso morire in un modo o nell'altro!... Oh morire d'una palla nel petto! Morire in un letto, con le persone care d'attorno, - esser sepolti - avere un pezzo di terra dove i figliuoli e gli amici possano andare qualche volta e dire: - È qui! - Alle volte tutti quei pensieri cadevano, e mi pareva di sentire per qualche momento che la tempesta cominciasse a rimettere un poco della sua furia; ma una nuova formidabile ondata, un nuovo roteamento vertiginoso dell'elice sollevata, come se la poppa saltasse per aria, mi strappava l'illusione. E mi rammento d'una ripugnanza invincibile a guardar il mare, d'un senso di ribrezzo profondo, come della vittima per l'assassino, quasi che in quei momenti avessi davvero coscienza d'una sorta di animalità dell'oceano, e dell'odio suo contro gli uomini, e che, affacciandomi al finestrino, dovessi incontrare mille sguardi orribili fissi nei...
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