[Pagina precedente]...a accanto alla timoneria, sotto il palco di comando. Il prete napoletano avrebbe amministrato il così detto battesimo di necessità; al quale doveva aver la mano, poiché aveva viaggiato nei suoi primi anni per quelle campagne solitarie degli Stati lontani dell'Argentina, dove, non essendovi chiese, e conservando appena gli abitanti disseminati una grossolana tradizione della religione cattolica, accadeva che al passaggio d'un prete accorressero a chiedere il battesimo perfin dei giovinetti a cavallo. Egli s'era offerto cortesemente, senza domandar patacones, e già un cameriere gli aveva visto tirar fuori la mattina una stola e una cotta, che portavano non dubbi segni d'un lungo e avventuroso servizio. Al bimbo, secondo l'uso, si sarebbe messo il nome del piroscafo, Galileo; il quale aveva già una dozzina di figliuoli omonimi, sparsi pel mondo. Madrina (sántola) sarebbe stata la signorina di Mestre. Per padrino s'era offerto il comandante; ma il deputato argentino l'aveva indotto a cedergli l'ufficio, per la ragione che il bambino essendo destinato alla cittadinanza del suo paese, toccava a lui a dargli il benvenuto nel nuovo mondo, come rappresentante della Repubblica.
Quest'atto gentile, come poi seppi, gli riconciliò gli animi dei passeggieri, i quali fino allora avevano accusato lui e gli altri argentini di stare in contegni con gli europei, e come raggruppati in disparte. Io però li conoscevo da un po' di giorni, e li avevo osservati fin da principio con curiosità vivissima, poiché erano per me i primi esemplari del loro popolo, il quale è senza dubbio di tutta l'America quello che più importa, o più dovrebbe importar di conoscere a un italiano. Il deputato era il maggiore d'età, e credo anche la testa quadra della brigata: alto, una faccia forte e fina di uomo rotto alle lotte della vita politica e della vita mondana, che lanciava a traverso all'occhialetto uno sguardo audacemente conquistatore di voti elettorali e di sì femminili. Il marito della signora era un avvocatino biondo, segretario di non so che ministro plenipotenziario del suo paese, con due occhi grigi mobilissimi, acuti come punteruoli, che quando vi squadravano, pareva che vi vedessero sotto al cranio, dentro al petto e fin nel taccuino degli appunti. C'erano due giovanotti bruni, molto eleganti e poco significanti, i quali non parevano preoccupati d'altro che della biancheria finissima e candidissima di cui facevano sfoggio, e delle loro folte capigliature artisticamente architettate, nere, ma di quel fortissimo nero andaluso-argentino, che è un vero oltraggio alle teste brizzolate. Il più originale di tutti era il quinto, un pezzo d'uomo sulla trentina, di viso audace e di voce aspra, un tipo di domatore di cavalli selvatici, proprietario d'una vasta estancia della provincia di Buenos Ayres, in cui passava due anni su tre, in mezzo a trentamila vacche e a ventimila pecore, menando la vita del gaucho; della quale s'andava poi a rifare a Parigi, dove divorava volta per volta un armento di mille teste. Un tratto comune a tutti e cinque era la finezza della bocca e la piccolezza del capo, che tutti portavano alto, sempre; ma l'abitudine ereditaria, che altri osserva negli argentini, di appoggiarsi camminando più sulle articolazioni delle dita che sul tallone del piede, dico la verità, non l'osservai. Studiosi dell'eleganza, e in particolar modo della lindura della persona, tutti e cinque, vistosamente. E cortesi; ma d'una cortesia più ridente, per dir così, di quella degli spagnuoli, meno cerimoniosa di quella dei francesi, congiunta ad una scioltezza viva di modi e di discorso, propria di uomini che entran nella vita indipendente appena usciti dalla fanciullezza, e che crescono senza noie e senza freni, pieni di fiducia in sé e nella fortuna, in mezzo a una società agitata, disordinata, giovanile. Questa loro condizione d'animo si palesava in un'espressione del viso a cui non saprei trovar miglior paragone che quella particolare aria balda dell'uomo a cavallo, che vede davanti a sé un vasto orizzonte libero. Con questo una meravigliosa facilità a profferir giudizi su popolo, istituzioni ed usi d'Europa, che avevan visto di volo: giudizi che rivelavano una percezione più acuta che profonda, e una grande varietà piuttosto di letture che di studi, ricordate con prontezza e citate con arte. E non tanto nei giudizi, quanto nella preferenza manifesta data all'argomento di discorso, mostravano una simpatia viva per la natura e per la vita francese, derivante da una analogia incontrastabile di qualità dell'intelligenza e dell'animo: tutti avevan Parigi sulla punta delle dita e le valigie piene di giornali dei boulevards, e di fotografie d'artiste dell'Opéra e della Comédie. D'altri paesi conoscevano assai bene le case di gioco e gli stabilimenti di bagni, e sopra tutto i teatri di musica, dei quali parlavan con passione d'adolescenti, ma facendomi capire che non avevan nulla da invidiarci a questo riguardo, poiché essi facevano andar l'Europa a cantare e a ballare a casa loro. Quanto all'Italia, non riuscii a scoprire, sotto la necessaria cortesia della frase, il loro sentimento vero. Si compiacevano della nostra immigrazione, come d'un concorso di ottimi lavoratori, e accennando gli emigranti, dicevano: - Tutto questo è tant'oro per noi. - Portateci pure tutta l'Italia, pur che lasciate a casa la Monarchia. - E si capiva che a loro, come ai rivoluzionari francesi del secolo scorso, una povera creatura umana soggetta alla Monarchia pareva meritevole della più sincera commiserazione; e che ci dovevano considerare, noi europei, come una specie d'uomini nati vecchi, strascicantisi in mezzo agli avanzi tristi d'un mondo morto, e anche un po' affamati per professione. Di sotto a questi sentimenti, lampeggiava un orgoglio nazionale vivissimo; l'orgoglio d'un piccolo popolo, che ha vinto la grande Spagna, umiliata l'Inghilterra, e allargato i confini del mondo civile, spazzando la barbarie da un paese immenso, per darvi ospizio e vita a gente d'ogni lingua e d'ogni razza. Infatti, due volte la settimana almeno essi festeggiavano fra di loro qualche data gloriosa della rivoluzione argentina, con una profusione di vini di Champagne, che era una bella prova dei buoni frutti delle loro vittorie. Ma fra il loro orgoglio nazionale e quello degli europei mi parve corresse una differenza notevole, che mentre noi lo fondiamo sul passato, e sempre su questo ripicchiamo vantandoci, essi del passato non discorrevan quasi mai, e in ogni frase accennavano all'avvenire, col ritornello dell'infanzia: - Quando saremo grandi. E in tutti loro appariva profonda, salda, lucidissima non la speranza, ma la certezza di riuscire col tempo un popolo enorme, gli Stati Uniti dell'America latina, brulicanti dalla vallata delle Amazzoni agli estremi confini della Patagonia. E la loro coscienza d'esser chiamati a questo primato, si poteva anche riconoscere nello studio che ponevano in ogni occasione a dimostrare l'originalità del loro popolo, non solo rispetto ai vecchi padri spagnuoli, dei quali parlavano con una leggera intonazione di canzonatura, come di gente da cui per fortuna avessero sotto ogni aspetto dirazzato, non risentendo più da loro alcun influsso di nessuna specie; ma anche rispetto agli altri popoli latini dell'America, Chileno, Peruviano, Boliviano, Brasiliano; di ciascuno dei quali rilevavano le deficienze intellettuali e morali, e i lati ridicoli, con una ironia faceta, che tradiva un sentimento di rivalità d'alto in basso, non addolcito da quello della fratellanza. E tutti questi discorsi facevano con un linguaggio fluente e caldo, rotto da risa cordiali e da scatti quasi involontari di sincerità, che rivelavano una natura capace di passioni generose e violente, ed anche una mobilità grande di affetti, nata da un ardente bisogno di divorare la vita in tutti i modi, seguendo con tutte le forze l'impeto di tutti i desideri. Una sola cosa avrei desiderato in alcuni di essi, ed era un'espressione più aperta di pietà nella voce e negli occhi, nel raccontare che facevano certi episodi inumani della loro storia; un non so che più mite e triste, che non facesse sospettare una mala impronta lasciata nella loro natura dalla lunga tradizione delle guerre del deserto e delle guerre civili, orribili tutte. Ma, nel complesso, la impressione prima era gradevolissima, e tale da render viva doppiamente la curiosità di scrutarli più addentro. Per la prima volta io mi trovavo dinanzi a gente veramente nuova per me: ciò che non m'era mai accaduto in Europa. In mezzo alla grande comunanza di cognizioni e idee che era fra noi, io riconoscevo vagamente in loro le tracce d'una educazione affatto diversa della mente e dell'animo, i sentimenti peculiari d'una gente accampata sugli ultimi termini della civiltà, all'estremità d'un continente quasi spopolato, in una specie di solitudine d'esercito invasore, e le impressioni d'una natura diversamente bella dalla nostra, più vasta, più primitiva e più formidabile. E mi stupiva anche quella loro lingua spagnuola come snodata e alleggerita della scorza letteraria, accentuata in modo nuovo per me e fiorita di parole sconosciute e bizzarre, e cantata con quel lontano ricordo di melopea indiana, che mi faceva passar per la fantasia delle facce color di rame ornate di penne. Ma più che la lingua, la facilità incredibile di parola, e la facoltà imitativa dell'intonazione e del gesto, specie quando s'infervoravano nelle descrizioni delle loro grandi montagne e delle loro sterminate pianure. Quell'avvocatino biondo, più che gli altri, descriveva la caccia al cavallo selvatico come un attore che recitasse uno squarcio classico, senz'ombra d'affettazione o d'artifizio apparente, con una vigoria di mosse e con una musica di parola maravigliosa. E in tutti notai questa dote d'un bel metallo di voce, e un'arte o una facoltà naturale, squisita di modularla; nella signora particolarmente, la quale aveva una certa voce bianca, e delle note di testa graziosissime, che a sentirle a occhi chiusi sarebbero parse d'una bimba. Veduto lo strano effetto acustico che m'aveva fatto una sera il nome dello Stato di Jujuí, pronunciato in quella maniera, essa andava cercando per gioco altri nomi indiani di monti e di fiumi del suo paese, che mi ripeteva man mano, ridendo della mia maraviglia. Ringuiririca, Paranapicabá, Ibirapità-miní. Parevan trilli d'usignuolo.
Per loro il viaggio dall'America all'Europa era come per noi una gita da Genova a Livorno: l'avevan già fatto più volte: poiché, sia qual si voglia il sentimento che hanno di sé e il concetto che hanno di noi, l'Europa è sempre per loro l'antica madre, la grande patria del loro intelletto, e li attira. Il deputato, poi, contava già otto viaggi transatlantici, di modo che la rete dei suoi amori doveva stendersi oramai sovra una selva di bastimenti. E ancor giovane, aveva il passato d'una lunga vita, anche come uomo pubblico, poiché prima dei trent'anni (doveva toccare i quaranta) era già stato redattore capo di un grande giornale, alto impiegato d'un Ministero, direttore d'una Banca, e inviato dal governo a Parigi con un incarico finanziario. E non era una eccezione fra la gioventù del suo paese. Egli diceva con ragione che il suo paese era nelle mani dei giovani, poiché la repubblica voleva che corresse nelle vene di tutti i suoi servitori il succhio primaverile che ferveva nelle sue. - Voi altri, - diceva, - affollati in un campo ristretto, e sopraccarichi di storia, di leggi e di tradizioni, dovete camminare adagio, e condotti dai vecchi: ma noi giovani di trecent'anni, che abbiamo per patria una terza parte del Sud-America, e che dobbiamo riguadagnare in fretta il tempo perduto nella lotta coi selvaggi e nella guerra di trasformazione sociale da cui siamo appena usciti, bisogna che andiamo innanzi di carriera, e guidati dall'età dell'impazienza e dell'audacia. - E scherzava sull'"abuso" della vecchiaia che si fa in Europa. - Pare che la canizie, tra voi, sia il titolo nece...
[Pagina successiva]