[Pagina precedente]...sa d'acque che nel Mediterraneo, mentre immaginavano tutti, entrandovi, di veder l'orizzonte allargarsi smisuratamente, come segue all'occhio di chi salga da un poggio sopra una montagna. Ma non solo per questa ragione. Nella mente del popolo all'idea dei grandi mari va ancora unito un resto delle immaginazioni favolose dell'antichità e dei tempi di mezzo: se non più mostri alati, i kraken di un miglio di circuito e i pesci cantanti, molti s'aspettano di vedere almeno balene, polipi enormi, o lotte di capodogli e di pesci spada, e onde come montagne; e vedendo poi quel mare sempre quieto, e nemmeno il muso d'un pesce cane in due settimane di navigazione, scrollan le spalle dicendo: - È un mare come un altro. - Quanto a provar curiosità e a pigliar piacere d'altre cose, non possono, o perché le ignorano, o perché non ci credono o le frantendono. Io feci questa osservazione, che quasi tutti i discorsi che tenevamo a poppa intorno al mare, alla navigazione, alle terre, i quali cambiavano man mano d'argomento col cambiare della nostra situazione geografica, e c'erano imposti, per dir così, dal grado della latitudine, quasi tutti, dico, trasmettendosi di bocca in bocca e di classe in classe, avevano un eco uno o due giorni dopo, come segue degli avvenimenti dalle città ai villaggi, nei crocchi di prua; di dove ci ritornavano all'orecchio per via degli ufficiali che ne raccoglievan dei frammenti passando. Ebbene, è incredibile la stranezza delle trasformazioni che le notizie e le osservazioni scientifiche subivano in quel passaggio. Dell'antica Atlantide, della quale s'era parlato alla latitudine del Sargasso, in terza classe si discorreva come d'un mondo, che si dicesse scomparso da non molti anni, e che qualcuno di noi si fosse vantato d'aver visto. Alla latitudine della Senegambia, essendosi parlato di negri, dicevano gli emigranti che il Galileo filava a tutta velocità per sfuggire alla costa, dov'era un popolo di selvaggi terribili, che davan la caccia ai bastimenti per mangiare i passeggieri e ci riuscivano molte volte. Riguardo allo stesso equatore, alcuni andavano predicendo da giorni un calore di fornace che avrebbe liquefatto le candele e la ceralacca delle lettere, e un sole ardente al punto, che a più d'uno avrebbe dato volta il cervello, e si sarebbero contati i colpi d'accidente a decine. Ma il più singolare era che quel viaggio da un emisfero all'altro, il quale avrebbe dovuto persuader tutti della rotondità della terra, forniva invece a molti un argomento in contrario, che li riconfermava nell'incredulità antica, perché ora vedevano finalmente coi propri occhi che tutto era piano; e c'era poco da rallegrarsi di quelli che parevano persuasi del vero, poiché parecchi di questi s'immaginavano che, passato l'equatore, il piroscafo avrebbe cominciato a discendere, e si sarebbe visto girare intorno al globo come una formica intorno a una palla. E molti anche non credevano a nulla di quanto udivano dire. La mattina, mentre il marito della svizzera (dotato della più incurabile delle stupidità , che è quella, come disse un grand'uomo, che s'è contratta sui libri) andava spiegando l'equatore a un crocchio d'emigranti con una fraseologia scioccamente scientifica che non potevan capire: - ... il focolare elettrico del globo... il regolatore delle evaporazioni dei due mondi... il luogo dove il mare scambia i suoi due sangui... -quelli guardavano con curiosità intorno ed in alto, e non vedendo nulla d'insolito, tornavano a guardar lui di mal occhio, con l'aria di dirgli che smettesse di pigliarli a godere. Ma ciò che li preoccupava soprattutto da un po' di giorni era l'aver inteso dire che di là dall'equatore si sarebbero viste delle stelle nuove, e che una di queste, l'alfa del Centauro, era di tutte le stelle la più vicina alla terra. Pensavano forse che apparisse grande come la luna. Fin dalla mattina di quel giorno tanto aspettato, in piena luce di sole, uomini e donne giravano gli occhi pel cielo, con l'idea di veder dei miracoli. Una donna domandò al Commissario se in quell'altra parte del mondo, dove si stava per entrare, la luna e il sole sarebbero stati gli stessi che si vedevan da noi. Che cos'era questa linea, questa riga che divideva il mondo in due parti? Era da credersi quello che dicevano, che nessuno avesse più l'ora giusta? Era vero che nell'anno che si va in America si perde una stagione? E che cosa accadeva di questa stagione? Il Commissario s'ingegnava di spiegare; ma alcuni non badavano affatto alle spiegazioni che avevan chieste, come se fosse tempo perso; altri, per capire, tendevano a tutta forza l'arco dell'intelligenza, e poi ci rinunziavano, facendo un atto di rassegnazione. L'ultimo sentimento dei più era un vago sospetto che tutte quelle maraviglie fossero un monte di pastocchie spacciate dai signori per fare i saccenti, o che se non altro le spiegazioni che ne davano fossero puri sforzi di fantasia, e che tutto rimanesse un gran mistero per tutti. Una gran parte avrebbero creduto piuttosto ai tre monaci leggendari dell'Asia che da quindici secoli camminavano dritto davanti a sé cercando il luogo dove nasce il sole. E sconfortava il pensare che un migliaio forse di quei mille e seicento cittadini d'uno dei paesi più civili d'Europa non avevano intorno alla terra e al cielo cognizioni più larghe né più esatte di quelle che si sarebbero ritrovate cinque secoli or sono in altre mille persone della stessa classe, e che v'è forse al mondo una certa quantità irriducibile d'ignoranza, che si può comprimere, come una massa d'acqua, e piegare a mille forme diverse, ma non scemar di volume.
Non importa: il passaggio dell'equatore era una festa per tutti, specialmente per la distribuzione straordinaria ch'era stata annunziata, di tre litri di vino per rancio; ed anche perché, avendo il comandante dato l'ordine di aprire la stiva e di lasciar pigliare i bagagli, era per molti una vera gioia di poter rifornirsi di roba e rimestare un poco i propri cenci, conciati in modo miserando dall'umidità della zona tropicale. Oltre di che l'annunzio dei fuochi d'artifizio per la sera metteva tutta la ragazzaglia in ribollimento. La grande operazione della lavatura mattutina fu fatta con insolito vigore, e all'ora della colazione si videro molte ragazze con fazzoletti e nastrini nuovi sul petto e sul capo, mamme pettinate con più cura che gli altri giorni, uomini con cravatte straordinarie, barbe ben fatte, camicie di bucato, colli da cui eran cadute le scaglie. La folla s'era come indomenicata; le donne, in omaggio al nuovo santo, non lavoravano, e la maggior parte degli uomini, riuniti in gruppi numerosi e vivaci, mostravano chiara in faccia la premeditazione d'una ubriacatura serale. Molti intanto facevano ressa intorno alla cambusa per assicurarsi in tempo qualche avanzo del desinare di gala di prima classe, e nelle cucine di terza pure c'era un'agitazione, un andirivieni disusato, da cui si poteva argomentare che quel giorno il cuoco e i suoi aiutanti avrebbero fatto un grande traffico di piatti di contrabbando. Due forti riversi d'acqua, caduti a un'ora l'un dall'altro, ma brevissimi, non fecero che stuzzicare il buon umore della moltitudine: poi il cielo si schiarì, e il mare, a momenti azzurro, a momenti violaceo, mosso in lunghe e lente ondulazioni, pareva che promettesse di non turbar la giornata.
E fu festa anche per noi. Per me cominciò dopo colazione nel camerino del Secondo, col quale passai un'ora piacevolissima, insieme con altri due ufficiali e col marsigliese, a bere del buon Champagne, dovuto a una discussione su Guglielmo Watt. Parlando della sfortuna degli inventori il marsigliese s'era lasciato scappare che il Watt era morto nella miseria. Il secondo aveva negato: era morto nell'agiatezza, carico d'onori e circondato d'amici illustri - Dans la misère, monsieur! Dans l'indigence la plus affreuse! — Nella ricchezza, le dico. - Sans le sou, sans le sou! — Di qui la scommessa, e aveva dato sentenza inappellabile una Histoire de la machine a vapeur, che si trovava a bordo, scritta appunto da un marsigliese; il quale smentiva senza un riguardo al mondo il suo concittadino. Amabili originali quei tre ufficiali del Galileo, non escluso quel brunetto astuto del dispaccio! Tutti più giovani d'animo di quello che la loro età desse a credere, e d'una certa semplicità di solitari, rarissima a trovarsi nel mondo, anche fra i solitari. Ciascuno aveva uno studio o un'arte per le mani, con cui ingannava il tempo in quei viaggi continui: il Secondo studiava il tedesco, il terzo dipingeva marine, il quarto aveva principiato di fresco a suonare il flauto. E ciascuno aveva una collezione sterminata di aneddoti di viaggio che raccontava in modo particolare, lentamente, dicendo nel modo più naturale del mondo le cose più strane, da gente assuefatta a far vita comune con la parte più avventurosa e più bizzarra del genere umano, e anche mentre questa si trova in una condizione di vita e d'animo eccezionale. Ne avevan fatte delle traversate piene di peripezie, durante le quali il registro delle nascite e delle morti era stato in movimento continuo; delle quarantene da uccidersi dalla noia, delle ore di guardia in notti di tempesta da uscirne coi capelli grigi! E ne avevan visto passare a bordo delle miserie, degli amori, delle paure, delle facce eteroclite, delle famiglie zingaresche! Curiosa pure era la confusione, o meglio la slegatura d'idee che avevan nel capo riguardo alla politica dei due paesi fra cui viaggiavano, essi che, ritornando a Genova, si trovavano addietro di due mesi nella lettura dei giornali d'Italia, e ripartivano prima d'essersi potuti raccapezzare, per arrivare un'altra volta nell'Argentina, digiuni dei fatti di là da cinquanta giorni. E più curiosa era la loro condizione rispetto alle proprie famiglie. Il Secondo ci divertì molto, spiegandoci col bicchiere alla mano, come avendo moglie da un anno e mezzo, gli pareva ancora d'essere sposo dal mese avanti. Partito da Genova dopo otto giorni di matrimonio, non aveva più visto sua moglie che a intervalli di due mesi, e per così brevi tratti di tempo, che fra loro non era potuta nascere familiarità ; di modo che, ad ogni arrivo, egli era ancora ricevuto con un poco della commozione della prima volta, e trattato con una certa gentilezza rispettosa e imbarazzata, quasi come un estraneo: ciò che manteneva immobile all'orizzonte la luna di miele. Ed egli stesso ci mostrò il ritratto di sua moglie con l'aria di chi fa vedere in confidenza la fotografia d'una signorina con la quale ha avviato delle trattative. - Type genois! — gli disse il marsigliese, guardandola. - È di Palermo, - quegli gli rispose. - Pas possible! - Ah! che risata! Una tal risata che questa volta egli dovette fingere d'aver ribattuto per celia.
Tutti erano allegri, quantunque il comandante avesse fatto sentire che non voleva la farsa d'uso, di battezzare con le caraffe chi passava la linea per la prima volta; un'angosciata, che finiva sempre male. D'altra parte, non ci sarebbero stati i personaggi adatti. Perfino il genovese monocolo si carezzava la barba di crino di spazzola con un'aria meno annoiata del solito. Fermava qua e là ora l'uno ora l'altro, e gli diceva serio, fissandolo: - Petti di pollo al madera. - Aveva strappato al cuoco una manata di segreti, e diceva che ci sarebbe stato un pranzo splendido, e dei discorsi. L'agente di cambio, con cui feci un giro di passeggiata, m'annunziò un brindisi del marsigliese: lo aveva inteso far le prove nel camerino. Mi riferì nello stesso tempo che la sera innanzi era seguita una scenata, per causa di quella lingua serpentina della madre della pianista; la quale avendo insinuato al presunto "ladro" ch'egli avrebbe dovuto smentire le voci calunniose che correvano sul suo conto a bordo, questi era andato dal comandante a domandare a voce alta quali fossero quelle voci e chi le avesse messe in corso, minacciando colpi di spada e di pistola; ma pareva che, pregato, avesse promesso di star quieto ...
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