[Pagina precedente]...darguiva, lo rimpolpettavano in tutte le regole; qualcuna anche, per disprezzo, le mostrava la faccia a cui si danno gli schiaffi coi piedi; di levata, soprattutto, quando si trattava di pescar la roba in quel guazzabuglio, gli facevan perder la testa, e allora scappava come da un vespaio, e si rifugiava in coperta, tutto sudato e ansimante. E quella mattina appunto, all'ora critica, lo trovai davanti alla porta del dormitorio, con l'anima per traverso. - Ebbene, - gli dissi, - vi fanno fare il sangue verde, non è vero? - Ah! - rispose, buttando via con dispetto la cicca. - No ne posso ciù! - Ed è così in ogni viaggio? - domandai. - Eh no, grazie a Dio! - rispose. - Va a viaggi. Alle volte, per combinazione, capita un carego di brave donne. Altre volte... questa volta, per esempio, a l'è na raffega de donne maleducæ, [3] un vero carego d'açidenti! - Poi, ripigliando la sua compostezza filosofica e alzando l'indice, mi disse confidenzialmente nell'orecchio: - Scià sente (stia a sentire). Scià no piggie moggê! (non prenda moglie). E voltatomi lo scrigno, tirò via.
La mattina stessa era seguito nel dormitorio un grosso scandalo, ch'io non seppi che più tardi, stando col Commissario sul palco del comando a vedere il gran ballo dei denti di mezzogiorno; il quale somigliava allo spettacolo che si vede a certe feste di santuari campestri, dove cento famiglie merendano all'aria aperta, in un prato: un bulicame d'accampamento, delle centinaia di gruppi d'uomini, di donne, di ragazzi, seduti, inginocchiati, accucciati in mille atteggiamenti, in alto, in basso, su tutte le sporgenze e in tutti i buchi, coi piatti in mano, tra le gambe e in mezzo ai piedi, coi capi coperti di fazzoletti, di grembiali, di cappelli di carta, di gonnelle arrovesciate, perfin di cestini, per ripararsi dal sole che bruciava, e in mezzo ai gruppi, fra l'osteria e le cucine, un andare e venire frettoloso di innumerevoli capi-rancio, coi pani sotto il braccio, coi bidoni e le gamelle alla mano, accompagnati da mille occhi, chiamati da mille mani, apostrofati da mille bocche. Accanto al Commissario c'era il garibaldino, che girava sulla folla uno sguardo lento e senza benevolenza, e a destra la signorina di Mestre e la zia, appoggiate alla ringhiera, tutte intente a guardar la ragazza genovese, che stava disotto. Questa tagliava la carne al fratello, dava da bere a suo padre, e porgeva ad altre due donne e a un ragazzo, che appartenevano al suo rancio, ora un oggetto ora un altro, con la grazia solita; ma non con la solita serenità. Non mangiava, e le tremavan le mani.
La signorina osservò che aveva gli occhi rossi, e pensando che avesse pianto, domandò al Commissario se ne sapesse il perché.
Lo sapeva, e raccontò. Da quel viperaio di odî che da vari giorni le fischiava attorno, s'era finalmente rizzata una testa che l'aveva morsa nel cuore. Riscendendo quella mattina nel dormitorio, dopo aver accompagnato in coperta il fratello, aveva trovato una folla di donne davanti alla sua cuccetta, dov'era attaccata con mollica di pane una striscia di carta, strappata da un giornale sporco, sulla quale erano scarabocchiate a matita, in grossi caratteri, una decina di parole. Appena letto, s'era messe le mani sul viso, e aveva dato in uno scroscio di pianto. Erano una decina di aggettivi nudi e crudi, che si possono immaginare, ma non scrivere. Allora le donne, che pure non avevan pensato a strappare il foglio, s'eran date a consolarla, a modo loro; e una di esse, d'incarico d'una terza, le aveva soffiato all'orecchio il nome della colpevole, una cialtrona, una fetente, che aveva attaccato quella sudiceria di scappata, in un momento che nel dormitorio non c'era quasi nessuno, non tanto alla svelta, però, da non esser veduta da un ragazzo, il quale parea che dormisse, e vegliava, per rifischiar la cosa a sua madre. - Portate il foglio al comandante - le avevan detto. - Fatela chiamare dal Commissario. - La metteranno ai ferri. - La manderanno alla berlina sul ponte. - La condanneranno al tribunale d'America. - Allora essa aveva staccata la carta, singhiozzando, e aveva aspettato che la calunniatrice comparisse. Questa era discesa poco dopo, ed era la loschetta cruscosa dal pelo rosso, incapricciata dello scrivanello, e gelosa come una bestia. Al primo: Eccola là, - la genovese le era corsa incontro, seguita dalle comari, affamate d'una scenaccia. Quella s'era fatta bianca, alzando il capo, nondimeno, in atto di sfida. Ma la buona ragazza non aveva fatto altro che porgerle il foglio dicendo con voce tremante: - E ben, cose v'ho faeto? (Ebbene, cosa v'ho fatto?) La prontezza con cui l'altra aveva afferrato e stracciato il corpo del delitto, era una confessione involontaria, che rendeva doppiamente inutili le sue denegazioni. Ma la genovese, senza aggiunger parola, era risalita, sconvolta e piangente, sopra coperta, e non s'era lagnata con nessuno. Il Commissario, risaputa la cosa e chiamata in ufficio la rea, che giurava colle mani e coi piedi d'essere innocente, s'era dovuto contentare di minacciarle i ferri, e che un'altra volta l'avrebbe cacciata in fondo alla stiva, a farsi rosicchiare dai topi.
La signorina, che aveva ascoltato il racconto senza staccar lo sguardo della ragazza, ripetè lentamente, come tra sé, col suo accento veneto: - E ben, cosa v'ho faeto? E gli occhi le luccicarono di lagrime.
Il Commissario aveva raccolto qualche notizia intorno a quella ragazza e alla sua famiglia. Era di Levanto. Suo padre, che teneva una botteguccia di non so che cosa, avendo fatto cattivi affari, s'era deciso a andare in America, dove lo chiamava un cugino avviato bene; ma trovandosi senza un soldo, era stato costretto a rimandar la partenza di un anno; e il danaro per il viaggio gliel'aveva messo insieme la figliuola, centesimo per centesimo, vendendo tutte le sue bricciche assistendo di notte una signora tedesca malata, e stirando di giorno per lo stabilimento dei bagni. Un gran segno nero che aveva sopra una mano, e che si vedeva dal ponte, doveva esser la traccia d'una scottatura.
Fosse per sospetto o per caso, in quel momento essa alzò il viso, e comprendendo che si parlava di lei, si fece tutta di porpora; ma rassicurata dallo sguardo dolce della signorina, la fissò coi suoi grandi occhi azzurri e ancora umidi, e sorrise. Poi ripiegò il capo per badare al fratello, e non vedemmo più che il mucchio d'oro delle sue trecce, e il bel collo, su cui s'era sparso il rossore.
La signorina toccò col ventaglio il braccio del garibaldino, e accennandogli la ragazza, gli disse con la sua voce dolce e triste: - Ecco la virtù, signore.
Quello fu come un lampo per me sulla natura e il fine dei discorsi ch'essa gli doveva tenere usualmente, e curioso di vedere a che punto fosse dell'opera sua, mi girai a guardare in viso il suo compagno; ma egli s'era già voltato verso il mare, dove tutti i passeggieri di terza, alzatisi in piedi come a un comando, fissavano gli occhi, facendo un gran mormorìo.
C'era una vela all'orizzonte, sulla nostra destra. Il piccolo uffiziale del dispaccio, ch'era di guardia, l'aveva già segnalata da un pezzo. Non si vedeva che una macchietta bianca della forma d'un trapezio, colorito da un raggio pallido di sole, in mezzo all'immensità grigia; e un piovasco lontano, facendole dietro un fondo nero nel cielo e sulle acque, le dava una bianchezza vivissima, e la faceva parere ad un tempo una ancor più misera cosa, con quell'immagine d'un corruccio dell'oceano, che pareva minacciasse lei sola. Eppure non si può dire che vita, che gaiezza improvvisa spandesse sulla solitudine sconfinata quella umile insegna dell'umanità: pareva che il mondo abitato ci si fosse avvicinato in un tratto. L'ufficiale si fece portare le bandierine dell'alfabeto nautico, e appuntò il canocchiale. Quando fummo più vicini, il legno a vela salutò per il primo con la bandiera.
Il Galileo rese il saluto.
Allora cominciò tra il piroscafo e il veliere un dialogo affrettato, che l'ufficiale traduceva a voce per noi, e che gli emigranti seguitavano con gli occhi, in silenzio, come se capissero.
Era un bastimento italiano, tenuto là immobile dalle calme equatoriali.
Per prima cosa, disse il nome dell'armatore: Antonio Paganetti.
Poi: - proveniente da Valparaiso, diretto a Genova.
- Da quanti giorni in viaggio?
- Da due mesi.
- Da quanti giorni fermo?
- Da diciotto.
- Quello pittin! (Quel poco!) - esclamò l'ufficiale.
E l'altro: - Prego di annunziare la nostra presenza al rappresentante del nostro armatore a Montevideo. Nessuna avaria io. Tutti bene.
- Bisogno di nulla?
- Grazie.
Buon viaggio.
- Buon viaggio.
Quanto ci parve grande, veloce, allegro il Galileo in confronto a quel piccolo legno immobile, con forse dieci o dodici uomini d'equipaggio, condannato a galleggiare come una cosa morta, chi sa per quanto altro tempo, sotto il raggio terribile del sole dell'equatore! Con un sentimento di pietà lo vedemmo a poco a poco rimpiccolire, diventare un punto bianco, e nascondersi dietro l'orizzonte; ma di pietà da egoisti, simile a quella dei viaggiatori che dai vagoni ampi e comodi d'un treno di strada ferrata lanciato a tutta forza, vedon di sfuggita la carrozza barcollante sotto la pioggia, tirata da un cavallo sfinito, per una via fangosa della campagna. E non da altra cosa che da quel confronto nacque una corrente di buon umore che si diffuse da prua a poppa, e durò fino a sera.
Ma quello era il giorno delle novità. A desinare, prima di sedersi, il comandante disse a voce alta: - Scignori, abbiamo a bordo un passeggiere di più.
Molti non capirono.
- Un bel maschiotto, - soggiunse, - che ha appena un'ora e tre quarti.
Tutti si rallegrarono ridendo e commentando. Da un leggiero rossore che passò sul viso della signorina di Mestre, capii che doveva aver partorito la contadina del suo paese.
- È nato nell'emisfero boreale, - concluse il comandante; - ma lo battezzeranno nell'altro. Domani si passa l'equatore.
IL PASSAGGIO DELL'EQUATORE
Il giorno dopo, fin dalla mattina presto, non si parlava d'altro a prua che della novità del bambino e del passaggio dell'equatore: dell'aquatore, dell'iquatore, del quatore, di lu quatuore, poiché storpiavano la parola in cento modi.
Della nascita parlavano principalmente le donne, smaniose di sapere se e come il bambino sarebbe stato battezzato, e chi sarebbe stato il padrino e chi la madrina, che dovevan essere due signori, secondo l'uso. L'avrebbe battezzato il prete lungo di prima, o uno dei due di seconda, o il frate? E dove, non essendoci né cappella né altare? E i regali? Tutte cose che in quella vita ristretta di bordo, pigliavano importanza di affari di stato. E dal Commissario seppi che la contadina di Mestre era segno d'immensa invidia a tutte le donne incinte di terza, e più alle più avanzate, perché è tradizione di gentilezza marinaresca che le puerpere, a bordo, sian trattate con grandi riguardi; e quell'altre, vedendo passare tazze di brodo, cosce di pollo e bicchierini di Marsala, pensavano con rammarico che a loro, a terra, non sarebbe toccata eguale fortuna. - Si chiama esser fortunate! - dicevano. E se fosse bastato uno sforzo per anticipare di qualche giorno la cosa, l'avrebbero fatto con tutti i sentimenti. Qualcuna era indispettita sul serio.
Quanto all'equatore ne discorrevano tutti. Ma qui bisogna rifarsi un poco indietro per spiegare bene quale senso facesse il mare in tutta quella gente. Prima di tutto, le era antipatico. L'ignoranza non ammira il mare, perché ha poco o nulla da scrivere col pensiero su quella immensa pagina pulita, e l'immensità semplice non è bella che per chi pensa. Non ricordo d'aver mai inteso fra quegli emigranti un'esclamazione ammirativa per l'oceano. Dinanzi all'acqua essi rimangono sempre alla prima idea che essa desta in ogni creatura umana, che è quella dell'elemento dell'asfissia. Poi ebbi modo di accertarmi, fin dall'uscita dello stretto, che per la maggior parte quel grande oceano era stato una delusione, perché non v'avevan visto una maggior diste...
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