[Pagina precedente]...ano intorno, la turpitudine delle osservazioni che si facevano sulla sua persona, ad alta voce, provocando delle risataccie insolenti, di cui non le poteva sfuggire il significato. Era un vero fiore in mezzo a un letamaio. L'avrebbero insultata a faccia aperta, le avrebbero messo le mani addosso, non per altro che per avvilirla, se non fosse stato il timore delle autorità di bordo. Il cuoco medesimo era diventato furioso, e non mostrava più al finestrino che la faccia terribile d'un sultano offeso. Per due o tre giorni le aveva ronzato intorno il toscanello di prima classe, s'era già fin anche messo in relazione col padre; e tutte quelle canaglie avevan già dato il mercato concluso e l'affare fatto; ma poi aveva smesso tutt'a un tratto, senza che si sapesse perché. Il solo rimasto devoto, innamorato più che mai, preso fino al midollo delle ossa, poveretto, era quel tale giovane mingherlino, con una borsa di cuoio alla cintura, che pareva preso alla pania; - un modenese, scrivano di professione, - solo, - del quale s'era incapricciata pubblicamente una brutta loschetta di terza, coi capelli rossi e il viso cruscoso, ch'egli non curava. La sua passione, cresciuta fino all'istupidimento, era diventata lo spasso di tutti: gli tiravano dei sospironi a raglio dietro le spalle, gli cantavano
sei troppo piccolo
per fare all'amor.
Ma egli era tanto innamorato che non badava a nulla, e se ne stava fermo al suo posto per dell'ore, con un gomito sul ginocchio e il mento nella mano, a guardarla, come in estasi; felice quando quegli occhi azzurri e limpidi, girando uno sguardo intorno, incontravano i suoi, per puro caso. Ed era là anche allora, mentre il Commissario parlava di lui, immobile, con un atteggiamento del viso, con cert'occhi, da far capire che per una parola avrebbe dato la sua borsa di cuoio, la sua penna, il passaporto, l'America, l'universo. Metteva pietà . Certo, prima dell'arrivo, avrebbe finito di perder la testa e fatto qualche grossa corbelleria.
Quello era l'"innamorato", un personaggio che a bordo non manca mai, come diceva il Commissario, e spesso anche ce n'è vari: d'innamorati del cuore, s'intende, che gli altri non si contano. Ma sul Galileo c'era una collezione d'altri originali assai più curiosi; ciascuno dei quali, in quei dodici giorni, aveva avuto campo di mettersi in luce, e godeva già di una certa celebrità nella repubblica di prua. C'erano i capi ameni e i personaggi seri. Questi stavano di preferenza sul castello di prua, ch'era una specie di Monte Aventino, dove si raccoglievano gli spiriti riottosi e i filosofi di umor tetro; e il più popolare di essi era il vecchio toscano dal gabbano verde, che aveva mostrato il pugno a Genova, la sera della partenza. Costui aveva il diavolo in corpo; dalla mattina alla sera declamava con la voce rauca, girando per aria l'indice minaccioso, e il suo uditorio ingrossava di giorno in giorno: avrebbe voluto iniziare la rivoluzione sociale sul Galileo, predicava contro i signori di poppa, incitava i passeggieri a protestare contro l'immondizia dei dormitorii e la schifezza del vitto, e qualche volta, per dar l'esempio, buttava per aria la sua porzione, e inveiva urlando contro le cucine. E l'uditorio approvava, ma mangiava, e allora, fuor di sé, egli trattava tutti di "venduti" e di "schiavi." Uno solo non piegava il capo davanti a lui, un sedicente contrabbandiere, piccolo e secco, con un gran ciuffo nero sopra la fronte e due occhi di girifalco, il quale s'era fatto da sé e godeva di tenersi viva intorno una riputazione tenebrosa di gran delinquente, carico d'omicidi misteriosi, e pronto a tutto: non altro che un Capitan Fracassa del delitto, forse; ma abilissimo a recitar la sua parte, tanto che era temuto da tutti, benché non avesse ancora torto un capello a nessuno, e le donne se lo segnavano a dito, dicendo che portava un lungo pugnale sotto la giacchetta, e che prima della fin del viaggio avrebbe certamente fatto una strage. Egli passeggiava tra la folla, a braccia incrociate e a capo alto, e non voleva esser fissato in viso da alcuno. Se qualcuno lo fissava, si fermava subito, piantando gli occhi in faccia al temerario, come per domandargli se era stanco di vivere; ma tra per paura e per prudenza, tutti voltavan il capo dall'altra parte. Da questa pretesa in fuori, pago della sua gloria sanguinaria, non dava noia ad anima viva, ed ostentava per il vecchio toscano il disprezzo dell'uomo d'armi per l'uomo di toga. Con questi due faceva la triade sul castello di prua quella strana figura del saltimbanco, dai capelli lunghi e dalle braccia tatuate, del quale nessuno aveva mai sentito la voce, tanto che si diceva che fosse muto: ed era capace di stare cinque ore immobile all'estrema punta del piroscafo, con quegli occhi verdi per aria, come se fissasse una stella visibile a lui solo, assorto in immaginazioni sovrumane.
I belli umori, invece, si raccoglievan quasi tutti sul castello centrale, che offriva maggior spazio a far buffonate, ed era come una piazza di villaggio, un luogo di passo, comodo ai crocchi e al pettegolezzo. Qui, nell'angolo a sinistra, vicino al palco di comando, c'era conversazione e chiasso dal levar del sole fino a notte. Il buffone della brigata era un contadino del Monferrato, quello stesso che aveva fatto la supposizione scandalosa sul borsone della bolognese: una faccia di brighella, a cui mancava il naso. Tutta la terza classe sapeva come l'avesse perso: gliel'aveva portato via con una sciabolata un carabiniere briaco, che egli, stracotto pure, aveva provocato una notte, in un vicolo del suo villaggio; ma il comico stava in questo, che la mattina dopo, sperando di trar partito di quello snasamento, egli aveva ricorso, per farsi risarcire dei danni, alle Autorità , a cui il carabiniere s'era ben guardato di far rapporto; e frutto del ricorso eran stati varii giorni di carcere, dopo molte corse al tribunale del circondario, e cento lire di multa. Costui aveva sbagliato mestiere: era pagliaccio nato: contraeva e allungava il muso come una bestia, ballava dei balli grotteschi di sua invenzione, contraffaceva la gente in maniera maravigliosa, e quando passava un'autorità di bordo, salutava con un atto di finto rispetto, che faceva crepar dalle risa. Dopo di lui, il più famigerato era un ometto dalla testa pelata, con un grosso orzaiolo a un occhio, un ex portinaio, il quale si teneva sempre accanto una gabbia con due merli, che curava molto, contando di venderli a Buenos Ayres a ottanta lire l'uno: affare tentato da molti altri. E doveva la sua popolarità a un tesoro pornografico che aveva ereditato da un parente: un grosso quaderno tutto pieno di caricature oscene, di sciarade sporche o di aneddoti, i quali, letti a pagina piegata, eran brani di vite di santi, e a pagina aperta, troiate dell'altro mondo. Costui aveva sempre intorno un gruppo di dilettanti di grasso, che rileggevano cento volte al giorno le stesse lordure, buttandosi a traverso alle panche dal ridere, con gli occhi lacrimanti di gioia. E allora egli alzava la fronte come un attore applaudito, felice. Un terzo, un cuoco d'osteria, era un tipo frequentissimo a bordo: il sapientone che, per essere già stato una volta in America, s'arroga una superiorità professionale sui suoi compagni di viaggio, spiega a modo suo tutti i fenomeni marini e celesti, sdottora di meccanica navale, parla del nuovo mondo come di casa sua, e a tutti spaccia consigli, e da di villano ignorante a chi non gli crede: il Commissario l'aveva sorpreso una volta che spiegava il movimento rotatorio della terra, con una mela in mano, schiantando spropositi da far fermare il bastimento. A tempo perso, sonava anche l'ocarina. C'era infine un barbiere veneto che brillava per la sua abilità d'imitare la voce del can da pagliaio che abbaia alla luna: un ululato lamentevole che straziava i nervi, ma che avrebbe ingannato tutti i cani d'Italia. Ma già tutti gli "specialisti" eran stati scovati e costretti a dar saggio di sé: un vecchio giardiniere, fra gli altri, s'accoccolava dietro una stia e imitava l'anelito rabbioso d'uno per cui volere non è potere, con una perfezione insuperabile: un vero artista, dicevano, ed era tenuto in gran conto. Lì poi giocavano a tarocchi, a pila e croce e alla tombola, e cantavano per ore intere; giocavano perfino a mosca cieca, dei lanternoni coi capelli grigi, e a guancialin d'oro, come rimbambiti. Il grande spettacolo, poi, era quando ci veniva da prua, preso da un estro di mattoide, il saltimbanco tatuato, e camminava con le gambe per aria, faceva il serpente o la ruota, in mezzo a un subisso di applausi, sempre torvo nel viso, come se facesse quello per castigo; dopo di che se n'andava senza far parola, com'era venuto. Ma quell'allegria pareva spesso più voluta che spontanea, e quasi una specie di ubriachezza a digiuno che si procurassero per scacciare i ricordi tristi e i presentimenti cattivi; poiché era veramente un furore come coglievano a volo ogni minimo pretesto per stordirsi col baccano. Si gittavano alle volte in cento contro il parapetto o s'affollavano in cerchio precipitatamente, levando un rumor di grida, di fischi, di miagolii, di chicchiricchì, che si spandeva per tutto il piroscafo e faceva voltare il viso inquieto agli ufficiali: ed era per un cappello caduto in mare, o perché un di loro s'era tinto il naso di nero, cadendo sopra la boccaporta d'una carboniera. E quando passava in mezzo a loro una ragazza o una donna che non appartenesse a nessuno, era un coro di schiocchi di lingua, di trilli d'uccelli, di voci onomatopeiche d'ogni intonazione e significato, che obbligava la disgraziata a darsela a gambe. La serva negra dei brasiliani, sopra tutto, quando passava di là per andar a mangiare o a dormire nelle terze, mostrando il bianco degli occhi e dei denti come per mordere, suscitava una tal musica di versi d'amore animaleschi, che pareva di sentire l'urlìo d'un serraglio in calore. E avevamo il fatto nostro noi pure. E di fatti, tolta la vernice, a chi l'aveva, della buona educazione e della cultura, c'era poi una gran differenza tra il castello centrale e il cassero di poppa? Come si sarebbero trovati facilmente i tipi gemelli e le analogie delle conversazioni! È incredibile come ci conoscevano, e con quanto fondamento di vero spettegolavano alle nostre spalle, scoprendo il lato ridicolo di tutti noi. Per via indiretta lo venivamo tutti a risapere. Conoscevano qualche cosa dell'indole e delle abitudini di ciascuno, per mezzo dei camerieri di bordo e dei servitori privati dei passeggieri, ed erano al corrente della nostra piccola cronaca quotidiana, come segue nelle botteghe e nelle soffitte riguardo ai casigliani dei piani signorili, e quel che non sapevano indovinavano, e commentavano ogni cosa. Ad alcuni avevano messo dei soprannomi, di altri contraffacevano l'andatura e la voce. Voltandoci indietro all'improvviso quando si passava di là , sorprendevamo sempre tre o quattro che si ammiccavano, o ricomponevano in fretta il viso da una smorfia di canzonatura. Quelle eran le nostre Forche caudine.
Quella sera appunto tutto il piroscafo fu rallegrato da una celia superlativa fatta a uno di quella brigata: un passeggiero di terza che, avendo pagato il supplemento, desinava in seconda, ma passava la giornata fra i crocchianti del castello centrale. Era un ometto tra le due età , con la faccia rugosa come una mela cotta, un buon diavolo, vestito come un sagrestano e che si dava aria di borghese agiato; ma semplice e credenzone come un fanciullo, e accarezzato da tutti perché possessore d'una cassetta di bottiglie di vino, che portava a un fratello in America, e che difendeva gelosamente da ogni insidia come un deposito sacro. La mattina, salendo in coperta, aveva fissato l'attenzione sul quadrante telegrafico del palco di comando, che trasmette i segnali alla macchina, e come sul palco c'era il quarto ufficiale, che desinava nelle seconde con lui, gli domandò che cosa fosse quel meccanismo.
Quegli rispose che era...
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